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La Dimora del Tempo sospeso / I “Quaderni della Foce e la Sorgente”
15 giugno 2019 (Quaderno n. 7)
SCRITTURE DI ARTISTI
Questo quaderno, Scritture di artisti, inaugura, per “La foce e la sorgente”, una serie di quaderni in cui si vuole dare visibilità a una scrittura concentrata sul laboratorio creativo di artisti visivi. Questa parola, la pronuncino artisti come scrittori, è una parola che non vuole avere nessun debito con la letteratura ma essere libera e ondivaga, tra echi poetici e intuizioni filosofiche, tra riflessioni esistenziali e appunti concreti di lavoro.
M.E.
L’emozione della regola
Marco Ercolani
Appunti per una navigazione nei segni
Osip Mandel’štam consigliava: «Distruggete i manoscritti, ma conservate ciò
che avete tracciato a margine, per noia, per disperazione e come in sogno»,
Quella scrittura “tracciata a margine” segnalata dal poeta russo, svincolata
dalle convenzioni, sospesa tra estrosità del segno e imprevedibilità del senso,
appartiene alle scritture non canoniche, che non vogliono essere definite
come romanzi, racconti, raccolte poetiche. Sono “scritture-schizzo”, dove
l’artista prova i suoi sogni, abbozza i suoi disegni, fantastica i suoi quadri. La
parola diventa un capriccioso, rapsodico, interminabile frammento, dentro il
quale lavorare come in sogno, riflettendo “a voce alta” sui dettagli della
propria poetica. Ne scaturisce una sorta di journal intime. Il concetto stesso di
“scrittura” cambia e si lega a questa intimità: è gesto di improvvisazione,
confidenza improvvisa, fantasticheria di progetti, architettura di sogni, come
accade a Nicolas de Staël quando scrive a René Char pensando con lui un
libro a quattro mani: «… non saprò mai dirti abbastanza quanto mi ha dato
lavorare con te, ritrovare di colpo la passione che avevo, bambino, per i
grandi cieli, le foglie d’autunno e tutta la nostalgia di un linguaggio diretto,
senza precedenti, che mi trascina. Questa sera ho mille libri unici fra le mie
mani per te, forse non li farò mai ma è selvaggiamente bello averli». L’artista
è un nomade che vaga nei suoi progetti, nei suoi personali deserti, un
compagno segreto. Scrive lettere. Si confessa. Medita opere nuove. Ma è
come se parlasse sempre a un alter ego, come se confidasse le sue
stravaganti o intense considerazioni ad un ascoltatore. Ne nasce una scrittura
involontaria, elastica, naturamente poetica, spesso frammentaria, come un
diario di bordo, un appunto di navigazione.
Scrive Odilon Redon: «Bisogna rispettare il nero. Niente lo corrompe. Non
piace agli occhi e non risveglia alcuna sensualità. Ma è agente spirituale più
dei bei colori del prisma». Nelle sue Confidenze d’artista Redon pensa al
“nero” come a una sorgente di intensa energia e affida questo pensiero alla
parola. La parola diventa l’intimità della sua riflessione. Così chi volesse
decifrare una tela di Tapiès si troverebbe davanti a sgorbi di scritture, lampi di
pitture, macchie e collages, come dentro un libro sempre aperto, che aspetta
nuove parole e nuovi segni, e si rifiuta di essere un libro finito. Non esistono
libri “finiti”, nell’immaginazione dell’artista, ma notebooks, schizzi, come le
macchie-foreste di Alexander Cozens, il pittore inglese del Settecento che
anticipa, con i suoi paesaggi neri e bianchi, il tachisme degli informali.
**
Secondo Balthus «l’artista non deve diventare narratore di storie. In pittura,
l’aneddoto non dovrebbe esistere. Un quadro, un soggetto, si impongono,
solo l’artista ne conosce tutte le profondità, tutte le vertigini. Non succede
nulla in un quadro, esso è e basta, è per definizione o non è». Queste parole
ci fanno riflettere alla “mancanza di storia” che è propria del quadro. Un
oggetto davanti a noi. Le parole si fanno inservibili, troppo lente e legate al
senso dei discorsi, ai suoni delle diverse lingue. Il quadro si impone da sè. È
quel percorso, quell’apparizione. Osserva Michaux: «Dipingo come scrivo,
per trovarmi». E allora, perché le parole?
Marco Locci, nei suoi Racconti dal mondo dei Patanchi, descrive le avventure
di favolosi Patanchi – omini neri, di varia grandezza e forma, che appaiono su
isole fantastiche, fra voli e naufragi – commentate da una scrittura
indecifrabile che il pittore finge ritrovata in atlanti remoti. Da questi disegni
scaturisce un senso ‘affettuoso’ del soprannaturale, dove la presenza dei
segni-fantasmi diventa più reale e più ricca dell’evanescente e inconsistente
realtà quotidiana.
Ecco che scrittura e pittura possono farsi compagne stravaganti ma piacevoli
dello stesso viaggio. Emerge una necessità dell’artista: arrivare a definire a
se stesso, con le parole mobili di un’intervista, con gli aforismi poetici di un
taccuino, con i vaghi frammenti di una conversazione, la propria strada.
Scrive Alberto Giacometti «Nessuna scultura ne detronizza un’altra. Una
scultura non è un oggetto, è un interrogativo, un problema, una risposta. Non
può essere né finita né perfetta. La questione non si pone nemmeno. Per
Michelangelo, con la Pietà Rondanini, la sua ultima scultura, ricomincia tutto.
E per mille anni Michelangelo avrebbe potuto continuare a scolpire delle
Pietà senza ripetersi, senza tornare indietro, senza finire nulla, andando
sempre più lontano. E anche Rodin». Giacometti ha un bisogno compulsivo di
parlare della sua arte. La parola gli serve come monologo per rinforzare le
sue idee, come conversazione a voce alta in cui definire e ri-definire la sua
immensa incertezza. Scritture, appunti, interviste, vanno considerate come
un’”opera aperta”, una grande cassa di risonanza dove non c’è una prima o
un’ultima parola, ma tutte le parole sono come le statue di Michelangelo: si
possono ripetere all’infinito. L’artista ha due o tre idee, e ripete quelle per
sempre. Ma, come in un processo reversibile di metamorfosi, anche lo
scrittore può avere bisogno del pittore per parlare della sua arte.
Dupin scrive: «Moltiplicando le sue possibilità di apparire, lascia l’oggetto al
suo incerto divenire, alla sua mobilità ansiosa. Non blocca un solo percorso
ma apre una diversità di tracciati fra i quali questo oggetto può scegliere, fra i
quali almeno apparirà continuamente esitare, traendo da questa indecisione
la sua fremente autonomia e il tremito della vita separata. Moltiplicare le linee
non è forse rifiutare il significato e la certezza di una sola? Noi ritroviamo qui
la ribellione come principio di creazione. Tracciare una seconda linea è
mettere in discussione la prima senza cancellarla».
Questo principio, valido per orientarsi nella scultura dell’artista di Stampa,
sembra definire anche la multiforme scrittura di un romanzo o di una
composizione poetica: le parole del poeta francese alludono a un palinsesto
dell’arte, a una fertile polisemia di sensi e di suoni. Altri scrittori, invece, si
avvicinano all’opera artistica come favolosi osservatori e non come critici
eruditi. Un esempio fra gli altri è Robert Desnos, che non scrive un saggio
sull’opera di Picasso ma divaga, da poeta, sulla gioia pittorica della sua arte.
A questa moltiplicazione di prospettive non è estranea la follia, che traversa
gli aforismi di Wols come gli scritti di Artaud su Van Gogh: li traversa non
come un sintomo definito ma come una proposta di maggiore
“concentrazione”. Scrive Nietzsche che l’uomo «deve nel tempo da lui scelto
poter essere la volontà incarnata della non verità, la volontà dell’incertezza, la
volontà del non sapere, e soprattutto la volontà della follia». La follia, quindi,
è la scelta di un infinito vivo e pulsante contro le cose consumate e banali.
«Dietro le facciate vedere quel / che mai avrei voluto sapere, dietro / ogni
facciata vedere / quel che oggi non v’è» scrive Amelia Rosselli.
