la collusione di coppia -...
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Materiale didattico a cura della dr.ssa Jessica Lampis
Corso di Laurea in Scienze e tecniche psicologiche
Insegnamento di Psicodinamica della relazione (Modulo B)
LA COLLUSIONE DI COPPIA
Materiale didattico a cura della dr.ssa Jessica Lampis
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Dicks è stato uno dei primi autori a concepire la coppia come “soggetto terzo” che affianca gli
individui e il loro mondo interno nel momento in cui essi decidono di stare insieme, ed è stato
sicuramente il principale ispiratore di coloro che, dopo di lui, hanno centrato l’attenzione non solo
sul modo in cui le “vecchie appartenenze” influenzano in maniera più o meno rigida le nuove
appartenenze, ma anche sul progetto creativo e sui nuovi significati che accompagnano l’incontro
(Cigoli, 2006).
La coppia infatti non è statica ma in continua evoluzione; i due partner sono costantemente
impegnati in un processo di adattamento reciproco che attiva aspetti propri e dell’altro nuovi e
sconosciuti che solo in quel momento, con quel determinato partner, emergono e trasformano il
rapporto rendendo unica la relazione (Corigliano, 1999).
Tali riflessioni consentono di parlare della coppia come di una entità complessa, un sistema
dinamico dotato di aspetti specifici e peculiari che prescindono le individualità pur essendo
dall’incontro tra queste generati; è con tale “soggetto terzo”, oltre che con il partner reale e con le
rappresentazioni interne dell’altro, che ciascun membro della coppia entra in interazione e in
relazione, ed è il bisogno di questa dimensione creativa e innovativa a rappresentare una delle
motivazioni centrali alla base della formazione del legame.
L’organizzatore psichico della relazione regola la vita emotiva comune e rappresenta una sorta di
centro di gravità psicologico della coppia. Tale accordo inconscio è fatto dall’inclusione di alcune
parti del tu, dell’io e del noi e dall’esclusione di altre parti (Intesa difensiva), in modo da rendere
possibile la compatibilità, il mantenimento e lo sviluppo del legame. Tutto ciò è assolutamente
funzionale, è una forma di connivenza che fa sì che i partner estromettano in modo spesso
consapevole alcuni aspetti e processi dal funzionamento d’insieme. È funzionale fino a quando non
si irrigidisce creando delle sacche di non-pensabilità nella coppia, cisti che in ogni caso
produrranno degli effetti e verranno agite nella relazione a vari livelli (sintomi, conflitto,
violenza,…) (Monguzzi, 2006).
L’intesa tra i partner basata su questo inconscio comune viene definita collusione (Willi, 1993).
Collusione deriva da cum ludere che, oltre che giocare insieme, significa ingannare. È un gioco
fatto da due persone che si ingannano a vicenda. Si arriva alla collusione quando un partner trova
qualcuno che lo conferma nel suo falso sé, nella falsa rappresentazione che ha di se stesso (Laing,
1973).
É difficile distinguere con precisione i conflitti coniugali non nevrotici dalle collusioni nevrotiche,
ma se il superamento delle crisi è ostacolato da angosce irrazionali e meccanismi di difesa rigidi
generalmente si ha a che fare con una collusione nevrotica (Willi, 1993). I conflitti della coppia,
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infatti, si presentano come una continua variazione di un tema sempre costante, che è comune a
tutt’e due i partner e forma un inconscio comune (organizzatore psichico della relazione).
Dicks (1967) sostiene che vi siano tre grandi aree in cui i partner sono in relazione tra loro: le
aspettative reciproche coscienti su ciò che la relazione può offrire, il grado in cui tali aspettative
abbiano permesso di armonizzare le aspettative culturali di ciascuno e, infine, l’attivazione
inconscia di passate relazioni oggettuali interiorizzate patogene in ciascun partner e la reciproca
induzione di ruoli complementari a tali relazioni (collusione). Un ruolo fondamentale nella
collusione è rivestito dal meccanismo difensivo dell’identificazione proiettiva (vedi
approfondimento pag. 10), che rappresenta un processo normale nelle relazioni emotive e
costituisce una base importante per l’empatia, anche se può diventare patologico se si presenta in
modalità eccessivamente marcate e/o rigide.
