istituzioni di diritto romano - mario talamanca
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Riassunto Istituzioni di diritto Romano Mario TalamancaTRANSCRIPT
MARIO TALAMANCA
ISTITUZIONI DI DIRITTO ROMANO
CAPITOLO PRIMO - INTRODUZIONE
1. STORIA DEL DIRITTO, DIRITTO ROMANO E CULTURA GIURIDICA EUROPEA
La cultura è un elemento formativo indispensabile del giurista: il posto da lei occupato è essenziale. Questo soprattutto per quanto
riguarda le scienze che si occupano di ciò che è stato fatto dall'uomo e si è inverato nella sua storia. Tra queste scienze rientra
sicuramente quella del diritto. L'esperienza romana gode di una posizione unica nell'ambito della storia del diritto nella cultura
europea. Oggi si dà troppo per scontato che l'applicazione del diritto venga mediata da una riflessione scientifica sull'ordinamento
positivo. Un tale fenomeno non era scontato nell'antichità: solo in Roma, dal II sec. d.C., inizia l'elaborazione di una scienza del
diritto. La cultura giuridica romana si è perpetuata fino a Giustiniano, il cui impero (527-565 d.C.) rappresenta la conclusione della
storia antica. La scienza giuridica romana ha poi condizionato gli studi giuridici nella Bologna dell'XI sec. e, irradiandosi ovunque, ha
creato la cultura giuridica europea. Non esiste, in Europa, un'esperienza che non trovi le sue origini nella scienza giuridica romana
creata dai giuristi laici: il modo, infatti, con cui viene pensato oggi il diritto è profondamente segnato dal modo in cui l'hanno
pensato i prudentes. Le fonti romane hanno fornito un modello allo studio scientifico del diritto e hanno anche costituito una parte
del diritto vigente. La vigenza come diritto positivo ha riguardato soprattutto il diritto privato ed è durata per più di otto secoli, fino
all'introduzione del BGB negli stati dell'Impero Tedesco (1 gennaio 1900).
2. L'INSEGNAMENTO DEL DIRITTO ROMANO E LA DISTINZIONE FRA DIRITTO PUBBLICO E
PRIVATO
Le fonti giuridiche romane sono considerate unicamente in chiave storica, sia nella dottrina sia nell'insegnamento, nel quale si ha la
distinzione fra le Istituzioni di diritto romano e la Storia del diritto romano. Il corso istituzionale risale alle scuole di diritto in Roma. Il
primo manuale di Institutiones conosciuto è quello di Gaio, giurista dell'epoca dei Severi. Il manuale, risalente al II sec. d.C., ha avuto
una grande fortuna nel tardo-antico ed è per noi molto importante per tre motivi principali:
è l'unica opera della giurisprudenza classica ad esserci giunta nella sua completezza e senza manipolazioni di stampo
giustinianeo;
l'opera è caratterizzata da una grande chiarezza espositiva e si basa su un latino elementare;
è un'opera sistematica. Il materiale, infatti, è organizzato logicamente, secondo un sistema detto Tripartizione Gaiana, che
suddivide il diritto privato romano in tre grandi parti: diritto che riguarda le persone (personae), diritto che riguarda le cose (res) e
diritto che riguarda le azioni (actiones).
Il manoscritto è stato rinvenuto in un palinsesto della Biblioteca Capitolare di Verona, all'interno di un'opera di patrologia, sotto
forma di una recensione del V sec. d.C. Le Institutiones in generale erano manuali che davano un'informazione elementare (da
istituĕre, ossia insegnare per chiari elementi) ma complessiva di una branca di una determinata materia, allo scopo di introdurvi
coloro che vi facevano i primi passi. Le Institutiones di Gaio erano incentrate sull'esposizione del diritto e del processo privato, che
rappresentavano il centro di interessi dei giuristi romani. La Storia del diritto romano offre, invece, una trattazione delle fonti
romane finalizzata alla miglior comprensione del contenuto del Corpus Iuris Civilis e ricomprende il diritto costituzionale e tutte
quelle branche dell'ordinamento romano che non trovavano posto nelle Institutiones. La differenza fra i due corsi sta quindi
nell'oggetto: le Istituzioni espongono il diritto ed il processo privato, mentre la Storia ricomprende tutti gli altri aspetti
dell'esperienza giuridica romana.
3. IL METODO NELL'INSEGNAMENTO DELLE ISTITUZIONI
La differenza dell'oggetto pone una serie di problemi:
se conservare o meno la distinzione tra le due materie;
se l'impostazione tradizionale nell'esposizione storica del diritto privato è adeguata o meno;
quali sono metodo e linguaggio da seguire in quest'esposizione per problemi ed istituti.
Lo studio di un diritto dal punto di vista storico tende ad accertare quello che era ritenuto il diritto in un determinato periodo
storico. Non rientra fra i compiti dello storico il determinare quale sia il diritto che sarebbe dovuto essere in vigore in questi
determinati periodi. Lo storico del diritto però, qualsiasi sia l'esperienza giuridica studiata, deve inserire l'aspetto tecnico-giuridico
nel complessivo quadro della società a cui si riferisce l'esperienza giuridica oggetto dello studio: dall'economia alla politica, dalle
strutture sociali alla cultura ed alle ideologie dominanti. Neppure l'interprete del diritto vigente può sottrarsi alla necessità di tale
operazione. Il rapporto fra il complessivo assetto sociale e culturale e le strutture giuridiche non va concepito nel senso che queste
strutture siano l'effetto meccanico dell'assetto socio-economico. Sicuramente esiste un fenomeno d'interazione, ma spesso le
costruzioni concettuali o dogmatiche di una giurisprudenza professionale tendono a sopravvivere alle condizioni che le hanno
prodotte, adattandosi a funzioni diverse da quelle originariamente assolte.
L'esperienza giuridica costituisce senza dubbio un tutto complessivo. Si deve, comunque, procedere a quelle partizioni rese
necessarie anche dalle esigenze dell'apprendimento. Rispetto alla distinzione fra corso storico e corso istituzionale, il problema
riguarda l'opportunità o meno di mantenerla. Fanno propendere per un mantenimento alcune fondamentali distinzioni nel metodo
di studio e di esposizione, nonché nella periodizzazione, fra diritto privato e diritto pubblico, e la continuità fra l'esperienza giuridica
romana ed il nostro modo di vivere il diritto privato.
Tra i manuali dell'uno e dell'altro corso si nota una profonda differenza per quanto riguarda la diacronia: i manuali istituzionali
seguono le grandi partizioni del diritto privato, mentre i manuali storici sono articolati in funzione delle periodizzazioni relative alla
storia costituzionale romana. Il diritto privato è più direttamente collegato con l'assetto socio-economico. I momenti di cesura si
collocano nei periodi in cui tale assetto subisce incisive variazioni. Il diritto privato si divide in quattro grandi periodi:
periodo arcaico: corrisponde alla società patriarcale delle origini (circa VIII sec. a.C.). Il diritto si fonda sui mores (diritto
consuetudinario) e sulla distinzione tra ius e fas. È l'epoca della giurisprudenza pontificale, le cui decisioni e interpretazioni del
diritto non vengono motivate. La fase arcaica, che ricomprende la promulgazione della lex Duodecim Tabularum (la legge delle XII
Tavole, metà del V sec. a.C.), si spinge sino al II-I sec. a.C., quando i pontefici capiscono il disagio della popolazione, dovuto al non
avere una motivazione dell'applicazione delle regole di diritto, e iniziano a dare responsa motivati.
periodo classico: il momento di passaggio dalla fase arcaica alla fase classica è dato da Quinto Mucio Scevola, il Pontifex
Maximus che inizia a motivare le proprie sentenze. La laicizzazione della giurisprudenza viene poi perfezionata dal giurista Servio
Sulpicio Rufo, che applica il metodo dialettico, consentendo alla giurisprudenza romana di distaccarsi da quella tipica di una società
non sviluppata. Il nuovo strumentario permette al diritto di diventare una vera e propria scienza. Il periodo classico è anche detto
momento aureo della giurisprudenza romana e va dal I sec. a.C. fino al III sec. d.C.
periodo postclassico o burocratico: inizia l'opera di burocratizzazione della giurisprudenza romana. Con il passaggio alla
monarchia assoluta si verifica l'assorbimento del giurista all'interno della burocrazia imperiale. Il periodo è caratterizzato dal
fenomeno del volgarismo (volgarismo giuridico), a causa del quale il linguaggio diventa più complesso e meno scientifico: i giuristi
diventano dogmatici e la cristallinità del periodo classico si va, in parte, a perdere.
periodo tardo-antico: coincide con il dominato e termina con l'impero di Giustiniano.
Le segmentazioni della storia costituzionale, invece, devono tener conto dei mutamenti della struttura istituzionale: la prima cesura,
che si colloca a metà del periodo arcaico, si ha con il passaggio dalla monarchia alla repubblica alla fine del VI sec. a.C. Tra il III sec.
a.C. ed il III sec. d.C. si verifica un'altra cesura, che si coglie nel passaggio dalla repubblica all'impero (I sec. a.C. - I sec. d.C.). L'ultima
cesura coincide con il passaggio al tardo-antico e si ha con l'affermarsi dell'impero assoluto. L'esposizione congiunta dei due corsi,
non potendo rinunciare alla diacronia, dovrebbe utilizzare dei criteri di periodizzazione diversi. Di conseguenza, la trattazione
unitaria della materia dei due corsi di insegnamento appare alquanto inopportuna. Per quanto riguarda il diritto privato, il materiale
più abbondante ci è giunto attraverso la compilazione giustinianea ed è costituito da estratti di opere di giuristi classici, che limitano
i propri interessi al diritto ed al processo privato, argomenti questi che rendono più visibile la continuità fra l'esperienza giuridica
romana ed il nostro modo di vivere attualmente il diritto.
La questione delle categorie concettuali, e cioè del linguaggio che si deve adoperare nell'esporre l'ordinamento giuridico romano
nelle sue varie epoche, è stata al centro di un acceso dibattito dottrinale italiano. Il problema si pone in modo differenziato per le
varie epoche del diritto romano. È pacifico il fatto che non si possa studiare l'esperienza giuridica romana e di conseguenza esporre i
risultati di tale studio adoperando esclusivamente le categorie concettuali ed ancor più la terminologia proprie della giurisprudenza
romana, in quanto queste costituiscono l'oggetto degli studi e non possono esserne lo strumento esclusivo. Il problema che
sussiste, quindi, è quello di non incidere sulla storicità dell'oggetto attraverso lo strumentario concettuale utilizzato per
rappresentarlo. Si tratta quindi dell'adeguatezza di tali categorie, che va valutata sulla base della funzione ormai esclusivamente
storica della disciplina. Si deve tener conto del fatto che una struttura concettuale può esplicare i suoi effetti solo nei limiti in cui ne
sia percepita l'influenza ed attuata la potenzialità: non si possono imputare alla realtà storica studiata quelle che sono le implicazioni
di una categoria dogmatica la cui operatività non sia stata avvertita dai contemporanei. Per questo vanno fatte alcune distinzioni: da
una parte sta la ricostruzione delle strutture concettuali usate dai giuristi romani nelle soluzioni pratiche e teoriche da loro
proposte; da un'altra sta la questione dei limiti in cui hanno concretamente operato queste categorie; infine la possibilità per lo
storico di descrivere l'esperienza studiata attraverso l'impiego di certe categorie concettuali, nella consapevolezza che queste non
sono state avvertite dai contemporanei. L'ultima distinzione rileva soprattutto nel caso in cui l'oggetto dello studio sia un'esperienza
giuridica in cui è mancata un'elaborazione scientifica o concettuale da parte dei contemporanei, come quella romana. È necessario
dunque distinguere sempre la valenza che hanno attualmente certe categorie e quella che si deve loro riconoscere come
strumentario rappresentativo dell'esperienza giuridica romana.
CAPITOLO SECONDO - DIRITTO OGGETTIVO E DIRITTI SOGGETTIVI
4. LE NORME GIURIDICHE E LE ALTRE NORME A RILEVANZA SOCIALE
Con l'uso del termine diritto si fa riferimento a due fondamentali categorie, strettamente connesse fra loro sotto l'aspetto
strutturale e funzionale: diritto oggettivo e diritto soggettivo.
L'essere e l'operare dell'individuo nella società in cui vive è disciplinato da una serie di regole di condotta, al cui interno si
individuano insiemi di norme dal carattere differenziato. Il diritto oggettivo è uno di questi insiemi. È necessario individuare i
caratteri differenziali delle norme giuridiche rispetto alle altre norme. La norma giuridica si distingue in relazione alla sua funzione
ed alla sua struttura. La funzione è quella di disciplinare e risolvere conflitti d'interesse intersoggettivi e presuppone
un'organizzazione sociale (ubi societas, ibi ius; ubi ius, ibi societas). Per quanto riguarda la struttura, rappresenta un comando
generale ed astratto: tende a regolare una serie indefinita di casi, purché in questi si possano ritrovare i presupposti che la norma
fissa per la sua applicazione.
Caratteristica essenziale della norma giuridica è la coercibilità. Per comprendere la natura di tale caratteristica, si deve porre la
distinzione tra norme di qualificazione (di organizzazione) e norme di relazione (di comportamento). Strutturalmente, la norma è
composta da due parti fondamentali: la descrizione di una situazione di fatto che si può verificare nella realtà storica (fattispecie) e
l'individuazione degli effetti giuridici che ne conseguono. La struttura logica consiste sempre in un discorso ipotetico: se si verifica
una determinata fattispecie, allora si hanno certi effetti giuridici. La funzione delle norme di qualificazione si esaurisce
nell'attribuire, sul piano del diritto, una certa qualità ad un soggetto, ad una cosa o ad una situazione di fatto. Le norme di relazione,
invece, risolvono direttamente i conflitti di interessi attribuendo determinati poteri ad un soggetto nei confronti di un altro
soggetto, creando così una situazione in cui si contrappone un diritto soggettivo ad un dovere giuridico.
A causa dell'esaurirsi della funzione nell'attribuzione di una qualità, per le norme di qualificazione non si pone il problema della
violazione della norma stessa. La coercibilità delle norme di qualificazione si ritrova quindi nell'indefettibilità e nell'irretrattabilità
della qualificazione giuridica. Le norme di relazione, invece, impongono ad un soggetto un dovere di comportamento e per la loro
attuazione richiedono la collaborazione dello stesso. Tale collaborazione è dovuta, ma il soggetto tenutovi può rifiutarla. S i presenta
quindi il problema della violazione della norma e delle conseguenze di tale violazione, cioè la sanzione, che infligge a colui che ha
violato un dovere di comportamento un male od uno svantaggio, economico o personale, riconosciuto come socialmente rilevante.
La sanzione può avere funzioni diverse: può esser indipendente dal fine di ripristinare o soddisfare l'interesse leso, e si parlerà di
sanzione (o coazione) indiretta; o può avere lo scopo di soddisfare l'interesse violato, e si avrà una sanzione diretta. Quest'ultima è a
sua volta di due specie: può essere una riparazione dell'interesse leso in forma specifica, che ristabilisce coattivamente la situazione
di fatto pre-esistente alla violazione del dovere di comportamento; o un risarcimento del danno per equivalente, che si può
riscontrare soltanto ove sia leso un interesse patrimoniale e che consiste nell'attribuire al soggetto leso il diritto di esigere da colui
che ha violato la norma una somma di denaro equivalente alla valutazione pecuniaria della lesione.
Va fatta la distinzione tra la norma giuridica stessa e le altre norme a rilevanza sociale, cioè le norme morali e le norme religiose. La
norma giuridica e la norma morale di riferiscono all'agire dell'uomo ed entrambe hanno carattere valutativo, in quanto pongono un
criterio per giudicare il comportamento di una persona. Vi è, però, una duplice differenza: la norma morale esaurisce la propria
funzione nella valutazione del comportamento di un soggetto e si limita a porre un criterio di valutazione, mentre la norma giuridica
regola la posizione del soggetto nella sua dimensione intersoggettiva e deve ricevere una sanzione sul piano sociale, proprio perché
norma coercibile.
Il discorso per le norme religiose è più complesso. La religione ha un suo sistema valutativo dei comportamenti umani dal punto di
vista etico, e quindi una sua morale. È però un fenomeno prevalentemente sociale, che dà luogo ad un'organizzazione sul piano
sociale di coloro che si riconoscono in una fede religiosa, arrivando, come nelle città-stato antiche, all'identificazione fra
l'appartenenza ad una civitas e quella ad un sistema religioso. A questo punto, le norme che riguardano l'organizzazione sociale
della comunità religiosa sono norme giuridiche.
Minor importanza hanno le norme a rilevanza unicamente sociale, come le regole di buona educazione e cortesia, che hanno come
referente la società, e quindi i rapporti intersoggettivi che si producono in essa. La differenza con le norme giuridiche sta nella
coercibilità: alla violazione di tali norme, infatti, può conseguire soltanto una reazione sul piano dell'autotutela, lecita nei limiti posti
dall'ordinamento.
5. IUS E FAS NELL'ORDINAMENTO ROMANO
Dalla fine del III sec. a.C. si riscontra la contrapposizione tra ius e fas, riportata a quella fra norme giuridiche e norme religiose. Le
norme del ius avrebbero avuto un carattere più propriamente giuridico, mentre quelle del fas sarebbero state quelle di natura
religiosa o etico-religiosa. Concettualmente, una commistione tra le due sfere non può esistere, ma può verificarsi il fatto che gli
stessi comportamenti siano oggetto di valutazione dal punto di vista dell'ordinamento dello stato e di un ordinamento religioso.
Questo accadeva nella Roma primitiva, dove si aveva un religione di stato e l'appartenenza alla civitas comportava necessariamente
la partecipazione al culto cittadino. Le norme che riguardavano l'organizzazione della religione cittadina erano dunque norme dello
stato. La rilevanza sul piano giuridico delle norme religiose ha lasciato traccia in alcuni istituti privatistici: per ottenere effetti
vincolanti sul piano sociale si ricorre talvolta all'aspetto religioso. È possibile che già nel periodo arcaico vi fosse la distinzione fra un
ius humanum, con risvolti laici, ed un ius sacrum, o divinum, che riguardava la religione di stato ed i rapporti con la divinità. Il ius
sacrum si contrappone al ius humanum e forma un sistema normativo a sé stante, in cui le violazioni delle norme e le sanzioni
venivano accertate ed inflitte dal pontifex maximus, che comunque rimaneva parte dell'ordinamento giuridico cittadino. Sin dalla
tarda repubblica, però, si distingue la sfera della valutazione laica da quella religiosa e nei rapporti privatistici viene meno la
rilevanza degli aspetti religiosi. Una netta inversione di tendenza si ha nel tardo-antico, con il progressivo assurgere del cristianesimo
a religione di stato. La vocazione della Chiesa a monopolizzare la vita religiosa e a valutare ogni aspetto della realtà pratica in base ai
parametri della fede ha giocato un ruolo decisivo. Una pari tendenza accentratrice era propria anche dell'ideologia imperiale: i
detentori del potere avevano un grande interesse per la fenomenologia religiosa, che li portava ad un grande controllo su di essa e a
porsi come difensori della religione. Quest'ingerenza del potere politico, detta cesaropapismo, portò il legislatore civile ad occuparsi
anche degli aspetti teologici della religione.
6. ORDINAMENTO GIURIDICO E FONTI DEL DIRITTO
Le norme che hanno vigore nell'ambito di una determinata comunità ne formano l'ordinamento giuridico. Oggi, tendenzialmente, si
riconosce il carattere di norma giuridica anche alle norme rilevanti da un'organizzazione diversa dallo stato, purché ne sia assicurata
la coercibilità.
Le norme giuridiche che compongono un ordinamento trovano origine in fatti giuridici definiti come le fonti del diritto oggettivo. La
vicenda delle fonti del diritto romano è differenziata nel tempo ed impone una trattazione diacronica. I cataloghi delle fonti proposti
dagli stessi romani vanno valutati tenendo conto delle finalità concrete con essi perseguite.
Dal I sec. a.C. le fonti del diritto romano sono enumerate in opere giuridiche. Gaio e Papiniano danno questo elenco di fonti:
leges e plebis scita;
senatusconsulta;
constitutiones principum;
edicta magistratum;
responsa prudentium.
Nel loro insieme, queste fonti formano il iura populi Romani. Alcune, però, non sembrano riconducibili al concetto di fonte del
diritto come fonte di norme generali ed astratte. Gaio, però, individua le fonti attraverso cui si identificano le norme giuridiche e le
massime di decisione da applicare al caso concreto, cioè nel processo.
7. LE FONTI DEL DIRITTO IN EPOCA REPUBBLICANA
Anteriormente alla codificazione decemvirale della metà del V sec. a.C., l'ordinamento romano era costituito da mores risalenti alla
fase precivica. Nella sostanza, i mores erano norme a formazione consuetudinaria, ma nella consapevolezza dei contemporanei il
fondamento di legittimità del diritto che si veniva così creando poteva essere un altro. Ancora nella civitas primitiva, le norme dei
mores fondano la propria validità nella rispondenza ad un ordinamento metapositivo, sentito di per sé vincolante ed insito nella
natura delle cose. Da questo punto di vista, i mores sono il modo in cui si manifesta la vigenza dell'ordinamento immanente nella
struttura dei rapporti socio-economici. Nel periodo predecemvirale la memoria dei mores era affidata al collegio sacerdotale più
importante di Roma antica: il collegio dei pontifices, che dovevano procedere ad un lavoro di massimazione del diritto vigente,
raccogliendo così il materiale poi utilizzato dai decemviri. Il linguaggio della codificazione decemvirale è tecnico e sintetico e la
struttura dei versetti è quella di una prosa ritmica, funzionale alla memorizzazione orale dei mores.
A seguito delle lotte patrizio-plebee del V sec. a.C., i mores vennero codificati nella legge delle XII Tavole (451-450 d.C.). Il diritto
scritto garantiva così una relativa certezza del diritto, sottraendolo all'esclusiva memoria dei pontifices patrizi. L'opera dei decemviri
si limitò a codificare i mores esistenti, il cui carattere non venne sostanzialmente cambiato (carattere esaustivo della legislazione),
non lasciando escluso dalla lex Duodecim Tabularum alcuna norma sancita nei mores. La legge delle XII Tavole è molto importante
non per la sua struttura, in quanto oltremodo asistematica, ma per il fatto che era la prima legge romana scritta su tavole.
È discusso se i decemviri abbiano fatto votare la legge delle XII Tavole nei comitia centuriata (assemblee popolari) o se l'abbiano
emanata in virtù dei poteri di cui erano stati investiti. Tra le due ipotesi, tende a prevalere la prima. All'inizio della repubblica si
riscontra un intervento del potere legislativo esercitato dai comizi: la lex rogata votata nei comitia su proposta del magistrato resta
per tutto il periodo repubblicano l'unico mezzo per creare diritto oggettivo. Sotto il termine lex sono ricomprese le leges rogatae in
senso stretto, cioè quelle proposte dal magistrato e votate dai comitia e i plebiscita, ossia le delibere della plebe (concilia plebes
tributa). Per la lex publica si distingue la lex rogata dalla lex data, imposta da un atto del magistrato. Per lo sviluppo del sistema
privatistico la lex ha avuto una portata molto limitata, non essendo mai stata adoperata per l'introduzione di nuovi istituti, ma per
svariati altri motivi. Tra questi rientrano il ritoccare la disciplina normativa di istituti già esistenti, il riordinare ed eventualmente
unificare istituti similari, il sopprimere figure giuridiche la cui abrogazione non poteva essere lasciata alla desuetudine e l'incidere su
aspetti settoriali ma di particolare rilevanza socio-politica. Col passaggio dalla repubblica al principato la lex tende ad un declino
inarrestabile. L'editto del pretore provvedeva così, dalla fine del III sec. a.C., alle esigenze più pressanti che si sviluppavano dalle
modificazioni socio-economiche verificatesi nella società romana: il pretore poteva anche intervenire nel senso di far disapplicare le
norme del ius civile che non erano più sentite adatte alle mutate condizioni sociali della società romana.
Il diritto così creato dal pretore viene a costituire un sottosistema normativo a sé stante, il ius honorarium, che si contrappone al
sottosistema formato dal ius civile. L'attività del pretore è strettamente collegata con il processo formulare, che ha origine
nell'ambito della iurisdictio peregrina, in cui il pretore dà una disciplina giuridica ai rapporti nascenti dai traffici internazionali.
8. LE FONTI DEL DIRITTO NEL PRINCIPATO
Alla fine del I sec. a.C., con la fondazione del principato, nella figura del princeps erano destinati a concentrarsi sia il potere politico
sia il potere normativo. Ciò portò ad un controllo da parte del princeps sulle fonti del diritto proprie del sistema repubblicano e sul
potere discrezionale del magistrato giusdicente. La lex rogata cadde rapidamente in disuso e le assemblee popolari divennero
desuete.
Augusto individuò cos nuove forme di atti normativi: i senatusconsulta e le constitutiones principum. Per tutto il principato, lo
sviluppo del sistema normativo privatistico fu attuato dal princeps mediante i senatusconsulta, ossia le delibere prese dal senato, su
cui ovviamente il princeps esercitava un forte controllo. I provvedimenti al riguardo presi dal senato già in periodo repubblicano
invitavano semplicemente il pretore ad esercitare in un determinato modo i suoi poteri discrezionali. Le decisioni vincolavano il
magistrato, ma non avevano un'efficacia diretta nei confronti dei soggetti dell'ordinamento. La prassi perdurò nel I sec. d.C., quando
i senatusconsulta continuarono a rilevare, nei confronti di questi ultimi, solo sul piano del ius honorarium. Solo con il regno di
Adriano, ai provvedimenti senatori venne riconosciuta forza di legge e, di conseguenza, forza vincolante nei confronti dei soggetti
dell'ordinamento.
Il cambiamento più importante nel sistema normativo del periodo imperiale è rappresentato dalle costituzioni imperiali, i
provvedimenti normativi dello stesso imperatore. Nell'epoca classica ne furono emanate di vari tipi, fissati prima della metà del II
sec. d.C. Si distingue fra costituzioni generali, che pongono norme giuridiche in senso proprio (edicta e mandata), e costituzioni
particolari, che risolvono un caso concreto (decreta, epistulae e rescripta). Gli edicta si fondavano sull'imperium del princeps e
ponevano norme generali ed astratte. I mandata erano invece istruzioni date dall'imperatore ai propri funzionari, sempre sulla base
del proprio imperium. I decreta erano le sentenze emanate dall'imperatore nell'esercizio diretto della giurisdizione, solitamente in
sede d'appello. Con rescripta ed epistulae l'imperatore fissava in modo vincolante la norma da applicare in una controversia relativa
ad un caso concreto (con i primi se il caso era portato a sua conoscenza da un privato, con le seconde se da un funzionario o
magistrato). Al giudice era comunque riservato il potere di accertare la situazione di fatto. Gaio ci informa che le costituzioni
imperiali avevano forza di legge ed erano dunque idonee a creare ius civile: questa efficacia era fondata sul fatto che l'imperatore
assumeva i suoi poteri sulla base della lex de imperio. In dottrina si discute sulla possibilità della creazione di norme generali ed
astratte attraverso le costituzioni particolari. Secondo le fonti, il principio posto alla base della decisione presa con la costituzione
era considerato come un precedente. Di conseguenza, anche se difficilmente disapplicabile, doveva rientrare nel ius controversum,
al pari dell'opinione di qualsiasi altro giurista.
Nel I sec. d.C., dopo le grandi riforme di Augusto, la politica legislativa privatistica degli imperatori si venne svolgendo attraverso
senatusconsulta. Dal regno di Adriano, la presenza dell'imperatore nello sviluppo del diritto privato si fece sempre più attiva non
attraverso la normazione generale ed astratta, bensì con l'impiego delle costituzioni particolari. La partecipazione dell'imperatore
avveniva così in forme omogenee all'operare della giurisprudenza romana, rendendola così più accettabile per i giuristi.
9. LA GIURISPRUDENZA REPUBBLICANA
L'auctoritas od i responsa prudentium concorrono alla formazione dei iura populi Romani, così come tutti i fatti normativi creatori di
norme generali ed astratte. La giurisprudenza non è solo una delle partes di tali iura, perché l'attività dei giuristi è il momento
centrale ed unificatore dell'esperienza giuridica romana. Con giurisprudenza si intende quell'insieme di soluzioni teorico-pratiche
che costituiscono il fondamento delle decisioni dei tribunali e delle corti. Si contrappone quindi alla dottrina, ossia alle opinioni
espresse dai giuristi al di fuori di un'attività decisionale nei tribunali. I prudentes romani, invece, sono i giuristi, e la iurisprudentia è
l'insieme delle opinioni che vengono formulate nella loro attività (si può identificare con la dottrina in senso moderno). Una dottrina
delle corti, la giurisprudenza in senso moderno, non esiste in Roma, per il fatto che i giudici non erano operatori professionali del
diritto.
In seguito alla codificazione decemvirale, il collegio dei pontifices, perso il compito della memoria dei mores, continua ad essere
depositario del sapere giuridico, essendo competente a rispondere ai quesiti di magistrati, giudici e privati su quale fosse la regola di
diritto da applicare al caso concreto. L'interpretatio dei pontifices non si pone sullo stesso piano dell'interpretazione della legge nei
sistemi giuridici moderni. Nonostante la fissazione dei mores, il collegio restava il mediatore fra l'ordinamento immanente nella
natura della società e gli uomini. I pontifices erano interpretes iuris, coloro che dichiaravano ciò che era il diritto, e si comportavano
con grande libertà. Allontanandosi dal tempo delle XII Tavole, l'interpretatio assunse una sempre più marcata indipendenza dalle
normazioni decemvirali: il ius civile consisteva così nella sola elaborazione giurisprudenziale.
Con la laicizzazione della giurisprudenza, fra il III ed il II sec. a.C., la situazione non cambiò. La giurisprudenza laica esercitava solo
un'attività di consulenza pratica, che nel II sec. a.C. iniziò ad evolversi verso una riflessione anche teorica, dovuta anche
all'affermarsi del carattere scientifico del sapere giuridico, che connoterà la giurisprudenza tardo-repubblicana e del principato, e
che si affermerà definitivamente con il pontifex maximus Quinto Mucio Scevola. L'auctoritas dei pontifices rendeva indiscutibile il
parere che il collegio formulava. L'unità della giurisprudenza pontificale era assicurata dall'indiscussa prevalenza del precedente
all'interno del collegio. Le cose cambiarono con i giuristi laici, che offrivano ai consulenti solo la loro opinione personale. Le
sententiae dei giuristi erano però assistite dall'auctoritas dovuta all'appartenenza alla classe nobiliare e al sapere tecnico
riconosciuto al singolo giurista. Le opinioni, che potevano essere contrastanti, venivano tutte sentite come diritto vigente e
formavano il ius controversum.
10. LA GIURISPRUDENZA NEL PRINCIPATO
La situazione non mutò nemmeno con il principato. Il ius controversum, favorito dal contrapporsi delle due scuole di diritto dei
sabiniani e dei proculeiani, raggiunse i massimi livelli. L'auctoritas dei giuristi iniziò però a basarsi sul riconoscimento dato loro
dall'imperatore mediante la concessione del ius respondendi ex auctoritate principis, attribuito in modo imparziale ai giuristi di
entrambe le scuole.
Dalla metà del II sec. d.C. nel ius controversum si inserì l'elemento di novità costituito dai rescripta imperiali e i maggiori giuristi
cessarono di seguire la carriera senatoria, decidendo di percorrere la carriera equestre della burocrazia imperiale. Una svolta
decisiva è rappresentata dall'esaurirsi della giurisprudenza classica. Dal 240 d.C. circa, l'interpretazione del diritto spettò soltanto
alla cancelleria imperiale, che operò con modalità omogenee rispetto alla giurisprudenza severiana. Il cessare dell'attività letteraria
dei prudentes fece venir meno la possibilità di creazione di nuovo ius controversum, che però non sparì e si trasferì all'epoca tardo-
antica.
In questo quadro, i responsa prudentium concorrono a formare i iura populi Romani. Se le opiniones dei prudentes coincidevano,
l'opinione vincolava il giudice perché otteneva forza di legge. Già all'epoca di Gaio era intervenuta la novità del ius respondendi ex
auctoritate principis. Il parere del giurista insignito del ius respondendi era vincolante, a meno che non fosse contraddetto da quello
di un altro giurista munito anch'egli di tale prerogativa. In questo caso, la scelta fra le opinioni era lasciata al giudice. L'inserimento
dei responsa prudentium fra le partes dei iura populi Romani trova una duplice giustificazione: le opinioni dei giuristi e le decisioni
degli imperatori contribuivano a formare il ius controversum, sentito come diritto vigente, e la particolare operatività di responsa e
rescripta era idonea a determinare quale fosse il diritto da applicare nel singolo caso concreto.
Altra caratteristica fondamentale dell'esperienza romana è il metodo adoperato. La giurisprudenza laica nasce come giurisprudenza
essenzialmente pratica, determinando la metodologia casistica della giurisprudenza romana. Da Quinto Mucio Scevola, i prudentes
laici elaboravano la materia privatistica indipendentemente dall'immediata sollecitazione costituita dalla consulenza pratica. Il
metodo casistico comportava anche che i problemi venissero affrontati e risolti mediante l'esame di casi pratici, riportati in opere
giuridiche precedenti. Quindi, tutte le categorie generali e le definizioni che sorreggono il sistema elaborato dalla giurisprudenza
trovano il loro necessario punto di riferimento ed il limite di applicazione nel caso pratico rispetto al quale vengono saggiati. Il modo
di lavorare dei giuristi romani può dunque dirsi metodo topico, connesso al pensare per casi o per problemi, che trova applicazione
nell'interpretatio prudentium.
Nonostante i responsa prudentium fossero solo una delle partes dei iura populi Romani, l'attività dei giuristi restò centrale
nell'ambito dell'intero sistema del diritto oggettivo, anche per quelle parti che si fondavano su atti normativi diversi dalla
giurisprudenza stessa. Il sistema normativo in cui operava il giurista romano si può quindi definire come un sistema aperto. Più o
meno consapevolmente, i giuristi romani operavano valutando i principi impiegati nella risoluzione dei singoli casi pratici come
criteri che potevano sempre essere superati o sostituiti, per il fatto che una ricostruzione della medesima fattispecie poteva portare
alla luce come si fossero trascurati aspetti decisivi e perché in casi che potevano essere astrattamente ricondotti alla medesima
fattispecie si presentavano delle varianti che imponevano una soluzione diversa. Celeberrima è la definizione di Celso: ius est ars
boni et aequi.
11. LA CONSUETUDINE NEL PERIODO CLASSICO
La consuetudine non attirò l'attenzione dei giuristi romani praticamente fino all'inizio del II sec. d.C. I giuristi Gaio, Pomponio e
Papiniano nemmeno la inseriscono nelle enumerazioni delle fonti. Il problema, però, è quello di giustificare una serie di
modificazioni del ius civile non avvenute sulla base di atti normativi. Al proposito, hanno influito il ruolo creativo riconosciuto
all'interpretatio prudentium ed il residuare della convinzione che vi fosse una disciplina dei rapporti giuridici immanente alla
struttura socio-economica dei rapporti stessi. Solo con Giuliano si iniziò a prestare attenzione alla consuetudine, inefficace però al di
fuori degli usi regionali (mos regionis). Il fondamento della consuetudine si trova nell'equiparazione fra lex e consuetudo sulla
voluntas populi che, esplicita nella lex, si manifesterebbe come uniformità di comportamenti nella consuetudine.
12. LE FONTI DEL DIRITTO NEL TARDO-ANTICO ED IL VOLGARISMO
Con il passaggio dal principato al dominato (III-IV sec. d.C.) il potere normativo si accentrò definitivamente nella persona
dell'imperatore. In concomitanza con il fenomeno del volgarismo, le forme della giurisprudenza classica vennero meno.
L'unico strumento che, nel tardo-antico, permetteva l'adattamento della normazione vigente alle mutate condizioni economiche,
politiche ed ideologiche della società è rappresentato dalle costituzioni imperiali, le leges generales eredi degli edicta. I rescripta
persero rilevanza legislativa con Costantino, che affermò che i rescritti non potevano estendersi oltre la fattispecie considerata se
non espressamente voluto dal legislatore e che quelli ottenuti contra ius non valevano. Le leges generales erano adoperate anche
per dettare la disciplina dei rapporti privatistici. Sempre con Costantino si ebbe un diverso atteggiamento verso la consuetudine,
soprattutto grazie alla creazione di una disciplina positiva al riguardo: la consuetudine era efficace se non contraria a ratio e lex.
Il periodo postclassico è contrassegnato dal venir meno delle forme della giurisprudenza classica. Gli ultimi grandi giuristi sono quelli
dell'epoca dei Severi (inizi del III sec. d.C.): Papiniano, Paolo e Ulpiano. Dal 250 d.C. i giuristi educati alla giurisprudenza classica
iniziarono a lavorare nella cancelleria imperiale, rendendosi del tutto anonimi. Nel IV sec. d.C. l'esperienza giuridica è così
caratterizzata dal volgarismo e dal diritto volgare. Con la qualifica di volgare si intende sottolineare il fatto che l'esperienza giuridica
si svolse all'infuori di una riflessione scientifica sul diritto positivo: volgare, dunque, significa non scientifico.
I tratti del volgarismo si possono riscontrare nello stile della cancelleria imperiale, dove le leges generales del IV-V sec. d.C.
mostrano i segni di una notevole decadenza della preparazione tecnico-giuridica del personale addetto all'ufficio. Il classicismo resta
vivo nelle scuole: è così opportuno differenziare il classicismo delle scuole postclassiche dalle forme classiche. Il professore nelle
scuole postclassiche di diritto, l'antecessor, è solo un insegnante, che non si sente legittimato ad intervenire all'interno del ius
controversum, ritenuto come immodificabile, e che si limita al commento e all'esegesi di tale ius, facilitando la scelta fra le soluzioni
contrastanti.
Le opere dei giuristi divennero così vere e proprie fonti del diritto, costituendo i iura, che però, rispecchiando il ius controversum,
contenevano una pluralità di soluzioni per i singoli casi concreti. Al giudice, inoltre, venne lasciato un eccessivo margine di scelta,
che poteva mettere a rischio capacità ed onestà del giudice stesso. Queste ragioni portarono l'imperatore Valentiniano III a regolare
l'uso dei iura nei tribunali. Egli individuò un certo numero di giuristi le cui opinioni potevano essere addotte a sostegno di una delle
parti e fissò un criterio meccanico per la scelta fra quelle addotte: prevaleva l'opinione della maggioranza fra i giuristi citati dalle
parti. Si tratta della legge delle citazioni del 426 d.C. I giuristi la cui opinione poteva essere citata, vincolando il giudice, sono
Papiniano, Paolo, Ulpiano, Modestino e Gaio. Fra tutte le opinioni citate in giudizio, se non si riscontrava una maggioranza,
prevaleva, se presente, l'opinione di Papiniano. Altrimenti, al giudice era lasciata libera scelta. Ovviamente, questa legge era
applicata solo se il problema non si risolveva al livello delle costituzioni imperiali.
Anche in Oriente, con Teodosio II, si ebbe una codificazione: il Codice Teodosiano, nel quale l'imperatore, dal 429 al 439 d.C.
raccolse le leges generales degli imperatori cristiani e sistemò le fonti del diritto, dando valore al Codice Gregoriano e al Codice
Ermogeniano, e recependo la legge delle citazioni.
13. LA COMPILAZIONE GIUSTINIANEA
L'opera legislativa di Giustiniano rientra in un più ampio disegno politico volto alla restaurazione politica e militare dell'impero. Il
materiale più importante per la ricostruzione del diritto classico proviene da tale compilazione. Il Corpus Iuris Civilis, come la
compilazione è stata definita dai medievali, si compone di:
due Codex;
il Digestum;
le Institutiones;
le Novellae constitutiones.
In un primo momento, Giustiniano si limitò a realizzare una più facile conoscenza delle costituzioni imperiali mediante la redazione
del Novus Codex Iustinianus, iniziata nel 528 e completata nel 529 d.C. Le leges utilizzate erano tratte dai codici precedenti. Nessuna
variazione si verificò per quanto riguarda i iura, restando in vigore la legge delle citazioni. Fra il 530 ed il 531 d.C. Giustiniano
intervenne in questo sistema, sostituendo alla scelta tra le varie opinioni una propria soluzione, che mediava tra le varie opiniones e
teneva conto delle mutate condizioni giuridiche (Quinquaginta decisiones).
Il Digesto, iniziato nel 530 d.C., doveva consistere in una compilazione antologica dei iura, destinata a sostituire definitivamente e
senza possibilità di eccezione l'utilizzazione delle Quinquaginta. Nel 533 d.C. il Digesto venne promulgato, appena dopo la
promulgazione di un'altra opera: le Institutiones, che sostituivano l'omonimo manuale gaiano, e che potevano essere addotte nei
tribunali, funzionando così come fonti del diritto.
Negli anni della compilazione erano però state emanate altre costituzioni imperiali. Si rese così necessaria una nuova edizione del
Codex, che venne promulgata nel 534 d.C. sotto il nome di Codex repetitae praelectionis. Prima dell'inizio dei lavori al secondo
codice, Giustiniano ordinò il sequestro delle copie di quello vecchio, facendole poi distruggere. Un frammento del primo Codex si è
però conservato, e dimostra il fatto che il secondo codice non era solo una riedizione del primo, ma una vera e propria modifica.
Successivamente, Giustiniano emanò una serie di costituzioni che andarono a costituire le Novellae constitutiones, le quali si
riferivano ad ampie parti dell'ordinamento giuridico: dalla pubblicistica e l'amministrazione fino alla privatistica.
14. LA VALUTAZIONE STORICA DEL CORPUS IURIS
La compilazione giustinianea è stata sottoposta ad un'interpretazione armonizzante, allo scopo di ricavarne un sistema normativo da
applicare nella prassi.
Con il progressivo venir meno del valore del diritto romano come diritto positivo, si è creata la tendenza a considerare sotto il
profilo storico il materiale contenuto nella compilazione giustinianea, che ha avuto origine in un arco di più di seicento anni. Sul
piano di una valutazione storica, è nato il problema del valore da attribuire al Testo a seconda dell'epoca alla quale può essere
riferito. L'impostazione originaria è stata quella di distinguere la portata originaria dei testi da quella che essi avevano nel Corpus
iuris, tenendo conto delle modificazioni subite dai testi stessi nel lavoro di compilazione. Si è affermata, all'inizio del '900, la ricerca
delle interpolazioni, ossia delle aggiunte, sostituzioni o soppressioni apportate dai compilatori ai passi utilizzati. Tale orientamento,
però, si basava su presupposti metodologici scarsamente affidanti. Erano presenti gravi manchevolezze sul piano filologico, in
quanto la critica interpolazionistica si basava su una serie di assiomi non provati, fra i quali aveva un influsso molto negativo la
tendenza a considerare il periodo classico come unitario, nonostante si estendesse su un periodo di 250 anni.
Si arrivò a conseguenze perverse nello studio delle fonti provenienti dal ius controversum: le diverse sententiae venivano prese una
come espressione del diritto classico, quella opposta come espressione del diritto giustinianeo. Si comprese poi che la
storicizzazione dello studio delle fonti giuridiche romane non si esauriva nella contrapposizione classico-giustinianeo.
Ora sono diversi anche i modi in cui si intende il diritto giustinianeo. Esso non è più il diritto della compilazione, ma può designare
diversi fenomeni: diritto giustinianeo è il diritto contenuto negli atti normativi dell'imperatore; è il diritto che di volta in volta i
compilatori volevano sancire nell'attuazione del loro compito; diritto giustinianeo può essere quello ricostruito dai commentatori
coevi alla compilazione; diritto giustinianeo può anche essere il diritto effettivamente applicato nella prassi dei tribunali.
15. LE CLASSIFICAZIONI DEL DIRITTO OGGETTIVO. IUS CIVILE, IUS GENTIUM, IUS NATURALE.
Nella giurisprudenza dell'età tardo-repubblicana e classica si trovano alcune classificazioni del diritto oggettivo.
Una prima distinzione si attua fra ius humanum e ius divinum (sacrum). Questa è però una partizione adoperata non a scopi
classificatori.
Fra le altre classificazioni, riferite tutte al ius humanum, rileva dalle Institutiones di Gaio la partizione fra ius civile e ius gentium. Il ius
civile è costituito dalle norme di diritto che si riscontrano soltanto presso un singolo popolo, è un ius proprium civitatis. Il ius
gentium è invece quel diritto che la naturalis ratio ha introdotto presso tutti i popoli. Gaio lo chiama anche ius naturale. La
bipartizione gaiana viene ampliata da Ulpiano, che distingue fra ius naturale, ius gentium e ius civile. Le tre categorie si differenziano
per la diffusione delle norme che vi rientrano: la diffusione più ampia è quella delle norme di ius naturale, che comprende le regole
che la natura insegna a tutti gli esseri animati. Il ius gentium è quello comune a tutti gli uomini e ricomprende le norme del ius
naturale, ma solo quelle applicabili agli uomini. Il ius civile è il diritto proprio delle singole civitates. La classificazione ulpianea è stata
fortemente criticata dalla metodologia interpolazionistica.
La bipartizione gaiana e la tripartizione ulpianea hanno solo valore descrittivo, in quanto in Gaio prevale una prospettiva
comparatistica, mentre in Ulpiano si ha una più ampia impostazione filosofica. La qualificazione di una norma dell'ordinamento
romano nulla dice sulla concreta operatività della stessa. Le fonti, però, conoscono un diverso significato della contrapposizione fra
ius civile e ius gentium, di portata dogmatica e normativa. Il ius civile è quella parte del sistema civilistico la cui applicazione rimane
limitata ai cittadini romani (ius civile Romanorum), mentre il ius gentium è la parte che si può applicare anche agli stranieri. Il ius
gentium è così un insieme di norme con una duplice origine: si tratta di istituti che alle origini erano di diritto onorario, essendo nati
nell'ambito della iurisdictio peregrina, e di altri istituti di ius civile estesi agli stranieri. Si nota quindi una progressiva tendenza ad
allargare l'ambito del sistema civilistico anche agli stranieri. Lo sviluppo è già cessato al momento della promulgazione della
Constitutio Antoniniana, che estende la cittadinanza romana a tutti gli abitanti dell'impero.
I due significati assunti dalla bipartizione fra ius civile e ius gentium sono connessi con la contrapposizione cittadino-straniero. Non
tutti gli istituti che in un senso sono di ius civile o di ius gentium lo sono anche nell'altro.
In fonti non tecniche risulta l'utilizzo del ius gentium per designare quello che oggi si chiama diritto internazionale pubblico
(adoperato in questo senso da Pomponio).
16. IUS EX SCRIPTO ED EX NON SCRIPTO. IUS E LEX
Il ius si distingue in ius ex scripto, cioè il diritto prodotto da fonti esclusive dei iura populi Romani, e ius ex non scripto, ossia le
consuetudini. La classificazione, però, non rileva nella compilazione giustinianea.
Si pensa in dottrina che i romani abbiano conosciuto un significato di ius contrapposto alla lex. Ius sarebbe stato il diritto non scritto,
fondato sui mores, mentre la lex sarebbe un atto normativo espresso per cui era essenziale la documentazione scritta. Il ius si
identificherebbe come quello che Pomponio definiva come il proprium ius civile. Il passo, però, si riferisce al ius controversum e nelle
fonti non risulta il fatto che i romani riconoscessero una rilevanza ai mores nel periodo postdecemvirale.
È sorta anche la questione se il ius civile fondato sui mores possa essere abrogato o modificato da una lex: la soluzione, in questo
caso, è stata negativa per lungo tempo. Si è sostenuto anche che, nelle XII Tavole, le normazioni che riproducevano il ius precedente
sarebbero immodificabili, mentre quelle che trovavano fondamento nella volontà legislativa dei decemviri sarebbero state
modificabili (perché basate su una semplice lex). Nelle fonti, invece, non si riscontra alcuna traccia di tale inderogabilità. Le stesse XII
Tavole sanciscono il principio in base al quale le deliberazioni del popolo abrogano il diritto precedente. Sul piano della prassi è,
però, certo che nell'esperienza repubblicana la lex incise sull'ordinamento mediante l'abrogazione di interi istituti rilevanti dai
mores.
La propensione ad utilizzare la lex per questi motivi era però molto limitata e ciò sarebbe spiegato dalla convinzione che le norme
manifestate dai mores si fondavano sulla natura delle cose. Va osservato che nella prassi repubblicana le leggi che vietavano certi
atti o negozi, spesso non ne sancivano la nullità. Si impone dunque la distinzione fra lex perfectae, che vietando un atto ne
dispongono la nullità, leges minus quam perfectae, che vietando un atto non ne dispongono la nullità ma irrogano una pena a colui
che ha violato il divieto, e leges imperfectae, le quali pur vietando l'atto non ne sanciscono la nullità né irrogano una pena. L'uso
delle prime è piuttosto tardo: in precedenza sembrano più diffuse le leges minus quam perfectae e le imperfectae. In conclusione,
un principio che sancisse l'inderogabilità o l'immodificabilità del ius civile in quanto basato sui mores non è mai esistito.
17. IUS CIVILE, IUS HONORARIUM, IUS EXTRAORDINARIUM
Dalla seconda metà del II sec. a.C., nell'ordinamento romano si distinguono due diversi sistemi di norme, la cui distinzione verrà
abolita solo da Giustiniano: il ius civile ed il ius honorarium (praetorium). Il termine ius civile, equivalente a ius civitatis, era idoneo
per Gaio ad indicare l'ordinamento nel suo complesso (iura populi Romani). Alle origini, esistevano un unico sistema giuridico ed
un'unitaria tutela giurisdizionale: le legis actiones, che avrebbero poi costituito il ius civile tardo-repubblicano. Ad esso si affiancò,
verso la fine del IV sec. a.C., il ius honorarium, che nasce dall'esercizio dell'attività giurisdizionale da parte del pretore, il quale creò
una nuova forma di processo: il processo formulare, basato esclusivamente sul proprio imperium. Le norme di diritto sostanziale che
dovevano essere applicate in tale forma di processo venivano stabilite dallo stesso pretore nell'editto emanato all'inizio dell'anno di
carica. Il processo formulare, utilizzato nei giudizi in cui almeno una parte fosse straniera, venne poi esteso ai cives, quando il ius
honorarium iniziò a regolare i rapporti dei cittadini fra loro.
Nel principato, la distinzione fra ius civile e ius honorarium sta nel procedimento di creazione delle norme giuridiche. Il diritto civile
veniva creato da tutti quegli atti ritenuti idonei a produrre norme civili, mentre il diritto onorario si fondava sull'imperium del
magistrato ed era espresso nell'editto. In epoca repubblicana e nel primo principato, il magistrato che emanava l'editto era libero di
determinarne il contenuto, anche se spesso recepiva quello emanato dal magistrato precedente. La parte edittale che venne così a
tramandarsi da pretore a pretore costituisce l'edictum tralaticium. La libera creazione del diritto da parte del pretore cessò con la
codificazione dell'editto adrianea.
Fra i due sistemi si riscontra una grande incomunicabilità. L'esistenza nei due sistemi di norme fra loro in contrasto non produceva
effetti sul piano dell'esistenza e dell'efficacia di tali norme. Queste, infatti, continuavano ad avere effetti, ognuna nell'ambito del
proprio sistema. Papiniano distinse tre funzioni del ius praetorium: adiuvare, supplere e corrigere il ius civile. Nella prima, la
normativa introdotta dal pretore si affiancava a quella civilistica o la integrava in aspetti manchevoli. Nel secondo caso, il pretore
interveniva a proteggere situazioni non tutelate dal ius civile. Nell'ultima funzione, invece, il pretore interveniva per impedire
l'applicazione di una norma del ius civile ritenuta inaccettabile. Il problema del contrasto tra le norme dei due sistemi, si pone sul
piano pratico, con il giudice che è chiamato ad individuare la massima di decisione, solo per le norme di diritto onorario volte a
corrigere il ius civile. Quando fosse necessaria la funzione correttiva, il pretore forniva alla parte interessata i mezzi per disapplicare
il ius civile: la denegatio actionis e l'exceptio, in base alla quale il convenuto evitava la condanna, nonostante la pretesa dell'attore
fosse fondata per il diritto civile.
Solo il ius civile era un sistema normativo concluso ed autosufficiente. Il diritto pretorio, invece, non disciplinando rapporti
fondamentali per la società, non poteva regolare autonomamente la società romana.
Fra i due sistemi, nonostante l'incomunicabilità, esiste una dialettica, che si esplica mediante la recezione nel ius civile di istituti di
origine onoraria. Già dal III sec. d.C., la differenza tra le due tipologie di ius acquistò un mero carattere sovrastrutturale, andandosi a
perdere con la fusione formale fra i due sistemi voluta da Giustiniano. Su questo ha avuto un gran peso il progressivo estendersi
della cognitio extra ordinem, dato che la differenziazione fra ius civile ed ius honorarium era strettamente connessa con la
procedura per formulas.
Per designare le norme emanate nella prassi della nuova tipologia processuale venne coniato il termine ius extraordinarium, il cui
uso è esclusivamente moderno. La cognitio extra ordinem era una struttura processuale, in cui si tutelavano situazioni giuridiche
nuove, non tutelate da nessuno dei due tipi di ius. L'iniziativa proveniva dall'imperatore, che organizzava nuove istanze giudiziarie,
ossia le varie cognitiones. Così, si vennero a creare delle norme che non rientravano né nel ius honorarium né nel ius civile, perché la
fonte (costituzione imperiale) non era idonea a creare norme appartenenti ai due sistemi. Dal punto di vista pratico è, però, difficile
accostare il ius extraordinarium ai due grandi sistemi.
18. IUS PUBLICUM E IUS PRIVATUM
Ulpiano procedette ad una bipartizione fondamentale del ius in ius publicum e ius privatum: il diritto pubblico attiene
all'organizzazione dello stato romano, mentre il diritto privato concerne l'utilità dei singoli. In questo modo di contrapporre ius
publicum e privatum potrebbe apparire diverso il criterio in base al quale essi sono definiti: il primo viene individuato in relazione
alla struttura; il secondo, invece, in rapporto alla funzione. Il giurista, però, si rifaceva ad un criterio essenzialmente funzionale
collegato all'interesse tutelato dalla singola norma. L'individuazione dell'interesse sottostante alla norma come pubblico o privato
dipende da considerazioni politiche e ideologiche. La caratterizzazione funzionale è fatta in vista dell'interesse direttamente
protetto. La bipartizione serviva solo per procedere ad una delimitazione implicita nella materia delle Institutiones.
Ius publicum e ius privatum sono stati adoperati anche in significati diversi. In fonti letterarie e retoriche della fine della repubblica,
ius publicum ha la fonte in atti provenienti dallo stato, ed è in contrapposizione con il ius privatum, la cui origine si ritrova in atti di
autonomia dei singoli soggetti. In questa classificazione, il significato di ius viene diviso in publicum e privatum e varia: è ora un
insieme di precetti vincolanti o sul piano dei comandi generali ed astratti o su quello dei concreti provvedimenti o negozi.
Nelle fonti giuridiche si ritrova un ulteriore significato di ius publicum, indipendente dalla contrapposizione con il ius privatum: è
l'insieme delle norme che non possono essere derogate dai privati (Papiniano). Il ius publicum di Papiniano non coincide con quello
di Ulpiano né con il significato retorico di diritto proveniente dallo stato.
I vari significati che si colgono nelle fonti romane non possono esser ridotti ad un unico sistema. Sembrano avere una portata
sistematica, ma vari elementi desumibili dalle fonti farebbero pensare ad un impiego topico delle stesse.
19. IUS SINGULARE E PRIVILEGIUM
Nella classificazione del diritto oggettivo si inserisce anche l'implicita contrapposizione fra ius commune e ius singulare, che
sembrerebbe essere di Paolo: il ius singulare è quello che viene introdotto con la ratio in sé considerata, in virtù di una qualche
utilità, sulla base dell'auctoritas constituentium. Gli elementi essenziali del ius singulare sono tre: la contrarietà alla ratio in sé
considerata, l'esistenza di un'utilitas e l'introduzione attraverso un atto normativo. È però impossibile ricomprendere questa
distinzione fra le partizioni del diritto oggettivo, anche per il fatto che Paolo non ha dato una definizione di ius commune, anzi non
ha neppure adoperati questa espressione per designare la norma cui il ius singulare deroga. Il ius commune, quindi, si potrebbe
definire solo come quelle norme che sono derogate da altre.
Questa definizione pone il problema se una norma possa esser qualificata come ius singulare per il solo fatto che si trovi in un
rapporto di specie a genere con un'altra norma. In dottrina, si ritiene che per integrare il ius singulare occorrano il carattere
arbitrario della norma e l'eterogeneità della disciplina rispetto alla norma derogata. La soluzione potrebbe trovarsi nell'impiego
topico della categoria: era usata per evidenziare il carattere specifico od eccezionale della norma considerata, ai fini di stabilire la
possibilità od i limiti dell'estensione alla ratio, senza che con ciò si volesse dare rigidità dogmatica alla qualificazione come ius
singulare.
Quando il carattere arbitrario si accentua, si pone il problema dei rapporti fra ius singulare e privilegium, termine che risale alle XII
Tavole. In epoca tardo-repubblicana e soprattutto in epoca imperiale il privilegium è una norma giuridica che, derogando, ad una
disposizione di carattere più generale, concede benefici a persone che si trovino in determinate condizioni. Questa è la stessa
caratteristica che connota il ius singulare, ma nell'uso di privilegium si accentua la correlazione del beneficio così concesso con la
particolare condizione personale di certi soggetti.
20. IL DIRITTO SOGGETTIVO
Per delimitare la categoria del diritto soggettivo è necessario partire dalla distinzione fra norme di qualificazione e norme di
relazione. Mentre le prime hanno il solo compito di attribuire una certa qualifica a persone o cose, le seconde risolvono conflitti
d'interesse, stabilendo, nel contrasto tra due interessi contrapposti, quale sia l'interesse prevalente e quale sia quello soccombente.
La risoluzione di tale conflitto viene assicurata imponendo al titolare dell'interesse soccombente un comportamento, positivo o
negativo, ed attribuendo al titolare dell'interesse prevalente la corrispondente facoltà di pretendere tale comportamento. È questa
facoltà a costituire il diritto soggettivo. Il momento della coercibilità del diritto è integrato nella sanzione, che si applica nel caso in
cui il diritto soggettivo venga violato. Il diritto soggettivo dà sempre luogo ad una relazione fra il soggetto attivo, titolare della
facoltà di pretendere un dato comportamento, ed il soggetto passivo, titolare dell'obbligo di tenere il comportamento dovuto.
La classificazione fondamentale dei diritti soggettivi distingue diritti assoluti, che comprendono i diritti reali, e diritti relativi, in cui si
ritrovano i diritti d'obbligazione a contenuto patrimoniale. Nei diritti assoluti l'ordinamento assicura al titolare del diritto il
soddisfacimento del proprio interesse, garantendogli un'immediata relazione con la persona o la cosa oggetto del diritto mediante
l'esclusione di qualsiasi altro soggetto dal rapporto con l'oggetto stesso. Sugli altri soggetti grava dunque un generico, e negativo,
dovere d'astensione. Solo quando questo venga violato, si concreterà uno specifico dovere di comportamento, positivo, a carico di
chi abbia leso il diritto ed a favore del titolare dello stesso. Nei diritti relativi, invece la soddisfazione dell'interesse protetto dipende
necessariamente dalla collaborazione di un altro soggetto, determinato o determinabile, e può esser richiesta solo nei confronti di
questo.
La diversità nella posizione del soggetto passivo rende difficile l'unitarietà di una caratterizzazione della categoria del diritto
soggettivo, soprattutto se si vuole individuare in modo uniforme la figura del rapporto giuridico. Nei diritti assoluti, questo
intercorrerebbe fra il titolare del diritto e tutti coloro che sono tenuti all'astensione da un certo comportamento. Tale
configurazione è stata criticata: è stato sostenuto che fra titolare del diritto e altri consociati non esisterebbe un rapporto giuridico
in atto, ma un rapporto potenziale che diverrebbe attuale solo al momento della violazione del diritto. L'obbligo dei consociati
sarebbe anch'esso potenziale, ma non si vede come il titolare del diritto possa richiedere una sanzione per i titolari di un obbligo
meramente potenziale. Il problema appare dunque insolubile. Ciò che rileva è la posizione del titolare dell'interesse protetto, cui
viene attribuito il potere di pretendere da altri un certo comportamento. Questo potere-dovere si articola in modo diverso a
seconda della natura dell'interesse protetto nei diritti assoluti e nei diritti relativi.
21. IL DIRITTO SOGGETTIVO NELL'ESPERIENZA ROMANA
Nonostante nelle fonti si riscontri l'utilizzo di ius in senso soggettivo in tema di diritti reali parziari, i giuristi romani mai hanno
teorizzato la figura del diritto soggettivo.
Di conseguenza, non possono aver affrontato la questione della classificazione dei vari tipi che vi rientravano. In dottrina è diffusa
l'opinione che la contrapposizione fra actio in rem ed actio in personam adempisse alla funzione dell'odierna distinzione fra diritti
reali e diritti d'obbligazione.
CAPITOLO TERZO - DIRITTO DELLE PERSONE E DI FAMIGLIA
22. I SOGGETTI DI DIRITTO
I soggetti di diritto si distinguono in persone fisiche (esseri umani) e persone giuridiche Che l’essere umano sia il soggetto di diritto
per eccellenza deriva già dalla considerazione che tutto il diritto è opera dell’uomo ed è creato per regolare i rapporti tra gli uomini.