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Abbiamo parlato di molteplicità e di invenzione. A questo proposito scrive
Jean Dubuffet: «È proprio questo lo spazio creativo dell’artista: inventare
nuove lingue. E il linguaggio delle immagini si presta a questo molto meglio di
quello delle parole. È vero che ha anch’esso la sua parte convenzionale, ma
è meno rigorosa. La pittura mi sembra adatta, più di qualsiasi scritto, a
trascinare fuori dal seminato il pensiero e ad aprirgli dei campi nuovi». La
pittura è vista come uno spazio nuovo, e non solo per i pittori. Anche gli
scrittori, che si avvicinano alla pittura, ne parlano, inventano ipotesi,
dialogano con gli artisti e cercano spazi nuovi di riflessione e di osservazione
per le loro stesse opere. Osserva Michaux, che è scrittore e pittore: «Dipingo
come scrivo. Per trovare, per trovarmi, per trovare il mio bene che possedevo
senza saperlo. Per provare, allo stesso tempo, la sorpresa e il piacere di
riconoscerlo…Per essere la carta assorbente di innumerevoli attraversamenti
che in me non smettono mai di affluire». Gli “attraversamenti” cercati dal
Michaux pittore possono però essere negati dall’immobilità assoluta, quando
questa immobilità spalanca un “campo nuovo” di indagine. Ne è un icastico
esempio il grande “libro scolpito” di Vincenzo Agnetti, un enorme codice,
totalmente vuoto. Spalancato, mostra due enormi pagine bianche. In
ognuna di esse, ritagliato con geometrica precisione, un rettangolo nero
che continua in basso, per tutte le altre pagine invisibili sotto a quella. E' un
libro senza parole. Tutti i segni dell'alfabeto sono chiusi in quel rettangolo
liscio e abissale, profondo per tutte le pagine del libro, i cui margini non
suggeriscono più l'usura del tempo e degli elementi. Come se un bisturi
avesse inciso, con quel nero imperioso ed esatto, la forma potenziale della
scrittura assente. Potenziale ma non precisa, “non finita”. Se Michelangelo
lascia informi nella pietra i suoi “Prigioni”, sottraendo le ciclopiche figure
alla finitezza della statuaria marmorea, la loro potenzialità abiterà sempre
la nostra immaginazione. Se a quel “non-finito” uno scrittore rispondesse
con le immagini di nuove storie, ne scaturirebbero ulteriori possibilità, altri
miraggi e vie di fuga per le figure prigioniere del marmo. Gli artisti vivono
sempre dentro un arcipelago turbolento di forme possibili.
**
Il poeta e ingegnere Leonardo Sinisgalli, in Horror vacui, ricorda che la realtà
della scrittura non è tanto la forma concreta della frase quanto le pause che si
formano fra parola e parola, nel bianco del foglio dove scrittore e lettore si
incontrano. Da quelle pause, dal “movimento della mano sulla carta”, si
profila l’idea di una realtà instabile, cangiante, in definitiva pittorica: il testo è
composto con i mattoni del linguaggio ma questi non edificano nessuna casa:
lascaino che la parola reste vagante, soggetta a metamorfosi e ri-creazioni
all’interno del testo. Le parole descrivono scene, evocano paesaggi,
rispecchiano oggetti. Ma questa funzione, invece di contribuire alla solidità
del dicibile, rende gli eventi descritti fenomeni più allarmanti e inquieti. La
parola vaga dentro e fuori dall’oggetto, lo modella mentre lo racconta, lo
dissolve mentre lo evidenzia. E l’universo che scaturisce da questo gruppo di
parole è un universo intessuto da tutte le percezioni che lo hanno percepito e
da tutte le parole che lo hanno descritto: un ibrido di riflessioni, proiezioni,
identificazioni, evocazioni, fantasie, impulsi, sensazioni, fraintendimenti; un
oggetto polisemico, orientato da mille occhi, disorientato da altri mille, simile,
quindi, a un oggetto artistico, quadro o scultura che sia. L’arte non è che
questo modo nuovo di vedere, complesso e sfuggente. Ciò che riesce a
intuire il pittore, e intorno al quale le parole tessono il più fitto dei dialoghi, è
sempre un lavoro in corso fra parola e segno, la ricerca di un ritmo personale
con cui la parola cerca l’ìmmagine fra mille immagini, simultaneamente.
La parola dell’artista visivo si disinteressa alle strategie linguistiche e si fa
sonda continua di un processo creativo. Quale parola preme a chi non ha
l’ossessione di scrivere un libro? Una parola-schizzo, il notebook del proprio
laboratorio creativo. Turner chiariva a se stesso i suoi quadri con
innumerevoli schizzi che lo avvicinavano progressivamente alla forma
cercata. Intorno a quel “non-finito” si interroga sempre una parola-frammento,
non allineata, spiazzata, sfuggente; una parola senza discorso, pura spinta
emotiva a dire di sé, del creare; una parola libera, che fa luce, che non nasce
poetica ma lo diventa, sempre a margine, come nel diario in versi Dove le
pietre volano, in cui Luisella Carretta, dal suo volontario esilio islandese,
traccia versi come segni di pittura e conoscenza: («Sulla cenere nera / scrivo
un messaggio / perché si sappia / che se qui siamo / è perché stiamo /
ancora cercando»).
Protagonista è sempre il gesto plastico, “tra emozione e regola”, direbbe
Georges Braque. La parola è il movimento del pensiero con il quale l’artista
vuole chiarirsi il proprio disegno interiore: la propria “cifra nel tappeto”, come
teorizza Hugo Wereker, il protagonista dell’omonimo racconto di Henri
James, quando assicura, ai suoi lettori postumi, che una chiave per
comprendere la sua opera esiste ed è visibile proprio nella sua opera.
Scrive Luigi Sasso di Francis Bacon: «Per Bacon immagini e parole sono due
realtà estranee, corpi che non si toccano, chiusi in una solitudine senza via
d’uscita. Si capisce come questo atteggiamento non sia solo un modo per
sviare un’imbarazzante indagine sulla propria opera, ma costituisca piuttosto
un punto importante del suo modo di concepire l’attività artistica. Liberarsi dal
linguaggio, allontanarsi dalle parole, serve a Bacon per poter puntare dritto al
cuore delle cose, per coglierne, come lui stesso ha detto, la brutalità, il loro
volto crudele, la loro realtà». La parola, per il pittore, spegne la tensione
dell’immagine ma, confrontandosi con l’immagine, nel vivo tessuto della
parola nelle interviste, ne moltiplica le risonanze, complica la ricerca della
“cifra nel tappeto”. L’arte classica del Novecento contemporaneo è ancora
miniera di un pensiero eretico, complesso, rizomatico, che feconda strade
nuove e rifiuta semplificanti soluzioni per nutrirsi delle anomale bellezze della
complessità. Ogni artista lavora a un suo libro favoloso e interminabile che
incide nel segreto della mente, nella superficie della tela, nelle pagine del
libro, nei muri del manicomio, per provare infine gioia della sua bellezza. Ha
ragione Artaud, scrittore e pittore, quando, nel suo Van Gogh. Il suicidato
della società, enuncia questo semplice auspicio:
«Che la vita diventi un giorno bella quanto una semplice tela di Van Gogh e
per me basterà.
E non penso che si possa avere niente di più da augurarsi».
Bibliografia essenziale
Antonin Artaud, Van Gogh. Il suicidato della società, Adelphi, Milano 1988.
Luisella Carretta, Dove le pietre volano, Campanotto, Pasian del Prato 1999.
Robert Desnos, Écrits sur les peintres, Flammarion Paris 2011.
Jean Dubuffet, A ruota libera, Graphos, Genova 1997.
Alberto Giacometti, Pourquoi je suis sculpteur, Éditions Fondation Giacometti, Pari, 2016.
Gustavo Giacosa, Noi, quelli della parola che sempre cammina, Contemporart, Genova 2010.
Henry James, La cifra nel tappeto, Passigli, Firenze 1995.
Osip Mandel’stam, La quarta prosa, De Donato, Bari 1967.
Henri Michaux, Oeuvres complètes, Bibliothèque de la Pléiade, Gallimard, Paris 2004.
Odilon Redon, Confidence d’artiste. Janvier 1913, L’Échoppe, Tusson 2011.
Luigi Sasso, Intorno alla pittura. Conversazioni con Francis Bacon, Graphos, Genova 2000.
Leonardo Sinisgalli, Furor mathematicus, Silva editore, Genova 1967.
Giuseppe Zuccarino, Percorsi anomali, Campanotto, Pasian del Prato 2002.
SCRITTURE DI ARTISTI, 1
Georges Braque, L’emozione della regola
Alberto Giacometti, La scultura astratta
Nicolas De Staël, Un cerchio di stranezze
Jean Fautrier, Sul virtuosismo
Jean Dubuffet, Inventare nuove lingue
Wols, Fino a che punto siamo fragili
Balthus, Ascoltare Mozart
Henri Michaux, Dove posare la testa?
Gastone Novelli, Luglio
Graham Sutherland, Passaggi chiave
Toti Scialoia, In una infanzia perpetua
Ettore Sottsass, Il cimitero di Hochtun
Leonardo Rosa, Cenere del cielo
Enzo Fabbrucci, Oltrepassare un limite
Georges Braque
L’emozione della regola
A darci il gusto della perfezione non è la natura: non possiamo
figurarcela né migliore né peggiore.