In questo meccanismo difensivo si verifica una modificazione della rappresentazione dell’altro, che
viene identificato con una parte di sé stessi, spesso con gli aspetti non voluti e/o non accettati di sé,
che vengono proiettati con lo scopo di non sentirli propri. Diviene tuttavia necessario stabilire una
relazione continua con la persona oggetto delle proiezioni, per poter attaccare o controllare in lei le
proprie caratteristiche rifiutate. Lo stesso avviene quando si proietta nel partner una propria
caratteristica desiderata e/o idealizzata, per cui diviene necessario il legame con l’altro per il
bisogno inconscio di possedere quella caratteristica positiva come propria. Sandler (1993) spiega
questa compresenza simultanea di proiezione e momentanea confusione tra il sé e l’altro con
l’alternanza tra uno stato di unità e identificazione primaria da un lato e un processo di
differenziazione e di delimitazione dei confini tra sé e l’oggetto dall’altro.
La collusione difensiva corrisponde dunque ad un processo di identificazione proiettiva che non ha
avuto buon esito. È la non espressione di parti di sé non accettate e /o ritenute indesiderabili e la
loro proiezione sull’altro affinché se ne prenda cura e le metabolizzi. Nel momento in cui l’altro
non è in grado di prendersene cura e metabolizzarle ma anzi, esse attivano specularmente e in modo
complementare conflitti irrisolti, egli si appropria del ruolo proposto e se ne fa interprete,
proponendo, in un gioco di identificazioni proiettive reciproche, un copione interno speculare. Ci si
trova allora di fronte a un incastro di coppia che dà vita nel legame ad una sorta di contratto che
designa la relazione, garantisce il mantenimento dei reciproci assetti difensivi ma abbatte anche i
confini dell’Io.
La collusione è dunque un accordo inconscio tra i partner, in cui ciascuno diventa il contenitore
degli aspetti scissi e proiettati dell’altro; per questo motivo viene a costituirsi un rapporto
complementare in cui entrambi accettano di sviluppare solo le parti di sé corrispondenti ai bisogni
dell’altro, rinunciando a svilupparne altre che proiettano invece sul compagno. Si realizza un’intesa
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difensiva, in quanto vengono estromessi quei contenuti emotivi percepiti come dolorosi da entrambi
affinché sia possibile costruire e mantenere il legame. Se la relazione è funzionale, l’intesa difensiva
è flessibile, per cui si modifica in maniera conforme alle mutate esigenze, e la coppia costituisce un
ambiente con una funzione di contenimento, in grado cioè di accogliere e metabolizzare quei
contenuti psichici dolorosi esternalizzati e proiettati reciprocamente dai partner. Diventa
disfunzionale nel momento in cui contenuti psichici rilevanti vengono del tutto scissi e negati in
quanto intollerabili, e vengono a costituire uno spazio di non pensabilità nella coppia, creando la
possibilità che tali aspetti vengano inconsapevolmente agiti nella relazione (Monguzzi, 2006). Tale
incastro difensivo impedisce di vivere una reale intimità affettiva e relazionale
Queste dinamiche emergono per l’angoscia di abbandonare le modalità relazionali abituali e tradire
il modello familiare condiviso, che sebbene sia disfunzionale per entrambi, viene preferito
all’angoscia di sperimentarsi in una relazione con caratteristiche sconosciute e imprevedibili anche
se più adeguate. Questo aspetto viene definito da Seganti (1995) come “costante relazionale
negativa”, e si riferisce alla tendenza a sottostare alle attese che i partner possiedono della relazione,
che sebbene siano dolorose servono ad assicurare un senso di prevedibilità. Norsa e Zavattini
(1999) ritengono che queste dinamiche siano collegate alla coazione a ripetere, che conduce ad
agire all’interno della coppia le relazioni interne disadattive, con il fine di evacuare l’ansia e
assicurare la prevedibilità, determinando però dei costi in termini di scissioni e riduzione della
creatività relazionale. Tante soluzioni collusive dei conflitti coniugali si formano e si stabilizzano
proprio perché i partner non osano affrontare i loro processi di sviluppo e perché hanno paura di
mettere in discussione o distruggere la loro felicità iniziale.
I meccanismi di organizzazione psichica della relazione fin qui descritti sono comuni a tutte le
coppie dunque il problema è tale solo quando la relazione è organizzata prevalentemente quale
presidio difensivo. Affidare parti di sé all’altro infatti non è interpretabile necessariamente come
negativo o patologico, è però fondamentale distinguere il confine tra un affido con funzione di
sperimentazione e comprensione, che mobilita una reazione dinamica e favorisce i processi di
comunicazione, e un affido con valenze evacuative e di controllo.
Willi (1987), descrive quattro modelli di collusione inconscia tra i partner, che si organizzano
intorno a quattro tematiche che riprendono i conflitti vissuti nei confronti dei genitori nelle fasi di
sviluppo infantile. Tutte le coppie devono confrontarsi con queste dinamiche relazionali
fondamentali e trovare una soluzione favorevole per entrambi i partner.