Perché la persona fisica possa essere soggetto di diritto deve esistere: l’inizio e il termine della persona fisica sono la nascita e la
morte. La nascita s’identifica con il completo distacco del feto dal corpo materno e con la vita autonoma del nuovo essere. La prova
della nascita di una persona e delle modalità con cui essa è avvenuta pu essere data in qualsiasi modo. Questioni sorgevano solo
per accertare se il neonato fosse nato vivo ed avesse quindi avuto un’esistenza separata. Non era richiesto come requisito
autonomo la vitalità, cioè la capacità di sopravvivenza autonoma: solo nei casi dubbi, e praticamente quando il neonato fosse
deceduto durante od immediatamente dopo il distacco dall’utero materno, si discuteva fra i giuristi romani sul modo in cui
accertare l’effettiva vita extrauterina del feto. Ai fini dell’esistenza di una persona fisica e dell’integrazione delle varie fattispecie
connesse con questa esistenza rileva esclusivamente il fatto della nascita: il periodo della gravidanza non ha sotto questo aspetto
importanza per il diritto. Ciò non toglie che si tenesse conto della dottrina degli status, della contrapposizione fra il momento del
concepimento e quello della nascita. In altri casi e soprattutto ai fini della capacità a succedere i giuristi romani anticipavano al
momento del concepimento effetti che si sarebbero dovuti produrre solo con la nascita. Nel periodo fra il concepimento e la nascita
si potevano dare effetti preliminari rispetto a quelli prodotti dalla nascita: ad es. la nomina di un curator ventris; altrove lo stato di
gravidanza rilevava in sé considerato, ad es. nei limiti in cui fosse, a seconda delle epoche, punito dal punto di vista criminale
l’aborto. La morte viene accertata con qualsiasi mezzo e senza limitazioni di prova. Un problema particolare concernente
soprattutto la successione ereditaria, è quello della determinazione della cronologia relativa fra la morte di più persone. Ove la
prova liberamente somministrata non riuscisse a fissare il rapporto temporale fra le singole morti. La giurisprudenza classica optava
per la regola della commorienza, in base alla quale tutte le persone di cui si trattava si consideravano morte nello stesso momento.
Nella compilazione giustinianea si trovano certi passi che configurano precise regole in base alle quali si stabiliscono presunzioni di
premorienza, con i conseguenti effetti successori.
23. CAPACITÀ GIURIDICA, CAPACITÀ DI AGIRE; TEORIA DEGLI STATUS
La persona fisica è, in quanto tale, fornita di capacità giuridica. Per capacità giuridica si intende l’idoneità di un soggetto ad esser
titolare di diritti e doveri. Ad essa si contrappone la capacità di agire e cioè l’idoneità a porre in essere un’attività giuridicamente
rilevante, al fine di creare, modificare od estinguere un rapporto giuridico. Se appare naturale che la capacità giuridica sia
riconosciuta agli esseri umani, non si tratta per di una relazione biunivoca. Oggi e nell’esperienza romana esistono soggetti di diritto
diversi dall’uomo, le persone giuridiche. Nel mondo antico la capacità giuridica non era riconosciuta a tutti gli esseri umani in quanto
ne erano sprovvisti gli schiavi. Nella comunità monarchica e nella prima repubblica per avere la capacità giuridica il soggetto doveva
essere non solo libero, ma anche cittadino: e per tutto il principato la capacità giuridica continua ad esser connessa alla condizione
della persona libera sui iuris, non soggetto cioè alla patria potestas. Non v’è nel linguaggio giuridico romano una precisa
terminologia la quale indichi una sistemazione teorica della capacità giuridica. Il termine persona indica solo l’essere umano: molto
tardi viene usato in connessioni che coinvolgono l’attribuzione della capacità giuridica. La dottrina moderna imposta il problema
della capacità in diritto romano nel senso che per avere tale capacità la persona umana deve godere dei tre status: libertatis,
civitatis, familiae e deve essere quindi libero cittadino e sui iuris. I romani non hanno per formulato in alcun modo la teoria degli
status, né usano le espressioni suddette; il termine status è adoperato solo in modo assoluto per indicare una qualsiasi condizione
della persona. È in relazione alla capitis deminutio che si riscontra un’impostazione che considera complessivamente i tre status. Per
capitis deminutio i romani intendono il cambiamento di uno degli status della persona umana:
capitis deminutio maxima (perdita della libertas).
capitis deminutio media (perdita della civitas).
capitis deminutio minima (mutamento dello status familiae).
La definizione di Gaio della capitis deminutio come prioris status mutatio (cambiamento del precedente status) è troppo generica,
perché non ogni cambiamento di status costituisce secondo i romani una capitis deminutio. È essenziale affinché si abbia questa
figura che la status mutatio coinvolga la recisione dei vincoli agnatizi a cui si accompagna l’estinzione di rapporti giuridici attivi o
passivi, facenti eventualmente capo alla persona che la subisce. Non integra quindi una capitis deminutio l’acquisto della libertas e
della civitas né sono capite minuti i filii familias che divengono sui iuris al momento della morte del loro paterfamilias.
24. LO STATUS LIBERTATIS: LE CARATTERISTICHE DELLA SCHIAVITÙ ROMANA
L’esperienza giuridica romana è caratterizzata dalla circostanza che lo schema del potere del padrone sullo schiavo coincide con la
figura in genere della proprietà, salvo alcune regole che riguardano gli acquisti del proprietario attraverso lo schiavo e talune
attenuazioni dei poteri del proprietario stesso che vengono introdotte a partire dal principato. Ciò comporta che non esistano in
Roma tipi di schiavitù diversificati sul piano giuridico. Ciò non significa che il mondo romano non conosca sul piano socio-economico
forme di schiavitù che si diversificano in base all’epoca considerata od alle mansioni svolte. Alle origini e fin verso la fine del III
sec.a.C. si ha la schiavitù patriarcale. Sul piano del diritto privato la differenza fra liberi e schiavi si esauriva nell’ambito delle persone
sottoposte al paterfamilias, nel fatto che alla morte del pater i figli divenivano sui iuris e acquistavano la capacità giuridica, mentre
gli schiavi rimanevano tali. Tale differenza era sul piano sociale: le condizioni in cui si sviluppava la produzione non erano idonee a
indurre un’incisiva separazione tra liberi e schiavi perché era lo stesso proprietario ad attendere al lavoro agricolo aiutato da i suoi
sottoposti, fra i quali non v’era netta distinzione fra schiavi e figli. La situazione muta nel corso del III sec.a.C.: dal punto di vista degli
sviluppi socio-economici la schiavitù svolge un ruolo essenziale e all’interno della condizione servile si creano modificazioni. Il
fenomeno più imponente è l’impiego massiccio della forza-lavoro servile nello sfruttamento di grandi proprietà fondiarie che si
stavano formando. Per 4-5 secoli la produzione agricola nelle proprietà della classe dominante avviene attraverso la mano d’opera
servile. Le condizioni di vita e di lavoro di questi schiavi erano pessime e potevano divenire terrificanti. Contemporaneamente si
venivano sviluppando forme socialmente differenziate di schiavitù. Mano d’opera servile era impiegata in industre artigianali: le
condizioni dello schiavo dipendevano dalla specializzazione professionale e dal conseguente valore d’ammortamento dello schiavo
stesso. Diversa era la condizione degli schiavi che lavoravano insieme al proprietario in imprese artigianali di piccole dimensioni
dove si riscontravano tratti della schiavitù patriarcale e dove la specializzazione poteva raggiungere livelli molto elevati (es. schiavo
orafo o gioielliere). Vi erano poi forme di schiavitù domestica. Le famiglie agiate e le grandi famiglie dell’aristocrazia economica
romana possedevano in numero molto elevato schiavi destinati al servizio domestico. La situazione poteva essere differenziata a
seconda del valore economico dei servi, ma anche dall’apprezzamento dei loro servizi e della consuetudine di vita del proprietario.
Le condizioni di vita di questi schiavi privilegiati erano superiori a quelle degli appartenenti agli strati più bassi della plebe urbana e
soprattutto al ceto dei coltivatori diretti. Una situazione particolare assumono gli schiavi che esercitano in modo indipendente
un’attività economica, i profitti della quale vanno a vantaggio del dominus e che vivono una vita separata dalla casa dominicale. Le
condizioni di vita dipendono dalla loro abilità e dal lavoro. Il quadro sin qui delineato si riferisce alle condizioni socio-economiche
dell’Italia: nelle province la situazione poteva essere diversa per quel che concerne l’impiego della mano d’opera servile
nell’agricoltura. La produzione agricola si basava su forma di affittanza e eventualmente su corvées. Nel tardo-antico, dopo la
grande crisi economica, militare e politica della metà del III sec.d.C., la schiavitù perde d’importanza; prevale la schiavitù familiare ed
al livello del lavoro domestico.
25. LA POSIZIONE GIURIDICA DELLO SCHIAVO
Sul piano del diritto privato il servus è equiparato ad una cosa, ci avviene per disciplinare i vantaggi che il proprietario può trarre da
tale fatto, soprattutto per gli acquisti dello schiavo stesso. Il problema è se sussistono limiti ai poteri del dominus. Fino a tutto il
periodo repubblicano non esistevano limiti sul piano del diritto: come per qualsiasi altra cosa di sua proprietà, il dominus di uno
schiavo ne aveva la disponibilità giuridica e materiale e poteva trattarlo nel modo che ritenesse più opportuno sino ad ucciderlo.
Per quanto riguarda la schiavitù patriarcale, il controllo dell’opinione pubblica sul modo in cui il padrone esercitava i poteri sullo
schiavo poteva essere molto penetrante. Quando, col mutare delle condizioni socio-economiche nella media e nella tarda
repubblica, questo controllo and allentandosi, esso venne sostituito dal regimen morum dei censori, ossia da quella generale
sorveglianza che questa magistratura esercitava sul comportamento individuale soprattutto degli appartenenti a i ceti più elevati. E’
solo col principato che si rinvengono interventi della giustizia imperiale, nelle forme della cognitio extra ordinem, prima limitati e
sporadici, poi di carattere regolare. Sanzioni penali colpiscono nella cognitio il proprietario che abbia messo a morte lo schiavo senza
ragione; nel caso di maltrattamenti ingiustificati ed eccessivi il dominus poteva essere costretto ad alienare il servo. Questa
tendenza si accentua nel tardo-antico, dove l’uccisione dello schiavo è sempre punita, a meno che esso sia morto, al di là delle
intenzioni del dominus, a seguito delle punizioni corporali che quest’ultimo aveva il potere di infliggergli. Il trattamento dello schiavo
come res comportava la totale incapacità dello stesso ad essere soggetto di diritti e di obblighi sul piano del diritto privato. Ci valeva
sia per i diritti di natura patrimoniale, ma anche per i rapporti di carattere personale e familiare. La relazione sessuale continua fra
schiavi, il conturbenium, ha rilevanza solo di fatto e dura sin quando il padrone lo voglia. La cognatio naturalis, la parentela fra
schiavi, è giuridicamente irrilevante in linea di massima anche dopo l’affrancazione, se non ai fini della capacità matrimoniale ed
eventualmente a quelli penali.
Sul piano del diritto pubblico, l’irrilevanza dello schiavo è completa. Egli non poteva esser titolare né di diritti né di poteri pubblici: la
sua incapacità era totale anche sul piano processuale sia nel sistema delle legis actiones che nell’ordo iudiciorum privatorum. Ci
influiva sulle forme del processo in cui si discuteva dello stato di libero o di schiavo di una persona. Nel periodo più antico tale
controversia si svolgeva nelle forme della legis actio sacramenti in rem fra chi si affermava proprietario dello schiavo ed un terzo,
l’adsertor in libertatem, che sosteneva che la persona controversa era libera. Vi erano due regole particolari: la summa sacramenti
era fissata nella misura minima di 50 assi; la persona che si pretendeva essere uno schiavo rimaneva in libertà di fatto. Al periodo
delle legis actiones risale già un diverso tipo di processo, quello mediante sponsio praeiudicialis che continu anche a esser praticata
la lex Iulia del 17 a.C. quando si poteva usare per le cause liberali, la formula petitoria che portava al semplice accertamento della
libertà o della schiavitù del soggetto. Nel corso del principato si viene ad affermare, per il favor libertatis, il principio che non si
forma giudicato sulla sentenza che nega la libertà della persona, onde il relativo giudizio è sempre riproponibile: ci è reso possibile
dalla circostanza che, cambiando l’adsertor in libertatem, il processo non si svolgeva più tra gli stessi soggetti, condizione questa
necessaria per aversi la preclusione processuale. La necessità dell’adsertor per i processi di libertà sembra permanere anche
nell’ambito della cognitio. Nel caso di azione per far valere una libertas fideicommissaria, il servo acquista eccezionalmente piena
capacità processuale. La figura dell’adsertor caduta poi in disuso verrà abolita da Giustiniano. Connessa con questa riforma è l’altra,
contraria al favor libertatis, per cui viene eliminata la regola classica per cui le sentenze pro servitute non passavano mai in
giudicato. Per quanto riguarda la posizione del servo sul piano della repressione degli atti illeciti, bisogna distinguere i delicta del
diritto privato dai crimina del diritto pubblico. In ordine a questi ultimi lo schiavo non ha capacità nell’ambito del processo criminale
e non può quindi venir accusato né nel processo comiziale né nell’ordo iudiciorum publicorum, dinanzi ad una quaestio
(interrogatorio sotto tortura). Ciò significa che per lo schiavo l’esercizio della coercitio del magistrato, la potestà punitiva compresa
nell’imperium, non incontrava in questo caso limiti di carattere costituzionale (come non li incontrava nei confronti dello straniero).
A pari gravità del crimine commesso, lo schiavo era punito con pene più severe; le forme procedurali in cui avveniva l’accertamento
della colpevolezza dello schiavo, non erano fissate nell’interesse di quest’ultimo, ma a garanzia del proprietario, il cui diritto poteva
astrattamente configgere con la pretesa punitiva pubblica.
Fin qui si è rimasti sul piano del ius humanum: per quanto concerne il ius sacrum è difficile non riconoscere una generica capacità
agli schiavi, partecipi di riti e di feste religiose. Quando le qualifiche del ius sacrum rilevano sul piano del ius humanum, la qualità di
persona umana del servo viene a trovare una rilevanza mediata anche su quest’ultimo piano. Ciò accade ad es. nel caso del luogo
dov’è sepolto il servo che diventa religiosus come quello in cui è sepolto un libero.
26. L'ATTIVITÀ GIURIDICAMENTE RILEVANTE DELLO SCHIAVO E LE ACTIONES ADIECTICIAE
QUALITATIS
L’incapacità dello schiavo sul piano patrimoniale è totale. Si tratta, però, di un essere umano che può essere coinvolto in fattispecie
di carattere patrimoniale che, verificandosi in testa ad una persona libera, comporterebbero l’acquisto o la perdita di diritti e
l’assunzione di obbligazioni: e soprattutto pu partecipare ad atti di carattere negoziale.
Si trattava di salvaguardare da una parte gli interessi del proprietario dello schiavo e dall’altra di contemperare tale salvaguardia con
una certa tutela dei terzi. Questa trova attuazione mediante il sistema della nossalità per quel che riguarda la responsabilità per i
delicta, gli illeciti penali del diritto privato, mentre per l’attività negoziale il diritto civile era ispirato al principio che il servo poteva
render migliore la posizione del dominus, non deteriorarla. Egli acquistava quindi per il proprietario diritti reali e diritti di
obbligazione, mentre non poteva alienare cose del proprietario o estinguere diritti di cui quest’ultimo era titolare, né il proprietario
rimaneva obbligato, nell’ambito del ius civile, per gli atti negoziali compiuti dallo schiavo. A questo principio il ius civile rimase
attaccato perché esso si venne configurando in maniera particolarmente vantaggiosa per il proprietario quando dal medesimo atto
compiuto dallo schiavo potessero sorgere effetti favorevoli e sfavorevoli per il proprietario stesso, si procedeva ad una valutazione
differenziata e gli effetti favorevoli si verificavano, quelli sfavorevoli no. Si aveva così una particolare applicazione della figura del
negozio claudicante che produce i suoi effetti per una parte e non per l’altra. È il diritto onorario che innova al proposito, sancendo
la responsabilità del proprietario per i negozi compiuti dallo schiavo, quando ricorrano particolari requisiti che, secondo la politica
legislativa seguita dal pretore (aequitas praetoris) giustifichino la responsabilità del dominus per le obbligazioni che sarebbero
gravate sul servo (se fosse stato una persona libera). Ciò avviene mediante la concessione delle actiones adiecticiae qualitatis: esse
non sono ristrette al rapporto fra dominus e schiavo, ma vengono date anche nell’analogo rapporto tra pater e filiusfamilias, ossia
nei due casi in cui, per la mancanza dello status libertatis e dello status familiae, la persona che ha posto in essere il negozio non pu
rispondere in proprio. Possono essere esperite quando venga integrata, ad opera dello schiavo, una fattispecie che, per il diritto
civile o per il diritto onorario, darebbe luogo alla nascita di un’obbligazione contrattuale e sussista inoltre una circostanza che
giustifichi la responsabilità del proprietario. Secondo le varie circostanze s’identificano le singole actiones adiecticiae qualitatis, che
sono, in sostanza, sei: l’actio exercitoria, l’actio institoria, l’actio quod iussu, l’actio de peculio, con la connessa actio de rem in verso,
l’actio tributoria (fondata anch’essa sulla concessione di un peculio). Fra le actiones adiecticiae qualitatis si possono distinguere:
quelle in cui la responsabilità del proprietario viene fondata su un’autorizzazione, generale o specifica, ad entrare in rapporti
d’affari con lo schiavo, come accade nell’actio exercitoria, nell’institoria ed in quella quod iussu, azioni in base alle qua li il
proprietario risponde del debito dello schiavo per l’intero;
quelle in cui si può vedere un’autorizzazione implicita (come nell’actio de peculio e nella connessa actio tributoria);
quelle in cui il proprietario stesso ricava comunque un vantaggio dal negozio compiuto dal servo (actio de in rem verso): azioni
queste ultime in base alle quali la responsabilità del dominus è limitata in un modo diverso e collegato col differente fondamento
della responsabilità stessa.
L’actio exercitoria e l’actio institoria sono connesse con le esigenza del commercio. L’actio exercitoria trova il suo fondamento nella
circostanza che l’armatore (exercitor) abbia preposto come magister navis uno schiavo all’utilizzazione di una nave nel commercio
interno e internazionale. Se l’obbligazione assunta dallo schiavo rientra nei limiti della praepositio il proprietario preponente
risponderà per l’intero delle obbligazioni contratte dal magister navis. Nell’actio institoria il proprietario prepone lo schiavo che
assume il nome di institor ad un’azienda commerciale diversa dall’esercizio di un’impresa amatoriale (“terrestre”) che almeno alle
origini doveva avere carattere commerciale: anche qui, nei limiti della praepositio il preponente risponde per intero per le
obbligazioni assunte dal sottoposto. Entrambe possono essere esercitate anche quando il magister navis o l’institor per cui è
avvenuta la praepositio non siano sottoposti alla potestas del preponente.
Un’autorizzazione esplicita si ha anche nell’actio quod iussu: qui il pater autorizza, col iussum, un terzo a concludere un contratto col
proprio schiavo e per tale fatto risponde per l’intero per le obbligazioni nascenti dal negozio così autorizzato. In assenza del iussum è
sufficiente, per integrare la responsabilità dell’avente potestà, la successiva ratifica (ratihabitio).
L’actio de peculio è la più diffusa e importante. Col termine peculium i romani designavano un insieme di beni e di diritti che il
proprietario attribuiva al proprio schiavo perché questi lo amministrasse. La concessione del peculio avviene con la messa a
disposizione dei beni relativi. Una volta che il peculio sia stato costituito, ne vengono a far parte i beni ed i crediti che lo schiavo
acquisti mediante l’utilizzazione dei beni peculiari. Lo schiavo ha di fatto l’amministrazione del peculio, il dominus di diritto rimane
titolare dei beni e dei crediti che fanno parte del peculio. Esso rappresentava per lo schiavo solo un patrimonio di fatto. Gli effetti
degli atti di amministrazione e di disposizione compiuti dallo schiavo si verificano sul piano del diritto civile, ma l’attività negoziale
che lo schiavo pone in essere nella gestione peculiare non crea obbligazioni per il proprietario su tale piano. Qui interviene il pretore
concedendo l’actio de peculio: in base ad essa il dominus risponde per qualsiasi obbligazione assunta dal servo nei limiti dell’attivo
del peculio. Tale attivo viene calcolato tenendo conto delle partite attive e passive dello schiavo nei confronti del proprietario, cioè i
debiti e i crediti del servo nei confronti del dominus. Quest’ultimo assume quindi una posizione privilegiata rispetto ai terzi creditori
in quanto i “debiti” che lo schiavo ha nei suoi confronti vengono detratti dall’attivo lordo del peculio per determinare l’ammontare
patrimoniale nell’ambito del quale il proprietario risponde nei confronti dei terzi, che vengono soddisfatti nei limiti di tale attivo
man mano che si presentano: chi arriva per primo è preferito rispetto ai ritardatari.
L’actio tributoria introduce, per un caso particolare, una più ampia responsabilità de peculio per il proprietario. Se, anche
implicitamente, abbia dato allo schiavo l’autorizzazione ad esercitare con il peculio un’attività commerciale, il proprietario perde la
prelazione per i propri “crediti”, e deve concorrere con gli atti creditori sull’attivo lordo del peculio stesso; ove l’attivo lordo non
basti a soddisfare tutti i creditori, ognuno di essi ottiene il soddisfacimento del proprio avere in una percentuale eguale per tutti: si
attua la par condicio creditorum.
Si ricorre all’actio de in rem verso quando manchino altri criteri per imputare al proprietario l’obbligazione assunta dal servo. Con
questa azione il dominus stesso risponde nei limiti in cui abbia tratto un vantaggio economico dal negozio posto in essere dallo
schiavo. Non si tratta di un’azione a sé stante perché la responsabilità de in rem verso è prevista insieme a quella de peculio in
un’unica formula: sulla base di questa formula il giudice pu condannare il proprietario per l’obbligazione assunta dallo schiavo
fondandosi o sulla clausola de peculio o in mancanza sulla clausola de in rem verso; a quest’ultima si ricorreva sia che il peculio non
fosse capiente sia che il peculio non esistesse. Diverso è il regime nel caso in cui l’obbligazione dello schiavo nasca da un delitto
privato. Come accade per i crimina, configgono qui due esigenze: quella di non lasciar impuniti gli atti illeciti commessi da uno
schiavo, e la salvaguardia dei diritti del proprietario. Per le pene pecuniarie, tipiche dei delitti privati a partire dalla media
repubblica, le difficoltà derivavano dall’incapacità dello schiavo in ordine ai rapporti di carattere patrimoniale. A queste difficoltà si
ovviò col sistema della nossalità: il proprietario è tenuto a pagare la pena pecuniaria che sarebbe dovuta dallo schiavo, autore del
delitto, ove fosse stato libero, ma può evitare tale pagamento abbandonando lo schiavo all’offeso, facendone cioè la noxae deditio.
La responsabilità inerisce allo schiavo, autore del fatto, perché la responsabilità nossale grava su chi sia proprietario dello schiavo
nel momento in cui l’offeso eserciti l’azione penale: e se vanga manomesso, lo schiavo diventa direttamente obbligato al pagamento
della pena pecuniaria oggetto dell’obbligatio ex delicto.
27. LE CAUSE DELLA SCHIAVITÙ
Principali cause della schiavitù sono per tutto l’evo antico, la nascita da madre schiava e la prigionia di guerra. Sono di ius gentium.
Chi nasce da madre schiava è schiavo, chiunque ne sia il padre, e cade in proprietà del dominus della schiava stessa. Rileva lo stato
servile della madre al momento della nascita perché come avviene per filiazione fuori dal matrimonio il figlio segue la condizione
materna in tale momento. Nel periodo tardo-classico sembra si cominciasse ad ammettere che il figlio nascesse libero, purché la
madre fosse stata libera in un momento qualsiasi del periodo che va dal concepimento alla nascita. Il principio assume portata
generale in epoca post-classica. L’altra principale causa di schiavitù è la prigionia di guerra. Bisogna distinguere due profili: la
riduzione in schiavitù del nemico catturato dai romani che era un’applicazione dell’acquisto per occupazione delle cose del nemico;
lo status del cittadino romano captivus (“prigioniero di guerra”). Alle origini i captivi divenivano schiavi del singolo soldato romano
che se ne fosse materialmente impadronito. Successivamente il bottino spettava unicamente allo stato e con esso i prigionieri di
guerra. L’ordinamento romano ammette che lo stato del cittadino caduto in prigionia del nemico sia quello di una iusta servitus; ci
comporta che il soggetto perda la capacità giuridica, ivi compresa la capacità di avere eredi, che i suoi beni divengano res nullius e
che si estinguano i debiti e i crediti di cui egli era titolare. Fin dall’epoca più antica queste trovarono un contemperamento nel
postliminium. Se ritornava in patria, in base al ius postliminii il captivus ridiventava libero e ingenuus e riotteneva la titolarità dei
propri diritti. La conseguenze della capitis deminutio maxima si avevano solo nel caso in cui il captivus fosse morto senza tornare in
patria. A partire dagli inizi del I sec.a.C. la situazione si venne modificando. Una Lex Cornelia emanata sotto Silla sancì la validità del
testamento del captivus deceduto in stato di schiavitù presso il nemico, in quanto questi doveva considerarsi morto nel momento in
cui era stato fatto prigioniero, in base alla finzione introdotta dalla stessa legge (la fictio legis Corneliae). La fictio viene poi estesa
all’interpretatio prudentium alla successione ab intestato.
Nel periodo imperiale diventano più frequenti i casi in cui la riduzione in schiavitù come sanzione ha effetto all’interno de l territorio
dello Stato. Di una certa rilevanza sono i casi sanciti dal Sc.Claudiano del 54 d.C. e quelli in cui la riduzione in schiavitù conseguiva ad
una condanna penale, come avveniva, oltre che nel caso della condanna a morte, nella damnatio ad bestias o ad metalla. Il Sc.
Claudiano stabiliva che la donna la quale avesse una relazione sessuale stabile con un servo altrui, diventasse schiava del
proprietario di quest’ultimo, se non interrompesse tale relazione dopo una triplice denunzia. Accanto a questo caso va ricordato
quello del libero, che si fosse fatto consapevolmente vendere come schiavo, per rivendicare successivamente il proprio stato di
libertà: egli cadeva in proprietà dell’acquirente che aveva tentato di truffare. Nel periodo post-classico viene abrogato il Sc.
Claudiano sostituito da misure punitive nei confronti dello schiavo, mentre si generalizza la revocatio in servitutem del libero
ingrato. All’aggravamento delle condizioni di vita delle classi più disagiate si riporta l’introduzione di una nuova causa di servitù: a
partire da Costantino si viene a disciplinare il diritto del padre a vendere i figli appena nati: questi divenivano schiavi, ma tale
condizione era revocabile in quanto il padre poteva riscattarli. Giustiniano permetterà la vendita solo in caso di estremo bisogno.
28. L'ACQUISTO DELLA LIBERTÀ E LE MANOMISSIONI
Il servo diviene libero solo mediante atto del proprietario, la manumissio. Le tre forme di manomissione civile, la manumissio
vindicta, testamento, censu, risalgono tutte al periodo alto-repubblicano. L’affrancazione nelle forme suddette fa acquistare allo
schiavo la libertas ex iure Quiritium. E cioè contemporaneamente la libertà e la cittadinanza romana.
La manumissio vindicta è originariamente una forma di in iure cessio dove il processo di libertà è usato per raggiungere lo scopo
negoziale di far acquistare la libertà allo schiavo. Dinanzi al pretore comparivano lo schiavo, il proprietario che lo vuole affrancare ed
un adsertor in libertatem; quest’ultimo procede alla vindicatio in libertatem mentre il proprietario, legittimato a proporre l’opposta
vindicatio in servitutem, tace. A questo punto il pretore procede all’addictio secundum libertatem, la quale nel caso ha valore
costitutivo. La manumissio vindicta è un actus legitimus e non tollera quindi l’apposizione di un termine o di una condizione. Verso
la fine della repubblica, la forma di questa figura di manomissione cambia. Se continua a richiedersi la presenza del magistrato, non
v’è più bisogno dell’adsertor in libertatem ed è il proprietario che pronuncia una formula liberatoria procedendo nel contempo ad
una unilaterale impositio vindictae il che porta ad una totale inversione del rito originario.
La manumissio testamento serve a liberare il servo per il periodo posteriore alla morte del proprietario: si tratta di una disposizione
a forma vincolata che utilizza lo schema verbale Stichus servus meus liber esto. A differenza della manumissio vindicta essa può
essere sottoposta a termine iniziale e condizione sospensiva.
La manumissio censu consiste nell’iscrizione dello schiavo come libero e cittadino nelle liste del censimento, che venivano
approntate ogni cinque anni dai censori: tale iscrizione consisteva in una dichiarazione ai censori, la professio, da parte dello schiavo
che contestualmente autorizzato dal proprietario, si iscriveva nelle liste censitorie come libero.
Nel I sec.a.C. si diffusero forme non solenni di manomissione, che non producevano effetti per il ius civile. Intervenne allora il
pretore non permettendo al proprietario di esperire la vindicatio in servitutem: si proteggeva quello che i romani chiamavano l’in
libertate morari del servo, una libertà di fatto. La tutela pretoria della libertà di fatto dava luogo a inconvenienti superati dalla lex
Iunia Norbana del 19 d.C., la quale concesse ai servi manomessi in forma non solenne lo status libertatis senza la cittadinanza
romana: tali schiavi divenivano Latini con alcune restrizioni. Queste forme di affrancazione vengono dette manomissioni pretorie; in
esse il proprietario manifesta la volontà di liberare lo schiavo al di fuori delle forme fissate dal ius civile. Nel principato scomparve la
manumissio censu in seguito alla validità dell’antico censimento repubblicano. Altre innovazioni di rilievo non vi furono sino al
tardo-antico. In quest’epoca persiste la distinzione fra manomissioni civili e pretorie; le manomissioni civili perdono il carattere
formale che avevano nell’epoca classica. A partire dagli inizi del IV sec.d.C. si sviluppa una nuova forma di affrancazione, la
manumissio in ecclesia connessa con l’affermazione del cristianesimo come religione di stato. Essa attribuisce la civitas Romana
come le manomissioni civili in un periodo in cui sussiste ancora la Latinitas Iuniana. A parte il requisito che l’atto di affrancazione
debba svolgersi in ecclesia tale manumissio non viene ulteriormente regolata dallo stato. La distinzione di effetti tra le manomissioni
civili e pretorie rimase immutata fino a Giustiniano che l’abroga con espressioni tali da far dubitare che essa fosse del tutto desueta.
Solo nella legislazione di Augusto cominciano a manifestarsi tendenze restrittive in tema di manomissioni, tendenze che vengono
spesso collegate col desiderio di proteggere la società romana “dall’inquinamento” prodotto dall’accrescersi della popolazione
libera di origine servile. Nel 2 a.C. Augusto fece votare una lex Fufia Canina che limitava le manomissioni testamentarie fissandone il
limite massimo in proporzione al numero di schiavi posseduti. Il numero massimo di schiavi che si potevano liberare nel testamento
erano circa 100 ed esso valeva per chi fosse proprietario di 500 o più schiavi. Le manomissioni dovevano essere fatte nel testamento
indicando il nome dello schiavo liberato onde si potesse stabilire quali fossero valide, quali nulle tenendo conto dell’ordine in cui
esse si succedevano nel testamento. La lex Aelia Sentia del 4 d.C. ha tenuto presente soprattutto l’interesse del proprietario troppo
facilmente indotto ad affrancare i propri servi, o quello dei terzi indirettamente lesi dalle affrancazioni. Essa vieta le manomissioni di
schiavi inferiori ai 30 anni o da parte di un proprietario inferiore ai 20. In questi casi la manomissione poteva avvenire solo previa
autorizzazione concessa da un consilium presieduto dal magistrato presso cui la manomissione doveva avvenire. Le manomissioni in
deroga alla lex Aelia Sentia potevano avvenire solo vindicta, il che portava ad un ulteriore limite alle manomissioni testamentarie.
Dopo la lex Iunia Norbana del 19 d.C. gli schiavi inferiori a trent’anni, manomessi senza la prescritta autorizzazione, vengono a
trovarsi in una condizione analoga a quella dei Latini Iuniani: quelli manomessi invece da un proprietario minore di vent’anni
rimangono schiavi, e non conseguono neppure la Latinitas. Un’altra disposizione della Lex Aelia Sentia vietava le manomissioni in
frode dei creditori e delle aspettative successorie del patrono. Tali manomissioni erano nulle sul piano del diritto civile e non
conseguivano effetti neppure in base al diritto onorario. Inoltre gli schiavi che avevano subito pene infamanti durante la servitù
diventavano, se manomessi, peregrini nullius civitatis, ma rispetto a questa categoria di stranieri soffrivano di particolari limitazioni,
in quanto non potevano acquistare mai la cittadinanza romana, e se si avvicinavano entro le 100 miglia dalla città di Roma,
ricadevano in stato di schiavitù, come servi publici. Nessuna delle norme sancite dalla lex Aelia Sentia e dalla Fufia Canina era stata
abolita formalmente sino a Giustiniano. Scarsa importanza hanno le cause di acquisto della libertà al di fuori della manomissione. In
età repubblicana la liberazione degli schiavi poteva essere disposta per legge o per atto del magistrato. In epoca imperiale essa
poteva conseguire come sanzione di un comportamento del proprietario. A partire da Diocleziano si sviluppa l’acquisto della libertà
per usucapione. L’assunzione del cristianesimo a religione di stato fa riconoscere la libertà allo schiavo che abbia assunto una dignità
ecclesiastica o lo stato monacale con l’assenso del proprietario e solo in casi particolari senza di questo.
29. LA CONDIZIONE DEI LIBERTI
Lo schiavo liberato acquista lo status libertatis ma c’è una distinzione tra:
ingenui, coloro che sono nati liberi e tali sono sempre rimasti.
libertini, che sono schiavi affrancati da una iusta servitus.
Il liberto incorre in incapacità della sua condizione ed in una serie di doveri nei confronti del proprietario che lo ha manomesso, che
assume la definizione di patrono. Sul piano del diritto pubblico, al liberto, in età repubblicana, è vietato l’accesso alla cariche
pubbliche e dove incontra difficoltà ad esser trattato alla stregua degli ingenui. In età imperiale queste difficoltà permangono, anche
se nell’ambito dell’amministrazione imperiale essi assumono posizioni importanti. Resta l’incapacità ad accedere all’ordo senatorius
ed al relativo cursus honorum, a cui si accompagna la difficoltà con cui i liberti sono ammessi all’ordo equestre. Sul piano privatistico
le incapacità sono molto ridotte: la più importante è quella che vieta ai liberti di contrarre matrimonio con membri del ceto
senatorio. Le altre incapacità si inquadrano nel rapporto di patronato. Le incapacità sono qui fissate dal pretore:
il liberto non può citare in giudizio il patrono senza l’autorizzazione del magistrato.
perde la capacità di testare per la metà del proprio patrimonio se muore senza figli o diseredandoli, in quanto per tale quota il
pretore concede al patrono la bonorum possessio contra tabulas.
Il rapporto di patronato si articola sui doveri del liberto e sui diritti del patrono. I doveri sono di carattere personale: il liberto deve al
patrono l’obsequium, al che corrisponde un potere disciplinare del patrono. Dopo sporadiche applicazioni, forse già nel III sec.d.C., è
con Constantino che si generalizza il potere del patrono di chiedere la revoca della manomissione nei confronti dello schiavo ingrato.
Già le XII Tavole attribuivano al patrono e ai suoi discendenti la successione ab intestato del liberto morto senza lasciare suoi eredi,
perché il liberto non aveva parenti per il ius civile (adgnati). Altri doveri gravanti sul liberto erano di natura patrimoniale consistendo
nell’obbligazione di prestare servizi di varia natura, le operae. Esse si commisuravano a giorni ed erano fissate dal patrono che non
poteva determinarle in modo tale da impedire al liberto di procacciarsi il sostentamento per sé e per la propria famiglia. A codeste
prestazioni il liberto era tenuto solo se le avesse promesse dopo l’affrancazione, mediante stipulatio o promissio iurata liberti. Le
Operae si dividevano in:
officiales: prestazioni di servizi non valutabili sul piano economico. Potevano essere adempiute solo nei confronti del patrono e
dei suoi discendenti.
fabriles: prestazioni che sono soggette a valutazione economica. Il liberto poteva essere delegato a eseguirle anche nei
confronti di un terzo.
30. LE CONDIZIONI PARASERVILI E LE ALTRE CAUSE MINORATRICI DELLA CAPACITÀ
GIURIDICA
Condizioni paraservili: intermedie tra la schiavitù e la libertà. Seppur permanga più o meno intatto lo status libertatis, veniva limitata
la capacità giuridica o compressa sul piano di fatto la libertà del soggetto. La categoria più risalente era quella delle personae in
causa manicipii od in mancipio: persone libere soggette alla patria potestas del paterfamilias, che le aveva trasferite ad altro pater
mediante una mancipatio, compiuta nell’esercizio del ius vendendi. Nel periodo tardo repubblicano e classico la mancipatio di una
persona libera soggetta alla patria potestas poteva essere fatta solo per attuare una noxae deditio o nell’adozione e
nell’emancipazione per estinguere la patria potestas stessa: in quest’ultimo caso la posizione della persona in mancipio è di breve
durata e transitoria. Sempre in epoca classica questi soggetti mantengono la libertà e la cittadinanza. Per quel che riguarda la
capacità giuridica, bisogna distinguere fra rapporti patrimoniali e personali. Dal punto di vista patrimoniale le personae in mancipio
ne sono prive e il regime relativo sembra modellarsi su quello degli schiavi piuttosto che dei filiifamilias. Per quanto attiene ai
rapporti personali essi hanno la piena capacità giuridica. La potestas su tali personae sembra avvicinarsi a quella dominica sugli
schiavi: a differenza per di quanto avviene per i servi, la manomissione non incide sullo stato di ingenuitas e non rientra nelle leggi
limitative delle affrancazioni. Il manumittente assume una posizione analoga a quella del patrono nei confronti dei liberti,
soprattutto in quanto è considerato l’adgnatus proximus della persona così manomessa, mentre non sembra siano dovute né
l’obsequium né le operae, incompatibili con lo status ingenuitatis della persona in causa municipi affrancata. In periodo arcaico
esistono altre situazioni in cui v’è una costrizione della libertà del soggetto: si pensi ai debitori addicti in seguito all’esperimento
della manus iniectio ed ai nexi. Costoro erano limitati nella libertà di movimento e prestavano i loro servigi al creditore conservando
la cittadinanza e la capacità di diritto pubblico e militando nell’esercito cittadino. Per quanto riguarda i rapporti privatistici non si sa
se la loro soggezione di fatto diminuisse la capacità giuridica. Particolare rilevanza nell’economia e nella società postclassiche
assume il colonato. Questo istituto presenta una struttura abbastanza uniforme, ma ha origini diverse; ci che caratterizza in senso
unitario i fenomeni che sono ricompresi nella categoria indicata dalla terminologia di colonus e delle espressioni derivate e connesse
è il nesso che si viene a formare tra il colono e la terra che coltiva, nesso che si attua in una duplice direzione: il colono non pu
abbandonare tale coltivazione, ma il signore che gli ha donato il fondo non lo pu allontanare dallo stesso, neppure se egli risulti
inadempiente nelle prestazioni dovute al signore stesso. La funzione fondamentale dell’istituto è quella di assicurare la forza lavoro
necessaria per la coltivazione dei fondi senz’altro nell’interesse dei proprietari ma anche e soprattutto in quello del fisco perché
l’efficiente coltivazione della terra garantisce allo stato la riscossione delle imposte gravanti su di essa, che per lo stato stesso
costituiscono la principale fonte di entrata. L’aspetto patrimoniale del colonato si modella sull’affitto e quindi sulla locatio-conductio
ma il corrispettivo poteva essere sia in denaro che in natura. Rispetto all’affitto nella sua struttura normale, le differenze erano
inoltre costituite dalla perpetuità del rapporto e dal vincolo che legava fondo e colono. In forza di questo vincolo, la condizione di
colono rappresenta nel tardo-antico uno status personale, che si acquistava per nascita, per usucapione, per libera assunzione della
qualità di colono, per assegnazione da parte dello stato, come coloni, di prigionieri di guerra o mendicanti. Il linguaggio del
legislatore ondeggia su questo istituto: egli afferma in via astratta che il colono è libero, ma sembra astretto ad una certa servitù. I
coloni godono della capacità di diritto personale onde possono contrattare valido matrimonio ed essere soggetti in un rapporto di
filiazione legittima e naturale.
Anche la capacità di carattere patrimoniale sembra loro riconosciuta, quantunque alcune fonti chiamino peculium il patrimonio del
colono. Su questo viene attribuita al signore una proprietà eminente, o quantomeno un vincolo a garanzia dei canoni d’affitto. La
distinzione più importante fra i coloni è quella fra i semplici coloni e gli adscripticii che sono censiti nei registri catastali come
pertinenza dei fondi. Ma bisogna dire che le più dure fra le regole che limitano la capacità si applicano a tutti i coloni. Il signore ha
un diritto assoluto sul colono, che gli consente di chiederne la restituzione alla coltivazione del fondo, ovunque egli si trovi. Molto
rigorosi sono i presupposti per la liberazione del colono dal vincolo in cui si trova rispetto al fondo. L’interesse fiscale impone al
signore che voglia liberare il colono di concedergli in proprietà il fondo coltivato. Limiti sempre più incisivi vengono imposti
all’usucapione dello stato di libertà, ed alla possibilità che il colono divenga libero, abbracciando il servizio ecclesiastico o militare
con l’assenso del signore stesso. Nel tardo antico, il colonato non è l’unico caso in cui si riscontra un vincolo del soggetto all’attività
esercitata. Anche le corporazioni relative ai mestieri più rilevanti per la pubblica economia diventano associazioni obbligatorie, ed i
figli dei corporati vengono ad assumere la stessa qualifica del padre. Ad un livello più elevato, gli appartenenti delle aristocrazie
locali, i curiales che compongono i consigli municipali (curiae) delle singole città sono vincolati al loro status di apparente privilegio:
in questo caso nel riconoscimento del vincolo prevale l’interesse fiscale, dato che la responsabilità per la riscossione delle imposte e
delle altre entrate pubbliche del territorio della città grava sulle curiae stesse
31. LO STATUS CIVITATIS: ACQUISTO E PERDITA DELLA CITTADINANZA
Il carattere esclusivo della città-stato comporta che la capacità giuridica dipenda dalla qualità di cittadino: a partire dalla media
repubblica, tale qualità è requisito essenziale per partecipare di quelle norme del sistema civilistico che si applicano ai soli cives
Romani (e cioè il ius civile in quanto contrapposto al ius gentium). Al periodo in cui la partecipazione all’ordinamento privatistico
romano era collegata al possesso della civitas Romana risalgono gli istituti del conubium e del commercium: si tratta di istituti che
concedono allo straniero una più o meno ampia capacità giuridica nell’ambito dell’ordinamento di una città-stato. Entrambi questi
istituti potevano riguardare singoli soggetti di un ordinamento straniero, ma in linea di massima, essi esistevano reciprocamente fra
tutti gli appartenenti a due comunità cittadine. Il conubium comportava la capacità a contrarre matrimonio fra gli appartenenti a
civitates diverse. L’incidenza pratica di tale istituto si aveva nell’ambito dell’ordinamento del marito: un cittadino romano poteva
sposare una straniera, munita del conubium con la conseguenza che da tale unione matrimoniale nascessero figli legittimi, liberi e
cives Romani; all’inverso, la cittadina romana contraeva un vincolo legittimo, anche ai fini della filiazione, secondo l’ordinamento
della città cui apparteneva il marito. Il matrimonio concluso fra persone appartenenti a città-stato diverse sulla base del reciproco
conubium non aveva effetti sullo status civitatis degli sposi: la donna che diventava moglie legittima in base al ius connubii non
acquistava perci solo la cittadinanza del marito. Il commercium non rappresentava la generica “autorizzazione” ad esercitare lo
scambio economico: Una tale libertà esisteva per qualsiasi mercante che venisse a Roma. Esso invece dava allo straniero il potere di
compiere i gesta per aes et libram: è dubbio se ed in quali limiti aprisse ai peregrini la possibilità di partecipare alla sponsio ed alla
protezione giudiziaria offerta dalle legis actiones. L’acquisto della cittadinanza avviene per nascita: in costanza di matrimonio, è
cittadino romano chi nasca da padre romano; nel caso della filiazione al di fuori del matrimonio, che nasca da madre romana. Nel
primo caso rileva il momento del concepimento, nel secondo quello della nascita. Questi principi sono sentiti come di ius gentium:
per la filiazione fuori dal matrimonio un’innovazione fu introdotta da una lex Minicia degli inizi del I sec.a.C., la quale stabilì che il
figlio nato dall’unione fra una romana ed uno straniero seguisse comunque la cittadinanza del padre, anche se nato fuori dal
matrimonio. Diventa poi cittadino romano lo schiavo liberato mediante una iusta manumissio (una delle tre forme di manomissione
civile) ed il latino nei vari modi previsti per questa categoria di soggetti. La civitas Romana veniva poi concessa da organi dello stato
a singoli od intere comunità. Nella repubblica ciò avveniva mediante una lex oppure con atto del magistrato autorizzato per legge.
Nel periodo imperiale mediante senatoconsulto, con una costituzione imperiale: è proprio con una costituzione imperiale del 212
d.C. che la civitas Romana venne estesa da Antonino Caracalla a tutti gli abitanti dell’impero che ne fossero ancora sprovvisti. La
cittadinanza si perde in seguito alla perdita dello status libertatis che ne è il necessario supporto. Minor rilievo statistico hanno i casi
in cui si perde lo status civitatis ma non quello libertatis: in epoca repubblicana si perde la cittadinanza romana
per l’acquisto di una cittadinanza straniera e in seguito all’esercizio dello ius exulandi. Fa perdere poi la cittadinanza l’aqua et igni
interdictio la quale diventa una pena vera e propria inflitta dalla legge ed irrogata tramite la sentenza del tribunale. La perdita della
cittadinanza si conservò nella cognitio extra ordinem penale, come effetto accessorio della condanna alla deportatio in insulam.
Mentre però il cittadino che aveva subito l’aqua et igni interdictio poteva acquistare la cittadinanza in qualsiasi altra città-stato
all’interno dell’impero, ciò non accadeva per chi fosse stato condannato alla deportatio, il quale restava nella condizione di apolide
32. I LATINI
Fin dagli inizi della repubblica, una posizione particolare riguardo allo status civitatis era assunta dai Latini. A partire dal 493 a.C.
Roma e le altre città latine formavano una confederazione, la lega latina, regolata dal foedus Cassianum, in base al quale era
regolata la posizione dei cittadini delle singole città rispetto agli ordinamenti delle altre città facenti parte della lega. Questa
disciplina si fondava sul ius migrandi, sul commercium e sul conubium. Il ius migrandi era il diritto di fissare il proprio domicilio in
qualsiasi delle città della lega, assumendone la cittadinanza. Il commercium dava la possibilità di porre in essere i gesta per aes et
libram, mentre è discusso se ciò avvenisse anche per le legis actiones e agli altri negozi formali del ius civile, come la sponsio. Il
conubium permetteva di contrarre iustum matrimonium tra soggetti appartenenti a città diverse. La lega latina fu sciolta nel 338
a.C., dopo la terza guerra latina: alcune città latine vennero incorporate, come municipia, in Roma, altre furono mantenute nella
condizione di città-stato indipendenti ed ai loro cittadini continuarono ad essere riconosciuti i diritti che già godevano nell’ambito
della lega latina (Latini Prisci) La lega latina fondava nei territori conquistati nuove città che venivano a far parte della lega stessa.
Dopo il 338 a.C. e fino agli inizi del II sec.a.C. Roma continuò a fondare coloniae civium Latinorum ossia città-stato formalmente
indipendenti cui essa conferiva lo status di città latine. Agli abitanti di codeste città, i Latini coloniarii veniva attribuito lo Status dei
Latini Prisci. Essi avevano il ius migrandi ed il commercium, mentre talora non era riconosciuto loro il conubium. L’estensione della
cittadinanza romana ai socii Italici dopo il bellum sociale dell’89 a.C. fece cessare le città latine in Italia, ma contemporaneamente si
cominciarono a fondare colonie latine in provincia: successivamente la Latinitas venne concessa oltre che a singole città ad intere
province o regioni. In tutti i casi sin qui visti lo status di Latino corrispondeva all’appartenenza ad una città Latina indipendente da
Roma. Con la lex Iunia Norbana agli schiavi manomessi in forma non solenne lo stato di latino veniva attribuito senza che ci
comportasse l’inserimento in una tale città: lo status civitatis era attribuito senza che ci corrispondesse all’appartenenza ad una
organizzazione cittadina corrispondente. Lo status dei Latini Iuniani, cui si applicavano le norme relative al liberti venne ricalcato su
quello dei Latini coloniarii, con alcune limitazioni gravose. Mentre hanno una capacità giuridica completa rispetto agli altri Latini,
essi non hanno con i romani né conubium né testamenti factio. Più gravosa ancora la limitazione che colpisce la loro capacità di
avere successori mortis causa: al momento della morte infatti il patrimonio del Latinus Iunianus abbia o meno discendenti, torna al
manomissore iure peculii con le modalità che accompagnano la cessazione del patrimonio di fatto dello schiavo. La condizione di
Latinus Iunianus era personale: i figli di tali latini godevano della normale Latinitas, anche senza far parte di una città latina. La
latinitas Iuniana venne estesa anche ai servi inferiori ai trent’anni, manomessi senza la preventiva autorizzazione richiesta dalla lex
Aelia Sentia (Latini Aeliani). Per quanto riguarda l’ordinamento giuridico applicato ai Latini, la situazione varia a seconda dei periodi
considerati: all’epoca della Lega Latina, ogni città che ne faceva parte aveva un proprio ordinamento. Tali ordinamenti dovevano
largamente coincidere, perché fondati su un identico sub-strato socio-economico e culturale. L’indipendenza fra le varie città
portava per a differenziazioni nell’ambito degli ordinamenti in esse vigenti. Il problema diviene complesso quando Roma comincia a
fondare coloniae civium Latinorum: sembra di poter escludere che nei singoli statuti coloniali fosse contenuta una completa
disciplina dei rapporti privatistici. Non risulta neppure che si provvedesse mediante rinvio generale all’ordinamento di una città
Latina determinata. In età imperiale soccorre adesso per i municipia Latina, la regolamentazione fissata nella Lex Irnitana (è lo
statuto di un municipio di diritto Latino della Spagna alla quale la Latinitas era stata concessa nella seconda metà del I sec.d.C.) di
recente pubblicata. In lex Irnitana 93 si stabilisce che, per le materie non regolate dallo statuto, si applica il diritto romano: la
previsione è fatta per il ius civile. La soluzione più probabile: che ai Latini abitanti nelle civitates si applicasse, come ordinamento
generale, quello Romano. Diversa era al proposito la situazione dei Latini Iuniani i quali non erano cives di una città Latina
determinata ed ai quali il ius civile non si poteva applicare in base allo statuto municipale della città d’appartenenza. Non si vede per
essi altra possibilità che, a prescindere da un “diritto latino” difficilmente individuabile, fossero loro applicate norme del diritto
romano, civili e onorarie, tenendo presente che nei confronti dei cives Romani i Latini Iuniani non avevano né il conubium né la
testamenti factio.
33. CITTADINANZA E CAPACITÀ GIURIDICA FINO ALLA CONSTITUTIO ANTONINIANA
Nel corso del IV sec.a.C., in seguito allo sviluppo del commercio internazionale, si pone, al di fuori dei Latini, il problema della tutela
giuridica e della difesa giudiziaria dello straniero: la soluzione viene trovata mediante l’intervento del magistrato in sede
giurisdizionale. Il pretore organizza per gli stranieri una tutela giudiziaria fondata sul proprio imperium, mentre anche una parte del
sistema civilistico, il ius gentium, viene estesa agli stranieri. In questo modo lo straniero in quanto tale gode in Roma di una tutela
giuridica e giudiziaria. Adottando il principio della territorialità del diritto, il sistema romano si conformava al modello delle città-
stato, per quanto riguarda l’ordinamento che regola i rapporti con gli stranieri. Ai peregrini viene applicato il diritto onorario creato
per loro nella relativa iurisdictio e poi le norme di diritto civile che rientrano nel ius gentium. Nonostante sia abbastanza diffusa in
dottrina, l’opinione che vigesse in Roma, e in genere nelle città-stato, il principio della personalità della legge non trova riscontro
nelle fonti. Il sistema così delineato vigeva solo nella prassi metropolitana. Dalla fine del III sec.a.C. Roma dovette affrontare il
problema dell’organizzazione delle province, le quali sino alla Constitutio Antoniana avrebbero costituito la parte di gran lunga
preponderante del territorio dell’impero, pur senza essere territorio dello stato. La condizione degli abitanti delle province era di
vario genere. Nell’ambito della provincia v’erano da una parte i territori a cui era lasciata l’indipendenza od una formale autonomia:
le civitates peregrinae liberae et foederatae o sine foedere liberae ,che avevano un proprio ordinamento e che, per essere in linea
astratta sottratte ai poteri del governatore, non facevano neppure parte della provincia. All’estremo opposto si avevano i territori
soggetti alla sovranità di Roma e direttamente amministrati dal governatore provinciale e dai suoi collaboratori. Poi una situazione
intermedia: i territori cui non si dava una formale garanzia di indipendenza o di autonomia, ma ai quali veniva lasciata l’autonoma
organizzazione cittadina precedente alla conquista (civitates nostro iure obstrictae: città sottoposte al nostro diritto). Per le città
libere non sorgevano problemi in ordine al diritto da applicare: esse mantenevano un proprio ordinamento, compresa l’autonomia
giudiziaria. Ciò valeva anche per le città autonome di fatto: una differenza può riscontrarsi solo nel fatto che l’intervento del
governatore negli affari interni di queste ultime non trovava gli ostacoli formali esistenti nel caso delle civitates liberae. Gli abitanti
delle città libere ed anche autonome costituiscono la categoria dei peregrini alicuius civitatis (stranieri appartenenti ad una città).
Per quanto riguarda gli abitanti dei territori non autonomi, nulla avrebbe impedito di impiegare il sistema seguito a Roma, per
quanto riguarda il diritto da applicare agli stranieri. Ai peregrini dei territori non autonomi (peregrini nullius civitatis: stranieri non
appartenenti ad alcuna città) si continuò ad applicare il diritto in vigore prima della conquista, il quale poteva essere modificato dal
governo centrale e dal governatore senza incontrare alcun limite. Ai cittadini romani residenti in provincia il governatore applicava
l’ordinamento romano, nelle forme del ius civile e del ius honorarium: ma anche le norme specificatamente emanate per le singole
province. Sull’individuazione del diritto da applicare ai cittadini ed ai sudditi provinciali poteva influire anche l’istituto della doppia
cittadinanza. Nel mondo delle polis greche era ammesso che si potesse contemporaneamente essere cittadini di due o più città
stato con l’effetto di essere trattati in ognuna di esse come cittadino della stessa. L’ordinamento romano sino alla fine della
repubblica non ammetteva tale principio. La situazione si modifica a partire da Augusto per ragioni politiche. Gli imperatori usano
concedere la cittadinanza romana a titolo onorifico allo scopo di legare alla dinastia regnante ed allo stato romano le elites di
governi locali. Un fenomeno analogo della doppia cittadinanza si verificava nelle città latine dove le elites locali acquistavano,
mediante il ius honorum, la civitas Romana, ma conservavano quella della loro civitas Latina, dove continuavano a gerire le cariche
pubbliche: anche se qui probabilmente il carattere dello straniero della città latina era meno facilmente avvertibile. In entrambi i
casi è evidente che la perdita della cittadinanza d’origine in seguito all’acquisto di quella romana avrebbe fatto venir meno lo scopo
della concessione di quest’ultima, strettamente connesso con la capacità di coloro che ottenevano tale beneficio di continuare a
gerire le cariche pubbliche nella città d’origine. È così che il principio della doppia cittadinanza venne riconosciuto all’interno
dell’ordinamento romano dove venne ad operare in modo parzialmente diverso da quello tipico del contesto d’origine. Nel mondo
greco infatti gli ordinamenti interessati al fenomeno della doppia cittadinanza si trovavano sullo stesso piano, mentre nell’impero
uno dei due ordinamenti, quello romano ricomprendeva in un certo senso l’altro.
34. LA CONSTITUTIO ANTONINIANA
La storia della cittadinanza romana nell’impero culmina con la constitutio Antoniniana del 212 d.C.. Con tale provvedimento
l’imperatore Antonino Caracalla concesse agli abitanti dell’impero che ne fossero sprovvisti la civitas Romana. Tutti gli abitanti
dell’impero hanno ricevuto la cittadinanza romana per effetto della constitutio Antoniniana: ne sono rimasti esclusi:
i Latini Iuniani;
coloro che avevano perso la cittadinanza per effetto di condanna penale;
i dediticii Aeliani.
Nella dottrina moderna, il problema riguarda i peregrini nullius civitatis per cui le fonti usano anche la terminologia di dediticii:
secondo l’opinione del tutto dominante sembra che i peregrini nullius civitatis abbiano ottenuto, con la constitutio Antoniniana, la
cittadinanza romana.
Ad incertezze e fraintendimenti dà ancora luogo il problema del diritto da applicare ai novi cives. In un primo tempo non si avevano
dubbi sul fatto che a costoro dovesse applicarsi esclusivamente il diritto romano: La documentazione papirologia mostra come sul
piano della prassi le popolazioni provinciali continuassero ad utilizzare formulari negoziali ispirati ai vecchi modelli ellenistici e
chiedessero all’imperatore di applicare nei rapporti controversi le antiche consuetudini locali, ciò che gli imperatori e soprattutto
Diocleziano rifiutavano. Sulla traccia dell’autorità di Mitteis, il persistere delle vecchie usanze era valutato non come una
sopravvivenza di diritto, ma come una sopravvivenza di fatto, combattuta dalle autorità romane. Contro questa impostazione si è
fatto valere come fosse improbabile che da un giorno all’altro il governo romano avesse voluto imporre di adottare solo il diritto
romano. Si sono dunque cercati dei profili che giustificassero la sopravvivenza dei diritti locali sul piano di diritto e non solo su quello
di fatto. I due aspetti più importanti prospettati al proposito sono la doppia cittadinanza ed il vigore dei diritti locali come
consuetudini particolari nell’ambito del diritto dell’impero. La rilevanza al riguardo della doppia cittadinanza non riscuote più credito
neppure fra coloro che credono alla sopravvivenza di diritto degli ordinamenti locali dopo la Constitutio Antoniniana. In effetti con
generale concessione della cittadinanza del 212 d.C., tutte le città dell’impero sono diventate città romane e sono quindi venute
meno le civitates peregrinae a cui poter ancorare la doppia cittadinanza.
Quanto ai diritti locali come consuetudini nell’ambito del diritto dell’impero il punto di vista è tutt’altro che nuovo, che già il Mitteis,
il più rigoroso assertore della teoria che gli usi locali avrebbero goduto solo di una sopravvivenza sul piano di fatto, non aveva
difficoltà ad ammettere una tale operatività, purché tali consuetudini non fossero andate contro norme inderogabili. Tutto quindi
nel vedere quali fossero le norme romane da considerare indisponibili in siffatto contesto: in base alla decisione della cancelleria
imperiale, soprattutto diocleziana, esse erano intese in senso rigoroso ricomprendendo tutte le norme indisponibili in senso proprio,
che non possono cioè essere derogate nell’esercizio dell’autonomia negoziale. Non v’è alcuna traccia che la vigenza delle
consuetudini locali si fermasse solo dinanzi a quelle norme sottese da particolari valori politici od etico-sociali, come quelle che
sarebbero intaccate ammettendo, ad.es., il matrimonio tra fratelli o l’adoptio in fraternitatem. In questo senso vanno due passi di
Menandro di Laodicea, un retore greco della fine del III sec.d.C.: in entrambi egli afferma che le uniche leggi esistenti nel l’impero
sono quelle romane. Alla fine del III sec d.C. la cancelleria diocleziana era irremovibile nel riaffermare la vigenza e l’inderogabilità
delle norme del diritto romano di fronte a richieste che trovano la loro origine nell’attaccamento alle concezioni giuridiche vigenti
nelle province nel periodo precedente al 212 d.C. Gli sviluppi successivi a Diocleziano confermano come il punto di partenza fosse,
per la cancelleria imperiale, quello dell’esclusivo vigore dell’ordinamento romano. Nel tardo-antico non residua traccia del ruolo che
le consuetudini locali avrebbero svolto fino a Diocleziano. L’ingresso nell’ordinamento romano di principi contrari a quelli
tenacemente difesi ancora dalla cancelleria diocleziana avviene sempre mediante l’impiego di constitutiones generales. Giustiniano
non ha dubbi a riaffermare, legiferando per l’Armenia che l’unico diritto da applicare nell’impero è rappresentato dalle leggi
romane. Era d’altra parte impossibile che l’imperatore il cui scopo era di restaurare nel binomio arma et leges l’impero romano
potesse seguire una diversa convinzione.
35. LA NATURA E LE ORIGINI DELLA FAMILIA
La capacità giuridica del soggetto dipende, nel diritto romano, anche dallo status familiae, ossia dal fatto che egli sia persona sui
iuris.