Non troveremo mai riposo: il presente non ha fine.
Pensare e ragionare sono due cose ben distinte.
Quando si dipinge non basta far vedere. Bisogna far toccare.
Non si può aggiungere nulla all’emozione, né imitarla: essa è il
germe che sboccia nell’opera.
In arte non si arriva a nulla, se non distorcendo la verità.
Non agisco come voglio, ma come posso.
La personalità di un artista non è la somma delle sue nevrosi.
Non chiedete all’artista più di quanto possa dare. E non chiedete al
critico più di quanto possa vedere.
Non pretendiamo di persuadere: accontentiamoci di far riflettere.
L’Arte è fatta apposta per disturbare. La scienza rassicura.
Uno dice: per grazia di Dio. Un altro: Dio è con noi. Un altro ancora:
i miei diritti sono Dio.
Se vuoi creare qualcosa, non imitarlo.
In arte ha valore soltanto ciò che non si può spiegare.
Se il pittore non disprezza la pittura, stia attento a non valere meno
lui della sua tela.
L’artista non è incompreso, è sconosciuto. Si approfitta di lui senza
sapere che è lui.
Chi va avanti volta le spalle ai seguaci. È ciò che i seguaci si
meritano.
Amo la regola che corregge l’emozione e l’emozione che corregge
la regola.
La scienza si accompagna all’inganno: un problema ben posto è già
risolto.
L’Arte vola, la scienza mette stampelle.
È la precarietà dell’opera a far sembrare l’artista un eroe.
Quando manca la passione, si ricorre al talento.
Il pittore non cerca di ricostruire una storia, ma di costruire un
evento pittorico.
Esiste l’arte del popolo e l’arte per il popolo: quest’ultima è
un’invenzione degli intellettuali. Non credo che Betethoven o Bach,
ispirandosi ai motivi popolari, volessero stabilire gerarchie.
Se ha soltanto parole obsolete, e non riesce a rinnovarle, il critico
condanna.
Voglio mettermi in sintonia con la natura, non copiarla.
Scoprire qualche cosa è denudarla.
La verosimiglianza: un mero inganno ottico.
Definire qualcosa è mettere al suo posto la definizione.
Fabbricare è mettere insieme elementi omogenei; costruire è
fondere elementi eterogenei.
L’azione: una serie di atti disperati che lasciano un po’ di speranza.
Il conformismo parte dalla definizione.
Il vaso dà forma al vuoto, la musica al silenzio.
L’aratro a riposo perde senso, arrugginisce.
Il futuro: una proiezione del passato, condizionata dal presente.
Non sono mai riuscito a cogliere l’inizio di una fine.
Bisogna sempre avere due idee: l’una smonta l’altra.
Chi si aggrappa al passato per fare previsioni finge di non sapere
che il passato è una mera ipotesi.
Il vero testimone di un’epoca è il vocabolario
L’erudizione: un sapere privo di rigore.
L’idealismo è una forma concordata di speranza.
Il vero materialista è il credente.
L’idea è la rampa dell’opera.
Difficile poter dire “sono qua”. Ci si cerca nel passato, ci si
immagina nel futuro.
Fra due oggetti che si suppone siano simili, c’è un sosia.
Soltanto chi sa ciò che vuole può sbagliare.
Non proteggo le mie idee, le espongo.
Un tempo l’utensile era il prolungamento del braccio. Con l’avvento
del macchinismo il braccio è diventato il prolungamento
dell’utensile.
Le prove affaticano la verità.
Bisogna distinguere tra volontà e perseveranza. L’alcolismo non è
un buon esempio di volontà.
Partire dal fondo per potersi innalzare.
Il tamburo, strumento di meditazione.
Chi ascolta il tamburo sente il silenzio.
Desidero l’amore come si desidera il sonno.
La speranza nasce dalla paura del domani.
L’utopia è un mito dalle conseguenze prevedibili.
La preghiera comincia con un “nonostante”.
Il guardiano guida il gregge, ma non sarebbe capace di guidare un
toro da solo.
Sensazione, rivelazione.
Gli intellettuali: intelligenza imborghesita.
Tutti gli “ismi” sono costruzioni.
È il dettaglio che distrae, che fa vivere.
Dimentichiamoci degli oggetti, pensiamo soltanto ai rapporti.
La coscienza è la madre dei vizi.
(Traduzione di Alessandra Paganardi)
(Testi tratti da Georges Braque, Le jour et la nuit. Quaderni 1917-1952,
Gallimard 1952)
Alberto Giacometti
La scultura astratta
Nessuna scultura ne detronizza mai un’altra.
Una scultura non è un oggetto, è interrogazione, problema,
risposta. Non può essere né finita né perfetta. Il problema non si
pone. Per Michelangelo, con la Pietà Rondanini, tutto ricomincia. E
per mille anni Michelangelo avrebbe potuto continuare a scolpire la
sua Pietà senza ripetersi, senza mai tornare indietro senza finire
nulla, andando sempre più lontano.
Anche Rodin.
Una vettura, una macchina fracassata diventa ferraglia. Una
scultura caldea spaccata in quattro fa quattro sculture, e ogni parte
vale il tutto come ogni parte resta attuale e virulenta.
Una scultura egiziana frantumata, un Rembrandt chiazzato,
graffiato, sbiancato, bruciato, restano anche bella scultura, e bella
pittura come il giorno in cui sono stati fatti. Contrariamente agli
oggetti, che non esigono che se stessi, una pittura richiama sempre
altro fuori di sé. Ma - fatto nuovo come le macchine – esiste la
scultura detta astratta. Essa è di fatto concreta e non figurativa. Può
creare e crea oggetti finiti come macchine, che esigono solo se
stesse, e che vogliono essere o sono perfette. Cosa sono, dove si
piazzano?
Una scultura di Brancusi o un’altra detta astratta, arrugginita,
ammaccata, spaccata, un quadro di Mondrian chiazzato, bruciato,
strappato, cosa diventano? Appartengono allo stesso mondo della
scultura caldea, come un Rodin, come un Rembrandt, oppure a un
mondo a parte che si situerebbe vicino a quello delle macchine e
degli oggetti, e in che cosa quelle sono ancora sculture, pitture e in
che cosa non lo sono più?
(Traduzione di Marco Ercolani)
(Testo tratto da « Arts », 639, 9-15 ottobre 1937)
Nicolas de Staël
Un cerchio di stranezze
Lagnes, novembre 1953
Caro René,
Grazie della tua lettera, L’acqua che annegava la tua pianura
finisce nelle nuvole sull’orlo dei cipressi. Io sono corpo e anima
diventato fantasma, che dipinge templi greci e un nudo così
adorabilmente ossessivo, senza modelli, che si ripete e finisce per
confondersi di lacrime.
Non è veramente atroce, ma si tocca spesso il suo limite. Quando
penso alla Sicilia, che è lei stessa un paese di veri fantasmi, dove
solo i conquistatori hanno lasciato qualche traccia, mi dico che vivo
in un cerchio di stranezze da cui non uscirò mai.
Quale angelo, quale folla di ferocità, ma come si possono amare i
sogni…
Ti abbraccio di tutto cuore e penso bene a te.
Nicolas
(Traduzione di Marco Ercolani)
(Testo tratto da: René Char-Nicolas de Staël, Correspondance 1951-1954,
Èditions des Busclats, Aurillac, 2010)
Jean Fautrier
Sul virtuosismo. Lettera a Jean Paulhan*
Mio caro Jean,
Non dovrebbe essere permesso, a un pittore, criticare il più
grande dei nostri critici. Tuttavia è proprio ciò che sto per fare. Per il
catalogo nessuno poteva sperare in qualcosa di così approfondito.
Da una prefazione è diventata un saggio. Ma per il libro, e il tempo
non le manca, occorre che le sue argomentazioni siano più serrate.
Bisogna essere infinitamente più duri e non lasciare nessuna
scappatoia. Ogni questione che sia stata posta deve essere risolta
sotto tutti gli aspetti. E subito, senza nel frattempo addolcire la
lettura e guadagnarsi la simpatia di chi legge abbandonandola per
un po’ e riprendendola più tardi.
Bisogna guidare il lettore in modo infinitamente più brutale,
affinché già dalla prima pagina si senta posto fuori combattimento e
non gli resti che ammettere senza discussione tutto ciò che seguirà.
