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Università Telematica Pegaso L’ideologia delle doti: analisi critica (parte seconda)
Attenzione! Questo materiale didattico è per uso personale dello studente ed è coperto da copyright. Ne è severamente
vietata la riproduzione o il riutilizzo anche parziale, ai sensi e per gli effetti della legge sul diritto d’autore
(L. 22.04.1941/n. 633)
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Indice
1 IL DIBATTITO SULL’INTELLIGENZA: UN BREVE SPACCATO ---------------------------------------------- 3
2 MODIFICABILITÀ DELL’INTELLIGENZA --------------------------------------------------------------------------- 5
3 UNA RICERCA NELLA SCUOLA ELEMENTARE ------------------------------------------------------------------ 7
4 APPROFONDIMENTO ----------------------------------------------------------------------------------------------------- 12
Università Telematica Pegaso L’ideologia delle doti: analisi critica (parte seconda)
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1 Il dibattito sull’intelligenza: un breve spaccato
Il primo studioso a parlare, pochissimi lustri fa, di intelligenze multiple è stato lo
psicopedagogista americano HOWARD GARDNER (1943). Egli si dichiara contrario ad una
intelligenza intesa come abilità cognitiva generale che possa essere misurata oggettivamente e
ricondotta ad un singolo numero (il punteggio del QI). La teoria delle intelligenze multiple di
Gardner, precisa Lucia Mason, “pur condividendo con quella triarchica di Sternberg il rifiuto di una
concezione di intelligenza nei termini di un’abilità, si focalizza non tanto sui processi mentali, bensì
sugli ambiti in cui si può manifestare l’intelligenza, definita come abilità di risolvere problemi o
creare prodotti ritenuti validi in uno o più contesti culturali”16
. Gardner ritiene che ogni persona sia
corredata di almeno sette intelligenze (che negli studi successivi aumenteranno), e ciò vuol dire che
l’intelligenza dell’uomo è composta da molteplici facoltà mentali – relativamente indipendenti –
localizzabili in aree del cervello specifiche. L’ispirazione di Gardner si origina nell’ambito
frenologico, laddove si cercava di giustificare le differenze presenti tra gli individui nel volume e
nelle dimensioni del cervello. “L’idea chiave della frenologia – riporta Gardner – è semplice. I
crani umani differiscono l’uno dall’altro, e le loro variazioni riflettono differenze nel volume e nella
forma del cervello. Le diverse aree del cervello, a loro volta, sono subservienti a funzioni distinte e
quindi, esaminando con cura le configurazioni craniche di un individuo, un esperto doveva essere in
grado di determinare i punti di forza, i punti deboli e le particolarità del suo profilo mentale”17
.
Studiosi della frenologia individuarono ben trentasette capacità mentali diverse ognuna delle quali
riconducibile ad una zona specifica del cervello: ebbene, in base allo sviluppo di una zona piuttosto
che di un’altra saremmo, in grado di comprendere le diversità riscontrate nei singoli. Queste
argomentazioni sono state, poi, ampiamente superate: tuttavia la loro importanza storica consiste
nell’aver in un certo senso anticipato le scoperte successive sulla localizzazione emisferica di
specifiche capacità mentali, e nello stesso tempo si sono dimostrate come un primo tentativo di
intendere l’intelligenza come un insieme di abilità invece che una capacità unica. Gardner si ispira a
tale concezione al fine di formulare l’ipotesi che la persona possiede un insieme di facoltà mentali
indipendenti. Stabilisce, al riguardo, otto criteri obiettivi che consentono di individuare in forma
ipotetica specifiche intelligenze autonome. Ricordiamo qui i primi due.
16
Psicologia dell’apprendimento e dell’istruzione, Il Mulino, Bologna 2006, pag. 79.
17
Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, trad. it. di L. Sosio, Feltrinelli, Milano 1987, pag. 82.
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Isolamento di facoltà in conseguenza di danno cerebrale
Nel caso in cui si verifichi, a seguito di un danno cerebrale, che una particolare facoltà venga
distrutta o, al contrario, si conservi, possiamo affermare che, in ragione della sua relativa
autonomia,dimostrata rispetto alle altre, essa rappresenti un’intelligenza a sé stante.