Ancora nel periodo tardo-repubblicano e classico, la struttura della società romana si basa sulla familia in senso stretto, la familia
proprio iure,alla quale ci si riferirà sempre quando si parlerà semplicemente di familia. L’unico soggetto di diritti in questa familia è il
paterfamilias in relazione al quale le altre persone facenti parte della familia stessa sono solo oggetto di un diritto assoluto di natura
personale che giungeva sino al ius vitae ac necis: ed a ci corrisponde il fatto che le persone soggette alla patria potestas sono
sprovviste di capacità giuridica per quanto attiene ai rapporti privatistici soprattutto di carattere patrimoniale. Della familia si viene
a far parte:
per nascita da iustum matrimonium;
ma anche in seguito ad altri fatti che come l’adrogatio, l’adoptio e la conventio in manum sottopongono persone- sui iuris od
appartenenti ad una diversa familia - alla potestas del pater.
La soggezione alla patria potestas dura sino alla morte del pater stesso, quando i discendenti immediati divengono tutti sui iuris ed i
maschi capi di altrettante familiae. Lo scioglimento anticipato del vincolo familiare – divenga il sottoposto persona sui iuris
(emancipatio) o cada sotto la potestà di un altro pater (adoptio o conventio in manum) comporta una capitis deminutio, con la
cessazione di qualsiasi parentela civile o agnatizia, con la famiglia d’origine o con gli adgnati della stessa. La caratteristiche
accennate inducevano già a porsi il problema dell’origine di questa particolare struttura della famiglia. E ad esse potevano
accostarsene altre di natura omogenea:
la configurazione dei poteri del paterfamilias in quanto proprietario delle cose oggetto del dominium (ex iure Quiritium) in cui
si coglievano aspetti che potevano sentirsi come più vicini alla sovranità che alla proprietà;
e le particolarità del regime successorio romano, dove la successione testamentaria sembrerebbe giocare un ruolo
preminente.
Da queste premesse era facile pervenire alla conclusione che la disciplina della familia trovasse la sua origine in un periodo in cui
all’organismo familiare spettavano funzione di carattere politico, adempiendo essa agli stessi compiti a cui avrebbe soddisfatto, in
periodo più recente, lo Stato. Il tentativo più coerente in tal senso è quello del Bonfante: secondo lui la disciplina della familia
proprio iure del periodo classico avrebbe ereditato le caratteristiche di un a diversa struttura esistente in epoca arcaica, di carattere
parentale effettivo o presunto, la gens o la familia communi iure , che avrebbe svolto una tale funzione politica. Questa struttura
aveva carattere permanente ed un’organizzazione monarchica con a capo il pater o il princeps gentis il quale mediante il testamento
veniva designato dal precedente titolare del potere. Nell’ambito della gens si collocavano le singole famiglie, le quali costituite dal
pater e dai suoi discendenti non avrebbero avuto, in questo periodo né una forte rilevanza pratica né una specifica dimensione
giuridica. Quando le gentes perdono progressivamente la funzione precedentemente esercitata a favore dell’organizzazione politica
della città-stato, emerge la familia proprio iure che pur non assolvendo alla funzione politica della gens ne eredita la struttura
contraddistinta dal potere monarchico del paterfamilias. L’ipotesi del Bonfante è quasi del tutto abbandonata: la spiegazione che
essa offriva del particolare carattere dei poteri del pater della familia proprio iure facendoli derivare da quelli del capo della gens è
inverosimile proprio in questo aspetto qualificante e necessario; tende inoltre ad affermarsi attualmente l’ipotesi che la gens non
avesse struttura monarchica. Secondo l’opinione prevalente i poteri del paterfamilias nel periodo classico trovano la loro origine in
un più risalente organismo parentale non sostanzialmente diverso dalla familia proprio iure. Ciò lascia aperta la questione della
particolare intensità di tali poteri. Si è rilevato al proposito come l’accentramento degli stessi nel capo della famiglia e la
configurazione che loro è attribuita non sono eterogenei ad una società di agricoltori com’è quella romana dell’epoca monarchica e
alto-repubblicana. C’è da osservare inoltre che la singolarità di siffatti poteri si manifesta in modo più marcato quando si vengono a
collocare in un contesto sociale diverso da quello di origine ed in cui il carattere assoluto degli stessi si trova evidenziato dal fatto
che vengono a mancare i vincoli sacrali ed il controllo dell’opinione pubblica che li limitavano nel periodo precedente
36. IL REGIME DELLA PATRIA POTESTAS
Il filiusfamilias appare completamente sottomesso alla patria potestas. Per quanto attiene all’intensità dei poteri del pater , non
v’era una sostanziale differenza fra la situazione del filius e degli altri discendenti in potestate e quella dello schiavo perché da
questo punto di vista la libertas e la civitas godute dal figlio non avevano una fondamentale incidenza. Nel regime della patria
potestas sui discendenti ed in quello della proprietà sugli schiavi e sulle altre cose sono state rilevate analogie:
la protezione giudiziaria, in entrambi i casi, avviene con la rei vindicatio nelle sue forme
per la sottrazione di persone libere e di cose il pater pu agire con l’actio furti.
il figlio può essere trasferito con la mancipatio, il modo con cui si trasmette la proprietà delle res mancipi, e nel caso
particolare dell’usus quale forma d’acquisto della manus sull’uxor, alle persone libere in potestate si applicava questa forma di
acquisto della proprietà a titolo originario.
Queste ed altre considerazioni hanno fatto avanzare l’ipotesi che all’origine il potere del paterfamilias sulle persone libere e sulle
cose (oggetto più tardi di dominium ex iure Quiritium) avesse una natura unitaria e che si configurasse come un potere di natura
personale (potestas, mancipium o manus) e che quindi anche le situazioni soggettive di carattere proprietario avessero un carattere
potestativo. Vi è aspetto che differenzia la potestas di carattere familiare dalla proprietà sulle cose.
la potestas è originariamente inestinguibile e intrasmissibile.
La mancipatio che ha per oggetto una res mancipi trasferisce all’acquirente (il mancipio accipiens) lo stesso potere che aveva
sulla cosa il trasferente (il mancipio dans). Se il paterfamilias fa invece mancipatio di un filiufamilias non trasferisce il potere che egli
ha sul sottoposto, e cioè la patria potestas, ma costituisce quest’ultimo presso l’acquirente in una condizione paraservile e cioè in
causa mancipii.
Le analogie che esistono fra patria potestas e proprietà sulle cose non testimoniano il carattere “potestativo” della signoria sulle
cose, ma vanno valutate nel senso inverso. I poteri del paterfamilias sui discendenti in potestate avevano anche un risvolto
economico, che trovava la sua espressione nel ius vendendi: è a questo profilo che si riferiscono gli aspetti che accomunano patria
potestas e potere sulle cose, quindi la possibilità della mancipatio e dell’usus , l’esperibilità dell’actio furti e anche della rei
vindicatio. Il potere del paterfamilias sui discendenti non conosce limiti sul piano del diritto privato: diritto di disporre della vita della
persona soggetta a potestà (ius vitae ac necis) analogo a quello che aveva sullo schiavo, nel ius exponendi e nel ius vendendi. Al ius
vitae ac necis afferivano vincoli di carattere sacrale, come quello sancito da una lex regia che avrebbe vietato l’uccisione del figlio
prima dei tre anni. Questi vincoli e le loro sanzioni cadono in disuso dopo la legislazione decemvirale. Nel periodo medio-
repubblicano l’esercizio del ius vitae ac necis era sottoposto solo al controllo rappresentato dal regimen morum che si esplicava
nella nota censoria e rilevava soprattutto per le classi medie ed elevate della popolazione, aggiungendosi ed in parte sostituendosi al
controllo dell’opinione pubblica. Sono i censori che impongono in via indiretta al pater di sentire un consilium di parenti, amici
(tribunal domesticum) prima di esercitare il diritto si mettere a morte il figlio o di infliggergli pene disciplinari di particolari gravità.
Nel periodo imperiale al regimen morum dei censori si sostituì l’intervento dell’imperatore esercitato sul piano della repressione
criminale, extra ordinem, nei casi di più evidente abuso. È solo con Costantino che in sé considerata l’uccisione del figlio è repressa
come un omicidio.
La posizione del figlio si differenzia da quella dello schiavo in ordine alla capacità giuridica.
sul piano del diritto sacrale, dove anche lo schiavo si vedeva riconosciuta una certa personalità, la capacità del filiusfamilias è
totale.
la diversità è ancora più marcata sul piano del diritto pubblico. Alla completa incapacità dello schiavo corrisponde la completa
capacità del figlio, che come civis si trova su un piano di parità con le persone sui iuris. Ciò non vale per le filiaefamiliae che come
donne sono escluse dalla vita pubblica. L’ordinamento non regolava in alcun modo il possibile conflitto fra capacità del figl io al
livello del diritto pubblico e la potestas del pater che si esplicava sul piano del diritto privato: le fonti narrano episodi in cui il pater
avrebbe esercitato i poteri che gli spettavano nei confronti del figlio per impedirne un’attività politica considerata dal pater stesso
dannosa.
sotto un diverso profilo, il filiusfamilias è pienamente capace sul piano del diritto e del processo criminali, alla stregua di una
persona sui iuris.
sul piano del diritto privato, bisogna procedere a distinzioni. Nei confronti del paterfamilias, i discendenti sono solo oggetto
della patria potestas.
Nell’ambito del diritto familiare essi hanno una capacità per quanto riguarda il matrimonio, che concludono personalmente con
l’assenso del pater stesso; e sono i coniugi che hanno la legittimazione a compiere il divorzio. Nell’ambito del rapporto matrimoniale
i figli maschi potevano avere discendenti legittimi che ricadevano nella potestas dell’avo: solo alla morte di quest’ultimo il padre
avrebbe esercitato sui propri discendenti la potestas. Alle origini invece è totale l’incapacità del filiusfamilias sul piano dei diritti
patrimoniali: strumento d’acquisto per il pater, egli non può renderne deteriore la posizione. Il pater stesso risponde per i delitti dei
figli nei limiti del sistema della nossalità, sul piano del diritto civile: mentre, per le obbligazioni da atto lecito, risponde nei limiti della
responsabilità adiettizia, nel piano del diritto onorario: Per tutti questi aspetti la disciplina giuridica coincide con quella che regola la
posizione degli schiavi. Verso la fine della repubblica inizia un duplice sviluppo: da una parte si riconosce ai figli maschi la capacità di
obbligarsi sul piano del diritto civile, in quanto abbiano posto in essere un atto lecito produttivo di obbligazioni. Essi possono venir
convenuti in giudizio per tali obbligazioni ma non si pu agire contro di loro in via esecutiva, finché non siano usciti dalla potestà
paterna.
La capacità di obbligarsi dei filiusfamilias fu limitata all’epoca di Vespasiano dal sc. Macedonianum. Il quale vietava di far loro prestiti
di denaro a meno che il pater non avesse esplicitamente autorizzato l’operazione. Tale senatoconsulto riceve sanzione sul piano del
diritto onorario, in quanto il pretore denega al creditore l’azione o concede contro la stessa un’exceptio sc.i Macedoniani. Il divieto
venne deliberato a seguito di un episodio clamoroso, il parricidio commesso da Macedone (un figlio che voleva pervenire all’eredità
del padre) ed aveva applicazione qualsiasi fosse stata la forma con cui la somma di denaro era stata posta a disposizione del figlio
purché vi fosse stata un’operazione di finanziamento: l’azione intentata contro il figlio veniva impedita e le sanzioni si estendevano
all’eventuale actio de peculio nei confronti dell’avente potestà. La tutela era dunque apprestata a difesa del padre: l’invalidità del
negozio, sul piano pretorio, era sancita a danno del creditore (in odium creditoris).
Con Augusto comincia a svilupparsi l’istituto del peculium castrense. Esso si contrappone al peculium concesso dal paterfamilias
(peculium profecticium) ed è costituito dai beni acquisiti dal filiusfamilias durante il servizio militare e dagli altri beni che ha
ottenuto attraverso l’utilizzazione dei primi (principio della surrogazione reale). Gli imperatori e la giurisprudenza sono arrivati nel II
sec d.C. a riconoscere al filiusfamilias una piena capacità giuridica sul peculium castrense rispetto al quale il figlio può:
avere rapporti giuridici con qualsiasi persona ivi compreso il proprio paterfamilias;
su tali beni egli può subire l’esecuzione forzata, senza che si debba attendere la cessazione della patria potestas.
e infine ne può disporre per testamento.
Sulla strada segnata dalla figura del peculium castrense si muovono gli sviluppi postclassici. Costantino dà vita al peculium quasi
castrense che ricomprenderà tutti i beni acquistati nell’esercizio dell’attività burocratica e poi anche ecclesiastica. Dei beni che il
filius riceva dalla madre e poi anche dagli altri parenti materni viene riconosciuta la nuda proprietà al figlio mentre il padre ne ha
l’usufrutto legale. Tale regime è definitivamente sanzionato da Giustiniano per i bona adventicia che ricomprendono tutti i beni
acquistati dal figlio senza utilizzare risorse economiche provenienti dal pater: anche le filiaefamilias possono essere titolari di bona
adventicia.
L’antico sistema è definitivamente smantellato: la patria potestas continua sino alla morte del pater, per quanto riguarda i poteri di
natura personale, del resto ridotti. Il filiusfamilias acquista dal pater solo quando utilizzi risorse provenienti da quest’ultimo, ed il
paterfamilias conserva sui bona adventicia l’usufrutto legale e il conseguente potere di amministrazione: egli inoltre continua a
rispondere per le obbligazioni assunte dal filiusfamilias e la sua responsabilità si aggiunge a quella del filius stesso ove esistente.
Difesa della patria potestas:
alla difesa della patria potestas che si attuava con la legis actio sacramenti in rem s’aggiunse nel II sec.a.C. l’actio in rem per
sponsionem che rimase il mezzo più in uso, anche dopo l’introduzione del processo formulare.
Si poteva agire a tutela della patria potestas, anche con la formula petitoria.
Nel principato la tutela della patria potestas si otteneva, come informa Ulpiano, attraverso:
praeiudicia, i quali rappresentavano mezzi giudiziari particolarmente adatti in questo campo (in quanto azioni di accertamento)
e nelle forme della cognitio extra ordinem, dove la condanna non è necessariamente pecuniaria. E problemi in ordine alla
tutela della patria potestas non si hanno nel periodo postclassico dove la cognitio diventa la forma ordinaria di processo.
37. ACQUISTO E PERDITA DELLA PATRIA POTESTAS
La patria potestas si acquista per nascita od in seguito ad un atto volto a produrre tale acquisto. Si estingue per la morte del
paterfamilias ed in seguito all’adozione o all’emancipazione. Il padre acquista la patria potestas sul figlio concepito in circostanza di
iustum matrimonium mentre coloro che sono nati al di fuori di tale rapporto, i vulgo concepti sono personae sui iuris sin dalla
nascita. L’acquisto della patria potestas avviene per il solo fatto di nascita a meno che il padre non abbia esercitato il ius exponendi
o si sia rifiutato di riconoscere il neonato come suo figlio. Al di fuori della nascita in costanza di legittimo matrimonio, la patria
potestas si acquista mediante l’adozione in senso ampio, che ricomprende le due forme dell’adrogatio e dell’adoptio e mediante la
conventio in manum. In periodo postclassico, con la legittimazione, si può acquistare la potestas sui figli nati fuori dal matrimonio.
L’adozione in senso ampio ha due forme:
a seconda che la potestas venga acquistata su un altro paterfamilias (adrogatio)
o su un filiusfamilias (ddoptio)
La forma più risalente è quella dell’adrogatio: essa si svolge dinanzi alla più antica fra le assemblee popolari, i comitia curiata
presieduti in epoca repubblicana dal pontifex maximus ( e prima dal rex in persona) e serve ad assicurare la perpetuazione di una
famiglia sia a i fini socio-economici che a quelli sacrali. È solo il pontifex maximus che può porre al riguardo una serie di vincoli, in
quanto aveva un potere discrezionale nel portare o meno la proposta ai comizi. Egli negava la possibilità di adrogare:
a chi avesse già discendenti
a chi non avesse ancora compiuto 60 anni
a chi fosse più giovane della persona che voleva adrogare.
Ma se i limiti non fossero stati fatti rispettare dal pontifex maximus, l’adrogatio era cmq valida anche se compiuta per una funzione
diversa da quella di creare artificialmente un suus heres a chi ne fosse privo e presumibilmente non potesse avere più figli naturali.
Alle origini le curiae esprimevano forse assenso esplicito, anche se spesso formale, all’adrogatio perché le gentes rappresentate nei
comitia curiata avevano un parere da esprimere su un atto che poteva incidere sull’assetto sociale della comunità. In epoca tardo-
repubblicana questo assenso viene meno: solo il pontifex maximus può esercitarlo. In Roma fino al III sec.d.C. i trenta littori
continuavano, in rappresentanza delle curiae, a riunirsi nei comizi curiati per sanzionare l’adrogatio. Nelle province s’introdusse una
forma di adrogatio concessa con un rescritto dal princeps il quale ricopriva istituzionalmente la carica di pontifex maximus.
L’adrogatio si svolgeva dinanzi ad un’assemblea popolare da cui erano esclusi le donne e gli impuberi, il che ha impedito per lungo
tempo che questi soggetti potessero essere arrogati. Con Antonino Pio se ne comincia ad ammettere l’arrogazione (le donne, so lo
nella forma per rescriptum). La donne non potevano arrogare perché non potevano essere titolari della potestas: Diocleziano
concesse l’adrogatio anche ad esse con l’effetto di creare, soprattutto ai fini successori un vincolo di parentela fittizia. L’arrogatore
acquista la potestas sull’arrogato e sotto il profilo patrimoniale si ha una successione universale inter vivos a favore dell’arrogatore
stesso nel patrimonio dell’arrogato. Come in tutte le successioni universali inter vivos che conseguono ad una capitis deminutio
minima, nel caso, si procede all’estinzione dei debiti dell’arrogato. Ad evitare facili collusioni, con gravi danni per i creditori,
intervenne, forse nel I sec.a.C, il pretore che concesse ai creditori insoddisfatti una in integrum restituito e dette contro l’arrogato le
azioni, rescissa capitis deminutione. Nel caso nessuno assumesse la defensio, il pretore dava una missio in bona nel patrimonio
dell’arrogato separato a tale scopo da quello dell’arrogatore. Per l’arrogato cessano i rapporti di parentela agnatizia esistenti al
momento dell’arrogazione, mentre permangono rapporti di congnatio: nella nuova famiglia egli assume la stessa posizione di un
figlio di sangue ed entra in rapporto di parentela civile con gli adgnati dell’adrogator, ma non contrae vincoli di cognatio né con
l’arrogatore né con i cognati di quest’ultimo.
L’adoptio in senso stretto serviva invece a trasferire un filiusfamilias dalla potestas di un pater a quella di un altro pater e rispetto ai
due paterfamilias interessati costituiva rispettivamente un modo di acquisto e di perdita della patria potestas. Originariamente la
patria potestas era inestinguibile ed intrasmissibile: solo con la legge delle XII Tavole s’introdusse il principio che il pater che aveva
abusato del ius vendendi alienando per tre volte il figlio perdeva la potestà su di lui. Sfruttando a scopi negoziali l’innovazione
introdotta dalla norma delle XII Tavole, la giurisprudenza pontificale pervenne, in epoca precedemvirale, a configurare un
procedimento idoneo a produrre l’estinzione della patria potestas. In questo modo si rese possibile l’introduzione dell’adoptio che si
svolgeva in due fasi: nella prima fase si procedeva ad una triplice mancipatio del figlio a persona di fiducia del pater il quale dopo le
prime due vendite manometteva o remancipava al padre il figlio che ricadeva sotto la patria potestas; dopo la terza lo remancipava
al pater: la patria potestas si era estinta, onde il pater stesso acquistava su quello che era stato il suo filiusfamilias solo il mancipium.
A questo punto entrava in scena il padre adottivo: per completare l’adoptio, si svolgeva fra il pater e l’adottante quella che appare
una forma di in iure cessio: mediante una vindicatio nelle forme della legis actio sacramento in rem, l’adottante affermava che
l’adottando era suo figlio, colui che lo dava in adozione non procedeva alla contovindicatio: il pretore procedeva quindi all’addictio
che faceva acquistare all’adottante la patria potestas sull’adottato. In epoca storica per le figlie femmine e i discendenti maschi che
non fossero figli (nipoti, ecc.) è sufficiente una sola mancipatio per farli uscire dalla potestas. Può adottare solo un cittadino maschio
pubere: le donne, in quanto incapaci di patria potestas, erano escluse da quest’atto. Giustiniano le ammette all’adoptio: già dal
tempo di Diocleziano, le donne erano ammesse a compiere l’adrogatio senza acquistare perciò la patria potestas. Si poteva adottare
qualsiasi persona a parte il limite ricordato da Gaio per cui l’adottante non poteva essere più giovane dell’adottato. In epoca
repubblicana era discussa la possibilità di adottare un servo; Giustiniano sancisce che l’adozione del servo, nelle forme proprie
dell’epoca, non produce acquisto della patria potestas, ma rende solo libero lo schiavo. Mediante l’adoptio e la conseguente capitis
deminutio l’adottato tronca ogni rapporto di parentela agnatizia con la famiglia d’origine, con la quale rimangono i vincoli di
congnatio: assume nella nuova famiglia la stessa posizione dei discendenti del sangue, stabilendo vincoli di parentela civile con gli
adgnati dell’adottante. La regolamentazione su questo punto coincide con quella dell’adrogatio. L’adoptio mantiene la forma
mancipatoria sin verso la fine del III sec.d.C. Successivamente si compie mediante dichiarazione dell’adottante e di colui che dà in
adozione ricevuta negli atti del magistrato competente: l’adottando è presente e deve non contraddire. Giustiniano compie una
profonda innovazione: Partendo dalla constatazione che ormai l’unica parentela rilevante è la cognatio, l’imperatore statuisce che
l’adozione non estingue in alcun modo i vincoli con la famiglia naturale, che rimane la vera famiglia dell’adottato: essa crea un
nuovo vincolo fra adottato e adottante che non si estende ai parenti di quest’ultimo e produce solo un’aspettativa alla successione
ab intestatio. Si viene ad instaurare una profonda differenza con l’adrogatio, la quale resta anche in quest’epoca un modo d’acquisto
della patria potestas. L’estinzione della patria potestas avviene in via naturale con la morte del paterfamilias: i figli diventano
persone sui iuris ed i maschi patresfamilias acquistando la potestas sui propri figli ed ulteriori discendenti. La patria potestas si
estingue in base alla norma sanzionatoria, quando il sottoposto passi sotto la potestas di altro paterfamilias (Con l’adoptio o la
conventio in manum) o nel caso dell’emancipatio, in cui diventa persona sui iuris. In questi casi per l’estinzione comporta una
capitis deminutio e la conseguente rottura del vincolo agnatizio. Anche l’emancipatio si fonda sulla ricordata norma che prevede
l’estinzione della patria potestas in seguito alle tre mancipationes: Il cerimoniale è identico a quello dell’adoptio fino alla terza
mancipatio ed alla remancipatio al pater; a questo punto il pater stesso che ormai ha sull’emancipando solo il mancipium lo
manomette assumendo così sul soggetto che diventa sui iuris la figura del pater manumissor. La capitis deminutio dell’emancipatio
non incide sulla cognatio ma per il ius civile l’unico rapporto parentale è col parens manumissor. La capitis deminutio non crea
problemi di origine patrimoniale dato che il figlio era prima dell’emancipazione privo di capacità giuridica. Nel periodo classico il
figlio ha la capacità di obbligarsi civilmente: la capitis deminutio estingue anche nell’emancipazione le obbligazioni che egli abbia
contratte ma il pretore dà azioni onorarie contro l’emancipato, dopo la valutazione delle circostanze del caso e concedendo il
beneficium competentiae.
38. MATRIMONIO E CONVENTIO IN MANUM
La struttura della familia trova il suo fondamento nel matrimonio, dato che può avere origine, del pari che la parentela civile, solo in
un iustum matrimonium. Il matrimonio romano si fonda, in epoca classica, sul consenso dei coniugi. Ancora nel periodo classico, si
può fare una distinzione nel rapporto patrimoniale in funzione della posizione che assume la moglie rispetto alla famiglia del marito.
La moglie poteva entrare in tale famiglia: se il marito era sui iuris essa cadeva sotto la potestas di quest’ultimo (manus); se il marito
era alieni iuris cadeva sotto la potestas del paterfamilias del marito; a seguito di ciò la moglie, considerata in posizione di figlia
rispetto al proprio marito (di nipote nei confronti dell’avente potestà su quest’ultimo, di sorella rispetto ai propri figli).
L’ingresso nella famiglia del marito (conventio in manum) era realizzabile mediante confarreatio, coemptio o usus. La donna poteva
conservare l’originario status familiae; in questo caso non aveva alcun rapporto di parentela civile (adgnatio) né col marito né con i
propri figli. In base a ciò, la dottrina distingueva due tipi di matrimonio:
cum manu: si sarebbe concluso nella forme previste dal ius civile per l’acquisto della manus (la confarreatio, la coemptio e
l’usus) le quali sarebbero state forme di matrimonio;
sine manum: si sarebbe fondato sulla volontà reciproca dei coniugi di essere marito e moglie (affectio maritalis).
Si va facendo strada l’ipotesi che la manus e il matrimonium fossero due istituti separati. Quelle che erano le forma del matrimonio
cum manu sarebbero solo forme della conventio in manum che aveva per effetto la sottoposizione della moglie alla potestas del
marito o dell’avente potestà su di lui, mentre la conclusione e la continuazione del matrimonio si sarebbero sempre fondate solo sul
consensus perseverans dei coniugi. Non si debbono distinguere due forme di matrimonio bensì due diverse condizioni della donna
sposata, dell’uxor in manum o non in manum: questa configurazione secondo taluni sarebbe valida anche per il periodo risalente.
Appare inverisimile che in epoca risalente la moglie rimanesse al di fuori della famiglia agnatizia del marito non partecipando con
pieno diritto ai sacra della stessa: una tale ipotesi non tiene conto delle reali condizioni di vita dell’epoca e dei valori che ne
sottendevano la regolamentazione giuridica. Già da questo punto di vista l’ingrasso nella famiglia agnatizia del marito, la conventio
in manum, appare effetto che doveva naturalmente accompagnare il matrimonio. Ciò trova piena conferma nella disciplina di quegli
atti che in epoca classica servono solo a produrre la conventio in manum ma che in epoca risalente debbono essere valutati come
aspetti formali necessari perché si abbia contemporaneamente la conclusione del matrimonio e l’acquisto della manus.
La confarreatio consisteva in una serie di atti di intonazione religiosa e culminava nell’offerta a Giove di una focaccia di farro. Tutto il
cerimoniale indica nel senso che si trattasse di un rito matrimoniale di carattere religioso che faceva contemporaneamente entrare
la donna nella famiglia agnatizia del marito.
La coemptio è un’applicazione della mancipatio ma aveva una forma diversa da quella adoperata per la trasmissione della res
mancipi, forma nella quale si evidenziava che la mancipatio della donna avveniva matrimonii causa. Essa dunque era alle origini
configurata come un modo di porre in essere il matrimonio, in alternativa alla confarreatio.
L’usus è un istituto di età remota, connesso alla mancipatio di cui sanava vizi di forma o di legittimazione. Nel caso di una coemptio
la quale non avesse fatto acquistare al marito o all’avente potestà su di lui la potestas, l’usus faceva si che si verificasse tale
acquisto, quando la donna avesse convissuto matrimonialmente col marito per un anno. Ciò conferma che l’acquisto della manus
sulla donna era una effetto ineliminabile del matrimonio. È proprio attraverso l’operatività dell’usus a sanatoria della mancata
acquisizione della manus che deve essersi introdotta la convinzione che il matrimonio potesse sussistere indipendentemente da tale
acquisto. Nelle XII Tavole è già contenuta una norma per cui l’effetto dell’usus non si verificava se la donna si fosse allontanata dal la
casa del marito per un periodo comprendente tre notti. La convinzione così raggiunta che il matrimonio fosse possibile anche senza
l’acquisto della manus sulla moglie ha rappresentato il punto per la configurazione classica dell’istituto: ancora nel I sec.a.C., l’usus
era in vigore a cadde in desuetudine nel I sec.d.C. anche in seguito alla riforma della confarreatio . Ma già a partire dal III-II sec.a.C.
la distinzione fra il matrimonio che si fonda sul consenso dei coniugi e la manus, acquistata farro, usu e coemptione, doveva essere
nettissima. Sin dalla media repubblica il matrimonio dunque si fonda solo sul consenso durevole dei coniugi. Si pone il problema
della dialettica fra quelli che sono i comportamenti socialmente rilevanti dai quali si desume l’inizio dell’affectio mortalis ed il
principio dell’efficacia, sul piano giuridico, del consenso manifestato. Se da una parte infatti i giuristi riaffermano nettamente la
sufficienza del consenso per l’esistenza del matrimonio, dall’altra si riferiscono talora agli atti che accompagnano nella prassi la
celebrazione delle nozze e soprattutto al solenne ingresso della sposa nella casa del marito come momento iniziale del rapporto di
coniugio. Dall’altro lato il reciproco consentire dei nubendi doveva aver ad oggetto un vero e proprio matrimonio, onde l’unione su
cui verteva il consenso aveva come necessaria conseguenza che l’uomo tenesse presso di sé la donna con quello che i romani
chiamavano l’honor matrimonii che differenziava la moglie da una concubina. In periodo classico il consenso deve essere
manifestato personalmente dagli sposi, anche se si tratti di personae alieno iuri subiectae ma in questo caso occorre anche l’assenso
dell’avente potestà. Se poi il marito stesse ancora sotto la potestà del nonno oltre al consenso di quest’ultimo era necessario anche
quello del padre dello sposo, quantunque ancora soggetto alla patria potestas in base al principio invito suus heres non adgnascitur
(a nessuno può essere creato un discendente ed erede senza la sua volontà).
Il consenso del paterfamilias al matrimonio della persona sottoposta doveva originariamente perdurare perché continuasse il
rapporto di coniugio. Già prima del periodo classico ciò non valeva più per il filiusfamilias mentre per la filiafamilias una siffatta
condizione deve essersi conservata più a lungo. In epoca imperiale l’acquisto della manus sulla moglie è ormai un effetto accidentale
rispetto alla conclusione del matrimonio e tale acquisto avviene solo in base alla coemptio. Nella tarda repubblica era ancora in uso
la confarreatio necessaria ai fini sacrali (perché certi sacerdozi, come quelli dei flamines maggiori, potevano esser ricoperti solo da
persona nate da e viventi in nozze confarrate). Per permettere la copertura di tali cariche sacerdotali, Tiberio fece stabilire che la
confarreatio facesse acquistare la manus sulla donna solo in ordine ai sacra: per il ius civile essa rimaneva sui iuris o sotto la potestas
del pater della famiglia d’origine. Nel periodo postclassico, il matrimonio fu in primo piano fra gli istituti verso cui la religione
cristiana mostrava il maggiore interesse. L’influenza cristiana sulla struttura del matrimonio si manifestò soprattutto nel tentativo di
limitare lo scioglimento del rapporto al solo caso di morte di uno dei coniugi. In ordine alla forma del matrimonio gli ambienti
cristiani davano grande rilievo alle cerimonie religiose e soprattutto alla benedizione degli sposi. Sul piano giuridico non sembra che
neppure in questo periodo venisse imposta una forma vincolata per il matrimonio. La libertà nella forma di manifestazione della
volontà matrimoniale restava astrattamente in vigore, ma il modo di esprimersi del legislatore postclassico mostra che si trattava di
ipotesi marginali. Soprattutto nelle classi elevate, il matrimonio è preceduto normalmente dal fidanzamento, gli sponsalia, che nel
periodo classico sono un atto non formale con effetti molto limitati. Al di là del dovere morale, in periodo classico non sorge dal
fidanzamento alcun vincolo a contrarre nozze, che ciò sarebbe contrario alla concezione romana della libertà matrimoniale. Nel
periodo arcaico, invece, il fidanzamento era un atto che, compiuto nelle forme della sponsio, vincolava alla conclusione del
matrimonio attraverso la responsabilità personale di colui che avesse promesso di contrarre il matrimonio stesso o mediante
l’assunzione dell’obbligo di pagare una somma di denaro per il caso il matrimonio non seguisse. L’azionabilità della sponsio a scopo
di finanziamento cadde in disuso durante la media repubblica: in seguito a ciò venne meno anche la forma stipulatoria per il
fidanzamento stesso. Nel periodo postclassico si nota un certo ritorno all’antico. Anzitutto al fidanzamento si attribuisce una
rilevanza più incisiva. In sé considerato il fidanzamento non vincolava alla conclusione delle nozze; ma quando la sponsus avesse
dato alla fidanzata o al padre di essa una somma di denaro a titolo di arrha sponsalicia s’instaurava una coazione indiretta al
matrimonio, da far valere entro due anni dalla dazione: se non voleva più contrarre il matrimonio, il futuro marito perdeva l’arra,
mentre la futura sposa o il padre, che rifiutassero le nozze, erano tenuti a restituire un multiplo della somma ricevuta, prima il
quadruplo ed a partire dalla costituzione di Leone del 472 d.C. il doppio. La libertà di contrarre matrimonio, che nella tarda
repubblica non poteva più essere vincolata dall’autonomia dei privati, è invece seriamente ridotta dalla legislazione augustea che si
compendia nella lex Iulia de maritandis ordinibus del 18 a.C. ripresa ed integrata dalla lex Papia Poppaea del 9.d.C. Sugli uomini tra i
25 e i 60 anni e le donne fra i 20 e i 50 incombe l’obbligo di contrarre matrimonio secondo i criteri fissati dalla legge che stabiliva una
serie di fattispecie in cui le nozze erano irrilevanti ai fini dell’adempimento dell’obbligo di cui si tratta. Gli ingenui non potevano
sposarsi con donne di dubbia fama ed i senatori e i loro discendenti con liberte ed attrici; tali matrimoni restavano validi, ma non
rilevano ai fini dell’adempimento delle prescrizioni della legislazione augustea. Solo alla fine del II sec.d.C. furono colpiti di nullità. Da
questi obblighi esenta il ius liberorum e cioè l’aver procreato tre figli (se ingenui) o quattro (se libertini). Essi cadono in desuetudine
vengono abrogati nel periodo postclassico, col prevedere di concezioni che riconoscono alla castità un valore superiore a quello
della vita coniugale, e sono addirittura ostili alle seconde nozze.
39. REQUISITI DI VALIDITÀ DEL MATRIMONIO
Quando due soggetti posseggano tutti i requisiti per contrarre un valido matrimonio, si dice che essi hanno reciprocamente il
conubium. Tale costruzione non è usata in modo generalizzato e non sembra aver lasciato traccia sulla concreta disciplina degli
impedimenti matrimoniali. Alcuni requisiti per aversi un valido matrimonio sono già fissati nelle XII Tavole. Gli sposi devono essere
puberi; non devono essere in rapporto di parentela naturale (cognatio) o civile (adgnatio) in linea retta all’infinito, in linea
collaterale entro il 6° o 7° grado. Era necessario che entrambi gli sposi fossero cittadini (o stranieri con i quali esisteva la reciproca
capacità matrimoniale e cioè il conubium).
In periodo tardo-repubblicano e classico questi requisiti vengono precisati. Oltre alla maturità fisica si richiede la sanità mentale: si
tratta di un fatto che attiene più che altro all’incapacità di agire, che comporta sostanzialmente gli stessi effetti della capacità
giuridica. La parentela di linea collaterale, naturale od agnatizia, impedisce le nozze solo entro il terzo grado, ed in qualche caso
entro il quarto o il quinto. Nella parentela naturale rientrano tutti i casi di parentela del sangue, quindi anche quelli derivanti dalla
filiazione fuori dal matrimonio e da servilis cognatio. Mentre la parentela civile in linea retta impedisce il matrimonio, anche se
estinta per capitis deminutio, quella in linea collaterale opera solo se non estinta. Nel tardo-antico si hanno numerosi cambiamenti
dettati dalle mutate concezioni religiose intorno al matrimonio. Accanto all’abolizione degli obblighi derivanti dalle leggi augustee si
abrogano gli impedimenti matrimoniali derivanti da quella legislazione: l’opera è compiuta da Giustiniano che elimina anche
l’incapacità dei senatori, estesa in diritto postclassico a tutti coloro che rivestivano un’elevata carica pubblica a sposare donne di
bassa condizione o dubbia fama. Altri impedimenti vengono aggravati o introdotti. Nel 342 d.C. viene eliminata l’accezione
introdotta dal Sc. Claudiano che permetteva il matrimonio fra zio e nipote: alterne vicende si hanno per il divieto di contrarre nozze
fra cugini. Diventa impedimento al matrimonio anche la cognatio spiritualis tra padrino e figlioccio. Non v’è dubbio inoltre che
l’esistenza di un matrimonio valido impedisca la validità di un nuovo matrimonio, il che si accompagna alla punizione come crimine
di bigamia. I cristiani non possono sposare ebrei, sotto la comminatoria di sanzioni penali: ed è nullo il matrimonio, anch’esso
penalmente proibito, con chi abbia emesso voto di castità. Chi ha assunto gli ordini sacri maggiori non può contrarre valido
matrimonio ma non si scioglie il matrimonio di chi assuma gli ordini sacri, essendo già sposato: ma l’essere sposato o vedovo con
figli è a sua volta impedimento alla nomina di vescovo.
40. LO SCIOGLIMENTO DEL MATRIMONIO
Il matrimonio si scioglie anzitutto per morte di uno dei coniugi. Alla morte è equiparata la capitis deminutio maxima e cioè la perdita
della libertà: si ricordi come il matrimonio, quale rapporto di durata fondato sul permanere dell’affectio maritalis, non riv iva in
seguito al postliminium. Il matrimonio si fonda sull’affectio maritalis che già i romani intendevano come consenso continuato. È
però molto discusso quale disciplina giuridica sottenda tale concettualizzazione: da quel che risulta dalle fonti sembrerebbe che la
categoria del consenso continuato celi una realtà molto più limitata. In effetti non esistono passi di giuristi in cui la cessazione
dell’affectio maritalis accertata al di fuori del divorzio stia a base dello scioglimento del matrimonio: nel caso ricordato della pazzia
sopravvenuta di uno dei coniugi, l’accertamento dell’impossibilità di un valido consenso non compromette, come varebbe dovuto, la
continuazione del matrimonio. La concetualizzazione in parola sembra dunque significare solo che nell’epoca classica il matrimonio
si scioglie in seguito all’accordo tra le parti diretto allo scioglimento del rapporto coniugale o al repudium, dichiarazione unilaterale
e recettizia, di uno dei due coniugi rivolta all’altro e diretta a far cessare il rapporto coniugale stesso. Nel periodo classico non è
richiesta una forma specifica per tale dichiarazione ed essa non è vincolata da alcun presupposto di carattere sostanziale, se non sul
piano sociale, dove il divorzio ingiustificato può essere oggetto di riprovazione. Anche se si tratta di persona alieni iuris il coniuge pu
divorziare senza l’assenso del paterfamilias; e analogamente la donna senza l’assenso del tutore. Lo scioglimento del matrimonio
per divorzio lascia sussistere, se esistente, la potestas sulla donna del marito o del paterfamilias di costui. La donna usciva da tale
potestas mediante l’emancipazione. Secondo Gaio, il marito era costretto , mediante l’intervento del pretore, a liberare la ex-moglie
della manus dopo il divorzio. L’indissolubilità del matrimonio all’infuori della morte di uno dei coniugi era uno dei punti su cui più
divergeva la concezione cristiana del rapporto coniugale da quella propria della società e del diritto romano del periodo classico. In
questo periodo si sviluppano anzitutto, per il repudium, forma dalle quali ne dipende la validità. In Oriente si afferma
definitivamente il libellus repudii: e la forma scritta corrisponde qui ad antiche concezioni più orientali che greche; accanto a tale
libellus, L’Occidente conosce anche la possibilità di una dichiarazione orale, alla presenza di testimoni. Al di là di queste modifiche, in
sé non contrarie alla libertà del divorzio, la pur trionfante ideologia cristiana non riesce ad imporre l’irrilevanza del repudium
unilaterale: la legislazione imperiale si limita infatti a fissare sanzioni personali, patrimoniali e penali contro il coniuge che abbia
inviato il ripudio al di fuori dei casi consentiti dalla legge. Ancora Giustiniano si muove, in un primo tempo, in tale ordine di idee:
sembra sancire abbastanza chiaramente la nullità del ripudio. Già i giuristi bizantini contemporanei interpretavano per la legge nel
senso che il ripudio fosse solo penalmente sancito, restando efficace sul piano privatistico.
Il divorzio consensuale invece rimane valido in ogni caso e non viene sottoposto a sanzioni di alcun genere per tutto il periodo
postclassico, fino ad oltre la compilazione giustinianea. Sono solo Nov.117.10 del 542 d.C. e 134.11 del 556 d.C., che lo vietano
totalmente al di fuori dei casi previsti per il ripudio unilaterale. Dopo 10 anni, il successore di Giustiniano nell’impero, Giustino II, lo
reintroduce con la più ampia libertà. Una vicenda analoga ebbe, nella legislazione postclassica fino alla Nov .22 del 536 d.C. di
Giustiniano, la disciplina delle seconde nozze. Né promosse né osteggiate dal diritto, esse non erano mai state viste con molto
favore nella società più antica ed ancora nel corso della repubblica. La legislazione matrimoniale augustea aveva introdotto l’obbligo
di contrarre matrimonio per i celibi e le nubili, ma anche per i vedovi e i divorziati. Nel tardo-antico l’influenza del cristianesimo port
ad un serie di misure, la maggior parte delle quali, senza aver come scopo primario quello di infliggere una sanzione a chi le
conduceva, mirava soprattutto a proteggere i figli di primo letto, il che comportava facilmente degli svantaggi patrimoniali per il
binubo.
41. RAPPORTI PERSONALI E PATRIMONIALI FRA CONIUGI
Per quanto i riguarda i rapporti personali tra coniugi, essi sono più che altro regolati dal costume, ed assumono solo di rado
rilevanza giuridica. Anche sul piano sociale, diversa è la posizione del marito e della moglie e varia a seconda delle epoche. In quella
arcaica, non si può pensare a posizione paritetica fra uomo e donna: nella disciplina giuridica ciò trovava espressione nella completa
sottomissione della moglie alla potestas del marito anche se la posizione dell’uxor, loco filiae, doveva differenziarsi da quella degli
altri discendenti, soprattutto per quanto concerne i poteri punitivi e disciplinari del pater, ciò che trovava sanzione nella cura
morum censoria. Fra i coniugi, il reciproco dovere di fedeltà, rispetto ed assistenza ha in epoca classica rilevanza sociale: come
accade nell’esperienza giuridica romana per i diritti non patrimoniali, s’incontrano difficoltà per una diretta tutela sul piano
giuridico, proprio perché l’ordinamento romano non appresta gli strumenti per una protezione giurisdizionale di siffatti interessi: la
sanzione delle violazioni di tali diritti sono dunque indirette. Una disciplina complessa si ha per i rapporti patrimoniali. Bisogna al
proposito distinguere fra l’istituto della dote, la quale diventa di proprietà del marito e le altre situazioni che, dal punto di vista
patrimoniale, s’instaurano fra i coniugi pendente matrimonio. Sotto quest’ultimo profilo incide la diversa situazione in cui i coniugi si
vengono a trovare a seconda che il matrimonio sia o meno accompagnato dalla manus. Nel primo caso non possono instaurarsi fra i
coniugi rapporti patrimoniali in pendenza del matrimonio, proprio perché la moglie è sottoposta alla potestas del marito o
dell’avente potestà su quest’ultimo ed è priva di capacità giuridica. Nel matrimonio senza manus invece il regime giuridico è quello
della separazione, il quale comporta che, se è o diventa sui iuris, la donna sia titolare del proprio patrimonio e lo amministri senza
subire in ciò alcuna ingerenza del marito.
42. PARENTELA CIVILE E PARENTELA NATURALE
La famiglia proprio iure, fondata sul matrimonio sta anche alla base dell’adgnatio, la parentela secondo il diritto civile, la quale, per
linea maschile, unisce tutti coloro che si sarebbero potuti trovare sotto la potestas di un unico paterfamilias: cioè coloro che
discendono in via di filiazione legittima da un comune capostipite e non hanno subito capitis deminutio. In questa parentela trovano
luogo le donne, ma essa non può acquistarsi per tramite di una donna la quale non è in rapporto di parentela agnatizia coi propri
figli con i quali è in posizione di sorella nell’ambito della famiglia del marito, solo se ha compiuto la conventio in manum che ne ha
interrotto i rapporti con la famiglia d’origine per capitis deminutio. In origine l’adgnatio sembra limitata ai parenti entro il sesto
grado: in epoca classica gli adgnati sembrano chiamati a succedere oltre tali limiti. Oltre che per nascita da iustum matrimonium, la
parentela agnatizia sorge in base a tutti gli atti che fanno acquistare la patria potestas, come l’adrogatio, l’adoptio, la conventio in
manum. Al di là della parentela agnatizia sussiste il legame derivante dall’appartenere ad un organismo parentale più ampio, e cioè
dalla medesima gens. Le gentes del periodo monarchico e proto-repubblicano si caratterizzano dalla comunanza del nomen, il
gentilicium, che nel sistema onomastico romano è comune per tutti coloro che appartengono alla stessa gens. Non sappiamo come
fosse regolato l’accertamento dell’appartenenza ad una gens: esso era lasciato alla regolamentazione da parte delle singole gentes.
È sicuro che non bastava portare lo stesso gentilicium per appartenere alla medesima gens: basti pensare al fatto che lo schiavo
manomesso assumeva il gentilicium del patrono, ma non per questo veniva ammesso nella sua gens. Ancora nella tarda repubblica il
vincolo gentilizio aveva rilevanza sul piano dell’ordinamento privatistico che riconosceva determinati diritti a i gentiles che in
materia ereditaria erano chiamati alla successione ab intestato del paterfamilias in mancanza di adgnati. Inoltre la tutela degli
impuberi e delle donne come del resto la cura del furiosus e del prodigus spettavano ai gentiles, sempre in assenza degli adgnati.
Accanto all’adgnatio è in epoca risalente molto limitata la rilevanza della cognatio, la parentela del sangue, che esiste sia dal lato
maschile che da quello femminile ed i cui gradi si contano allo stesso modo che per la parentela civile o agnatizia. Essa rileva nei
limiti dell’adgnatio originaria ed è tenuta presente agli effetti della capacità matrimoniale, oltre che a quelli penali o sacrali. È il
pretore che comincia a prendere in considerazione la cognatio ai fini successori con la bonorum possessio-sine tabulis-unde cognati.
Al di fuori del campo successorio i genitori, identificati in base al rapporto di cognatio, non possono essere citati in giudizio senza
autorizzazione del pretore. Solo in piena epoca giustinianea viene definitivamente abolita la prevalenza della parentela agnatizia,
soprattutto in materia di tutela e di successioni: ormai rileva solo la parentela del sangue, cognatio, sia nell’ambito della filiazione
che al di fuori del matrimonio. Nell’ambito della cognatio vanno considerati particolarmente i figli procreati fuori dal matr imonio,
vulgo quaesiti o concepti. Fin dal momento della nascita essi sono persone sui iuris, perché la madre, in quanto donna, non può
essere titolare di potestas né con essa i figli stanno in rapporto di adgnatio creandosi tale rapporto solo per linea maschile.
Civilmente non sono parenti di nessuno, perché l’adgnatio si fonda sul rapporto col padre ed i figli vulgo quesiti non hanno col padre
stesso alcuna relazione. Con la madre e con i cognati della stessa, essi si trovano in un rapporto di cognatio la quale ha risvolti
negativi in materia matrimoniale o nell’ambito della repressione criminale, e positivi ai fini della successione ereditaria e degli
alimenti. Nessun diritto possono vantare i figli vulgo quaesiti nei confronti del padre, né quest’ultimo nei loro confronti. Ciò valeva
anche in quei casi particolari dove si dava un concubinato o un iniustum matrimonium che erano rapporti che costituivano unioni
durature e palesi fra uomo e donna, in cui i figli nascevano non in seguito a rapporti sessuali occasionali o clandestini. Differenza tra
concubinato e iniustum matrimonium: L’inustum matrimonium si ha nel caso di un unione duratura, accompagnata dall’affectio
maritalis, tra persone alle quali manchi il conubium ed è solo questa circostanza che impedisce la realizzazione di un iustum
matrimonium. Per aversi concubinato invece non è necessaria l’affectio maritalis , ma la durata nel tempo del rapporto. Nel tardo
antico la posizione dei vulgo quaesiti che ora sono spesso chiamati filii naturales subisce un cambiamento nei rapporti col padre
quando si tratti di figli nati in un rapporto di concubinato, i quali possono, attraverso legitimatio, assumere la qualità di figli legittimi.
A ciò si accompagna istituzionalizzazione concubinato: perché ricorra questa figura si richiede una volontà dell’uomo e della donna
che configuri l’unione come duratura ed esclusiva, onde accanto a questa non è possibile né un matrimonio né un altro concubinato.
Nel concubinato manca l’affectio maritalis che assicura la dignitas della donna e quindi l’honor matrimonii. Tutto ciò porta a
configurare nel concubinato un matrimonio che non prevede il regime patrimoniale tipico del matrimonio (dote o donazione
obnuziale) e da cui nascono non figli legittimi ma liberi naturales. In quanto tali, i figli naturali possono ricevere mortis causa dal
padre solo per testamento; Giustiniano riconosce loro in termini ristretti diritti nella successione ab intestatio e forse, anche in vita
del padre, agli alimenti. La loro posizione differisce sostanzialmente da quella dei vulgo quesiti in quanto solo essi possono
acquistare la qualità di figli legittimi, mediante la procedura della legitimatio.
Un primo caso di legittimazione dei liberi naturales si ha in seguito al regolare matrimonio fra i genitori che li avevano generati
durante in concubinato: legitimatio per subsequens matrimonium. Introdotta da Costantino, essa trovò una sistemazione definitiva
solo con Anastasio, imperatore d’Oriente, nel 517 d.C. e fa assumere ai figli legittimati la posizione che essi avrebbero avuta se
fossero nati in costanza di matrimonio.
La seconda forma di legittimazione è quella per oblationem curiae quando il padre doni inter vivos o lasci mortis causa ai figli
naturali una somma tale che permetta loro di entrare nell’ordine dei curiales: o nel caso femminile che possa entrarvi il mar ito. La
legittimazione ha effetti limitati dando ai figli solo il diritto di succedere ab intestato al padre, senza creare vincoli di cognatio con i
parenti dello stesso. L’imperatore Leone l’ammetteva nel 470 d.C. solo in mancanza di figli legittimi nati da regolare matrimonio;
Giustiniano tolse questa restrizione e nel 538 d.C. ammise che nei casi in cui fosse oggettivamente impossibile la legitimatio per
subsequens matrimonium il padre potesse ottenere la legittimazione mediante un provvedimento dell’imperatore.
43. LA CAPACITÀ D'AGIRE. GLI IMPUBERES
Attualmente tutte le persone fisiche sono soggetti di diritto: si tratta di vedere chi fra di esse abbia la capacità d’agire. La capacità
d’agire viene riconosciuta a coloro che hanno raggiunto una maturità intellettuale sufficiente a rendersi conto della portata degli atti
che compiono. In diritto romano dunque la capacità d’agire può essere esclusa o diminuita
da cause attinenti all’età (impuberes e minores XXV annis) al sesso (donne), e vizi della sfera mentale (pazzi) e caratteriale (prodigi).
Il diritto civile prevede l’infirmitas aetatis come causa di esclusione o di diminuzione della capacità d’agire. Il ius civile fissa un limite
d’età entro il quale si presume manchi l’idoneità a curare i propri interessi. In linea di principio il limite è rappresentato dalla
pubertà ed ha un ristretto margine di variabilità. Alle origini la pubertà veniva accertata di volta in volta eventualmente con
un’inspectio corporis: durante il principato questa teoria continu ad essere seguita dai sabiniani, sicuramente per i ragazzi, mentre i
proculiani fissavano l’inizio della pubertà al compimento dei 14 anni per i ragazzi e dei 12 anni per le fanciulle. In epoca classica per
esse era prevalsa l’opinione dei proculeiani, mentre per i ragazzi questa soluzione fu definitivamente imposta da Giustiniano. Cmq si
consideri accertato il raggiungimento della pubertà, sia i ragazzi che le fanciulle escono dalla condizione di impuberes, ma mentre i
primi divengono per il ius civile totalmente capaci, per le seconde cambia solo il tipo di incapacità e di tutela. Gli impuberi incapaci e
sottoposti a tutela erano chiamati pupilli (o pupillae): all’interno di questa categoria si ha un regime unitario. Nel periodo classico si
individuano tre categorie di impuberes:
gli infantes;
gli infantia maiores;
i pubertati proximi.
Gli infantes erano quei bambini che, pur potendo emettere suoni articolati, non si rendevano sufficientemente conto della portata
delle proprie e delle altrui parole nel contesto sociale. Non esisteva un limite preciso d’età che delimitasse questa categoria:
ricorrono spesso quelli di 5 o 7 anni. Gli infantia maiores sono coloro che hanno superato tale limite: tra di essi si distinguono i
pubertati proximi solo ai fini della responsabilità penale. Gli infantes sono totalmente incapaci di agire: e sotto questo profilo sono
equiparati ai pazzi. Gli atti da loro compiuti non hanno alcun effetto giuridico. Per il pupillo che abbia la materiale capacità di parlare
si ammette che con l’auctoritas del tutore possa fare la cretio dell’eredità od acquistare il possesso, applicandogli in via eccezionale
il regime degli infantia maiores. Gli infantia maiores sono solo parzialmente incapaci di agire. In ordine ai diritti patrimoniali essi
possono migliorare la loro situazione. È lo stesso regime che si ha per i filiifamilias e per gli schiavi per quanto concerne gli effetti
della loro attività giuridica sul patrimonio del paterfamilias: ed anche per i pupilli vige il principio che, nell’ambito dello stesso affare
e dello stesso negozio, si scindono gli effetti favorevoli che si verificano da quelli sfavorevoli che non hanno luogo. Perché un
negozio giuridico possa produrre anche effetti sfavorevoli al pupillo è necessario che questi agisca con l’auctoritas del tutore.
Questo regime era in certi casi eccessivamente favorevole per il pupillo: si cercò dunque, soprattutto sul piano del diritto pretorio di
tutelare la controparte nel limiti dell’arricchimento del pupillo. Un rimedio di carattere generale fu introdotto, a partire dalla metà
del II sec.d.C., quando a seguito di un rescritto di Antonino Pio, si ammise la responsabilità del pupillo per i negozi compiuti senza
l’auctoritas del tutore.
44. LE FORME DELLA TUTELA IMPUBERUM
All’incapacità del pupillo si ovviava mediante la tutela la quale aveva lo scopo di fornire all’impubere assistenza e protezione anche
sul piano di fatto. I romani conoscevano diversi modi per classificare la tutela, che si riferivano all’istituto nel suo comp lesso ed alle
dispute in proposito accenna Gaio: Quinto Mucio distingueva 5 genera tutelarum, Servio Sulpicio tre, Labeone due. La classificazione
più in uso era quella che risaliva a Servio Sulpicio e che distingueva:
la tutela legitima spettante ai parenti secondo il ius civile
quella testamentaria quando il tutore è nominato nel testamento del paterfamilias dell’impubere
quella dativa quando il tutore è “dato” dal magistrato.
La tutela testamentaria e quella legittima sono le più risalenti. La tutela legittima si ha quando manchi la designazione testamentaria
da parte del testatore e spetta secondo le XII Tavole al parente più vicino in grado secondo la parentela civile, l’adgnatus proximus.
Quando esistano più agnati nello stesso grado, la tutela viene esercitata da tutti collettivamente. In mancanza di adgnati la
delazione passa ai gentiles. In base ad un’interpretazione delle XII Tavole da parte dei pontifices fondata sulla normale coincidenza
fra le persone chiamate alla successione intestata del pupillo e alla tutela, si ammise che il patrono e i suoi figli fossero chiamati alla
tutela sui liberti e sui figli dei liberti impuberi (e sulle liberte, che erano soggette perpetuamente alla tutela mulierum come tutte le
altre donne). La delazione della tutela legittima non varia sino alla fine del V sec.d.C. allorché i cognati si sostituiscono agli adgnati:
questo sviluppo si concluderà con Giustiniano, quando la tutela verrà deferita solo ai cognati. La tutela testamentaria è quella
attribuita, nel proprio testamento, dal paterfamilias, che aveva l’impubere sotto la potestas al momento della morte. Nel
testamentum per aes et libram, il quale era la forma ordinaria di quest’atto in epoca tardo-repubblicana e classica, ci avveniva in
forma imperativa. Originariamente il tutore testamentario era forse l’erede che il paterfamilias nominava al filio impubere, ove non
raggiungesse la pubertà e coincideva col sostituto pupillare, solo successivamente, nel testamentum per aes et libram, la datio
tutoris ebbe una rilevanza autonoma. Tutore testamentario poteva essere chiunque avesse i requisiti per essere tutore: era solo il
paterfamilias che poteva nominare un tutore e solo quando l’impubere fosse ancora sotto la potestà del padre al momento della
morte di quest’ultimo. Il tutore dativo, od Atiliano, è dato secondo la Lex Atilia del 210 a.C., dal pretore urbano, assistito dalla
maiors pars dei tribuni della plebe: esso viene nominato per l’impubere che non abbia altro tutore o sia dubbio che lo abbia. Nelle
province procede a tale nomina il governatore provinciale. Uno specifico praetor tutelaris subentra al pretore urbano a partire da
Marco Aurelio. Nel periodo postclassico il praefectus urbi di Roma e di Costantinopoli è competente per le due capitali, mentre
ormai il tutore viene nominato nelle province dai magistrati municipali e principalmente dal defensor civitatis. È discusso in dottrina
se si possano cogliere nel regime della tutela legittima e testamentaria, da un lato, e quello della tutela dativa, dall’altro, diversità di
regime che indichino nel senso di una differenza di funzioni. E’ difficile negare l’esistenza di aspetti particolari della disciplina della
tutela legittima e di quella testamentaria nei confronti di quella dativa. Si deve tener conto al riguardo di alcune importanti diversità
nel regime dei vari tipi di tutela: né il tutore testamentario e forse neppure quello legittimo hanno l’obbligo di conservare la
titolarità dell’ufficio; non sono tenuti ad assolvere ai compiti derivanti da tale ufficio e ad assumere la gestione del patrimonio
tutelare; non perdevano il titolo di tutore neppure se, in seguito a condanna in azioni pubbliche o private, se ne fosse accertata la
dolosa violazione dei doveri d’ufficio. E va sottolineato come in tutti questi punti essenziali il regime della tutela dativa si
contrapponga a quello della tutela legittima e testamentaria. Si deve valutare il fatto che,almeno nella tutela legittima, è tutore in
linea massima chi sarà l’erede del pupillo, se questi muoia prima di raggiungere la pubertà. È difficile sottrarsi alla suggestione di
questo insieme di rilievi, i quali portano a concludere che la funzione originaria almeno della tutela legittima vada trovata nella
protezione dell’interesse dell’adgnatus proximus e che non venga diminuito il patrimonio del pupillo nel quale egli è chiamato a
succedere. Ciò può essere esteso anche alla tutela testamentaria: a differenza di quella legittima però non sembra sussistere qui una
necessaria coincidenza fra la persona designata all’ufficio tutelare del padre del pupillo e l’erede di quest’ultimo (ove l’impubere
muoia prima del raggiungimento della pubertà). La caratterizzazione dinanzi accennata rispecchia l’astratta potenzialità dell’istituto.
Diverso può essere stato il concreto funzionamento. Va anzitutto rilevato che, conservando nel proprio interesse il patrimonio
pupillare, il tutore curava, indirettamente, anche gli interessi del pupillo: e nella società dell’epoca risalente non doveva essere
agevole distinguere l’interesse del singolo da quello dell’ambiente familiare, e quindi l’interesse del pupillo da quello del tutore.
45. IL REGIME DELLA TUTELA IMPUBERUM
La persona designata assume la qualifica di tutore senza bisogno di accettazione: ma i tre tipi di tutela si differenziano in ordine
all’obbligo di conservare la carica. Il tutore testamentario può rinunciare alla tutela, anche dopo aver cominciato a gerire l’ufficio:
basta che compia l’abdicatio tutelae. In epoca risalente, il tutore legittimo poteva compiere l’in iure cessio tutelae che nel II sec.d.C.
Gaio ricorda in vigore solo per la tutela mulierum. Profondamente diverso è il regime della tutela dativa. Il tutore nominato dal
pretore non pu rinunciare all’ufficio tutelare, può solo presentare delle cause (excusationes) che lo giustifichino a rifiutare l’ufficio.