Facciamo un esempio, il primo che mi capita sott’occhio: «La
prima critica fu press’a poco... Che virtuosismo!… lo stesso
Vlaminck. Ecc. …». La questione del virtuosismo viene dunque
posta. Si tratta adesso di dire
** Sur la virtuosité. Lettre à Jean Paulhan, Caen, L’Échoppe, 1987. La lettera, non
datata, risale probabilmente al 1944. Il catalogo con prefazione di Paulhan cui si allude
nelle prime righe è quello della mostra Fautrier. Œuvres (1915-1943), Paris, Galerie
Drouin, novembre 1943.
1° se il virtuosismo esiste o no in pittura
2° che cos’è
3° se è auspicabile, indispensabile, o al contrario disprezzabile
o pericoloso
4° i motivi per cui i critici sollevano il problema «virtuosismo»,
di solito senza aver riflettuto sulla questione.
Ora, nel suo studio lei non risponde di seguito, risponde
parlando del colore! «F. è un perfetto colorista… toni crudi…
accostamenti di grigi… venti azzurri diversi… sinfonia rossa e
nera…», e più oltre «F. solleva un curioso problema di armonia».
È solo a pagina 10 che lei affronta la questione del
virtuosismo, per replicare con osservazioni ammirevoli, che sono
tutte da conservare, che vanno proprio al fondo della faccenda, ma
che saranno convincenti solo se le si espone assieme ad altre.
Nel libro, vorrei inoltre, per ogni questione posta, che essa
venisse analizzata in dettaglio, e veder così direttamente:
1° e 2° sì, il virtuosismo esiste. È la grande facilità, l’estrema
spigliatezza nel tratto, nell’applicazione del colore, nella produzione
di effetti di pasta, di velatura ecc. …, è il modo di dipingere senza
esitazione ombre trasparenti ecc. … Dunque non neghiamo che il
virtuosismo esiste, e lo riconosciamo immediatamente quando
confrontiamo un pianista con un altro. Non possiamo negare che
esista, visto che riusciamo a spiegare cos’è e persino a dire quando
cessa di essere virtuosismo per diventare dono. Così, la scelta
esatta del tono di giallo tanto desiderato, la densità dell’ombra
trasparente in rapporto alla luce, la scelta esatta della qualità di
questa luce e della sua quantità ecc. … non sono più virtuosismo.
Una volta stabilito che il virtuosismo esiste, che cos’è
esattamente questa facoltà in certi pittori?
3° è auspicabile, necessaria o disprezzabile? A volte il
virtuosismo è auspicabile. Non è necessario né disprezzabile,
anche se spesso è pericoloso. – Non è necessario, poiché un vero
talento si esteriorizzerà sempre, quali che siano le difficoltà. Non è
neppure indispensabile – pittori grandissimi si sono espressi senza
alcun virtuosismo: Cézanne, Braque, e ciò basta alla dimostrazione.
È però auspicabile per certi temperamenti, e del resto si noterà
che questo virtuosismo, più che un dono naturale, è un dono
acquisito a forza di lavoro e di ricerche, giacché i pittori che si
possono definire dei virtuosi sono proprio quelli che hanno bisogno
di questo virtuosismo – quelli che per temperamento devono
dipingere molto in fretta. In questo caso è auspicabile: si pensi ad
esempio a Dufy, Manet, Van Gogh, che non sono meno grandi per
il fatto di essere dei virtuosi.
Ma ciò non deve farci immaginare che dipenda dal fatto che in
un pittore c’è un talento naturale [seguono alcune parole non
decifrate] – è come in musica – ed è solo grazie a un infinito lavoro
che si consegue il virtuosismo in risposta ai propri bisogni.
È pericoloso perché molti temperamenti vacui si sono
impegnati solo in questa forma ristretta di virtuosismo e spesso
sono riusciti a raggiungerla: Harpignies, Vlaminck.
È pericoloso per i pittori medi, giacché essi si compiacciono in
una simile formula di pittura senza rischi, ed è proprio questo tipo di
virtuosismo che li rovina (in tal senso è auspicabile). Non sarà mai
pericoloso per quelli che sanno come comportarsi e gli riservano
soltanto quel piccolo spazio che necessariamente gli spetta.
4° è pericoloso soprattutto per il pubblico e non per gli artisti,
poiché il pubblico stenta molto a discernere, e ancor più a capire
che Vlaminck possa essere un cattivo pittore che dipinge così bene,
Cézanne un grandissimo pittore che dipinge male, Manet un
grandissimo pittore che dipinge bene! – L’unica cosa che il pubblico
riesce a distinguere è la cattiva pittura mal dipinta! Allora, non
appena si sia superato questo stadio e una cattiva pittura sia un
tantino ben dipinta, senza peraltro un grande virtuosismo, crede di
essere di fronte a qualcosa, e quindi non esita a classificare
definitivamente dei Demeurisse, Savreux, Favory, ecc. … e tante
altre opere senza valore.
Questo fa sì che il pubblico, essendo sensibile soprattutto al
virtuosismo, classifichi i pittori a seconda del grado di esso. E qui
sta il pericolo, poiché se la cosa ha scarsa importanza per il
pubblico, tuttavia il critico, che del resto non è molto più competente
al riguardo (lo dimostra il fatto che fa altrettanto), non sa quali pesci
pigliare. Così, se anche lui classifica i pittori vacui sulla base del
loro virtuosismo, non appena si trova di fronte a una pittura che gli è
inaccessibile e che non capisce, su cui per conseguenza non può
fornire spiegazioni – se per disgrazia tale pittura comprende una
qualche parte di virtuosismo, non manca di scagliarsi contro questo
punto debole (che è poi spesso l’unico che è in grado di percepire),
e non capendo nulla dell’insieme gli riesce poi facile dimostrare che
tanta pittura vacua aveva dalla sua solo il virtuosismo. Ci troviamo
dunque in questa situazione quando, per il critico, non c’è nulla da
capire del resto.
Sul virtuosismo occorre però aprire una parentesi. Nel
disegno, quasi tutti i grandi disegnatori sono dei virtuosi. Un
disegno, in linea di principio, dev’essere fatto velocemente.
Watteau, Leonardo, Michelangelo, Rodin, Guardi, Guys, sono tutti
dei virtuosi. Solo Degas lo è meno, e chissà, forse quell’apparenza
di tratto ripetuto corrisponde al suo desiderio ed è anch’essa voluta!
Un altro giorno le dirò tutto quel che trovo di ammirevole nei
suoi saggi, così come nel Braque.
Per l’album pensa a M. o ad A., e a chi altro? e per l’album di
disegni?
Éluard? forse – o Bataille se resta fuori dall’erotismo.
Saluti a tutti e
due,
Je
an F.
(Traduzione di Giuseppe Zuccarino)
Jean Dubuffet
Inventare nuove lingue
D. Occorre, per cambiare il pensiero, cambiare il linguaggio?
R. È indispensabile. Il pensiero e il linguaggio hanno origine
comune e praticamente si identificano. Una lingua definisce e
individua un repertorio di fenomeni. Non è più possibile utilizzarla
se si vuole cambiare questo repertorio. È necessaria allora una
nuova lingua. Se si vuole uscire dai modi di vedere istituzionali, si
deve inevitabilmente rifiutare la lingua che da quelli procede o da
cui quelli procedono. La topografia del pensiero e la lingua che
l’esprime sono una sola e medesima cosa. Cambiata la lingua, il
pensiero cambierà di conseguenza. Andrà dove lo porterà la lingua.
È proprio questo lo spazio creativo dell’artista: inventare nuove
lingue. E il linguaggio delle immagini si presta a questo molto
meglio di quello delle parole. È vero che ha anch’esso la sua parte
convenzionale, ma è meno rigorosa. La pittura mi sembra adatta,
più di qualsiasi scritto, a trascinare fuori dal seminato il pensiero e
ad aprirgli dei campi nuovi.
D. Come si pone riguardo alla presentazione al pubblico dei suoi
lavori, dal momento che rispondono ad atteggiamenti così
soggettivi?
R. Le produzioni artistiche devono essere come funghi cresciuti
nella solitudine. Sono dei funghi finti se sono fatte per poterne fare
sfoggio. Io sono assolutamente l’unico destinatario della mia opera
nel momento in cui l’eseguo; tendo a realizzarla in modo tale da
averne io solo le chiavi. Ma è umano aspirare a condividere con
altri la propria solitudine e i frutti di questa. Da qui lo statuto
contraddittorio delle opere; vi giocano un ruolo l’impulso di affidarle
alla comunicazione e nel contempo quello di mantenerle ellittiche e
segrete fino a renderle difficilmente intelligibili. Ma ogni attività
umana non obbedisce allo stesso modo a impulsi opposti sul piano
della logica? Questo attaccare il carro a due animali che tirano in
senso contrario è confortevole? Ebbene no, non lo è proprio. Se le
opere esibite riscuotono approvazione ne deduco, invece di gioirne,
che non rispondono come avrei voluto a dei criteri davvero del tutto
estranei a quelli abituali. Che non sono riuscito a liberarmi
completamente da questi ultimi come intendevo fare. E se al
contrario sono rifiutate e respinte – persino, come è accaduto
spesso in passato, derise e insultate – sono confortato a questo
riguardo, ma nel contempo amareggiato per il disprezzo del
pubblico. Vedo allora cosa sta per chiedermi: perché, se le cose
stanno così, persisto a fare delle mostre? Le risponderò. Non
possiamo fare a meno di subordinare l’esistenza di una qualsiasi
cosa al fatto che possa essere vista da occhi diversi dai nostri.
