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LA FOTOGRAFIA BREVE INTRODUZIONE ALLA STORIA DELLA FOTOGRAFIA: Il processo che portò alla fotografia che conosciamo ai giorni nostri, fu estremamente lungo e articolato. Già nell'antica Grecia, con Aristotele, ci furono i primi studi riguardo la luce. Egli riuscì a comprendere le dinamiche della luce e osservò che essa, passando attraverso un piccolo foro, proiettava un'immagine circolare. Nel 1515 Leonardo da Vinci, studiando la riflessione della luce sulle superfici sferiche, descrisse una camera oscura che chiamò "Oculus Artificialis" (occhio artificiale). Utilizzando le scoperte e gli studi iniziati già nell'antica Grecia, la fotografia si concretizzò agli inizi dell'800. Le prime ricerche su questa nuova tecnica iniziano sul finire del XVIII secolo, quando il progresso scientifico consentì la creazione delle prime camere ottiche. Il modello più semplice di camera ottica consisteva in una cassettina di legno dotata frontalmente di un sistema mobile di lenti che, puntato sul soggetto, lo rifletteva su uno specchio interno inclinato di 45° che a sua volta riproiettava il soggetto capovolto su un vetro smerigliato. Ponendo un sottile foglio di carta sul vetro e coprendosi con un panno nero era possibile ricalcare per trasparenza l’immagine prospettica del soggetto scelto, ottenendo una rappresentazione di grande precisione. Il grande limite della camera ottica consisteva nel fatto che era comunque necessario l’intervento manuale. Durante i primi decenni dell’ottocento invece, grazie al progresso della chimica si riuscirono a intraprendere nuovi studi sulla sensibilità alla luce di determinati materiali, capaci di registrare la variazione luminosa. Quindi sostituendo al vetro una lastra spalmata di sostanze fotosensibili, la luce si sarebbe potuta imprimere sulla lastra lasciando in modo permanente l’impronta dell’immagine proiettata dall’obiettivo. La prima vera e propria fotografia venne realizzata nel 1827 dal francese Joseph Nicéphore Niépe, il quale sostituì il vetro smerigliato con una lastra di peltro (lega metallica di aspetto simile all’argento ma dotata di minor lucentezza) resa fotosensibile grazie a un composto chimico a base di bitume. La foto richiese un’esposizione di 8 ore. Chiaramente la foto risulta avere una scarsa qualità. Una notevole mancanza di nitidezza e dettagli, e una scarsa precisione della messa a fuoco.

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LA FOTOGRAFIA BREVE INTRODUZIONE ALLA STORIA DELLA FOTOGRAFIA:

Il processo che portò alla fotografia che conosciamo ai giorni nostri, fu estremamente lungo e articolato. Già nell'antica Grecia, con Aristotele, ci furono i primi studi riguardo la luce. Egli riuscì a comprendere le dinamiche della luce e osservò che essa, passando attraverso un piccolo foro, proiettava un'immagine circolare. Nel 1515 Leonardo da Vinci, studiando la riflessione della luce sulle superfici sferiche, descrisse una camera oscura che chiamò "Oculus Artificialis" (occhio artificiale). Utilizzando le scoperte e gli studi iniziati già nell'antica Grecia, la fotografia si concretizzò agli inizi dell'800. Le prime ricerche su questa nuova tecnica iniziano sul finire del XVIII secolo, quando il progresso scientifico consentì la creazione delle prime camere ottiche. Il modello più semplice di camera ottica consisteva in una cassettina di legno dotata frontalmente di un sistema mobile di lenti che, puntato sul soggetto, lo rifletteva su uno specchio interno inclinato di 45° che a sua volta riproiettava il soggetto capovolto su un vetro smerigliato. Ponendo un sottile foglio di carta sul vetro e coprendosi con un panno nero era possibile ricalcare per trasparenza l’immagine prospettica del soggetto scelto, ottenendo una rappresentazione di grande precisione. Il grande limite della camera ottica consisteva nel fatto che era comunque necessario l’intervento manuale. Durante i primi decenni dell’ottocento invece, grazie al progresso della chimica si riuscirono a intraprendere nuovi studi sulla sensibilità alla luce di determinati materiali, capaci di registrare la variazione luminosa. Quindi sostituendo al vetro una lastra spalmata di sostanze fotosensibili, la luce si sarebbe potuta imprimere sulla lastra lasciando in modo permanente l’impronta dell’immagine proiettata dall’obiettivo. La prima vera e propria fotografia venne realizzata nel 1827 dal francese Joseph Nicéphore Niépe, il quale sostituì il vetro smerigliato con una lastra di peltro (lega metallica di aspetto simile all’argento ma dotata di minor lucentezza) resa fotosensibile grazie a un composto chimico a base di bitume. La foto richiese un’esposizione di 8 ore. Chiaramente la foto risulta avere una scarsa qualità. Una notevole mancanza di nitidezza e dettagli, e una scarsa precisione della messa a fuoco.