Nel periodo classico egli poteva designare – potioris nominatio – persona più adatta alla tutela stessa: ed in seguito a ciò, il pretore
decideva che dovesse assumere l’onere della tutela. Il carattere obbligatorio si estese alla tutela testamentaria già in epoca classica:
il tutore designato nel testamento non poteva più compiere l’abdicatio tutelae e si vide estendere le excusationes e forse la potioris
nominatio. Per tutto il periodo classico il tutore legittimo rimase escluso dal sistema delle excusationes perché, pur non potendo più
dimettere il titolo di tutore, non era obbligato a gerire la tutela. E’ solo in epoca postclassica che avvenne l’estensione, proprio
perché anche per questo tipo di tutore si configurò un obbligo a gerire la tutela e ad assumere l’amministrazione del patrimonio
tutelare. È capace ad assumere l’ufficio, nella tutela legittima, chi sia maschio e pubere: egli è poi necessariamente sui iuris. Questi
requisiti si estendevano originariamente anche alla tutela testamentaria: in epoca classica invece né il tutore testamentario né il
tutore dativo debbono essere sui iuris. Oltre i requisiti così visti, non erano individuate cause d’incapacità. A parte la tutela legittima,
in quella testamentaria si riteneva sufficiente il iudicium defuncti, la valutazione fatta dal padre del pupillo: per il tutore dativo era il
magistrato che soppesava i motivi che potevano rendere inopportuna la nomina. Nel periodo postclassico, in concomitanza con la
scomparsa della tutela mulierum, le donne vengono ammesse in casi determinati ad esercitare l’ufficio tutelare. Si deve distinguere
la gestione dell’ufficio in sé considerata dall’amministrazione del patrimonio tutelare. E’ stato sostenuto che alle origini il tutore
fosse titolare fiduciario del patrimonio pupillare: ciò non risulta dalle fonti: i compiti originari del tutore sembrano invece limitati a
prestare l’auctoritas quando il negozio avesse effetti svantaggiosi per il pupillo. Ciò trova riscontro nella circostanza che nei
confronti del tutore legittimo e testamentario non esiste originariamente un’azione di rendiconto. Un coinvolgimento
nell’amministrazione del patrimonio doveva già essere diffuso intorno al 210 a.C., anno in cui con la lex Atilia si introdusse la tutela
dativa: per essa infatti fu introdotta fin dall’inizio l’actio tutelae e già nel I sec.A.C. una iudicium bonae fidei. Si tratta di un’atipica
azione di rendiconto che si fonda sull’effettiva gestione tutelare e sull’amministrazione del patrimonio: e che può essere data, come
actio tutelae contraria, a favore del tutore, quando il rendiconto stesso portasse un saldo a suo favore. In proseguio di tempo, il
campo di applicazione di questa azione si ampia, ed essa viene impiegata per sancire la responsabilità del tutore dativo che non si
curi della tutela e non amministri il patrimonio tutelare. L’obbligo di gestione, l’amministrazione del patrimonio pupillare e l’actio
tutelae vennero estesi alla tutela testamentaria, probabilmente già all’inizio dell’età classica. Il tutore testamentario rispondeva per
per la mancata gestione solo quando il magistrato gli avesse notificato un decreto con cui poneva a carico del tutore stesso ogni
ulteriore inerzia. Per quanto riguarda il tutore legittimo è dubbio se l’estensione fosse già avvenuta alla fine del periodo classico,
mentre è sicura nel periodo postclassico in cui si verificava la definitiva fusione dei tre tipi di tutela. In ogni caso il tutore legittimo
che volesse amministrare il patrimonio del pupillo doveva già dalla fine della repubblica, prestare la satisdatio rem pupilli salvam
fore (garanzia che il patrimonio del pupillo non subisca nocumento). Nell’amministrazione del patrimonio del pupillo il tutore
incorreva nei limiti che generalmente afferivano alla rappresentanza di interessi altrui: tale amministrazione si attuava nelle forme
dell’interposizione gestoria (o rappresentanza indiretta). Quando ciò fosse ammissibile, gli effetti del negozio si verificavano in testa
al tutore come gestore. I limiti così visti possono essere superati se il tutore faccia concludere – prestando la sua auctoritas – il
negozio dell’impubere infantia maior. L’auctoritas è l’assenso del tutore contestuale alla conclusione del negozio e presuppone
quindi la partecipazione del tutore stesso al compimento dell’atto. Il tutore non poteva prestare l’auctoritas per quei negozi per cui
fosse in conflitto d’interessi col pupillo. L’auctoritas, alle origini prevalentemente diretta a tutelare le aspettative del tutore e della
famiglia, si integrava così nel sistema più recente che prevede come nomale amministrazione diretta dal patrimonio. Ma non
sempre è possibile l’interpositio auctoritas: essa è in assoluto esclusa per l’infans, totalmente incapace di agire e lo è praticamente
per l’absens. In questi casi, soprattutto per i negozi obbligatori, l’amministrazione del tutore avveniva con gli effetti
dell’interposizione gestoria. Interviene qui il pretore e concede a favore e contro il pupillo le azioni che sarebbero spettate a favore
e contro il tutore: si tratta dunque di azioni concesse in via utile e più precisamente di azioni con trasposizione di soggetti. Per
l’amministrazione del patrimonio tutelare, esistevano delle regole che imponevano al tutore un impiego di beni pupillari e di capitali
liquidi. Per quanto concerne i beni immobili un’oratio Severi del 195 d.C. sancì la nullità delle alienazioni dei fondi rustici e della
costituzione su di essi di un’ipoteca, a mano che l’alienazione non dipendesse dalla volontà del padre espressa nel testamento o
dalla necessità di soddisfare ad obbligazioni del pupillo, e vi fosse stata una previa autorizzazione del pretore urbano. Da questa
norma si sviluppa, nel periodo postclassico e giustinianeo, una generale alienabilità del patrimonio pupillare. Regole speciali
valevano in caso di pluralità di tutori. I tutores legitimi esercitavano alle origini la tutela in modo collettivo: tale regime rimase in
vigore per la prestazione dell’auctoritas, mentre l’amministrazione era fra tali tutori ristretta a coloro che avevano prestato la
satisdatio rem pupilli salvam fore. Nella tutela testamentaria poteva decidere o la volontà del testatore o l’accordo fra i tutori, od in
mancanza il pretore, il quale ultimo era competente a fissare i compiti di più tutori dati ex lege Atilia: nella tutela testamentaria
doveva essere comunque preferito il tutore che offrisse la satisdatio anche se i tutori di tale tipo non fossero obbligati a prestarla. La
ripartizione dei compiti aveva una particolare importanza nel caso, in cui il patrimonio pupillare si estendesse in luoghi diversi e
lontani. La responsabilità del tutore nei confronti del pupillo varia da epoca ad epoca. Nella tutela legittima il pupillo poteva disporre
dell’actio retionibus distrahendis. La funzione dell’azione in tempo risalente è incerta: essa portava alla condanna al doppio del
valore delle cose sottratte dal tutore al pupillo ed aveva quindi carattere penale. Dalla fine della repubblica, il tutore legittimo che
volesse amministrare il patrimonio pupillare doveva prestare la satisdatio rem pupilli salvam fore: l’actio rationibus distrahendis
però sopravvive, anche se in periodo classico non si è in grado di precisare la sua funzione, come è dubbia la sua estensione agli altri
tipi di tutela. In base alla satisdatio rem pupilli salvam fore, il tutore risponde nei limiti in sui sarebbe tenuto con l’actio tutelae:e
risponde anche per la mancata gestione dell’ufficio tutelare, che ricomprende ormai anche l’amministrazione del patrimonio
pupillare. Contro il tutore testamentario spettava un’accusatio suspectis tutoris : essa viene esercitata in epoca classica nelle forme
della cognitio e porta alla rimozione del tutore che viene colpita da infamia. Al suo posto non subentra il tutore legittimo, ma il
magistrato dà, ex senatusconsulto, un tutore dativo. L’accusatio non spetta contro il tutor legitimus cui non pu essere tolto il titolo
e non servirebbe contro il tutore dativo, che può essere rimosso dal pretore che lo ha dato. I rapporti tra tutore e pupillo trovarono
la disciplina più soddisfacente con l’actio tutelae che venne introdotta subito dopo il 210 a.C. per regolare i rapporti fra il tutore
dativo ed il pupillo. Già a partire dall’inizio dell’epoca classica, quest’azione viene estesa con tutte le conseguenze al tutore
testamentario, ma al tutore legittimo si applica solo nel periodo postclassico. L’actio tutelae è già all’epoca di Q. Mucio un iudicium
bonae fidei: si tratta di un’azione di rendiconto, la quale spetta contro colui che abbia gerito la tutela. Essa può essere esperita
quando il tutore cessi dell’ufficio e viene intentata dal nuovo tutore, quando la cessazione sia avvenuta prima che il pupillo stesso
abbia raggiunto la pubertà. È dubbio se la responsabilità del tutore sia mai stata limitata solo al dolo. Sicuramente in periodo
classico egli risponde anche per culpa. Nel caso di più tutori che abbiano gerito insieme la tutela, senza una divisione di compiti, essi
rispondono solidalmente nei confronti del pupillo. Il regime della responsabilità in base all’actio tutelae non subisce modificazioni in
epoca classica. In tale età l’obbligo della satisdatio si estende a tutti i tutori ed il pupillo viene ulteriormente garantito, a partire da
Costantino, da un’ipoteca generale sui beni del tutore.
46. LA CONDIZIONE DELLA DONNA E LA TUTELA MULIEBRE
La donna pubere (viripotens) ha una limitata capacità d’agire ed è conseguentemente sottoposta a tutela. Sul piano del diritto
privato, le donne erano incapaci per gli atti e per i rapporti che coinvolgevano la patria potestas. In base ad una lex Voconia del 169
a.C. non potevano esser istituite eredi nel testamento di un cittadino appartenente alla prima classe del censo, neanche in quello
del proprio padre: la disposizione cadde in disuso nel principato, anche per il venir meno dell’antico censimento repubblicano. La
donna sottoposta a tutela legittima non poteva fare testamento, era quindi incapace di avere eredi testamentari. Una grave
limitazione, che concerneva la loro capacità d’inserirsi nel mondo degli affari, era stata sancita dal Sc. Vellaeanum della metà del I
sec.d.C. il quale proibì alle donne di assumere obbligazioni nell’altrui interesse. Il divieto rimase in vigore sino all’epoca giustinianea.
Molto più ampia è la diminuzione della capacità d’agire, anche se ridotta rispetto a quella degli impuberi. A parte la responsabilità
per i delicta privata, la donna è pienamente capace di compiere quegli atti da cui le provengano solo dei vantaggi. La donna stessa
per non è incapace per tutti gli atti che le possono recare svantaggio. Non le è interdetto di alienare le res nec mancipi e compiere
tutti quegli atti che possono essere omologati a tale alienazione ad es. estinguere in qualsiasi modo un’obligatio. Ha invece bisogno
della tutoris auctoritas negli altri atti che le possono recare svantaggio: per alienare la res mancipi, per assumere obbligazioni da
contratto, per condurre un processo, per procedere all’aditio hereditatis. La tutela mulierum pu essere originariamente legittima o
testamentaria: ad essa di aggiunse, dopo la lex Atilia, la tutela dativa. Presto però il tutore dativo venne dato alle donne solo a loro
istanza ed era richiesta l’accettazione della persona designata dal pretore. L’ufficio non è dunque obbligatorio. Nella tutela
testamentaria, a partire già dalla media repubblica, il paterfamilias poteva lasciare alla figlia la possibilità di scegliersi il tutore. Con la
lex Claudia, fatta votare dall’imperatore Claudio intorno al 40 d.C., la tutela legitima sulle donne venne abolita ad eccezione di quella
sulla libertà, di cui erano tutori legittimi patronus ed i suoi discendenti.
Nel corso dell’impero la donna poteva essere esonerata dalla tutela, quando conseguisse, sulla base della lex Iulia et Papia, il ius
liberorum, avendo partorito tre figli, se ingenua, quattro, se liberta, nell’ambito di una matrimonio conforme alle prescrizioni di
detta legge. Nella tutela mulierum, anche in quella dativa, si può osservare come la funzione dell’istituto non sia volta a proteggere
la donna. I poteri del tutore si limitavano infatti alla prestazione dell’auctoritas e non si estero mai all’amministrazione del
patrimonio della donna. Ove il tutore procedesse a tale amministrazione, i rapporti con la donna erano regolati sulla base del
mandato o della gestione di affari: al che corrisponde il fatto che l’actio tutelae non venne mai applicata alla tutela muliebre. La
funzione dell’istituto volta a proteggere l’interesse del tutore si mantenne intatta solo nella tutela legittima: sin dall’età tardo-
repubblicana infatti il tutore testamentario e quello dativo possono essere costretti dal pretore a prestare l’auctoritas. Gaio
considerava l’istituto privo di un reale significato osservando che le donne amministravano da sole i propri matrimoni, chiamando il
tutore solo a prestare l’auctoritas che quest’ultimo era obbligato a concedere. Pur ridotta ad un rudere formale, la tutela muliebre
sopravvive fino all’età di Diocleziano.
47. LE CURATELE
L’assenza o la menomazione della capacità di agire stanno anche alla base delle curatele, che riguardano il minore di 25 anni, il
pazzo ed il prodigo. Nel diritto della tarda repubblica ed in quello classico il furiosus, pur essendo soggetto di diritto, è
completamente incapace di agire, sia a proprio vantaggio che a proprio svantaggio: ed è in questo aspetto che il furiosus e l’infans
sono avvicinati. La cura del furiosus spetta agli adgnati ed in mancanza ai gentiles: essa compete di diritto, senza necessità di alcun
accertamento giudiziale o di un provvedimento amministrativo. L’accertamento sulla sussistenza della pazzia e sulla esistenza della
curatela, si otterrà caso per caso in sede processuale la validità dei negozi compiuti dal furiosus o la legittimità dell’amm inistrazione
del curatore. Non esistono curatori testamentari: in mancanza del curatore legittimo provvede a partire dalla fine della repubblica il
pretore senza che intervenga una disposizione legislativa. L’eventuale designazione di un curatore che il paterfamilias faccia nel
testamento potrà essere tenuta presente dal pretore nella nomina del curatore e quindi anche sulle condizioni della salute mentale
del soggetto da sottoporre a curatela. Il curatore deve preoccuparsi della sorte della persona e dell’amministrazione del patrimonio
del pazzo. I rapporti fra curatore e pazzo non sono regolati da una specifica azione, quale è l’actio tutelae per la tutela impuberum:
si applica qui l’actio negotiorum gestorum, directa e contraria. La cura prodigi è regolata dalla XII Tavole: gli adgnati ed in mancanza i
gentiles sono chiamati ad esercitare la curatela cu colui che dissipa il proprio patrimonio, più precisamente, alle origini, i beni
ricevuti in eredità dal paterfamlias. A differenza che per la cura furiosi è qui necessario un provvedimento del pretore: l’interdictio.
Già nella tarda repubblica il pretore poteva nominare un curatore dativo confermando una designazione testamentaria, ma
probabilmente solo n mancanza di adgnati. Il prodigo interdetto non poteva nel diritto classico diminuire il proprio patrimonio, se
non con l’assistenza del curatore; ma non gli erano vietati gli atti con cui l’accrescesse: la sua situazione veniva a coincidere con
quella dell’impubere infantia maior ed in più egli era pienamente capace dal punto di vista del diritto penale, pubblico e privato.
Probabilmente il curator prodigi amministrava il patrimonio dell’interdetto, sempre con gli effetti dell’interposizione gestoria. Anche
fra prodigo e curatore il rendiconto della curatela si ottiene mediante un’actio negotiorum gestorum, data probabilmente in via
utile. Non risultano cambiamenti di questa disciplina nel periodo postclassico e giustinianeo. La cura minorum non è disciplinata dal
ius civile ed ha una storia complessa. Nel periodo più antico, all’uscita dall’impubertà, mentre le fanciulle ricadevano sotto la tutela
mulierum, i ragazzi si trovavano a 14 anni circa completamente capaci di agire. Il mutamento delle complessive condizioni di vita
fece insorgere la necessità a cui ovviò ai primi del II sec.a.C. la lex Laetoria de circumscriptione adulescentium. Si tratta di una lex
minum quam perfecta che riferendosi a coloro che non hanno ancora compiuto i 25 anni, fissava una pena pecuniaria a carico di
coloro che nel concludere un atto di rilevanza patrimoniale avessero abusato dell’inesperienza di un minore, il quale ne avesse
riportato un danno. Tale pena poteva essere perseguita da chiunque con un’azione popolare, anche se nelle forme del processo
privato. Da un lato, i minores cominciarono a farsi assistere da persone di fiducia e d’esperienza, scelte da essi stessi per singoli
affari che dovevano concludere, non foss’altro per garantire la controparte. Ciò non escludeva l’esperibilità dell’azione popolare, ma
rendeva più difficile la prova della circumscriptio.
Per il diritto civile gli atti compiuti dai minores rimasero validi, ma alla fine del II sec. a.C. il pretore intervenne a sancirne l’invalidità.
Egli concesse al minore un’exceptio legis Laetoriae per la fondatezza della quale valevano gli stessi requisiti dell’azione popolare
nascente dalla legge in questione. Nell’editto promise al minore di concedere una restitutio in integrum indipendentemente da lla
circumscriptio. Tale restitutio era concessa sempre quando il minore non era stato assistito dal proprio curatore, ma l’assistenza di
quest’ultimo non era di per sé sufficiente ad escluderla. Successivamente il pretore venne a disciplinare anche l’istituto del curatore.
Fu il magistrato a nominare il curatore stesso anche se la designazione avveniva ancora per singoli affari senza che il curatore avesse
una competenza di carattere generale. A partire da Marco Aurelio la nomina del curatore avvenne per l’insieme degli affari del
minore, anche se una tale nomina non sembra fosse ancora obbligatoria in tutti i casi. In un primo periodo, anche quando il curator
minoris fosse nominato dal pretore, egli prestava solo la sua assistenza all’atto, una sorta di auctoritas non formale che non era
sufficiente ad escludere la concessione a favore del minore dei mezzi pretori. Dopo che Marco Aurelio ne ebbe definitivamente
sanzionato, al curatore fu sempre più frequentemente affidata l’amministrazione del patrimonio del minore il che contribuì a far
venire meno le differenza con la tutela impuberum. Il curatore divenne così il titolare di un ufficio non rinunciabile: ci port ad
estendergli il sistema delle excusationes: d’altro lato, l’assenso dato dal curatore ai negozi del minore andava parificandos i con
l’auctoritas e veniva così meno la possibilità d’impugnare i negozi del minore compiuti con tale assistenza. I rapporti fra curatore e
minore non trovarono una specifica disciplina: essi erano regolati in base ai principi in tema di gestione di affari altrui: era esperibile
l’actio negotiorum gestorum, anche quando il curatore fosse richiesto dal minore e l’incarico accettato volontariamente dal
curatore. Quando la cura minorum divenne un ufficio obbligatorio, l’actio negotiorum gestorum venne data in via utile. Il processo
d’identificazione tra cura minorum e tutela si accentu e si compì nel tardo antico, risultando completato all’epoca di Giustiniano.
Nell’ambito dei minores XXV annis non hanno più una rilevanza particolare gli impuberes, mentre si distinguono ancora gli infantes:
solo negli atti illeciti il limite della pubertà aveva ancora rilevanza. Nella compilazione, e soprattutto nel Digesto, la differenza
formale fra tutela e cura minorum sussiste grazie al classicismo di Giustiniano.
48. LE PERSONE GIURIDICHE. NOZIONI GENERALI
Nella persona giuridica bisogna distinguere due aspetti:
socio-economico che si pone sul piano della realtà storica.
formale che riguarda la struttura giuridica dell’ente.
L’aspetto materiale costituisce il sostrato di fato su cui si fonda l’aspetto formale, che è dato dal riconoscimento della personalità
giuridica da parte dell’ordinamento. Tale sostrato presuppone l’esistenza di scopi che non possono essere perseguiti da un singolo
individuo e che vengono affidati a strutture che hanno una loro rilevanza sul piano di fatto e alle quali corrisponde la persona
giuridica. A seconda del tipo di ente, nella persona giuridica s’intrecciano elementi di carattere personale e materiale od economico.
Vi sono tipi di persona giuridiche in cui prevale l’elemento personale. Un gruppo di persone si riunisce per raggiungere uno scopo
(persona giuridica corporativa, associazione in cui è presente un insieme di beni o servizi messi a disposizione dagli stessi associati,
da utilizzare per raggiungere lo scopo comune). In altri casi in primo piano sta l’elemento materiale od economico. La persona
giuridica viene conferita ad un patrimonio, destinato ad uno scopo. A parte il fatto che l’ente deve essere amministrato da persone
fisiche, l’elemento personale sta qui in secondo piano ed è rappresentato dai soggetti a vantaggio dei quali si esercita l’attività
dell’ente stesso (fondazioni). L’aspetto formale consiste nell’attribuzione della personalità giuridica da parte dell’ordinamento.
Prevale oggi una considerazione che distingue varie forme di entificazione giuridica:
autonomia perfetta: in cui si crea un soggetto di diritto completamente distaccato dalle persone fisiche
autonomia imperfetta: che può assumere gradazioni diverse, ma che presuppone un centro soggettivo d’imputazione
d'interessi diverso dalle singole persone.
49. LE PERSONE GIURIDICHE NELL'ESPERIENZA ROMANA
Nel linguaggio giuridico romano manca un termine per indicare la persona giuridica. In tale esperienza non è conosciuta, né nella
disciplina giuridica né nell’operatività pratica, la fondazione: le persone giuridiche si limitano a quelle di tipo associativo. Per queste
ultime si deve rilevare che il regime giuridico non si identifica sempre con quello dell’autonomia patrimoniale perfetta anche
all’interno del singolo tipo di persona giuridica, dove possono coesistere aspetti che si rifanno a moduli diversi.
L’esistenza di associazioni che costituiscono soggetti di diritto autonomi rispetto alla personalità dei singoli associati si ha per gli enti
pubblici:
lo Stato: è denominato populus Romanus o populus Romanus Quiritium e senatus populusque Romanus. Esso ha una
personalità separata da quella dei singoli cives, soprattutto per l’organizzazione politica. Il riconoscimento di tale autonomia era
facilitato dalla posizione di supremazia che, in virtù dell’imperium o della potestas, gli organi dello stato, i magistrati avevano nei
confronti dei cittadini. Tale supremazia non si limita ai rapporti di natura politica od amministrativa. Anche nei rapporti che possono
venir in essere tra privati, come la disponibilità assoluta su una cosa dal punto di vista economico e gli atti a questa relativi, quali una
compravendita o una locazione, lo strato entra in relazione con i singoli cives nella sua posizione di supremazia. Ci esclude
l’applicazione a siffatti rapporti fra stato e cittadini del diritto e del processo privato. Nelle fonti questi rapporti vengono talora
riferiti all’aerarium populi Romani, che altro non è che la cassa dello stato: Questo termine è una designazione particolare per
indicare lo stato in tali rapporti, anche per i quali non sussiste un rapporto paritario, di diritto privato, fra cittadini e stato. Per
quanto riguarda la tutela delle situazioni giuridiche patrimoniali facenti capo allo stato, essa era demandata in epoca repubblicana ai
magistrati, che agivano direttamente in via esecutiva sulla base del loro imperium o della loro potestas tramite provvedimenti. Tali
provvedimenti non presupponevano un accertamento in via contenziosa della ragione e del torto, ma il tutto si svolgeva sul piano
dell’amministrazione attiva ed era deliberato ed eseguito in via di autotutela da parte dei magistrati. I privati che si fossero sentiti
illegittimamente danneggiati o ritenessero infondati i provvedimenti presi dai magistrati potevano ricorrere all’autorità che aveva
preso il provvedimento ritenuto ingiustamente lesivo dei propri interessi, perché il caso venisse riesaminato. Era escluso che si
potesse avere tra i magistrati ed i privati un processo che accertasse la fondatezza dell’agire dei primi nonché dei reclami dei
secondi. Questa configurazione dei rapporti tra stato e cittadini non conosce eccezioni in epoca repubblicana e continua, in periodo
imperiale, per quella branca dell’amministrazione che è retta nelle forme repubblicane. Nel principato un profondo cambiamento si
verifica nell’ambito dell’amministrazione dipendente direttamente dall’imperatore, nella quale si concentrano i rapporti di natura
economica. Tale amministrazione s’identifica con il fiscus: esso è un patrimonio, meglio una delle masse patrimoniali, che fanno
capo all’imperatore come istituzione. La posizione del princeps che rispetto a ordinamento repubblicano, è un privato, permette che
egli abbia un patrimonio che è regolato dal diritto privato sebbene da un lato egli goda di posizione di privilegio e dall’altra si
vengono a formare una serie di normazioni particolari fiscali. Il fisco trae origine dal patrimonio privato del princeps, ma se ne
diversifica immediatamente, perché diventa un patrimonio dell’imperatore come istituzione, il quale va al successore nel trono e
non agli eredi privati del princeps stesso. Ai rapporti fiscali si applicava il diritto privato: il fiscus adottava rapidamente forme
contrattuali nate nell’ambito dell’amministrazione pubblica del periodo repubblicano e sperimentale soprattutto nella prassi delle
locationes censoriae. Molto importante ai fini della valutazione complessiva della posizione del fiscus sul piano dei rapporti
economici era la regolamentazione della tutela giurisdizionale: a partire da Claudio si pu constatare l’esistenza di una giurisdizione
nelle forme della cognitio extra ordinem ma è dubbio che precedentemente fossero in uso le forme del processo ordinario. Si venne
così enucleando un sistema di “diritto fiscale” e della relativa tutela giurisdizionale, che costituiva una profonda innovazione sulla
prassi repubblicana: questo sistema si estese a tutti i rapporti dello stato. La rappresentanza del ficus e degli altri patrimoni
dell’imperatore spettava ai funzionari della burocrazia imperiale, che si trovavano in un rapporto gerarchico col princeps stesso e
che appartenevano soprattutto alla categoria dei procuratores. Tale rappresentanza aveva gli effetti della rappresentanza diretta.
le civitates Romanae, che a partire dalla media repubblica, rappresentano lo strumento essenziale per l’amministrazione del
territorio annesso allo stato romano. Dal punto di vista della personalità giuridica, le città romane si trovano in una duplice
posizione. Nei confronti del populus Romanus , Gaio dice che esse sono considerate alla stregua di privati cittadini, il che significa
che con le città, che sono enti pubblici, il populus Romanus entra in rapporti fondati sulla propria supremazia. Con i propri cittadini
le civitates hanno rapporti di diritto pubblico e privato. Il diritto pubblico regola i rapporti senza una diretta rilevanza patrimoniale:
per quelli patrimoniali, le situazioni in cui le città si vengono a trovare con i propri cittadini sono disciplinate dal diritto privato e
trovano tutela giurisdizionale nella procedura formulare e cioè nelle forme del processo privato. Ma almeno sino al I sec.d.C. i
negozi necessari per l’amministrazione sembrano avvenire nelle forme di diritto pubblico usate in Roma dai censori e dal pretore. La
rappresentanza delle civitates è regolata dallo statuto che ogni città ha ricevuto dal populus Romanus nonché dall’editto del
pretore. I magistrati pongono in essere gli atti di diritto pubblico i cui effetti si ripercuotono direttamente sulla città in base al
rapporto di rappresentanza organica. Gli atti di diritto privato invece possono essere posti in essere dagli stessi magistrati, ed allora
sembrerebbe prevalere una configurazione nel senso che gli effetti si verifichino direttamente nel patrimonio della civitas. Gli effetti
dell’interpolazione gestoria sembrano la regola nel caso l’attività negoziale sia svolta, come accade, da appositi actores, che
agiscono nelle forme privatistiche: solo a questi ultimi spetta la rappresentanza processuale nei giudizi dinanzi al pretore il quale
concede actiones utiles a favore e contro la città per i negozi posti in essere dagli actores. D’altro lato le città possono acquistare a
mezzo dell’attività negoziale di diritto privato dei propri schiavi. In linea generale l’autonomia patrimoniale del populus Romanus e
delle altre civitates comporta che i rapporti di carattere patrimoniale facenti capo alla persona giuridica non riguardino gli associati
in quanto tali e viceversa. Sussistono per altri aspetti che non incidono su tale autonomia ed in cui traspare una configurazione
diversa, la quale mostra un livello di indipendenza fra la situazione giuridica degli associati ed il patrimonio dell’ente. Ciò si può
riscontrare nel regime delle res publicae: L’usus publicus cui una parte di tali cose sono destinate sembra essere l’esercizio di un
potere che sulle res publicae stesse spetta ai cives come titolari delle res in questione nella loro qualità di membri del popolo inteso
come collettività dei cittadini stessi. Più evidente l’aspetto rappresentato dall’incapacità dei municipia e delle civitates ad essere
istituite eredi e a venir onorate anche di legati: ciò dipende dalla circostanza che le civitates sono considerate personae incertae e
dall’altra, dal fatto che, per quanto concerne l’eredità, manca la possibilità di porre in essere l’atto di accettazione, in quanto la
cretio e la pro erede gestio non possono essere compiute da tutti i cives contemporaneamente. In questi casi i giuristi romani non
riescono a concepire la persona giuridica rigorosamente distinta dall’insieme degli associati che la compongono: non risulta che per
le civitates si siano mai posti problemi nel senso di riconoscere un’autonomia patrimoniale imperfetta. Esistono anche altri tipi di
associazioni nelle quali si sanciva la libertà dei sodales di dare ai rispettivi collegia la normativa che ritenevano più adeguata, purché
ciò non andasse conto la lex publica. Che anche per l’epoca più risalente esistessero associazioni, prevalentemente con scopi di culto
o di assistenza religiosa o costituivano corporazioni di mestiere, non è possibile dubitare. Non risulta quale ne fosse il regime
giuridico, all’infuori dell’aspetto ricordato. Notizie relative a tale regime cominciano con la lex Iulia de collegiis, all’epoca di Cesare o
di Augusto, la quale regola completamente la materia per impedire che al riparo dello schermo offerto dall’associazione si celassero
attività illecite, principalmente di carattere politico. È ipotesi probabile che contemporaneamente alla lex Iulia si procedesse alla
soppressione di tutti i collegia e le sodalitates esistenti: per la costituzione di nuove associazioni venne richiesta l’autorizzazione del
senato. Solo nel caso delle associazioni delle persone appartenenti alle classi meno elevate, i collegia tenuiorum, il senato decretò
un’autorizzazione di carattere generale ponendo condizioni di cui nelle fonti manca il ricordo. Quanto all’autonomia patrimoniale di
queste associazioni, siamo informati solo per quanto riguarda il II-III sec.d.C: essa sembra modellarsi su quella delle città romane,
anche se i collegia non avevano personalità di diritto pubblico. Una spinta decisiva verso l’autonomia patrimoniale delle associazioni
pu essere venuta proprio dalla lex Iulia la quale stabiliva alcuni requisiti di struttura per la concessione del riconoscimento ai
collegia ed alle solidates e fra questi soprattutto la necessità dell’esistenza di almeno tre socii e la previsione di un patrimonio
dell’associazione. In base alla lex Iulia è da escludere che l’associazione non munita della prescritta autorizzazione, pur essendo
illecita, godesse egualmente della personalità giuridica: altro problema è quello se, in base alle previsioni della lex Iulia potessero
sussistere associazioni lecite senza personalità giuridica. Nell’esperienza giuridica romana non sono note le fondazioni come enti con
autonomia patrimoniale e quindi con personalità giuridica. Essa ammette solo le fondazioni fiduciarie, in cui si affida ad un soggetto
la titolarità di determinati beni,vperché gli stessi e il loro reddito sia destinato ad uno scopo. Così un insieme di beni può essere
attribuito ad una persona giuridica di carattere associativo, soprattutto ad una civitas, con l’onere di destinare i proventi ad un certo
scopo, generalmente di beneficenza. Nell’ambito del “corpo ecumenico” dei fedeli hanno esclusiva rilevanza le singole chiese, come
comunità di fedeli organizzate sotto un vescovo: tali chiese hanno un carattere associativo e vengono a disporre di un patrimonio il
quale, anteriormente al 313 d.C., era giuridicamente più della collettività dei fedeli che della singola chiesa come persona giuridica.
Le cose cambiano dopo l’editto di Milano: si può notare come emerga rapidamente una tendenza a superare la configurazione della
chiesa vescovile quale una persona associativa, ormai lecita ed autonoma. Si considera come un’istituzione che ha il suo punto di
identificazione nella chiesa come edificio, con un innegabile avvicinamento al tipo delle fondazioni: ci che porterà nel medioevo alla
tipica fondazione ecclesiastica, il beneficium. Il vescovo assume una posizione che sta a mezzo tra il titolare fiduciario del patrimonio
della chiesa e l’amministratore dell’istituzione. A ciò si collegano le piae causae che sono insiemi di beni lasciati per scopi di culto o
beneficenza. Questi beni formano patrimoni che, in quanto vadano a confluire nel generale patrimonio della chiesa stessa, possono
configurarsi alle volte come “fondazioni fiduciarie” sul modello già visto per l’epoca classica. In altri casi, essi conservano
un’autonomia, hanno una propria amministrazione, affidata al vescovo, mantenendosi separati dagli altri beni della chiesa stessa.
CAPITOLO QUARTO - FATTI, ATTI, NEGOZI GIURIDICI
50. I FATTI GIURIDICI E LE LORO CLASSIFICAZIONI
Per i fatti giuridici e le loro classificazioni è necessario individuare gli strumenti concettuali necessari per descrivere la realtà giuridica
romana, ben sapendo che i prudentes non hanno mai proceduto a sistemazioni di carattere generale.
La nozione di fatto giuridico equivale a quella di fatto rilevante per il diritto. Va ricostruita tenendo conto dell'operatività della
norma giuridica che individua una situazione alla quale fa corrispondere determinati effetti giuridici. Queste situazioni sono dette
fatti storici: un fatto storico diventa giuridico quando una norma lo prevede e lo munisce di certi effetti giuridici. Per effetti giuridici
si intende la creazione, la modificazione o l'estinzione di in diritto soggettivo, di un dovere giuridico e di una determinata qualifica.
L'individuazione del fatto giuridico è data dagli effetti che la norma riconduce al fatto storico inteso come sostrato materiale del
fatto giuridico. Fatti storici e fatti giuridici si pongono su due piani paralleli fra loro non comunicanti: quello del mondo reale, in cui si
verificano i fatti storici; e quello del diritto, che si risolve nell'insieme degli effetti giuridici che tali fatti producono in base alla
mediazione della norma giuridica.
La struttura dei fatti giuridici è molto varia. Con fattispecie si intendono due fenomeni diversi, anche se connessi:
la fattispecie astratta, cioè la descrizione del fatto storico tipizzato, cui la norma riconduce determinati effetti. Può consistere
in un fatto storico unitario e semplice, o in più fatti che hanno una precisa individualità.
la fattispecie concreta, cioè un evento storico, considerato nella sua globalità, per cui si pone il problema di determinarne la
disciplina giuridica, ossia la fattispecie astratta in cui deve essere sussunto.
Per il regie giuridico della fattispecie, però, importa il modo in cui il diritto assume i fatti storici, dando rilievo all'individualità degli
stessi sul piano degli effetti giuridici, oppure considerando la fattispecie come unitaria sul piano del diritto. Nel primo caso si ha la
fattispecie complessa, nel secondo, invece, la fattispecie semplice.
Nella categoria dei fatti giuridici in senso generale si distinguono atti giuridici e fatti giuridici in senso stretto. Gli atti giuridici sono i
fatti posti in essere dall'uomo in quanto tale, e coinvolgono la coscienza e volontà dell'agente, in quanto conseguono i loro effetti
solo se compiuti da chi abbia almeno la generica capacità d'intendere e di volere: tutti gli alti fatti giuridicamente rilevanti sono fatti
giuridici in senso stretto.
Nell'ambito dell'atto giuridico si procede ad una fondamentale distinzione in funzione della valutazione che l'ordinamento fa dello
scopo che l'agente si pone con il suo comportamento. A seconda che tale scopo perseguito sia valutato positivamente e considerato
meritevole di tutela, o sia invece valutato negativamente e sottoposto a sanzioni repressive, si ha la differenza fra atti leciti ed
illeciti. Gli atti illeciti si verificano in contrasto con la volontà dell'agente, perché la sanzione che colpisce l'agente tende appunto a
rimuoverne i risultati considerati dannosi o ad impedire il compimento dell'atto.
Atti illeciti si riscontrano sia nel diritto privato, sia nel diritto pubblico. Nel diritto privato, l'illecito è sempre la violazione di un diritto
soggettivo altrui. La sanzione può essere indiretta, e quindi non satisfattiva, o diretta, e quindi satisfattiva, il che corrisponde alla
distinzione fra azioni penali e reipersecutorie.
Gli atti leciti, invece, si verificano in conformità della volontà dell'agente. Si distinguono in atti in cui può esser coinvolta solo la sfera
della coscienza del soggetto e atti in cui è coinvolta anche quella della volontà. Si differenziano, quindi, le dichiarazioni di scienza
dalle dichiarazioni di volontà: le prime sono dichiarazioni rappresentative od enunciative, ed il soggetto dichiara un fatto che è a sua
conoscenza; le seconde sono dichiarazioni precettive, ed il soggetto formula per sé o per altri un comando. Tale distinzione coincide
con un'altra differenziazione: quella fra negozi giuridici e atti giuridici in senso stretto. Nel negozio giuridico assume particolare
rilievo lo scopo pratico voluto e perseguito dalle parti, onde gli effetti del negozio non si producono quando il nesso con tale scopo
non sussista o sia viziato. Nell'atto, invece, gli effetti si producono solo in base a coscienza e volontà delle parti, a prescindere dallo
scopo pratico perseguito dalla parte e senza che rilevino i vizi di tale scopo. L'operatività degli atti giuridici in senso stretto si adatta
alle dichiarazioni di scienza. Le dichiarazioni di volontà funzionano come atti giuridici in senso stretto solo nei casi in cui tale
dichiarazione intimi al destinatario di tener un certo comportamento dovuto.
51. STRUTTURA E FUNZIONE DEL NEGOZIO GIURIDICO
Pur mancando una disciplina del negozio giuridico in quanto tale, nel nostro codice civile si riscontra una notevole unità di
terminologie e di istituti rispetto alle singole figure che poi vengono ricomposte nella categoria generale di negozio.
La dottrina è stata per lungo tempo dominata dalla discussione sulla definizione del negozio giuridico. Tale disputa si svolse
prendendo a partito due elementi essenziali nella struttura del negozio: la volontà delle parti, che sottende il regolamento che esse
danno ai propri interessi, e la dichiarazione, ossia la forma con cui questa volontà si manifesta nella realtà storica: si pone il
problema del rapporto tra dichiarazione e volontà. Secondo le teorie soggettive, il negozio valeva solo in quanto corrispondente alla
volontà effettiva della parte, e che tale volontà dovesse prevalere sulla diversa portata della dichiarazione. Secondo le teorie
oggettive, invece, l’essenza del negozio sta nel fatto che esso integra un (auto)regolamento di interessi, che la parte o le parti si
danno in base all’autonomia loro riconosciuta dall’ordinamento giuridico. In questa visione il negozio diventa quindi un regolamento
di interessi, e la sua corrispondenza all’effettiva volontà delle parti non è più un elemento imprescindibile perché il negozio possa
svolgere i suoi effetti. In verità il negozio è una dichiarazione di volontà sotto il profilo strutturale, e un regolamento di interessi
sotto quello funzionale: ma essi sono aspetti complementari e singolarmente insufficienti.
52. GLI ELEMENTI DEL NEGOZIO GIURIDICO. I SOGGETTI
Gli elementi del negozio si distinguono in essenziali e accidentali: i primi sono quelli senza i quali il negozio non può venir in essere; i
secondi sono quelli che vengono aggiunti dalle parti agli elementi essenziali. L'individuazione degli elementi essenziali può riferirsi al
negozio in generale o al singolo tipo di negozio. Dalla dottrina medievale, si opera una tripartizione riferita alla struttura del negozio:
essentialia negotii.
naturalia negotii.
accidentalia negotii.
Primo e terzo coincidono con gli elementi essenziali ed accidentali del negozio. I secondi, invece, sono gli effetti che si verificano sul
piano precettivo indipendentemente da una specifica previsione delle parti. La tripartizione in parola, quindi non riguarda più la
struttura, bensì gli effetti, cioè il profilo funzionale dell'atto: i primi sono gli effetti che conseguono necessariamente alla volizione
degli elementi essenziali; i secondi sono gli effetti che conseguono alla volizione di tali elementi, ma possono essere esclusi con una
clausola negoziale; i terzi, invece, sono gli effetti che si verificano solo in quanto le parti abbiano specificamente inserito nel negozio
una clausola volta a produrli.
Gli elementi essenziali, o requisiti, del negozio giuridico si identificano nell'accordo delle parti, nella causa, nell'oggetto e nella forma
(quando richiesta).
Nei negozi è necessaria la presenza di uno o più soggetti che pongano in essere il negozio. Tali soggetti devono rispondere a
determinati requisiti affinché il negozio possa comportare degli effetti. Sono necessarie la capacità d’agire e la legittimazione. Le
cause di incapacità sono l'età (minores XXV annis), il sesso (donne), l'infermità mentale e gli aspetti caratteriali.
La legittimazione al negozi indica l'idoneità del soggetto a porre in essere un determinato assetto d'interessi, in funzione del
rapporto fra il soggetto stesso ed il contenuto dell'assetto in questione. La legittimazione si distingue, quindi, dalla capacità d'agire,
e può essere accostata alla capacità giuridica: l'incapace d'agire può essere sostituito dal suo rappresentante legale, mentre non si
può ovviare al difetto di legittimazione.
I soggetti che pongono in essere un negozio giuridico sono le parti dello stesso: il concetto di parte, però, non coincide con quello di
soggetto.
In relazione alle parti dell’atto si ha la classificazione in negozi unilaterali, bilaterali e plurilaterali. I primi sono il testamento, la
promessa al pubblico e le dichiarazioni recettizie (dichiarazioni unilaterali che per avere efficacia devono essere portate a
conoscenza di un destinatario). I negozi bilaterali sono invece gli atti traslativi della proprietà.
53. LA MANIFESTAZIONE DELLA VOLONTÀ
La manifestazione di volontà è elemento essenziale del negozio giuridico e può essere presa in considerazione rispetto alla forma in
cui essa avviene nonché al rapporto tra l’assetto d’interessi oggettivamente manifestato e la rappresentazione che se ne facciano le
parti, e al processo formativo dell’attività negoziale.
Rispetto alla manifestazione della volontà nella realtà storica, si distinguono i negozi in dichiarativi e non dichiarativi. Meglio si
distinguerebbe fra dichiarazioni negoziali e comportamenti negoziali non dichiarativi. Si ha una dichiarazione quando l'assetto di
interessi, voluto dalle parti, viene manifestato mediante l'impiego di una struttura di discorso, verbale o scritta. I comportamenti
negoziali non dichiarativi sono, invece, quelli in cui il contenuto precettivo del negozio o l'adesione a tale contenuto viene
manifestato in modo diverso dalla dichiarazione. Per determinare la natura dei comportamenti negoziali non dichiarativi ci si
riferisce alle categorie del contegno concludente e del negozio d'attuazione. Per individuare il comportamento non dichiarativo
come mezzo di manifestazione della volontà, rileva solo la concludenza del comportamento in ordine alla volontà del soggetto di
predisporre, per sé e per gli altri, un certo assetto d'interessi. I comportamenti non dichiarativi sono tutti contegni concludenti, ma
solo in alcuni di essi si può cogliere un ulteriore aspetto, in base al quale può dirsi che il contegno manifesta ed attua
contemporaneamente il regolamento di interessi di cui si tratta: solo qui si può parlare di negozio d'attuazione. La concludenza del
comportamento ai fini della manifestazione della volontà negoziale deve essere accertata di volta in volta. Nell'esperienza romana,
la giurisprudenza valuta tipicamente certi comportamenti, ricavando da essi una certa volontà negoziale dell'agente. Una tale
valutazione costituisce una regola d'esperienza che vige nell'ambito del metodo casistico.
La dichiarazione, come manifestazione della volontà delle parti, deve essere emessa volontariamente, con la consapevolezza di
compiere un'attività socialmente impegnativa. Non hanno rilevanza le dichiarazioni emesse evidentemente senza serietà.
Perché rilevi la manifestazione della volontà, è necessario che anche il comportamento concludente sia tenuto volontariamente e
spontaneamente.
Nel negozio unilaterale è sufficiente che la parte emetta la dichiarazione o tenga il comportamento concludente perché il negozio
venga in essere. Nel negozio bilaterale, è necessario che esistano e s'incontrino le manifestazioni di volontà di entrambe le parti.
54. LA FORMA DEL NEGOZIO GIURIDICO. IL DOCUMENTO NEGOZIALE
La forma del negozio è il modo in cui le dichiarazioni negoziali si presentano nella realtà esterna. Sulle parti graverebbe l’onere di
adoperare una forma adeguata per la manifestazione della volontà negoziale. Tuttavia se la forma non risulta adeguata per
esprimere il contenuto negoziale voluto dalle parti, l’inefficacia del negozio deriverà dall’inadeguatezza della forma, non
dall’inosservanza dell’onere.
Si ha la distinzione fra negozi formali (solenni) e negozi non formali, che si esprime contrapponendo i negozi a forma vincolata ed i
negozi a forma libera. Nei primi, l'ordinamento fissa dei vincoli relativamente alla forma in cui va posto in essere il negozio; nei
secondi, lascia alle parti la libertà di scegliere la forma che ritengono più opportuna. Nell'epoca più antica non ha rilevanza la
volontà negoziale espressa liberamente dalle parti: gli atti formali sono in prevalenza rispetto a quelli a forma libera. Nel diritto delle
persone e di famiglia, gli atti che creano od estinguono le potestà familiari so o tutti formali.
Le forme imperanti nell'età arcaica sono verbali o gestuali: le più diffuse sono i gesta per aes et libram, la conceptio verborum di
sponsio e negozi analoghi, l'in iure cessio. La prima è forma verbale e gestuale insieme, anticamente usata per creare o estinguere
una responsabilità. La seconda è una forma verbale utile a creare o estinguere una responsabilità contrattuale. La terza è
un'applicazione indiretta delle legis actiones: è forma verbale utile a trasferire o creare tutte le situazioni giuridiche assolute
trasmissibili e tutelate dall'agere sacramento in rem. Tutte queste forme sono accomunate dal fatto che i certa verba adibiti sono
pronunciati da colui che acquista il diritto. La forma verbale influisce in modo incisivo sul contenuto dell'atto, in quanto non solo
determina la struttura del discorso, ma individua anche le parole mediante le quali si deve esprimere il regolamento d'interessi.
In epoca classica esistono in Roma negozi a forma libera, come i contratti consensuali, ma a differenza del diritto attuale in cui vige il
principio della libertà della forma negoziale, nell’esperienza romana la manifestazione di volontà non è sufficiente a produrre effetti
giuridici sul piano negoziale a meno che ci non sia espressamente previsto dall’ordinamento.
La documentazione per iscritto in Roma si diffonde a partire dalla seconda metà del III sec. a.C. Tale documentazione assolve una
funzione soprattutto probatoria e non necessariamente costitutiva. Si distinguono tre tipi di documento: costitutivo, di cui quello
dispositivo è una specie, e documento probatorio. Nel primo la redazione è prevista come forma vincolata per un certo tipo di
negozi, che in caso di mancanza non vengono in essere. Esso rimane sconosciuto in Roma sino alla fine del periodo classico. Il
documento dispositivo si distingue perché per far valere i diritti che nascono dal negozio in esso documentato è necessaria non solo
la sua redazione, ma anche la sua esistenza (no smarrimento o distruzione). Il documento probatorio serve solo alla prova del
negozio che esso attesta: tale negozio rimane valido ed efficace indipendentemente dalla redazione dell’atto scritto.
Per tutto il periodo classico, il documento romano resta un documento probatorio, la cui adibizione è lasciata alla completa libertà
delle parti. Il tipico documento romano è la testatio, documento in forma oggettiva, di origine repubblicana, in cui vengono
descritte, in terza persona, le attività svolte dalle parti, comprese le loro dichiarazioni, testualmente riportate. È un documento
testimoniale: per redigerlo è necessaria la presenza di un certo numero di testimoni, che garantiscono l'autenticità di quanto
attestato. Il documento è redatto su tavolette cerare in doppia scrittura: una aperta (scriptura exterior), che permette la
consultazione del contenuto in ogni momento; l'altra chiusa e sigillata dai testimoni (scriptura interior), da aprire in caso di
contestazioni per controllare l'autenticità del contenuto stesso. Nel I sec. a.C. si introduce un altro tipo di documento: il
chirographum, di origine ellenistica. Questo è un documento in forma soggettiva, in cui la parte espone in prima persona il
contenuto del negozio: la forza probatoria dipende dall'autografia della parte. Esso è scritto su tabulae ceratae e presenta una
doppia scrittura, con la stessa funzione di quella della testatio.
La posizione del documento tende a rafforzarsi nel corso dell’impero per l'influsso delle consuetudini provinciali e per le oggettive
necessità del contesto italiano nella repubblica: si assiste ad una forte diffusione dell'uso di redigere documenti scritti quando l'atto
è molto complesso o importante. Non mutano, però, i principi.
Questi avvengono piuttosto nel tardo-antico. Si assiste qui a un rapido decadere delle forme tipiche del ius civile, cui si va a
sostituire o ad aggiungere la forma scritta. I gesta per aes et libram scompaiono e delle obligationes verbis contractae rimane in vita
solo la stipulatio, che si evolve in atto a forma scritta in cui ha rilevanza la presenza delle parti. Nella legislazione giustinianea la
forma scritta resta necessaria quando è prescritta l'insinuatio del negozio, cioè l'inserzione del documento in cui è consegnato l'atto
nel protocollo dell'autorità amministrativa competente. Per molti negozi è ancora ammessa l'alternativa fra atto in scriptis ed atto
sine scriptis: nel caso sia scelta la prima, si sancisce una sorta di forma convenzionale, che le parti devono seguire e in mancanza
della quale il negozio è inefficace.
Nel periodo giustinianeo esistono varie forme di documento, fra le quali si distinguono i documenti pubblici e gli altri documenti non
pubblici. I primi sono gli instrumenta publica, documenti con forza probatoria privilegiata, in quanto assistiti dalla fides publica. I
secondi, invece, sono soggetti all'impositio fidei, un procedimento che serve a provare l'autenticità e la veridicità del documento
stesso. Esso s'instaura a richiesta della parte contro la quale il documento è prodotto, mentre l'onere della prova grava su colui che
lo ha esibito.
55. IL CONTENUTO E LA CAUSA DEL NEGOZIO
La volontà esternata nella manifestazione ha per oggetto la disciplina che la parte o le parti intendono porre alla propria e all’altrui
sfera di interessi. La volizione delle parti si limita allo scopo pratico che esse perseguono ed esprime quindi il contenuto del negozio
stesso; è l’ordinamento che, in corrispondenza a ciò , produce gli effetti giuridici più opportuni perché tale scopo venga raggiunto.
Il riconoscimento dell’autonomia negoziale riguarda, anzitutto, gli oggetti su cui essa si può esplicare. Nel sistema romano vige la
tipicità dei negozi: l’ordinamento consente ai privati di stabilire se compiere o no un certo negozio, ma pone a disposizione degli
stessi soltanto un numero limitato di negozi fra i quali essi debbono scegliere; gli effetti dell'atto sono del tutto determinati dalla
legge. Una maggiore libertà è sicuramente presente nei negozi unilaterali inter vivos, ma il sistema romano resta tipico sia per
quanto riguarda i contratti sia per gli atti traslativi della proprietà.
Il contenuto del negozio giuridico deve essere possibile, determinato e lecito.
Collegato al profilo del contenuto è quello della causa, che attiene allo scopo socio-economico perseguito dalle parti e rientra nel
più ampio complesso di motivazioni che hanno spinto ognuna a di esse a concludere il negozio. Si pone il problema di distinguere la
causa dagli altri motivi. La causa è l’elemento comune che si deve riscontrare nella volontà di entrambe le parti, e senza il quale quel
tipo di contratto non potrebbe venire in essere. Tutti gli altri motivi, comuni o meno a entrambe le parti, sono normalmente
irrilevanti per l'esistenza e l'efficacia dell'atto.
Il trattamento della causa diverge profondamente da quello dei motivi. L’assenza dell’accordo delle parti sulla causa o la presenza di
vizi nel processo di formazione della volontà escludono la validità o l’efficacia del negozio. I motivi in sé considerati sono invece
generalmente irrilevanti. Ciò vale sia che lo scopo prefissato dal soggetto sia impossibile, sia che appaia illecito. Il motivo impossibile
rileva solo quando le parti l'abbiano assunto nel contenuto del contratto, mediante clausole accidentali rivolte a tale scopo e che,
subordinando l'efficacia del negozio ad un presupposto di fatto o di diritto, assumeranno la struttura della condizione in senso
proprio. In genere, non è però sufficiente che la motivazione concreta che ha indotto l'una o l'altra parte sia nota anche alla
controparte.
La nozione di causa viene poi utilizzata ai fini della distinzione fra negozi causali e negozi astratti. Nei negozi causali l’ordinamento
produce gli effetti giuridici in relazione alla funzione economico-sociale tipica del singolo negozio, e in quanto su di essa si sia
formato l’accordo delle parti. Nei negozi astratti, invece, gli effetti giuridici si producono senza prendere in considerazione tale
funzione e si ricollegano all’adibizione di una certa forma.
56. L'INTERPRETAZIONE DEL NEGOZIO GIURIDICO
Le dichiarazioni negoziali devono essere interpretateper accertare la reale portata dell'assetto di interessi posto in essere con il
negozio: si scontrano, a tal proposito, le teorie oggettive e soggettive sul negozio stesso. Il problema dell'intepretazione sorge,
perché il linguaggio usato nei rapporti tra individui non è uno strumento di precisione, ma allusivo ed ellittico. Di conseguenza, resta
esposto ad una valutazione soggettiva del significato del discorso che esprime e al rischio di ambiguità oggettiva.
La possibilità che la dichiarazione negoziale venga sottoposta a valutazioni divergenti in funzione degli interessi contrastanti dei
soggetti interessati fa emergere il problema dell'interpretazione del negozio e dei criteri che si devono impiegare al riguardo. Non
esiston soluzioni ontologicamente predeterminate, ma si tratta soltanto di bilanciare gli interessi in gioco. Vengono quindi proposte
soluzioni differenziate in funzione del diverso contesto in cui è impiegato lo strumento negoziale. Anzitutto, si distinguono i negozi
inter vivos dai negozi mortis causa: nei primi, bisogna accertare quale sia stata la comune intenzione delle parti e, nel caso non
risulti, la dichiarazione è presa nel suo oggettivo significato, valutato nel contesto complessivo in cui la dichiarazione si inserisce; nei
secondi prevale l’interpretazione soggettiva e si dà rilevanza alla volontà del testatore accertata in base a elementi oggettivamente
rilevanti nella realtà storica.
L'interpretazione del negozio non è stata sottoposta dalla giurisprudenza romana ad una sistematica elaborazione concettuale,
bensì ad una valutazione casistica. Si è assistito non di rado al variare dei criteri da impiegare nella prassi concreta
dell'interpretazione negoziale. In epoca arcaica, per la solennità dei certa verba, non poteva che aver valore il significato oggettivo
dei verba stessi: non era quindi possibile, in questo contesto, distinguere fra negozi inter vivos e mortis causa, dato che il formalismo
verbale impregnava gli uni e gli altri.
Dalla fine della repubblica, per quanto riguarda gli atti inter vivos prevale il principio che il significato delle dichiarazioni negoziali va
identificato sulla base dell'id quod actum est, cioè la comune intenzione delle parti. Per individuarla, si parte dal valore oggettivo
delle dichiarazioni. I giuristi romani facevano poi ricorso ad alcune regole interpretative impiegate in modo tipico: si ricorda
l'ambiguitas contra stipulatorem, in base a cui, fra le varie possibili, si deve scegliere l’interpretazione meno vantaggiosa per chi ha
predisposto il valore negoziale su cui hanno concordato le parti. Vi sono poi altri criteri:
interpretazione conservativa: si opta per l’interpretazione che permette che il negozio abbia efficacia.
interpretazione secondo il mos regionis.
interpretazione secondo buone fede.
Può darsi che il processo interpretativo finisca in un nulla di fatto e si pervenga così alla conclusione che il negozio, per
indeterminatezza del contenuto, è inefficace. Quando invece si constati che le parti hanno inteso in modo differente la portata della
dichiarazione negoziale, si riscontrano i casi di divergenza tra volontà e manifestazione: se tale divergenza è consapevole, si ha
simulazione o riserva mentale; se è inconsapevole, si può avere l’errore ostativo.
L'applicazione di questi principi ai negozi solenni presenta delle particolarità, in quanto rilevano due diversi piani su cui si può
svolgere l'interpretazione: quello dei verba che sono la forma costitutiva del negozio; e quello della conventio sottostante, articolata
in una struttura di discorso.
Dall'ultimo secolo della repubblica, si giunge a soluzioni diverse per i negozi mortis causa. In essi non si contrapponevano due parti
che perseguivano scopi diversi, quindi non si poneva il problema della tutela dell'affidamento: era così aperta la via per
l'interpretazione soggettiva, in cui rilevava il senso dato dal testatore alla dichiarazione, anche se questo fosse diverso dal significato
oggettivo dei verba adoperati. I giuristi romani non hanno, però, mai fissato i limiti entro i quali si poteva ammettere una siffatta
interpretazione. Per questo, vi sono state forti variazioni in funzione della personalità dei giuristi e dell'approccio casistico, il quale
portava i prudentes a decisioni differenziate da caso a caso.
Nel tardo antico, è difficile trovare profondi mutamenti per quel che riguarda l'interpretazione degli atti inter vivos. Se una
modificazione v'è stata, essa dipende dal venir meno dei negozi astratti del ius civile. Più appariscenti modificazioni sembrano
riscontrarsi nei negozi testamentari.
57. L'INVALIDITÀ E L'INEFFICACIA DEL NEGOZIO GIURIDICO
Il regolamento che le parti hanno dato ai propri interessi può non avere efficacia. I prudentes non hanno mai elaborato le categorie
con le quali si esprime tale inefficacia, di conseguenza si devono affrontare le categorie elaborate a questo proposito dall'attuale
dogmatica. Si contrappongono due situazioni: o il negozio non produce effetti, e se ne ha l'inefficacia in senso ampio (che
ricomprende nullità ed inefficacia in senso stretto); o il negozio raggiunge provvisoriamente i propri effetti, che possono essere
rimossi su iniziativa dell'interessato (si ha lo schema del negozio impugnabile, entro cui è fondamentale il negozio annullabile, cioè
quel negozio la cui efficacia può esser rimossa in base ad un vizio afferente, fin dall'origine, agli elementi essenziali dallo stesso).
Nella dottrina moderna si fa uso della categoria dell'invalidità, che ricomprende sia i negozi nulli, sia quelli annullabili, individuando
quei negozi la cui efficacia non si produce o può esser rimossa, in seguito ad un vizio genetico. In tale ambito, si distingue la nullità,
dovuta all'assenza o al vizio di uno degli elementi essenziali del negozio, dall'inefficacia in senso stretto, che segue alla presenza di
circostanze di altro genere, coeve alla formazione del negozio, che ne impedirebbero gli effetti.
Nel ius civile romano, l'unica alternativa è quella fra negozio valido, ed efficace, e negozio che non produce i suoi effetti, inefficace o
nullo. Il modo in cui si esprimono i giuristi romani rispetto al negozio nullo è molto diverso da quello attualmente corrente: essi,
infatti, affermavano che il negozio non esisteva. I negozi di cui si afferma l'inesistenza, erano le diverse figure giuridiche che non
esistevano per il fatto che l'assetto di interessi esistente sul piano socio-economico non riusciva a produrre gli effetti giuridici che
normalmente si accompagnano a tali negozi, non integrando quindi la figura giuridica correlativa. I prudentes conoscevano altre
espressioni che indicano l'invalidità e la conseguente inefficacia del negozio sul piano del ius civile, ma nessuna di esse comporta una
differenza di operatività con la nullità in generale.
Diversa è la situazione in cui il pretore sancisca sul piano del ius honorarium l'invalidità di un negozio valido secondo il ius civile. Si
riproduce, in questo caso, lo schema operativo del negozio annullabile: il negozio giuridico produce, sul piano del diritto civile, i suoi
effetti, ma è impugnabile sul piano dell'ordinamento pretorio. La paralizzazione di tali effetti dipende dall'iniziativa della parte
interessata. Qualora manchi l'iniziativa, l'efficacia per il ius civile può divenire definitiva ed inoppugnabile.
58. LA DIVERGENZA FRA VOLONTÀ E DICHIARAZIONE. LA SIMULAZIONE
La divergenza fra volontà e dichiarazione può essere inconsapevole o consapevole: nel primo caso si ha la fattispecie dell'errore
ostativo; nel secondo caso si hanno i fenomeni della riserva mentale e della simulazione. La riserva mentale si ha quando la parte di
un negozio mette in essere un comportamento negoziale non volendo il contenuto precettivo così manifestato, ma non
appalesando all'esterno questo atteggiamento della sua volontà. La riserva mentale è sempre irrilevante: i prudentes non la
prendono nemmeno in considerazione.
Altra rilevanza ha la simulazione, cioè l'accordo fra le parti di un negozio bilaterale, in base al quale il negozio che le parti mostrano
di voler concludere non deve aver valore: o perché le parti non vogliono concludere alcun negozio (simulazione assoluta), o perché
ne vogliono concludere uno diverso, il negozio dissimulato (simulazione relativa). Anche in questo caso, i prudentes non hanno
elaborato teoricamente l'istituto e non sembrano portare grande attenzione ai problemi che sono attualmente connessi con la
tematica della simulazione: non trova, infatti, ingresso la tutela dell'affidamento dei terzi. Gli atti solenni producevano i loro effetti
in base all'adibizione della forma. Nella traditio, i romani decisero che aveva valore l'effettivo intento negoziale delle parti. Nella
simulazione assoluta ciò portava a riconoscere che nessun effetto negoziale si era verificato fra le parti dell'accordo simulatorio. Nei
casi di simulazione relativa, molto più frequenti, i prudentes decisero di dare valore al negozio dissimulato: alla simulazione relativa
si ricorreva nel caso in cui il negozio dissimulato fosse illecito, con il che si negava efficacia all'intento pratico perseguito dalle parti.