Sentiamo come problematica, meramente potenziale, l’esistenza di
ciò che è visibile solo da noi. Mostrando le mie opere soddisfo il
desiderio di rafforzarne l’esistenza. È la stessa cosa che spinge lo
scrittore a desiderare di veder pubblicato il suo testo. Gli eroi
dell’art brut (i miei modelli) non sentivano questo bisogno.
Nascondevano le loro opere sotto i materassi o nelle casse. Erano
arrivati ad attribuire piena esistenza a ciò che vedevano senza aver
più il minimo sospetto di essere i soli a vederlo. Mi rimprovero di
non disporre di questo potere che in misura più debole rispetto a
loro. Cerco tuttavia di esercitarmi.
D. Le Mires rappresentano un caso particolare che le differenzia
dalle serie precedenti?
R. Non c’è più in questi dipinti nessun oggetto né figura ‒ niente
che possa avere un nome. Non sono tuttavia del tutto astratti.
Pretendono di raffigurare (o piuttosto evocare), in una forma
abbozzata, sintetica, il mondo che ci circonda e di cui facciamo
parte. Ma questo mondo è visto in un’ottica insolita. Un’ottica in cui
non appaiono più delle cose (quelle che hanno un nome) ma
solamente dei fatti o, per meglio dire, dei movimenti, dei transiti
tumultuosi nell’ambito di un continuum senza spazi vuoti. In questo
modo è rifiutata completamente la visione umanista che governa la
nostra vita quotidiana e che interpreta e analizza il mondo per
renderlo accessibile ai bisogni pratici dell’uomo e al suo pensiero.
Questi dipinti nascono dalla convinzione che tale visione umanista,
che dipende dalle nostre illusorie nozioni di tempo, di materia, di ciò
che è corporeo o non lo è, di vicino e di lontano, di pieno e di vuoto,
non è che un fantasma provocato dai bisogni della nostra vita
quotidiana. Un fantasma da cui siamo, è vero, così fortemente
condizionati da non mettere nemmeno più in dubbio che si
identifichi con la realtà. Dimentichiamo allora che la nozione di
realtà non ha alcun senso se non in relazione a chi la concepisce,
essendo quest’ultimo padrone di plasmarla a proprio piacimento.
Senza contare che egli può, inoltre, farsene talvolta – a livelli diversi
– delle immagini tra loro differenti, da utilizzare a seconda del
momento. L’immagine alla quale rispondono le Mires è quella per i
momenti filosofici. È radicale, implica la revoca totale del «verbo» e
la ricostruzione del pensiero a partire da dati e meccanismi
interamente rinnovati.
D. Aveva la precisa intenzione, iniziando questa serie delle Mires,
di rappresentare i fatti del mondo secondo quest’ottica
disumanizzata?
R. Dipingere è un viaggio la cui destinazione non è nota in anticipo.
Si prende un biglietto senza sapere per dove. L’intenzione, come lei
dice, l’intenzione iniziale era delle più vaghe. Volevo ottenere la
rappresentazione di un luogo, ma non un luogo precisamente
definito. Tutt’al contrario, generico all’estremo, tanto da dare l’idea
sia di un paesaggio che di un ammasso di oggetti, così da
riassumere tutto l’insieme degli spettacoli che si offrono agli occhi.
Insomma, quello che si è visto, niente di più specifico. Anzi, quando
parlo di ciò che si è visto, è già troppo specifico, sarebbe meglio
dire ciò che è stato pensato. Visto o pensato, è per me tutt’uno, è
ciò che si pensa o s’immagina di vedere. Ciò che viene considerato
uno spettacolo per gli occhi non è che una pura proiezione del
pensiero. Quel che crediamo di vedere e consideriamo
un’inconfutabile realtà è soltanto una concezione del nostro
pensiero in funzione di una speciosa interpretazione che ci è stata
inculcata. Per nulla irrefutabile. Ognuno è libero di farsene un’altra.
Gli occhi ci restituiscono ciò che il pensiero detta loro. Sono degli
specchi in cui si riflette il pensiero. Al punto che dipingere la
configurazione del mondo come la vedono i nostri occhi o dipingere
i movimenti del nostro pensiero è una sola e medesima cosa.
D. Vuol dire che queste pitture rispondono al tentativo di
rappresentare le immagini del nostro pensiero?
R. Esse vogliono mostrare in una forma materializzata i giochi e gli
impulsi del nostro pensiero e nello stesso tempo – in un aspetto
approssimativo e in qualche misura smaterializzato – il presunto
mondo concreto. Due vasi comunicanti, in cui circola la medesima
acqua. È proprio quest’acqua, il flusso di quest’acqua, che le pitture
vogliono farci vedere.
D. Esse procedono dall’aver messo in discussione ciò che
normalmente è considerato realtà e che lei definisce fantasma
illusorio. Pensa che ci siano molte persone non dico pronte a
risolvere il problema, ma almeno a comprenderlo?
R. Si dice (e ci credo) che molti hanno una comprensione intuitiva
immediata delle cose, benché siano incapaci di formulare (e di
concepire) una chiara spiegazione. Una comprensione dunque
nebulosa, che danza e tremola come l’ago della bilancia che cerca
il nord. Invitati a fornire una spiegazione, lo fanno in termini così
impropri che nulla traspare del loro barlume di comprensione. Ci si
inganna se se ne deduce che non hanno capito nulla. Spesso sono
piuttosto i tentativi di spiegazione che soffocano la comunicazione
invece di favorirla.
D. I suoi recenti dipinti, che ha intitolato Non-luoghi, non sono, sotto
un aspetto differente e pur con diverse varianti di esecuzione,
l’immediata continuazione delle Mires, non sono animati dalle
stesse intenzioni?
R. I Non-luoghi si spingono più lontano nella contestazione dei
nostri schemi mentali. Come indica il loro titolo, essi contestano il
fondamento della nozione di luogo (e dunque di punto di
riferimento). E inoltre quello della nozione di esistenza, in quanto
opposta al nulla. S’introduce in essi anche un’idea che va un po’
contro i fondamenti stessi del nostro pensiero: la nostra nozione del
Nulla corrisponde allo Zero in matematica, termine intermedio tra i
numeri positivi e negativi. Credo (voglio credere) che i meccanismi
dell’universo comportino, come la matematica (benché il nostro
intelletto recalcitri a concepirlo), un insieme di forze negative che
agiscono tanto quanto quelle positive. Sarei inoltre pronto a credere
che la distinzione che noi stabiliamo tra positivo e negativo è
illusoria. Immagino un nichilismo attivo, rovesciato, una maieutica di
quel che chiamiamo il nulla.
D. Non teme che, una volta abbandonata la visione tradizionale
delle cose, abbandonati i fondamenti del nostro pensiero, la pittura
resti priva di qualsiasi significato?
R. Se si vuole restare dentro i confini della visione tradizionale,
difenderli, evitare ciò che li può mettere in pericolo, è inevitabile
pensare che ogni pittura sia tenuta a rispettare questi confini e che
in caso contrario l’arte si dissolva. Ma, per chi aspira a superare
questi limiti, a cambiare il modo di pensare, l’arte non cessa di
esistere, ma al contrario comincia, una volta rifiutata la visione
tradizionale delle cose. La funzione essenziale di ogni opera d’arte
è, secondo me, di trovare per chi ne fruisce (ma prima ancora per
l’autore nel momento in cui l’esegue) una via d’uscita dal
condizionamento che blocca il pensiero. Ciò che si situa al di là del
limite ci sembra, non c’è dubbio, assurdo. L’opera d’arte, dal
momento che intende liberarsi dal condizionamento del pensiero, si
deve slanciare con ardimento nel non-pensabile, per quanto
assurdo possa sembrare. Il nostro intelletto non può che condurci in
un vicolo cieco, a un atteggiamento di deplorazione.
Scavalchiamolo allora, abituiamo i nostri polmoni a respirare
l’assurdo.
D. È soddisfatto dalle nuove posizioni raggiunte dalle Mires e dai
Non-luoghi?
