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Carmelo Intrisano La creazione di valore nelle banche ARACNE

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Carmelo Intrisano

La creazionedi valore

nelle banche

ARACNE

Copyright © MMVARACNE editrice S.r.l.

[email protected]

via Raffaele Garofalo, 133 A/B00173 Roma

(06) 93781065

ISBN 88–548–0087–2

I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,di riproduzione e di adattamento anche parziale,

con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

Non sono assolutamente consentite le fotocopiesenza il permesso scritto dell’Editore.

I edizione: maggio 2005

A mia madre

Non c’è causa d’errore più frequente che la ricerca della verità assoluta.

Samuel Butler

Indice

Prefazione 11 Introduzione 17 1. La creazione di valore: governo e rischio nell’azienda bancaria 21 1.1 Dal valore del bene al valore dell’azienda bancaria 21 1.2 Il Value Based Management 31 1.3 La corporate governance nelle aziende bancarie e la creazione di

valore 43

1.4 Il rischio nella creazione di valore 56 1.5 Le operazioni di finanza straordinaria ed il valore 70 2. Metodi di misurazione della creazione di valore 93 2.1 I metodi contabili 93 2.2 I metodi basati sul Discount Cash Flow 103 2.2.1 Premessa 103 2.2.2 Il metodo DCF per la stima della creazione di valore 105 2.3 Il metodo EVA® 117 2.3.1 Premessa 117 2.3.2 Le correzioni nell’ EVA® come misuratore di performance 119 2.3.3 Il costo del capitale 133 2.3.4 Il costo del debito e la struttura per scadenza dei tassi di interesse 167 2.3.5 Il Market Value Added (MVA) 174 3. La creazione di valore delle banche quotate nel triennio 1999-2001 181 3.1 Il campione d’indagine e la metodologia utilizzata 181 3.2 I risultati dell’ indagine 185 Appendice: La misurazione dei beta delle banche quotate 215 Bibliografia 227

Prefazione Pochi temi sono più cari all'analisi economico-manageriale di

quelli del valore e della sua creazione nella gestione d'impresa. Il valore è il nucleo concettuale attorno al quale gravita l'intera riflessione economica, poiché è nel nome della ricerca e generazione di valore che trovano giustificazione le iniziative economiche, le strategie e le politiche aziendali e, in definitiva, tutte le attività d'impresa.

Il concetto di valore e la sua centralità nel pensiero aziendale moderno traspaiono già nel fondante insegnamento zappiano, laddove l'idea stessa di valore è distinta da quella di reddito o risultato economico-contabile di periodo e viene eletta a manifestazione complessiva e sistematica dell'attività aziendale. È noto, tuttavia, che il padre del metodo reddituale abbia assunto il risultato di periodo come indicatore generale dell'efficienza ed operatività aziendale, non addivenendo ad una concettualizzazione compiuta del ruolo del valore nell'orientamento dell'azione di governo del sistema d'impresa.

L'esigenza di interpretare le traiettorie evolutive del sistema impresa in chiave di creazione non semplicemente di reddito, bensì di valore sorge nel momento in cui matura, nella consapevolezza degli studiosi e degli operatori d'impresa, l'inadeguatezza o, quantomeno, l'insufficienza del «Profitto» tradizionalmente inteso ad indirizzare le decisioni d'impresa. In altre parole, la «scoperta» del valore inizia con il tramonto della fiducia nella capacità del profitto di spiegare, misurare e garantire la vitalità e durevolezza del sistema impresa.

Infatti, mentre il reddito di periodo risulta essere un'indicazione convenzionale dell'esercizio, del funzionamento aziendale nel breve periodo, privo di un esplicito riferimento al rischio sotteso alle iniziative poste in essere dall'organo di governo d'impresa, il valore è espressione compiuta dei risultati aziendali, tenuto conto del grado di rischio loro associato. Alla luce di questa distinzione, emergono almeno due importanti considerazioni intorno all'importanza della nozione di valore negli studi economico-manageriali.

La prima concerne il fatto che il tradizionale concetto di profitto aziendale non è, di per sé, idoneo a consentire comparazioni tra

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Prefazione 12

organizzazioni aziendali diverse, se non nel breve orizzonte temporale dell'esercizio annuale (o infrannuale), giacché tale grandezza non sconta la valutazione del rischio connesso alle diverse azioni alla base della sua formazione. La seconda consiste nell'evidenza per cui un'azienda sana e vitale potrebbe essere ritenuta quella caratterizzata da un profitto non particolarmente elevato: ciò in virtù del motivo che l'obiettivo di fondo dell'azione di governo dell'impresa consiste, realisticamente, non nella massimizzazione del reddito d'esercizio, ossia del rendimento di breve periodo, ma piuttosto nella scelta del miglior compromesso tra risultati economici e rischiosità.

Ecco quindi che l'orientamento al valore implica un cambiamento culturale, prima ancora che metodologico, del management aziendale e dei principali sovrasistemi, primo fra tutti quello della proprietà. Infatti, la generazione di valore risiede appunto nella ricerca di risultati - quantificabili in termini economico-finanziari - espressivi dell'attitudine dell'impresa a perdurare nel tempo, a sopravvivere in condizioni di rischio determinate e «sostenibili».