La foto più antica del mondo

Joseph Nicéphore Niépe Veduta dalla finestra a Le Gras, 1827

Successivamente grazie a Louis-Jaques Mandé Daguerre, si avranno ulteriori sviluppi nel campo fotografico. Egli infatti brevettò una nuova forma di rappresentazione fotografica, detta appunto Dagherrotipìa. Questa nuova tecnica consiste nell’impressionare con la luce una lastra di rame argentata, trattata precedentemente con vapori di iodio. Questo particolare trattamento permette all’argento di ossidarsi facilmente e quindi annerirsi. Si otteneva quindi un negativo, che successivamente, trattato con speciali sali di mercurio, si poteva riconvertire nel positivo. Questa tecnica aveva però un grande limite. Infatti ogni foto convertita costituiva l’originale, e quindi non era possibile ottenere altre copie della stessa foto, in quanto il negativo veniva distrutto dai sali di mercurio per ottenere la foto finale. Quindi si sarebbe dovuta continuare la ricerca al fine di ottenere dei negativi durevoli e riutilizzabili. Nel 1834 in Inghilterra si sperimenta una particolare carta sensibile, mentre i francesi inventarono la cosiddetta “lastra”, un vetro reso fotosensibile dopo esser stato ricoperto da un composto a base di albumina, una sostanza proteica ricavata dall’albume delle uova. Nel 1839 viene costruita, da un parente di Daguerre, la prima fotocamera prodotta in serie. Si tratta di una grossa scatola di legno sul cui fondo viene inserita una lastra cosparsa con un’emulsione fotosensibile e una lente montata anteriormente. Nel 1888 venne creata la prima fotocamera portatile

destinata al grande pubblico. Anche in questo caso si tratta di una cassettina di legno. Il fuoco è fisso e ha un solo tempo di otturazione. Successivamente, nel 1925, viene messa in commercio, da una ditta tedesca di ottiche di precisione, la Leica, destinata a rivoluzionare il mondo fotografico grazie alla sua leggerezza e maneggevolezza. Ancora oggi sono estremamente rinomate grazie alle loro ottiche eccellenti. Verrà poi introdotta nel 1935 la prima pellicola a colori dallo statunitense Kodak. Da questo momento in poi si cercherà di rendere le macchine fotografiche sempre più precise ed efficienti, fino all’approdo del digitale avvenuto nel 1987 con l’immissione nel mercato mondiale della prima fotocamera digitale, frutto di circa dodici anni di studi e esperimenti.