Nelle relazioni meno funzionali si verifica un’intesa collusiva inconscia tra i partner che si articola
rigidamente intorno ad una di queste tematiche (probabilmente perché connessa agli stessi bisogni
relazionali frustrati dei due partner).
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➢ il tema del rapporto narcisistico. Implica l’idea che l’amore esista solo come “fusione
totale” e che nel rapporto di coppia i partner debbano rinunciare a se stessi per l’altro.
➢ il tema del rapporto orale. Implica l’idea che l’amore debba essere “sollecitudine reciproca”
e che nella coppia sia fondamentale occuparsi l’uno dell’altro, sostenersi, curarsi.
➢ il tema del rapporto sadico-anale. Implica l’idea che l’amore è “appartenenza reciproca
totale” e che nella coppia sia centrale il controllo e il possesso.
➢ il tema del rapporto edipico-fallico. Implica l’idea che l’amore ruoti intorno alla “conferma
maschile” e che nella coppia uno dei due partner debba confermare il potere virile dell’altro.
Ciascuna delle tematiche collusive possiede un aspetto regressivo e un aspetto progressivo,
generalmente incarnati ciascuno da un partner.
Nella collusione narcisistica l’aspetto progressivo è incarnato da colui che ha bisogno di
ammirazione e l’aspetto regressivo da colui che ammira e rinuncia a se stesso per l’altro.
Nella collusione orale l’aspetto progressivo è incarnato da colui che accudisce e quello regressivo
da colui di cui ci si prende cura.
Nella collusione sadico-anale l’aspetto regressivo è incarnato dal partner che si sottomette
passivamente all’altro e ne diventa dipendente, mentre l’aspetto progressivo da colui che ritiene che
si possa avere il partner a propria disposizione e che lo si possa manovrare a piacimento.
Nella collusione fallica la fantasia progressiva sta nell’idea che un partner debba dimostrarsi un
eroe e la l’altro, regressivamente, debba assumere il ruolo di persona fragile che si fa guidare e
difendere.
In una relazione che funziona sufficientemente bene generalmente sono presenti tutte le tematiche
(sebbene spesso sia possibile identificarne una prevalente) e i partner sperimentano in modo
flessibile, in fasi diverse del ciclo di vita o in relazione a cambiamenti relazionali e/o contestuali, sia
gli aspetti progressivi che quelli regressivi.
Questo non avviene nelle relazioni disfunzionali, caratterizzate spesso dal fatto che cui ciascun
partner sviluppa un atteggiamento difensivo unilaterale e si fissa in maniera rigida su una posizione
estrema (se prendiamo come esempio la collusione sadico anale possiamo immaginare un partner
che assume rigidamente il ruolo di colui che domina e controlla e l’altro che assume rigidamente il
ruolo di colui che si sottomette e accondiscende). Tale rigidità è dovuta anche dal fatto che ciascuno
rimuove la rappresentazione opposta e la proietta sul partner che, a sua volta, personifica nel suo
comportamento ciò che l’altro rimuove in sé. I partner sono legati da assunti fondamentali inconsci
condivisi, da un inconscio duale, contro la cui messa in discussione erigono una resistenza comune.
Tale complementarietà inconscia determinano l’attrazione reciproca e l’intensità del legame, ma è
anche la base per il conflitto diadico.
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LE CONFIGURAZIONI COLLUSIVE
La collusione narcisistica
Nella collusione narcisistica i partner condividono l’assunto che una relazione d’amore implichi
l’unione totale, la fusione e l’accordo completo.
La coppia sarà costituita da un “narcisista” che necessita di un partner che lo ammiri e idealizzi
incondizionatamente, che non avanzi esigenze proprie e si dedichi totalmente a lui (la scelta verte
spesso verso un partner considerato di valore inferiore per personalità, intelligenza, cultura o
provenienza sociale), e un “narcisista complementare” che corrisponde a queste aspettative, in
quanto possiede una scarsa autostima e complessi di inferiorità. Quest’ultimo presenta però delle
fantasie di grandezza alle quali ritiene di non poter aspirare e di cui si vergogna, alle quali risponde
difensivamente proiettando nel partner il suo sé ideale per poi identificarsi con esso (impiegando il
meccanismo di identificazione proiettiva), e trova in questo modo un sostituto idealizzato del
proprio sé. A sua volta il partner narcisista deve corrispondere a questa immagine di sé idealizzata e
alle attese di fusione del partner (che in questo modo esercita il suo dominio sull’altro), finendo per
sentirsene oppresso, e risponde difensivamente ferendo, frustrando e svalorizzando il partner per
allontanarlo. Di fatto entrambi possiedono una struttura di personalità narcisistica, e manifestano lo
stesso disturbo di base, con un sé debole e ritenuto di scarso valore, ma reagiscono con modalità
difensive differenti e complementari. Entrambi ricercano (ma allo stesso tempo rifuggono),
l’armonia originaria attraverso la fusione con l’altro, che viene perseguita attraverso la
subordinazione e l’abnegazione totale del narcisista complementare verso il narcisista.