Il valore è, in definitiva, la migliore misurazione del grado di vitalità del sistema d'impresa e palesa la consapevole scelta dell'organo di governo dell'impresa di una determinata combinazione tra rischio e rendimento delle attività aziendali complessivamente intese.

Quando si pensa al valore nell'ambito della dinamica aziendale, non si può non fare riferimento al pensiero ed al contributo critico di Modigliani e Miller, i padri della «Moderna teoria della finanza di impresa», ai quali va riconosciuto il primato nella concezione del valore ed il merito di aver dimostrato, compiutamente e per la prima volta, quanto distorsive possano essere le misure di performance aziendali basate su indicatori di natura strettamente contabile e come le imprese possono produrre utili contabili e, nel contempo, distruggere valore societario. È dall'insegnamento dei moderni teorici della finanza aziendale che discendono importanti avanzamenti nella concettualizzazione del valore e nello studio dei comportamenti e degli orientamenti aziendali: in particolare, è grazie a Modigliani e Miller che si torna - nuovamente e sotto una nuova luce - a parlare dei rapporti tra economia e finanza, riaffermando, in un certo qual modo, il primato della prima sulla seconda, attraverso due importanti assunti.

Prefazione 13

Il primo statuisce che l'attitudine dell'impresa a creare valore non dipende fondamentalmente dalle strategie finanziarie o dai risultati contabili di periodo, bensì dalla capacità dell'organo di governo d'impresa di selezionare investimenti di capitale che rendono più di quanto costano, ossia che abbiano una produttività tecnica ed economica superiore alle richieste di remunerazione degli apportatori di capitale a vario titolo. Il secondo, strettamente collegato al primo, afferma che - di per sé - la struttura finanziaria non crea valore, anzi è assolutamente indifferente ai fini della generazione di valore: quindi, è soltanto in presenza del prelievo fiscale, che la leva dell'indebitamento assume una qualche rilevanza ai fini della formazione del valore; rilevanza che non diventa comunque mai assorbente, cioè non deve prevaricare ed oscurare l'attenzione del decisore aziendale alla validità tecnica, produttiva e di mercato della coordinazione economica espressa dall'impresa governata.

É all'insegna di questi capisaldi della moderna teoria aziendale che, negli ultimi cinquant'anni circa, si è svolto, sviluppato ed ulteriormente articolato l'ormai ampio e consistente dibattito sul valore e sulla generazione di valore nelle imprese, giungendo a proposte metodologiche e pragmatiche assai variegate e più o meno sofisticate. In ogni caso, tuttavia, la modellistica introdotta ed affermatasi tra gli operatori di impresa nei decenni a noi più vicini è interamente figlia delle pionieristiche intuizioni zappiane e della seminale lezione di Modigliani-Miller, nel cui alveo quella deve essere ricondotta e concepita. In questo senso, l'attuale enfasi di studiosi ed operatori sul V.B.M. (Value Based Management) deve essere interpretata, non semplicemente come l'ennesima concessione alle tendenze ed agli stimoli culturali d'oltreoceano, bensì, principalmente, come la manifestazione di una crescente consapevolezza e diffusione degli stilemi del valore e delle sue concrete ripercussioni a livello direzionale e gestionale.

Il lavoro di Carmelo Intrisano, cui la presente prefazione prelude, si inserisce in questo filone di studi ed analisi segnalandosi per la sua coerente impostazione e per l'interessante scelta di riferimento all'ambito bancario e, più in particolare, a quello italiano. L'opera si qualifica, quindi, come un elaborato che mira a

Prefazione 14

divulgare la moderna «filosofia del valore», indagandola sotto una peculiare e specifica prospettiva applidativa: in ciò, essa favorisce l'evidenziazione della trasversalità ed universalità del concetto di creazione di valore e la sua idoneità ad essere adottata ed implementata in qualsiasi ambito aziendale, insomma con una applicabilità a trecentossessanta gradi.

In merito al versante dei contenuti e della trattazione offerta dal volume presentato, giova constatare che l'Autore, attraverso un percorso di approfondimento coerente e progressivo, richiama ed analizza i fondamenti concettuali della teoria del valore aziendale, ponendoli successivamente in relazione a tematiche fortemente interrelate con quella del valore, quali il rischio, l'assetto dei poteri tra proprietà, management ed altri stakeholder (corporate governance) e quelle modificazioni strutturali d'impresa tradizionalmente qualificabili come «operazioni di finanza straordinaria».

A tale primario livello di illustrazione, segue un'ampia ed articolata esposizione degli strumenti e delle proposte metodologiche offerte dalle migliori prassi e dottrina ai fini della misurazione del valore e della sua creazione nell'ambito dell'azione di governo dell'impresa: è in tale sezione, che si presentano - in sostanza - le questioni alla base dell'annoso dibattito sulla scelta dei più efficaci driver di rilevazione del valore, sulla contrapposizione tra metodi reddituali e metodi finanziari, nonché sull'effettiva innovatività ed originalità dell'ormai affermato e diffuso modello dell’ Economic Value Added (E.V.A.).

Con specifico riguardo al versante della particolare prospettiva settoriale e territoriale assunta a riferimento, la conduzione di una riflessione ed analisi empirica, per il triennio 1999-2001, sul comparto delle imprese bancarie italiane quotate sui mercati finanziari regolamentati sembra essere una scelta non priva di motivi di interesse ed attuali.