R. Forse ho spinto il mio treno troppo lontano, sono uscito dai binari
senza ormai poter fare più marcia indietro. A tal punto che –
smarrita la differenza fra l’essere e il non-essere ‒, la pittura ha
forse perso ciò che costituiva la sua vocazione, ha perso il suo
asse. Lo stesso dicasi del pensiero. La tavola non è soltanto
diventata troppo rasa, non c’è proprio più tavola. Al pittore non
resterebbe, allora, che fare i bagagli. Sono queste le paure che mi
assalgono.
D. Ha appena detto che questo è il punto in cui l’arte comincia e ora
invece sostiene che è il punto in cui finisce.
R. Sì, è proprio così. È il volo nuziale del calabrone. Tanto peggio
per il calabrone. Accetto tutto questo fino in fondo.
(Testo tratto da Jean Dubuffet, A ruota libera, tr. it. di Luigi Sasso, Genova,
Graphos, 1997)
Wols
Fino a che punto siamo fragili
Quando sono nato
ero rotondo
e perdere tempo
tra il
Nulla e il nulla
(nascita) (morte)
è un tirocinio pieno
di spassi
**
Nella mia culla
neanche una stilo
tanto meglio
per Voi
**
Il pupo attorniato
d’adulti
gli si fa: tò
tò begli
occhioni ah! ah! ah!
E lui guarda
gli si dice: tu ta ti
tu ta tu oh! Com’è
piccolo e tutto rosa
fare
carriera per bla bla
bla bla
e lui guarda
leggo nei suoi occhi
che interrogano in mezzo
a quale banda di coglioni
mi ha paracadutato questo uccello
conserviamo tutta la vita
la saggezza del pupo
**
La terra senza uomini
qualche piccola giraffa e qualche lucertola
e qua e là un piccolo pidocchio
nella savana
e il piccolo cielo là sopra
nessun bisogno di pensare
è il sogno
**
Per esistere con efficacia in questo
ributtante caos, ho cominciato
a lasciarmi crescere la barba
sola attività onesta
nella mia breve vita
**
Quando tengo la mia chitarra
fra le mie mani
sono spinto
ad agire come un gatto sconosciuto
**
La dimensione del palmo è sacra
tutto ciò che io sogno accade
in un’assai grande e
bella città ignota
con i suoi vasti sobborghi
e le vedute
non oso disegnarla
io dormo meglio
sul Water
che nel letto
è l’Universo
**
Si raccontano i propri piccoli racconti
terrestri
attraverso piccoli pezzi
di carta
**
Bisogna restringere ancora lo spazio
i movimenti delle dita e della mano
bastano ad esprimere tutto
**
Me ne infischio
del duello degli esperti
io sono un piccolissimo
Uomo libero
**
Io mi tengo a ciò che ha
tenuto sempre
io mi tengo a ciò
che ha sempre tenuto
**
Ve lo garantisco
preferirei non abitare
la stessa casa di me stesso
non sono il solo di questo avviso
**
Talvolta sono troppo
stanco per
smettere di
ridere
**
A Cassis i sassi, i pesci
gli scogli visti con la lente d’ingrandimento
il sale del mare e il cielo
mi hanno fatto dimenticare l’importanza dell’uomo
mi hanno invitato a voltare le spalle
al caso dei nostri intrighi
mi hanno mostrato l‘eternità
nelle piccole onde del porto
che si ripetono senza ripetersi.
Nulla può spiegarsi
non conosciamo che apparenze.
Tutti gli amori portano a uno solo.
Aldilà degli amori personali
c’è l’amore senza nome,..
il grande mistero
l’assoluto
X
Tao
Dio
Cosmo
Spirito santo
Uno
Infinito.
L’astratto che tutti penetra
è inafferrabile;
in ogni istante
in ogni cosa
l’eternità è là
**
la prima
cosa che io
scaccio dalla mia vita
è la memoria
**
le rocce – malgrado la loro fragilità
possono insegnarci
fino a che punto siamo fragili.
(Testo tratto da: Wols, Aforismi, Pendragon edizioni, 1996, trad. it. di Silvia
Pegoraro)
Balthus
Ascoltare Mozart
Ecco perché l’artista non deve diventare narratore di storie. In
pittura, l’aneddoto non dovrebbe esistere. Un quadro, un soggetto,
si impongono, solo l’artista ne conosce tutte le profondità, tutte le
vertigini. Non succede nulla in un quadro, esso è e basta, è per
definizione o non è. Baudelaire affermava che una poesia c’è prima
di esserci, altrimenti corrisponderebbe a qualcosa di narrativo
voluto dall’artista, di modificato. Un quadro, una poesia sfuggono a
queste contingenze, c’è una libertà terribile in essi, una violenza
selvaggia che non chiede nulla. In questo senso, l’artista è soltanto
l’anello di una catena che è cominciata molto lontano nel tempo, a
Lascaux per esempio, e certamente molto prima di Lascaux. Non
c’è superiorità di Chardin rispetto a Lascaux, non c’è gerarchia.
Tutte queste staffette creatrici appartengono allo stesso canto,
quello del mondo, del fondo millenario del mondo di cui non so nulla
ma che mi invia qualche messaggio, qualche bagliore. E l’artista
vuole incessantemente ritrovare il fuoco che ne è all’origine., il
focolare che produce le scintille. Mozart lo sa, trae i movimenti così
fluidi della musica da quel fondo misterioso, ha il merito di averli
riportati alla luce, alla nostra luce. Ecco perché ascolto Mozart così
religiosamente, con un diletto e un giubilo quasi sacri. Ascoltare
Mozart come si prega, perché il suo canto ha saputo captare le
vibrazioni segrete del mondo. In pittura la stessa grazia deve
permeare l’artista. La stessa ricerca di armonia. Il paesaggio, i
bambini, che talvolta conoscono questo stato miracoloso, sono la
mia materia: il modellato quasi polveroso di una guancia di bimbo o
l‘asprezza gessosa di una mela cotogna caduta dal’albero alle
prime gelate. Ricordarsi delle analogie, delle corrispondenze
enunciate da Baudelaire: «Il est de parfums, frais comme des
chairs d’enfants. / Doux comme le hautbois, verts comme les
prairies».
(Testo tratto da Balthus, Memorie, Longanesi, 2001, trad. it. di Fabrizio
Ascari)
Henri Michaux
Dove posare la testa?
Pigrizia
Pigrizia: sogno senza fine che sogna la vita
imperturbabile, una parentesi fluida
Intorno:progetti,mappe,partenze,
palazzi crollano,sono costruiti,ricostruiti
Pigrizia sogna
sul suo pozzo sempre più profondo.
Pianure dove si plana
Sopra le alte praterie di nuvole
si plana
si plana
dove si planerebbe tutta la vita
Infine timidamente la terra riaffiora
bassa,costruita, troppo costruita, appiattita
vasto tappeto percorso dall’alto, da molto in alto,
verso tracciati imperiosi a linee lunghe
L’ala grande,dove ci troviamo,vira
…si posa.
Ritorno: piste,corridoi…aria smorta
buie talpe rientrano nel buio.
Situazione-busto
Busto senza testa,addio alla testa,questa comparsa
che sempre interferisce
Sorrisi che spiano, il busto fa a meno delle parole,
fili che annodano
riannodano
trattengono
Completo senza spiegazioni, il busto
è al pari di un faraone
Chi può spogliare un busto?
Gruppi di persone,ora…
Busti che passano…
Dove posare la testa?
Un cielo
un cielo perché non c’è più terra,
senza ali,lanugine o piuma d’uccello,
senza vapori
solo,solo cielo
un cielo perché non c’è più terra
Dopo il colpo di grisù dentro la testa, l’orrore, la disperazione.
dopo che non ci fu più nulla, devastato tutto, affondato
perduta ogni uscita
un cielo gelidamente cielo
Ostruito adesso, sbarrato, ricolmo di macerie;
un cielo a causa dell’emicrania della terra
spogliata del cielo
cielo perché non c’è più un luogo dove posare la testa
Attraversato, ristretto, rientrato, tarpato, a tratti sfatto.
nelle esplosioni e nei fumi irrespirabile
buono a nulla
un cielo introvabile, ormai.
Dettature
Teste
curvate diligenti
nessuna si rialza
Il dettato non lo permette
Gli insegnamenti si aggiungono agli anni
Movimenti si avvertono
Talvolta gli atti seguono una sorta di certezza
Richiami insistenti: risposte a un dettato
iscritto in ciascuno, in piccolo, piccolissimo
Non si annoiano ad ubbidire ad una dettatura?
Un tempo, nella sua grandezza
l’Infinito coi suoi nomi sacri…
Rimasto solo, minimo, tenace
oltre gli anni e le rughe,
il sordo dettato continua, sempre in silenzio
Gli dèi infimi, incorporati, comandano senza parlare.