La dinamica è “forte bisogno di essere ammirato/forte ammirazione”. Ciascuno però
inconsciamente disprezza il suo opposto, dunque pensiamo a cosa può accadere. Chi ha un forte
bisogno di ammirazione diventa intollerante nei confronti dei bisogni di fusione e della debolezza
dell’altro e lo disprezza, portando l’altro a sua volta a disprezzare la grandiosità del partner, in un
circolo vizioso senza fine.
La collusione orale
La collusione orale si basa su una fantasia condivisa di simbiosi madre-bambino e sull’assunto
fondamentale che l’amore consista nell’assistersi e prestare cure e premure al compagno, e che tali
funzioni di assistenza e cura debbano essere ripartite in maniera unilaterale tra i partner. Pertanto
esiste un accordo tacito secondo il quale uno dei partner debba assumere un ruolo “materno”, e
manifestare quindi la propria disponibilità nel prestare cura all’altro senza pretendere nulla in
cambio, mentre l’altro assume la posizione di destinatario delle sollecitudini e desidera che nella
relazione siano appagati i suoi bisogni. Le difese messe in atto sono anche in questo caso un
tentativo di autoguarigione fallimentare, in cui le aspettative di entrambi sono complementari. Il
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partner bisognoso d’aiuto regredisce per compensare o ripetere la situazione originaria con la madre,
rifiuta le proprie funzioni materne, e le proietta in modo idealizzato nel partner che deve
corrispondere alla sua immagine materna ideale. Il partner con funzione materna ha sviluppato
invece una difesa contro i propri bisogni e rivendicazioni orali e teme che il compagno possa non
aver più bisogno di lui o che rifiuti di manifestargli la sua gratitudine. Tali comportamenti si
rinforzano reciprocamente, l’atteggiamento regressivo di uno dei due e la progressione dell’altro
sono interdipendenti. Tuttavia a lungo termine risulta essere una modalità inefficace di risoluzione
del conflitto orale di base che condividono.
La collusione sadico-anale
Nella collusione sadico-anale le dinamiche che danno luogo alle varie forme difensive si
focalizzano sull’ambivalenza delle persone con carattere anale rispetto le seguenti coppie di
opposizione: attività-passività, autonomia-dipendenza, ostinazione-arrendevolezza, dominazione-
docilità, sadismo-masochismo, parsimonia-prodigalità, ordine-trasandatezza, pulizia-sporcizia.
Sono modalità attraverso cui i partner si assicurano la connessione reciproca, e si fondano
sull’assunto che la relazione avrebbe termine se entrambi si comportassero in modo libero e
autonomo. Possono essere identificate differenti forme di collusione sadico-anale.
La collusione tra dominante e dominato risulta dall’ unione tra un carattere anale attivo in una
posizione progressiva, che presenta esigenze di autonomia e dominio, ed uno passivo in posizione
regressiva, che esibisce invece dipendenza e sottomissione. Entrambi si difendono dalle angosce di
separazione, il partner attivo negandole e delegandole al partner passivo, e quest’ultimo rinunciando
allo sviluppo dell’autonomia.
La collusione sado-masochistica rappresenta un’esasperazione della relazione tra dominante e
dominato. Il sadico presenta forti angosce di impotenza e inferiorità, associati ad angoscia di
separazione e desideri di dipendenza, dai quali si difende attraverso un comportamento
sovracompensante di potenza, proiettando tali angosce sul partner ed esigendo la sua totale
dipendenza. Il masochista d’altro canto si adegua a tali richieste attraverso una docile sottomissione
e proiettando le proprie istanze aggressive non accettate sul partner.