Quello bancario-assicurativo è, infatti, un settore che negli ultimi decenni - in particolare dall'emanazione del Testo Unico Bancario (T.U.B.) e dalla connessa liberalizzazione - ha conosciuto una significativa dinamica evolutiva e trasformativa, manifestando, con evidenza, l'esigenza di un nuovo orientamento dell'azione di governo espressa dagli operatori creditizi; orientamento che sia coerente con i

Prefazione 15

nuovi indirizzi regolamentari e, soprattutto, con le tendenze evolutive dei mercati di riferimento.

Peraltro, le imprese finanziarie sono tipicamente una tipologia di impresa in cui l'adozione dell'approccio e dell'orientamento alla creazione di valore può trovare, a prima vista, difficoltà e complicazioni, trattandosi di imprese di servizi, con un'attività tipica e focalizzata sulla dinamica delle risorse finanziarie con vincolo di restituzione.

Sul punto, inoltre, interviene - sovrapponendo alla logica squisitamente economico-manageriale - la pluralità degli interessi di natura pubblica e collettiva che da sempre si proiettano sull'attività bancaria e parabancaria sotto forma di normative per la tutela del risparmio e la stabilità del sistema economico generale.

Infine, alla difficoltà - che rafforza, anziché indebolire, la consapevolezza di un costante riferimento al valore nella conduzione delle iniziative imprenditoriali - di misurare la generazione di valore nelle imprese bancarie contribuisce anche la natura, il funzionamento e l'efficienza dei mercati finanziari: su questo punto, infatti, dal lavoro in commento emerge una certa divaricazione tra la misurazione del valore riconosciuta dal mercato degli investitori e quella derivati dall'applicazione di modelli e metodi propri della gestione aziendale.

È, questo divario, espressione dell'ineliminabile ed innegabile relatività e soggettività di qualsiasi tentativo di misurazione e quantificazione del valore aziendale, le quali sono il frutto delle diverse prospettive di osservazione e della complessità percepita dallo specifico soggetto interessato alla conoscenza di tale valore.

Tuttavia, sia pure astrattamente e tendenzialmente, è compito dell'organo di governo dell'impresa auspicare e ricercare la minimizzazione dei fattori e delle cause alla base della suddetta divaricazione tra le diverse misurazioni del valore dell'impresa, allo scopo di favorire la massima trasparenza informativa per i diversi sovrasistemi di riferimento, sostenere la fiducia - risorsa fondamentale del sistema economico complessivo - e promuovere la migliore condizione di impiego e remunerazione dei capitali investiti nell'iniziativa imprenditoriale governata.

Prefazione 16

Ecco, dunque, che il consolidamento e l'avanzamento degli studi nella gestione aziendale secondo il principio della generazione di valore si qualificano come un movente meritevole per gli studi economico manageriali ed una prospettiva irrinunciabile per gli operatori d'impresa operanti in organizzazioni aziendali di qualsiasi settore e di qualunque nazione e dimensione.

Dipartimento Impresa e Lavoro Teresiano Scafarto Cassino, Università degli Studi

Introduzione Le profonde trasformazioni che il sistema bancario italiano ha

vissuto a partire dalla fine degli anni ottanta sono all'origine dell'enfasi assunta via via dalla remunerazione del capitale proprio, concepita sempre di più come una priorità nel governo dell'impresa.

Fino alla Legge Amato, il nostro mercato del credito è stato caratterizzato dalla coesistenza di banche a soggetto economico pubblico e di banche a soggetto economico privato, con una predominanza delle prime sulle seconde.

Il prevalente assetto pubblico ha frenato per lungo tempo lo sviluppo delle aziende bancarie, isolandole rispetto agli altri settori produttivi, più sensibili alle tecniche gestionali improntate alla ricerca dell'efficienza.

L'ottimizzazione delle scelte di produzione, la ricerca della performance, la creazione di valore per gli azionisti rappresentano, infatti, logiche manageriali ben lontane dalle impostazioni di governo su cui si basano gran parte delle aziende pubbliche che, essendo per definizione orientate verso finalità sociali, spesso si dimostrano poco attente alla massimizzazione dell'efficienza aziendale.

Gran parte delle banche, hanno mantenuto per anni livelli occupazionali sproporzionati rispetto alle effettive esigenze gestionali, impiegando le disponibilità finanziarie loro affidate in asset scarsamente profittevoli ed emarginandosi viepiù nei livelli inferiori della competitività europea1.

Con la progressiva liberalizzazione della normativa bancaria e la crescente sensibilizzazione al rispetto della normativa comunitaria, negli anni novanta lo scenario, come detto, si è modificato: il nostro sistema del credito, divenendo più concorrenziale, ha spinto le banche a recuperare in termini di redditività, anche con specifici interventi legislativi, volti alla privatizzazione del settore.

Nascono nuovi assetti proprietari che, andando a sostituire quelli precedenti, prevalentemente pubblici, portano a rivedere, anzitutto, la posizione nei confronti del capitale proprio. Venendo meno gli 1 R. RUOZI, , Economia e gestione della banca, Egea, Milano 1997, p. 23.

