jazzcolo[u]rs -- email-zine di music jazz colours agoset.pdf · mi propose di registrare per loro...

8

Upload: duongtram

Post on 18-Oct-2018

215 views

Category:

Documents


0 download

TRANSCRIPT

editoriale

sommario agosto/settembre ’11

Si ha un bel dire che il mondo di oggi è globalizzato. Ma a partele evidenti difformità negli stili di vita, e prima ancora nei livelli divita, fra paesi per esempio dell’Africa e paesi del Mondo occidentale,anche nel cosiddetto “mercato globale” quell’informazione istanta-nea che dovrebbe essere il volano della globalizzazione è ben lungidall’essere compiuta.

Tenerci informati su ciò che avviene nel jazz, possibilmente a varielatitudini, è il nostro lavoro. A maggior ragione qui a jazzColours,dove non ci sono vincoli geografici di distribuzione come per un car-taceo. Tuttavia, al momento dell’uscita di un album, ecco che i nodivengono al pettine. Per non parlare delle ristampe di dischi mitici.Inoltre, spesso i Cd escono prima negli Stati Uniti che nel VecchioContinente, mentre altre volte le campagne riguardano la sola Europa.

La cosa ha implicazioi anche per chi venga annualmente chia-mato ad esprimere un proprio parere sulle uscite discografiche, cosache richiederebbe una conoscenza “globale” della materia, ovvia-mente impossibile da avere. Per esempio, una delle voci delle vota-zioni della Jazz Journalists Association riguarda proprio le ristampe.

Qualche tempo fa fu un assoluto successo quella di tutti gli albumdi Miles Davis targati Columbia. Ma nulla hanno da invidiare a quel

box i cofanetti che anche le italianis-sime BlackSaint e Soulnote, oggi ac-quisite dalla Cam Jazz, stannopubblicando, ristampando splendideincisioni di jazzisti come Steve Lacy,Bill Dixon, Cecil Taylor o AnthonyBraxton. E sarebbe assolutamenteinutile sottoporre una di queste rac-colte quale candidata alle suddettevotazioni: quasi certamente Oltreo-ceano non sono neppure a cono-scenza di simili chicche.

Ovviamente la “colpa” non èdelle label in questione, ma, in ge-nerale – e per tutte le etichette,anche quelle americane che voles-sero far circolare le proprie uscite inEuropa – della convenienza “com-merciale” dell’iniziativa, in terminiquanto meno di distribuzione.

Ma allora, la globalizzazione?

Con questo numero ci conge-diamo, per fare anche noi una brevepausa estiva. Buona estate a tutti earrivederci ad Ottobre.

Antonio Terzo

4 Highlights

cover8 Omar Sosa calma apparente dall’anima free

Marco Maimeri

14 Thomas Strønen il ritmo e l’ambienteAntonio Terzo

Spotlight/120 Gaetano Partipilo il jazz simbiotico di Urban Society

Daniele Camerlengo

Spotlight/225 David Binney imparando dai grandi

Enzo Boddi

jazz & arts29 Mauro Modin l’arte della sincerità

Marco Maimeri

RECENSIONI CD32 Focus on Fred Hersch ALONE AT THE VANGUARD

I 5 dischi imprescindibili di Fred HerschBlack & White

39 Cuong Vu 4-tet LEAPS OF FAITHEnzo Boddi e Antonio Terzo

40 Eventuali

JazzColo[u]rs | agosto/settembre ’11 3

Che rapporto hai con l’Africa ein che modo questa cultura in-fluenza ancora oggi i tuoi lavori,i tuoi brani, la tua musica?Il rapporto è semplice: l’Africaguida la mia vita. Pensoche il legame che ho conl’Africa sia davveromolto stretto e si mani-festi appieno nella miaquotidianità. Non abitoin Africa ma pratico la re-ligione africana, così inogni istante della miavita la prima cosa chedevo fare è invocare imiei antenati africani. Equesto vale anche per ilresto. Se l’Africa guida lamia vita, tanto più gui-derà la mia musica. Ogni passoche faccio ha un suo fondamentoin Africa. Ogni nota che suono,anche se ho una formazione oc-cidentale, rispecchia un miomodo africano di esprimermi e di

creare musica. Ogni cosa chefaccio si basa sulla voce dei mieiantenati, per lo più africani.