LA MACCHINA FOTOGRAFICA REFLEX

Per fotocamera reflex si intende una macchina fotografica che, attraverso un solo obiettivo intercambiabile, consente sia l’inquadratura di composizione fatta nel mirino di puntamento, che visualizza ciò che inquadra l’obiettivo, sia la creazione della immagine stessa. Ciò avviene grazie allo specchio reflex a ribaltamento, posto tra l’obiettivo e il sensore inclinato di 45°. Questo meccanismo permette quindi di vedere esattamente nel mirino ciò che apparirà nell’immagine finale. Oggi esistono due tipi di macchine fotografiche reflex: quelle analogiche e quelle digitali. Le prime sono quelle in cui si ha una pellicola cosparsa di particolari sostanze fotosensibili. La superficie sensibile della pellicola fotografica è un’emulsione all'interno della quale si trovano milioni di minuscoli cristalli di alogenuro di argento (sale di argento) sensibili alla luce. Al momento dell'esposizione si ha all'interno dei cristalli una variazione fisica, che viene chiamata “immagine latente” poiché essa non è visibile a occhio nudo. In seguito dopo aver scattato la fotografia si dovrà procedere con lo sviluppo in camera oscura. Si dovrà infatti trattare la pellicola con particolari sostanze in modo da ottenere i negativi e la stampa della fotografia scattata. Nelle macchine digitali invece, al posto della pellicola, troviamo un sensore capace di convertire i fotoni in segnali elettrici. I sensori più usati oggi sono il CCD e il CMOS. Nel sensore CCD, la conversione del livello di luce in dato digitale avviene all'esterno del sensore ad opera di un chip dedicato, nel CMOS invece la conversione avviene direttamente all'interno del chip/sensore. I due differenti sensori in

termini di qualità permettono di ottenere ottimi risultati, ma nel caso dei sensori CCD di alta fascia essi risultano qualitativamente migliori. La sostanziale differenza tra i due è più che altro rivolta ai costi di produzione che, nel caso dei sensori CMOS, risulta nettamente minore. Le immagini scattate verranno immediatamente memorizzate in appositi supporti di memoria, generalmente su schede SD o CF, che differiscono solo per dimensioni e tipo di contatti. La differenza fondamentale tra i due tipi di reflex è proprio questa, il metodo in cui viene “impressa” l’immagine. Entrambi i due tipi di strumenti fotografici hanno in comune la maggior parte dei componenti, e possiamo pienamente considerare la macchina digitale come la diretta evoluzione dell’analogica, in quanto grazie alle sue componenti elettroniche, sono ampliate le potenzialità di questo splendido strumento. Andiamo quindi ad analizzare come è strutturata una macchina fotografica reflex. Gli elementi principali che la compongono sono:

Pellicola/Sensore: La pellicola, altro non è che lo strumento su cui viene impressa la luce che entra dall'obiettivo.

L'Obiettivo: è il dispositivo che posto davanti alla nostra macchina, ne permette l'ingresso della luce. E' l'evoluzione del foro che era presente nella camera oscura.

Lo specchio: è l'elemento che è posto all'interno della fotocamera, tra l'obiettivo e la pellicola stessa ed è ruotato di 45°.

Pentaprisma/Penta-specchio: è il sistema composto o di un prisma a 5 facce, oppure di una serie di 5 specchi, che permette la riflessione della luce proveniente dallo specchio sopracitato, verso il mirino. Oltre a riflettere l'immagine dello specchio permette di proporre al fotografo la scena ruotata correttamente e non rovesciata come accade nella camera oscura.

Mirino: è il dispositivo mediante cui l'utilizzatore visualizza la scena che vuole fotografare.

Otturatore: è una sorta di “saracinesca” che viene aperta quando viene premuto il pulsante di scatto, per permettere il passaggio della luce.

Il funzionamento del corpo macchina è estremamente semplice. Quando viene premuto il pulsante di scatto, lo specchio si alzerà e immediatamente dopo si aprirà l’otturatore mentre il diaframma dell’obiettivo si chiuderà al valore prestabilito, permettendo il passaggio della luce dall’obiettivo fino ad incidere con il sensore/pellicola. Durante questo processo non sarà ovviamente possibile visualizzare dal mirino l’inquadratura, in quanto lo specchio si porrà perpendicolarmente al sensore/pellicola. La luce quindi compirà un percorso attraverso l’obiettivo per imprimersi sul sensore/pellicola. È possibile gestire il tempo di scatto, ovvero, decidere quanto lasciare alzato lo specchio e tenere aperto l’otturatore al fine di gestire la quantità di luce che verrà impressa.