Anche nella collusione gelosia-infedeltà, emerge il conflitto tra le aspirazioni all’autonomia e le
angosce di separazione che vengono espresse in maniera polarizzata dai partner: uno dei due agisce
l’esigenza di autonomia attraverso una relazione extraconiugale, portando l’altro a mettere in atto le
angosce di separazione in forma di gelosia e richiami alla fedeltà, che hanno la conseguenza di
esacerbare le esigenze di autonomia dell’altro. Si crea un circolo vizioso in cui i partner rinforzano
reciprocamente i loro comportamenti. A livello di dinamiche inconsce il partner che agisce i
desideri di emancipazione e cambiamento rimuove le angosce di separazione che delega all’altro, il
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quale le agisce cercando di conservare il rapporto e delega a sua volta al partner le sue fantasie di
infedeltà e i suoi desideri di indipendenza.
La collusione edipico-fallica
L’ultima forma collusiva descritta da Willi è la collusione edipico-fallica. Essa fa riferimento alla
rivalità tra i partner rispetto il cosiddetto “ruolo maschile”, che trova una sua cornice nei
mutamenti/non mutamenti sociali rispetto gli stereotipi di genere e ai ruoli di genere. In questo tipo
di collusione i partner manifestano degli atteggiamenti nevrotici riguardo ai ruoli di genere; nella
donna questi si esprimono attraverso la rimozione delle proprie tendenze maschili (l’animus di
Jung), che danno origine ad una pseudo-femminilità, e nell’uomo attraverso la rimozione delle
tendenze femminili (l’anima di Jung), che si esprimono in una pseudo-mascolinità. Nella collusione
fallica, i partner condividono una rappresentazione di coppia in cui un partner (generalmente
l’uomo) deve essere in posizione superiore e mostrarsi forte, cavalleresco, etc. e l’altro
(generalmente la donna) deve invece mostrarsi debole, bisognoso, accudente, etc.
In un primo momento una simile relazione viene idealizzata da entrambi, l’uomo è confermato nella
sua virilità dall’ immagine che la compagna proietta in lui e la donna sente protetta nelle sue
fragilità. Subentra poi il momento della delusione, derivante dal riemergere del rimosso: nell’uomo,
dei bisogni regressivi di passività e protezione, e nella donna da bisogno di affermazione e potere.
***
Questi processi, come già anticipato, non sono necessariamente disfunzionali e ciascuna coppia può
sperimentarli tutti in differenti fasi del ciclo di vita. Tutte le coppie devono confrontarsi con queste
dinamiche relazionali fondamentali e trovare una soluzione favorevole per entrambe i partner.
Ciascuno dei temi collusivi possiede infatti un aspetto progressivo ed uno regressivo e in una
relazione sana entrambi i partner dovrebbero sperimentare in maniera flessibile entrambe le
modalità (pensiamo ad esempio ad una coppia con un’organizzazione orale in cui lei “cura” e
quando ha un bimbo può stare comodamente anche in una fase regressiva e “farsi curare”).
Nelle relazioni disfunzionali si verifica invece un’intesa collusiva inconscia di natura rigidamente
difensiva intorno a una di queste tematiche (probabilmente perché ancorate a conflitti relazionali
profondi che accomunano i partner). In tali relazioni ciascun partner sviluppa un atteggiamento
difensivo unilaterale e si fissa in maniera rigida su una posizione estrema, proiettandone la
rappresentazione opposta e rimossa sul partner. Si attiva una dinamica relazionale di tipo
compensatorio e complementare in cui ciascun partner personifica attraverso i suoi agiti ciò che
l’altro rimuove da sé.
Nella collusione narcisistica, ad esempio, il partner con una bassa autostima e con un forte senso di
inferiorità può in realtà nutrire delle fantasie di grandezza di cui si vergogna. Proiettare il suo Ideale
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dell’Io sul partner per poi identificarsi con esso gli consente di nutrire le proprie fantasie attraverso
un sostituto idealizzato del proprio sé. A sua volta il partner narcisista deve corrispondere a questa
immagine di sé idealizzata e alle attese di fusione del partner finendo per sentirsene oppresso. Egli
allora proietta a sua volta quegli aspetti del sé considerati deboli e di scarso valore e risponde
difensivamente ferendo, frustrando o svalorizzando il partner per allontanarlo o allontanare i
sentimenti di inadeguatezza che ha rimosso perché troppo dolorosi.
Il partner in posizione regressiva deve confrontarsi con le sue possibilità progressive rimosse,
quindi con la capacità di sviluppare autonomia e assumersi le proprie responsabilità; il partner in
posizione progressiva deve confrontarsi con gli aspetti regressivi e accettare le sue tendenze passive
e i suoi bisogni di dipendenza.