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Introduzione 18

obiettivi sociali o mutualistici, che hanno nel passato caratterizzato gran parte delle strategie aziendali, tende ad affermarsi la congrua remunerazione del capitale investito, anche grazie alla funzione obiettivo degli azionisti che, in ragione delle maggiori possibilità offerte dai mercati finanziari, privilegia sempre più investimenti in grado di assicurare rendimenti congrui rispetto ai rischi assunti.

In questa nuova veste, il capitale proprio delle aziende bancarie comincia ad acquisire la caratteristica tipica dell'equity delle altre imprese, vale a dire di risorsa critica condizionante le scelte decisionali dell'organo di governo. Cresce la sua dimensione strategica, in quanto variabile capace di pregiudicare la crescita dimensionale e la valenza competitiva dell'azienda.

In sostanza, l'equity delle banche perde i tradizionali connotati di vincolo da rispettare, perché fissato dall'autorità di vigilanza, per assumere, invece, le caratteristiche di mezzo volto alla creazione di valore.

Per accelerare questo processo di trasformazione e tradurlo in sistematici comportamenti gestionali, è tuttavia necessario un ulteriore passo in avanti da parte dell'autorità di vigilanza, chiamata ad allargare le possibilità di impiego del capitale a forme allocative di firm specific.

Da parte delle imprese, è invece indispensabile un radicale cambiamento nelle azioni manageriali, teso ad un vero e proprio recupero di competitività.

A tal fine, non è sufficiente agire sulla leva dei prezzi perché ciò, laddove non sia concepito nell'ambito di una strategia di valore ben definita, può addirittura causare la perdita di quote di mercato, né tanto meno operare sui margini, con l'assunzione di maggiori rischi, perché si incorrerebbe in un aggravamento del fabbisogno, di,mezzi,propri.

E' altresì necessaria una «rivoluzione» nella cultura bancaria che poggi su una logica gestionale maggiormente proiettata al valore, nella quale il criterio guida della massimizzazione del profitto viene sostituito dal principio della creazione di ricchezza per gli azionisti.

Secondo questa impostazione, il «tempo» riveste un'importanza maggiore, con la prospettiva che passa dal breve al medio e lungo termine. «Traguardando – infatti - gli effetti delle varie scelte su più

Introduzione 19

esercizi» si evita che «scelte di breve – compiute nella logica di massimizzare il profitto d’esercizio – non compromettano la competitività ed i profitti futuri» 2.

Nel contempo, l'organo di governo dell'impresa bancaria, al pari delle altre aziende, è tenuto a informare in modo sistematico gli azionisti sull'effettivo valore creato, che non si identifica con il mero reddito di periodo ma interessa diversi aspetti che, pur non trattati contabilmente, sono comunque forieri di «ricchezza» qual è, ad esempio, il know-how aziendale3.

Da qui nasce l’esigenza di mutuare al sistema bancario quei criteri di valutazione che, nelle altre realtà aziendali, hanno mostrato una maggiore capacità informativa rispetto agli approcci tradizionali.

Tra questi, l'Economic Value Added (EVA®) si è imposto più degli altri, quale migliore proxy per apprezzare il valore dell’azienda bancaria.

I vantaggi che esso incorpora, come dimostrato in diversi studi, non si esauriscono nella «semplice» misurazione del valore creato ma coinvolgono l'intera struttura. Ogni singolo momento aziendale viene modificato, misurato e incentivato mediante l’EVA® ; inoltre, ciascun componente del sistema impresa, a prescindere dal ruolo svolto, percepisce come proprio l'obiettivo della massimizzazione del valore.

In breve, rispetto ai tradizionali modelli teorici di valutazione, l’EVA non si limita a spiegare il funzionamento dei mercati mediante ipotesi della complessità gestionale, talora anche eccessivamente riduttive, ma va oltre, fornendo «linee guida e strumentario metodologico di supporto, idonei a porre il concreto comportamento delle imprese su una base di razionalità coerente con le attese dei mercati» 4.

In quest’ottica si pone il presente lavoro che affronta i molteplici problemi attinenti alla creazione di valore nelle imprese bancarie.

Ad una sintesi introduttiva sul «valore», segue, nel primo capitolo, la trattazione del governo e del rischio, con particolare riferimento al 2 C. DEMATTE’, I limiti della teoria del valore, in La Valutazione delle Aziende, n. 5, 1997, p. 73. 3 Ibidem. 4 E. PARAVANI, F. SANTORUM, La gestione bancaria orientata al valore: indicatori, verifiche, metodologie d'applicazione, in "Bancaria", n. 9, 2001, p. 42.

Introduzione 20

Value Based Management (VBM), da un lato, e alle relazioni emergenti tra corporate governance e generazione di ricchezza per gli azionisti, dall’altro. Il VBM è analizzato nella sua accezione di processo mirato alla definizione delle leve utili ai fini del «valore», sulla base degli aspetti normalmente qualificanti l’operatività di un’azienda bancaria.

Al pari, la corporate governance è esaminata nel contesto dei modelli organizzativi specifici dele banche, con il preciso obiettivo di identificare gli effetti che la struttura proprietaria è in grado di esplicare sul processo di formazione di ricchezza per gli shareholder.