GLI OBIETTIVI

Gli obiettivi rivestono un ruolo importantissimo nella qualità della futura immagine. La funzione delle ottiche è quella di proiettare l’immagine sul piano focale in cui si trova il sensore/pellicola. Esse sono composte da alcuni elementi fondamentali:

Diaframma: è una apertura, contenuta internamente all'obiettivo, che può essere gestita attraverso lo spostamento delle lamelle che la compongono. Il diaframma serve per controllare la luce in entrata e la profondità di campo.

Ghiera di messa a fuoco: Permette di gestire la messa a fuoco ruotandola in senso orario e antiorario.

Lenti: Gli obiettivi sono composti da più lenti poste in serie, talvolta rese basculanti per gestire le eccessive vibrazioni e trattate in modo da limitare le aberrazioni cromatiche.

Ghiera dello zoom: Permette di gestire la lunghezza focale dell’obiettivo e quindi lo zoom desiderato.

Gli obiettivi possono essere divisi in tre grandi categorie in base alle loro caratteristiche: Normali, grandangolari e teleobiettivi. Essi differiscono per la lunghezza focale, l’angolo di campo e la luminosità (apertura massima del diaframma). Con lunghezza focale, espressa in millimetri, si intende la distanza che separa la lente dal piano focale nel caso di lente singola, ma, visto che le ottiche fotografiche sono composte da più gruppi di lenti, la lunghezza focale assume il significato della distanza tra centro ottico, dove generalmente è posto il diaframma, e piano focale. La luminosità di un obiettivo è determinata dall’apertura massima del diaframma. Infatti un’ottica con una grande apertura di diaframma permetterà di far passare una maggior quantità di luce, impressionando la pellicola in un tempo minore. A diaframmi molto aperti corrispondono valori di f (con f si indica il valore del diaframma) molto piccoli. Il valore di f è definito come il rapporto tra la lunghezza focale espressa in mm e l’apertura del diaframma espressa anch’essa in mm. Nel caso degli obiettivi grandangolari, con lunghezza focale molto corta, si potranno avere aperture molto grandi come ad esempio f1,4. Infine abbiamo l’angolo di campo che varia in base alla lunghezza focale e alla dimensione del sensore/pellicola. Avendo una maggiore lunghezza

focale e un sensore di dimensioni minori avremo un minor angolo di campo, il quale comporterà una visione più ristretta dell’inquadratura. La divisione tra i vari tipi di ottiche è determinata proprio da quest’ultimo fattore, infatti gli obiettivi grandangolari saranno caratterizzati da un angolo di campo superiore ai 60°, i teleobiettivi avranno un angolo di campo minore di 45° e i normali saranno compresi tra questi due valori.

I LIMITI DELLE OTTICHE

Poiché la luce irradiata da una sorgente si propaga in tutte le direzioni dello spazio ed è composta da frequenze diverse, sono inevitabili i fenomeni che comportano un peggioramento della qualità dell’immagine, in funzione della qualità della lente. Queste aberrazioni ottiche non sono eliminabili, poiché sono in stretta concordanza con determinate leggi fisiche, ma possono essere limitate notevolmente con obiettivi di qualità. Le aberrazioni più comuni si dividono in cromatiche e sferiche. Inoltre possono presentarsi molto di frequente effetti di distorsione, soprattutto nel caso di obiettivi con lunghezza focale molto corta, e cadute di luce ai bordi del fotogramma. Mentre precedentemente tutti questi problemi sembravano insormontabili, oggi, con l’avvento delle reflex digitali, sono facilmente risolvibili con l’uso di programmi di post-produzione.

1. LE ABERRAZIONI CROMATICHE L’aberrazione cromatica è dovuta al fatto che la luce che passa attraverso ad una lente è in realtà una radiazione luminosa composta da lunghezze d’onda diverse tra loro. Il problema è che la lente, per quanto sia di qualità, non riuscirà mai a far convergere tutti i raggi luminosi di tutte le frequenze nello stesso identico punto, in quanto, l’indice di rifrazione dipende dal colore della luce, e quindi, per esempio, nel caso del colore blu esso avrà un angolo di rifrazione minore rispetto al colore rosso. I raggi che attraversano una lente vengono deflessi, raggiungendo il fuoco in posizioni differenti: la distanza aumenta dal blu al rosso, cioè con l'aumento della lunghezza d'onda. Questo particolare difetto aumenta in funzione della lunghezza focale.