Questi aspetti andrebbero reintegrati ma questo non sempre è possibile e questo può generare dolore,
rabbia, sofferenza, odio, disillusione e disperazione. La coppia si può allora ritrovare all’interno di
un campo di incomprensioni da cui derivano l’incapacità di gestire efficacemente i compiti
evolutivi, l’impossibilità di regolarsi reciprocamente ed emotivamente sull’altro, l’impossibilità di
gestire efficacemente il conflitto. L’impossibilità di assumere un atteggiamento flessibile e di
regolarsi sui bisogni dell’altro può mostrare con chiarezza come i partner non siano liberi e come i
loro comportamenti siano profondamente influenzati dalla dinamica diadica inconscia.
Le differenti forme di collusione descritte da Willy possono essere definite anche come scenari
interni condivisi o di inconscio condiviso. Rappresentano infatti una forma di attività psichica
congiunta della coppia che include la condivisione, da parte dei partner di rappresentazioni, difese,
fantasie, oggetti interni. Sono scenari di fantasie attinenti all’immagine che i partner hanno della
loro relazione e in generale tale fantasie attivano e fanno emrgere il conflitto quando uno dei partner
comincia a cambiare o a vivere una crisi rispetto all’assetto della relazione.
Nelle crisi profonde, date dall’intensificazione della collusione la coppia può muoversi lungo
differenti strade. Uno o entrambi i partner possono decidere di uscire dal rapporto e muoversi per
una sua risoluzione (più o meno pacifica), oppure i partner possono decidere di chiedere un aiuto
esterno, oppure la coppia più o meno consapevolmente può decidere di mantenere lo status quo, con
tutte le conseguenze sintomatiche di natura relazionale e psicologica che questo può comportare.
Una relazione diadica, ad esempio, se sottoposta a elevati livelli di stress generati da un conflitto o
all’accrescersi dell’ansia, può entrare in uno stato di instabilità per risolvere il quale può essere
coinvolto un altro soggetto.
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In questo caso i sistemi diadici tendono a formare un triangolo, che ha la funzione di smorzare e
deviare il conflitto e l’ansia della relazione su un terzo membro della famiglia (spesso un figlio).
L’inclusione di terze persone può rafforzare la posizione di uno dei due partner o lo stesso legame
di coppia. Ci sono quattro forme di triangolo nelle situazioni di conflitto collusivo:
• il rinserrarsi della coppia contro la minaccia rappresentata da una terza persona;
• la funzione di tampone e mediazione da parte della terza persona;
• il terzo come alleato unilaterale;
• la divisione dei ruoli nel rapporto coniugale triangolare (Willi, 1993).
Il più delle volte sono proprio gli stessi figli i mezzi sui quali viene trasferita la collusione. Ognuno
dei genitori può fare al bambino richieste disfunzionali e contraddittorie, considerare il bambino
come un alleato contro il coniuge, usare il bambino come un canale per far passare i messaggi
rivolti al partner, usare il bambino per attaccare il coniuge oppure usarlo come mediatore nei
conflitti col coniuge (Carta, 1996). Entrambi si contenderanno l’attenzione del figlio, trasformando
ogni rapporto con lui in una alleanza, in una coalizione, per proteggersi dai rischi collegati alla
relazione con il partner (Satir, 1964).
Un bambino catturato in una triangolazione non può scegliere, perché qualsiasi scelta farà sarà
inevitabilmente sbagliata, in quanto ha un bisogno vitale di entrambi i genitori. Si troverà incastrato
nel conflitto evitamento-evitamento che viene anche definito conflitto permanente. Il bambino
assumerà o il ruolo di capro espiatorio, o di mediatore oppure formerà una coalizione
transgenerazionale con un genitore contro l’altro. In tutti i casi sarà in preda ad angosce e sensi di
colpa molto intensi che, nei casi più estremi, possono risolversi in derive sintomatiche.
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L'identificazione Proiettiva
Nella letteratura il termine viene associato a tre processi differenti ma connessi: l'identificazione
proiettiva come meccanismo di difesa primitivo; l'identificazione proiettiva come processo di
scambio nelle interazioni precoci madre-bambino; l'identificazione proiettiva come strategia
psicoterapeutica fondamentale (Guarinelli, 2007). Il termine è stati introdotto in origine da Melanie
Klein ma sviluppato in anni successivi da Bion, che si è discostato dall’originale intuizione
kleiniana che identificava il processo come interamente intrapsichico e fantasmatizzato,
sottolineandone invece la natura interattiva. Bion associa l'identificazione proiettiva ad una
primitiva forma di comunicazione grazie alla quale il bambino comunica/proietta alla madre le
esperienze emozionali che lo sommergono (esperienze sensoriali grezze o elementi beta). La madre
“contenitore” elabora/metabolizza i “contenuti” proiettati su di lei dal bambino, si identifica con
essi comprendendoli empaticamente, e li restituisce al bambino “digeriti”, meno intensi e in una
forma per il bambino sostenibile e “pensabile” (elementi alfa).