“Idiots savants”, prodigi e altri individui eccezionali
È il caso di alcuni individui che mostrano di possedere in genere prestazioni mediocri, ad eccezione
di un’abilità che, invece, si dimostra particolarmente sviluppata. Anche questa è un’ulteriore
indicazione dell’indipendenza di una capacità mentale rispetto alle altre. Attraverso gli otto criteri
menzionati Gardner arriva ad individuare ben sette intelligenze, e cioè: intelligenza linguistica,
intelligenza musicale, intelligenza logico-matematica, intelligenza spaziale, intelligenza corporeo-
cinestetica, intelligenze personali (intrapersonale e interpersonale), intelligenza naturalistica.
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2 Modificabilità dell’intelligenza
Come abbiamo visto, una delle questioni che hanno occupato e che occupano uno spazio di
sicuro rilievo tra coloro che studiano l’intelligenza riguarda il rapporto tra eredità ed ambiente: s’è
cercato di capire se l’intelligenza sia il prodotto del patrimonio biologico del singolo o se, al
contrario, essa sia la risultante degli eventi ambientali. Al riguardo abbiamo assistito ad una netta
dicotomia: da una parte si è ritenuto e si ritiene che i geni rivestano un ruolo prioritario e dall’altra,
invece, la priorità è stata attribuita ed è attribuita agli stimoli ambientali. Sebbene la preminenza
conferita all’una o all’altra delle variabili in gioco, storicamente, si sia manifestata in forma
alternativa, “la possibilità di accrescere le conoscenze e le competenze operative su questo
argomento è fondalmente affidata al sincretismo tra queste due posizioni. Il problema, perciò, non
sta tanto nel decidere a favore dell’uno o dell’altro dei due punti di vista, quanto piuttosto nel
cercare di comprendere quanta parte dei correlati misurati dal QI sia ascrivibile ai geni oppure
debba essere riferita a fattori ambientali. In sostanza si tratta di comprendere come geni e ambiente
interagiscano”18
. Ci interessa arrivare a sostenere come il convincimento proprio del senso comune
educativo che vede un legame di proporzione diretta tra l’intelligenza e i risultati
dell’apprendimento sia tutt’altro che assodato dal punto di vista scientifico. Per quanto le dispute
continuino, è oramai chiaro come l’intelligenza non la si possa comunque spiegare in forma
unilaterale, ricorrendo cioè solamente alla causa genetica o solamente alla causa ambientale.
Come ha osservato Massimo Baldacci, potrebbe essere “sufficiente ipotizzare che lo sviluppo
evolutivo dell’intelligenza, pur essendo questa unica e pur avendo alla base un potenziale genetico,
non rappresenti semplicemente una realizzazione asintotica di tale potenziale, bensì una crescita per
incrementi successivi dipendenti dalla qualità degli ambienti fruiti senza un ‘massimo’ vincolato in
modo rigido, affinché il carattere deterministico della relazione intelligenza-apprendimento divenga
molto più debole”19
. Una conclusione del genere – seppur parziale – si dimostra molto preziosa per
il fare didattico: ammettendo, infatti, che l’intelligenza, almeno in parte, possa mutare rispetto alle
sue condizioni iniziali, siamo nelle condizioni di poter affermare che la scuola, ambiente
intenzionalmente deputato a educare l’intelligenza, può avere un ruolo di primo piano. Lo spazio di
manovra che sussiste, si vuol dire, permetterà agli insegnanti di uscire da un atteggiamento
18
MICELI S., GANGEMI A., Psicologia dell’intelligenza, op. cit., pag. 64. 19
Una scuola a misura d’alunno. Qualità dell’istruzione e successo formativo, UTET, Torino 2002, pp. 77-78.
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rinunciatario e di incidere sull’intelligenza degli allievi attraverso una prassi didattica
scientificamente fondata.