Schema dell’aberrazione cromatica Esempio di lieve aberrazione cromatica

2. L’ABERRAZIONE SFERICA L’aberrazione sferica è una diretta conseguenza della curvatura delle superfici delle lenti. E' la deviazione dei raggi che attraversano una lente curva a seconda della posizione di ingresso: quelli che passano per i margini convergono vicino, quelli che penetrano centralmente convergono più lontano. Di conseguenza, non vi è convergenza in un solo punto, ma in tanti punti ravvicinati, con perdita di nitidezza. Questo effetto viene parzialmente compensato chiudendo maggiormente il diaframma, a discapito della luminosità, facendo arrivare sulla lente soltanto i raggi più vicini all’asse ottico, i quali verranno focalizzati meglio. A livello di progettazione, al fine di limitare questo effetto vengono utilizzate lenti con superfici anteriori e posteriori con diverso raggio di curvatura.

3. DISTORSIONI Le distorsioni, a differenza dei difetti ottici sopracitati, non influenzano la nitidezza, ma provocano una deformazione delle geometrie e non possono essere attenuate diaframmando. Il fotogramma presenterà nella parte centrale una geometria corretta delle linee rette, mentre ai bordi si avrà un’incurvatura che può essere verso l’esterno o verso l’interno. Nel primo caso essa viene chiamata “distorsione a barilotto”, mentre nel secondo assumerà il nome di “distorsione a cuscinetto”. Le distorsioni a barilotto si presentano maggiormente nel caso di obiettivi grandangolari, mentre sono estremamente limitate nei teleobiettivi, nei quali si ha invece la distorsione a cuscinetto.

4. LA CADUTA DI LUCE AI BORDI L’immagine proiettata dalla lente sul fuoco risulta essere più scura ai bordi e più chiara al centro. Questo particolare effetto, chiamato “vignettatura”, è ancora una volta una conseguenza del percorso fatto dalla luce prima di incidere sul sensore. Infatti lo spazio percorso dai raggi periferici è maggiore di quello attraversato dai raggi paralleli all’asse ottico. Quindi supponendo di impostare un tempo di scatto di 1/10 di secondo, in questo arco di tempo sarà maggiore la quantità di luce che si imprimerà al centro del sensore poiché essa avrà un percorso minore e quindi sarà maggiore la luce che a parità di tempo inciderà nella zona centrale, determinando una maggiore luminosità del centro rispetto ai bordi.

LE TECNICHE FOTOGRAFICHE

Per la riuscita di una buona fotografia bisogna tener conto di molti fattori importanti, riguardanti la composizione, l’esposizione, la messa a fuoco e la profondità di campo. Se si conoscono e si sanno gestire tutti questi elementi sarà nettamente più facile ottenere uno scatto capace di suscitare interesse nell’osservatore.

LA COMPOSIZIONE Generalmente un fotografo principiante è solito porre il soggetto al centro del fotogramma e nel caso di foto di paesaggio porre la linea dell’orizzonte perfettamente a metà dell’immagine. In certe condizioni può essere una scelta corretta, ma generalmente sarebbe meglio comporre sfruttando la regola dei terzi. Questa regola comporta una divisione del fotogramma in nove parti, uguali tra loro.

È consigliabile porre il proprio soggetto in una delle parti in cui si intersecano le rette o sulle linee laterali, poiché in questo modo si creerà tensione nell’immagine suscitando interesse e curiosità. L’orizzonte posto sulla linea orizzontale superiore o inferiore, permette di decidere se dare maggior interesse al cielo o ad elementi terrestri “squilibrando” la foto e rendendola più interessante.