Sul frangiflutti
Sopra un alto frangiflutti che solca un mare senza onde
un essere in piedi curvo in avanti
Passano obliqui altri frangiflutti
Il loro occupante anche lui curvo
Nessun porto. Porti ignoti
Qualche segno talvolta da frangiflutto a frangiflutto
che allora si avvicinano.
(Traduzione di Lucetta Frisa)
(Testo tratto da Déplacements, Dégagements, Paris, Gallimard, 1985)
Gastone Novelli
Luglio
Qualsiasi cosa vi può succedere in una dogana greca, dove gli
impiegati, gridando e sudando con carnosi nasi levantini, fieri del
loro berretto come scimmie ammaestrate, fanno il diavolo a quattro
buttando tutto all’aria, infilando le loro mani a forma di pala nei
poveri sacchetti di biancheria dei compaesani e ritirandole fuori
insieme a calzini e camicie impiastricciate di pezzetti di torrone. A
me, insieme al bagaglio, hanno segnato ferocemente, col gessetto
grasso, il collo dell’impermeabile.
A proposito di bagaglio, attenzione alle scarpe, perché in questo
paese inesplorato si cammina sempre su e giù per sassi e polvere,
quindi portatevi scarpe fresche e morbide ma chiuse e scure. Un
piccolo sacco vi sarà anche di grande utilità perché vi eviterà di
avere sempre le mani piene di guide, matite, sassi e tutte le altre
cose che si vanno inevitabilmente accumulando.
Se vedete un pescatore con la stessa faccia di Achille, quando
rammenda reti, seduto per terra con le ginocchia rilasciate in fuori,
cosce e gambe disegnano un cerchio, non c’è motivo di
considerarlo un esempio della razza; il greco medio, quello che
legge, scrive e cerca di arraffare denaro nelle città, rassomiglia in
modo impressionante ai brasiliani, parla con lo stesso ritmo e tono,
sputando le parole per metà e recitando il resto lentamente, pieno
di acuti e diminutivi. Nei film gli attori gesticolano e urlano e
scoprono sempre il culo, perfino i manichini nelle vetrine lo
scoprono, manichini che portano calze nere di rete, giarrettiere,
mutande di pizzo e molto di più. Tutti gli attributi del sesso sono
sempre enormi e quelli del peccato anche: le mele, i petti, i capelli
più biondi e ricci del mondo, gli anelli alle dita.
Sulla punta estrema del Peloponneso vivono degli uomini che si
considerano i discendenti diretti degli Spartani, e sulle loro colline di
sola pietra non cresce niente, la natura è bella e inutile. Gli abitanti
si uccidono per antiche liti, sparandosi dall’alto di certe torri che
ognuno si costruisce, di notte, accumulando pietre, per dominare
dal’alto la casa e la terra del proprio vicino. Così le torri sono
altissime e fitte come un bosco, su per tutti i pendii, e gli uomini,
superstiti, sono rari e feroci.
Se si vede una macchia in terra, bisogna cercare un punto di
riferimento e tornare a guardarla ad intervalli regolari; se la macchia
non si sposta non vale la pena di alzarsi, se invece la sua posizione
risulta diversa ad una nuova osservazione conviene schiacciarla in
qualche modo perché, certamente, si tratta di un animale.
Le divagazioni sono il rifugio dell’anima e il “diavolo-intelletto” la sua
difesa: la ragione non basta perfettamente a tenere lontano e
incantato il caos con la sua violenza, i satiri dell’inconscio. La gente
si crede difesa pensando a Phidia, alla storia codificata dei ginnasti,
e rischia continuamente di affrontare indifesa le mura di Micene, i
polipi, Dionisio squartato e divorato alle ninfe, la crudeltà degli eroi,
la mostruosa deformità degli amanti, i parricidi, tutti i terrori, i miti e
le realtà del caso.
(Testo tratto da Il viaggio in Grecia, 1962-1966, stampato in tiratura limitata
per le edizioni Arco d’Alibert e ora in Gastone Novelli, Histoire de l’oeil,
Hilarotragoedia, Il viaggio in Grecia con un inedito Quaderno di intenzioni,
Baldini e Castoldi, 1999)
Graham Sutherland
Passaggi chiave
(Intervista con Paul Nicholls)
PN
Si può constatare che una serie di immagini – fiamme, rose,
strutture con spine, animali e insetti – si ripetono nelle sue opere, e
anche in quelle di altri artisti, fino al punto da assurgere a simboli.
Mi rendo conto che lei sarà forse stanco di analizzare nei minimi
particolari questi simboli, tuttavia le vorrei chiedere di spiegare in
quali rapporti essi si pongono rispetto alla sua opera considerata
nel complesso.
GS
Se le cose che hanno colpito la mia immaginazione sembrano
ripetersi in qualche modo uguali nei miei quadri, allora ho fallito,
perché ogni forma che amo, ciascuna a suo modo, mi sembra
differente dalle altre. Tuttavia è giusto anche dire che le immagini
che scelgo, e che stimolano il mio particolare sistema nervoso,
hanno qualcosa in comune. Intendo dire che ci sono certe
congiunzioni di forme che rispondono alla predilezione innata di
ciascuno di noi. E’ impossibile analizzare scientificamente il perché
e le ragioni degli oggetti che scelgo. Quanto alle immagini prescelte
chi è mai in grado di comprendere in che modo esse entrino nella
mente dell’artista e si impongano alla sua attenzione, oltre all’artista
stesso?Perché si rimane stupiti di fronte certe giustapposizioni di
forme mentre altre non colpiscono la nostra attenzione? Quello che
a me può apparire un accostamento vitale ed entusiasmante, per
un’altra persona è invece del tutto insignificante nella sua forma
esteriore. Osservando i grandi dipinti e scomponendoli nei loro
elementi essenziali, ognuno di noi troverà sempre dei passaggi
“chiave”, passaggi che “funzionano” e che lo colpiscono
profondamente, in maniera quasi coercitiva.
PN
Fino a che punto è legittimo instaurare un parallelo fra le sue opere
e quelle di Francis Bacon? La differenza tra voi consiste forse nel
fatto che Bacon ha preferito trattare la decadenza della carne, e
quindi, simbolicamente, dello spirito, mentre lei da’ la preferenza
alle forme del mondo naturale?
GS
Non credo che sia possibile fare un paragone fra le nostre opere,
né sono del tutto convinto che la produzione di Francis Bacon sia
incentrata sul decadimento della carne. Si potrebbe dir meglio che
egli si è occupato del comportamento umano e dei segni e
movimenti impressi dalle situazioni che vedono protagonisti i suoi
personaggi. Provo ammirazione per lui, ma penso che il mio caso
sia diverso: sarebbe infatti contrario alla mia natura provare
interesse per la decadenza in sé e per sé; al contrario mi affascina
molto di più il fenomeno della crescita, i movimenti delle forme
naturali che cercano di liberarsi dalla terra, e le corrispondenze tra
le forme naturali – animali, uomini, forme geologiche e botaniche –
le macchine e le cose costruite dall’uomo. Inoltre, vi è un fascino
eterno nel modo in cui le caratteristiche dell’uomo vengono imitate
dall’architettura.
(Testo tratto da: Graham Sutherland, Parafrasi della natura e altre
corrispondenze, Pratiche Editore, Parma, 1979, a cura di R. Tassi)
Toti Scialoia
In una infanzia perpetua
Roma, luglio 1957
Devo curarmi meno del quadro in sé che di me che lo vado
dipingendo; io credo che il problema, qualitativamente, sia tutto qui.
Per questo il quadro non va rifinito, accomodato, non va dal difuori
condotto a divenire bello. Dipingere un quadro non vuol dire fare la
toilette a una tela. Ma il quadro deve nascere dal mio operare, dal
calore che lo provoca, dall’urto creato dal mio gesto che pur
manifestandosi è ancora interno. Ancora interno perché non
staccato dal movimento profondo che lo genera e non cessa di
alimentarlo. Un quadro non è altro che noi stessi che facciamo un
quadro, che agiamo nel desiderio di farlo nascere. Un quadro è un
sasso lanciato, messo in moto dal gesto e identico al desiderio di
direzione, di mira, di effetto. Ma un quadro non è, come si dice, in
definitiva, l’effetto. Il quadro, come uno specchio, rimane rivolto
all’uomo che lo dipinge: lo rappresenta nel suo momento creativo. Il
quadro è come la configurazione della fenomenologia creativa. Non
è una finestra aperta sullo spettacolo visivo, ma uno specchio
del’azione vitale dell’artista.