In questo ambito, il lavoro approfondisce le implicazioni sul «valore», derivanti dai rapporti tra compagine societaria e management, soprattutto quando l’azienda bancaria, a fronte del rischio di comportamenti manageriali incoerenti rispetto alle finalità degli azionisti, si espone ad agency costs.

Sempre nel primo capitolo, lo studio prende in esame sia i condizionamenti prodotti dalle diverse forme di rischio sulla performance aziendale, per quanto riguarda, in particolare, l’esatto dimensionamento del «capitale allocato», sia il contributo che le operazioni di finanza straordinaria possono fornire sul valore generabile per via esterna.

La restante parte del lavoro è dedicata, quindi, ai metodi di misurazione del valore, dagli strumenti tradizionali, rappresentati dal Return On Equity e dal Return On Assets, alle metodologie di più recente diffusione, quali il Discounted Cash Flow e l’Economic Value Added. Di ciascuno sono proposte specifiche configurazioni, ritenute maggiormente idonee per la determinazioni in parola, considerando le peculiarità dell’azienda bancaria.

Mediante l’indagine empirica, contenuta nell’ultimo capitolo, si accerta, infine, la correlazione tra tali metodi e l’evoluzione del «valore» insita nel Market Value Added.

In proposito, i risultati dimostrano che nessuna delle metodologie normalmente impiegate nell’apprezzamento delle performance aziendali può essere assunta a proxy adeguata della capitalizzazione di borsa, a conferma che il valore di mercato delle banche quotate dipende da più variabili, solo in parte collegate alla gestione aziendale.

1. Creazione di valore: governo e rischio nell’azienda bancaria

1.1. Dal valore del bene al valore dell’azienda bancaria Il valore delle banche, al pari delle altre imprese, dipende dal

valore di ogni singolo bene, materiale ed immateriale, presente al suo interno. Esso, tuttavia, non costituisce semplicemente una somma di valori ma rappresenta anche il risultato del grado di coordinazione fra le diverse componenti dell'impresa. Per tale motivo, si può affermare che le principali fonti del valore sono gli asset aziendali, considerati non in maniera isolata ma come componenti di un insieme coordinato per il raggiungimento di uno stesso obiettivo.

Il valore dell’asset, spesso, diverge dalla misura indicata dai prospetti di bilancio, sia perché inclusivo di elementi che non sempre hanno un riscontro contabile sia perché condizionato dalla soggettività del valutatore. Non a caso, Miles definisce il valore «una qualità di una cosa che dipende da quanto essa viene ritenuta più o meno desiderabile, utile, apprezzabile o importante» 1.

In linea generale, la soggettività si riflette non soltanto sui benefici generati dal bene ma anche sui sacrifici sopportati per averne la disponibilità. Sia i primi che i secondi assumono un significato diverso per i soggetti a seconda delle condizioni di ciascuno. E' evidente, ad esempio, che il beneficio rappresentato da un bicchiere di acqua è rilevante per un naufrago mentre diventa di valore modesto per chi ne abbia ampia disponibilità. Così come il sacrificio sopportato da un indigente nel privarsi di una somma di denaro assume un'importanza notevolmente superiore al sacrificio sostenuto da un benestante per la stessa privazione.

Di riflesso, la valutazione di un bene, soprattutto se trattasi di un asset aziendale, non può limitarsi alla semplice considerazione e mera stima dei vantaggi prodotti, ma deve estendersi anche agli oneri da sostenere.

1R. MILES, Basic Business Appraisal, John Wiley & C. Inc, trad. di P. PROVENZALI, F. Angeli, Milano 1990, p. 20.

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Capitolo 1 22

Più in dettaglio, le due grandezze, benefici e sacrifici, possono combinarsi in maniera diversa: talvolta, ad esempio, un maggiore beneficio è conseguibile soltanto con un sacrificio proporzionato, per cui il grado di soddisfazione o valore complessivo rimane immutato; altre volte, invece, è realizzabile senza un ulteriore sacrificio, per cui viene raggiunto un valore di grado superiore.

Quanto sopra è rappresentabile graficamente con una famiglia di isovalori, ciascuno dei quali indica lo stesso livello di valore associato a diverse combinazioni delle due grandezze (benefici e sacrifici).

Figura 1.1 Isovalori Benefici – Sacrifici

Ben

efic

i

Sacrifici

V0

V2

V1

ISOVALO

V2 > V1

B1

B0

RI

> V0 Data una combinazione benefici-sacrifici B0/S0, per raggiungere un

beneficio B1 occorre normalmente sopportare un sacrificio S1, con uno spostamento sulla stessa curva. In alcuni casi, invece, si riesce a raggiungere B1 con lo stesso sacrificio S0, ottenendo così un valore di grado superiore, posto su una curva di livello più alto.

A livello aziendale, il passaggio da un isovalore di grado inferiore ad uno di grado maggiore, è da intepretare come creazione di valore. Le imprese, incluse le aziende bancarie, riescono infatti a generare valore nella misura in cui sono in grado di ottenere maggiori risultati

Creazione di valore: governo e rischio nell’azienda bancaria 23

operativi a parità di risorse impiegate. Per contro, la retrocessione da un isovalore di grado superiore ad uno di grado inferiore è indicativo di una distruzione di valore, in quanto l’impresa, impegnando le medesime risorse, non riesce a mantenere gli stessi risultati operativi.