In epoca molto risalente si è verificato il fenomeno dei negozi immaginari, in cui veniva utilizzata l'operatività quali negozi astratti
degli atti previsti dall'ordinamento primitivo. Alle origini, si ha una fattispecie in cui la forma usata dalle parti è rivolta ad un
determinato scopo negoziale, mentre le parti stesse ne perseguono uno diverso.
59. L'INCAPACITÀ DELLE PARTI ED I VIZI DELL'ELEMENTO SOGGETTIVO. L'ERRORE
L'incapacità delle parti ed i vizi dell'elemento soggettivo influiscono sul processo di formazione della volontà. Assenza e minorazione
della capacità d'agire producono, sul piano del ius civile, la nullità del negozio, salvo il caso dei minoris XXV annis, per i quali si ha un
caso di invalidità pretoria di negozi civilmente validi.
Sotto il profilo dei vizi della volontà (errore, dolo, violenza) vengono trattati anche quei casi di errore e di violenza che non hanno
influito sul processo di formazione della volontà, bensì sui rapporti fra volontà e dichiarazione, o sull'imputabilità della dichiarazione
al soggetto apparentemente agente. Si prospettano così le tematiche di errore ostativo e violenza assoluta. Per errore si intende
qualsiasi falsa rappresentazione della realtà, presa nella sua oggettiva rilevanza, senza considerare cioè le cause della stessa. Questa
incide sul negozio giuridico in due modi diversi: la parte può cadere in errore sulla portata della propria dichiarazione e della
dichiarazione altrui. La falsa rappresentazione della realtà può aver influito anche sul processo di determinazione causale: non vi è
divergenza fra volontà e dichiarazione, ma la volontà si è formata in base a tale falsa rappresentazione. Si tratta dell'errore-vizio.
Per disciplinare i casi in cui l'errore ostativo produce un'inconsapevole divergenza fra dichiarazione e volontà, ci si deve rifare alla
diversa operatività dei contratti formali ed astratti e dei negozi causali. Nei primi, accertato il significato oggettivo dei verba, gli
effetti giuridici possono prodursi solo in base a tale significato. L'errore ostativo non ha rilevanza sul piano del ius civile, ma solo sul
piano del diritto onorario. Se la dichiarazione formale in sé considerata è ambigua, si può far ricorso alla comune intenzione delle
parti da accertarsi al livello della conventio sottostante. Se è ambigua anche la conventio, il negozio è nullo per indeterminatezza
dell'oggetto.
Nei secondi, invece, l'errore ostativo porta alla nullità dell'atto, perché manca l'accordo fra le parti. Esso può vertere su tutti gli
elementi essenziali del negozio. L'errore sul soggetto, si ha quando si crede di emettere la dichiarazione nei confronti di un soggetto,
mentre essa appare rivolta ad un terzo che l'accetta, o quando si crede che provenga da un soggetto ed invece proviene da un altro
e la si accetta: per il fatto che impedisce l'identificazione delle parti nel negozio, l'errore ostativo sulla persona produce la nullità.
L'errore sul contenuto del negozio può riguardare, prima di tutto, l'oggetto del negozio stesso. Può vertere anche su una clausola
accessoria del negozio: ferma restando la nullità della clausola su cui non si è formato l'accordo, la questione è di vedere se tale
nullità parziale porti alla nullità totale dell'atto. L'errore sulla causa, è l'errore sul tipo di negozio che le parti vogliono porre in
essere, e si risolve nell'error in negotio, riscontrabile nei contratti causali. Nei limiti in cui rilevava, all'errore ostativo non era
richiesta una particolare qualificazione: non era necessario che fosse scusabile né che fosse riconoscibile.
L'errore-vizio può inficiare uno qualunque dei motivi che hanno determinato la parte a concludere il negozio. Si pone quindi la
questione dei limiti in cui ad esso si possa riconoscere effetto invalidante, tenendo conto della normale irrilevanza dei motivi
individuali. Negli atti inter vivos la rilevanza dell'errore-vizio inizia ad affacciarsi durante il II sec. d.C., nell'ambito dei negozi causali
protetti da iudicia bonae fidei. I suoi effetti si producono sul piano del ius civile: anche l'errore-vizio comporta la nullità. Nei contratti
formali ed astratti, l'efficacia civile del negozio non è intaccata dall'errore-vizio: l'invalidità sarà sancita solo nel diritto pretorio.
L'errore-vizio potrebbe inficiare i negozi causali in genere, ma la casistica delle fonti è limitata alla compravendita e all'error in
substantia, cioè sulle qualità essenziali della cosa venduta. Il problema della riconoscibilità o della scusabilità dell'errore non è
neppure avvertito dai giuristi romani.
I prudentes ammettono una maggiore rilevanza dell'errore-vizio nei negozi testamentari, sul piano del diritto pretorio. Per il fatto
che istituzioni d'erede e legati devono essere disposti con formule solenni, l'efficacia della disposizione non è esclusa per il ius civile,
a meno che l'errore non si ritrovi in una clausola condizionale: nel diritto pretorio, si può opporre l'exceptio doli a chi voglia avvalersi
del testamento, facendogli notare che non sta agendo secondo l'effettiva volontà del de cuius (contra volunctam defuncti). Nelle
disposizioni testamentarie, l'errore-vizio è errore sul motivo del negozio, che rileva in relazione alla particolare funzione di queste
disposizioni. Che tale errore potesse comportare la nullità del negozio è affermato nel III sec. d.C., ma solo per il grandissimo potere
discrezionale dell'imperatore nella cognitio.
Si sostiene che il periodo postclassico e quello giustinianeo siano stati caratterizzati dalla tendenza a dar maggior rilevanza alla
volontà effettiva delle parti, e quindi anche all'errore. Dalle costituzioni di Giustiniano, però, non risulta alcuna particolare
propensione verso un'inafferrabile volontà interna o verso l'allargamento della rilevanza della fattispecie dell'errore.
60. IL DOLO NEGOZIALE
Quando una parte fornisce all’altra una falsa rappresentazione della realtà tramite inganni o raggiri, viziandone la volontà e
facendola cadere in errore, si ha il dolo negoziale. Il dolo negoziale ha specifica importanza nel caso di negozio non invalido per
l'errore: questo accade quando l'errore provocato dal dolo non cade sulle qualità essenziali dei requisiti del negozio, e il dolo abbia
influito quindi su un motivo, normalmente irrilevante.
Esso non aveva rilievo nel ius civile, sicché il contraente la cui volontà fosse stata viziata da dolo trova protezione per la prima volta
nel ius honorarium, mediante l’exceptio doli e l’actio de dolo. C’è da dire che nel corso del I sec. a.C. l’ambito del ius civile si estese, e
ne vennero a far parte i iudicia bonae fidei e i rapporti contrattuali da essi tutelati. In tale contesto, il contratto tutelato da una
formula in ius concepta con oportēre ex fide bona non produceva effetti, ed era quindi nullo, ove fosse stato carpito con dolo. La
parte ingannata poteva dunque ottenere la rimozione degli effetti del negozio che le siano pregiudizievoli e il risarcimento del
danno.
All’infuori dei iudicia bonae fidei, perché il dolo della controparte rilevasse era necessario l’intervento del pretore. Nel periodo
classico, dunque, la parte ingannata poteva far ricorso o all’actio de dolo o all’exceptio doli. L'actio de dolo era un'azione pretoria
con formula in factum concepta, arbitraria, penale e sussidiaria (esercitata solo in quanto non esistevano altre azioni specifiche che
potevano tutelare il rapporto dedotto in giudizio). Poteva essere esperita entro l'anno da quando l'attore aveva scoperto il dolo, e
portava ad una condanna in simplum, commisurato all'interesse dell'attore stesso a che il dolo non si fosse verificato.
Con l'exceptio doli, il convenuto poteva opporre all'intentio dell'attore, fondata sul ius civile, il dolo della controparte commesso al
momento in cui era concluso il negozio (exceptio doli specialis seu praeteriti) o in quello in cui era intentata l'azione (exceptio doli
generalis seu praesentis). Questa distinzione si fonda sul tenore stesso dell'exceptio concessa dal pretore. Il dolo come vizio della
volontà individuava la possibilità di richiedere l'exceptio doli specialis, che faceva valere il dolus praeteritus. Nell'exceptio doli
generalis, invece, il dolo consisteva in un comportamento contrari alla bona fides nel momento in cui si intentava l'azione.
L'incidenza del dolo sulle fattispecie negoziali protette dal ius honorarium, la situazione dipendeva dal carattere rigido della formula:
se questa permetteva al giudice di tener conto dell'eventuale dolo negoziale, non serviva ricorrere all'exceptio doli; in caso
contrario, era necessario.
La giurisprudenza si occupa di individuare le fattispecie in cui il dolo negoziale può essere integrato. Esso presuppone l'induzione in
errore, e quindi l'inconsapevolezza della parte ingannata. L'induzione in errore deve, inoltre, indurre il contraente ingannato in un
errore determinante ai fini della formazione della volontà negoziale. L'errore deve essere una condicio sine qua non nel processo di
formazione della volontà della parte ingannata: senza tale errore, essa non avrebbe concluso il negozio, o lo avrebbe fatto a
condizioni molto diverse. Per questo, in caso di dolo i motivi influiscono sulla validità del negozio.
Nel periodo postclassico non si ebbero innovazioni riguardo il dolo negoziale.
61. LA VIOLENZA
Come nell'errore, nella violenza si accomunano due aspetti: uno che riguarda la volontarietà della dichiarazione negoziale (violenza
assoluta), ed uno che afferisce al processo di determinazione causale della volontà di una delle parti negoziali (violenza relativa).La
violenza assoluta, che esclude la volontarietà del comportamento, è irrilevante nell'esperienza romana. Si ha violenza assoluta
quando, in virtù dell'azione fisica di altra persona, un soggetto compie un atto che concreta apparentemente un comportamento
negoziale dichiarativo, ma che non è imputabile alla sua volontà. La mancanza della volontarietà esclude l'efficacia dell'atto.
Nella violenza relativa, il soggetto è posto nell'alternativa di compiere un determinato negozio o di subire un danno ingiusto: la
dichiarazione negoziale è estorta attraverso minaccia e nelle fonti si parla di vis o di metus. Il metus, come il dolus, non poteva
invalidare sul piano del ius civile i negozi solenni ed astratti. Per questi, dunque, era necessario l'intervento del pretore fino a tutta
l'epoca classica. Posizione particolare assumono i iudicia bonae fidei, che con il volgarismo sono stati assunti nel ius civile: il negozio
estorto con violenza non produce effetti già sul piano del diritto civile.
Una tutela pretoria a favore di coloro che avevano subito violenza sul piano negoziale sembra risalire già al I sec. a.C. Nell'editto
adrianeo si prevede la concessione di una restitutio in integrum, dell'actio quod metus causa gestum erit e dell'exceptio metus. Con
la restitutio in integrum ob metum, il pretore considerava come non avvenuto l'atto viziato da violenza.
L'actio quod metus causa è un'azione pretoria, arbitraria, con formula in factum concepta e non sussidiaria. Poteva essere esperita
entro un anno da quando si avesse la possibilità di esercitarla, e portava alla condanna al quadruplo del valore della cosa estorta
prima, e dell'ammontare dell'interesse dell'attore poi. Il convenuto poteva evitarla, soddisfacendo l'interesse dell'attore sulla base
del iussum de restituendo emanato dal giudice privato. L'exceptio metus era utilizzabile solo quando chi voleva avvantaggiarsi del
negozio estorto, doveva ricorrere all'esercizio di un'azione. Era in rem scripta, ossia si riferiva solo all'esercizio della violenza e non
indicava chi l'aveva effettuata.
L'actio quod metus causa poteva essere esperita solo contro l'autore della violenza, che era quindi unico legittimato passivo
all'azione. Solo nel periodo giustinianeo, in seguito alla fusione con l'in integrum restitutio, poteva essere rivolta contro chiunque
avesse tratto vantaggio dall'avvenuta violenza. Le fonti sembrano ammettere una simile operatività già nel periodo classico: l'actio si
poteva esperire contro il terzo, anche di buona fede, la cui situazione giuridica dipendeva dall'atto viziato da violenza. Alle origini,
ciò non era possibile (altrimenti non si spiegherebbe la presenza dell'in integrum restitutio), e lo divenne nel II sec. d.C.
I giuristi avevano elaborato dei criteri di valutazione della violenza: la minaccia doveva essere attuale e seria, e doveva consistere in
un danno ingiusto e serio contro l'integrità fisica della parte o dei suoi familiari.
In alcune costituzioni imperiali pre-giustinianee sembra che si accenni alla nullità dei negozi estorti con violenza: ciò si collega al
venir meno della distinzione ius civile-ius honorarium e all'aggravarsi della repressione criminale contro gli atti di violenza.
62. L'ILLICEITÀ DEL NEGOZIO
Il negozio può essere invalido perché illecito. Tale illiceità può dipendere dal fatto che il negozio violi un divieto di legge o una norma
inderogabile. Quando il divieto è posto da leges perfectae o da senatoconsulta, il negozio è nullo già sul piano del ius civile. Nelle
leges minus quam perfectae ed imperfecte e nel caso di senatoconsulto (privo di vigore di legge), l'invalidità del negozio è sancita sul
piano del ius honorarium, mediante la concessione di exceptio o in integrum restitutio.
Sono illeciti, e quindi nulli, i negozi contrari al buon costume (contra bonos mores), per illiceità del contenuto precettivo del negozio,
ossia della prestazione. Ciò avveniva anche nei negozi solenni.
Altre volte, il negozio è nullo per illiceità della causa, intesa come momento funzionale del negozio, in quanto lo scopo perseguito
dalle parti vada contra bonos mores. I motivi, erronei o illeciti che siano, sono irrilevanti, a meno che illeciti e comuni ad entrambe le
parti, e rilevanti dal negozio.
Il modo in cui è sancita l'invalidità del negozio illecito, perché contra bonos mores, è piuttosto articolato. Vige la disciplina che ove
l'intento contrario al buon costume si riscontri in entrambe le parti, prevale la posizione di chi è nel possesso: quando l'i llecito è
imputabile ad entrambe le parti, nessuna delle due potrà chiedere la restituzione di quanto prestato.
Il periodo postclassico non porta cambiamenti, ma solo un'accentuazione del carattere etico del diritto.
63. LA CONDIZIONE: NATURA E TIPI
Come elementi accidentali del negozio, la dottrina ha identificato la condizione, il termine ed il modo. A proposito di questi
elementi, i prudentes avevano enucleato la categoria degli actus legitimi, che non tollerano né termine né condizione.
La condizione è uno degli strumenti più efficaci che il diritto mette a disposizione delle parti per adattare alle concrete necessità
della vita reale i singoli tipi di negozio. Essa appare molto risalente nell'esperienza romana e collega l'efficacia del negozio
all'avverarsi di un fatto futuro e incerto. Le condizioni si distinguono in affermative, che si hanno quando viene preso in
considerazione il verificarsi di un fatto, e negative, che si riferiscono invece al non verificarsi di un fatto. È fondamentale per
l'importanza pratica la distinzione fra condizione sospensiva e condizione risolutiva. La prima è quella clausola dl negozio che
subordina l'inizio degli effetti del negozi stesso al verificarsi di un fatto futuro ed incerto. La seconda, invece, subordina la cessazione
degli effetti del negozio al verificarsi di un tale fatto. Secondo la dottrina, i romani non avrebbero conosciutola condizione risolutiva,
a parte alcune clausole risolutive del contratto di compravendita. Agli antichi negozi del ius civile non era possibile apporre una
condizione risolutiva. L'operatività pratica di tale condizione si è introdotta nei rapporti che hanno carattere essenzialmente
temporaneo. Essendo in questi negozi apponibile un termine finale, si è arrivati alla possibilità di fissare la cessazione del rapporto al
verificarsi di un fatto futuro ed incerto. In epoca classica,la condizione risolutiva è sempre ammessa quando l'oggetto del negozio è
essenzialmente temporaneo, anche se il negozio rientra fra gli actus legitimi.
Si distingue poi fra condizioni causali, potestative e miste. Le prime sono quelle il cui avverarsi dipende esclusivamente dal caso. Le
seconde, invece, dipendono dalla volontà di una delle parti del negozio. Le ultime son quelle in cui l'evento dedotto in condizione
dipende sia dalla volontà di una delle parti, sia dal caso. Le condizioni potestative si distinguono dalle condizioni meramente
potestative, nelle quali la volontà delle parti di dare o meno effetto al negozio non dipende da una scelta importante sul piano
socio-economico. Queste rendono nullo il negozio.
Alla patologia del negozio si riferisce la distinzione fra condizioni possibili ed impossibili, lecite ed illecite. Una condizione è possibile
quando l'evento dedotto nella clausola negoziale poteva, al momento del perfezionamento del negozio, verificarsi. È impossibile nel
caso contrario. La possibilità deve essere giudicata in base a due parametri: quello della realtà naturale, e si avranno le condizioni
materialmente impossibili, e quello dell'ordine giuridico, e si avranno le condizioni giuridicamente impossibili. La liceità od illiceità
della condizione non dipende dalla liceità o meno del fatto dedotto nella clausola negoziale. La condizione è, quindi, valutata come
illecita dal punto di vista funzionale, perché esplicita un motivo illecito e cioè la circostanza che le parti tendono a raggiungere un
fine illecito mediante il negozio.
La questione degli effetti dell'apposizione di una condizione impossibile od illecita viene dibattuta soltanto in relazione alla
condizione sospensiva. La condizione impossibile rende nullo il negozio, ma vi è un'eccezione: nelle disposizioni di ultima volontà,
dal I sec. d.C., si considera come non apposta. Nei negozi tutelati da iudicia bonae fidei, la causa illecita nel caso concreto, svelata
dalla condizione illecita, rende nullo il negozio. Nei negozi astratti, il problema si pone solo per la stipulatio, che viene resa nulla solo
sul piano del ius honorarium.
64. PENDENZA ED AVVERAMENTO DELLA CONDIZIONE
La caratteristica del negozio sottoposto a condizione è lo stato di pendenza fino a quando non si accerti che la condizione si è
verificata o non può più verificarsi. La risoluzione di tale stato pone il problema dell'accertamento del momento in cui la pendenza
cessi, che dipende dal tenore della clausola condizionale. La giurisprudenza romana interviene ad ovviare agli inconvenienti pratici. Il
caso più importante è quello della cautio Muciana, introdotta da Quinto Mucio Scevola nel I sec. a.C.: un legato poteva essere
sottoposto a condizione potestativa negativa, congegnata in modo tale da considerarla avverata solo al momento della morte del
legatario. Il giurista sostenne che la condizione dovesse ritenersi verificata se il legatario si obbligasse, con stipulatio, a restituire il
legato ove avesse tenuto il comportamento vietato dalla condizione: la condizione sospensiva veniva a funzionare, in pratica, come
risolutiva.
La cautio Muciana non è l'unico caso di adempimento fittizio della condizione. Si considera, infatti, fittiziamente adempiuta qualsiasi
condizione, se la parte che aveva interesse a che la condizione non si verificasse ha fatto in modo che la stessa mancasse.
La pendenza crea due problemi: la rilevanza del negozio durante la pendenza della condizione e l'efficacia retroattiva od
irretroattiva del verificarsi della condizione. Nel caso di condizione retroattiva, gli effetti si considerano venuti in essere al momento
della conclusione del negozio; nel caso di condizione irretroattiva, invece, al momento in cui la condizione si è verificata.
Nell'esperienza romana non esiste, al riguardo, un regime legale con portata generale. Sembra che, però, sia in materia di negozi
traslativi, sia in materia di negozi obbligatori, si ponga una differenza fra negozi inter vivos e mortis causa, per il fatto che i primi
sono trattati nel senso della retroattività, ed i secondi nel senso dell'irretroattività.
Altri aspetti riguardano la rilevanza del rapporto obbligatorio nascente da un negozio condizionale prima dell'avveramento della
condizione: è la configurazione della fattispecie preliminare. Durante la pendenza, il credito nascente dal negozio si trasmette agli
eredi del creditore, se l'atto è inter vivos, ma si estingue se l'atto è mortis causa. I romani, però, non hanno costruito queste
soluzioni dal punto di vista degli effetti preliminari.
La dottrina esclude che, in periodo classico, si sia conosciuta l'efficacia reale dell'avveramento della condizione risolutiva.
Il periodo postclassico non ha portato a innovazioni, né Giustiniano è intervenuto a dettare nuove norme per la configurazione di
questo istituto.
65. IL TERMINE
Il termine (dies) è una clausola che fissa un limite temporale agli effetti del negozio. Esso opera come termine iniziale (sospensivo),
che fissa il momento in cui hanno inizio gli effetti del negozio quando questo dia diverso da quello in cui è stato concluso il negozi
stesso; e come termine finale (risolutivo), che fissa il momento in cui gli effetti del negozio devono cessare. Con il termine si fa
riferimento ad un evento futuro che certamente si verificherà, anche se non si sa quando. Il dies può essere certus an, ma certus o
incertus quando. Con il dies incertus an si ha sempre una condizione, integrata anche quando sia certus quando. In alcuni casi,
questo viene trattato come una condizione.
Non possono essere sottoposti a termine gli actus legitimi, le istituzioni d'erede e i negozi di diritto familiare, nei quali il termine, se
apposto, rende nullo il negozio. Tutti gli altri negozi sono passibili di termine iniziale, mentre il termine finale si applica nei rapporti
di durata, dove è ammissibile anche nel caso degli actus legitimi, in quanto è necessario determinare la durata di tali rapporti.
La differente operatività del termine iniziale nei confronti della condizione sospensiva viene descritta affermando che durante la
pendenza del negozio sottoposto a condizione sospensiva non nasce alcun diritto, mentre nel negozio sottoposto a termine il diritto
è già sorto, ma l'esercizio ne è spostato nel tempo. Nel caso di atto traslativo della proprietà, il termine funziona però come
condizione sospensiva, perché l'acquirente non diventa titolare del diritto prima della scadenza del termine.
66. LA RAPPRESENTANZA
Non sempre il soggetto interessato ad un risultato da raggiungere mediante un negozio giuridico può o vuole compierlo
personalmente: si ha la figura della rappresentanza in senso ampio. Un soggetto (rappresentante) agisce per conto ed
eventualmente in nome di un'altra persona (rappresentato), i cui interessi sono coinvolti nel negozio. Si usa poi distinguere la
rappresentanza legale e la rappresentanza volontaria: la prima si ha quando il rappresentato sia, parzialmente o totalmente,
incapace di agire, e quindi i suoi interessi debbano essere amministrati sul piano dell’attività negoziale da un rappresentante;
rappresentanza volontaria si ha invece quando un soggetto capace di agire non possa o non reputi opportuno svolgere di persona
una determinata attività negoziale che riguarda la propria sfera di interessi.
A seconda della posizione che assume rispetto ai terzi il rappresentante, si parla da un lato di rappresentanza diretta, in cui il
rappresentante agisce in nome e per conto del rappresentato, con la conseguenza che gli effetti del negozio di producono
direttamente in capo al rappresentato; dall’altro, la rappresentanza indiretta, in cui il rappresentante agisce in nome proprio e per
conto del rappresentato, con la conseguenza che gli effetti del negozio si producono in capo al rappresentante, che dovrà
ritrasmetterli al rappresentato. Si distingue così la figura del nuncius dal rappresentante diretto: il nuncius è una sorta di "lettera
parlante" firmata dal dominus negotii, che comunica la volontà di questi e, a differenza del rappresentante, non gode di alcuna
autonomia nel fare ciò.
Con la rappresentanza si viene ad avere una parte in senso formale (rappresentante) e una in senso sostanziale (rappresentato). Per
quanto riguarda le norme che regolano questo aspetto del negozio, può di volta in volta tenersi conto della parte in senso formale o
di quella in senso sostanziale.
L'esperienza giuridica romana non ha conosciuto la rappresentanza diretta: i prudentes non hanno mai esaminato la diversa
operatività delle due figure di rappresentanza. Anche se il rappresentante spendeva il nome del rappresentato, non si poteva
integrare la fattispecie della rappresentanza diretta.
Esistono però fattispecie in cui il negozio posto in essere da una persona esplica i suoi effetti sulla sfera giuridica di un altro
soggetto: è il caso del negozio perfezionato dalle personae alieno iuri subiectae. Il servus o il filius familias non agiscono né per conto
né in nome del dominus o del pater, e gli effetti del negozio si verificano in capo all'avente potestà sulla base del semplice rapporto
potestativo: non occorre nemmeno distinguere fra parte formale e parte sostanziale.
Sul regime civilistico degli acquisti della persona alieno iuri subiecta s’innesta la regolamentazione pretoria che dà luogo alla
concessione delle actiones adiecticiae qualitatis. Ad esempio, nell’actio exercitoria o nell’actio institoria nonché nell’actio quod
iussu: la praepositio e l’incarico del pater, che lo rendono responsabile nei confronti dei terzi, potrebbero apparire come negozi
attributivi del potere di rappresentanza. Tuttavia, vale anche qui il rilievo che il sottoposto non agisce né in nome né per conto del
paterfamilias e che non è parte né formale né sostanziale del negozio. Inoltre, la responsabilità dell'avente potestà si aggiunge a
quella del sottoposto.
Nel periodo imperiale l’actio exercitoria e l’actio institoria vengono estese anche riguardo a persone non soggette alla potestà del
preponente, che è tenuto per il negozio a prescindere dal rapporto potestativo e solo in base alla volontà espressa nell’atto di
preposizione. I giuristi romani non si sono posti, però, dal punto di vista della rappresentanza diretta, perché il preposto agiva
sempre in nome proprio, si considerava solo la sua volontà e la responsabilità del dominus si aggiungeva a quella del preposto.
Nel caso di rappresentanza necessaria, il tutor pupilli e il curator furiosi potevano disporre delle cose dell’incapace, ma è dubbio che
potessero compiere una valida mancipatio. Invece, per la traditio e per la riscossione dei crediti i poteri del tutore non sembrano
presentare particolarità rispetto alla disciplina generale.
Effetti identici a quelli della rappresentanza diretta si hanno nell'attività degli organi delle persone giuridiche, ma i prudentes non si
sono mai posti problemi al riguardo.
La funzionalità tipica della rappresentanza indiretta comporta che gli effetti si producano, interinalmente, nella sfera giuridica del
rappresentante. Questo fissa i limiti della sua applicabilità: può aver luogo solo nei negozi di natura patrimoniale. Il campo
d'elezione è nei contratti obbligatori: il rappresentante diventa, provvisoriamente, debitore o creditore. Solo in un secondo
momento, regolerà i conti con il dominus negotii.
Per la costituzione o il trasferimento dei diritti reali, la rappresentanza indiretta può essere integrata solo nel primo caso. I
prudentes hanno però ammesso che, in entrambi i casi, l'intermediazione di un terzo possa esplicare i suoi effetti direttamente nella
sfera del dominus negotii, ma solo se si tratta di traditio. Comunque, l'efficacia dell'atto non si fonda sulla rappresentanza.
Per quanto riguarda l'estinzione dell'obbligazione, non è concepibile l'operatività della rappresentanza indiretta.
CAPITOLO QUINTO - IL PROCESSO E LA DIFESA DEI DIRITTI
67. IL PROCESSO E L'AZIONE
Nell'esperienza romana, l'aspetto processuale ha avuto una grande importanza anche per lo sviluppo del diritto sostanziale: i
romani, infatti, impostavano il discorso sugli istituti giuridici sostanziali e sulle situazioni giuridiche soggettive riferendosi ai mezzi
posti a disposizione dei soggetti per far valere i propri diritti nel processo, utilizzando il termine actio. Quello dei romani era dunque
un modo di pensare il diritto mediante il riferimento al sistema delle azioni.
La caratteristica della norma giuridica è la coattività: alla violazione della norma segue la possibilità di infliggere la sanzione. Senza
una tale operatività si è al di fuori della fenomenologia del diritto. Non si può considerare come sanzione la reazione incontrollata,
l'autotutela, della persona offesa non soggetta a controllo o a regolamentazione, né sorretta dall'appoggio e dall'aiuto della
comunità. Offesa e rappresagli causano una serie di reazioni a catena, da cui esce vincitore il più forte e non chi abbia ragione: si va
così a perdere il carattere indefettibile della sanzione. È necessario che l'inflizione della sanzione sia collegata all'accertamento della
violazione della norma, effettuato da un terzo imparziale. Ciò avviene attraverso il meccanismo del processo, inteso come la
struttura in cui un organo imparziale accerta la violazione della norma, infliggendo o meno la sanzione.
Il processo assume funzioni diverse a seconda degli interessi protetti. Si pone qui la distinzione fra processo privato, in cui i privati
chiedono la tutela dei propri diritti, e processo criminale, che persegue la punizione dei fatti illeciti ritenuti di interesse pubblico su
iniziativa diretta di organi dello stato.
Nel processo privato il soggetto ha l'onere di assumere la relativa iniziativa, esercitando l'azione. La nozione attuale di azione sta in
un rapporto di sviluppo senza soluzioni di continuità con la categoria romana dell'actio.
Questa categoria è sempre stata collegata con la tutela delle situazioni giuridiche soggettive nell'ambito del processo ed ha sempre
coinvolto il potere di adire il giudice per far accertare il proprio diritto ed applicare sanzioni conseguenti alla violazione di
quest'ultimo. Tra i vari significati assunti, si può operare una prima distinzione in funzione della circostanza se nel concetto d'azione
vengano o meno assunti profili concernenti la situazione giuridica sostanziale che si fa valere nel processo. Se ciò avviene, si avrà
una concezione materiale (sostanziale) dell'azione, che può a sua volta essere intesa in due modi diversi: nel significato più ristretto,
in cui indica il potere di chi sia titolare di un diritto soggettivo di farlo valere in giudizio (se non sussiste il diritto soggettivo, non v'è
azione), e nel significato più ampio, che indica il potere in capo al soggetto di chiedere al giudice l'accertamento se sia fondata in
fatto la sua domanda, astrattamente configurabile secondo il diritto (l'azione esiste anche se non sussiste di fatto il diritto
soggettivo, ma non vi è azione se la situazione giuridica dedotta in giudizio non è prevista dall'ordinamento). Se ciò non avviene,
invece, si avrà una concezione processuale (formale) dell'azione, in cui si perde l'aggancio con la situazione sostanziale. L'azione è
qui il potere del soggetto di adire il giudice per sentirlo pronunciare sulla fondatezza della sua domanda. L'azione sussiste anche se
la pretesa dell'attore è infondata in diritto o in fatto.
I giuristi romani non si sono mai posti il problema circa il significato della categoria actio. Nelle fonti, però, si riscontra una
definizione di Celso: è il diritto di pretendere attraverso una formula quanto è dovuto all'attore. Tale definizione sembra riferita solo
alle actiones in personam, e sicuramente non ambiva ad avere una portata generale, né ad essere una categorizzazione dogmatica
dell'actio: aveva solo un valore di massima, da saggiare di volta in volta nel contesto della discussione. Il potere di agire a tutela del
proprio diritto, viene inteso dai prudentes in senso strettamente sostanziale: quando si affermavano che un soggetto poteva
esercitare l'azione, si riferivano all'azione fondata in fatto e in diritto.
Il processo romano si fonda su una serie di azioni tipiche, il che viene correlato al fatto che i giuristi romani penserebbero il diritto
attraverso il processo: questione collegata con l'altra se sia il diritto soggettivo a precedere l'azione o viceversa. Per azioni tipiche si
intendono quei mezzi giudiziari che, per far valere determinati diritti soggettivi, prevedono una tipicità di forma e di contenuto.
L'importanza della tipicità delle azioni è circoscritta al problema del pensare il diritto attraverso il processo. Alcuni dati sono
incontestabili: i giuristi romani descrivevano le situazioni giuridiche soggettive in termini di legittimazione attiva o passiva al mezzo
giudiziario e usavano esporre il diritto sostanziale anche attraverso l'analisi delle formulae e delle clausole edittali.
Questo vale anche a risolvere il problema della precedenza, logica e cronologica, fra diritto soggettivo, inteso quale situazione
giuridicamente protetta, ed azione, come tutela giudiziaria di tale situazione. I giuristi romani non si sono mai posti un problema del
genere: per loro, l'aspetto sostanziale e quello processuale erano compresenti. Laddove si prevede una tutela giudiziaria, là si
individua una situazione giuridica soggettiva sostanziale e non esistono situazioni sostanziali senza che vi si riconosca una tutela
processuale correlata. Talora prevale l'aspetto sostanziale, come nel sistema civilistico, talaltra l'aspetto processuale, come nel
sistema onorario.
Nell'ambito della categoria azione, la dottrina opera delle classificazioni. Una prima distinzione fondamentale è quella fra azioni
dichiarative (o di cognizione), che tendono ad accertare la situazione giuridica controversa ed a determinare la conseguenza della
violazione del diritto vantato dall'attore, quindi ad ottenere una pronuncia del giudice; ed azioni esecutive, volte ad infliggere a colui
che ha violato il diritto vantato dall'attore la sanzione prevista dall'ordinamento, ottenendo una modificazione del mondo naturale
sul piano personale o patrimoniale. La funzione essenziale del processo è l'accertamento della violazione del diritto e la
determinazione della sanzione da applicare. L'inflizione di tale sanzione avviene nella fase esecutiva del processo e, per la
delicatezza della funzione, è opportuno affidarla ad un organo istituzionalmente imparziale. Tale inflizione permette un'autotutela,
garantita e controllata dall'ordinamento.
La dottrina moderna distingue le azioni dichiarative in azioni di condanna, volte ad ottenere dal giudice, previo accertamento della
situazione giuridica controversa, una pronuncia in cui si ingiunga al convenuto di tenere il comportamento originariamente dovuto o
di risarcire il danno per equivalente; azioni costitutive, in cui il giudice accerta la situazione giuridica controversa e procede ad
un'ulteriore pronuncia, che produce la modificazione nella situazione giuridica propria od altrui richiesta dall'attore; e azioni di mero
accertamento, il cui scopo di esaurisce nell'accertamento stesso che viene effettuato rispetto ad una situazione di fatto o di diritto
controversa. Nell'esperienza giuridica romana si conoscono solo le azioni di condanna e poche azioni di mero accertamento.
68. L'ORIGINE DELLE LEGIS ACTIONES
Nella storia del processo romano vi sono state numerose e profonde modificazioni delle forme procedurali. Si possono identificare,
dall'età monarchica all'epoca dei Severi, tre sistemi processuali:
il processo delle legis actiones: affonda le sue radici nella protostoria della civitas e trova una sistemazione legislativa nelle XII
Tavole, rimanendo vitale sino agli inizi del II sec. a.C.
il processo formulare: nasce nel IV sec. a.C. nella iurisdictio peregrina e si estende ai cives nel III-II sec. a.C., divenendo nel 17
a.C., con la lex Iulia iudiciorum privatorum, il processo civile ordinario. Viene formalmente abolito nel 342 d.C.
la cognitio extra ordinem: processo che si sviluppa dagli inizi del principato, in cui si attua la giurisdizione dell'imperatore, di
persona o tramite funzionari e magistrati da lui delegati. Le forme sono molto diverse da quelle dell'ordo iudiciorum privatorum. Nel
III sec. d.C. la cognitio diventa il processo ordinario.
Il problema delle origini del processo romano si risolve in quello dell'origine delle legis actiones. È diffusa l'opinione che le forme
processuali si sostituiscano alle precedenti forme di autotutela. A sostegno di tale ipotesi vi è il fatto che nelle due legis actiones più
antiche residuano tracce di forme di autotutela. Il passaggio avviene mediante la regolamentazione ed il controllo da parte della
comunità dell'autodifesa dei privati. Diverso è il problema se il controllo della fondatezza della pretesa dell'attore sia sempre
avvenuto solo nelle forme della legis actio sacramento. La struttura della manus iniectio, rende plausibile l'ipotesi dell'esistenza di
un controllo sulla legittimità dell'esecuzione esercitato dall'intera comunità. Ma la limitata funzionalità della giustizia popolare rende
improbabile che la difesa dei diritti potesse avvenire solo in questo modo: si può ipotizzare che essa funzioni accanto alla legis actio
sacramento, il che evidenzia l'influsso del fattore religioso nell'instaurazione del processo. La necessità del giudizio è indotta dalla
circostanza che entrambe le parti dichiarano, con un giuramento (sacramento), di essere dalla parte della ragione. Ovviamente, un
giuramento è falso e la civitas deve quindi stabilire quale sia la parte che ha commesso uno spergiuro e quindi violato la pax deorum,
per farle espiare l'illecito religioso perpetrato. Si pone il problema se debba considerarsi antecedente la manus iniectio o il
sacramentum. La soluzione sta nel fatto che funzione d'accertamento e funzione d'esecuzione sono indissolubilmente unite.
69. LE LEGIS ACTIONES DICHIARATIVE
Le legis actiones si dividono in dichiarative ed esecutive. Le dichiarative sono tre: le legis actio sacramento (in rem ed in personam),
la legis actio per iudicis arbitrive postulationem e la legis actio per condictionem. Quelle esecutive, invece, sono due: la legis actio
per manus iniectionem e la legis actio per pignoris capionem.
Le legis actiones risalgono alle comunità preciviche e Gaio si riferisce al regime di tale processo come elaborato dai pontifices e dalla
prima giurisprudenza laica sulla base della disciplina contenuta nelle XII Tavole e nella legislazione posteriore. Actio, in questo
sistema, indica i certa verba con cui si esprime l'attività processuale della parte.
Dalla fine dell'età monarchica, il processo di cognizione sulla base delle legis actiones dichiarative prevede una bipartizione della
procedura nella fase in iure, che si svolge davanti ad un organo della comunità, ed apud iudicem, che si svolge dinanzi ad un giudice,
privato cittadino o collegio giudicante che sia. Il magistrato, dunque, non emette mai la sentenza, ma si limita a prendere misure
strumentali per permettere l'instaurazione della lite e la decisione del iudex privatus. Nella fase in iure si imposta la controversia. Le
parti assumevano posizione sull'oggetto della controversia attraverso i formulari delle legis actiones, in cui si possono distinguere
due parti: la prima, che rappresenta l'actio in senso stretto, è costituita dai certa verba (formule solenni), con cui l'attore esprimeva
la propria pretesa, mentre il convenuto precisava la propria posizione; la seconda caratterizzava il modus agendi, e le formule
solenni di cui era composta facevano sì che il magistrato desse il giudice e permettesse la litis contestatio. I certa verba con cui
l'attore formulava la propria pretesa differivano in funzione del diritto fatto valere: erano quindi azioni tipiche. La tipicità dipendeva
a volte dal diritto dedotto in giudizio (actiones in rem e alcune actiones in personam), altre volte dalla fattispecie costitutiva del
diritto (actiones in personam penali).
La legis actiones dichiarativa più antica è l'agere sacramento. Fra l'agere in rem, che si ha quando la pretesa degli attori si svolga in
riferimento alla titolarità del dominium ex iure Quiritium sulla cosa, e l'agere in personam, in cui si ritiene il fatto che il convenuto
debba tenere un determinato comportamento, è più risalente il primo. Ai tempi di Gaio, il sacramentum è una somma di denaro,
oggetto di una scommessa fra le parti, il cui ammontare è di 50 assi, se il valore della causa non supera i 1000 assi, altrimenti di 500
assi. Le parti s'impegnavano a pagare tale somma, in caso di soccombenza, all'aerarium e davano garanti per tale obbligazione: i
praedes sacramenti. Le fonti ci informano che, però, in epoca più risalente, la soma era depositata da entrambe le parti, e la parte
vincente poteva ritirare la propria, per cui non venivano dati praedes. Ancora prima venivano depositati animali, che potevano
servire al sacrificio espiatorio dello spergiuro di una delle due parti.
Agere in rem e agere in personam si differenziano nella prima parte del formulario ed il primo, a sua volta, ha svolgimento diverso a
seconda che si tratti di cose mobili o immobili. La cosa mobile doveva essere presente in iure, mentre per la cosa immobile si
prevedeva la presenza di una piccola parte della stessa. Una volta che i contendenti siano in iure, con la cose oggetto della
controversia, si svolge la recita delle actiones. Nell'agere sacramento in rem non si distingue un attore ed un convenuto, perché
entrambe le parti pronunciano la stessa actio, che nel caso dell'agere in rem prende il nome di vindicatio. Colui che parla per primo,
il prior vindicans, afferma che l'oggetto è suo in base al ius Quiritium ed eseguiva il vindictam imponere, toccando l'oggetto con una
festuca, bastone o verga simbolo del dominium ex iure Quiritium. Seguiva un'identica formula da parte dell'adversarius, al termine
della quale il pretore ordinava alle parti di abbandonare l'oggetto della controversia. Toccava poi ad un'ulteriore fase del formulario:
il prior vindicans chiede all'adversarius in base a quale causa abbia effettuato la vindicatio, al che quest'ultimo risponde "ius feci
sicut vindictam imposui". Qui finisce la prima parte del formulario. Si passa, quindi, alla provocatio sacramento. Dopo aver ricevuto
la risposta, il prior vindicans sfidava con un sacramentum l'adversarius, che rispondeva "et ego te". Vengono dati i praedes
sacramenti e segue l'attribuzione interinale del possesso della cosa controversa. La parte che si vede attribuito tale possesso deve
prestare ulteriori garanti per la restituzione della cosa: i praedes litis et vindiciarum.
Nella legis actio sacramento in personam si distingue, fin dalle origini, l'attore, che afferma un diritto, dal convenuto, che lo nega.
Esistevano varie actiones tipiche, costruite in funzione del tipo di obbligazione fatta valere o della fattispecie costitutiva della stessa.
L'agere in personam ha carattere generale: si esperiva ogni volta in cui non era prevista una diversa azione specifica posta a tutela di
un certo rapporto. Nell'actio per far valere un'obbligazione di certum, l'attore si rivolgeva al convenuto dichiarando di essere
creditore di una certa somma di sesterzi, domandando poi "id postulo aias an neges": tale domanda chiudeva l'actio. Se il convenuto
rispondeva "aio", il processo si concludeva perché la confessio teneva luogo della sentenza e portava all'azione esecutiva. Se, invece,
rispondeva "nego", l'attore pronunciava i certa verba con cui sfidava il convenuto al sacramentum: quest'ultimo rispondeva "et ego
te". L'agere in personam aveva una sfera applicativa a carattere generale: si agiva con il sacramentum per tutte le situazioni in cui il
ius civile riconosceva un'obbligazione del convenuto, e quali fossero i casi in cui ciò avvenisse si determinava in base al diritto
sostanziale. Nel ius civile queste obbligazioni, che rientrano nel termine di oportēre, sono di fare, dare, cioè di trasferire la proprietà
di qualcosa a vantaggio dell'attore, di facere (o non facere), cioè obbligazioni di ogni altro tipo diverse dal dare) e di praestare, ossia
l'obbligazione di garanzia.
Nelle XII Tavole si riscontra un nuovo modus agendi dichiarativo, la legis actio per iudicis arbitrive postulationem, una legis actio
specialis, ossia esperibile solo nei casi espressamente previsti dall'ordinamento. Questi sono tre: due per ottenere lo scioglimento di
uno stato di comunione, ed uno, applicato all'agere ex sponsione, per far valere un credito nascente da una verborum obligatio. Il
formulario si distingue nelle due parti già viste: come actio in senso stretto viene riportata l'agere ex sponsione, coincidente con
l'agere in personam, ma con la differenza che si specifica il negozio da cui nasce l'obbligazione. Alla risposta nego del convenuto,
l'attore proseguiva con la parte del formulario che introduceva il modus agendi: la richiesta al magistrato di un giudice (arbiter nelle
azioni divisorie). Nelle fonti non sono esplicitate le ragioni per cui tale richiesta si riteneva equivalente, nel V sec. a.C., alla
provocatio sacramentum. Si è ipotizzato che, per la necessità della bipartizione del processo, il formulario dell'agere sacramento
prevedesse anche i certa verba rivolti a chiedere il giudice: con la soppressione del sacramentum, la iudicis postulatio diventa il
modus agendi. L'introduzione della iudicis postulatio segna, dal punto di vista diacronico, il punto di partenza della bipartizione del
processo e dell'avanzata laicizzazione della procedura giudiziale. La successiva pronuncia del giudice aveva effetto costitutivo, ossia
faceva sorgere il diritto esclusivo di proprietà su un determinato bene in capo ad un soggetto.
L'ultima actio dichiarativa ad essere introdotta è l'actio per condictionem, una legis actio specialis che può essere esperita solo per le
obbligazioni di dare una quantità di denaro determinata (certa pecunia), in base alla lex Silia del III sec. a.C., o una cosa determinata
(certa res), in base alla lex Calpurnia del II sec. d.C. Le actiones di questo modus agendi sono tipiche in funzione della specie di
obbligazione presa in considerazione. Nella relativa actio non è necessario indicare da quale atto giuridico nasca l'obligatio. Alla
risposta nego, l'attore pronunciava i certa verba con cui convocava, dinanzi al magistrato, il convenuto, per prendere il giudice,
trenta giorni dopo tale pronuncia. L'intercorrere di trenta giorni fra il compimento delle formalità dell'agere sacramento e la datio
iudicis era un'innovazione introdotta dalla lex Pinaria.
70. LE LEGIS ACTIONES ESECUTIVE
La legis actio per manus iniectionem è un'azione esecutiva, che si coordina al processo di cognizione e presuppone una sentenza di
condanna. Tale actio fa valere la responsabilità personale del debitore, in quanto serve ad infliggere una sanzione essenzialmente
afflittiva della persona. Nella configurazione gaiana, la manus iniectio iudicati presupponeva l'emanazione di una sentenza di
condanna al pagamento di una somma di denaro. Dopo i triginta dies iusti che le XII Tavole concedevano al debitore, l'attore poteva
afferrarlo, ovunque lo trovasse (escluso il domicilio) e costringerlo a seguirlo in ius, dove pronunciava l'actio. Il pretore non
esercitava alcun controllo di merito sull'actio così pronunciata, limitandosi a controllare la scrupolosa osservanza delle forme. Fatto
ciò, procedeva all'addictio del debitore a favore dell'attore. Il debitore stesso non poteva difendersi personalmente contestando le
affermazioni dell'attore, ma doveva far intervenire un terzo che ne assumeva la difesa: il vindex. Se, però, non trovava qualcuno
disposto ad accollarsi la relativa responsabilità, la procedura esecutiva aveva il suo corso. In seguito alla presentazione del vindex, il
debitore veniva definitivamente estromesso dalla lite: il vindex assumeva su di sé, quindi, l'onere di un processo di cognizione nei
confronti del creditore procedente, in cui si doveva accertare la fondatezza o meno dell'esecuzione iniziata dall'attore nelle forme
dell'agere in personam. Non è da escludere il fatto che il vindex potesse uscirne vittorioso. La manus iniectio esperita dal creditore
era dunque infondata. Se soccombeva, invece, veniva condannato a favore del creditore al pagamento di una somma doppia di
quella dovuta dal debitore originario, per saldare il debito di quest'ultimo e per riscattare sé stesso dalla responsabilità che si era
assunto: contro di lui si poteva agire con la manus iniectio.
In seguito all'addictio, il debitore si trovava nella condizione di addictus: non perdeva né lo status civitatis, né lo status libertatis. La
sua libertà veniva, però, limitata di fatto, in funzione dell'ulteriore corso del processo esecutivo. Il creditore procedente aveva il
diritto di tenerlo presso di sé e di legarlo, con l'obbligo di prestargli un nutrimento di sussistenza. Prima di procedere oltre, il
creditore era tenuto ad osservare un termine dilatorio di 60 giorni, che aveva lo scopo di permettere una pactio che evitasse
l'inflizione della sanzione definitiva, in cui si inserivano tre esposizioni consecutive al mercato (trinundinum) nel foro con
l'indicazione della somma per la quale era stato condannato. Trascorso questo termine e passati i tre mercati senza essere pervenuti
ad una composizione amichevole, il debitore poteva essere messo a morte o venduto in territorio straniero (trans Tiberim). In epoca
più risalente, il debitore poteva diventare schiavo ex iure Quiritium del creditore, ma probabilmente la sanzione originaria era quella
della messa a morte (disposizione molto famosa delle XII Tavole: in caso di pluralità di creditori, essi potevano spartirsi i l cadavere
del debitore ucciso). Raramente si era pervenuti a tali estreme misure: le fonti, infatti, accostano gli addicti ai nexi, il che sarebbe
ingiustificato se la condizione di addictus fosse stata provvisoria. Si è ipotizzata una prassi per cui il creditore non portasse avanti la
procedura esecutiva, ed utilizzasse la forza-lavoro dell'addictus ai fini di un riscatto dello stesso.
La manus iniectio, come azione esecutiva esperibile senza la necessità di una previa sentenza, era in epoca risalente l'unico mezzo
giudiziario dato a tutela di determinate pretese. Il regime era, però, lo stesso della manus iniectio iudicati, il che comportava la
necessaria presentazione di un vindex da parte del debitore, per contestare la fondatezza dell'azione. Con il passare del tempo, in
alcune leggi concedenti la manus iniectio, venne eliminato l'onere di ricorrere ad un vindex, per permettere al debitore di contestare
da solo la pretesa dell'attore. Queste manus iniectiones si dicevano pure, in contrapposto alle pro iudicato, cioè quelle in cui il vindex
era ancora necessario). Tale sviluppo si completò nel III-II sec. a.C. con la lex Vallia, che stabilì che in ogni caso al debitore fosse
permesso di difendersi in proprio. Venne conservato, però, l'effetto della litis crescenza. La necessità del vindex venne mantenuta
solo per alcuni tipi di manus iniectio, che scomparve definitivamente nel 17 a.C., con l'abolizione delle legis actiones.
La seconda azione esecutiva era quella per pignoris capionem, con caratteristiche particolari e di limitata importanza pratica. Essa
poteva svolgersi al di fuori del tribunale del magistrato, in assenza della controparte ed anche nei dies nefasti, in cui l'attività
giudiziaria era vietata,a ma sempre attraverso la pronuncia di una formula solenne da parte del creditore. La pignoris capio consiste
nell'impossessamento da parte del creditore di cose appartenenti, al debitore, ovunque queste si trovassero, accompagnato dalla
pronuncia di certa verba. Non era esperibile a tutela del giudicato, ma di varie pretese che non davano luogo ad un oportēre.
Sembra che la pignoris capio servisse anche come azione indiretta, privando temporaneamente il debitore dei beni oggetto
dell'impossessamento, al fine di indurlo al pagamento del debito. Il creditore non poteva procedere alla vendita delle cose
pignorate, onde soddisfarsi sul ricavato. La pignoris capio veniva data al soldato il cui stipendio non era stato pagato, al pubblicano
per indurre il cives inadempiente a pagare e per il pagamento degli animali da sacrificio.
71. LO SVOLGIMENTO DEL PROCESSO IN IURE E APUD IUDICEM NELLE LEGIS ACTIONES
L'iniziativa era presa dall'attore e la convocazione in giudizio del convenuto era un atto di parte. La convocazione avveniva mediante
l'in ius vocatio, cioè un'intimazione rivolta verbalmente dall'attore al convenuto, in qualsiasi luogo l'avesse trovato, a recarsi insieme
dinanzi al tribunale del magistrato (in ius), allo scopo di instaurare il processo sulla domanda che l'attore voleva proporre, la quale
veniva descritta contestualmente nella sua sostanza. Se il convenuto rifiutava o tergiversava, l'attore poteva esercitare
immediatamente la manus iniectio vocati. Per esonerarsi dall'ottemperare immediatamente all'intimazione, il convenuto doveva
dare un vindex. L'in ius vocatio si poteva avere anche nelle azioni dichiarative: entrambe le parti dovevano pronunciare, dinanzi al
magistrato, i certa verba delle singole actiones e dei relativi modus agendi. Era quindi impossibile instaurare il processo in assenza
del convenuto o senza la sua cooperazione. In questi casi, però, il convenuto era esposto a sanzioni che rendevano la sua posizione
peggiore di quella che sarebbe conseguita all'accettazione della lite.
Per la fase successiva alla pronuncia dei certa verba, si deve distinguere il periodo originario da quello sanzionato nelle XII Tavole: la
bipartizione è stata infatti introdotta soltanto in un secondo momento e alle origini era il rex stesso che giudicava. Già nel periodo
della monarchia etrusca si deve essere introdotta la bipartizione, ed il rex delegava la funzione di giudicare a persona che in questo
periodo doveva essere scelta dal sovrano stesso, e solo in un periodo successivo in base alla libera determinazione delle parti. Da qui
veniva al convinzione che al magistrato spettasse la iurisdictio, intesa come potere di impostare il processo, mentre ad un privato
cittadino spettasse la competenza a risolvere la controversia tenendo conto della situazione di fatto (iudicatio). La bipartizione
comportava una separazione temporale tra le due fasi e la conseguente necessità di fissare il momento in cui la fase in iure fosse
terminata. Nelle XII Tavole questo momento era identificato con l'invito rivolto dalle parti ai presenti di ricordarsi di quanto fosse
successo dinanzi al magistrato e la pronuncia delle parole solenni del formulario. Ciò costituiva la litis contestatio.
Poco si sa sulla fase apud iudicem: la comparizione davanti al giudice doveva avvenire due giorni dopo la conclusione della fase in
iure. Non erano ammessi aggiornamenti del processo, né la procedura per contumacia: la parte assente perdeva la lite, dopo che il
giudice avesse aspettato fino al calar del sole. La valutazione della prova era libera, e la sentenza non era motivata né impugnabile.
72. L'ORIGINE DEL PROCESSO FORMULARE E LA SUA ESTENSIONE AI CIVES
Nel IV sec. a.C. può porsi l'inizio degli sviluppi che avrebbero poi portato alla creazione del processo formulare. Il processo per
formulas sorge nella iurisdictio peregrina, cioè nel processo organizzato per venir incontro alle esigenze di tutela degli stranieri che si
trovavano a Roma.
Tale problema si pose con l'espansione politica di Roma ed il conseguente incremento dei traffici internazionali, e venne risolto
mediante l'esercizio del potere del magistrato giusdicente, cioè l'imperium. Questo potere spettava ai magistrati maggiori e
attribuiva loro la possibilità di agire nel modo che ritenesse più opportuno per gli interessi dello stato nell'ambito della controversia
affidatagli, purché rispettasse i pochi limiti negativi fissati dall'ordinamento. Tra il IV ed il III sec. a.C., la iurisdictio a Roma era di
competenza del praetor urbanus che, accanto a questa esercitata nei confronti dei cives, iniziò ad esercitarne un'altra nelle
controversie in cui almeno una delle parti fosse straniera. Solo nel 242 a.C. si duplicò la carica del pretore: il secondo pretore venne
detto praetor peregrinus perché gli venne affidata la iurisdictio peregrina. Tale compito venne assolto sulla base dei poteri fondati
sull'imperium che egli possedeva: i processi, infatti, venivano organizzati dal pretore mediante l'impiego dei poteri coercitivi che
rientravano nell'imperium, in base ai quali il magistrato assicurava lo svolgimento del giudizio e l'osservanza del giudicato. Il pretore
doveva, però, individuare anche il diritto sostanziale in base al quale risolvere le controversie. Le norme giuridiche da applicare nei
rapporti con gli stranieri non erano determinate dal ius civile, per il fatto che ostava la circostanza che le parti appartenevano a
comunità diverse. Di conseguenza, anche il diritto sostanziale da applicare era individuato dal pretore sulla base del suo imperium, il
che è la matrice storia del diritto onorario. Il praetor affidava ad altri il compito di risolvere la controversia dinanzi a lui impostata: al
giudice egli fissava, con un programma scritto, i criteri sostanziali in base ai quali doveva esser risolta la controversia. Tale
programma era necessario, perché nell'assenza di un ordinamento comune solo il magistrato giusdicente poteva individuare poteva
indicare quali fossero le regole da applicare, e risulta essere la matrice della formula.
Lo sviluppo di quello che sarebbe diventato il processo formulare accelerò dopo il 242 a.C. Agli inizi, le formulae venivano date, di
volta in volta, dal pretore. Questa procedura lasciò il posto all'individuazione di tipi di istruzioni, adoperati come schemi nei casi
analoghi, il che prefigura le formulae del processo classico. Si crea così un patrimonio di schemi, che si tramanda da pretore a
pretore, da rilasciare al giudice per la risoluzione di controversie. Nella nuova forma processuale, intervienel'utilizzo del ius edicendi
del pretore, attraverso il quale il praetor peregrinus inizia ad emanare, all'entrata in carica, un editto nel quale indicava i criteri in
base ai quali avrebbe esercitato la iurisdictio nell'anno di carica. La pubblicazione delle formulae era molto importante per la
certezza del diritto.
Contestualmente, gli interventi del pretore, fondati sul suo imperium, vennero estesi alle controversie fra cives Romani. Di tali
interventi si hanno le prime tracce fra il III ed il II sec. a.C. In un primo momento, è ben visibile la tendenza ad evitare
l'organizzazione di processi formulari tra cives per il fatto che gli interventi pretori ebbero varie forme. Nello stesso periodo,
vennero votate leges atte a migliorare il sistema delle legis actiones: la lex Silia e la lex Calpurnia.
Il processo formulare fra cives era, in questo momento, uno strumento necessario per la tutela di situazioni non protette dal ius
civile, ma presentava indubbi vantaggi sulle legis actiones, rigide, formali e pericolose per le parti, il che le rese sempre più invise
all'opinione pubblica. Notevoli erano dunque le spinte verso la sostituzione delle legis actiones con il nuovo e duttile processo
formulare, cui venissero riconosciuti effetti civili. Un primo passo fu una lex Aebutia del II sec. a.C., la cui portata è molto discussa in
dottrina. È sicuro che attribuì efficacia civile al processo per formulas, ma senza abolire le legis actiones, accantonate dalla lex Iulia
del 17 a.C. Nonostante si fosse pensato che tale lex avesse reso alternativo l'impiego dell'uno o dell'altro tipo di processo,
attualmente prevale l'opinione che avesse abolito solo una delle legis actiones.
Nel I sec. a.C., l'editto del pretore assunse la sua definitiva struttura, pur rimanendo soggetto a variazioni nel contenuto. Con
l'estensione della procedura formulare alle fattispecie tutelate dal ius civile, il pretore dovette ricomprendere nell'editto anche le
formuale per le azioni civili, e a tal scopo utilizzava le actiones pronunciate dalle parti nella fase in iure delle legis actiones,
trasformate da discorso diretto in prima persona a discorso ipotetico in terza persona. L'importanza dell'editto pretorio si manifesta
nella lex Cornelia del 67 a.C., che obbligava i pretori a ius dicere sulla base del proprio editto, senza potersi scostare da esso. La
portata è discussa, ma è certo che il pretore potesse denegare azioni previste nell'editto e concedere azioni ed altri mezzi
processuali non previsti nell'editto stesso.
La situazione creata dalla lex Aebutia durò solo un secolo. Le legis actiones persero la loro vitalità e nel 17 a .C. furono
definitivamente abolite dalla lex Iulia iudiciorum privatorum, che fece del processo formulare il processo ordinario per le
controversie private riguardanti le fattispecie tutelate dal ius civile. Tale lex fissò una serie di requisiti perché il singolo processo
conseguisse gli effetti civili, e fosse quindi un iudicium legitimum: i processi dovevano svolgersi in Roma, fra cittadini romani, ed
essere giudicati da un iudex unus cittadino romano. Queste erano le condizioni in cui prima s'instaurava il processo nelle legis
actiones, il che mostra l'intenzione di Augusto di limitare la qualifica di iudicia legitima a quei giudizi che, nell'ambito delle vecchie
forme, avrebbero potuto conseguire effetti di ius civile. Tutti gli altri processi erano iudicia quae imperio continentur, fra i quali
rientravano quelli in cui almeno una parte non avesse cittadinanza romana, quelli che si svolgevano fuori Roma, i giudizi
recuperatori e quelli in cui le parti scegliessero un giudice straniero. Lo svolgimento di questi processi e l'esecuzione delle sentenze
era assicurato, con i propri mezzi coercitivi, dal pretore. Per avere iudicium legitimum non era necessario che l'azione fatta valere
con esso rientrasse nel ius civile: si poteva avere iudicium legitimum su un'azione pretoria che rispettasse i requisiti, ed un iudicium
imperio continens su un'azione civile che non li osservava.
Con l'assunzione di una definitiva cornice da parte dell'editto, si ha una relativa stabilità. Ciascun pretore poteva riformulare il
contenuto, ma nella prassi i singoli magistrati che si succedevano di anno in anno nella carica recepivano ampiamente l'editto dei
predecessori: si formava così un nucleo essenziale ed immutabile dell'editto, l'edictum tralaticium. I nuovi pretori intervenivano con
molta prudenza su questa parte dell'editto, mentre avevano una maggior libertà rispetto alle clausole non ancora consolidate. La
discrezionalità del pretore, sotto questo profilo, si mantenne anche nel principato, in cui però l'attività del magistrato giusdicente
era sotto il diretto controllo dell'imperatore. La situazione non mutò fino ad Adriano, che decise la codificazione dell'editto pretorio,
affidando tale operazione al giurista Salvio Giuliano. Lo schema di editto venne sancito tramite senatoconsulto: la delibera imponeva
ai futuri pretori di emanare come proprio editto il testo approvato dal senato, e di non apportarvi modificazioni. I mutamenti
necessari dovevano essere approvati con senatoconsulti.