Com’è cambiato il tuo approccio

alla musica, alla composizione,all’arrangiamento e al modo disuonare insieme dal disco corale“Afreecanos” al recente albumin piano solo “Calma”?“Afreecanos” mostra un periodo

della mia vita in cui cercavo dirappresentare le diverse voci del-l’Africa basate su ciò che vivevoogni giorno. “Calma”, invece, èstata la risposta a un altro pe-

riodo della mia vita, unperiodo di transizione.Ora vivo a Minorca,un’isola nel Mar Mediter-raneo estremamentecalma, dove non succedemai niente, un posto me-raviglioso, contempla-tivo, una città bellissimaperché non è neancheuna città ma un ambientesplendido. Nel disco hointeso creare una musicache rispecchiasse la bel-lezza che ogni giorno, al

mio risveglio, ho davanti agliocchi. Vivo di fronte al mare,credo sia il sogno di qualsiasi per-sona e per me e mia moglie è di-ventato realtà: ovvio che misenta in dovere di rappresentarlo

Siamo un trio, ma spessosiamo anche la parte costitutiva diuna band più grande dove a basso,

batteria e piano o tastierasi aggiungono sax alto e tenore,tromba, chitarra e percussioni.

Il trio è la base di quelloche vogliamo fare...

di Marco Maimerifoto di Giorgio Alto

Sono passati tre anni dall’ultimo disco presentato in Italia, il corale “Afreecanos”, ora il pianista cubano torna con un progetto in solo, “Calma”, che rispecchia la sua nuova vita.

Si è trasferito con la famiglia nell’isola di Minorca e passa il tempo ad ammirarne la bellezza:la musica che ne scaturisce è suadente e fascinosa ma la sua anima rimane libera e ribelle.

Nel frattempo ha realizzato tre Cd, ognuno con una sua caratteristica precipua,e presto inciderà con Paolo Fresu e con un quintetto che rievoca “Kind of Blue” di Miles Davis.

calma apparente dall’anima free

OMAR SOSA

JazzColo[u]rs | agosto/settembre ’11 9

attraverso la musica. Rispecchiail mio stato d’animo: tento diascoltare la mia voce interioreche in questo momento cercapace, calma e relax, ed è questoche voglio trasmettere agli altri.

Prima di “Calma” hai realizzatotre album fra loro molto diffe-renti. Come è nato “Across theDivide” con il polistrumentistadel New England, Tim Eriksen, equal era il suo obiettivo?Questo disco è venuto fuori per-ché ero andato al Dartmouth Col-lege, negli Stati Uniti, per unperiodo di “residenza” a benefi-cio degli studenti. Quando visitaila classe “musica dal mondo” diTim Eriksen, gli allievi attacca-rono “Promised Land”, la primacanzone poi confluita nell’album.Vedere tutti quei ragazzi into-nare quel brano fu uno shock,pensai: «Che bel modo di iniziareuna lezione». Mi misi al piano,uno prese il basso, un altro si se-dette alla batteria e suonammotutti insieme. Quando la classefinì dissi a Tim che mi sarebbepiaciuto fare qualcosa insieme ela cosa interessante fu che quin-dici giorni dopo quelli del BlueNote di New York mi chiamaronoper un ingaggio settimanale di-cendomi che volevano portassiqualcosa di diverso dal solito. Midissi: «È il momento di Tim Erik-sen». Due settimane dopo quellatelefonata, Jeff Levenson, unodei manager della Half Note Re-cords, l’etichetta del Blue Note,mi propose di registrare per loroun Cd dal vivo in quel club ed ioaccettai, perché per me non è fa-cile dire di no. La cosa compli-cata però fu registrare perun’etichetta completamente di-versa dalla mia. Registrammo tregiorni su cinque. Io avevo giàfatto un paio di album live con laOtà Records, ma quando andai lìfu un’esperienza totalmente di-versa: il multitracking, il post-mixaggio, fu davvero una cosa

interessante ed innovativa perme. L’idea era di unire la musicaindoamericana degli Appalachicon la musica africana e la tradi-zione afrocubana. Per me era unacosa normale, tutta la musicaviene dalla stessa sorgente, laMadre Terra, mentre per il pro-duttore era una novità: la primavolta che si faceva un’operazionedel genere nella storia.