Quanto sopra, tuttavia, non deve indurre alla conclusione che il valore sia il semplice risultato della somma algebrica tra i benefici ed i sacrifici. Esso è influenzato anche dal diverso timing che le due grandezze testimoniano normalmente di possedere. Considerando, infatti, la stessa relazione esistente tra utilità dei beni e disponibilità degli stessi, si può comprendere come una combinazione benefici- sacrifici assuma un valore via via inferiore mano a mano che cresce il differimento dei benefici rispetto ai sacrifici e viceversa.

Pertanto, il valore risente del grado di soggettività della stima: sia i benefici che i sacrifici, se differiti nel tempo, sono, per definizione, oggetto di previsione e condizionati dalla capacità prospettica del valutatore.

Nelle aziende, il binomio benefici-sacrifici trova una propria rappresentazione negli investimenti in quanto «operazioni di trasferimento di risorse nel tempo, caratterizzate dal prevalere di uscite monetarie nette in una prima fase, e di entrate monetarie nette in una fase successiva» 2.

I benefici coincidono, dunque, con le disponibilità monetarie che si liberano in futuro mentre i sacrifici sono rappresentate dalle risorse monetarie che, essendo state temporalmente trasferite, sono allo stato indisponibili.

Di conseguenza, visto che la soglia di convenienza dell’investimento è rappresentata dal massimo sacrificio sopportabile in relazione ai benefici conseguibili o dal minimo beneficio realizzabile considerando il sacrificio da sostenere, l'investimento è da accogliere nella misura in cui le risorse monetarie prodotte siano superiori a quelle assorbite.

Il titolo obbligazionario, ad esempio, rappresenta la tipica operazione di investimento in cui la combinazione benefici-sacrifici, assumendo, come detto, connotati monetari, coincide, da una parte,

2 G. BRUGGER, Le decisioni Finanziarie, in Trattato di Finanza Aziendale (a cura di) G. Pivato, F. Angeli, Milano 1993, p. 807.

Capitolo 1 24

con il capitale che sarà rimborsato alla scadenza aumentato delle cedole d'interesse da riscuotere periodicamente, e dall’altra con il capitale da versare per l'acquisto del titolo stesso.

Figura 1.2. Benefici - Sacrifici

area dei benefici

area dei sacrifici

B

enef

ici /

Sac

rific

i

Affinché esso sia appetibile, il prezzo di sottoscrizione (sacrificio)

deve rimanere comunque inferiore alla somma degli interessi e del capitale (beneficio), altrimenti l'investitore, portato a scegliere gli impieghi secondo la logica della creazione di valore, non troverebbe alcuna utilità ad effettuare l'investimento.

A ben vedere, il giudizio della convenienza o meno di una specifica operazione, non viene formulato soltanto sulla base della semplice somma algebrica dei flussi in entrata e in uscita ma, come detto, coinvolge anche la loro distribuzione nel tempo.

E' noto, infatti, che la rinuncia a disporre delle risorse monetarie destinate all’investimento è più o meno rilevante a seconda

Creazione di valore: governo e rischio nell’azienda bancaria 25

dell’ampiezza dell’arco di tempo di effettiva indisponibilità: privarsi, ad esempio, di 1.000 euro per un giorno rappresenta, per l’investitore, un valore notevolmente più basso rispetto a rinunciare alla stessa somma per un anno. In sostanza, il tempo, avendo un proprio valore, è in grado di influenzare la convenienza di un'operazione di investimento.

Per quanto riguarda le ragioni del valore così concepito, si può pensare, in prima approssimazione, che esso dipenda principalmente dal maggiore rischio che contraddistingue le operazioni differite. Ciò, tuttavia, nella realtà, non sempre corrisponde al vero. Nei finanziamenti, come negli investimenti, infatti, non è detto che le operazioni maggiormente rischiose siano proprio quelle con scadenza più lontana nel tempo3. L'operazione con flussi più ritardati potrebbe essere, ad esempio, quella meno rischiosa, in ragione di alcune sue caratteristiche, come la ridotta volatilità dei flussi di entrata, dovuta alla consolidata posizione che l'impresa vanta sul mercato.

La vera giustificazione del valore finanziario del tempo è dunque un’altra. Questa è rappresentata dal rendimento realizzabile impiegando le risorse disponibili, o - come sottolinea Rappaport - dal fatto che «il contante può essere investito e dare profitto» 4.

Ogni trasferimento nel tempo di risorse finanziarie implica un costo o un ricavo, collegati, rispettivamente, alla raccolta e all'impiego di risorse: quando un'impresa anticipa un flusso finanziario positivo, o posticipa un flusso in uscita, pone in essere un'operazione passiva, avente un costo pari al rendimento richiesto dai prestatori di capitale; nello stesso modo, se essa ritarda un'entrata o anticipa un’uscita, genera un'operazione attiva, con un ricavo proporzionale alla somma oggetto di anticipazione o di posticipazione 5.

L'accertamento della convenienza di un'operazione rispetto ad un'altra impone, dunque, la omogeneizzazione delle stesse, rispetto al fattore tempo per renderle, quindi, confrontabili. A tal fine, i flussi finanziari sono pesati in modo differente a seconda del momento di

3 Ivi, p. 826. 4 A. RAPPAPORT , Creating Shareholder Value. The New Standard for Business Performance, The Free Press, trad. di M. FORMAGGIO, 1990, F.Angeli, Milano 1986. 5 G. BRUGGER, op. cit., p. 827.