Ogden, che ha sviluppato sistematicamente tali riflessioni, nel suo libro Projective Identification
and Psychotherapeutic Technique. (trad. it.: Identificazione proiettiva e tecnica psicoanalitica.
Roma: Astrolabio, 1994) descrive l’identificazione proiettiva articolandola in tre fasi/passaggi
(Migone, 1988).
Prima fase: la proiezione
In questa prima fase vi sarebbe il desiderio inconscio di sbarazzarsi di una parte di sé e di metterla o
proiettarla dentro qualcun altro. Ci sono due motivi fondamentali per cui si “proietta”: per liberarsi
di una parte indesiderabile del sé o per affidare a un altro una parte buona di sé in quanto si teme di
poterla danneggiare dall’interno o di non poterla esprimere se non correndo il rischio di una
disintegrazione psicologica o relazionale.
Seconda fase: la pressione interpersonale
La prima fase non ha niente di specifico e di diverso dalla proiezione intesa in senso classico mentre
la seconda e terza fase caratterizzano la identificazione proiettiva in modo specifico. La seconda
fase è caratterizzata da una "pressione interpersonale", di tipo non solo psicologico ma anche
comportamentale, attuata da colui che proietta su colui che riceve la proiezione, affinché
quest'ultimo arrivi veramente a provare quel determinato sentimento che viene proiettato. A questo
proposito la Klein parlava di "controllo" da parte di chi proietta su colui che riceve la proiezione.
Questo implica che non si può parlare di identificazione proiettiva se le due persone non
interagiscono e comunicano concretamente e sistematicamente. Deve esistere un rapporto
interpersonale stretto, intimo o di dipendenza, come quello tra madre e bambino, tra partner, tra
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paziente e terapeuta. Se le due persone non sono in contatto, allora si parla di semplice proiezione,
che, secondo Ogden, è un processo puramente "intrapsichico", che non intacca o intacca poco la
realtà (anche emotiva) dell’altro. Se però i due interagiscono a lungo insieme, le cose possono
essere molto diverse, specie se sono marito e moglie, madre e figlio, terapeuta e paziente, ecc. I
sentimenti possono essere proiettati con molta intensità e attraverso strategie comunicative verbali e
non verbali molto sottili (che aderiscono, in virtù della profonda conoscenza reciproca) alla realtà
dell’altro. Questo fa sì che in alcuni casi l’altro si convinca che il contenuto proiettato (inferiorità,
rabbia, ansia, vergogna, impotenza, depressione, senso di colpa, etc.) gli appartenga e si comporta
in modo ad esso conforme
A differenza della proiezione, l’identificazione proiettiva possiede molto di più carattere di
intrusione, di inevitabilità, o, come afferma lo stesso Ogden, di minaccia. La minaccia tipica di
quando aleggia un’atmosfera "altrimenti guai a te!" (or else!), che nasce da un disperato bisogno
che l’altro sia depositario della proiezione perché è altrimenti minacciata la sopravvivenza stessa di
colui che proietta e della relazione (Migone, 1988).
Colui che riceve la identificazione proiettiva (se è un adulto) però si può trovare ad un certo punto a
intuire che, pur identificandosi profondamente con essi, però quei sentimenti, emozioni o idee non
sono sue ma di qualcun altro. Questo può dare l’avvio alla parte “curativa” della terza fase.
Terza fase: la reinternalizzazione
Quest’ultima fase è relativa alla possibilità dell’identificazione proiettiva di agire in senso
trasformativo oppure di far rimanere la relazione tra colui che proietta e colui che riceve la
proiezione nella fase due (escalation negativa).
Viene definita reinternalizzazione in quanto il contenuto proiettato torna a colui che
precedentemente se ne è liberato. La forma in cui questo contenuto viene reinternalizzato però
dipende dal ruolo agito dal contenitore della proiezione.
1- Chi riceve la proiezione infatti può identificarsi profondamente con essa, confermandola. Ad
esempio l’altro proietta su di me la sua rabbia negata, io accetto l’identificazione proiettiva
dell’altro, sto al gioco dell’altro e mi prendo la sua rabbia facendola diventare mia. Mi
comporto in modo sempre più aggressivo e in questo modo non faccio altro che rinforzare
l’altro nella sua idea che io sono una persona “cattiva” (continuando a far sì che lui neghi la
sua rabbia e non la elabori).