La parte centrale dell'editto è quella in cui sono contenute le formulae per le azioni civili e pretorie. La differenza sta nel modo in cui
sono proposte: per le prime, il magistrato si limita a render nota la sola formula sotto una brevissima rubrica, mentre le seconde
erano quasi sempre precedute dalla clausola edittale, il cui scopo era di indicare i presupposti in base ai quali il pretore avrebbe
concesso l'azione. Tale clausola era necessaria solo per le azioni pretorie, in quanto per le civili era il ius civile interpretato dai
prudentes che fissava i limiti in cui l'azione poteva essere esperita. Anche dopo la codificazione, l'editto mantenne la caratteristica di
essere un programma che il pretore stesso fissava per l'esercizio della sua iurisdictio: era una sorta di autoregolamentazione dei
propri poteri da parte del magistrato giusdicente. Il nucleo centrale dell'editto è preceduto da una parte introduttiva che disciplina
lo svolgimento del processo in iure e seguito da sezioni che trattano dei mezzi ausiliari della procedura pretoria.
73. LA FORMULA E LE PARTES FORMULARUM
La formula è il momento centrale del processo a cui dà il nome e mantiene, anche nel periodo classico, la funzione di indicare al
giudice privato i criteri in base ai quali deve procedere alla soluzione della controversia. Si contrappone la rigidità dei certa verba
delle legis actiones alla flessibilità della formula e dei concepta verba. Una volta fissata, la formula rappresentava, però, il
fondamento esclusivo ed il limite invalicabile dei poteri del giudice privato, che doveva far tutto quello che gli era imposto dalla
formula e non poteva fare alcunché a cui non fosse da essa autorizzato.
La struttura della formula è un discorso ipotetico ed alternativo, rivolto al giudice dalle parti e dal magistrato: se risulteranno
integrate le condizioni per accogliere la domanda dell'attore, tu giudice condanna; se non risulteranno integrate, assolvi. Le formule
erano costruite sulla base di determinate partes formularum, cioè delle strutture di discorso tipiche nella funzione e nella forma.
Gaio individua quattro partes: l'intentio, la demonstratio, la condemnatio e l'adiudicatio. Escluse erano l'exceptio e la praescriptio,
che servivano per adattare la formula al caso concreto, e le fictiones, che Gaio riteneva specificazioni dell'intentio.
L'intentio è il fulcro logico della formula stessa. In essa l'attore racchiude la propria pretesa. Nelle azioni civili in personam si allude
all'obbligo del convenuto, in quelle in rem al diritto reale vantato dall'attore. Nelle azioni pretorie con formula in factum concepta,
l'intentio è l'esposizione della situazione di fatto che riceve tutela dal magistrato. Nell'intentio, dunque, l'attore non esprime la
propria pretesa, ma il fondamento giuridico dell'azione. Può essere certa od incerta, a seconda del fatto se sia o meno sufficiente a
descrivere gli elementi del rapporto dedotto in giudizio. Nei giudizi di stretto diritto, solitamente, è certa, mentre in quelli di buona
fede è incerta.
La demonstratio è la parte della formula che viene inserita per individuare la res de qua agitur. È utilizzata nelle formulae prive di
intentio o nelle actiones con intentio incerta, che possono risalire al diritto civile più antico o essere iudicia bonae fidei; la differenza
sta nel fatto che l'oportēre del convenuto viene affermato nelle prime e viene detto fondarsi sulla buona fede nelle seconde. La
demonstratio ha quindi il compito di individuare l'oggetto della controversia, quando il carattere incerto dell'intentio renderebbe ciò
estremamente difficile, mediante l'indicazione della fattispecie a cui è collegata l'azione tipica.
La condemnatio è la parte della formula in cui si dà al giudice il potere di condannare o assolvere il convenuto. In effetti, tale potere
è attribuito dalla formula nel suo complesso, mentre Gaio la individua come la parte in cui sono fissati i criteri per la determinazione
dell'ammontare della condanna, che è sempre pecuniaria. Può essere certa od incerta, a seconda che nei concepta verba sia già
fissata la somma di denaro a cui può avvenire la condanna, o si lasci libertà di valutazione (dell'interesse dell'attore) al giudice, cioè
di procedere alla litis aestimatio. Nelle azioni civili, è certa nell'actio certae creditae pecuniae e in alcune azioni penali pretorie. In
tutti gli altri casi, è incerta: in questo caso si distinguono alcuni tipi, in ordine al modo in cui venivano fissati i criteri per la litis
aestimatio. Nelle actiones in personam con intentio incerta, l'oggetto del condemnare è fissato dall'intentio stessa. Nelle altre azioni,
il giudice condanna al quanti ea res est, erit o fuit a seconda che il momento a cui riferire il valore della cosa oggetto dell'aestimatio
sia quello della litis contestatio, della sentenza o un momento precedente alla litis contestatio. La condanna può essere pari
all'aestimatio della cosa, oppure ad un suo multiplo. In origine, questi due diversi modi di formulare la condemnatio influenzavano
l'ammontare della condanna, poiché il primo era il valore oggettivo della cosa, mentre il quidquid... dare facere oportet si riferiva più
all'interesse dell'attore, ossia la valutazione complessiva del danno che l'attore aveva sofferto. In seguito, entrambi vennero
valutato come riferiti all'interesse dell'attore. La condemnatio può essere ulteriormente limitata da una taxatio, che fissa il limite
massimo dell'ammontare della condanna: con essa si fa valere il diritto riconosciuto al debitore di essere condannato nei limiti
dell'attivo patrimoniale.
L'adiudicatio si trova solo nei giudizi divisori, le azioni con cui i contitolari di una cosa o di un'eredità chiedono lo scioglimento della
comunione, ed autorizza il giudice a tale divisione. Tale parte ha effetto costitutivo: nel momento in cui il giudice procede
all'adiudicatio, sorge immediatamente il diritto di proprietà esclusivo, sulla propria quota, in capo ai singoli proprietari dividenti.
Utilizzando queste partes, vengono praticamente costruite tutte le formule, edittali ed anche decretali.
74. I TIPI DELLE AZIONI FORMULARI
Nell'ambito del diritto onorario, ha molta importanza la contrapposizione fra azioni edittali ed azioni decretali. Le prime sono azioni,
civili o pretorie, la cui formula viene proposta nell'editto: le parti hanno una legittima aspettativa alla concessione di tali azioni; la
denegatio actionis si può avere solo se vi siano gravi motivi. Con le seconde, invece, il pretore procede a tutelare fattispecie per le
quali non sia stata prevista una formula edittale e per le quali non siano previste né azioni civili né azioni onorarie: sono quelle azioni
che i giuristi chiamavano actiones decretales, o in factum, perché date nel caso concreto. Le parti, in questo caso, hanno
un'aspettativa condizionata dal potere discrezionale che aveva al proposito il pretore.
In base alla struttura delle formule, si possono individuare alcune grandi categorie di azioni. Per le azioni civili si considerano tre
categorie: i iudicia bonae fidei, le actiones arbitrariae e i praeiudicia. I primi sono actiones in personam nella cui intentio incerta
l'oportēre del convenuto è fondato sulla bona fides e da essa anche limitato. Avevano precise caratteristiche processuali, fondate
sugli amplissimi poteri conferiti al giudice. Potevano farsi valere direttamente dinanzi al giudice privato una serie di difese, che nelle
altre azioni dovevano esser formalmente opposte mediante exceptio: qualsiasi convenzione, anche ex intervallo, che avesse
modificato il contenuto originario dell'obbligazione poteva farsi valere direttamente davanti al iudex. Contrapposte sono le actiones
stricti iuris, una categoria residuale, in quanto racchiude tutte le azioni non di buona fede, che può comprendere sia azioni civili, sia
azioni pretorie.
Nelle actiones arbitrariae il giudice godeva di ampi poteri. Il caso originario è rappresentato dalle actiones in rem e soprattutto dalla
formula petitoria della rei vindicatio. La caratteristica principale è la presenza della clausola arbitraria, che configura i poteri del
giudice in modo più complesso e articolato che nelle altre azioni. Essa si riscontra in tutte le actiones in rem, sia civili che pretorie, e
sulla sua base il giudice emana, in un primo momento, la pronuntiatio de iure, cioè la decisione che stabilisce se sussista il diritto
vantato dall'attore. Se l'accertamento è negativo, il giudice pronuncia l'assoluzione del convenuto ed il processo si chiude. Se,
invece, è positivo, fissa i termini in cui il convenuto deve procedere alla restituzione della cosa: tale pronuncia costituisce il iussum
de restituendo. Se il convenuto procede alla restituzione, viene assolto; se ciò non avviene per causa a lui imputabile, il giudice
procede alla litis aestimatio, che in caso di contumacia è determinata mediante iusiurandum in litem. Sulla base dell'espressione
arbitrio tuo, i giuristi romani riconobbero grande discrezionalità nel determinare l'ammontare della restituzione, nel tener conto
delle contropretese del convenuto, nel valutare o meno la mancata restitutio.
I praeiudicia sono azioni la cui formula è costituita dalla sola intentio: il giudice, dunque, non può pronunciare una condanna e si
tratta quindi di azioni di mero accertamento. L'accertamento a cui si tende può aver ad oggetto sia semplici fatti sia situazioni di
diritto. Sono particolarmente adoperati in relazione alle controversie di stato. L'efficacia della sentenza emessa sulla base del
praeiudicium è discussa: il riconoscimento di efficacia può aver avuto soluzioni differenziate, anche nel tempo. Nel II-III sec. d.C. si è
sicuramente giunti a riconoscere efficacia positiva del giudicato rispetto a tutti i futuri processi.
Le formule delle azioni onorarie sono costruite sulla base di tre modelli fondamentali: le formulae in factum conceptae, le formulae
ficticiae e le formulae con trasposizione di soggetti. Le prime sono costruite sull'alternativa si paret... si non paret. Nell'intentio vi è
l'esposizione di dati di fatto, all'accertamento o al mancato accertamento dei quali segue, nella condemnatio, l'autorizzazione data
al giudice di condannare o assolvere. Le formule possono essere molto complesse, perché l'intentio deve elencare tutti i fatti
rilevanti per la decisione, dato che il iudex è strettamente vincolato al tenore letterale del iudicium e non può considerare fatti in
esso non contenuti. Si hanno sia per actiones in rem, che per actiones in personam ed erano adoperate quando si doveva offrire una
tutela giudiziaria a situazioni giuridiche che non presentavano marcate affinità con situazioni già protette dal diritto civile.
La formula ficticia è caratterizzata dalla presenza nell'intentio della fictio iuris, ossia l'inserzione di una clausola che autorizza il
giudice a tener conto, nella decisione, di una circostanza di fatto che non esiste, nel senso che si considera avvenuto un fatto non
accaduto (finzione positiva) o viceversa (finzione negativa). La fictio estende la disciplina di una fattispecie civilistica ad una
fattispecie analoga, in cui manchi un elemento per l'integrazione della fattispecie civilistica stessa, o permette di tutelare una
fattispecie civilistica, nonostante si sia verificato un fatto estintivo rilevante per il ius civile. Può esser adoperata per configurare
un'azione edittale, ma è più impiegata per estendere le azioni tipiche nei confronti a cui e contro cui tali azioni non spetterebbero.
Le azioni con trasposizione di soggetti sono quelle nella cui demonstratio o intentio si indica, come attore o convenuto, un soggetto,
mentre nella condemnatio è indicato un soggetto diverso. Si adoperano nei casi in cui il diritto viene fatto valere da e contro un
rappresentante processuale e quelli in cui si faccia valere un diritto, la cui fattispecie costitutiva si è verificata, dal lato attivo o
passivo, in testa a persona diversa da chi ha acquistato il diritto.
Un'actio è utilis quando si tratta di un'azione edittale data al di fuori dei presupposti previsti per la sua concessione. È sempre
un'azione decretale.
75. EXCEPTIO E PRAESCRIPTIO
I fatti sottoposti alla decisione del giudice sono rigorosamente delimitati dai concepta verba del iudicium, in modo diverso a
seconda del tipo di formula. Nelle formule-tipo era impossibile tener presenti tutte le variabili che potevano verificarsi nei singoli
casi. Il problema era quello dell'adattamento della formula edittale alla fattispecie concreta. Servivano a questo scopo l'exceptio,
introdotta ad istanza e nell'interesse del convenuto, e la praescriptio, introdotta invece dall'attore. All'origine quest'ultima poteva
essere inserita nella formula anche nell'interesse del convenuto: si distinguevano praescriptio pro actore e pro reo.
Il corrigere il ius civile, ossia far disapplicare, a livello del processo, le norme del diritto civile che non rispondevano più alla coscienza
sociale in evoluzione, era molto difficile vigendo il processo delle legis actiones. I certa verba non erano modificabili dalle parti e le
difese del convenuto fondate su fatti irrilevanti per il ius civile (dolo e violenza) non potevano essere tutelate dal pretore mediante
l'inserimento di apposite clausole. L'unica possibilità era la denegatio actionis.
La funzione di correzione si rese immediatamente possibile nell'ambito del processo formulare, dati i più ampi poteri riconosciuti al
magistrato giusdicente. Le difese del convenuto fondate su fatti irrilevanti per il ius civile, riconosciute però nel ius honorarium,
potevano avere un duplice esito: se tali fatti erano pacifici in iure, il pretore denegava l'azione; se, invece, erano controversi,
rimandava al iudex privatus l'accertamento della fondatezza dell'azione per il ius civile e dell'esistenza dei fatti fondanti della difesa,
la cui inesistenza era configurata con una clausola quale presupposto per l'accoglimento della domanda dell'attore. Se l'esistenza di
tali fatti era provata, il giudice doveva assolvere il convenuto. Lo strumento tecnico utilizzato in origine era la praescriptio pro reo,
una clausola premessa al tenore della formula-tipo, che imponeva al giudice di considerare avvenuta la litis contestatio solo se si
fosse verificato il fatto allegato dal convenuto come fondamento per l'ingiustizia della domanda attrice, o eventualmente per far
valere difese di carattere procedurale. Se la presenza di dolo o violenza era accertata, il giudice doveva considerare non avvenuta la
litis contestatio e non poteva pronunciare la sentenza sul merito della causa, perché sprovvisto di tale potere.
Nel I sec. a.C. l'exceptio sostituì questo mezzo. L'exceptio è una clausola inserita nella formula fra l'intentio e la condemnatio e
rappresenta un'ulteriore condizione negativa della condemnatio stessa: per arrivare alla condanna il giudice deve accertare la
fondatezza dell'intentio e l'infondatezza dell'exceptio opposta dal convenuto. Aveva un'efficacia molto più vantaggiosa per il
convenuto: funzionava come condizione della condanna; di conseguenza, la litis contestatio esplicava i suoi effetti estintivi e la
pronuncia del giudice aveva effetto definitivo (così non era per la praescriptio pro reo).
Era così lo strumento più idoneo a corrigere ius civile: dinanzi ad un'azione civile il convenuto poteva limitarsi a contestare
l'esistenza del diritto vantato dall'attore, senza far inserire exceptio nella formula. Se, invece, opponeva fatti non previsti dal diritto
civile, ma rilevanti per la coscienza sociale, doveva far inserire un'exceptio nel iudicium, altrimenti il giudice non sarebbe stato
autorizzato, sulla base dei concepta verba, a tener conto delle difese. La rigidità del iudicium come fondamento dei poteri del
giudice spiega come l'exceptio trovasse ingresso anche in tutte le azioni pretorie, quando i concepta verba non permettessero al
giudice stesso di prendere in considerazione fatti allegati a propria difesa dal convenuto e ritenute meritevoli di tutela dal pretore.
La rigidità incideva anche sul modo in cui l'attore reagiva all'exceptio: se le controdifese rientravano nell'ambito del thema
decidendum posto dall'exceptio, l'attore poteva proporre le sue deduzioni dinanzi al giudice, altrimenti doveva far inserire nella
formula un'ulteriore clausola, che autorizzasse il giudice a considerare i fatti contrari all'accoglibilità dell'eccezione: questa clausola è
la replicatio. Gaio parla anche di duplicatio, richiesta dal convenuto per portare all'attenzione del giudice fatti che rendono
infondata la replicatio, e di triplicatio, chiesta dall'attore per paralizzare la duplicatio. Di clausole accidentali che vanno oltre non c'è
traccia nelle fonti.
I giuristi romani distinguevano le eccezioni a seconda che potessero venir avanzate in qualsiasi momento od occasione, e contro
qualsiasi persona (peremptoria), o che avessero efficacia limitata nel tempo o fossero opponibili solo nei confronti di determinate
persone (dilatoria). Gaio avverte che la differenza riguarda solo il giudizio di opportunità che l'attore deve compiere nel momento in
cui il convenuto manifesta l'intenzione di opporre l'exceptio.
Se l'eccezione era fondata, il giudice doveva assolvere il convenuto. Non esistono eccezioni con l'effetto di autorizzare il giudice a
condannare il convenuto ad una somma minore di quella cui si sarebbe pervenuto in base al tenore della formula. In vari casi del
periodo classico, però, si riscontrano sentenze di condanna ad una somma minore, per il fatto che il giudice aveva calcolato la
somma tenendo conto della diminuzione dovuta alle circostanze dedotte nell'exceptio.
La praescriptio pro actore ha esaurito la sua funzione nel processo formulare, non lasciando tracce nelle fonti giustinianee. Serviva a
delimitare l'oggetto della litis contestatio nelle formule delle actiones in personam con intentio incerta al quidquid dare facere
oportet: i rapporti per i quali si poteva esperire tale azione erano complessi, il che comportava per l'attore la necessità-opportunità
di agire solo per una parte delle pretese che poteva vantare in base a tali rapporti. Se l'attore agiva puramente, non poteva più
riproporre l'azione in un secondo momento. Un esempio è i caso di credito a rate derivante da stipulatio. Per evitare gli effetti
dannosi dell'esercizio puro e semplice dell'azione, l'attore poteva far introdurre nella formula la praescriptio ea res agatur cuius rei
dies fuit: in questo modo, la litis contestatio era limitato alle rate scadute, e l'attore poteva riproporre l'azione.
76. IL PROCESSO IN IURE
La convocazione in giudizio del convenuto, nel processo formulare classico, avveniva mediante l'in ius vocatio, accompagnata da
un'edictio actionis stragiudiziale, in cui l'attore indicava al convenuto il fondamento dell'azione. Colui che dolosamente non si faceva
trovare per ricevere l'intimazione, veniva considerato indefensus e ne subiva le sanzioni: così accadeva anche per chi era
semplicemente assente, salvo che qualcuno volesse assumerne la difesa. Il convenuto vocato in ius era tenuto a comparire
immediatamente dinanzi al magistrato, a meno che per garantire la comparizione non avesse dato un vindex. Questa procedura
poteva essere evitata con il vadimonium stragiudiziale, con cui il convenuto prometteva di comparire dinanzi al pretore.
Per Roma e l'Italia, il magistrato competente è il praetor urbanus e, dal 241 a.C., anche il praetor peregrinus a seconda se la causa si
svolga fra cittadini romani o se una delle parti fosse straniera. Nelle province, si litigava per formulas dinanzi al governatore
provinciale.
La fase in iure si esauriva nel giorno stesso della presentazione: ove non fosse possibile, il convenuto prometteva con la cautio
vadimonium sisti di comparire ad udienza fissa e, nel caso non comparisse, di pagare come pena convenzionale una somma di
denaro. Se non prestava la cautio, il convenuto era indefensus. Il primo atto della fase in iure è la postulatio actionis, l'indicazione
informale della formula che l'attore vuole richiedere. Prima o dopo la postulatio, l'attore doveva specificare i fatti su cui si fondava la
richiesta.
Iniziava dopo una fase volta ad acclarare i punti sui quali si incardinava la controversia, e che dovevano essere tenuti presenti per
impostare la formula da rilasciare a parti e iudex. Si poteva constatare che non sussisteva una lite che giustificasse il processo nel
caso in cui il convenuto ammettesse il fondamento dell'azione, cioè con la confessio in iure. Se questa aveva per oggetto un credito
di denaro, si apriva la via al processo esecutivo. Nelle altre actiones in personam, si instaurava un processo sull'ammontare della litis
aestimatio, quando questa fosse controversa. Si dava un'actio ex confessione, con la quale si ordinava al giudice di tener per
accertato il diritto o il fatto oggetto della confessio, e di limitare la sua cognizione agli altri aspetti della controversia. Nelle actiones
in rem, la confessio poteva forse sostituire la pronuntiatio de iure.
Analoga funzione aveva l'interrogatio in iure, un mezzo concesso dal pretore all'attore per ottenere dal convenuto informazioni, che
praticamente costituivano una parziale confessione. Se il convenuto rispondeva affermativamente, il fatto oggetto dell'interrogatio
non poteva più essere posto in discussione e, con una formula ex responsione, il pretore ordinava al giudice di decidere dando per
accertato il fatto oggetto dell'interrogatio-responsio. L'operatività di questo mezzo era assicurata con la sanzione del convenuto che
si rifiutava di rispondere.
Altro mezzo che poteva eliminare la controversia era il iusiurandum in iure. Nell'actio certae creditae pecuniae, il pretore
permetteva all'attore di deferire al convenuto il giuramento sul fatto che non esistesse il credito vantato. Il convenuto che giurava, o
l'attore che vedeva rifiutato il giuramento, risultavano vittoriosi. Il convenuto veniva protetto con la denegatio actionis, mentre se
non prestava il giuramento era indefensus. Sia l'attore che il convenuto potevano deferire il giuramento alla controparte, e la parte a
cui è stato deferito poteva riferirlo alla controparte (iusiurandum volontarium). Produceva effetti solo il giuramento prestato, perché
il giuramento non prestato aveva conseguenze solo al livello delle argomentazioni dinanzi al iudex privatus. Gli effetti sono
denegatio actionis o exceptio iusiurandi per il convenuto, o actio ex iureiurando per l'attore, con la quale il giudice non poteva
mettere in discussione il fatto accertato con il giuramento.
Si arriva così al momento centrale della fase in iure: la determinazione del iudicum sul quale deve avvenire la litis contestatio. La
formula indicata dall'attore poteva essere inadeguata e, di conseguenza, adattata alle circostanze del caso con l'inserimento di
exceptiones e praescriptiones. Ove le differenze incidessero su aspetti fondamentali per l'individuazione dell'azione, poteva essere
concessa un'altra azione edittale o un'actio in factum o utilis. In questa fase il pretore procede alla causae cognitio, il controllo per
stabilire se la situazione di fatto dedotta dall'attore era astrattamente meritevole di tutela. Da tale cognitio era escluso
l'accertamento della fondatezza delle ragioni addotte. La causae cognitio era sempre necessaria quando si concedeva ex novo un
mezzo decretale o quando si adattava un mezzo edittale, per il fatto che ne veniva chiesto l'utilizzo al di fuori dell'ambito di
applicazione. La scelta del tenore definitivo del iudicium spettava al pretore, che faceva valere il proprio parere nel momento in cui
dava alle parti l'autorizzazione a procedere alla litis contestatio.
L'individuazione del iudicium in base al quale il giudice deve risolvere la controversia, può dare luogo ad esiti diversi. Se la pretesa
non era tutelata in via d'azione, né civile né pretoria, non costituiva fondamento sufficiente per la concessione di un'actio in factum,
e il pretore faceva notare alle parti che l'azione non esisteva in astratto, quindi non poteva essere concessa in concreto. Non era
però una denegatio actionis, che invece ricorreva quando l'azione era configurabile in linea di diritto, ma infondata in fatto per la
mancanza degli elementi costitutivi. La denegatio actionis ricorreva anche quando le exceptiones richieste dal convenuto erano
fondate. Non aveva gli effetti della litis contestatio, quindi non produceva la consumazione dell'azione: in questo caso, però,
al'attore era imposto di non ripresentare l'azione con una cautio amplius non peti.
Le parti dovevano poi accordarsi sul giudice, che doveva rispondere a determinati requisiti: sesso maschile, capacità di agire e
assenza di cause di infamia. Di regola, le parti sceglievano un nominativo inserito nell'album iudicium, che dal I sec. a.C. era una lista
dei giudici. Il ricorso a tale albo serviva, nella tarda repubblica, a regolare i casi in cui le parti non fossero d'accordo sul nominativo
del giudice: si procedeva ad una sortitio del nominativo, che non poteva essere rifiutato dalle parti, pena denegatio actionis o
indefensio. La nomina del giudice avveniva prima della litis contestatio: risulta infatti che la litis contestatio avvenisse sulla formula
già contenente il nome del giudice.
77. LA LITIS CONTESTATIO ED IL CONCORSO DELLE AZIONI. LA PLURIS PETITIO
Dopo l'accordo sulla formula e sul giudice, si passava alla fase apud iudidem. Era solo necessario formalizzare l'accordo stesso,
perché risultasse al di là di qualsiasi dubbio, mediante la litis contestatio. Il problema della natura della litis contestatio era connesso
con la valutazione della datio iudicis e del iussum iudicandi. Due sono gli orientamenti di fondo:
la litis contestatio era un vero e proprio contratto formale, da cui nasceva l'obligatio iudicati: l'aspetto fondamentale per la
prosecuzione del processo dinanzi al giudice privato è la litis contestatio intesa in questo modo, mentre la datio iudicis, che autorizza
l'instaurazione del processo sulla formula concordata, ed il iussum iudicandi, con cui si ordina al giudice di giudicare, restano in
secondo piano e sono configurati in modo separato dalla litis contestatio (visione privatistica).
l'importante è la concessione della formula e il conseguente ordine di giudicare impartito al iudex, mentre la disponibilità
delle parti ad assoggettarsi al processo rimane in secondo piano. La litis contestatio perde qualsiasi individualità come atto di parte
ed è semplicemente il momento finale del processo in iure (visione statualistica).
Quello che importa è vedere come i prudentes configuravano questo momento del processo. Data l'importanza dell'accordo delle
parti, l'espressione della loro volontà e soprattutto l'adesione del convenuto al iudicium doveva essere collegata ad un momento
facilmente identificabile nell'iter procedimentale. La dottrina, sulla base delle fonti, identifica la litis contestatio con la reciproca ed
espressa accettazione del iudicium. Tale dictare et accipere iudicium può avvenire solo dopo che, con la datio iudicii, il pretore
avesse autorizzato la litis contestatio su quella formula. Come struttura, si è pensato alla lettura della formula da parte dell'attore e
la seguente esplicita accettazione della stessa da parte del convenuto.
Parti e magistrato cooperano nell'instaurazione del iudicium e partecipano alla litis contestatio. La formula è così oggetto di un
accordo fra le parti e contiene le istruzioni che il magistrato dà al giudice per la soluzione della controversia sulla base dell'accordo
delle parti. Un altro problema è quello delle qualificazioni eventualmente presenti ai giuristi romani, che si pongono sul piano di
stabilire se vi sia o meno un'analogia con la stipulatio. Le posizioni sono contrastanti:
Ulpiano avvicina il iudicio contrahi (restare obbligati attraverso la formula) ed il suo effetto (obligatio iudicati)allo
stipulatione contrahi.
Paolo, invece, nega che si potesse applicare la regola in base alla quale nella stipulatio, ove i verba fossero ambigui, il
contratto era nullo se non risultava l'accordo delle parti sull'oggetto dell'obligatio. Nei iudicia doveva prevalere il senso dato
dall'attore ai verba stessi.
Aristone propende per l'analogia fra litis contestatio e verborum obligatio.
La litis contestatio aveva effetti articolati in modo complesso, tutti coordinati alla soluzione della controversia. Funzione specifica
era quella di fissare i termini della controversia: il momento in cui avviene la litis contestatio è quello a cui il giudice deve riportare la
sua decisione, se non diversamente disposto dal iudicium. Questo dà luogo agli effetti conservativi della litis contestatio: il diritto
dell'attore è considerato insensibile alle variazioni intervenute nel rapporto sostanziale successivamente alla litis contestatio. Nel I
sec. d.C., sorse una controversia fra sabiniani e proculeiani sulla disciplina del caso un cui l'attore fosse stato soddisfatto dal
convenuto dopo la litis contestatio. I primi propendevano per l'assoluzione, anche se i verba formulae non autorizzassero il giudice a
procedere in tal modo. I secondi, invece, erano per la soluzione più rigorosa, ovvero che il iudex dovesse riportare la sentenza al
momento della litis contestatio e condannare il convenuto; l'assoluzione era possibile solo se prevista nella formula.
La litis contestatio è il momento in cui si verifica l'effetto preclusivo sancito dal principio bis de eadem re ne sit actio: l'azione non
può riproporsi, qualsiasi sia stato l'esito del processo, e si sia o meno arrivati alla sentenza. Rispetto all'azione si ha una preclusione,
che produce l'estinzione del diritto dedotto in giudizio: questi sono gli effetti estintivi della litis contestatio. Nelle legis aciones tale
preclusione si attua ipso iure: il giudice dell'azione successivamente intentata doveva assolvere il convenuto. Nel processo formulare
la preclusione in parola opera in due modi diversi: ipso iure, quando nel primo processo si è avuto un iudicium legitimum su un'actio
in personam con formula in ius concepta; ed ope exceptionis, con l'inserzione nella formula dell'azione riproposta dell'exceptio rei
iudicate vel in iudicium deductae, in tutti gli altri casi.
Per quanto riguarda l'identificazione dell'azione, non vi sono problemi se si tratti della riproposizione della stessa formula fra le
stesse persone (eadem personae). Il principio del ne bis in eadem aveva portata più ampia nel caso di eadem res, in cui res viene
inteso in senso ampio, cioè affare dal quale possono scaturire pretese ed azioni diverse. Questo si affronta, in dottrina, sotto il
profilo dei limiti oggettivi e soggettivi della cosa giudicata. Dal punto di vista dei secondi, l'identità dei soggetti non si riduce al caso
in cui attore e convenuto siano le stesse persone fisiche: l'azione è preclusa anche ai successori a titolo universale, a titolo
particolare e ai terzi la cui posizione venga considerata come subordinata all'attore. In alcuni casi, la preclusione opera anche nei
confronti del rappresentante processuale dell'attore. Si ha eadem personae anche laddove sia ha, dal lato passivo o attivo, una
pluralità di soggetti, legittimati per l'intero rapporto. È il caso del concorso di persone e si applica il regime del concorso alternativo:
esercitata l'azione da parte di o contro una delle persone che concorrono, non v'è più possibilità di agire per o contro l'altra. Nel
tardo diritto classico, se si trattava di situazioni soggettive protette da iudicia bonae fidei, non era più sufficiente la sola litis
contestatio, ma era necessario il soddisfacimento effettivo del diritto dell'attore. Solo nel caso di concorso di persone in un delitto, il
concorso è cumulativo.
Il problema dei limiti oggetti, cioè del concorso di azioni che possono considerarsi nascere dallo stesso fatto storico, è più
complesso. Ha rilevanza decisiva la funzione delle azioni stesse, rispetto alle quali si opera una tripartizione fra:
azioni reipersecutorie, con cui rem persequimur, che vengono date per reintegrare un danno patrimoniale subito e
spettano solo se e nei limiti in cui sussista il danno: sia actiones in rem sia actiones in personam.
azioni penali, con cui poenam persequimur, che sono sempre in personam e portano all'inflizione di una pena privata a
carico di colui che ha commesso un illecito civile o pretorio, la quale consiste nel pagamento di una somma di denaro a favore
dell'offeso. L'entità di tale somma può essere determinata indipendentemente dall'ammontare del danno patrimoniale sofferto, ma
solitamente è un multiplo dell'ammontare del danno stesso. La pena è, però, indipendente dall'effettivo persistere del danno.
azioni miste, con cui rem et poenam persequimur, che risalgono alla fine della repubblica. In epoca classica vi sono due tipi
diversi di azioni: quelle intentate ex his causis, ex quibus adversus infitiantem in duplum agimus, cioè le azioni in cui si verifica il
fenomeno della litiscrescenza, che hanno origine nella manus iniectio delle legis actiones (actio ex lege Aquilia, actio iudicati) e con
le quali con un simplum si otteneva il risarcimento del danno (res), e con un altro simplum la poena; e quelle che nascono da atti
illeciti e quindi hanno, in origine, solo carattere penale a cui viene ricondotto carattere risarcitorio. Queste ultime hanno maggiore
rilevanza pratica e, per il fatto che l'azione penale non concorre con un'azione reipersecutoria, si distinguono dalle azioni penali: il
cumulo con le reipersecutorie è escluso. Restano intrasmissibili nei confronti dei successori a titolo universale e persiste il cumulo,
per l'intero, delle azioni contro i più attori dell'illecito.
Se dallo stesso fatto storico, in base all'integrazione di fattispecie astratte diverse, nascano contemporaneamente un'azione
reipersecutoria ed un'azione penale, esse si considerano, ai fini dell'effetto estintivo della litis contestatio, diverse per la differente
funzione: si può produrre il cumulo fra le due azioni, che vengono esperite entrambe. La funzione della pena spiega il cumulo fra le
azioni penali che possono essere esercitate contro i più autori dell'illecito. Il concorso fra azioni reipersecutorie è, invece, elettivo:
scelta una, non si può esperire l'altra. La consumazione processuale si ha anche quando la struttura e la portata delle azioni siano
diverse, purché tendano a risarcire il medesimo danno.
La consumazione processuale ha una particolare operatività nella caso della pluris petitio, che ricorre quando nella formula l'attore
presenti in modo diverso dalla realtà il proprio diritto o l'obbligo del convenuto, in modo da aggravare la situazione di questi. La
pluris petito si ha quando tale fatto si verifichi nell'intentio, nelle azioni con intentio certa. Il pluris petere ha quattro forme:
re: l'attore chiedeva oggettivamente più di quanto gli spettava, indicava cioè l'oggetto del diritto in modo più ampio di
quanto realmente non fosse.
loco: l'attore chiedeva l'esecuzione della prestazione in luogo diverso da quello concordato con il debitore.
tempore: l'attore agiva prima del termine fissato, o implicito, nel negozio.
causa: il creditore chiedeva una prestazione determinata fra quelle oggetto dell'obbligazione alternativa, od una cosa
specifica all'interno del genus promesso dal debitore (quando invece la scelta era rimessa al debitore).
In questi casi, il convenuto andava assolto, perché l'intentio non era fondata: l'attore aveva comunque consumato l'azione. Nel
processo postclassico vengono meno i presupposti della pluris petitio, e quindi viene meno la perdita definitiva del processo per
l'attore pluris petente: il giudice teneva conto dell'effettiva situazione presente e l'attore veniva sanzionato. Può esistere una pluris
petitio anche nella condemnatio certa quando, dedotto esattamente l'ammontare della pretesa pecuniaria nell'intentio, si ponga
una cifra maggiore nella condemnatio. Accertata la fondatezza dell'intentio, il giudice avrebbe dovuto condannare alla cifra posta
nella condemnatio: il pretore, però, interviene concedendo una restitutio in integrum al convenuto. Si poteva verificare anche il caso
del minus petere che, se presente nella condemnatio certa, costringeva l'attore ad accontentarsi della minor somma, poiché il
pretore non concedeva l'in integrum restitutio.
78. L'INDEFENSIO E LA RAPPRESENTANZA PROCESSUALE
L'indefensio si poteva avere nella fase dell'instaurazione del giudizio, quando il convenuto si rendesse irreperibile per non vedersi
intimare l'in ius vocatio o non ottemperasse alla stessa, senza dare un vindex. Nel caso del vadimonium, si aveva indefensio con il
vadimonium desertum, ossia la mancata comparizione. Nella fase in iure si aveva indefensio quando il convenuto non collaborava
all'instaurazione del processo, nonostante l'invito del magistrato, e con il rifiuto di procedere alla litis contestatio sulla formula
oggetto della datio iudicii. Il convenuto incorreva nell'indefensio anche quando non adempiva agli oneri previsti per una corretta
assunzione della lite. Rilevava qui la materia delle cauzioni processuali: né convenuto né attore dovevano prestare particolari
garanzie, sotto forma di cautio o satisdatio, salvo l'eccezione della satisdatio iudicatum solvi nelle actiones in rem, in base alla
specifica natura dell'azione o a seconda delle caratteristiche del convenuto. Era una garanzia molto articolata che prevedeva tre
diverse clausole. La ob rem iudicatam era rivolta ad assicurare, mediante garanti, il pagamento della somma oggetto dell'eventuale
condanna. Con la ob rem bene defensam il convenuto si impegnava, nel caso la satisdatio fosse prestata prima della litis contestatio,
ad assumere correttamente la defensio. Con la terza garantiva di non essersi comportato dolosamente e di astenersi, nel corso del
processo, da qualsiasi comportamento doloso: questa aveva la portata di una clausola di chiusura.
La sanzione era diversa a seconda che si trattasse di actiones in personam o di actiones in rem. Nelle prime si dava subito luogo alla
missio in bona, i cui effetti potevano essere fatti cessare dall'assunzione della defensio in tutte le azioni diverse dall'actio iudicati.
Nelle seconde, invece, la sanzione era più macchinosa: il pretore interveniva per far sì che si attuasse un'inversione della situazione
possessoria. A questo scopo, se la cosa mobile era presente in iure, il pretore autorizzava l'attore ad impossessarsene. In ogni altro
caso, concedeva un ulteriore mezzo giudiziario a carico dell'indefensus. Per la rei vindicatio di cosa mobile non presente in iure, si
trattava dell'actio ad exhibendum, un'actio in personam nella quale l'attore risultava vittorioso se provava la legittimazione passiva
del convenuto alla rei vindicatio. Era un'azione arbitraria, in cui il convenuto evitava la condanna restituendo la cosa all'attore o
procedendo all'exhibitio in iure. Per la rei vindicatio di cosa immobile, il pretore concedeva l'interdictum quem fundum, nel
presupposto che sussistesse la legittimazione passiva del convenuto alla rei vindicatio per cui non aveva assunto la defensio, che
ordinava di trasferire il possesso della cosa controversa all'attore. In seguito, il pretore concedeva la missio in bona all'attore.
Non v'era indefensio quando il convenuto fosse stato correttamente difeso da un rappresentante processuale sia nella fase in iure
che in quella apud iudicem. Nell'ambito della rappresentanza volontaria, il processo formulare conosce due tipi di rappresentanti: il
cognitor ed il procurator ad litem. Il cognitor è istituto di ius civile. Viene nominato mediante una dichiarazione, esplicita, rivolta alla
controparte presente. Il cognitor può essere assente, ma deve successivamente accettare l'ufficio. La datio cognitoris è una
dichiarazione recettizia, ma è dubbio se servisse l'assenso della controparte. Il cognitor conduce il processo in nome proprio. Il
iudicium relativo è quindi una formula con trasposizione di soggetti. La litis contestatio compiuta dal cognitor dell'attore produce la
consumazione dell'azione. La condanna può avvenire solo a favore e contro il cognitor, L'actio iudicati edittale spetta a favore e
contro il cognitor, ma il pretore la concede in via utile a favore e contro il dominus litis, a meno che il cognitor non sia in rem suam
(quando il mandato processuale è conferito nell'interesse del rappresentante).
La figura del procurator ad litem si è sviluppata da quella del procurator omnium bonorum. I suoi poteri si fondano sull'incarico,
iussum o mandatum, del dominus litis, ma è nominato all'infuori delle forme previste per la datio cognitioris e non necessariamente
in presenza della controparte. In origine, influiva in modo meno incisivo del cognitor sulla situazione giuridica del dominus litis: la
litis contestatio non consumava l'azione e quindi il pretore introdusse la cautio de rato, stipulazione pretoria con cui il procurator
garantiva che il dominus non avrebbe riproposto l'azione e, in caso contrario, prometteva di risarcire il convenuto; se non prestava
la cautio, il pretore denegava l'azione. Il procurator del convenuto doveva prestare la satisdatio iudicatum solvi per essere
considerato idoneus defensor, altrimenti il convenuto era indefensus. In epoca tardo-classica, il procurator dell'attore consumava
l'azione. Si ammise poi che chi, in buona fede, volesse rappresentare l'attore assente, anche senza mandato, potesse farlo, ma
prestando la cautio de rato (analogo caso per il convenuto). La formula prevedeva una trasposizione di soggetti: la condanna, quindi,
poteva avvenire solo a favore e contro il procurator, cui spettava anche l'actio iudicati edittale, che il pretore non dava in via utile al
rappresentato.
Il rappresentante processuale doveva essere capace a ricoprire l'ufficio, ed il rappresentato legittimato a farsi rappresentare in
processo. L'idoneità a rappresentare è esclusa per coloro che non possono postulare, cioè chiedere al magistrato un provvedimento
giurisdizionale, in assoluto, come sordi e minori di 17 anni, o pro aliis, come donne, ciechi e persone escluse in base ad una legge.
Una categoria a parte è formata dalle personae ignominiosae: il divieto non era assoluto, potevano postulare per i congiunti più
vicini, ma non farsi rappresentare in giudizio. L'infamia pretoria colpiva i soldati espulsi dal servizio militare, gli auctoritati, le
prostitute, gli attori, la donna che non ha rispettato il tempus lugendi e chi è stato sottoposto a bonorum venditio. Se la regolare
costituzione del rappresentante processuale era controversa, il pretore o denegava l'azione o concedeva un'exceptio procuratoria,
con cui il giudice era autorizzato ad assolvere, nel merito, il convenuto, se l'eccezione risultava fondata. Se il problema riguardava il
rappresentante del convenuto, il pretore decideva se il convenuto era o meno indefensus. Tale decisione poteva sempre essere
sottoposta a controllo.
Era applicata anche la rappresentanza legale o necessaria, nei casi del curator furiosi, del pupillo, delle donne sotto tutela e dei
prodigi. In origine, il tutore del pupillo e del furioso, se attori, dovevano prestare la cautio de rato. Nel I sec. d.C. consumavano
l'azione, quindi la cautio non era più necessaria, e l'actio iudicati veniva data dal pretore a favore dell'incapace. Nel caso
rappresentassero il convenuto, non prestavano la cautio iudicatum solvi e l'actio iudicati era data contro il rappresentante stesso.
79. I MEZZI AUSILIARI DEL PROCESSO FORMULARE
Dalla fine del III sec. a.C., gli interventi del pretore urbano avvengono anche attraverso i mezzi ausiliari del processo pretorio, che si
fondano sull'imperium del pretore: interdicta, stipulationes praetorie, restitutiones in integrum e missiones in possessionem.
Gli interdicta si avvicinano di più alle formulae e danno luogo alla procedura interdittale. Nella configurazione classica, sono gli ordini
emanati dal pretore con cui si ingiunge al destinatario di tener un certo comportamento, su richiesta del soggetto interessato a che
il destinatario tenga tale contegno. Il magistrato non accerta se sussistano i fatti posti alla base della richiesta dell'istante, ma solo se
il provvedimento sia stato richiesto per una delle fattispecie previste nell'editto.
I prudentes operavano una tripartizione degli interdetti in funzione del contenuto dell'ordine pretorio:
interdictum restitutorium, che imponeva al destinatario la restituzione del possesso o della detenzione di una cosa, o il
ripristino della situazione di fatto precedentemente esistente.
interdictum exhibitorium, con cui il pretore ordinava al destinatario di procedere alla presentazione in iure di persone o
cose, al fine di prendere in ordine alle stesse determinati provvedimenti.
interdictum prohibitorium, col quale si imponeva al destinatario di astenersi dal compiere qualcosa.
L'interdetto poteva essere emanato solo alla presenza del destinatario, e quindi la procedura interdittale presupponeva la presenza
di entrambe le parti in iure. Al convenuto disobbediente si applicavano le sanzioni dell'indefensio nell'actio in personam. A questo
punto, si prevedeva l'accertamento della fondatezza dell'ordine emesso dal pretore nel caso concreto.
Accertamento che può avvenire in due modi: dalla prima metà del I sec. a.C., il pretore permetteva al destinatario di richiedere un
processo a tale scopo, mediante la richiesta della formula arbitraria. L'interdictum doveva essere restitutorium o exhibitorium ed il
convenuto doveva richiedere tale formula prima di allontanarsi dal luogo in cui era stato emanato l'interdetto. La formula era
un'actio arbitraria: il giudice accertava l'esistenza dell'obbligo di restituire o di esibire, ed invitava il convenuto ad adempiere
all'ordine del magistrato. Se il iussum non veniva eseguito, seguiva la condanna al quanti ea res erit.
Se il destinatario non voleva o non poteva chiedere la formula arbitraria e non eseguiva l'ordine ricevuto, l'attore poteva ricorrere al
procedimento per sponsionem, che consisteva in due stipulazioni dette sponsio et restipulatio. Il convenuto che non collaborava o
non si presentava in iure era sanzionato per indefensio. La somma della sponsio et restipulatio era fissata dall'attore e non poteva
superare il valore della causa. Si trattava di una sponsio poenalis, perché la somma promessa veniva effettivamente riscossa dalla
parte vittoriosa. In seguito, il pretore concedeva le formulae per le due actiones ex stipulatu, a cui si aggiungeva dal I sec. a.C. una
terza formula, che aveva la stessa funzione della formula arbitraria nel procedimento sine poena. Il procedimento cum poena era il
più antico e trovava origine in un periodo in cui il processo formulare fra cives era ancora limitatamente praticato. Resta il problema
dell'esecuzione o del soddisfacimento dell'interesse dell'attore: forse era una forma di autotutela garantita dallo stato, ma era
possibile che la somma di denaro pagata in base alla sponsio avesse originariamente anche funzione risarcitoria.
Abbastanza risalenti sono le stipulationes praetorie. In esse, la tutela non presuppone l'organizzazione di processi formulari tra cives,
per il fatto che dalla stipulazione nasce a favore del soggetto un'actio ex stipulatu, che si poteva far valere nel sistema delle legis
actiones. Il magistrato obbligava un soggetto ad assumersi, mediante una verborum obligatio, nei confronti di un altro soggetto
un'obbligazione dal contenuto diverso secondo i vari casi. La prestazione era un comportamento infungibile, quindi l'assunzione
dell'obbligazione dipendeva dall'obbedienza dell'intimato all'ordine del pretore: l'eventuale disobbedienza portava a sanzioni
indirette. Se la stipulatio praetoria aveva funzione strumentale rispetto al processo, la coazione indiretta era rappresentata dalla
circostanza che la prestazione della promessa configura un onere per il raggiungimento di un certo fine che vuole raggiungere la
parte tenuta a prestare la cautio, e che essa non può conseguire, se non la presta. Altrove, serviva a creare una nuova difesa
sostanziale.
Con la restitutio in integrum si indicava il risultato di provvedimenti presi dal pretore in sede giurisdizionale, che si risolvevano in una
datio actionis. Il magistrato esercitava la iurisdictio come se un determinato fatto giuridico non fosse avvenuto. Le restitutiones in
integrum erano previste in un apposito capo dell'editto. Venivano concesse anche contro semplici fatti giuridici estintivi di diritti
soggettivi, e di atti giuridici viziati, di cui venivano rimossi gli effetti. La concessione di tale mezzo si identificava con la concessione di
un'actio con formula ficticia, in cui si imponeva al giudice di non tener conto del fatto che, per il ius civile, avrebbe estinto il diritto su
cui si fondava l'azione proposta dall'istante. L'operatività cambiò quando tale mezzo venne impiegato nella cognitio extra ordinem in
cui si facevano valere fattispecie protette dal diritto civile od onorario. Qui, il giudice si pronunciava, in un primo momento, sulla
concessione della restitutio, a cui seguiva un'ulteriore fase del giudizio in cui il giudice conosceva delle domande di restituzione
conseguenti alla restitutio.
Funzioni diversificate avevano le missiones in possessionem od in bona. Consistevano in un atto che immetteva l'istante nel possesso
di singole cose o nell'universalità dei beni di un soggetto. Il magistrato stesso proteggeva sia l'ingresso del missus nella disponibilità
dei beni oggetto del provvedimento, sia la continuazione del possesso o della detenzione che ne conseguono.
80. IL PROCESSO APUD IUDICEM E LA SENTENZA
Le fonti sono scarse sulla fase apud iudicem.
Il processo doveva essere portato a compimento entro termini precisi e fissati: per i iudicia legitima il processo si estingueva diciotto
mesi dopo la litis contestatio, mentre nei iudicia imperio continentia entro l'anno di carica del magistrato dinanzi al quale s'era
introdotta la lite. La mors litis aveva effetti sostanziali sfavorevoli all'attore, per la consumazione dell'azione dovuta alla litis
contestatio. Il procedimento in iudicio era relativamente snello, soprattutto grazie al potere ordinatorio del iudex, che faceva da
antidoto ai tentativi del convenuto di tirare le cose in lungo.
Durante questa fase poteva insorgere la necessità di modificare la formula, nel caso di morte di una delle parti: in questi casi si
aveva la translatio iudicii, che trasferisce l'effetto della litis contestatio alla nuova parte. Nel caso di morte o sopravvenuta incapacità
del giudice, si aveva la mutatio iudicis. V'era bisogno quindi di una nuova comparizione in iure, ma non di una nuova litis contestatio.
Per la comparizione delle parti dinanzi al iudex privatus, la lex Iulia prevedeva dei termini che si sostituivano quelli delle XII Tavole.
L'assenza di una delle parti nella fase in iudicio produce l'automatica perdita del processo, a meno che non sia giustificato.
Il giudice determinava anche i modi del procedimento probatorio. Poche erano le regole fissate, al proposito, dal diritto. È discusso
se i giuristi romani abbiano elaborato una disciplina dell'onere della prova: a tal proposito, esistevano delle regole d'esperienza, che
però lasciavano margine alla discrezionalità del giudice. La differenza tra regola d'esperienza e norma giuridica poteva essere molto
difficile in un regime che non prevedeva la motivazione della sentenza. È da notare la mancanza di qualsiasi gerarchia fra i mezzi di
prova, che si esaurivano nei testimoni e nei documenti. Non sembra esserci più traccia del giuramento, a prescindere dal quello
estimatorio.
Sulla base del procedimento probatorio, il giudice doveva decidere le questioni di fatto. Queste, anche se già decise dal magistrato,
dovevano essere comunque affrontate dal iudex privatus. Nel processo romano vigeva il principio che il diritto è conosciuto dal
giudice (iura novit curia): quando le questioni erano complesse, al giudice soccorrevano i responsa dei prudentes ed i rescripta
dell'imperatore.
Il iudex unus deliberava in modo informale la sentenza. Il giudice che tergiversasse senza giustificazioni nell'emanazione, era
soggetto a quelle misure coercitive generalmente previste da parte del pretore a carico del iudex che non adempisse al proprio
ufficio. V'era però la possibilità che il giudice stesso giurasse rem sibi non liquere: in tal caso, veniva sostituito mediante il
procedimento della mutatio iudicis. La sententia era solo il parere del giudice e non rivestiva di per sé del carattere autoritativo. Il
contenuto della condanna era predeterminato dalla condemnatio, ed era sempre una somma di denaro.
La sentenza non era oggetto di impugnazione: o era efficace e definitivamente vincolante, o era nulla e inefficace.
Qualsiasi sistema processuale tende a sottrarre la decisione definitiva dell'organo giudicante alla possibilità di contestazioni. Nel
processo romano si possono individuare due modi per giungere a tale fine. Il più antico consisteva nella preclusione processuale,
cioè nel divieto fatto al giudice di riprendere in considerazione, fra le parti e per lo stesso scopo, l'affare deciso in un processo
precedente; preclusione che era anticipata al momento della litis contestatio. In base al secondo, che è l'attualmente vigente, si
ritiene definitivamente accertata la situazione di diritto o di fatto su cui si fonda la decisione del giudice, e se ne preclude ai giudici
dei processi futuri il riesame: si parla quindi di efficacia positiva del giudicato. Nel processo formulare, in origine, si aveva solo
l'efficacia preclusiva della litis contestatio, indipendentemente dall'esistenza e dal contenuto della sentenza. Si ammise poi che
l'efficacia venisse subordinata al contenuto della sentenza: l'attore poteva opporre all'exceptio rei iudicatae vel in iudicium deductae
la replicatio rei secundum se iudicatae. Nel caso fosse fondata, è discutibile se il giudice del secondo processo fosse tenuto ad
uniformarsi al contenuto della prima sentenza, cioè se si fosse in presenza di un caso di efficacia positiva del giudicato. Anche nel
processo formulare si configurò così un'efficacia positiva del giudicato, in limiti ancora discussi.
81. IL PROCESSO ESECUTIVO
Per la sentenza di condanna si pone il problema del processo esecutivo. Nelle legis actiones l'esecuzione della sentenza era limitata
alla manus iniectio. Nel processo formulare si introdusse l'esecuzione patrimoniale nella forma della bonorum venditio, accanto a cui
restava la possibilità dell'esecuzione personale.
L'obligatio iudicati nascente dalla sentenza di condanna veniva fatta valere mediante l'actio iudicati, una normale azione di
cognizione con intenzio in ius, se la sentenza era emanata in un iudicium legitimum, o in factum concepta, nel caso contrario: essa
presentava il fenomeno della litiscrescenza e veniva quindi data in duplum. L'actio iudicati era introdotta allo stesso modo di
qualsiasi altra azione, anche se era rivolta all'apertura del processo esecutivo. L'attore procedeva all'in ius vocatio, dopo la
decorrenza del tempus legitimum dalla condanna (forse trenta giorni): se il convenuto comparso in iure non contestava il
fondamento dell'azione, si apriva immediatamente la via al processo esecutivo; altrimenti, si aveva la litis contestatio sull'actio
iudicati, con l'effetto della litiscrescenza.
Dopo la lex Iulia, l'esecuzione personale si fondava ancora su un'addictio, e nel caso di resistenza del debitore il pretore ne
autorizzava la ductio. Il debitore rimaneva libero, ma era privato in fatto della libertà di movimento. L'addicitio non portava più,
però, alla messa a morte o alla vendita del debitore, che poteva invece riscattarsi mediante la prestazione del proprio lavoro. La
funzione di tale esecuzione era molto limitata, e consisteva nell'esercitare una coazione indiretta sul debitore, perché venisse
adempiuta l'obligatio iudicati.
Prevaleva, quindi, l'esecuzione patrimoniale nella forma della bonorum veniditio. Per tutto il periodo classico, essa è un'esecuzione a
carattere generale: in seguito ad essa e qualsiasi sia il credito per cui si procede, il debitore viene a perdere tutto il patrimonio. Di
conseguenza, devono trovare soddisfacimento tutti i creditori. L'esecuzione iniziava con la missio in bona nei confronti del debitore
rispetto all'actio iudicati, che veniva disposta con un decretum del pretore in favore dei creditori che l'avevano richiesta. Era
necessario permettere a tutti i creditori d'inserirsi nel procedimento e a tale scopo serviva la pubblicità che il pretore imponeva
mediante avvisi esposti in pubblico. La proscriptio doveva durare trenta giorni, se si procedeva contro un soggetto vivente, per
quindici se i beni sottoposti ad esecuzone era di un defunto. Nel frattempo, il pretore nominava un curator bonorum per il disbrigo
degli affari urgenti. Scaduto il termine per la proscriptio, senza che le pretese dei creditori fossero state soddisfatte (il che
comportava l'infamia per il debitore), i creditori procedenti eleggevano un magister bonorum, di cui si dava notizia con altra
proscriptio. Egli amministrava i beni esecutati e preparava la lex bonorum vendundorum, in cui si fissavano le condizioni per la
venidta in blocco dell'attivo stesso. La lex doveva essere approvata dal pretore: dopo il decorso di un termine, il magister procedeva
alla vendita dei beni al bonorum emptor, in base alla migliore offerta, determinata in funzione della più elevata percentuale sui
crediti che i singoli offerenti si sono dichiarati disposti a pagare (si poteva tener conto anche della solvibilità e delle garanzie offerte).
Il bonorum emptor è, per il ius honorarium, successore universale del debitore esecutato o de debitore defunto senza eredi. La
bonorum venditio produceva effetti civili solo in seguito all'usucapione. Il bonorum emptor era tenuto sul piano del diritto onorario,
solo nei limiti della percentuale offerta ed assumeva, comunque, la posizione che aveva il debitore prima dell'inizio della procedura.
La tutela giudiziaria dei diritti vantati da e contro il bonorum emptor avveniva in due modi diversi: con l'actio Rutiliana, formula con
trasposizione di soggetti, se il debitore era vivente; con l'actio Severiana, formula ficticia in cui il bonorum emptor era considerato
come erede del defunto, se il debitore defunto non aveva lasciato successori universali.
Una particolare esecuzione patrimoniale è la bonorum distractio, che si applicava contro l'incapace sprovvisto di rappresentante
legale o contro un appartenente alla classe senatoria. Il curator bonorum procedeva alla vendita di singoli beni del debitore per
soddisfare con il ricavato i creditori: veniva così evitata l'infamia e, soddisfatti tutti i creditori, ciò che rimaneva del patrimonio era
restituito al debitore esecutato.
Il debitore caduto senza colpa in insolvenza poteva evitare l'esecuzione personale e l'infamia con la cessio bonorum: cedeva tutti i
suoi beni ai creditori, mediante una dichiarazione del magistrato che successivamente immetteva i creditori stessi nel patrimonio
così ceduto. Seguiva la bonorum venditio. La cessio venne definitivamente regolata da una lex Iulia di Cesare o di Augusto.
82. LA COGNITIO EXTRA ORDINEM
Contemporaneamente alla lex Iulia iudiciorum privatorum, erano già operanti i fattori che avrebbero creato forme di processo
destinate a divenire, successivamente, il processo ordinario dell'epoca postclassica e bizantina. Si trattava di forme all'origine
differenziate tra loro, accomunate sotto il nome di cognitio extra ordinem. Tale denominazione indicava la caratteristica essenziale
ed unificante di questo tipo di processo: quella di svolgersi al di fuori delle forme dell'ordo iudiciorum privatorum. Il tratto essenziale
che unisce le varie cognitiones è il venir meno della forte impronta privatistica del processo per formulas. Ora, il processo si svolge
per l'intero dinanzi ad un organo dello stato. Scompare così la bipartizione del processo e la sentenza è il comando autoritativo di un
organo appartenente all'autorità pubblica, nell'ambito della quale i giudici si strutturano in una gerarchia, che culmina
nell'imperatore da cui tutti gli organi giudicanti della cognitio traggono il loro potere. L'instaurazione del processo non dipende più
dalla collaborazione del convenuto e s'introduce il giudizio in contumacia. Solo nella cognitio, il convenuto può far valere, entro certi
limiti, le pretese che egli vanta contro l'attore non solo per la compensazione giudiziale, ma anche per ottenere una sentenza di
condanna dell'attore. Inoltre, l'impronta pubblicistica del nuovo processo privato era omologa al progressivo mutamento
dell'assetto politico-costituzionale del principato.
La struttura e la funzione del processo cognitorio dipendono strettamente dalla figura del princeps. La ricerca dei precedenti
repubblicani delle cognitiones ha quindi scarso rilievo in relazione all'indagine sui modi in cui si è sviluppata la cognitio extra
ordinem imperiale. Alcune cognitiones pretorie erano indubbiamente usate nel processo per formulas, ma sembrano non collegarsi
con le cognitiones imperiali.
Cognitiones si hanno sia nella prassi metropolitana, sia in quella provinciale. Nella prima, iniziano con il principato di Augusto e sono
tutte da riportare al potere dell'imperatore, che decide o in proprio o creando istanze giurisdizionali a carattere istituzionale e
permanente. Nel tardo principato, la giurisdizione imperiale rientrava nel potere istituzionale unitario del princeps, che coinvolge sia
la funzione giudiziaria che quella normativa. Il problema dell'individuazione su quali poteri augustei si fondava l'esercizio della
giurisdizione si pone per Augusto e per i suoi successori. Diocleziano si riferisce ad una specifica concessione fatta ad Augusto nel 30
a.C., avente ad oggetto la potestà di giudicare in grado d'appello. La giurisdizione in primo grado, esercitata di rado dal princeps solo
in materia criminale, poteva fondarsi soltanto sull'imperium proconsulare maius et infinitum, conferitogli già nel 27 a. C. o nel 23 a.C.
L'imperatore poteva organizzare processi come il pretore repubblicano. Nella diversa situazione politica, però, difficilmente Augusto
avrebbe potuto utilizzare il processo repubblicano: la scelta di nuove strade era inevitabile. Da Augusto, il princeps giudica, in
materia privata, in grado d'appello dalle sentenze emanate nelle varie cognitiones. Già nel I-II sec. d.C. la possibilità d'appello viene
estesa anche alle sentenze dell'ordo. Nel III sec. d.C., la giurisdizione d'appello è esercitata dal praefectus praetorio, che decide vice
sacra.
Da Augusto sino alla fine del II sec. d.C., le cognitiones vengono introdotte come istanze di primo grado, per proteggere situazioni
che, nell'ordo, non trovavano tutela o ne avevano una inadeguata. Queste vengono affidate a magistrati del sistema repubblicano,
ma anche a funzionari imperiali, come il praefecti aerarii o il praefectus urbi. La cognitio permette l'instaurazione di processi
contenziosi fra l'amministrazione imperiale ed i privati per i rapporti patrimoniali. Va ricordato poi lo sviluppo di un'ampia
competenza, anche in materia civile, del praefectus urbi e dei praefecti annonae e vigilum, che appartegono al livello più elevato dei
funzionari centrali dell'amministrazione imperiale. Per gli ultimi due, la competenza è in materia penale, mentre per il primo si
amplia una competenza civile in origine per materie specifiche, che trovavano già tutela nell'ordo: alla fine del III sec. d.C., il
tribunale del praefectus urbi diviene il foro generale per le cause civili incardinate a Roma.