Capitolo 1 26

effettiva disponibilità, attribuendo un peso maggiore ai flussi più ravvicinati nel tempo.

In termini attuariali, per i diversi flussi si determinano i rispettivi equivalenti all'epoca di valutazione, applicando un tasso di attualizzazione espressivo del fattore tempo 6.

Quanto finora affermato, con riferimento al valore di un investimento, è mutuabile all’impresa, quale insieme di più investimenti.

In linea generale, ogni impresa rappresenta un impiego di risorse finalizzato all’ottenimento di disponibilità, la cui effettiva monetizzazione si appalesa in quantità e in epoche diverse. Il suo capitale, quindi, ha un valore economico che dipende dalla capacità di produrre risorse nel minor tempo possibile e in misura superiore a quante ne siano impegnate.

Quest’ultimo, in particolare, assurge a vero e proprio parametro di riferimento, tanto «che se il complesso produttivo venisse ceduto – come notato dal Fanni - qualsiasi potenziale acquirente non sarebbe disposto ad acquistarlo ad un prezzo superiore al valore di redditività»7.

La capacità del capitale di generare risorse aggiuntive va letta anche in funzione delle aspettative dei portatori di interesse: gli stakeholder, infatti, svolgono un'attenta attività di previsione mirata a configurare uno spettro di attese da associare alle diverse alternative di impiego in modo da scegliere quella più redditizia.

Perciò il capitale accresce il suo valore se la redditività effettivamente raggiunta supera quella attesa mentre lo perde o lo conserva immutato se il rendimento è rispettivamente inferiore o uguale al risultato atteso. In altre parole, «il valore del capitale è pari all'ammontare del capitale impiegato se il rendimento atteso coincide con quello dovuto al mercato, ed è invece superiore o inferiore alla somma investita se il rendimento si mostra rispettivamente superiore o inferiore a quello dovuto», il tutto, ovviamente, previa normalizzazione temporale delle grandezze considerate 8. 6FANNI M., 2000, Manuale di finanza dell'impresa, Giuffré Editore, Milano, p. 515. 7Ivi, p. 169. 8 G. DONNA, La creazione di valore nella gestione dell'impresa, Carocci Editore, Roma 1999, p. 69.

Creazione di valore: governo e rischio nell’azienda bancaria 27

Matematicamente, tale valore è esprimibile attualizzando i maggiori redditi che l'investimento è in grado di generare rispetto al costo del capitale investito, ovvero:

∑=

+

−=n

tiCR

c tttV

0)1(

avendo indicato con: ⎯ Vc il valore del capitale; ⎯ Rt i redditi attesi per i periodi 1,2,…, n; ⎯ Ct il costo del capitale impiegato; ⎯ i il tasso di attualizzazione La grandezza così definita, in quanto «valore economico», non si

presenta come un valore in sé ma piuttosto come «un valore che, sia nella sua totalità sia nelle sue parti elementari, affonda le radici nella realtà della vita economica da cui deriva ed in cui, in ultima analisi, trova il suo compimento e la sua conferma» 9.

I principali attori di questo ambiente sono i diversi stakeholder aziendali, ossia i soggetti che, contribuendo all'attività dell'impresa, rappresentano, rispetto ad essa, veri e propri portatori di interesse. Per lo più si tratta di «interlocutori scomodi», aventi finalità tra loro conflittuali: i clienti premono per ottenere servizi a condizioni per loro favorevoli, i lavoratori spingono per il miglioramento delle condizioni di lavoro e dei livelli retributivi, gli azionisti sono interessati alla massimizzazione del rendimento associato all'intervento nel capitale di rischio dell'azienda. Nel combinare questa varietà di obiettivi, limando eventuali situazioni di conflitto, si misura specificatamente la capacità dell'impresa e, in particolare, del suo management, a creare valore 10.

9V. JAKOB, O. BREDT, M. RENARD, Die Buwertung von Unternehmungen and Unternehmungsanteilen, Verlag des Schweizerischen Kaufmannischen Vereins, Zurich 1967, trad. di P.M JOVENITTI, La valutazione delle aziende, ETAS, Milano 1991, p. 36. 10 G. DONNA op. cit., p. 30.

Capitolo 1 28

Tra gli opposti interessi, quelli associati agli azionisti sembrano prevalere sugli altri. Apportando nell'impresa risorse a pieno rischio, la proprietà, più degli altri stakeholder, si espone alla variabilità degli eventi e all'incertezza della remunerazione del capitale investito.

Per il maggiore rischio assunto, gli azionisti godono, dunque, di una sorta di precedenza nella definizione delle scelte strategiche oltre che nella partecipazione al valore generato.

Sulla base di tale principio, la teoria è orientata in massima parte a riconoscere alla creazione di valore per gli azionisti il ruolo di finalità cardine di tutte le imprese, incluse, appunto, le aziende bancarie.

Si tratta del cosiddetto shareholder approach che conta negli studiosi americani i principali sostenitori 11.

Tra questi, ricordiamo Van Horne e il già citato Rappaport, teorizzatore di un vero e proprio capitalismo del valore azionario.