IL TRIANGOLO DELL’ESPOSIZIONE Con la parola “esposizione” si intende la quantità totale di luce che in un intervallo di tempo passa attraverso il sistema ottico. Essa può essere calcolata per mezzo di un esposimetro, uno strumento presente in tutte le fotocamere, che misura la quantità di luce incidente. Gli esposimetri sono generalmente realizzati con il silicio, il quale, emette una debole corrente elettrica se esposto alla luce, corrente che viene amplificata dal circuito dell'esposimetro. La risposta del silicio è molto rapida ed è il materiale più comunemente utilizzato all'interno delle fotocamere. Per gestire l’esposizione bisogna agire su tre fattori: l’apertura del diaframma, il tempo di scatto e la sensibilità ISO. Il diaframma ha una funzione importantissima in quanto oltre a gestire la quantità di luce in entrata permette anche di controllare la profondità di campo. Generalmente un valore f11, usato solitamente nella fotografia di paesaggio, permette di avere una buona profondità di campo. Con profondità di campo si intende l’area precedente e successiva al punto in cui si è messo a fuoco entro la quale tutti i soggetti risultano nitidi e a fuoco. Indicativamente, aumentando il valore di f di uno stop, la luce che riesce a incidere sul sensore a parità di tempo di scatto risulta essere di circa la metà. Il tempo di scatto rappresenta un altro importante fattore per ottenere la giusta esposizione; esso corrisponde al tempo in cui l’otturatore rimane aperto. Ovviamente impostando tempi più lunghi una maggior quantità di luce riuscirà a passare e ad incidere sul sensore. Purtroppo con tempi molto lunghi, se non si è attrezzati con un cavalletto, è facile ottenere foto con mosso evidente o micro-mosso, che comportano una perdita di dettaglio e nitidezza. Per mezzo della ripresa bulb (B) si ha la possibilità di mantenere aperto l’otturatore fintanto che viene tenuto premuto il tasto di scatto, permettendo di ottenere lunghe pose quando si scatta in situazioni di mancanza di luce; ovviamente in questo caso è d’obbligo l’uso di un cavalletto. L’ultimo parametro che influisce sull’esposizione è la sensibilità ISO, ovvero la sensibilità che assume il nostro sensore/pellicola nei confronti della luce. Sensibilità molto elevate (da ISO 1600 fino a ISO 6400) permettono di effettuare scatti anche in condizioni di scarsa illuminazione introducendo però il rumore o luminanza, che si presenta come una grana che comporta una perdita notevole di dettaglio. Riuscendo a gestire questi parametri si può ottenere una foto correttamente esposta e con la profondità di campo desiderata.

Esempio di rumore a differenti valori di sensibilità ISO

MESSA A FUOCO La messa a fuoco può essere gestita in automatico o in manuale nelle fotocamere digitali e solamente in manuale nelle fotocamere analogiche. Una volta puntato il soggetto che si vuole fotografare, mettendo a fuoco si ha la regolazione della distanza del gruppo di lenti dell’obiettivo dal sensore, in modo che su quest’ultimo vi sia proiettata un’immagine nitida del soggetto che si vuole ritrarre. Tutti gli obiettivi sono caratterizzati da una distanza minima di messa a fuoco al di sotto della quale non è possibile ottenere fotografie nitide, la quale dipende dalla focale dell’obiettivo (un grandangolo avrà una distanza minima di messa a fuoco molto ridotta). Una corretta messa a fuoco permette di ottenere il massimo dettaglio e la massima nitidezza in una fotografia. A questo scopo, soprattutto nella fotografia di paesaggio, viene sfruttata l’iperfocale. Nel caso di un obiettivo 18 mm a f8 per ottenere l’iperfocale sarà necessario mettere a fuoco a circa 2 metri. L’iperfocale dipende dall’apertura di diaframma e dalla lunghezza focale, e consiste nella messa a fuoco ad una certa distanza per cui, per il modo in cui sono realizzate le ottiche, permette di avere tutto perfettamente a fuoco da quella distanza fino all’infinito. Questa tecnica risulta essere utile in quanto permette di ottenere un primo piano a fuoco, senza avere uno sfondo sfocato, come accadrebbe normalmente se si mettesse a fuoco sull’oggetto in primo piano.

Testo creato e sviluppato da Mauro Mini.

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