Il modello didattico proposto da Benjamin Samuel Bloom - al quale dedicheremo spazio nelle
lezioni successive - parte proprio da queste premesse concettuali: in esso è evidente come
l’intelligenza risulti incrementabile attraverso gli input dell’ambiente formativo, e questo è in aperto
contrasto con quelle concezioni che ritengono i livelli di apprendimento predeterminati. È evidente
come per lo studioso americano la misura dell’intelligenza abbia uno scarso valore predittivo, a
patto che la scuola decida di accantonare le usuali modalità didattiche per abbracciare un
insegnamento attento alle diversità individuali: come ha scritto lo stesso Bloom, “ciò che qualunque
essere umano è in grado di apprendere, può essere acquisito da quasi tutti gli individui, se
dispongono di condizioni di apprendimento adeguate, sia antecedenti che attuali. Vi sono senz’altro
eccezioni a tutto questo, però la teoria [il riferimento è alla teoria dell’apprendimento scaturita dalle
sue ricerche] offre un quadro ottimistico di quanto l’educazione possa fare per gli esseri umani”20
.
20
Caratteristiche umane e apprendimento scolastico, trad. it. di L. T. Fontana, Armando, Roma 1979 (seconda
ristampa), pag. 37.
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3 Una ricerca nella scuola elementare
Abbiamo promosso una ricerca presso la scuola elementare della provincia di Ferrara21
su un
tema di grande rilievo: la valutazione. Nello specifico abbiamo focalizzato l’attenzione
principalmente:
sull’utilizzo degli strumenti della valutazione;
sulla qualità degli aggiornamenti di tipo docimologico;
sul ruolo e le funzioni della valutazione nella scuola di massa.
È stata un’occasione importante, innanzitutto, per saggiare l’eventuale grado di mutamento dei
comportamenti docimologici richiesti ad una scuola che si rivolge a tutta la popolazione e
ufficializzati dalla normativa di questi ultimi decenni. L’indagine è stata condotta mediante la
somministrazione, con modalità diretta e assistita, di un questionario strutturato composto da 13
domande. L’indagine ha coinvolto complessivamente un campione di 278 insegnanti di scuola
elementare appartenenti ad istituzioni scolastiche sparse sull’intero territorio della provincia di
Ferrara. La popolazione di riferimento, che secondo i dati ufficiali del Ministero dell’Istruzione
(anno scolastico 2001-2002) ammonta complessivamente a 1429 insegnanti, è una popolazione
fortemente eterogenea, sia per la notevole disaggregazione territoriale, sia per le differenze di età al
proprio interno.
L’eterogeneità dell’universo di riferimento, unitamente alla complessità degli argomenti trattati,
hanno suggerito di adottare una frazione di campionamento molto elevata (19,5%), che comunque,
stante anche la relativamente bassa numerosità dell’universo, ha potuto essere affrontata con costi e
tempi più che accettabili.
Il disegno di campionamento adottato è un disegno stratificato, nel quale la stratificazione ha avuto
luogo in senso territoriale, cioè con riferimento alle 18 direzioni didattiche (tra le quali i 5 circoli
didattici di Ferrara) con sede nel territorio della provincia di Ferrara. La stratificazione è stata
effettuata col criterio dell’allocazione proporzionale, cioè sono stati estratti 18 sottocampioni,
ciascuno di ampiezza proporzionale (con la medesima frequenza di campionamento) al numero di
insegnanti compresi in ciascuna direzione didattica. Unendo i sottocampioni così ottenuti si è infine
formato il campione finale.
21
BONAZZA V., FRIGNANI P., PASETTI P. (2002). Insegnanti e valutazione: una ricerca nella scuola elementare,
Ricerche pedagogiche, pp. 144-145.
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L’elevata frequenza campionaria, insieme all’adozione del criterio stratificato, ha permesso di
ottenere stime campionarie molto precise, con un errore massimo del 2% in più o in meno rispetto
ai valori che si sarebbero calcolati sull’intera popolazione.