Secondo il primo il valore per gli azionisti è «l’obiettivo in funzione del quale devono essere prese le decisioni finanziarie di un’impresa», poiché esso costituisce l’unica «guida razionale per dirigere una azienda ed allocare efficientemente le risorse disponibili di un Paese» 12.

Per Rappaport, le scelte strategiche dell'impresa vanno valutate in relazione al vantaggio economico prodotto per gli azionisti, sia sotto forma di dividendi che di capital gain 13.

A parere di alcuni autori, la creazione di valore per gli azionisti, ed in particolare la massimizzazione del valore di mercato dei titoli, assume addirittura una valenza sociale giacché comporta implicitamente l’allocazione efficiente del risparmio.

Secondo altri, ancora, essa non pregiudica gli interessi dei portatori d’interesse diversi dagli azionisti. «L’evidenza empirica, infatti, indica - come sostenuto da Copeland - che l’accrescimento del valore per l’azionista non confligge con gli interessi a lungo termine degli altri stakeholer. Le prove sono chiare: le imprese vincenti creano valore

11 L. GUATRI, La valutazione delle aziende, EGEA, Milano 1990, p. 5. 12 J. C.VAN HORNE, Financial Management and Policy, Englewood Cliffs, Prentice Hall; trad. di CESARINI F. ONADO M., Teoria e tecnica della finanza di impresa, Il Mulino, Bologna 1984, p. 23. 13 A. RAPPAPORT, op. cit., p. 24.

Creazione di valore: governo e rischio nell’azienda bancaria 29

per tutti gli stakeholder: clienti, lavoro, pubblici amministratori e fornitori di capitali» 14.

Le posizioni della letteratura statunitense tendono, quindi, ad enfatizzare il valore per gli azionisti.

Ciò, a parere di Guatri, trova la sua spiegazione nelle peculiarità del sistema economico americano, caratterizzato da un «capitalismo» diverso da quello degli altri paesi 15.

In Europa, ad esempio, la creazione del valore ha assunto una configurazione propria: essa è stata adattata allo scenario di riferimento, condizionato dal ruolo di secondaria importanza che il mercato mobiliare svolge nel finanziamento delle imprese, soprattutto in Paesi come l’Italia, in cui il mercato azionario, debole ed imperfetto, stenta a raggiungere livelli di sviluppo adeguati ai fabbisogni di equity.

Nell'approccio europeo, la misura del valore creato viene, quindi, normalmente intesa con riferimento al valore del capitale economico anziché al valore di mercato.

Coerentemente a questa impostazione stakeholder approach, gli obiettivi degli altri portatori d’interesse, interni all’impresa, godono di una maggiore considerazione.

14T. COPELAND, T. KOLLER, J. MURRIN, Valuation, Measuring and Managing the Value of Companies, trad. di TORTORICI V., Il valore dell'impresa, Il Sole 24 Ore, Milano 1994, p. 5. 15L.GUATRI, op. cit.,p. 8.

Creazione di valore negli Stati Uniti

Valore di mercato

Creazione di valore in Europa

Valore economico

Capitolo 1 30

Il fine dell’impresa coincide, così, con le esigenze sia dei prestatori di lavoro che degli azionisti, considerato che, peraltro, è la sua stessa sopravvivenza ad imporre prioritariamente la soddisfazione di tutti gli stakeholder interni 16.

Demattè, ad esempio, confuta il principio per cui il soddisfacimento dell’interesse degli azionisti coinciderebbe con l’interesse degli altri stakeholder e qualifica lo stesso più come una «pretesa» piuttosto che il risultato di una effettiva constatazione della realtà aziendale. Nello specifico, «la teoria in questione è rivolta esclusivamente a massimizzare l’interesse degli azionisti e suppone che ciò equivalga automaticamente anche all’interesse degli altri soggetti coinvolti nella produzione», senza considerare il fatto che l’obiettivo indicato è comunque subordinato alla massimizzazione del valore aggiunto che, a sua volta, dipende da soggetti diversi dagli azionisti 17, soprattutto oggi che:

⎯ le imprese sono sempre più caratterizzate dalla netta separazione tra management aziendale, da una parte, ed azionisti, dall’altra;

⎯ l’acuirsi della concorrenza impone miglioramenti operativi che soltanto una maggiore partecipazione di tutto il personale, tramite il coinvolgimento ai risultati aziendali, riesce a garantire 18.

D'altronde, le numerose esperienze esistenti dimostrano che il ritorno per gli azionisti è tanto maggiore quanto più le aziende investono nel personale dipendente coinvolgendolo nella ripartizione dei profitti.

In conclusione, nella logica dello stakeholder approach, è necessario abbandonare il principio che la massimizzazione del valore per gli azionisti debba necessariamente basarsi sul sacrificio del valore delle risorse umane coinvolte nell’impresa, in quanto ciò indurrebbe alla distruzione del valore piuttosto che alla sua creazione 19.

16 F. AMIGONI, Il Value Based Management: i principi di fondo e gli impatti sui sistemi di pianificazione e controllo, in Finanza Marketing e Produzione 2001, p. 11. 17 C. DEMATTE’, op.cit., p.97. 18 Ibidem. 19 Ibidem.