Qual era il messaggio di “Talesfrom the Earth”, non solo unprogetto simile ad “Afreeca-nos” ma pure un’altra celebra-zione della “diaspora africana”?In realtà non è un mio Cd, appar-tiene a un flautista di New York,Mark Weinstein, registrato inGermania almeno 10-12 anniprima e poi chiuso in un cassetto.Un giorno l’ho ritrovato per casoe l’ho riascoltato, poi ne ho par-lato con il mio produttore chie-dendogli di sentirlo perché era un

disco un po’ grezzo ma interes-sante. È stata una delle sezionijazz più libere e più strane cuiabbia mai partecipato. Lì nonsuono il piano — se non in unapiccolissima parte — ma il vibra-fono e la marimba, i miei stru-menti principali imparati ascuola, ma di cui non avevo maifatto alcuna registrazione: mi èsembrata una buona idea inse-rirla in discografia. Il concettodel disco era immediato: vole-vamo mescolare la tradizioneafricana con la libertà del jazz.Non c’era musica scritta, solo to-nalità di riferimento, e per Markè stato importante perché ne hacurato il mixaggio, la produzionee tutto il resto. Il suo approccio èstato interessante: abbiamo regi-strato tutto in uno solo giorno,16-18 ore filate, e ne è uscitofuori un suono ruvido, un grooveche fa molto Africa.

Cosa hai provato in “Ceremony”sentendo le tue composizionisuonate da una big band comela tedesca NDR, arrangiate dalvioloncellista brasiliano JaquesMorelenbaum?Cominciamo con Morelenbaum.Lui era uno dei miei eroi. È statoun sogno lavorare con lui, in pre-cedenza gli avevo anche dedi-cato il disco “Bembon”, perchéper me è uno dei migliori com-positori e arrangiatori al mondo:amo il suo modo di approcciarsialla musica. Era un eroe e un ri-ferimento per me, ora è ancheuno dei miei migliori amici. Lacosa bella è che questo disco ènato per caso. Suonavo ad Am-burgo e il giorno dopo dovevo re-carmi in Polonia. Allora nonavevo il passaporto spagnolo,solo quello cubano, con il qualeoccorre un visto anche per an-dare in bagno. Giunto all’aero-porto gli agenti mi fermarono,così telefonai a Stefan Gerdes, ilcoordinatore artistico della NDR,spiegandogli che dovevo tornare

L’idea era quelladi prendere

la tradizione di DizzyGillespie e dellegrandi orchestre

latine e proiettarlaverso concetti piùavanguardistici.

È per questo che hoscelto certi pezzi,

non tanto per la lorostruttura latina ma

perché hanno basi nellamusica tradizionale oreligiosa, come quelli

della Santerìa.

10 JazzColo[u]rs | agosto/settembre ’11

in albergo. Lui mi invitò a cena e mi propose un la-voro con la big band: gli dissi di sì e due secondidopo lui mi chiese chi volessi come arrangiatore.Risposi «Jaques Morelenbaum», ero già alla se-conda bottiglia di vino, e lui «Va bene, lo chiamo».Una settimana dopo mi disse che Jaques aveva ac-cettato e che in tre giorni sarebbero venuti a casamia a Barcellona per scegliere il repertorio. Entrainel panico e mi misi a cercare i pezzi. I brani di“Ceremony” provengono soprattutto da “Of theRoots”, uno dei miei primi dischi: volevo presen-tare a Jaques la mia musica, ma volevo anche chelui cogliesse l’anima delle mie composizioni. Lacosa curiosa è che quando ci siamo incontrati nellamia casa a Barcellona, lui aveva scelto la stessamusica che avevo scelto io. Così mi sono detto chequell’incontro era qualcosa che doveva assoluta-mente succedere.

In quel contesto ti sei sentito più sciamano afri-cano o leader di una big band afrocubana?No, mi sono sentito solo come un pianista in unabig band! Ho letto ogni cosa, dall’inizio alla fine.Inoltre, per chi guardava era difficile credere chefossi il leader: l’orchestra era piena di tedeschi,c’erano solamente tre neri — il percussionista Mar-cos Ilukán, il bassista Childo Tomas ed io — e poiHoracio “El Negro” Hernandez che però è nero nel-l’anima ma non tanto di pelle, mentre nella regi-

strazione c’è Julio Barreto, anche lui cubano, allabatteria. La cosa bella è che è stata un’esperienzacomplessa: in quel contesto non c’era molta li-bertà, però poi, dopo aver suonato due settimanein Francia, Spagna e Germania, vincemmo l’EchoAwards e il Grammy tedesco come miglior registra-zione di big band dell’anno, ed ora sono davverofiero di questo progetto, anche se c’è voluto tantotempo e tanto sforzo.