Evidenzieremo in queste pagine solo una parte degli esiti della ricerca che in qualche modo risulta
“utile” al lettore per comprendere come gli insegnanti intervistati si collochino rispetto al dibattito
sull’ideologia delle doti
Utilizzando una cluster analysis di tipo non gerarchico, abbiamo cercato di verificare, in relazione
alle risposte fornite dagli insegnanti alla domanda 7, l’esistenza all’interno del nostro campione di
diverse “anime”, cioè di diversi atteggiamenti nei confronti della valutazione. Le domande, infatti,
suggerivano la possibilità di schierarsi con un atteggiamento di tipo tradizionale (le “doti”), oppure
con un atteggiamento più in linea con le esigenze proprie di una scuola per tutti. La risposta alla
nostra ipotesi è stata positiva: il campione si può suddividere nettamente in due ben precisi “profili”
di insegnanti. Da un lato, il primo profilo (il più numeroso, composto da 205 insegnanti), è
caratterizzato da risposte “medie” a tutti gli item, ed in particolare il secondo e il quarto item
ricevono discreti consensi. Potremmo definire gli insegnanti di questo profilo “tradizionalisti”.
Dall’altro lato, il secondo profilo, molto meno numeroso (52 insegnanti) è caratterizzato da un
netto schieramento a favore del primo e del terzo item, item caratterizzati da un atteggiamento più
in linea con gli esiti della ricerca didattica più avanzata e meno legato alla “ideologia delle doti”.
Potremmo quindi definire questo secondo profilo come quello degli “innovatori”.
I due profili sono descritti dalla tabella 12, nella quale sono riportati i valori medi dei punteggi
ottenuti nei vari item da ciascun profilo (i gradi di consenso agli item sono stati trasformati in
punteggi: Molto in disaccordo = 1; In disaccordo=2; D’accordo=3; Molto d’accordo=4). Gli stessi
profili sono visualizzati nel grafico rappresentato in figura 1.
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Molto
In
disaccordo
In
disaccordo
D’accordo Molto
D’accordo
Rendere
alunni e
genitori
consapevoli
dei progressi
ottenuti e delle
lacune ancora
presenti
Motivare e
gratificare chi
si applica
nello studio
Individuare gli
argomenti che
non sono stati
compresi
adeguatamente
in aula per
tornarvi sopra
Dare la
possibilità agli
alunni con
maggiori
attitudini di
sviluppare
ulteriormente
le oro doti
Domanda posta ai docenti
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Item Valori medi
primo profilo
Valori medi
secondo profilo
1. Rendere alunni e genitori… 3,48 2,90
2. Motivare e gratificare... 3,57 2,58
3. Individuare gli argomenti... 3,64 3,40
4. Dare la possibilità agli alunni... 3,42 1,98
Valori medi delle risposte
Figura 1
Nel profilo degli “innovatori” sono concentrati quasi tutti gli insegnanti più giovani, nati negli anni
sessanta, settanta e ottanta del ‘900, mentre il profilo dei “tradizionalisti” comprende quasi tutti (ne
manca uno solo) gli insegnanti di età più avanzata, cioè quelli nati negli anni quaranta del secolo
scorso. Gli insegnanti nati negli anni cinquanta del ‘900 si distribuiscono equamente – in
proporzione ai rispettivi totali – tra i due profili.
1
1,5
2
2,5
3
3,5
4
1. R
endere
consapevoli.
..
2. M
otiv
are
e
gra
tific
are
...
3. In
div
iduare
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om
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..
4. D
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la
possib
ilità
...
Primo
profilo
Secondo
profilo
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Per concludere: dalla ricerca è emerso che persiste il pregiudizio deterministico, per il quale le
attitudini degli allievi sono considerate predittive del prodotto scolastico. Permane, cioè, una
percentuale elevata di senso comune; “l’ideologia delle doti”, è ancora ben presente nella scuola.
Nonostante la frequenza ai corsi di aggiornamento, continua ad essere radicato il legame di
proporzione diretta tra attitudine e risultato formativo.