2- Chi riceve la proiezione, pur identificandosi profondamente con essa e proprio in virtù di
questo, può assumerla su di sé per un po', comprenderla, contenerla "digerendola" o
"metabolizzandola", per poi restituirla all’altro trasformata o comunque in una forma più
tollerabile. Nel caso dell’aggressività posso ad esempio iniziare a reagire alle provocazioni o
Materiale didattico a cura della dr.ssa Jessica Lampis
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istigazioni dell’altro in modo non aggressivo (mantenendo la calma? Parlandone? Fare
esempi è complesso perché le modalità di risposta possono essere innumerevoli e dipendono
dalle configurazioni specifiche che una relazione assume). L’aspetto relazionale centrale è
che in questo processo dimostro di essere in grado di comprendere le emozioni (anche quelle
più terribile e spaventose) dell’altro, di essere capace di trattenerle momentaneamente
assumendola su di me (divento contenitore buono), dimostro che è possibile “conviverci” e
che è possibile offrirgli significati e trattamenti diversi. Se questo processo si verifica
sistematicamente, verrà internalizzato non solo un contenuto mitigato ma anche il
contenitore, ovvero le capacità dell’altro di raffreddare, gestire, trattare, metabolizzare un
contenuto spaventoso o troppo doloroso. Il potere trasformativo di questo è enorme ed è per
questo che la gestione dei flussi di identificazione proiettiva è fondamentale nel dispiegarsi
del processo terapeutico ed è centrale per il cambiamento. Il terapeuta dev’essere in grado di
trattenere dentro di sé le proiezioni del paziente, deve comprenderle restituendole bonificate
e deve restituire al paziente la fiducia rispetto alla sua capacità di farlo autonomamente
(viene offerto non sono un contenuto digerito ma anche l’apparato digestivo che poi servirà
al paziente per farlo in modo autonomo – introiezione del contenitore). Se, al contrario, il
terapeuta (o il partner, o il genitore), tratta la parte proiettata esattamente come l'ha trattata il
paziente (o il partner, o il figlio), cioè riproiettandola fuori, liberandosene in modo
evacuativo, il paziente verrà riconfermato nella sua convinzione che quella parte deve essere
estromessa e che lui non può tenerla perché è una persona troppo debole, incapace o
danneggiata.
Per concludere, e riprendendo le parole di Ogden “L'identificazione proiettiva è un processo
psicologico che costituisce contemporaneamente un tipo di difesa, una modalità di comunicazione,
una forma primitiva di relazione oggettuale e una strada verso il cambiamento psicologico”.
L'identificazione proiettiva consiste in un processo attivato inconsapevolmente che:
- consente di proteggere il Sé da elementi disturbanti (aspetto difensivo);
- trasferisce in un'altra persona sentimenti propri (aspetto comunicativo),
- stabilisce una specifica relazione con un oggetto vissuto come parzialmente separato
(aspetto oggettuale),
- permette di reintegrare quegli elementi disturbanti comunque presenti nel Sé, ma dopo che
questi hanno ricevuto un trattamento – ad opera di un'altra persona – che li ha resi accettabili
(aspetto trasformativo) (Guarinelli, 2007).
Si tratta dunque di indurre nell’altro sentimenti conformi ai propri attraverso un processo che
effettivamente appare misterioso e difficilmente afferrabile. Eppure, come postulato dallo stesso
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Ogden “l'identificazione proiettiva non è un concetto meta-psicologico. I fenomeni che essa
descrive esistono nel regno dei pensieri, dei sentimenti e del comportamento, non nel regno delle
ipotesi astratte sull'attività della mente”. Esistono forme di comunicazione preverbale (peraltro
centrali, nell’ambito delle neuroscienze, per comprendere il ruolo che le relazioni oggettuali hanno
nel plasmare e riplasmare le connessioni neurali) attraverso cui le menti si sintonizzano e si
connettono, generando specifici significati individuali e interpersonali.
Diversi autori oggi convergono nel riconoscere nell'identificazione proiettiva infantile il processo di
base per quell'altro processo di comunicazione evoluta che è l'empatia. In questo senso la capacità
empatica scaturirebbe dalla corretta rielaborazione evolutiva dell'identificazione proiettiva
originaria.
Per Ogden “l'empatia “consiste nel "condividere" e nel comprendere cognitivamente e
affettivamente lo stato psicologico di un'altra persona, che è riconosciuta e sentita come una
persona completa e distinta in una particolare congiuntura della sua vita… il termine empatia
descrive adeguatamente l'esito positivo dell'attivo lavoro psicologico di contenimento
dell'identificazione proiettiva”.