Che rapporto hai con leaders storici come Ma-chito, Chico O’Farrill, Paquito D’Rivera e DizzyGillespie? Pensi che la tua ricerca musicale sia si-mile o diversa dalla loro?Tutti noi impariamo dai nostri maestri ed i mieisono stati Machito, Chico O’Farrill, Paquito, Chu-cho Valdés, Irakere, Arturo Sandoval. Sono loro ilmio background, sono cresciuto con quella mu-sica. L’idea era quella di prendere la tradizionedi Dizzy Gillespie e delle grandi orchestre latine eproiettarla verso concetti più avanguardistici. Nonso se ci siamo riusciti, ma è stata questa la miaidea, sin dall’inizio. È per questo che ho sceltocerti pezzi, non tanto per la loro struttura latina— che molti conoscevano già — ma perché hannobasi nella musica tradizionale o religiosa, comequelli della Santerìa. Allo stesso tempo, però, vo-levo elementi differenti, qualcosa tipo un omag-gio a Thelonious Monk. È sulla base di questi

JazzColo[u]rs | agosto/settembre ’11 11

maestri che sono stato in grado di portare avantiun simile progetto.

Cosa puoi dirci del tuo trio con Marque Gilmorealla batteria e Childo Tomas al basso?Marque e Childo sono l’ossatura della musica cheascolto e creo, o meglio che ascoltiamo e creiamoinsieme. Credo sia importante il fatto che la rea-lizziamo stando uniti come una squadra. Siamo untrio, ma spesso siamo anche la parte costitutiva diuna band più grande dove a basso, batteria e pianoo tastiera si aggiungono sax alto e tenore, tromba,chitarra e percussioni. Il trio è la base di quello chevogliamo fare, e ora chiamiamo questo organicoAfri-Lectric Quintet, ma l’alchimia è semplice:siamo come un dream team di basket, ci passiamola palla l’un l’altro finché non troviamo il momentogiusto per andare a canestro.

In quintetto con Peter Apfelbaum al tenore e JooKraus alla tromba hai dato vita anche a un pro-getto dedicato a “Kind of Blue” di Miles Davis.Come hai sviluppato l’idea?Lo spunto venne fuori durante una mia residenzaal Barcelona Jazz Festival. Mi commissionarono diricreare “Kind of Blue” a modo mio. Sono stato su-bito entusiasta dell’idea, poi però ho iniziato a

preoccuparmi pensando che avrebbero avuto da ri-dire qualsiasi cosa avessi fatto. Personalmente, in-vece, è stata un’esperienza stimolante. Abbiamoanche registrato un disco, che uscirà a fine 2012 oinizio 2013, dal titolo “Afri-Lectric Based OnMiles”. Nel frattempo porto avanti questo pro-getto anche dal vivo: a luglio sono stato a Veneziaper la prima performance della band su repertoriotratto da quella registrazione. Ovviamente non ab-biamo eseguito tutto il disco, anche perché deveancora uscire, ma un buon 40 percento sì. Sonocontento del risultato: è una musica che ha ungroove davvero potente!

Infine, cosa puoi raccontare della tua collabora-zione con il trombettista italiano Paolo Fresu e ilpercussionista indiano Trilok Gurtu?Suonare con Trilok è stato un sogno diventato realtà.Era uno dei miei idoli: ascoltavo le sue registrazionicon gli Oregon, seguivo le sue collaborazioni e ado-ravo i suoi live con differenti musicisti, fra i qualianche Jan Garbarek. Volevo suonare con lui primadi morire, glielo dicevo sempre, era il mio sogno. Elui, che è una persona squisita, mi rispondeva inte-ressato «Va bene, nessun problema, facciamo qual-cosa». Nel frattempo conobbi Paolo che mi invitò alsuo festival a Berchidda. Mi stavo esibendo in piano

