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Ideato e promosso da Giovanni Bianchi
Coordinamento scientifico: Alberto Maria Onori
Realizzazione editoriale: Daniele Narducci
Grafica e impaginazione: Edro21, Buggiano
Fotografie
delle opere d’arte e delle chiese: Marco Bonucci
di Collodi in bianco e nero: Pepi Merisio (per gentile concessione)
di Collodi a colori: archivio Bonni e altri
Proprietà dell’opera, © Giovanni Bianchi
Editore e stampatore
Nidiaci Grafiche s.n.c. di Nidiaci Giovanni & C.
Via della Pergola, 12 - Loc. Badia a Elmi
53037 San Gemignano (SI)
ISBN
Con il contributo della
Finito di stampare nel mese di dicembre 2010
Indice
Presentazione
P. 5
Alberto Maria Onori
L’avventura di un dipinto
P. 7
Tatiana Lunardini
Collodi, storia e territorio
P. 27
Gabriele Marangoni
Breve visita artistica nelle chiese di Collodi e di Veneri
P. 49
5
Presentazione
7
Alberto Maria Onori
L’avventura di un dipinto
8
Questo libro vuole essere un racconto, o meglio un resoconto: il reso-
conto di un’avventura. Di un’avventura complessa, articolata, estesa
su quasi mille anni di storia e che, come tutte le avventure che si ri-
spettino, prende le mosse da un episodio apparentemente casuale, per
assumere dimensioni ed interesse sempre maggiori mano a mano che
la macchina del caso procede nel suo macinare eventi.
Noi, che di questi eventi diventiamo, quasi nostro malgrado, protagoni-
sti, dapprima li subiamo, poi ci rendiamo conto che stiamo vivendo non
un inizio ma una conclusione. Quando, infine, ci poniamo davanti a quel
che pare sia stato il caso ad avere generato, ci risulta chiaro che questa
apparente conclusione può diventare a sua volta l’inizio di qualcosa d’al-
tro, che noi riusciamo a malapena ad immaginare. È così che, con umiltà
ma anche con qualche orgoglio, ci rendiamo conto di essere stati, di
essere ancora protagonisti della storia.
E questa nostra storia ha a che fare con l’avventura di un dipinto.
Collodi è un paese strano; a partire dalla struttura dell’abitato, disteso
sul filo di un crinale e che pare una collanina di case infilate su una
strada annodata ad un cocuzzolo dominato da una chiesa e, ancor più
in alto, da una torre.
Per rendersi conto di questo però bisogna far violenza su noi stessi e
distogliere lo sguardo da un giardino e da un palazzo (qui la chiamano
9
Collodi Castello - veduta da sud ovest.
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villa, ché tale era considerata;
ma possiede tutti gli elementi
di un palazzo, quasi di una reg-
gia) che dire scenografici è dir
poco. Tutti e due sono usciti
dalla fantasia megalomaniaca
della famiglia Garzoni, una fa-
miglia ‘padrona’, cacciata nel
Trecento dalla vicina Pescia, ri-
fugiatasi a Lucca dove divenne
parte importante della classe di-
rigente e che, per sfida, scelse di
insediarsi a due passi dal paese
di chi l’aveva costretta all’esilio.
Solo dopo che si è abbeverato
di tanta grandiosità e di tanto
sfarzo l’occhio si accorge del-
la fila di case abbarbicate che
sale fino in vetta e par che
faccia a nascondino con la re-
sidenza nobiliare; ed è allora
che vien voglia di vedere cosa
ci sia lassù.
Si prende a salire per la mu-
lattiera lastricata, si resiste al
fiatone; ecco che le case così
modeste da lontano assumono,
nel procedere lento del cammi-
no che mette in condizione di
valutare l’ambiente con i tem-
pi del passante, non con quelli
dell’automobilista, un aspetto
diverso. Ogni perla della col-
lana che da lontano appariva
eguale all’altra assume una sua
personalità, è connotata da ca-
ratteri di una dignità e di un
modesto ma sicuro benessere
che risale a tempi assai lontani;
ancor più lontani di quel seco-
lo XIX associato fatalmente a
Carlo Lorenzini e al suo capola-
voro senza età. Tutte case abita-
te, tutte vive, pulite, affacciate
Due uomini e un mulo. >
12
sulla valle come belle ragazze
alla finestra a rimirare il passeg-
gio; e man mano che si sale si
capisce come mai i costruttori
dessero tanta importanza alla
veduta.