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4 Approfondimento
La rivincita di Lombroso
di BENEDETTO VERTECCHI
(tratto da “Tuttoscuola” XXXIV, 493)
Conservo una profonda impressione delle rappresentazioni di soggetti criminali raccolte e
classificate da Cesare Lombroso. Quegli sguardi, quegli atteggiamenti, quei tratti somatici
conservano a distanza di tempo traccia del dolore degli sventurati soggetti ai quali appartenevano,
ma riflettono anche l’interpretazione determinista che la società dava dei comportamenti criminali
nella seconda metà dell'Ottocento. Quei volti non potevano che essere volti di criminali,
irrimediabilmente persi alla vita civile. È stato un merito di Lombroso aver affrontato la questione
dei comportamenti criminali spostandola dal terreno morale a quello scientifico. Ma c’è voluto un
secolo di impegno della ricerca per cercare almeno di smussare il monolite del determinismo (o, se
me lo consentite, del pregiudizio) e per affermare che i fenomeni di devianza debbono essere
affrontati perseguendo l’obiettivo del recupero sociale. Fra l’altro, chi erano quei criminali? Non
ci voleva molto, al tempo di Lombroso, per meritarsi quella qualifica. Un ragazzo affamato che
rubasse una mela poteva trovarsi esposto alle conseguenze giudiziarie del suo gesto, dando inizio
ad un percorso nel quale ad una trasgressione del tutto irrilevante, e per di più motivata dal
bisogno di soddisfare una necessità primaria, sarebbero seguite trasgressioni più gravi e punizioni
sempre più pesanti. In breve, la rottura tra chi, anche episodicamente se di classe sociale modesta,
trasgrediva le regole e il resto della società finiva col diventare insanabile.
È evidente che in quello scenario non c’era spazio per l’educazione. E possiamo anche immaginare
l’indurirsi delle espressioni al passaggio dall’infanzia ad una brevissima adolescenza che sfociava
immediatamente nell'età adulta. Eppure, è stata proprio l’educazione a far giustizia dei pregiudizi,
vincendo lo scetticismo di quelle classi sociali che consideravano inutile affannarsi (e soprattutto
spendere denaro pubblico) per insegnare a leggere, scrivere e far di conto a bambini e ragazzi che
per nascita avrebbero dovuto dedicarsi alle opere servili. E sembrava del tutto lezioso che a quei
bambini e a quei ragazzi la scuola si sforzasse anche di far acquisire criteri per migliorare la loro
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condizione di vita: l’iconografia ottocentesca ci trasmette immagini che testimoniano quali fossero
le conseguenze dell’assenza di pratiche igieniche, ma quelle pratiche potevano essere insegnate,
con l'effetto di riumanizzare soggetti nei quali affiorava la ferinità di fasi lontane dell'evoluzione
della specie.
Nel corso del Novecento, ricerche condotte in molti paesi (dagli Stati Uniti a Israele, dai paesi
dell'Europa del Nord alla Francia e alla stessa Italia) hanno mostrato quanto grandi siano le
possibilità dell’educazione di incidere sui destini di vita. Rovesciando il ragionamento (perché è
ciò che al momento ci interessa) è emerso come non sia inevitabile che il primo apparire di
fenomeni di devianza costituisca l’inizio di un piano inclinato che scende verso livelli nei quali si
manifestano comportamenti sempre più gravi e tali da richiamare interventi di tipo giudiziale.
Insomma, pur riconoscendo a Lombroso il merito di aver compreso che quello che stava
affrontando era un problema che richiedeva di essere considerato per le sue implicazioni
conoscitive, dobbiamo rallegrarci che le sue analisi siano state sostanzialmente smentite.
Lombroso è entrato a far parte del linguaggio comune, ma ridotto ad aggettivo: il fatto che
lombrosiano abbia una connotazione negativa, e talvolta sia usato in chiave ironica o grottesca,
costituisce una prova che quei ritratti di sventurati quasi privi di fronte sono considerati lontani e
improbabili. Qualcuno può anche pensare che siano stati frutto di fantasia.