Le vicende provinciali della cognitio sono un po' diverse. Durante la repubblica, il governatore provinciale procedeva in forme molto
simili a quelle del processo formulare. Con l'espansione del controllo diretto di Roma sul territorio delle province, sorse la necessità
di tutelare in sede processuale i peregrini nullius civitatis che vi risiedevano: tale tutela veniva attuata direttamente dal governatore,
in forme processuali di tipo cognitorio e caratterizzate rispetto alle cognitiones metropolitane, da una maggiore libertà. Già verso la
metà del II sec. d.C. il processo formulare era in decadenza nelle province, nelle quali, dunque, di è compiuto il passo decisivo verso
l'affermarsi della cognitio come forma ordinaria del processo civile romano.
83. LE FORME DELLA COGNITIO EXTRA ORDINEM
I vari aspetti caratteristici della cognitio rappresentano tutti momenti differenziali nei confronti del processo dell'ordo.
Nelle forme della citazione del convenuto si ha una prima diversità: spariscono l'in ius vocatio, e quindi vindex e vadimonium. La
caratteristica comune alle forme di citazione nella cognitio è la partecipazione, a vario titolo, dell'autorità pubblica, nonostante il
lieve residuare di forme di citazione privata. Le fonti indicano la citazione come la denuntiatio, un atto di parte da consegnare al
convenuto, nel quale si espongono i fatti di causa e si contiene l'invito a comparire dinanzi all'istanza giudiziaria competente. Si
allude anche ad una denuntiatio soltanto orale, della quale può esser redatto un processo verbale nella forma di testatio, ma questa
è una tipologia di citazione esclusivamente privata. Rispetto alla citazione unitariamente intesa, si distinguono la citazione in senso
stretto, cioè l'atto in cui si enunciano pretesa ed invito a comparire dinanzi al giudice, dalla notificazione, che porta la citazione a
conoscenza del convenuto. La denuntiatio scritta viene notificata da un'autorità pubblica, che non sempre coincide con l'ufficio
giudiziario adito. Altre volte, è la stessa citazione che proviene da un organo pubblico, sollecitato a ciò da un ricorso dell'attore, dato
che anche nella cognitio il processo privato si apre su iniziativa di parte. Le fonti usano come categoria generale l'evocatio, che
poteva avvenire in tre modi: attraverso una denuntiatio pubblica, litteris o edictis. La seconda serviva per convocare dinanzi al
magistrato una persona residente in città diversa da quella di comparizione in giudizio, mentre la terza avveniva per pubblici
proclami nel caso di citazione dl convenuto irreperibile, per permettere la procedura contumaciale.
Il processo si svolge anche in assenza del convenuto, cioè in contumacia. Per aprire tale procedura sono necessarie formalità molto
rigorose. La citazione del convenuto, innanzitutto, deve avvenire in una delle tre forme e deve essere ripetuta per tre volte. Segue
l'emanazione di un edictum peremptorium da parte del giudice, in cui si ordina la comparizione al convenuto, pena lo svolgimento
della procedura contumaciale. L'edictum viene portato a conoscenza del convenuto in forme non del tutto accertate. In origine, la
contumacia comportava la perdita automatica del processo, ma successivamente si instaurò il principio che l'attore, per uscire
vittorioso, dovesse comunque provare il suo diritto, anche se in una procedura unilaterale. L'assenza dell'attore comportava solo
l'inefficacia della citazione, e quindi la necessità di procedere a nuova citazione per altra udienza.
Le parti espongono in modo informale le proprie ragioni al giudice. Nelle situazioni soggettive protette da ius civile e honorarium,
l'attore ha l'onere di indicare l'azione che vuole esperire. Venuta meno la bipartizione del processo, perde operatività anche
l'exceptio: i fatti posti alla base di altre difese possono essere presi in considerazione dal giudice solo se sollecitato dall'iniziativa di
parte, non vincolata alla formalità. Nella cognitio classica, la litis contestatio era il momento in cui le parti avevano fissato le
reciproche posizioni sul petitum dell'attore. Non aveva più l'effetto estintivo, ma produceva l'efficacia positiva del giudicato,
creando alcuni effetti processuali e sostanziali: fissava l'oggetto della controversia, aggravava la responsabilità del convenuto e
rendeva trasmissibili agli eredi azioni altrimenti intrasmissibili.
Il processo continuava dinanzi all'autorità adita, che poteva delegare ad un iudex datus sia il complessivo giudizio, sia una parte di
esso, rimanendo comunque dominus dell'intero processo.
Nel sistema probatorio cognitorio si notano due tendenze contrapposte. Il magistrato era dotato di un'autonomia quale il giudice
privato non aveva mai avuto, il che ne accentuava, in origine, la libertà in ordine alla valutazione delle prove. In senso opposto, si
considerano due fattori diversi: la dipendenza sempre più accentuata dei giudici della cognitio dall'imperatore, e l'influsso della
prassi provinciale, dove v'era una netta prevalenza della prova documentale su quella testimoniale. Ciò produce, nel III sec. d.C., lo
sviluppo verso quelli che saranno i tipici caratteri del sistema probatorio nel processo tardo-antico: la disciplina dell'onere della
prova e la tendenza ad un sistema sempre più ispirato ad una gerarchia fra i mezzi di prova ed al riconoscimento del valore legale di
alcuni di essi.
La sentenza della cognitio è rivestita di un'efficacia su cui influisce la potestà pubblica del giudice e presenta profonde differenze
rispetto a quella del iudex privatus dell'ordo. La condanna, infatti, non ha più necessariamente ad oggetto una somma di denaro. La
sentenza gode dell'efficacia positiva del giudicato: passata in giudicato essa accerta definitivamente tra le parti la questione
controversa.
È essenzialmente appellabile. L'adpellatio trova origine nella cognitio stessa: i magistrati che procedevano nelle forme cognitorie
derivavano il loro potere da una delega dell'imperatore, ed era ovvio che contro la loro sentenza si ricorresse all'imperatore stesso,
in base al rapporto gerarchico nella potestà di giudicare. Con l'appello, si chiede al giudice superiore di procedere ad un nuovo
giudizio sulla controversia, senza specificare i motivi di doglianza, ma adducendo solo la generica ingiustizia della sentenza. Il
princeps decideva sempre sugli appelli contro le sentenze, di prima e seconda istanza, del praefectus urbi e contro le sentenze del
praefectus praetorio, finché le pronunce di questi erano appellabili. In genere, l'appello veniva delegato dall'imperatore al
praefectus praetorio, poi anche ad altri soggetti scelti dal princeps indipendentemente dalla rilevanza istituzionale delle cariche
eventualmente ricoperte. Nelle province, il governatore esercitava una giurisdizione d'appello contro le sentenze degli altri organi
giudiziari esistenti nell'ambito della provincia. Era sempre possibile, però, l'appello al princeps. Si ha così un numero variabile di
gradi di giurisdizione. L'appello era proposto dal soccombente e presentato al giudice che ha emesso la sentenza, o in via orale
contestualmente alla pronuncia di questa, o per iscritto in termini brevissimi dopo tale emanazione (due o tre giorni). Il giudice a
quo (cui la sentenza è stata appellata) aveva potere discrezionale rispetto accoglienza o rifiuto dell'appello: l'imperatore di
frequente interveniva contro gli abusi in tal senso. Se l'appello veniva accolto, il giudice a quo rilasciava all'appellante le litterae
dimissoriae, dirette al giudice d'appello (ad quem), a cui l'appellante stesso doveva rimetterle entro un termine perentorio. L'appello
aveva effetto sospensivo rispetto all'esecuzione della sentenza, e devolutivo per il fatto che il giudice d'appello conosceva della
controversia senza alcun limite, e la sua sentenza di sostituiva a quella del giudice di primo grado. La sentenza si considerava passata
in giudicato quando non era più appellabile.
Le sentenze erano eseguite nelle forme del processo esecutivo dell'ordo, ma anche in forme proprie della cognitio. Nei casi in cui si
arrivasse a condanna non pecuniaria, la sentenza avrebbe potuto essere eseguita manu militari dall'organo giudicante che l'aveva
emessa. Nel caso di condanne pecuniaria si instaura il pignus in causa iudicati captum: il magistrato che aveva emesso la sentenza
procedeva all'apprensione materiale si singole cose del debitore. Si dà così inizio alla prima forma di esecuzione particolare, che non
investiva l'intero patrimonio del debitore. Le cose apprese erano poi vendute all'asta pubblica, e col ricavato si soddisfavano i
creditori procedenti. L'eventuale supero e le cose non vendute venivano rimessi al debitore sottoposto a pignoramento.
84. IL PROCESSO POSTCLASSICO E GIUSTINIANEO
Le forme e lo spirito del processo cognitorio stanno alla base del processo nel tardo-antico. La fine del processo formulare viene
sancita nel 342 d.C., sotto gli imperatori Costanzo e Costante, con il divieto di usare le formulae come mezzo di introduzione del
giudizio. Gli sviluppi portano alla configurazione di un processo in cui prevale la forma scritta: la procedura perde, così, le
caratteristiche di oralità e immediatezza del processo formulare, burocratizzandosi.
Nel tardo-antico gli organi giudicanti vengono profondamente riorganizzati in una struttura ispirata agli assetti gerarchici che
caratterizzano la complessiva organizzazione dello stato. Giudice ordinario per i processi in primo grado è il governatore della
provincia. Per le capitali dell'impero ed il territorio da esse dipendente, giudice di primo grado è il praefectus urbi, ed in Roma anche
il vicarius urbis Romae. Entrambi hanno anche giurisdizione d'appello nei confronti delle sentenze emanate dai governatori delle
province che fanno parte della diocesi suburbicaria. Solo in linea eccezionale la competenza di primo grado spetta ai vicari che
governano le diocesi, in cui sono raggruppate le province, ed ai praefecti praetorio, che stanno a capo delle quattro prefetture in cui
si divide l'impero.
Le forme di citazione del convenuto variano fra il processo del IV-V sec. d.C. e quello del V-VI sec. d.C. Agli inizi del IV sec. la forma di
citazione è la litis denuntiatio, una citazione in parte privata ed in parte pubblica, che riproduce quelle che sarebbero le forme della
denuntiatio ex auctoritate del principato. Consta quindi di una citazione scritta, proveniente dall'attore, la cui notificazione avviene
in forma pubblica. Entro quattro mesi da tale notifica, pena la contumacia, le parti devono comparire dinanzi al giudice di primo
grado. Questa forma di citazione viene sostituita nel V sec. dal libellus conventionis: l'attore inoltra un ricorso al giudice competente
(postulatio simplex), con cui chiede la conventio del convenuto. Il giudice adito provvede sul ricorso, accettando o meno la richiesta.
In caso positivo, ordina la citazione del convenuto. Il termine per la comparizione di quest'ultimo è determinato dal giudice stesso, e
sembra essere più breve dei quattro mesi previsti per l'introduzione del giudizio a seguito di litis denuntiatio.
La procedura in contumacia è sempre subordinata all'effettuazione della triplice citazione del convenuto in via ordinaria, cui segue
la notifica contumaciale. Almeno nel processo per libellos, l'attore doveva sicuramente provare le sue pretese per riuscire vincitore.
La sua assenza portava, durante la compilazione, ancora all'assoluzione dall'osservanza del giudizio, mentre del diritto delle Novelle
il convenuto poteva conseguire, perdurando l'assenza, un'assoluzione nel merito.
Il processo si svolge dinanzi al giudice competente, ma resta sempre possibile la delegazione ad altri della cognizione. La litis
contestatio va riscontrata nella precisazione fatta dalle parti dinanzi al giudice delle proprie posizioni sostanziali ed eventualmente
processuali (narratio e contradictio o responsio). Prima si ha, però, il principium litis, nel quale vengono risolte le questioni
processuali o pregiudiziali. In questa fase, il convenuto deve avanzare quelle difese di cui il giudice può tener conto solo se
sollecitato dalla parte interessata, che danno luogo alle exceptiones. Solo nel VI sec. d.C. queste possono essere presentate dopo la
litis contestatio, e addirittura in grado d'appello.
In seguito si svolge il medium litis, in cui si ha l'istruzione probatoria. Il sistema delle prove viene rigidamente disciplinato: si fissano
definitivamente i criteri di ripartizione dell'onere della prova, si crea una serie di presunzioni, e di determina un ordine nel valore
delle prove e di limiti all'efficacia di talune di queste. A meno dell'inversione dell'onere della prova, i fatti devono essere provati da
coloro che li allegano a favore della propria pretesa o difesa. Alla ripartizione di tale onere, si collega la figura della presunzione. Si
ha presunzione quando una norma impone che dalla prova di un fatto, il giudice debba desumere l'esistenza di un fatto diverso, a
meno che la parte, a sfavore della quale la presunzione dovrebbe valere, non provi l'inesistenza del fatto presunto. Essa, dunque,
fissa una particolare ripartizione dell'onere della prova fra i contendenti, una volta che sia stato provato il fatto su cui si base la
presunzione stessa, ripartizione che porta all'inversione dell'onere della prova. Accanto a questa presunzione relativa, si individuava
una presunzione assoluta, che si aveva quando contro l'illazione dell'esistenza di un fatto desunta dalla prova di un fatto diverso non
si ammette prova contraria. Nell'ambito dell'istruzione probatoria, sulla situazione sostanziale delle parti, si estende un potere
d'iniziativa che il giudice aveva già nella cognitio classica: tale potere si fonda sulla cura che ormai egli deve adibire per arrivare ad
una giusta decisione. Questo potere può esplicarsi nell'interrogatorio delle parti, nell'assunzione di informazioni d'ufficio e
nell'indicazione dei punti da provare e dei mezzi probatori più idonei. Più profonde sono le variazioni che riguardano i criteri di
valutazione delle prove: vengono ricondotti nell'ordine dei mezzi di prova con valore legale la confessione della parte ed anche il
giuramento. Prova legale è quel mezzo di prova il cui valore probatorio è fissato dall'ordinamento e non può essere sottoposto alla
libera valutazione del giudice. La prova documentale diventa sempre più importante rispetto a quella testimoniale: la regola testis
unus, testis nullus viene inasprita, in modo tale da richiedere più testimoni quando la loro testimonianza debba valere contro un
documento.
La legislazione imperiale cerca di far fronte alla perenzione d'istanza, che porterebbe all'estinzione del processo dopo tre anni dalla
litis contestatio e che è uno strumento inefficiente contro le manovre dilatorie del convenuto, rivolgendosi più che altro contro le
tergiversazioni dell'attore. Contro l'atteggiamento scorretto in tal senso del convenuto, è invece previsto che la prescrizione continui
a decorrere anche nel corso del processo, ma i termini vengono allungati.
Il contenuto delle sentenze diventa molto più articolato. Le sentenze d'assoluzione presentano una maggiore varietà, dovendosi
ormai distinguere le sentenze definitive sul merito e le sentenze di carattere processuale, che non precludono il riesame del merito.
In questo periodo si afferma definitivamente il principio che la parte soccombente deve rifondere alla parte vittoriosa il costo del
processo. È la sentenza passata in giudicato che produce l'effetto preclusivo alle questioni decise direttamente dal giudice. Si
accentua anche l'efficacia pregiudiziale del giudicato.
Nel periodo postclassico si consolida definitivamente l'istituto dell'adpellatio. Nella normativa giustinianea la ripartizione delle cause
avviene secondo il valore. Inoltre, viene fissato il principio che sono al massimo consentiti tre gradi di giurisdizione. L'appello
continua ad essere presentato, in termini brevissimi, oralmente o per iscritto al giudice a quo e, per evitare abusi, si ammette il
ricorso dell'appellante al giudice ad quem.
L'esecuzione della sentenza prevede ancora la possibilità dell'esecuzione personale, che viene molto inasprita. Nell'esecuzione
patrimoniale, si assiste alla fusione relativa all'ambito di applicazione delle forme proprie dell'ordo (bonorum distractio) e della
cognitio (pignus in causa iudicati captum), che assumono però funzionalità diversa. L'esecuzione concorsuale su tutti i beni del
debitore avviene nelle forme della bonorum distractio e si collega allo stato di decozione del debitore, cioè a quando il patrimonio di
quest'ultimo non è più in grado di soddisfare per intero i creditori, od alla latitanza. La forma normale di esecuzione diventa dunque
quella su singoli beni appartenenti al debitore, nella forma del pignus: resta possibile il concorso dei creditori.
CAPITOLO SESTO - DIRITTI REALI
85. LE COSE
Nel linguaggio giuridico moderno, "cosa" è qualsiasi porzione del mondo reale, idonea a essere oggetto di un diritto patrimoniale: i
romani adoperavano il termine res.
Le classificazioni romane variano da giurista a giurista. Nelle Institutiones di Gaio, la trattazione del ius quos ad res pertinet si apre
con la distinzione fra res in nostro patrimonio e res extra nostrum patrimonium, relativa alla circostanza che di una cosa si abbia o
meno il commercium. In base a ciò la dottrina procede a una duplice classificazione: la prima fra res in patrimonio ed extra
patrimonium, la seconda fra res in commercio ed extra commercium. Una cosa è in commercio quando sia idonea a essere oggetto di
rapporti giuridici privati. È extra commercium quando tali rapporti non siano possibili. Le res in patrimonio sono quelle su cui vi è
attualmente un diritto di proprietà (presupposto è che siano in commercio). Sulle res extra patrimonium, invece, non vi è in atto un
diritto di proprietà, o per inidoneità della res ad essere oggetto di diritti soggettivi privatistici, o perché res nullius (pur essendo in
commercio, non hanno al momento un proprietario). Le fonti romane, mancando una consapevole classificazione delle res, offrono
un quadro molto meno preciso rispetto alla dottrina.
Gaio afferma che la prima classificazione sulle cose, la summa divisio, è fra res divini iuris ed humani iuris. Le res divini iuris non sono
idonee ad essere oggetto di rapporti giuridici privati e sono sottoposte ad un'ulteriore divisione:
res sacrae: sono res consacrate agli dei superi, dedicate alle divinità. Sono cose immobili, come i templi, ma anche mobili, come
quelle destinate al culto. Tra queste rientrano solo le cose destinate al culto pubblico e consacrate ex auctoritate populi Romani.
Con l'assenso del proprietario, infatti, anche le res privatae possono diventare res sacrae. A tale scopo, sono necessari due atti: la
destinazione della cosa al culto (dedicatio) e la consecratio, cerimonia di competenza dell'autorità religiosa. L'amministrazione e la
difesa di tali cose spettavano ai pontifices ed agli altri collegi sacerdotali. Con l'assurgere del cristianesimo a religione di stato, si ha
un netto sfavore verso i luoghi del culto pagano. Le cose destinate al culto dal vescovo appartengono alle singole chiese.
res religiosae: sono le res lasciate agli dei Mani, e vengono identificate con il sepolcro come luogo in cui è seppellito il
cadavere. Res religiosa diventava il fondo destinato a sepolcro. Tale fondo veniva sottratto ai rapporti giuridici privati e viene
protetto dal ius sacrum. Sono di proprietà dello stato. La loro incommerciabilità continua anche in epoca cristiana.
res sanctae: non sono res divini iuris, ma le mura e le porte della città che, pur poste sotto la diretta protezione degli dei, non
servivano per il culto divino. Sono res publicae poste sotto una specifica protezione dal punto di vista sacrale. Con l'avvento del
cristianesimo, esse sono quelle per la cui violazione è prevista una particolare sanzione criminale.
Tra le res humani iuris, è fondamentale la distinzione fra res privatae e res publicae. Le prime sono oggetto di rapporti giuridici
privati. Delle seconde, invece, è titolare il populus Romanus. Esse hanno funzioni differenziate, a cui corrisponde una varietà di
regime:
res in usu publico, soggette all'immediata utilizzazione dei cives;
le cose sottratte all'uso pubblico perché utili a scopi specifici dello stato;
le cose che vengono sfruttate dallo stato nella loro potenzialità economica.
La tutela del diritto dello stato su queste cose avviene in via amministrativa.
Isolata resta la posizione del giurista Marciano, che distingue la categoria delle res communes omnium dalle res publicae: esse sono
le cose che spettano a tutti gli uomini, cioè l'aria, le acque fluenti ed il mare; cose che per tutti gli altri giuristi rientrano fra le res
publicae.
Tra le res privatae Gaio identifica due partizioni: fra res mancipi e nec mancipi, e fra res corporales ed incorporales. Le res corporales
sono quelle che esistono nel mondo naturale, quae tangi possunt. Le res incorporales non hanno una tale esistenza, quindi Gaio dice
quae tangi non possunt: esempi ne sono le situazioni giuridiche soggettive.
Non ha molta rilevanza nel mondo romano la distinzione fra cose mobili ed immobili. Le cose mobili sono quelle che possono essere
trasportate da un luogo all'altro, senza che la loro funzione economico-sociale venga intaccata. Le cose immobili, invece, sono le
porzioni della superficie terrestre e tutte le cose inscindibilmente inserite in essa. Nel periodo più risalente, questa differenza era
assolta dalle res mancipi e nec mancipi.
Nelle fonti romane si trova la categoria delle res quae pondere numero mensura constant: sono le cose fungibili, contrapposte alle
cose infungibili. Sul piano socio-economico, le cose fungibili hanno rilevanza in quanto appartengono ad un genere e di esse di
determini la misura. Le cose infungibili, invece, adempiono ad una funzione economico-sociale nella loro specifica individualità.
Connessa a questa è la distinzione fra cose consumabili ed inconsumabili. Le prime non sono passibili di un'utilizzazione ripetuta
perché, nell'adempiere alla loro funzione, vengono distrutte. Spesso, queste sono cose fungibili.
Si distinguono poi le cose divisibili ed indivisibili. Le cose indivisibili non possono essere divise in parti materiali senza esser distrutte
o perdere in modo rilevante il valore. Anche se indivisibili materialmente, sono sempre giuridicamente divisibili, per il fatto che su di
esse si può avere una contitolarità per quote ideali.
Altra distinzione è quella proposta da Pomponio, fra cose semplici e cose composte. Le cose composte si dividono nei corpora ex
cohaerentibus, che pur formate da più cose semplici mantengono un aspetto unitario, e corpora ex distantibus, detti anche
universalità di fatto, che possono esser oggetto di negozi e vicende giuridiche.
Infine, si distinguono le cose fruttifere ed infruttifere. Le prime producono nuove cose, i frutti in senso proprio (naturali), senza che
ciò intacchi la cosa madre. Ai frutti naturali si contrappongono i frutti civili, che sono il corrispettivo ricavato dai contratti di
utilizzazione temporanea della cosa a titolo oneroso.
86. I DIRITTI REALI E LA PROPRIETÀ
Non essendo stata consapevolmente elaborata nell’esperienza romana la categoria del diritto soggettivo, le questioni relative alle
differenze tra diritti reali e diritti di obbligazione erano affrontate sotto il profilo della contrapposizione fra actiones in rem e in
personam. La stessa denominazione di actio in rem e in personam rivela la diversa funzione di queste azioni. L’azione reale ha per
oggetto la cosa. La persona del convenuto sta in secondo piano: legittimato passivo all’azione è chiunque s’intrometta fra il titolare
del diritto reale e la cosa che ne è oggetto. L’azione personale si dirige verso la persona del convenuto e fa valere un diritto sulla
stessa, diritto fondato sulla responsabilità personale per la mancata verificazione del fatto garantito: è il debitore l’oggetto
dell’azione e resta quindi l’unico legittimato passivo. Il fatto garantito e l’oggetto stanno in secondo piano, in quanto il
soddisfacimento dell’interesse dell’attore può esser ottenuto solo attraverso la collaborazione del debitore che è responsabile in
ordine ad esso.
I diritti reali, come diritti assoluti, comportano, dal lato passivo, solo un dovere negativo degli altri consociati, quello di astenersi
dall’intromettersi nel rapporto diretto fra il titolare e la cosa. Le actiones in rem servono a far valere la pretesa che il titolare del
diritto reale ha in seguito alla violazione di tale dovere d’astensione.
Il legittimato passivo a tale azione non è obbligato a rem defendere: basta che egli abbandoni la cosa oggetto della controversia per
far cessare la situazione che lo rendeva esposto all'azione. Il legittimato passivo può quindi far venir meno tale legittimazione. Se
però questa continua a sussitere, egli è tenuto a rem defendere, pena sanzione per indefensio.
Nei diritti reali è presente la contrapposizione fra proprietà e altre figure, dette diritti reali parziari. La proprietà, come signoria di
diritto su una cosa, si distingue per il carattere onnicomprensivo dei poteri attribuiti al titolare, delimitati solo attraverso limiti
negativi che l'ordinamento pone all'esercizio degli stessi, e per l'ampiezza delle funzioni che tale figura può soddisfare. I diritti reali
parziari, invece, adempiono ad una funzione specifica, e si esercitano sempre su una cosa di proprietà altrui. Tra loro si distinguono i
diritti reali di godimento, che assicurano al titolare un vantaggio dall'uso di una cosa altrui o dal divieto imposto al proprietario della
stessa di esercitare qualcuno dei suoi poteri, e i diritti reali di garanzia, che vincolano la cosa altrui al soddisfacimento di un credito.
Rispetto all’operatività dei diritti reali su cosa altrui, si individua poi una caratteristica della proprietà, l’elasticità: i poteri del
proprietario vengono compressi dal diritto reale parziario, ma la compressione dipende dall’esistenza di tale diritto; una volta infatti
che quest’ultimo si estingua, la proprietà riprende automaticamente tutta la sua estensione.
Tra proprietà e diritti reali parziari esiste una dialettica anche sotto il profilo storico: la figura della proprietà risale alla monarchia
latina, mentre i secondi sono più tardi e si sostituiscono a specifiche applicazioni dello schema proprietario.
87. LA PROPRIETÀ E LE PROPRIETÀ. LA PROPRIETÀ QUIRITARIA E L'IN BONIS HABERE
Risale a Gaio la constatazione che, alla metà del II sec. d.C., esistevano nell'ordinamento romano due forme di proprietà, un duplex
dominium (proprietà quiritaria e in bonis habere), che si contrapponevano all'unum dominium dei peregrini. In Roma è stata rilevata
la presenza di varie forme di appartenenza: proprietà gentilizia e individuale, proprietà privata e possessio dell'ager publicus,
proprietà quiritaria ed in bonis habere.
Le possessiones dell'ager publicus risalgono all'epoca monarchica e hanno grande importanza fino alle riforme graccane. Non rileva
la proprietà gentilizia, perché il rapporto fra gens e ager gentilicius è analogo a quello fra populus e ager publicus: non si tratta,
quidi, di una proprietà privata.
La proprietà individuale risale alla monarchia latina e ha per oggetto anche gli immobili. Dalle fonti risulta che i romani non
avvertivano alcuna differenza tra la proprietà della tarda repubblica (e del principato) e quella delle XII Tavole. Ci si pone il problema
se tale differenza non sia in effetti esistita: le teorie avanzate si articolano tutte intorno alle ipotesi della proprietà relativa (e
funzionalmente divisa) e della natura potestativa della disponibilità assoluta delle cose.
La proprietà relativa è un diritto che non garantisce la disponibilità della cosa contro chiunque. Questo carattere si manifesta
soprattutto nell’operatività dell’azione reale a tutela di una tale forma di proprietà, con cui si fa valere un diritto alla cosa poziore di
quello vantato dal convenuto, senza che ciò escluda l’esistenza di un altro soggetto che abbia un diritto poziore rispetto a entrambe
le parti della controversia. Una proprietà relativa può riconoscersi a favore di più persone sulla stessa cosa: è possibile la coesistenza
di una proprietà che dia luogo alla completa disponibilità della cosa e di un’altra proprietà avente a oggetto una disponibilità
limitata nel tempo o nello scopo: si integra così la figura della proprietà funzionalmente divisa.
Non si riscontra una differenza di disciplina fra la proprietà quiritaria delle XII Tavole e il dominium ex iure Quiritium. Questo perché
tale dominium presentava già nella codificazione decemvirale un notevole grado di astrattezza ed una regolamentazione che
accentuava la libertà del proprietario nello sfruttamento della cosa.
La disciplina della proprietà quiritaria viene interessata da pochi provvedimenti eteronormativi, e si evolve attraverso l'interpretatio
prudentium. L'intervento ha rilevanza secondaria e, solitamente, riguarda i mezzi di difesa della proprietà stessa.
L'opera del pretore ha grande rilevanza, invece, nell'in bonis habere, istituto contrapposto al dominium ex iure Quiritium. Esso è la
proiezione sul piano sostanziale della legittimazione a determinati mezzi giudiziari, concessi dal pretore: attraverso la concessione i
una difesa giudiziale, si individua una nuova fattispecie sostanziale. I mezzi processuali all'origine dell' in bonis habere sono l'actio
Publiciana e l'exceptio rei venditae et traditae, concessi a tutela del possessor ad usucapionem che abbia ricevuto in traditio una res
mancipi dal proprietario. Esistono anche altri casi di proprietà pretoria, come la bonorum possessio e la bonorum venditio.
Alla difesa, che integra l'aspetto processuale, dell'in bonis habere corrisponde una serie di poteri che giustifica l'esistenza di un
duplex dominium. La proprietà pretoria si attua sul piano del ius honorarium. Accanto ad essa, continua ad esistere, sul piano del ius
civile, il dominium ex iure Quiritium. I poteri riconosciuti al proprietario bonitario coincidevano con quelli del dominus ex iure
Quiritium, ma ne differivano per modi ed effetti. La posizione del proprietario viene quindi svuotata: Gaio la descrive come un
nudum dominium ex iure Quiritium. Proprietà civile e pretoria sono quindi formalmente diverse tra loro, ma la differenza dipende
soltanto dalle condizioni del sistema normativo romano. Entrambe presentano un elevato grado di astrattezza e garantiscono al
titolare la più ampia libertà nello sfruttamento della cosa.
88. L'AGER PUBLICUS E LA PROPRIETÀ PROVINCIALE. GLI SVILUPPI POSTCLASSICI
Già nel perido monarchico, esistevano fondi su cui lo stato non esercitava soltanto la sovranità, ma di cui sisponeva anche dal punto
di vista economico: questi fondi costituivano l'ager publicus.
Nel periodo repubblicano, l'ager publicus era una delle fonti principali per l'incremento dei fondi oggetto di proprietà privata. Ciò
accadeva attraverso la procedura della divisio et adsignatio, cioè un procedimento di privatizzazione dell'ager publicus che
presupponeva la centuriatio del territorio da dividere et adsignare.
Le concessioni dell'ager publicus sono sono analoghe alla proprietà privata. Ciò vale soprattutto per i fondi più redditizi, che lo stato
affittava a breve termine, cinque anni, tramite i censori (ager censorius).
Il modo più diffuso per l'utilizzazione dell'ager publicus è l'ager occupatorius, lasciato alla libera occupazione dei privati. Le
possessiones di ager occupatorius erano revocabili, ma tale potere non era praticamente esercitato. I singoli occupanti vennero così
a consolidare la disponibilità delle possessiones stesse. Dal punto di vista giuridico, la possibilità della revoca non venne mai posta in
dubbio, neppure con la lex agraria graccana, che aveva come fine ultimo la riacquisizione allo stato dell'ager occupatorius posseduto
entro certi limiti. Per la revocabilità, l'irrilevanza nel ius civile, e la tutela del pretore approntata mediante interdetti possessori
(difesa che non forniva una protezione assoluta) non si può vedere nell'ager occupatorius una forma di proprietà.
Diversa è l'utilizzazione dell'ager publicus negli ultimi tre secoli della repubblica. L'ager quaestorius, porzioni di ager alienate dai
questori per sopperire alle necessità finanziarie dello stato: la concessione era perpetua, ma gli assegnatari erano tenuti al
pagamento di un vectigal. Tale ager scomparve alla fine della repubblica, trasformandosi in ager privatus vectigalisque: concessioni
non revocabili, nonostante la sottoposizione ad un'imposta.
Le riforme della fine della repubblica portarono ad una forte estensione della proprietà privata e ad un ridimensionamento dell'ager
publicus: scomparvero ager occupatorius e ager privatus vectigalisque. Nel principato, in Italia residuano fondi appartenenti all'ager
publicus sfruttati mediante concessioni a breve termine (cinque anni) o perpetue. Con la tutela concessa per queste ultime dal
pretore, si pongono le basi per la proprietà vettigalista: vennero riconosciuti al titolare dell'ager poteri analoghi a quelli del dominus
ex iure Quiritium. Il fondo era dunque trasmissibile anche inter vivos ed a titolo particolare.
All'infuori del territorio italiano, l'organizzazione dei territori assume forme diverse, che dipendono anche dall'assetto organizzativo
della provincia, a seconda che si tratti di territori non autonomi o dei vari tipi di civitates.
Nella repubblica, le forme di sfruttamento della disponibilità che lo stato aveva sui fondi provinciali appaiono molto articolate. Con il
principato, invece, si può dare un quadro d'insieme. Si pone la distinzione fra fondi che l'aerarium od il fiscus utilizzavano mediante
affitti a breve termine, e fondi lasciati nella disponibilità dei privati contro il pagamento dell'imposta (fenomeno della proprietà
provinciale). Per quanto riguarda le forme dell'imposizione tributaria, Gaio distingue fra province dipendenti dall'imperatore, in cui i
fondi erano sottoposti a tributum (praedia tributaria); e province senatorie, sottoposte a stipendium (praedia stipendiaria). La
differenza fra stipendium e tributum sta nel fatto che lo stipendium era una contribuzione fissa, mentre il tributum veniva pagato in
proporzione ad una valutazione del reddito del fondo. Il diverso tipo di imposta, però, non dava luogo ad una differenza nella
condizione giuridica dei fondi.
L'imposizione di stipendium o tributum impediva che i praedia provincialia fossero oggetto di dominium ex iure Quiritium. La
proprietà provinciale viene protetta con un'actio in rem, proposta nell'editto provinciale. Sui praedia provincialia potevano essere
costituiti diritti reali parziari di godimento mediante pactiones et stipulationes.
Sulla disciplina della proprietà, ebbe il suo influsso la scomparsa della distinzione fra res mancipi e nec mancipi, accentuata
dall'estensione della cittadinanza romana. Per la proprietà fondiaria, un momento fondamentale è stato quello della sottoposizione
dei fundi Italici all'imposta. Si equiparavano, in questo modo, i fundi Italici con i praedia provincialia. Il pagamento dell'imposta
equivaleva al riconoscimento del dominiun populi Romani vel Caesaris. I fundi Italici, non sarebbero più stati oggetto di dominium ex
iure Quiritium. In realtà, si ammise la coesistenza dell'imposta e del dominium, anche per i praedia, unificando così il regime della
proprietà fondiaria.
Molto rilevante nei rapporti proprietari fu il volgarismo: sul piano terminologico la distinzione fra possessio e dominium viene meno;
i termini relativi alla proprietà si impiegano anche in tema di diritti reali parziari. Non sembra, però, che il volgarismo porti a notevoli
innovazioni nella disciplina degli istituti.
L'epoca di Giustiniano non porta modifiche sul piano sostanziale, ma sul piano terminologico, per il fatto che si torna alla precisione
ed alle differenziazioni proprie della giurisprudenza. Questo, però, accogliendo comunque nella codificazione anche il linguaggio
impreciso del tardo-antico.
89. CONTENUTO E LIMITI DELLA PROPRIETÀ
Il diritto di proprietà assicura al titolare i più ampi poteri sulla cosa. Tali poteri vengono definiti solo negativamente, attraverso
l'individuazione dei limiti. La limitazione dipende sia dal diritto oggettivo sia dal proprietario stesso che abbia ridotto l'ambito delle
proprie facoltà. Sono le limitazioni legali che mostrano in quale misura l'ordinamento assuma la tutela dei doveri di solidarietà o
della funzione sociale della proprietà come valori prevalenti sull'egoismo del singolo proprietario.
La proprietà romana assicura al titolare del diritto i poteri più ampi ed assoluti e la più grande libertà nell'esercizio degli stessi. La
proprietà del dominus soli si estende dal sottosuolo allo spazio aereo sovrastante: vige il principio superficies solo cedit, per il quale
qualsiasi cosa costruita su un fondo apparteneva al proprietario di quest'ultimo. Per il sottosuolo, il dominus soli aveva per tutto il
principato il diritto esclusivo alla coltivazione delle miniere esistenti.
Il carattere assoluto si manifesta nel fatto che è illimitata nel tempo: è solo il proprietario che può spogliarsi della cosa. È escluso che
possa costituirsi una proprietà limitata nel tempo, cioè una proprietà temporanea. Nella compilazione giustinianea tale principio
viene ribaltato, permettendo la costituzione della proprietà temporanea.
La libertà di disposizione rappresentava un elemento essenziale della proprietà: i pochi limiti posti erano divieti convenzionali
d'alienazione, con efficacia meramente obbligatoria, e divieti legali con efficacia legale ma solo sul piano del diritto onorario.
Nell'economia chiusa del tardo-antico si venne affermando, come per l'ereditarietà di mestieri e cariche, l'inalienabilità dei
patrimoni connessi a tali funzioni.
Il proprietario godeva di assoluta libertà nella disposizione materiale delle cose: il dominus non era tenuto ad utilizzare la cosa
nell'interesse della comunità. Nel tardo-antico la mancata coltivazione dei fondi poteva, però, portare, dopo un certo periodo,
all'attribuzione della proprietà a chi li avesse posti a cultura.
Nell'esperienza romana è assente l'espropriazione per pubblica utilità: è conosciuta, invece, la confisca dei beni come sanzione
criminale in seguito alla sacertas, e alle sanzioni penali che comportano una capitis deminutio maxima o media. I fondi necessari per
le riforme agrarie vengono, però, acquisiti mediante la revoca delle concessioni di ager publicus. Nel tardo-antico si riscontrano
alcune innovazioni: vi sono casi di espropriazione per fini pubblici, anche se configurati come vendite forzose, dietro pagamento
della cosa espropriata (indennizzo meramente formale).
Esistono limiti alle facoltà del proprietario di fondi urbani o rustici in funzione degli interessi della comunità nel suo complesso e dei
vicini. Per i primi, vi sono regole di carattere sacrale, disposte ai fini di sicurezza pubblica. Nei rapporti di vicinato, si lascia libera
esplicazione all'autonomia privata. I limiti legali danno luogo a sanzioni pubbliche o private. Le norme del primo tipo riguardano i
fondi urbani: già dalle XII Tavole era obbligatorio lasciare uno spazio di cinque piedi tra gli edifici, l'ambitus. Nel periodo classico,
invece, è possibile costruire il muro sul confine. Limiti legali per gli edifici urbani si pongono nel postclassico, per il decoro
architettonico di Costantinopoli.
I limiti posti nell'interesse dei privati vogliono risovere il problema delle contrapposte liberà dei proprietari dei fondi vicini. Il
profondo rispetto della libertà del proprietario restringe, però, gli interventi limitativi: ma già le XII Tavole e la giurisprudenza
pontificale conoscono mezzi giudiziari che consistono in un'ulteriore difesa della proprietà, impedendo al vicino di esercitare, perché
dannose, facoltà altrimenti rientranti nel suo diritto. Al di fuori di questi casi specifici si pone il problema delle immissioni, che
invadono un fondo altrui in seguito all'esercizio da parte del vicino di facoltà ricomprese nel diritto di proprietà. Da questi casi
emerge il criterio per cui va tollerata l'immissione corrispondente all'uso normale della cosa.
90. LA COMPROPRIETÀ
Il diritto soggettivo può avere uno o più titolari: si ha così il fenomeno della contitolarità del diritto soggettivo stesso, che
nell'esperienza romana nasce nella successione ereditaria con il consortium ercto non cito, e si sviluppa poi coe contitolarità del
diritto di proprietà nell'ambito dei diritti reali.
Nella successione ereditaria, la comproprietà è conosciuta, fin dall'epoca della monarchia latina, nella figura del consortium ercto
non cito, la comunione ereditaria in cui si trovano i sui heredes che succedevano al paterfamilias. In esso erano ricomprese tutte le
cose che rientravano nel patrimonio dei sui heredes che, in quanto sprovvisti di capacità giuridica, non potevano aver altri beni al
momento dell'apertuta della successione. Il consortium era una società universale: tutti gli acquisti compiuti successivamente dai
singoli consortes rientrava nel consortium. Fra coloro che non erano sui heredes, il consortium poteva essere instaurato mediante
una certa legis actio, applicazione dell'in iure cessio.
Il regime era differente da quello della communio classica: per le cose comprese, i consortes avevano una legittimazione solidale. Il
singolo partecipante poteva disporne come se ne fosse stato l'unico titolare. Le fonti non accennano all'esistenza di un ius
prohibendi. Analogo era il caso degli acquisti: il singolo consors acquistava per tutti gli altri. Il consortium era così una comunione
dinamica. I consortes partecipavano alla comunione per quote eguali: il consortium si insaturava fra sui heredes chiamati ad una
parte uguale nella successione paterna. L'estinzione del consortium poteva avvenire per l'esercizio dell'actio familiae erciscundae, o
per morte o capitis deminutio di uno dei consortes.
Nella disciplina del condominio classico, vi sono regole che s'ispirano a principi diversi e i prudentes mai si sono occupati di dare
all'istituto una caratterizzazione unitaria. La communio classica è governata dal concetto di quota, assunto a parametro per stabilire
diritti e doveri di ogni partecipante (comunista) in relazione alla cosa oggetto della comunione. La quota è una frazione ideale
dell'intero con cui si fissa la misura della partecipazione di ogni singolo comunista. È però una misura ideale, cui non corrisponde
una specifica parte materiale della cosa comune. Quinto Mucio Scevola la chiamava pars pro indiviso (pars quota), in contrapposto
alla pars pro diviso (pars quanta), cioè la porzione materiale di una cosa, oggetto di proprietà solitaria.
Il problema del rapporto fra il diritto del singolo comproprietario commisurato alla quota e la proprietà nella sua interezza sorge
nella communio classica. I prudentes risolvevano le varie questioni con la metodologia casistica. Le decisioni, quindi, potevano
essere ispirate a criteri diversi: a volte si riconosceva al singolo comunista un potere nell'ambito della quota, altre volte una
legittimazione solidale limitata dal ius prohibendi degli altri comunisti. Nell'esperienza romana manca il principio per cui
nell'amministrazione della cosa prevale la volontà della maggioranza. Se era impossibile trovare l'unanimità, l'unica soluzione era la
divisione.
Per gli atti di disposizione giuridica, i poteri del singolo socius sono ristretti nell'ambito della quota. Per alcuni aspetti, però, il diritto
del comunista si estende a tutta la cosa: in questi casi funziona il ius adcrescendi, che si applica quando un socius perde la titolarità
della sua quota senza che altri l'acquisti. Nei limiti della quota, il socius è legittimato a costituire solo diritti reali parziari. La quota,
infine, ha rilevanza per l'acquisto dei frutti naturali, nonché al momento della divisione.
Il godimento diretto della cosa spetta ad ogni comunista nell'ambito dell'uso normale: senza, cioè, che si alteri la funzione
economico-sociale della cosa e tenendo conto del concorrente diritto degli altri socii. Se questi due limiti vengono violati, la
prohibitio degli altri comproprietari fa constatare l'assenza del consenso preventivo: l'autore ne deve rispondere anche con l'actio
communi dividundo. Ogni comproprietario è legittimato per l'intero all'amministrazione, ma vengono posti dei limiti dal concorso
degli altri aventi diritto, che si sanzionano con il ius prohibendi. Tale opposizione rende illegittima l'attività del condomino che
amministra dal momento in cui è compiuta. Il socius, inoltre, risponde per un'attività oggettivamente danosa. I comproprietari sono,
nei limiti della quota, legittimati attivi e passivi alle azioni relative alla cosa comune. La legittimazione spetta al singolo socius per
l'intero quando il risultato dell'azione non sia divisibile.
La divisione era lo sbocco naturale della comunione: il patto di non esercitare l'azione divisoria era invalido, salvo se limitato nel
tempo e giustificato. L'azione divisoria era in origine la legis actio per iudicis arbitrive postulationem, sostituita poi dall'actio
communi dividundo (di cui era caratteristica l'adiudicatio) del processo formulare. Il giudice procede alla divisione sulla base dei
poteri conferitigli dall'adiudicatio, e assegna le partes pro diviso in luogo di quelle pro indiviso. Se l'operazione era difficile, si
ricorreva ai conguagli, fino al caso limite dell'attribuzione dell'intera cosa ad un solo condomino tenuto a pagare agli altri il valore
delle rispettive quote. Si poteva anche pervenire alla vendita della cosa ad un terzo ed alla distribuzione del ricavato. Con la
divisione si otteneva anche la liquidazione delle pendenze derivanti dalla comunione: i socii vi facevano valere le pretese relative ai
danni ed al rimborso spese.
91. I MODI DI ACQUISTO DELLA PROPRIETÀ A TITOLO ORIGINARIO
Modo di acquisto della proproetà è qualsiasi fatto giuridico che produce tale acquisto a favore di un soggetto. Si pone la distinzione,
sconosciuta ai prudentes, fra:
modi di acquisto a tiolo originario: l'acquisto avviene indipendentemente da un rapporto con il precedente titolare, quindi la
proprietà sorge senza che vi sia connessione con il diritto in testa a quest'ultimo.
modi di acquisto a titolo derivativo: si fondano su un rapporto col precedente titolare del diritto, in quanto si configura un vero
e proprio trasferimento del diritto se e nei limiti in cui il trasferente fosse proprietario della cosa.
Nelle fonti romane si riscontra una diversa classificazione, che si può fare sias per gli acquisti a titolo originario che per quelli a titolo
derivativo:
modi di acquisto iuris civilis: producono effetti solo a favore dei cives. L'usucapio è modo di acquisto iuris civilis a titolo
originario, mentre mancipatio e in iure cessio a titolo derivativo.
modi di acquisto iuris gentium: sono tutti gli altri.
L'occupazione (occupatio) è il materiale impossessamento di una cosa attualmente senza proprietario, quindi extra nostrum
patrimonium. Oggetto d'occupazione sono le cose che non hanno mai avuto un proprietario. In periodo risalente, erano occupabili
le res hostium e le cose del nemico, fra le quali per il bottino di guerra si affermò quasi subito un diritto dello stato. Per l'occupatio
dovevano essere realizzati tutti i presupposti necessari per l'acquisto del possesso.
Nell'esperienza romana, il regime dell'acquisto delle cose abbandonate muta in funzione della distinzione fra res mancipi e nec
mancipi e dal diverso modo in cui era configurata la derelictio. Per i sabiniani, la proprietà del precedente titolare si estingueva al
momento dell'abbandono: la res derelicta diventava quindi res nullius e cadeva in proprietà dell'occupante. Per i proculeiani, invece,
la derelictio si configurava come una traditio in incertam personam, i cui effetti si completano con l'occupazione. Si acquistava così
solo la proprietà per le res nec mancipi: per le altre era necessario il decorso del termine per l'usucapio. Nel periodo postclassico,
l'occupazione delle res derelictae non si distingue più dalle altre applicazioni dell'istituto.
Affine è l'acquisto del tesoro, ovvero di un antico deposito di denaro, dell'autore del quale non si ha più il ricordo, di modo che non
ha più un proprietario. Tale caso era molto rilevante nell'antichità, dove spesso era necessario mettere in salvo cose di pregio, di cui
spesso, però, si perdeva la traccia. In origine, il tesoro spettava al proprietario del fondo in cui era nascosto. Adriano, invece, dispose
che il proprietario del fondo avesse diritto a tutto il tesoro rinvenuto personalmente, mentre nel caso di ritrovamento fortuito da
parte di un estraneo, il tesoro spettava in parti uguali all'inventore e al titolare del fondo. Nel III sec. d.C. si privilegiarono i diritti del
fisco.
Con l'accessione, cose appartenenti a proprietari diversi vengono unite e formano una nuova cosa unitaria, che rientri fra le cose
semplici o composte. Il proprietario della cosa principale diviene proprietario della nuova entità, a prescindere dal fatto che acquisti
o meno la proprietà della cosa accessoria. Si ha accessione definitiva quando la proprietà della cosa accessoria resta acquisita al
proprietario della cosa principale anche quando l'unione si scioglie. Si ha accessione non definitiva quando il proprietario acquista la
nuova cosa, ma non si estingue definitivamente il diritto del proprietario della cosa accessoria, che entra in uno stato di quiescenzae
rivive al momento della separazione. Si individuano tre casi:
accessione di mobile a mobile: sono accessioni definitive la tinctura e la pictura, la scriptura e la textura; tutte fattispecie in cui
la separazione è praticamente impossibile senza la distruzione della nuova cosa. Rientra in questo caso anche la ferruminatio, che
dava luogo fra i materiali ad una giuntura omogenea. Nell'adplumbatio, invece, gli effetti sono quelli dell'accessione non definitiva. Il
proprietario della cosa accessoria ha vari mezzi giudiziari a sua difesa. Nel caso di unione consapevole di cosa altrui a cosa propria,
può agire con l'actio furti e la condictio ex causa furtiva (in entrambi i casi di accessione). In caso di accessione non definitva, poteva
intentare l'actio ad exhibendum per ottenere la separazione e procedere alla rei vindicatio. La cosa principale è quella che determina
in modo prevalente la funzione economico-sociale della nuova entità, anche se non si tratta della cosa di maggior valore.
accessione di mobile ad immobile: la cosa principale è l'immobile. Si ha accessione non definitiva nel caso di incorporazione di
una cosa mobile in un immobile già esistente a scopo di abbellimento. In caso di seminagione e piantagione di alberi (satio ed
implantatio) si ha accessione definitiva. Per l'inaedificatio, si ha una disciplina diversa: in seguito alla separazione, il proprietario dei
materiali ne riacquista la proprietà, ma non ha l'actio ad exhibendum per ottenere la separazione della cosa. Può, però, intentare
l'actio de tigno iuncto contro colui che ha usato consapevolmente i materiali altrui, che porta alla condanna al doppio del valore
delle cose utilizzate.
accessione di immobile ad immobile: caso degli incrementi fluviali. È l'estensione della proprietà di fondi rivieraschi in seguito
ad eventi naturali verificatisi in un fiume o lungo le sue sponde. Nell'adluvio, l'acquisto avviene man mano che il materiale si
accumula lungo le rive. Diverso è il caso dell'avulsio, in cui una parte di fondo superiore è stata asportata, per l'azione del fiume, al
fondo rivierasco inferiore. Se nel letto di un fiume emerge, per un diverso e naturale modo di fluire delle acque, un'isola, essa si
divide in parti uguali mediante una linea tracciata lungo la metà del fiume. Nel caso che tale isola sia per l'intero in una delle metà
del fiume, spetterà solo ai proprietari dei fondi rivieraschi della relativa sponsa. Disciplina analoga si ha nel caso dell'alveus
derelictus, quando il fiume si è creato un nuovo letto, lasciando a secco il precedente.
Si ha confusio quando si uniscono due quantità di cose fungibili. In questo caso non sis riscontra una cosa principale e si riteneva
quindi che s'instaurasse un condominio per parti incerte.
Un regime particolare si ha per il denaro. I romani davano maggior rilievo alla proprietà dei nummi (le monete intese come oggetti)
per cui il proprietario poteva esercitare l’azione reale. Nel caso di spendita in buona fede di denaro altrui, le fonti ammettono che
l’accipiente ne acquisti la proprietà purché fosse anch’egli in buona fede. Indipendentemente dalla buona fede, il possessore
acquista poi la proprietà del denaro altrui che si sia confuso con denaro proprio, in modo da non poterne essere distinto. Il
proprietario può esercitare in entrambi questi casi una condictio contro colui che è venuto ad acquistare il denaro o ne ha usufruito.
Nella specificatio si ha la modificazione di una cosa altrui, detta materia, e la creazione di una cosa nuova, funzionalmente diversa
dalla materia. I sabiniani consideravano la species analoga alla materia: la nuova cosa doveva quindi appartenere al proprietario
della materia. I proculeiani, invece, attribuivano la species, in quanto diversa dalla materia e quindi res nullius, allo specificatore. A
Paolo appartiene una media sententia, che consiste nell'accettazione dell'opinione proculeiana, quando però la materia rimanesse
la stessa.
92. L'USUCAPIO E LA PRAESCRIPTIO LONGI TEMPORIS
Fra i modi di acquisto della proprietà a titolo originario rientra anche l'usucapione, l'acquisto della proprietà attraverso il possesso
della cosa prolungato nel tempo.
L'usucapione è conosciuta già nelle XII Tavole, in una norma che prevede che l'usus e l'auctoritas per un fondo è di due anni, per
tutte le altre cose l'usus è di un anno. L'usucapio fa acquistare il dominium ex iure Quiritium e resta istituto di ius civile.
L'usucapione classica sanava un vizio dell'atto mediante il quale era stato ottenuto il possesso della cosa, atto che avrebbe potuto
portare all'acquisto della proprietà, ma i cui effettti non si erano prodotti perché mancava la legittimazione di chi disponeva della
cosa stessa (acquisto a non domino) o perché il trasferimento non era stato effettuato nella forma dovuta (traditio di res mancipi).
Non tutte le cose sono passibili di usucapione: non lo sono le res extra commercium, i fondi provinciali, le res furtivae (sottratte
all'usucapio dalle XII Tavole), le res vi possessae (inusucapibili per la lex Plautia del I sec. a.C.), le servitù (rese tali da una lex
Scribonia). La lex Atinia, oltre a ribadire il divieto, fissò che l'inusucapibilità delle res furtivae era purgata attraverso la reversio ad
dominum. Solo le res corporales sono oggetto di usucapione, il che significa che solo il diritto di proprietà può essere usucapito.
I requisiti della iusta causa e della bona fides vanno analizzati insieme. La giurisprudenza severiana li considerava separati. La iusta
causa ha carattere oggettivo: si distinguono casi in cui tale requisito consiste in un atto privato, e quelli in cui viene integrato da un
provvedimento del magistrato. Nel primo caso, si ha iusta causa se l'usucapiente ha conseguito il possesso in base ad un negozio, la
cui funzione socio-economica giustifica, astrattamente, l'acquisto del diritto di proprietà. Nel caso concreto, però, tale effetto non si
è potuto produrre per vizio nella forma del negozio, o perché posto in essere a non domino. Si hanno varie cause, che
contraddistinguono i vari tipi di usucapione. La bona fides è, invece, un requisito di carattere soggettivo e riguarda l'atteggiamento
psicologico dell'usucapiente, consistendo nella convinzione di non ledere un altrui diritto nell'acquistare il possesso della cosa.
Nell'esperienza giuridica romana, è sufficiente la buona fede iniziale: vige il principio mala fides superveniens non nocet. In questa
concezione, i due requisiti sono indipendenti fra loro.
Questa configurazione è però il risultato di un lungo sviluppo. L'usucapione originaria, quella delle XII Tavole, non avrebbe richiesto
né iusta causa né bona fides. D'altro lato, la normativa decemvirale collegava strettamente l'usus con un atto di trasferimento, di cui
tendeva a sanare i vizi: questo è il quadro in cui si è svolto lo sviluppo dell'usucapio romana. Il caso del'usucapio pro herede mostra
che la giurisprudenza pontificale non prendeva in considerazione la bona fides: l'acquirente in mala fede di cosa mobile altrui,
infatti, commetteva furto, il che escludeva che potesse usucapire la cosa. Con lo sviluppo economico della civitas, si configurò la
mala fede dell'acquirente come un fatto che escludeva la iusta causa usucapionis: il compratore in mala fede rientrava fra i
possessores pro possessore, coloro che, in mala fede, possedevano senza iusta causa. Ciò spiega il principio mala fides superveniens
non nocet: la buona fede rileva sul piano della iusta causa, che qualifica solo il momento dell'acquisto del possesso; perciò la mala
fede sopraggiunta dopo l'inizio del possesso non impedisce l'usucapione. Su questa base, la giurisprudenza laica individuò una serie
di cause corrispondenti alle varie funzioni economico-sociali in base alle quali avviene il trasferimento, o l’acquisto, della proprietà.
In base a queste cause, si aveva la possessio civilis, il cui effetto era di portare all’usucapio.
Tra il I ed il II sec. d.C., si svolgono sviluppi nei rapporti fra iusta causa e bona fides: la iusta causa deve essere effettiva e non è
sufficiente la circostanza che il possessore la ritenga esistente. Alcuni giuristi, però, ammettono che, in certi casi, la convinzione del
possessore circa la sussistenza della causa usucapionis sia sufficiente perché si verifichi l'usucapio. La giurisprudenza severiana torna
a richiedere il titolo effettivo.
L'usucapione si ha anche in alcuni casi in cui il possesso viene acquistato in base ad un provvedimento del pretore.
MInori problemi si hanno per gli altri requisiti. L'usucapione presuppone il possesso: nel caso di detenzione, usucapisce la persona
nel nome della quale il detentore esercita la materiale disponibilità sulla cosa. L'acquisto è escluso ove si tratti di iniusta possessio,
quella acquistata vi, clam o precario. Per tutto il periodo classico, i termini rimasero quelli fissati nelle XII Tavole.
La praescriptio longi temporis sorge nel II-III sec. d.C., come difesa per chi avesse esercitato un possesso prolungato sui praedia
provincialia. Essa presuppone il possesso ed il decorso del termine, fissato in 10 anni quando le parti abitassero nella stessa città, ed
in 20 in caso contrario. In periodo classico, proteggeva il possessore solo in via d'eccezione contro l'effettivo titolare del fondo
provinciale, che lo convenisse in giudizio con l'azione reale per riottenerne la materiale disponibilità. Non faceva, quindi, acquistare
la proprietà provinciale sul fondo posseduto.
Nel tardo-antico, Costantino distinse la praescriptio che si compie in 10 o 20 anni (inter praesentes o inter absentes), in cui sono
richiesti titolo e buona fede, dai casi di possessio indisturbata per 40 anni, dove gli effetti si verificano al di fuori di tali requisiti.
Quest'ultimo termine venne poi ridotto, nel IV sec., a 30 anni. In questo contesto, la praescriptio si trasformò in prescrizione
acquisitiva, quindi come una forma di usucapione: il possessore diveniva titolare del diritto ed aveva l'azione reale per recuperare il
possesso eventualmente perduto. Giustiniano sistema l'intera materia, utilizzando la categoria dell'usucapio, che resta limitata alla
prescrizione acquisitiva di cose mobili, con termine fissato in 3 anni. La praescriptio longi temporis, che richiede iusta causa e bona
fides, ha i termini di 10 o 20 anni. La praescriptio longissimi temporis si compie, invece, in 30-40 anni nei casi in cui manchi la iusta
causa, ma non la buona fede, e in quelli in cui l'usucapio e la praescriptio longi temporis sono escluse per le caratteristiche della cosa
posseduta.
93. I MODI DI ACQUISTO A TITOLO DERIVATIVO. LA MANCIPATIO E L'IN IURE CESSIO
Nell'esperienza romana, l'acquisto della proprietà a titolo derivativo segue un sistema diverso da quello attuale. Vi sono, infatti, atti
tipici che hanno lo scopo di trasferire la proprietà: la mancipatio, l'in iure cessio e la traditio: l'accordo fra le parti sulla funzione
economico-sociale del trasferimento rileva solo se l'atto traslativo ha natura causale; mentre ove integri uno dei contratti tipici,
l'accordo ha l'effetto di obbligare l'alienante ad eseguire il trasferimento stessp.
La mancipatio trasferisce il dominium ex iure Quiritium delle res mancipi, e si applica alle res corporales. La traditio trasferisce il
dominium delle res nec mancipi, e anch'essa si applica alle res corporales (se impiegata per le res mancipi costituisce l'in bonis
habere). L'in iure cessio, invece, si applica sia alle res mancipi, che alle nec mancipi, e trasferisce o costituisce qualsiasi situazione di
diritto assoluto tutelata da un'actio in rem, di carattere personale o patrimoniale.
La distinzione fra res macipi e nec mancipi risale al periodo monarchico. Le res mancipi sono i fondi (rustici ed urbani) situati in Italia
(fundi Italici), gli schiavi, gli animali da soma, le servitù rustiche. Le res nec mancipi sono tutte le altre. In epoca tardo-repubblicana e
classica, questa diversità sta nel regime della circolazione, in quanto il dominium ex iure Quiritium sulle res mancipi può esser
trasferito solo con la mancipatio (o in iure cessio), mentre per le res nec mancipi basta la traditio (o in iure cessio).
Gaio riferisce che le res mancipi sono quelle pretiosiores, cha hanno un maggior valore o pregio. Erano le cose più importanti perché
rappresentavano i beni di produzione essenziali nella Roma delle origini, costituita da una società di agricoltori e pastori. La
sitinzione venne accantonata da Giustiniano: a ciò contribuì l'affermarsi dell'in bonis habere come mera variante del dominium ex
iure Quiritium, la sempre maggiore rilevanza della proprietà provinciale, l'omologazione tra praedia provincialia e fundi Italici ed
infine la definitiva decadenza del processo formulare.
La mancipatio è per Gaio un'imaginaria venditio. La sua funzione originaria era quella di formalizzare lo scambio contestuale della
cosa contro il prezzo. In epoca classica, essa avviene alla presenza di cinque testimoni, cittadini romani puberi, e del libripens, che
alle origini procedeva mediante una stadera alla pesatura del bronzo (aes rude), che costituiva il prezzo. L'atto prevedeva una forma
verbale e gestuale insieme: i verba essenziali erano pronunciati dall'acquirente, mentre l'alienante taceva. Il mancipio accipiens
afferrava la cosa con la mano e pronunciava i certa verba, che lo portavano all'acquisto della res mediante il pagamento di un
prezzo. Con un raudusculum toccava poi la bilancia (di bronzo), retta dal libripens. Il rituale originario era diverso: il libripens e la
bilancia ne mostrano la risalenza ad un periodo in cui la pesatura del bronzo era effettiva.