Roma, agosto 1957
Quale è lo scopo di tutto questo? Cercare se stesso, il vero se
stesso? Fare qualcosa che serva spiritualmente a qualcuno? Fare
qualcosa che serva a te nel momento del lavoro? Manifestare,
affermare la propria esistenza nell’atto gratuito del fare artistico,
nella convenzione più gratuita e mentale? Certo molto di questo e
altre cose indefinibili. Ma nemmeno lo scopo va ricercato:_ occorre
fondarsi sulla mera situazione di fatto. Dipingere vuol dire per un
pittore compiere un atto supremo e insostituibile; non potere fare a
meno di farlo; morire il giorno in cui uno ne fosse privato. La cosa
non deve servire a nessuno: nessun oblio, nessun impegno che
non sia interiore, nessuna scadenza, nessuna borsa di valori. Chi
potrà mai ridarmi la vita che io impegno e consacro alla pittura?
Chi potrà mai stabilire il mio valore per me stesso? Che senso reale
potrà aver mai qualunque riabilitazione o condanna postuma,
qualunque oscillazione di giudizio, qualunque successo o
insuccesso, gloria o esecrazione, dopo che i quadri sono stati
dipinti? E che cosa ha mai fatto dipingere un quadro concreto se
non l’atto eroe e inconsapevole di chi ha fondato magari nuove
leggi alla cieca col solo sistema possibile e concesso che è quello
di seguire se stessi? Opporsi alle leggi stilistiche vigenti non può
essere un atto di calcolo, né un calcolo storico di probabilità. I dadi
che ruzzolano e che possono dare coppie di co0mbinazioni nella
misura del dodici sono soltanto i dadi del manierismo, dello stilismo
dell’eclettismo. Dal già cognito, piccoli salti verso una piccola
aggregazione probabile. Giuoco sempre ridotto di prevedibili
combinazioni. Fondere il colorito di Tiziano al rilievo di
Michelangelo. Intridere la linea di Pollock con la materia di De
Kooning. Siamo sempre daccapo. Bisogna dipingere ignorando
tutto, persino la propria vaga situazione nella società grande o
piccola in cui ci troviamo collocati per caso. Lavorare in una infanzia
perpetua, in un appartamento disordinato e silenzioso dove i grandi
non torneranno mai più. Sono partiti per sempre, lasciando la luce
accesa in tutte le stanze.
(Testo tratto da: Toti Scialoia, Giornale di pittura, Editori riuniti, Roma 1991)
Ettore Sottsass
Il cimitero di Hoctun
Quando viaggio in posti lontani vado quasi sempre a vedere i
cimiteri. Per salutare i morti che non conosco.
I cimiteri sono disegnati dai vivi per proteggere i morti ma anche per
proteggere in qualche modo se stessi dalla grande oscurità.
Malgrado le promesse delle varie religioni, qualcuno che non si fida
abbastanza si porta dietro nella tomba un po’ di denaro stampato
apposta in oro su cartoncino rosso o si porta dietro, di cartoncino
rosso, la casetta che non ha mai avuto. Così fanno i cinesi. Il
costume di portarsi nella tomba il necessario per un’altra vita, forse
migliore, è molto molto antico: una regina sumera Pu-Abi si è
portata dietro le sue carrozze con i cavalli, le giovani cameriere, i
musici e la guardia del corpo, tutti, sembra, avvelenati per
l’occasione.
Sulla strada del mare, a Merida, vicino a Hoctun, nello Yucatan, ho
visto un piccolo cimitero di campagna. Sembrava una città felice, la
città dei morti felici. In quel posto i vivi hanno disegnato per i loro
morti la città che loro, vivi, immaginano e non hanno mai avuto. Una
città con belle case grandi e piccole di tutti i colori, alte e basse,
forse una altissima come l’Empire State Building. Tutte protette da
tanti croci, tutte protette da qualche santo o angelo o amico o da
qualche portafortuna fatto in casa. Tutte decorate con fiori, forse
dipinti dalla moglie. Tutte per una vita migliore nell’aldilà.
I vivi non hanno consegnato ai loro morti l’abituale paura di qualche
tribunale implacabile. Hanno consegnato la speranza di una città
felice, una città che i vivi non hanno mai conosciuto.
(Testo tratto da Foto dal finestrino, Adelphi, Milano 2009)
Leonardo Rosa
Cenere di cielo
Ricomincio.
Voglio conoscere il materiale carbone e disegnare corpi
A grandezza naturale.
Non cerco idee ma l’emozione di avere davanti un foglio
Più alto di me e misurarmi con l’ampiezza del gesto.
Ora dopo gli anni del torpore della pausa di riflessione.
Struscio la carta lentamente per riprendere contatto
Poi aumento il ritmo senza interruzioni
La mano è un cane senza guinzaglio
Mani d’aria che pesano sul carbone lo polverizzano
L’asticciola di carboncino è il sesto dito
Adopero una lisa maglietta di cotone e tampono
Schiaffeggio cancello lo straccio è la terza mano
Le unghiate al velo di pigmento sono graffi di luce
Inumidisco una pennellessa consumata sui muri
E un pennello da barba spelato
Per ottenere sbaffi schizzi sbavature
Guardo e non vedo partecipo al gioco
non è tempo di domande
rincorro le mani che mi vogliono scattante
per non perdere un segno la macchia un chiarore
ora le mani sembrano disorientate nell’arruffio rallentano
hanno difficoltà a muoversi tra sgorbi e screziature
poi si fermano sgomente per ciò che appare fra neri sminuzzoli
Il caos grigio ha generato una forma feminea
il grande foglio è pelle arcaica
Le mani si accasciano sgravate
**
Incendi,
il bosco è fuoco di fascina
si squarcìa il ventre degli antichi ulivi
gorghi di fiamme scricchi sussulti
Bocche di forni che non daranno pane
deflagrazioni di animali lezzi di pelle strinata
terra scolata anche l’aria brucia
Cenere di cielo
Ho visto la resa degli alberi, braccia aperte come crocefissi
tronchi umani di carbone
l’erba del giorno dopo è calda neve grigia
il prato è una pagina di segni neri
Testamento del bosco
Una trafittura e la voce interiore ha detto è il momento
di ricominciare da ciò che resta e non ha colore
dipinge il silenzio
Non userò la tela ma povera carta
se un giorno brucerà sarà cenere di cenere
(1980)
(Testo tratto da Blu al quadrato – romanzo quasi, Campanotto, Pasian del Prato, 2009)
Enzo Fabbrucci
Oltrepassare un limite
Crea sgomento pensare l’infinito.
Meglio, come nella straordinaria poesia di Leopardi, creare un misto
di sgomento e dolcezza… perché da un lato ci si scopre
piccolissimi e persi, e dall’altro parti inevitabili dell’immensità.
Mi affascina tuttavia il meccanismo di pensiero che nella mente
del’uomo il termine ingenera. È un meccanismo che mi pare simile
a quello che si ingenera quando si cerca di rappresentarsi l’attimo
presente: quello di un dato continuamente reso inerte…un termine
catturato sempre nell’attimo di essere annullato: oltrepassato.
Anche qui la vecchia ambiguità: lo sgomento prometeico dell’essere
costretti e abbandonati a un’operazione impossibile e impervia, e la
dolcezza dell’amare che ci ha costretti a questa pena che tutto
sommato ci lega al mondo attraverso un operare che in quanto
inesauribile non può avere fine e ci occuperà domani, e domani
l’altro, e poi per sempre, per ogni giorno della nostra vita.
**
…Una persona che, in una notte serena, si mette a guardare la
luna e le stelle una cosa non può fare a meno di pensare: perché le
percepiamo malcerte, così vaghe… (Se si è provato a guardare la
luna anche con l’ausilio di un semplice cannocchiale ci si accorge di
come appaia diversa: più nitida, più vera, insomma un’altra cosa
rispetto al guardarla a occhio nudo…)
La ricerca scientifica in fin dei conti è solo un’operazione che si
serve di uno stratagemma per oltrepassare un limite, per forzare un
vero. Un’operazione essenzialmente perversa, contro natura.
Non a caso i due miti che, a mio avviso, danno atto meglio di tutti di
questo operare umano sono quelli di Prometeo, punito perché ruba
il fuoco agli dèi, e quello dell’Ulisse dantesco, che prima espugna
Troia e poi oltrepassa le Colonne d’Ercole.
Prometeo e Ulisse sono destinati a finire male, molto male.
Ecco: io penso che se vogliamo comprendere il fenomeno della
scienza nelle sue più profonde implicazioni, nelle sue più geniali
scoperte, non dovremmo scordare quel che essenzialmente è: un
operare contro la morale e contro la natura.
(Testo tratto da: Enzo Fabbrucci, Pensieri attorno ai numeri e alla vita,
Edizioni Bacacay, 1998)
“Quaderno” numero 7 – LA FOCE E LA SORGENTE seconda serie -
La dimora del Tempo sospeso, 15 GIUGNO 2019