Ma se ciò è vero, tanto più sorprendono i toni che stanno caratterizzando il dibattito attorno ai
fenomeni di devianza che si lamentano fra gli allievi delle scuole. Si direbbe che Lombroso cerchi
la sua rivincita non solo sulla cultura che non è più propensa ad accettare le sue interpretazioni, su
soprattutto sulla scuola, cui soprattutto si deve se quelle interpretazioni sono state superate non
solo nel dibattito teorico, ma nelle concrete esperienze di vita. Il modo in cui si parla del bullismo,
per esempio, configura una sorta di ritorno lombrosiano: mutatis mutandis, non ci si chiede perché
un ragazzo abbia rubato una mela nell’orto del vicino, ma si fa a gara nel proporre misure che
evitino che episodi simili continuino a verificarsi. In altre parole, questi nipotini di Lombroso
hanno in mente solo un’idea, che è quella della repressione, e non prendono neanche in
considerazione una linea positiva d’azione, che non potrebbe che consistere nel modificare i modi
in cui si provvede all’educazione di bambini e ragazzi. Si finisce così con l'accreditare (e
amplificare, da parte dei mezzi di comunicazione) il più banale accostamento tra fenomeni che
sono solo frazioni del reale. Si arriva a sostenere che, dal momento che i fenomeni lamentati hanno
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come protagonisti gli allievi, la responsabilità di opporre un argine al dilagare del bullismo spetti
in primo luogo alle scuole. Non si tiene conto del fatto che la scuola è solo uno degli ambienti di
vita dei ragazzi, e non è neanche quello prevalente. Anche se ci si limitasse, per esempio, ad una
semplice stima quantitativa si giungerebbe ad osservare che i ragazzi hanno trascorso più tempo
guardando la televisione che a scuola.
Perché allora si riversa su un’istituzione che avrebbe un altro compito, quello di istruire (e
sappiamo quante difficoltà incontri nell’assolverlo), la responsabilità complessiva del
comportamento dei ragazzi? Oltre tutto spesso ciò avviene senza che sia chiaro che cosa si intenda
per bullismo, parola che ha finito con l'essere usata a proposito e a sproposito, per designare una
gamma di significati che vanno dalle minute espressioni di cattiva educazione (molte delle quali
riprese per imitazione non certo dalla scuola, ma dai comportamenti sociali e dallo spettacolo) fino
ad espressioni di distruttività verso le persone e le cose. Se prendiamo una definizione classica,
dobbiamo considerare il bullismo come la manifestazione della violenza dei vili. In altre parole, il
bullo trasgredisce sapendo di farlo, ma teme le conseguenze delle sue azioni. Ha bisogno tuttavia di
un pubblico, senza il quale non trarrebbe dalle sue gesta la gratificazione che si attende. Si capisce
allora perché il bullismo si manifesti in prevalenza nelle scuole: nelle scuole è disponibile il
pubblico che sancisce il successo dell'azione bullesca.
In fasi della storia sociale caratterizzate da livelli modesti di scolarizzazione esistevano altre
fenomenologie del bullismo che si manifestavano nei contesti in cui era prevalente la presenza del
pubblico desiderato (si pensi ai luoghi di lavoro, alle caserme, ma anche a luoghi protetti, come le
carceri e, per gli adolescenti, i riformatori). Se si volesse contrastare realmente il bullismo (che,
sia detto per inciso, in Italia non ha ancora assunto le dimensioni che si osservano in altri paesi
industrializzati), occorrerebbe incominciare col chiedersi quante manifestazioni strutturalmente
identificabili come bullismo non siano socialmente apprezzate, e addirittura esaltate dai mezzi di
comunicazione, fino ad essere identificate come modelli positivi da imitare. Non si può pensare che
i ragazzi che frequentano le scuole operino una scissione tra valori e atteggiamenti apprezzati a
livello sociale (per esempio, il successo comunque ottenuto o la quantità di denaro di cui si
dispone, quale che ne sia la provenienza). Poiché ai valori apprezzati nella società adulta
corrispondono comportamenti che, se praticati dai ragazzi, sarebbero considerati bullistici, è
legittimo chiedersi quale sia realmente l’intento della ripresa lombrosiana alla quale stiamo
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assistendo. Ho l'impressione che un’amplificazione del bullismo priva di una base interpretativa
abbia un intento strumentale, quello di limitare la domanda di istruzione delle famiglie. In altre
parole, ci si trova di fronte ad una diverso modo di presentare un’idea non nuova, quella della
descolarizzazione.