12 JazzColo[u]rs | agosto/settembre ’11

solo quando a un certo punto sentii una tromba. Nonla vedevo: era Paolo che stava suonando su un al-bero. Pensai: «È un folle!». Successivamente mi pro-pose di fare qualcosa insieme e ci rivedemmo per unconcerto ad Amburgo, prima di registrare dal vivo“Promise”: l’avevano invitato come special guest emi piacque molto il suo modo di suonare, inusuale erilassato. Suonò per tutto il concerto e finì anche nelCd. Il trio venne fuori dall’idea mia e di Paolo di col-laborare insieme. Facemmo un tour e prendemmovari ingaggi, che proseguono ancora oggi. L’ultimo,mi pare, sarà a settembre a Napoli. La cosa bella èche siamo riusciti a coordinare tutte le potenzialitàche avevamo attorno, dall’agente di Paolo al-l’agente di Kinomusic che organizza i nostri con-certi. Abbiamo fatto un tour due anni fa — il tempocorre veloce — ed è stata un’operazione di grandesuccesso, almeno credo, tanto dal punto di vista mu-sicale che spirituale. Così adesso Paolo ed io ab-biamo deciso di registrare un disco. Non è ancorafinito, ma uscirà a gennaio per la Tuk Music, la suaetichetta. Non ha ancora un titolo ma è una mera-vigliosa registrazione, piena di pace. È un “Calma”a due voci! Paolo è un musicista folle, ma stilla tran-quillità ad ogni nota che suona. Amo molto esibirmicon lui, mi rilassa, non mi mette pressione, anzi creasempre l’opportunità di divertirsi e stare bene in-sieme, al sicuro: non è un caso che lo chiami “il miofratello maggiore”, anche se lui non è vecchio — ioho 46 anni e lui 50 appena compiuti!

omar Sosa (pn.ac, pn.el, Fr, eff, camp)

SunriseabsenceWalking TogetherEsperanzaInnocenceoasisaguaslooking WithinDance of reflectionautumn FlowersreposomadreSunset

“Solo piano & ...”, recita così il sotto-titolo dell’album. Ad aggiungersi, un sensodi pace, introspezione e stasi, in bilico frajazz, classica, ambient ed elettronica. In-sieme al pianoforte e al Fender Rhodesdel titolare, anche vari effetti e suonicampionati, inseriti dal vivo, in temporeale, senza sovraincisioni. Omar Sosa èun esperto del binomio fra acustico edelettronico e le tredici composizioni diquesto suo quinto progetto solitario nesono un perfetto esempio. Non v’è tracciadi mero impressionismo tecnico: pur es-sendo un virtuoso e dimostrandolo in varipunti, il musicista cubano è interamentepreso ed assorbito da riflessione e con-templazione. Tutto nasce da un’urgenzaespressiva e da un’ispirazione che trova ilsuo stimolo principale nell’improvvisa-zione che sgorga dall’anima. Un’animacheta, capace di grandi elucubrazioni maanche d’efficaci prese di posizione. Silen-zio, meditazione e struggimento, gioia,ottimismo e malinconia sono solo alcunidei mood che si riscontrano nei brani inscaletta. Arrestatosi, il tempo sembrafluttuare insieme ai suoni del pianoforteacustico, della tastiera elettrica e dei variammennicoli ed effetti elettronici utiliz-

zati. Tutto è sospeso, lo spuntare velatodi un sorriso sopra un viso amico (Sunrise),l’assenza prolungata di un qualcosa d’in-definito (Absence), il passeggiare insiemeabbracciati ed avvinti (Walking Together),la speranza che fa breccia nello sconforto(Esperanza): tutti racconti senza testo esenza trama, evocativi ed aperti ad ognitipo d’interpretazione. Richiamano labeata innocenza dei tempi andati (Inno-cence), il miraggio di un’oasi nel deserto(Oasis), il guardarsi dentro alla ricerca disé stessi (Looking Within), lo sbocciareimprovviso dei fiori autunnali (AutumnFlowers), lo scorgersi indolente e sussur-rante di un tramonto (Sunset): tutti boz-zetti scarni eppur pieni di sensibilità,come acquerelli dai tratti tenui e dai co-lori appena accennati. C'è spazio, peròanche per pitture più robuste e decise,dalle tinte acquose e primitive (Aguas),dalle linee danzanti e riflessive (Dance ofReflection), dalle pennellate stanche eposate (Reposo), nel ricordo toccante esospirato di una genitrice ormai lontana(Madre). Un disco ad episodi, i quali tro-vano senso e significato solo se ascoltaticosì come registrati, ovvero uno di seguitoall’altro._Ma.Ma.

omar SoSaCalma

(otà records - 2011)

JazzColo[u]rs | agosto/settembre ’11 13