In origine, la mancipati solennizzava lo scambio cosa-aes rude, una compravendita a contabti. L'atto formale era adoperato per le
cose più importanti. La mancipatio ha subito vari adattamenti funzionali: è stata applicata alle persone libere in potestate del
paterfamilias, nel nexum e nella correlativa solutio per aes et libram, dove creava o estingueva una responsabilità. Più importanti
furono gli sviluppi che la portarono a diventare atto idoneo al trasferimento della proprietà per qualsiasi causa ciò avvenga: era così
un modo astratto di trasferimento della proprietà, uno strumento molto duttile, la cui efficacia poteva incorrere in inconvenienti, cui
avrebbe ovviato solo il pretore. Essa perdurò come requisito formale per la trasmissione del dominium ex iure Quiritium sulle res
mancipi fino all'epoca dei Severi. Scomparve nel tardo-antico e venne abolita da Giustiniano, che la sostituì con la traditio.
L'in iure cessio è molto più recente della mancipatio, ma già conosciuta nelle XII Tavole. È un'applicazione del processo a scopi
negoziali. In epoca classica poteva svolgersi in iure, non solo in Roma, ma anche nelle province. L'acquirente pronuncia la formula
della vindicatio, mentre l'alienante non contravindica. Il pretore procede, dunque, all'addictio della cosa all'unico fra i due
contendenti che ha compiuto il rito. Il suo impiego d'elezione è nella costituzione e nell'estinzione dei diritti reali parziari. Nel tardo-
antico, l'istituto scompare.
94. LA TRADITIO. IL TRASFERIMENTO DELLA PROPRIETÀ NEL TARDO-ANTICO
Strutturalmente, la traditio consiste nella consegna materiale della cosa ed è un modo di trasferimento del possesso che,
sussitendendo determinati requisiti, può diventare anche modo di trasferimento della proprietà. La consegna manuale è il mezzo
più spontaneo e naturale per trasmettere ad altri la disponibilità di una cosa. Essa risale, nell'esperienza romana, alla più remota
antichità.
La traditio è, per tutto il periodo classico, l'atto con cui si trasferisce il dominium ex iure Quiritium. Dal I sec. a.C., l'acquirente di una
res mancipi per traditio acquistava su di essa l'in bonis habere, tutelato dall'actio Publiciana. La consegna della cosa non è un atto
univoco, dato che può essere utilizzato per la consegna non definitiva della cosa. Perché avvenga il trasferimento della proprietà,
quindi, devono ricorrere alcuni requisiti: il tradente deve essere dominus ex iure Quiritium (o proprietario bonitario) della cosa, deve
ricorrere l'intenzione del tradente di trasferire e dell'acquirente di acquistare il possesso della cosa, deve sussistere la iusta causa
traditionis.
Essa è l'accordo sullo scopo per cui la consegna materiale della cosa avviene. È una conventio, un negozio giuridico bilaterale la cui
funzione economico-sociale trova attuazione nella traditio sul piano degli effetti traslativi. Questi effetti possono esaurire lo scopo
delle parti, o inserirsi in un più ampio contesto effettuale, in cui col trasferimento di proprietà le parti perseguono ulteriori fini. La
causa traditionis non presuppone, come ulteriore requisito, la possibilità che tale scopo venga concretamente realizzato. Gli effetti si
producono comunque, e l'alienante ha solo un'actio in personam per rimuoverli sul piano economico. Non tutti gli scopi perseguiti
dalle parti con la consegna di una cosa integrano una iusta causa traditionis: spetta ai prudentes stabilire quali scopi siano idonei a
giustificare il trasferimento della proprietà e quali no. Se manca la iusta causa traditionis, il trasferimento è inefficace. Stesso
risultato si ha se sussiste la iusta causa, ma difetta la volontà di trasferire la cosa.
La traditio ha una struttura possessoria, in quanto è un modo d'acquisto della proprietà che si fonda sull'acquisto del possesso. Ove
si possa considerare avvenuto il trasferimento del possesso, acnhe senza consegna, risulta integrata la fattispecie della traditio come
modo di trasferimento della proprietà. I casi più rilevanti si hanno nel trasferimento della proprietà mediante intermediario, il che si
ha attraverso le persone alieno iuri subiectae o per l'intervallo di un detentore.
Applicazione della traditi è la traditio brevi manu, che si vede anche nell'acquisto della proprietà per litis aestimatio. Nella rei
vindicatio il convenuto è libero di obbedire o meno al iussum de restituendo del giudice: se non obbedisce, si arriva alla
condemnatio pecuniaria. Il proprietario può essere, così, privato della cosa. Con il iusiurandum in litem si attuava una coazione
affinché il possessore restituisse la cosa all'attore, ma se ciò non avveniva, il giudice permetteva che l'attore, vincolato solo dalla
propria fides, stimasse il valore della cosa in base ad un giuramento. Non si aveva violazione della fides, se l'attore teneva conto del
valore d'affezione della cosa fissando l'aestimatio litis ad una somma maggiore del valore di mercato della cosa. Questa litis
aestimatio si considera come un vero e proprio prezzo, che porta a considerare avvenuta una vendita una volta che tale prezzo sia
stato pagato. Per le res nec mancipi, ciò è sufficiente l'acquisto della proprietà. Per le res mancipi, il convenuto diviene possessor ad
usucapionem, anche quando l'attore fosse stato riconosciuto come proprietario senza esserlo effettivamente.
Il sistema romano del trasferimento della proprietà era applicato, in ambiente provinciale, ai cittadini romani ed anche agli stranieri
nei limiti del ius gentium. Nelle province ellenizzate, la situazione era diversa, in quanto mancava la contrapposizione fra accordo
che crea l'obbligazione di trasferire la cosa e atto distinto che attua tale trasferimento. La proprietà passava sulla base del semplice
accordo sulla funzione socio-economica perseguita, accompagnato dai requisiti del pagamento del prezzo o della redazione di un
documento. La consegna della cosa non aveva alcuna funzione. A seguito dell'estensione della cittadinanza romana, i novi cives delle
province ellenizzate opposero una tenace resistenza all'introduzione del sistema romano, che venne difeso strenuamente dalla
cancelleria imperiale.
Nel periodo del volgarismo giuridico, però, tali concezioni sono accolte nella legislazione imperiale da Costantino. La distinzione fra
l'accordo, la conventio eventualmente produttiva di obbligazioni, e l'atto traslativo viene abbandonata. Nel tardo-antico, la traditio
rimase l'unico modus adquirendi del sistema classico. Nella prassi si assiste, poi, al diffondersi del constitutum possessorium, il
diritto reale di godimento che il tradente si riserva è, però, circoscritto in termini di tempo talmente brevi che è evidente l'intento
delle parti volto solo ad evitare la necessità dell'effettiva consegna.
95. LA DIFESA DELLA PROPRIETÀ. LA REI VINDICATIO
Il proprietario è difeso contro qualsiasi terzo che gli impedisca di esercitare le facoltà riconosciutegli in relazione alla cosa. La difesa
tipica della proprietà quale diritto assoluto è la rei vindicatio, che assicura al titolare del diritto la materiale disponibilità ed il diretto
controllo sulla cosa.
Essa spetta al proprietario per ottenere la materiale disponibilità della cosa della quale sia privo. Legittimato attivo è solo il dominus
ex iure Quiritium, mentre azioni modellate sulla vindicatio spettano al proprietario bonitario. Per quanto riguarda la legittimazione
passiva, nell'agere per sponsionem e nella formula petitoria, la rei vindicatio è intentata contro il possessore, in quanto tende alla
restituzione della cosa. In un primo tempo, è limitata al possessore, ma nel periodo tardo-classico la si ammette direttamente
contro il detentore.
La legittimazione passiva venne, poi, estesa anche ai casi della ficta possessio, in base al principio "il dolo sostituisce i l possesso". Si
tratta delle figure del dolo desinens possidere che in questo modo vuole evitare il processo; e del liti se offerens, colui che,
mentendo, afferma di avere la cosa per ingannare l'attore, palesando il difetto di legittimazione solo davanti al iudex privatus e
ottenere così l'assoluzione, per permettere all'effettivo possessore di completare il termine per l'usucapione.
La rei vindicatio conosce tre diverse forme. La più antica è la legis actio sacramento in rem, in cui non si distingue la posizione
dell'attore da quella del convenuto, in quanto entrambi i contendenti pronunciano l'identica vindicatio.
Dopo la pronuncia dei certa verba, il pretore attribuiva il possesso interinale ad uno dei contendenti, che doveva dare i praedes litis
et vindiciarum. La sentenza decideva quale dei due sacramenta fosse iustum e quale iniustum e risolveva, così, indirettamente la
questione della proprietà della cosa.
L'agere per sponsionem è stato il ponte di passaggio verso la formula petitoria, ma è rimasto in uso accanto a quest'ultima fino al II
sec. d.C. In questo caso, era solo il convenuto-possessore che doveva promettere, con una sponsio, il pagamento di una somma di
denaro all'attore, ove quest'ultimo fosse effettivamente stato il dominus ex iure Quiritium della cosa controversa. Agendo con la
legis actio sacramento in personam o per iudicis arbitrive postulationem, l'attore faceva accertare se la summa sponsionis fosse
dovuta e otteneva una sentenza che statuiva sulla proprietà della cosa. Il possessore poteva rifiutarsi di restituire la cosa, finché
l'attore non avesse provato di esserne il dominus ex iure Quiritium, il che aveva una notevole importanza per la ripartizione
dell'onere della prova. Il convenuto, in quanto possessore, doveva prestare la satisdatio pro praede litis et vindiciarum, garanzia
stipulatoria che sostituiva i praedes. Poiché la sentenza condannava solo al pagamento della summa sponsionis, l'attore vittorioso
poteva soddisfarsi, nel caso di mancata restituzione, in base alla satisdatio.
Nel periodo classico, la rei vindicatio viene fatta valere con la formula petitoria. Il regime della rei vindicatio, un’actio arbitraria
riproduce quello dell’agere per sponsionem: la pronuntiatio corrisponde alla sentenza sulla summa sponsionis, e la litis aest imatio,
in caso di mancata restituzione spontanea, al processo contro i garanti della satisdatio pro praede litis et vindiciarum: la principale
differenza consiste nel fatto che si tratta, ora, di due fasi dello stesso processo e non di due diversi processi. Accertata, nella
pronuntiatio, la fondatezza nell’intentio, il giudice emana il iussum de restituendo. A tale scopo deve controllare se sussista la
legittimazione passiva del convenuto, in quanto possessore al momento della litis contestatio: altrimenti, pur essendo provata la
proprietà dell’attore, non emetterà il iussum stesso. Deve altresì tener conto delle sorti della cosa successivamente alla litis
contestatio stessa: l’impossibilità della restituzione era originariamente posta in ogni caso a carico del convenuto ma
successivamente le soluzioni diventarono più articolate. Il convenuto rispondeva sempre per dolo o colpa: mentre i sabiniani lo
ritenevano responsabile solo in questi casi, i proculiani si attennero alla più antica soluzione nel senso di una responsabilità
oggettiva. Il iussum de restituendo comprendeva, oltre alla cosa, la causa rei: l’attore non doveva subire un decremento
patrimoniale per non aver ottenuto l’immediata restituzione della cosa al momento della litis contestatio. Il possessore doveva
restituire i frutti naturali percepiti dopo tale momento, fosse di buona o di mala fede, ed era responsabile per quelli che avrebbe
potuto percepire usando della diligenza del buon padre di famiglia. Per il periodo anteriore alla litis contestatio, il possessore di
buona fede faceva propri i frutti sulla base della semplice separatio e non era quindi chiamato a rispondere, mentre il possessore di
mala fede era tenuto anche per questi. Più tardi la posizione del possessore di buona fede venne aggravata, in quanto gli si impose
la restituzione dei fructus extantes (quelli in cui egli era ancora in possesso). I frutti percepiti ante litem contestam non erano
contenuti nella causa rei: non essendo implicitamente ricompresi nella vindicatio della cosa madre, erano richiesti insieme a
quest’ultima con un’unica sola azione o erano dedotti in una separata vindicatio fructuum. Ove non esistessero più, si agiva
mediante una condictio fructum. Giustiniano impone che il possessore di mala fede risponda anche dei fructus percipiendi: ciò che
fu reso possibile dalla maggior libertà delle forme della cognitio e del processo postclassico. In periodo classico, solo il possessore di
buona fede poteva chiedere al giudice di tener conto delle spese fatte per la cosa che doveva restituire al proprietario. Ciò era
ottenuto mediante l’impiego dell’exceptio doli: l’attore che non riconosceva tali spesi era considerato in dolo e il giudice asssolveva
il convenuto che non avesse restituito.
Nella cognitio extra ordinem, la disciplina della rei vindicatio rimase quella della formula petitoria. Innovazione postclassica fu
l'introduzione dell'esecuzione in forma specifica della sentenza che condannava alla restituzione della cosa.
L'in bonis habere è protetto dall'actio Publiciana e dall'exceptio rei venditae et traditae. L'actio viene concessa a favore del
possessor ad usucapionem e serve al recupero della cosa di cui il possessor abbia perso la disponibilità. Era un'actio ficticia,
modellata sulla rei vindicatio. La fictio iuris consisteva nell'ordinare al giudice di accertare se la cosa fosse stata trasferita all'attore
ex iusta causa ed in buona fede, e di considerare trascorso il periodo di tempo necessario per l'usucapione: il iussum de restituendo
doveva essere emesso ove l'attore dovesse considerarsi, per tale fictio, aver acquisito il dominium ex iure Quiritium. Questa formula
poteva essere adoperata sia nel caso di trasmissione di una res mancipi mediante traditio che in quello di acquisto a non domino: la
formula stessa era vittoriosamente esperibile anche contro il titolare del dominium ex iure Quiritium. Nel caso di acquisto a non
domino, non poteva ammettersi che, con l’actio Publiciana, il vero proprietario venisse spogliato dalla cosa in seguito all’alienazione
da parte di un terzo. Per evitare ciò, il pretore concedeva l’exceptio iusti dominii, con la quale il proprietario civile faceva valere tale
sua qualità per respingere l’actio Publiciana del possessor ad usucapionem. Codesta exceptio poteva venir vittoriosamente opposta
non solo nell’acquisto a non domino, ma anche in quello della traditio di una res mancipi da parte del proprietario civile, dove essa
risultava infondata: era necessario un intervento del pretore che concedeva a favore dell’attore una replicatio. Colui che aveva
ricevuto, mediante traditio, una res mancipi poteva esser poi convenuto in giudizio con la rei vindicatio dal tradente rimasto
dominum ex iure Quiritium: in questo caso era necessaria una difesa, la quale veniva concessa nella forma dell’exceptio rei venditae
et traditae, che si fondava anch’essa sull’acquisto in buona fede in base a una traditio ex iusta causa.
Attraverso un modo d’acquisto iuris gentium anche uno straniero poteva ricevere da un cittadino romano la proprietà di una cosa: e
poteva disporre in Roma di cose acquistate nell’ambito del proprio ordinamento. È probabile che la proprietà dello straniero venisse
tutelata dal pretore peregrino con un’actio in factum o ficticia; ed è ipotizzabile che egli concedesse un particolare adattamento
dell’actio Publiciana, nel caso in cui a favore dello straniero si fosse verificata la fattispecie che, fra cives, avrebbe dato luogo a tale
azione, in cui bisognava tener conto che, ai peregrini non si applicava neppure l’istituto dell’usucapio.
96. GLI ALTRI MEZZI A DIFESA DELLA PROPRIETÀ
La proprietà può essere limitata dalla coesistenza sulla cosa di diritti reali di godimento. L'esercizio da parte di terzi di uno di questi
diritti incide sulla portata del diritto del proprietario, che non può esercitare in sua difesa la rei vindicatio, perché il suo diritto non
viene contestato. A sua difesa è concessa l'actio negatoria, che fa valere l'inesistenza del diritto esercitato. Si tratta di un'azione di
condanna: il giudice emette il iussum de restituendo, che ha ad oggetto la rimozione della turbativa a partire dal momento della litis
contestatio e prevede la prestazione della cautio de amplius non turbando (convenuto si obbliga a non ripetere la turbativa). Se il
convenuto non adempie al iussum, si giunge ad una condanna pecuniaria.
Le controversie fra vicini sono spesso dovute a dispute sui confini. Per la risoluzione di queste era prevista l'actio finium
regundorum. Bisogna distinguere fra:
agri limitati: hanno origine in una formale divisio et adsignatio di ager publicus. Tra i singoli fondi corrono delle strisce di
terreno, i limites, rappresentati dai cardines e dai decumani, che sonoo sottratti all'adsignatio e rimangono pubblici. I fondi situati
all'interno di tali agri, quindi, non hanno confini.
agri arcifinii: esiste una linea di confine che divide i fondi direttamente contigui. La zona di confine consiste in uno spazio di
cinque piedi, egualmente ripartiti tra i fondi interessati, che è sottratta alla coltivazione e inusucapibile.
L'actio finium regundorum serve a garantire che il confinium adempia alla sua funzione (se adibito a scopi diversi), a far riapporre i
termini che segnavano la linea di confine e a fissare il tracciato di tale linea controverso fra le parti.
Ai fondi rustici ed urbani si riferisce l'istituto del damnum infectum (danno solo temuto). La fattispecie si ha quando, a seguito di
eventi naturali o opere, il proprietario di un fondo tema un danno derivante da crolli. Si ricorreva dunque alla cautio damni infecti
concessa dal pretore. Su richiesta dell'interessato, il magistrato imponeva al proprietario dal cui fondo di temeva un danno per
quello vicino di promettere, mediante stipulatio, al proprietario di quest'ultimo di risarcire il danno che si fosse eventualmente
verificato. Se l'ordine non veniva eseguito, il pretore concedeva la missio in bona ex primo decreto, immettendo il proprietario
temente nel possesso del fondo da cui si temeva il danno. Si trattava di una coazione indiretta per ottenere la prestazione della
cautio. Il missus in possessionem poteva provvedere alle misure urgenti per evitare il danno. Se, nonostante la missio, il proprietario
rifiutava di prestare la cautio, dopo un anno si aveva la missio ex secundo decreto, che dava al missus l'in bonis habere, con la
possibilità di ottenere il dominium ex iure Quiritium con l'usucapio.
La difesa contro le costruzioni lesive della proprietà o di un diritto di servitù si attuava mediante:
prohibitio: la forma più antica è l'esercizio del ius prohibendi per le opere che un estraneo facesse su un fondo altrui (facere in
alieno) o che il proprietario del fondo servente facesse sul proprio (facere in suo), violando il diritto del prohibens.
operis novi nuntiatio: introdotta dal pretore, essa si applicava al facere in suo perché il proprietario del fondo vicino e titolare
di un diritto di servitù sul fondo in cui si costruiva sosteneva che l'opera era illegittima (violava la servitù), o perché,
indipendentemente da un ius in re aliena, la costruzione minacciava di danneggiare il fondo del nuntians. Si attuava in linea
stragiudiziale, senza particolari formalità. Gli effetti, quindi, variavano a seconda dei vari tipi.
interdictum quod vi aut clam: esperibile quando taluno costruiva in alieno contro un'esplicita prohibitio (vi) o contro la
presumibile volontà (clam) di chi aveva diritto a che l'opera non fosse compiuta. L'interdetto era restitutorio e l'attore otteneva che
venisse ripristinata la situazione precedente alla costruzione dell'opera.
Posizione particolare assume, nei rapporti di vicinato, l'actio acquae pluviae arcendae. Le XII Tavole disciplinano diritti e doveri
reciproci dei proprietari dei fondi vicini in ordine all'acqua piovana: essi non potevano opporsi al naturale deflusso e riflusso delle
acque piovane. Il proprietario del fondo inferiore non può opporsi al deflusso normale delle acque o farle rifluire artificialmente
verso il fondo superiore. In epoca classica, l'actio è in personam ed arbitraria, e si può intentare nel caso in ci, attraverso opus manu
factum, si modifichi il naturale corso dell'acqua piovana. L'azione si rivolge non contro chi abbia eseguito l'opus, ma contro il
proprietario del fondo in cui l'opus è situato. Si coglie, poi, una differenziazione nella responsabilità: se costruttore dell'opus, il
convenuto deve a sue spese rimuoverlo. Se, invece, l'opus è stato costruito da altri, egli è tenuto a patientiam praestare, cioè a
permettere che a proprie spese l'attore rimuova l'opus. Nella compilazione giustinianea, l'actio serve a modificare il regime delle
acque piovane che dipenda dala naturale configurazione dei luoghi.
97. I DIRITTI REALI DI GODIMENTO. I IURA PRAEDIORUM
I giuristi romani non si sono mai posti la questione della differenza fra i diritti di godimento e quelli di garanzia. Gaio fa rientrare
servitù ed usufrutto nelle res incorporales. Nella compilazione giustinianea, si individua una categoria comprensia di questi diritti,
ricompresi tutti nell'ambito delle servitutes, intese in senso generico. Chi opera una precisa classificazione è Marciano, che distingue
le servitutes praediorum (iura praediorum) e le servitutes personarum (usufrutto, uso e abitazione).
Nei diritti reali di godimento sono ricompresi servitù, usufrutto e figure affini, la superficie e l'enfiteusi. Queste incidono in modo
diverso sui poteri del proprietario della cosa su cui gravano. Superficie ed enfiteusi attribuiscono a chi ne è titolare le medesime
facoltà ricomprese nel diritto di proprietà: l'unica limitazione è il pagamento del canone. Anche le facoltà dell'usufruttuario sono
molto ampie nell'ambito dell'usus e del fructus: al nudo proprietario residua solo il diritto di riacquistare la piena disponibilità della
cosa al momento dell'estinzione dell'usufrutto. Nelle serviù, invece, la compressione del diritto di proprietà è molto ridotta e
riguarda talune delle facoltà del proprietario, seppur illimitata nel tempo.
Fra queste fidure, le più antiche sono le servitutes, definite come un peso gravante su un fondo a favore di un altro fondo. La
servitù, sotto il profilo giuridico, è il diritto reale parziario, in base al quale il proprietario di un fondo (fondo servente) è tenuto, nei
confronti del proprietario di un altro fondo (fondo dominante), a non esercitare un'attività sul proprio fondo che gli sarebbe stata
altrimenti consentita (servitù negative), o a permettere che il proprietario del fondo dominante eserciti sul fondo servente
un'attività che altrimenti avrebbe potuto proibire (servitù affermative). La servitù è, poi, inerente al fondo: è necessariamente
ricompresa nel trasferimento del fondo servente e del fondo dominante. Non può essere alienata, dal lato attivo, se non
congiuntamente al fondo dominante.
Dalla fine del III sec. a.C., l'esperienza romana conosce iura praediorum che sono diritti reali parziari. In dottrina si è ipotizzato che,
nella configurazione più risalente, il proprietario del fondo dominante avrebbe avuto una sorta di proprietà o titolarità sulfondo
servente. Difficilmente v'era spazio per la configurazione di un concetto come quello di iura in re aliena. Il diritto vantato sul fondo
servente, quindi, era analogo alla titolarità che si aveva sul proprio fondo. Questa costruzione empirica entra in crisi nel III-II sec.
a.C., in seguito al formarsi della scienza del diritto e all'emergere di nuove servitù: quelle urbane e dell'usufrutto. Da qui, nasce la
nuova configurazione delle servitù come iura in re aliena.
La costituzione di una servitù necessita di determinati requisiti: deve esistere un'utilità oggettiva del fondo dominante, che va
commisurata alla funzione economico-sociale del fondo. L'utilità oggettiva comporta anche che, se non contigui, i fondi debbano
essere relativamente vicini, in modo da rendere possibile l'esercizio della servitù stessa.
La servitù impone al soggetto passivo del rapporto solo un comportamento negativo: non esercitare una delle facoltà rientranti nel
diritto di proprietà (servitù negative) o di sopportare sul proprio fondo un'attività del proprietario del fondo dominante. A causa
della loro specialità, però, per i iura praediorum poteva facilmente presentarsi, nella pratica, la tendenza ad imporre al proprietario
del fondo servente un obbligo positivo, come avviene nella servitus oneris ferendi (diritto di appoggiare il proprio muro al muro del
vicino costruendo in aderenza). Sul proprietario del fondo servente, dunque, gravava un obbligo positivo, ossia il tener il muro
d'appoggio in buone condizioni.
La dottrina romanistica si è posta il problema della tipicità delle servitù. Dalle fonti si può dedurre che non esisteva una tipicità
vincolante come nei contratti. Questo, però, non significa che i prudentes non avessero individuato determinate figure di servitù.
Tra i iura itinerum (servitù di passaggio), essi hanno individuato tre tipi:
iter: permette il passaggio a piedi.
actus: permette il passaggio con il bestiame.
via: è la somma delle due precedenti, permette inoltre il passaggio con i carri.
I prudentes, inoltre, procedevano a delle classificazioni fra le servitù. Pomponio distingue fra servitù affermative e servitù negative.
Paolo distingue fra servitù continue, esercitate senza che intervenga l'attività del proprietario del fondo dominante; e discontinue,
che presuppongono tale attività. Non risultano agganci per l'attuale distinzione fra servitù apparenti (per il cui esercizio è necessaria
l'esistenza di opere visibili e permanenti) e servitù non apparenti (tutte le altre). Romana è, invece, la classificazione fra iura
prediorum rusticorum ed urbanorum. I praedia urbana sono situati nella città, e si identificano con gli edifici. I praedia rustica sono i
fondi agricoli. I giuristi classici, però, tenevano conto del contesto in cui si attuava la funzione socio-economica dei fondi. Ovunque
questi siano situati, quindi, l'acquea ductus (servitù di condurre l'acqua mediante un rivus e di attingerla) e l'acquae haustus (servitù
di attingere l'acqua) sono sempre servitù rustiche. La servitus altius non tollendi (non edificare oltre una certa altezza), la oneris
ferendi e la stillicidii (far scolare l'acqua piovana sul fondo del vicino) sono sempre urbane.
98. L'USUFRUTTO E LE FIGURE AFFINI
L'usufrutto si definisce come il diritto di usare le cose altrui e di percepirne i frutti, non modificandone la sostanza. È molto più
recente dei iura praediorum: ha origine, infatti, nel III sec. a.C., da esigenze di carattere alimentare, collegate alla successione
ereditaria. È, infatti, prevalentemente costituito mediante legato per vindicationem. Per i giuristi classici, esso è un diritto reale
parziario, in cui si afferma il ius utendi fruendi dell'attore.
Alla posizione dell'usufruttuario, si contrappone la figura del proprietario i cui poteri sono stati compressi, posizione che si definisce
come nuda proprietà. I poteri del proprietario sono praticamente, anche se temporaneamente, ridotti a nulla. Egli non può in alcun
modo rendere deteriore la posizione dell'usufruttuario.
All'usufruttario manca per definizione il potere di disporre della cosa e di costituire sopra di essa diritti reali parziari. È, invece,
legittimato a concludere e ad eseguire contratti obbligatori che prevedano l'utilizzazione della cosa stessa. Egli è detentore delle
cose oggetto dell'usufrutto che gli vengano trasmesse. L'usufrutto ha un contenuto molto ampio, in quanto attribuisce al titolare
una serie di facoltà, limitate solo negativamente. Il limite più importante sta nel fatto che l'usufruttuario non può modificare la
destinazione socio-economica della cosa. Sul modo in cui egli esercita le facoltà, incide la cautio boni viri arbitru se usurum
fruiturum. L'arbitrium boni viri si riferisce al modo in cui si comporterebbe al proposito una persona corretta ed in buona fede. La
formulazione della cautio ha influito sulla determinazione dei poteri dell'usufruttuario amche nei casi in cui questa non era prestata:
egli può usare della cosa nel modo in cui lo farebbe un buon paterfamilias, anche se il disponente ne usava in modo diverso, ma nei
limiti in cui l'adoperava il disponente stesso.
I frutti sono fatti propri dall'usufruttuario mediante la perceptio: se quest'ultima non coincide con la separatio, la proprietà è
acquistata interinalmente al nudo proprietario.
Il figlio della schiava non era considerato frutto, il che significa che il neonato venga acquistato in piena propretà al dal nudo
proprietario.
L'usufrutto ha carattere essenzialmente personale e temporaneo: cessa alla morte o alla capitis deminutio del titolare; se è stato
apposto un termine finale e se è stata apposta una clausola risolutiva esso si estingue per l'avverarsi di queste clausole. L'usufrutto
costituito a favore di una persona alieno iuri subiecta, fa sì che l'usufrutto venga acquistato alpaterfamilias, ma questo si
commisurerà sulla vita della persona alieni iuris, e si estingue per la capitis deminutio o morte della stessa. Il carattere personale del
diritto ne rende impossibile il trasferimento: Pomponio affermava che se l'usufruttuario ne faceva in iure cessio, il diritto si
estingueva; Gaio, invece, ammettva tale effetto solo nel caso di in iure cessio al dominus proprietatis, soluzione poi seguita da
Giustiniano.
Oggetto del diritto sono cose corporali e consumabili: l'inamissibilità di cose consumabili dipende dalla circostanza che
l'usufruttuario è obbligato a restituire la cosa oggetto dell'usufrutto nella sua identità. Un'innovazione si ha nel I sec. a.C., con
l'usufrutto generale: rientrano nell'ambito di questo diritto anche le cose consumabili e il denaro. Dopo aver prestato la cautio
fructuaria, l'usufruttuario otteneva il potere di disporre di cose consumabili perché la cautio conteneva una clausola de restituendo,
in base alla quale l'usufruttuario stesso restava obbligato alla restituzione del tantundem eiusdem generis. Si aveva così la figura del
quasi usufrutto.
Nella denominazione dell'istituto, rientrano facoltà diverse: l'usus ed il fructus. L'usus è il potere di godere direttamente della cosa,
mentre il fructus è il potere di farne propri i frutti. Il primo ha carattere rigorosamente personale, in quanto non può cedersene
neppure l'esercizio.
Sviluppo in tema di servitù irregolari si hanno nel tardo-antico. La facoltà di usare una casa d'abitazione si configura come autonomo
diritto reale, l'habitatio. La disciplina giustinianea si risolve, però, in un usufrutto, ma in questo caso l'habitator ha la facoltà di locare
e l'habitatio non si estingue per capitis deminutio e per non usus. Figura autonoma diventano anche le operae servorum ed
animalium: sono assimilate all'usufrutto, ma si distinguono da esso per la trasmissibilità agli eredi e per la disciplina dell'estinzione,
in quanto si estinguono solo per la morte dello schiavo o dell'animale.
99. COSTITUZIONE, ESTINZIONE, DIFESA DELLE SERVITÙ E DELL'USUFRUTTO.
Nei iura in re aliena, le tematiche relative alla costituzione, all'estinzione e alla difesa presentano dei tratti in comune, il che dipende
dal fatto che sono res incorporales. Codesta caratteristica impedisce la costituzione di tali diritti mediante la traditio e la mancipatio:
fra quelli inter vivos, il negozio più adoperato a tale scopo era l’in iure cessio, mentre, mortis causa, sia la servitù che l’usufrutto
erano costituiti mediante il legatum per vindicationem. Nel caso che il proprietario volesse costituire a proprio favore una servitù o
un usufrutto sulla cosa che alienava, poteva conseguire tale risultato con la deductio dalla mancipatio o dall’in iure cessio.
L’acquirente quindi affermava che la cosa era sua deducta servitute o deducto usufructu. Ai iura praediorum rusticorum, che erano
res mancipi, era applicabile la mancipatio e fino alla lex Scribonia del 50 a.C., essi potevano essere usucapiti.
Un problema si presentava per la costituzione delle servitù e dell’usufrutto sui fondi provinciali, oggetto della proprietà pubblicistica
dello Stato, esclusi quindi dalla proprietà quiritaria, sui quali né usufrutto né servitù potevano costituirsi mediante in iure cessio o
mancipatio. Gaio informa che sui fundi stipendiarii et tributarii, gli iura in re aliena venivano costituiti mediante pactiones et
stipulationes: a essi deve riconoscersi un’efficacia reale; per , nel sistema romano degli atti negoziali, la stipulatio ha solo effetti
obbligatori, e l’accordo, la pactio, non ha rilevanza per il trasferimento della proprietà. L’uso della pactio per costituire un diritto
reale parziario sui fondi provinciali crea meno problemi perché gli effetti si verificano sul piano del ius honorarium.
All’inizio del tardo-antico cadono in desuetudine la mancipatio e l’in iure cessio, il che pone il problema della costituzione dei diritti
reali parziari di godimento. Le pactiones et stipulationes divennero il modo normale di costituzione delle servitù prediali anche per i
fondi italici e per l’usufrutto. In periodo giustinianeo, ritornò in vigore l'acquisto per ususcapione delle servitù, alle quali venne
estesa la praescriptio longi temporis. Nella compilazione si trovano allusioni a servitù che sembrano costituite “per destinazione del
padre di famiglia”. Tale modo presuppone una situazione in cui tra due fondi appartenenti allo stesso proprietario si viene a stabilire
un rapporto identico al contenuto di una servitù.
I diritti reali parziari di godimento si estinguono per confusio, quando nella stessa persona coincidano la titolarità del diritto e la
proprietà della cosa su cui esso grava. Le servitù si estinguono in seguito al perimento del fondo servente o dominante, o per il venir
meno dell'utilità oggettiva, o per rinuncia (che doveva avvenire come in iure cessio, modellata sull'actio negatoria). Il diritti reali
parziari si estinguono anche per inattività del titolare, il quale non eserciti il suo diritto per un anno (nell’usufrutto di cose mobili) o
per due anni (in tutti gli altri casi). I romani conoscevano due differenti modi in cui tale estinzione si attuava: il non usus, che si
applicava alle servitù rustiche e all’usufrutto, e l’usucapio libertatis, propria invece delle servitù urbane. Il non usus consisteva
nell’inattività del titolare, e il termine decorreva dal primo mento in cui, potendolo, quest’ultimo non avesse esercitato il suo diritto.
L’usucapio libertatis richiedeva anche che s’instaurasse, nel fondo servente, una situazione di fatto contraria al diritto di servitù: il
termine decorreva dal momento in cui tale situazione si fosse instaurata, ed era necessario che il proprietario del fondo servente
stesso lo perdesse per due anni. Al posto di questi due istituti classici, Giustiniano ammette la praescriptio longi temporis: il termine
è fissato in 10 o 20 anni.
Analogie tra servitù e usufrutto si hanno anche per quanto concerne la difesa giudiziaria. Si configura la vindicatio servitutis che, nel
processo formulare, dava luogo a una formula petitoria, l’actio confessoria. Nell’intentio dell’actio era versato il diritto dell’attore:
come in tutte le actiones in rem, seguiva la clausola arbitraria e poi la condemnatio al quanti ea res erit. Se il convenuto non
rimuoveva gli ostacoli all’esercizio della servitù, il giudice procedeva alla condemantio pecuniaria sulla base del iusiurandum in litem
dell’attore, il che comportava l’estinzione, iure praetorio, della servitù stessa. L’usufrutto viene tutelato da una vindicatio (o petitio)
ususfructus, detta anch’essa actio confessoria. Nella formula petitoria, l’intentio suona “se sarà provato che Aulo Agerio ha il diritto
di godere il fondo di cui è causa e di percepirne i frutti”, cui segue la clausola restitutoria, e la condemnatio pecuniaria.
La legittimazione passiva all’actio confessoria era, in entrambi i casi, limitata al proprietario della cosa gravata dal diritto reale
parziario. Per la vindicatio servitutis si ammette che l’azione potesse essere intentata contro qualsiasi terzo che impedisca l’esercizio
del diritto. La restrizione della legittimazione passiva all’actio confessoria pone il problema della “realtà” delle situazioni giuridiche
soggettive in tal modo protette. Per i giuristi romani si trattava di un’actio in rem, che aveva il regime caratteristico di queste azioni
per quanto concerne l’indefensio, sanzionata dall’interdictum quam servitutem e da quello quem usumfructum, che funzionavano in
modo analogo all’interdictum quem fundum, che spettava per la rei vindicatio.
L’esercizio di fatto del diritto di usufrutto e di alcuni tipi di servitù prediale è protetto in via interdettale. Per l’usufrutto sui beni
immobili, ci avviene mediante un’estensione dell’interdictum uti possidetis. Per le servitù, sia hanno specifici interdetti per i iura
itinerum, le servitù d’acqua, quella di cloaca. La legittimazione attiva a questi mezzi giudiziaria dava luogo alla figura della quasi
possessio.
100. SUPERFICIE ED ENFITEUSI
Tradizionalmente nella categoria dei diritti reali parziari sono riportate anche la superficie e l’enfiteusi. Il superficiario e l’enfiteuta
hanno un dominio utile sulla cosa, cui si contrappone un dominio eminente del proprietario che consiste nel diritto al canone
enfiteutico o superficiario e nell’aspettativa di riacquistare la piena proprietà nel caso l’enfiteusi o la superficie si estinguano.
Il diritto di superficie è connesso alla divisione della proprietà per piani orizzontali, la quale si ha allorché riconosce a soggetti diversi
la proprietà dell’edificio e del suolo o dei singoli piani che costruiscono l’edificio stesso. La vigenza del principio superficies solo cedit
sta a significare che era conosciuta solo la divisione della proprietà per piani verticali. A questa situazione, si contrapponeva
l'esigenza di una divisione per piani orizzontali. Nella storia della superficies romana si devono distinguere due filoni:
concessioni pubbliche: risalgono agli ultimi due secoli della repubblica. Si tratta delle concessioni di edifici costruiti su suolo
pubblico, che non potevano essere alienati perché ciò avrebbe comportato anche l'alienazione del suolo pubblico. Tali edifici
venivano dati in uso a privati, con affitto a lungo termine contro il corrispettivo di un vectigal. La concessione integrava una locatio-
conductio di diritto pubblico. Il concessionario non era tutelato nei confronti del concedente (stato), ma lo era nei confronti dei terzi
mediante un'interdictum de superficiebus. Nell'editto adrianeo, è prevista la concessione di un'actio in rem, previa causae cognitio
che, in seguito, non sarà più richiesta. Si ammisero, poi, la trasmissibilità universale mortis causa e a titolo particolare inter vivos.
concessioni private: concessioni simili alle precedenti, ma fatte da privati. Risaolgono alla fine della repubblica e sono
configurate come locationes-conductiones a lungo termine, contro il corrispettivo di un solarium, ma anche come emptiones-
venditiones quando il corrispettivo era unitario. Il contratto di locatio-conductio fra concedente e concessionario era tutelato da una
difesa contro il concedente e contro le turbative dei terzi che avessero acquistato il suolo dal concedente stesso. Il concessionario
poteva agire con l'actio conducti, o con l'actio empti, contro il concedente. A questa difesa, si aggiunse poi l'estensione della
legittimazione attiva all'interdictum de superficiebus.
I giuristi romani non si sono mai preoccupati di inquadrare questa disciplina in una costruzione teorica, neppure nella compilazione
giustinianea.
L'enfiteusi è molto più recente, in quanto ha origine nella prassi negoziale-amministrativa della crisi del III sec. d.C. L'esigenza
principale era quella di trovare soggetti disposti alla coltivazione della terra ed al pagamento di un canone, spesso oneroso. Nella
prassi, si distinguono due figure di concessioni a lungo termine: una usata nell'amministrazione del patrimonium Caesaris, con affitti
a lungo termine chiamati emphyteusis, e l'altra in quella della res privata, con affitti a tempo indeterminato di più facile revocabilità
che creavano una situazione giuridica detta ius perpetuum. In entrambi i casi, la concessione era trasmissibile agli eredi, e anche a
titolo particolare, con il consenso dell'amministrazione concedente. In Occidente, la caduta dell'impero romano fece venir meno la
distinzione fra enfiteusi, ius perpetuum e proprietà soggetta ad imposta. In Oriente, invece, sipervenne all'unificazione fra ius
perpetuum e enfiteusi, che divennero l'oggetto di un contratto tipico diverso dalla conductio e dalla vendita, con una disciplina del
rischio specifica: i danni generali ed eccezionali erano sopportati dal concedente, quelli lievi e particolari dall'enfiteuta.
101. LE GARANZIE REALI
I diritti reali di garanzia assicurano il soddisfacimento di un credito del titolare degli stessi, vincolando a tale scopo una o più cose
determinate, appartenenti al debitore o a un terzo che sia disposto a fornire la garanzia stessa. Caratteristiche essenziali dei diritti
reali di garanzia sono il ius sequelae ed il ius praelationis. Il ius sequelae comporta che il creditore può far valere la garanzia reale,
nonostante che la cosa sia uscita dalla disponibilità del debitore o del terzo che l’hanno costituita. Il ius praelationis implica che il
creditore sia legittimato a soddisfarsi sulla cosa oggetto del diritto reale di garanzia a preferenza di qualsiasi altro creditore.
La prima figura di garanzia reale è la fiducia cum creditore che costituisce un trasferimento della proprietà a titolo di garanzia, in cui
la posizione del creditore è tutelata in modo più sicuro che in un diritto reale di garanzia. È la forma più antica della proprietà
fiduciaria, che si ha quando una cosa venga trasferita dall’alienante (fiduciante) all’acquirente (fiduciario) per un certo scopo, con
l’intesa che, quando tale scopo sia esaurito, la cosa venga restituita al fiduciante. I negozi con cui si pone in essere la fiducia cum
creditore sono la mancipatio e l’in iure cessio. L’intesa fiduciaria prevede, nel caso, che il fiduciario resti obbligato al ritrasferimento,
allorché l’obbligazione garantita sia stata puntualmente adempiuta. Il possesso della cosa data in garanzia non passa
necessariamente al creditore.
Alle origini, la cosa data in fiducia era considerata come l'equivalente del debito non adempiuto: la proprietà fiduciaria si
trasformava in proprietà pura e semplice. Contemporaneamente alla mancipatio e all’in iure cessio, scompare verso la fine del III
sec. d.C.
Il termine pignus è usato per designare qualsiasi garanzia reale che non comporti l’immediato trasferimento della proprietà della
cosa che ne è oggetto: e si applica quindi sia al pegno manuale o possessorio, che presuppone il trasferimento informale al creditore
della materiale disponibilità della cosa (il pignus datum), sia al diritto reale di garanzia creato sulla base della conventio pignoris
(accordo fra le parti), senza il trasferimento della disponibilità della cosa (pignus conventum). Il regime del pignus datum cominciò a
evolversi verso la fine del III sec. a.C. Il creditore fu in un primo momento protetto dagli interdetti a difesa del possesso, sebbene
non fosse un possessore pro suo. Il pegno manuale divenne un vero e proprio diritto reale quando, alla fine del I sec. a.C., per il
recupero della cosa eventualmente perduta, si estese al pignus datum l’actio Serviana, introdotta per il pignus conventum, la quale,
in quanto azione petitoria, apprestava una tutela più ampia che gli interdetti possessori: questi divennero nel tempo un’ulteriore
mezzo di tutela accanto all’actio in rem, in quanto il creditore avesse conseguito il possesso della cosa data in pegno.
Il pignus conventum appare agli inizi del II sec.a.C. come pegno sugli invecta et inlata, le cose mobili che l’affittuario porta sul fondo
ai fini della coltivazione. Le parti possono pattuire cha tali cose servano da garanzia per il pagamento del fitto. Anche la tutela del
pignus sugli invecta et inlata è, alle origini, solo possessoria. Con l’interdictum Salvianum, il locatore poteva conseguire la materiale
disponibilità delle cose oggetto della garanzia, quando restasse inadempiuta l’obbligazione di pagare il canone. Si trattava di un
interdictum adipiscendae possessionis che, alle origini, spettava solo contro l’affittuario. Quando il locatore avesse conseguito, con
l’interdictum Salvianum, il possesso sugli invecta et inlata, poteva usufruire, come nel pignus datum, delle difesa offerta dagli
interdicta retinendae e recupendae possessionis. Nel I sec. a.C., si ha l'introduzione dell'actio Serviana, che serviva sia a conseguire
che a recuperare la materiale disponibilità della cosa, ed era esperibile contro qualsiasi possessore. La trasmissione del possesso
divenne un elemento accidentale della fattispecie, che aveva solo l’effetto di garantire in modo più efficace il creditore, mediante la
disponibilità materiale della cosa.
Il pegno può esser validamente costituito dal debitore o da un terzo solo in quanto abbiano la cosa in bonis, sia che si tratti del
dominus ex iure Quiritium, del proprietario bonitario o provinciale, del titolare di un ius in agro vectigali. La costituzione del pegno
presuppone l’esistenza del credito da garantire.
Ove sia stato costituito un diritto di pegno contemporaneamente a favore di più creditori, prevale dapprima quello fra i creditori
stessi che abbia ottenuto la disponibilità materiale della cosa: verso la fine del periodo classico sembra affacciarsi la regola per cui
nel caso tutti gli aventi diritto sono posti su un piano paritario. Nel pegno successivo, i creditori stessi vengono soddisfatti secondo
l’ordine di costituzione: prior tempore, potior iure. Prevalse infine l’opinione che i creditori di grado ulteriore erano fin dall’inizio
titolari del diritto di pegno sull’intera cosa e potessero esperire l’actio serviana, contro la quale i creditori pozioni in rango
opponevano l’exceptio rei sibi ante pigneratae: il ius vendendi spettava solo a chi di volta in volta fosse poziore in grado.
In epoca classica, esistevano due modi in cui, in seguito all’inadempimento, il creditore poteva soddisfarsi sul pegno: la lex
commissoria e il ius vendendi. Essi coincidono con quelli in cui si soddisfa il creditore fiduciario, ma vengono ad assumere, nel
pegno, una valenza diversa, dato che il creditore pignoratizio non ha acquistato la proprietà della cosa destinata al soddisfacimento
del credito. In epoca risalente, il pignus datum attuava una coazione indiretta sul debitore. Anche nel pegno è più antica la lex
commissoria che doveva essere di volta in volta pattuita: il creditore era legittimato a trattenere in proprietà la cosa data a pegno,
ove l’obbligazione non fosse adempiuta; in epoca classica, l’acquisto della proprietà della cosa data a pegno non era automat ico, in
quanto il creditore doveva manifestare la volontà di avvalersi della clausola stessa. Anche nel pegno si impose rapidamente, a danno
della lex commissoria, il pactum vendendi che ne era divenuto naturale alla fine del periodo classico. In base a tale pactum, il
creditore pignoratizio acquista il potere di disporre del pegno, che vende non come proprietario. Dopo essersi soddisfatto sul
ricavato, il creditore è obbligato a restituire, al debitore o al terzo il superfluum. Alla difficoltà che il creditor poteva incontrare nella
realizzazione del pegno mediante la vendita ovviava l’impetratio iure dominii, con cui si chiedeva all’imperatore di acquistare la
proprietà del pignus di cui si fosse conseguito il possesso. La lex commissoria venne formalmente abolita da Costantino, nel 320 d.C.,
a causa delle captiones a cui era esposto il debitore: la nullità colpiva la costituzione del pegno nel suo complesso, ma era fatta salva
l’actio in personam del creditore. Giustiniano regola l’impetratio iure dominii, sempre allo scopo di proteggere il debitore o il terzo.
Il pegno come diritto reale è tutelato dall’actio Serviana, un’actio in rem pretoria, con formula in factum concepta, nella cui intentio
sono fissati i presupposti per l’emanazione del iussum de restituendo. L’azione è esercitata, dopo l’inadempimento, contro qualsiasi
possessore, anche contro gli altri creditori pignoratizi.
Il pegno si estingue in seguito all’estinzione dell’obbligazione garantita: si verifica nella remissione del debito, sia per acceptilatio, sia
nel pactum de non petendo, mentre è dubbio nella confusio. Si estingue inoltre se, per il credito scaduto, il creditore abbia accettato
una satisfactio e cioè la dazione di garanti personali, o di altro pegno. Ancora per le cause tipiche dei diritti reali: per confusione e
per praescriptio longi temporis, nonché per rinuncia. Si estingue, infine, in seguito alla vendita effettuata dal creditore
102. LA POSSESSIO. NOZIONI E CLASSIFICAZIONI
Nelle definizioni correnti di possesso e proprietà, si riscontra un termine in comune: la signoria sulla cosa. Il possesso viene, così,
definito come la signoria di fatto, mentre la proprietà coe una signotia di diritto sulla cosa. Nel possesso rileva il potere
materialmente esercitato sulla cosa stessa. La proprietà, invece, consiste nella signoria assoluta garantita ad un soggetto
dall'ordinamento oggettivo.
Nelle fonti romane si trova l'affermazione che la possessio è una res facti più che una res iuris. Il possesso, però, è anche un istituto
regolato dal diritto: nella produzione degli effetti giuridici, quindi, non vi è alcuna differenza con le altre fattispecie. L'accentuazione
del profilo di fatto è da riportare al fatto che tali effetti giuridici si hanno nei limiti in cui perdura la situazione di fatto (materiale
disponibilità della cosa). Negli interdetti possessori del III sec. a.C., però, la situazione è diversa: questi, infatti, portano al recupero
del possesso perduto. Gli effetti giuridici, quindi, si hanno in base alla legittimazione ad avere la materiale disponibilità della cosa.
Le XII Tavole non conoscono il termine possessio: la signoria di fatto sulla cosa si indica con il termine usus. Possessio appare nelle
fonti del III sec. a.C., in relazione alla fruizione dell'ager occupatorius. Per questa situazione di fatto viene introdotta la tutela
interdittale, poi estesa a qualsiasi situazione in cui si avesse la materiale disponibilità della cosa. Scompare, di conseguenza, il
termine usus.
Il possesso consta, strutturalmente, di due elementi essenziali: uno materiale, la disponibilità della cosa in sé considerata (corpore
possidere); ed uno psicologico, l'intenzione di escludere dalla cosa qualsiasi altro soggetto (animus possidendi o rem sibi habendi).
Per sottolineare, in relazione al corpore possidere, l'esistenza di tale animus, i romani parlavano di possidere suo nomine
(contrapposto alla possessio alieno nomine). Il corpore possidere, però, non sempre è accompagnato dall'animus possidendi: si ha la
figura della detenzione, in cui un soggetto ha la materiale disponibilità della cosa, ma riconosce di averla per conto di altri (animus di
alienae possessioni ministerium praestare).
L’animus possidendi va posto in essere personalmente dal possessore; il corpore possidere può essere attuato anche attraverso un
terzo, il detentore (depositario) che esercita la materiale disponibilità della cosa per conto del possessore. In entrambe le
fattispecie, è sufficiente che la stessa cosa si trovi in una situazione in cui il soggetto possa disporne senza alcun tramite. L’animus
possidendi deve essere continuo: il possesso dura finchè sussista l’animus. Basta che l’animus sussista al momento dell’acquisto del
possesso e che successivamente non risultino fatti dai quali possa esserne rilevata la mancanza. Non incide sull’animus il sonno; la
pazzia non fa venir meno il possesso.
Le categorie della possessio individuate dai prudentes non sono mai fuse in un unico sistema classificatorio. Le varie figure sono:
possessio suo nomine (pro suo): non comprende tutti i casi in cui al corpore possidere si accompagna l'animus possidendi, ma
tende a coincidere con la possessio civilis, in quanto è richiesto un titolo. Si contrappone alla possessio alieno nomine.
possessio civilis: fattispecie molto risalente, unica conosciuta nelle XII Tavole e nel ius civile. Porta all'usucapione. È una
possessio acquistata in base ad una iusta causa, per la cui integrazione è richiesta la bona fides.
possessio pro possessore: è contrapposta alla civilis. Il possessore è un praedo, ossia un soggetto senza titolo ed in mala fede.
possessio naturalis: è la detenzione, dove, pur sussistendo il corpore possidere, manca l'animus rem sibi habendi. Nel periodo
classico, non era difesa in via interdittale. Per la detenzione si usa anche il termine possessio pro alieno, usato in tutti i casi in cui
manchi l'animus rem sibi habendi.
possessio ad interdicta: terminologia non propria dei romani, indica una categoria che ricomprenda tutti i casi di possesso che
danno luogo alla tutela possessoria, mediante gli interdicta retinendae e recuperandae possessionis. In relazione alla tutela
interdittale, si ha la categoria della iusta possessio, situazione di fatto in cui a colui che esperisce un interdetto possessorio si può
opporre l'exceptio vitiosae possessionis. La possessio ottenuta con violenza è iniusta nei confronti dello spogliato, ma iusta nei
confronti dei terzi.
possessio bonae e malae fidei: la contrapposizione si fonda sulla consapevolezza di ledere, o non ledere, un diritto altrui. In
questi casi si tiene conto delle modificazioni intervenute nella consapevolezza del possessore.
Dal punto di vista terminologico e classificatorio, il mutamento più evidente del postclassico è quello della scomparsa della
distinzione fra proprietà e possesso.
Oggetto di possesso sono le res corporales: il potere deve essere esercitato sulla cosa con l’intenzione di tenerla per propria e di
escludere qualsiasi terzo. Sul piano di fatto, il possesso è l’esercizio del diritto di proprietà. i titolari di diritti real i parziari non hanno
il possesso della cosa oggetto del loro diritto, anche quando ne conseguano la materiale disponibilità. da questo punto di vista
hanno solo la detenzione della cosa. Già agli inizi del periodo classico sul piano del sistema pretorio si dà una tutela all’esercizio di
fatto di poteri corrispondenti a un diritto reale parziario. A parte l’interdictum de superficiebus, tale esercizio viene protetto,
nell’usufrutto, mediante l’estensione in via utile dell’interdictum uti possidetis, e in determinati tipi di servitù mediante specifici
interdetti. Anche in questo caso la situazione di fatto viene tutelata indipendentemente da qualsiasi indagine sulla titolarità del
diritto. Questi interdetti avevano anche una funzione preparatoria per l’esercizio della vindicatio servitutis od usufructus,
soprattutto per stabilire se si dovesse esercitare, da una parte, l’actio confessoria, o dall’altra, quella negatoria. La tutela interdittale
assolve così una funzione analoga a quella svolta nella possessio delle res corporales: Gaio e altri giuristi tardo-classici usano il
termine di quasi possessio per indicare la situazione di fatto protetta dagli interdetti in questione.
103. ACQUISTO, PERDITA E DIFESA DEL POSSESSO
L'acquisto del possesso si verifica quando sono stati posti in essere, a favore dell'acquirente, il corpore possidere e l'animus
possidendi. È necessaria la capacità d'intendere e di volere.
A parte l'occupatio, come modo d'acquisto a titolo originario, il possesso si acquista mediante una traditio. Con lo svilupparsi dei
rapporti socio-economici,e i vari problemi sorti a riguardo, i prudentes arrivarono a soluzioni articolate ed equilibrate. A parte i casi
dell'acquisto tramite il servus e il filiusfamilias (nonché il procurator e il tutor), si ammise che la consegna materiale fosse effettuata
ad un detentore: e, in questo caso, il possesso era acquistato alla persona per cui quest'ultimo avrebbe esercitato la materiale
disponibilità della cosa.; si individuò, inoltre, una serie di fattispecie in cui l'acquisto del possesso prescinde dallo spostamento
materiale della cosa. Si ebbero, in tal modo le traditiones fictae: la traditio longa manu, la traditio symbolica, la traditio brevi manu
ed il constitutum possessorium.
La consegna di un fondo si ha per avvenuta, purché il tradente abbia autorizzato l'accipiente ad immettervisi, e quest'ultimo vi sia
effettivamente immesso. Celso ammette ulteriormente che, se da una torre il venditore ha mostrato al compratore il fondo
venduto, il compratore stesso acquistava il possesso del fondo senza neppure entrarvi (traditio longa manu). La traditio symbolica
viene identificata nella consegna delle chiavi davanti al magazzino, apud horrea, effettuata allo scopo di trasferire le merci situate
nel magazzino.
Ove colui che abbia già la detenzione della cosa concluda con il possessore un accordo nel senso di acquistare, in base ad una iusta
causa, la cosa stessa, ne diventa immediatamente possessore, assumendo l'animus possidendi. Si tratta della traditio brevi manu.
Nel constitutum possessorium si verifica il caso inverso: il possessore intende trasferire il possesso (e la proprietà) della cosa ad altro
soggetto, continuando a detenerla alieno nomine.
Il possesso può esser acquistato dal pater per tramite del servo o del filiusfamilias. Anche per il possesso vigeva il principio,
fondamentale nella disciplina romana della rappresentanza, "non possiamo acquistare a mezzo di una persona estranea". Non pone,
invece, problemi dal punto di vista della rappresentanza, il caso in cui un soggetto, che ha personalmente l'animus possidendi, si
serve dell'intermediazione di un detentore per conseguire il corpore possidere.
A parte il caso della possessio animo retenta, il semplice mutamento dell'animus non produce la perdita del possesso.
Più complessa appare la situazione ove venga meno il corpore possidere. V'è, anzitutto, il problema del momento in cui la
disponibilità materiale debba considerarsi perduta. I prudentes ritenevano cessato il corpore possidere allorché altri si fosse
immesso nel possesso della cosa a disposizione del possessore. Ma alla perdita della disponibilità materiale non consegue sempre la
perdita del possesso: per gli immobili, già la giurisprudenza alto classica riteneva che il possesso terminasse soltanto quando il
possessore fosse stato impedito di rientrare sul fondo o, comunque, avesse desistito dal tentativo di rientrarvi. Nel frattempo il
possesso continuava solo animo. Anche nel caso del servus fugitivus si aveva un caso di possessio animo retenta. Diversa la
situazione dei pascoli estivi o invernali: si conserva il possesso solo animo nel periodo in cui gli stessi non erano utilizzati.
La tutela del possesso si attua, per tutta l'epoca classica, mediante il processo interdittale. Gli interdetti a tutela del possesso sono
distinti in interdetti introdotti "per acquistare, per conservare o recuperare il possesso". Gli interdicta adipiscendae possessionis
causa hanno lo scopo di fare conseguire il possesso.
La difesa del possesso è attuata mediante gli interdicta retinendae o reciperandae possessionis. Gli interdicta retinendae possessionis
(utrubi e uti possidetis) attribuiscono la materiale disponibilità della cosa a colui che, in base alle precedenti vicende possessorie, vi
abbia maggior titolo. Gli interdicta reciperandae possessionis mirano a riottenere la materiale disponibilità della cosa in quanto
perduta.
Fra gli interdetti possessori, il più antico è l'uti possidetis, usato per gli immobili. In base ad esso, il pretore proibisce che si adoperi la
violenza per modificare la situazione di fatto esistente, purchè non si tratti di vitiosa possessio. L'ordine è rivolto ad entrambi i
contendenti (interdictum duplex). Si protegge il possesso attuale (uti possidetis), ma un possesso qualificato, coincidente con la iusta
possessio: non deve essere, nei confronti della controparte, un possesso violento, clandestino o precario (vi, clam, precario). I vizi
del possesso sono relativi: clandestinità, violenza e precarietà rilevano soltanto in quanto sussistano nei confronti dell'attuale
controparte.
L'interdictum utrubi si applica alle cose mobili. Si tratta ancora di un interdictum prohibitorium e duplex, con cui il pretore ordina che
non si usi violenza per impedire a colui che l'ha avuta per più tempo nel corso dell'ultimo anno di portar via con sè la cosa oggetto
della controversia. L'anno preso in considerazione decorre dal momento in cui l'interdetto è stato emanato. L'utrubi ha una funzione
recuperatoria, indipendentemente dal gioco dell'iniusta possessio.
Interdicta reciperandae possessionis sono quelli unde vi e de vi armata, che , entrambi restitutori, si riferiscono esclusivamente agli
immobili. Col primo, il pretore ingiunge all'attuale possessore che abbia violentemente espulso da un fondo il precedente
possessore di restituirlo al vi deiectus, a meno che quest'ultimo non fosse un iniustus possessor nei confronti del deiciens. Questo
interdetto ha carattere penale e può essere esperito dentro l'anno utile dalla deiectio. L'interdictum de vi armata è dato nel caso che
la deiectio sia avvenuta non soltanto vi, ma la violenza sia stata posta in essere da una banda armata. L'interdetto in parola non
prevede l'exceptio vitiosae possessionis.
Legittimato attivo alla tutela interdittale è il possessore, che ha l'animus rem sibi habendi, in quanto si ritiene che, nel caso in cui
concorrano sulla stessa cosa, possesso e detenzione, l'interesse poziore alla difesa dell'attuale situazione di fatto spetti al
possessore. Nei casi del possesso anomalo la tutela interdittale spetta a un detentore, in quanto viene qui riscontrato un interesse
poziore del detentore.
Nel periodo postclassico decadono l'interdictum utrubi e quello uti possidetis; assume una nuova struttura l'unde vi, riferito alla
momentaria possessio. L'interdictum momentariae possessionis non prevede l'exceptio vitiosae possessionis. Ciò corrisponde
all'esigenza di limitare e reprimere l'autodifesa, fortemente sentita nel tardo-antico. Si venne fissando la regola per cui chi
esercitasse in modo violento l'autotutela, oltre a dover restituire il possesso, perdeva, se proprietario, la proprietà della cosa a
favore del possessore spogliato e, se non proprietario, doveva pagare, a titolo di pena privata, il valore della cosa stessa.
Nella compilazione giustinianea si ritorna ad una, formale, rivitalizzazione degli interdicta uti possidetis ed utrubi, il quale ultimo,
adesso, tutela, come il primo, la iusta possessio attuale. Primaria importanza ha, invece, nella compilazione l'interdetto che sanziona
lo spoglio violento di immobili, che riassume il nome classico di interdictum unde vi, ma recepisce i due fondamentali aspetti
dell'interdictum momentariae possessionis dell'età postclassica.