Si scopre, passo dopo passo,
un panorama mozzafiato che
all’inizio pare restìo a mostrarsi
e si fa vedere di scorcio, a pezzi,
fra una cantonata e uno spigolo
di tetto. Poi arriva l’ultimo strap-
po, quella salita ripida da farsi
d’un fiato che il dialetto nostro
chiama «una pettata», e il vian-
dante non sa se dare retta alla
strada che impegna il suo corpo
o al paesaggio che rapisce i suoi
occhi; nel dubbio si ferma.
Di fronte, vicina che pare di toc-
carla, la costa di un colle a olive-
ti in basso, a castagno e a bosco
più in alto; sotto, un torrente
rapido ha il greto qua e là oc-
cupato da fabbricati industriali
che di lassù paiono giocattoli; a
sinistra, la piana, stretta dappri-
ma fra due coste di basse alture
e poi aperta, sconfinata, verso
ed oltre Montecarlo e il Monte
Serra azzurrino per la distanza.
È da tutta questa bellezza che
proviene l’eredità lasciataci da
chi, spesso antenato degli abi-
tanti attuali (la stabilità familia-
re dalle nostre parti consente
a volte di risalire lungo i rami
degli alberi genealogici sino
al Duecento, anche prima)
costruì queste case e le visse.
E volle lasciare frammenti di
questa bellezza nel luogo che,
allora, dava maggiori garanzie
di durare: la propria chiesa.
< Veduta della villa dal giardino Garzoni
13
Quando da turisti vaghiamo per i paesi della nostra provincia italiana,
lontano dalle grandi ed affollate città d’arte, di fronte a un capolavoro
artistico custodito in mezzo a quella che oggi appare una campagna
quasi deserta o seminascosto in un tessuto abitativo del tutto disadorno,
non pensiamo ad altro che a goderne, e al massimo ci chiediamo come
sia venuto in mente di collocare tanta bellezza in luoghi così evidente-
mente inadatti, quasi indegni di dare ospitalità a, mettiamo, una statua
di Jacopo della Quercia o a un dipinto del Perugino; poi ce ne torniamo
sulla nostra strada. Il fatto è che abbiamo perduto, nella società di oggi, il
senso dell’identità collettiva; la stessa identità che faceva invece sentire
ogni abitante di un castello inerpicato in cima a una collina parte di un
corpo, di un tutto destinato a durare oltre la vita sua e dei suoi figli, e
probabilmente per sempre.
Vien da chiedersi quanta gente ci abiti, in un paese come questo. Ebbe-
ne, oggi siamo attorno a 2400 abitanti fra castello e valle; nel Cinque-
cento eravamo attorno al migliaio, compreso l’abitato di Veneri. Una
densità demografica da piccolo paese, con un’economia centrata allora
come oggi sulla fabbricazione della carta e su un po’ di agricoltura
(oggi sempre meno, allora certo di più ma la terra a disposizione era
quella, non c’era tanto lardo da struggere). Vigna e olivo sulle pendici
delle colline, castagneti in alto, orti lungo il fiume, e grano ovunque si
potesse. Insomma, non si trattava certo di una metropoli. Eppure, ap-
pena ci nascevi, già portavi nella chiesa il segno della tua appartenen-
za: il battesimo, intanto, impartito al capezzale della puerpera appena
sgravata, e l’iscrizione poi nei registri della comunità, in quell’ente che
si chiamava Opera, che faceva riferimento alla chiesa parrocchiale ma
che apparteneva a tutti gli abitanti ed era da tutti gli abitanti gelosa-
mente difeso nel suo patrimonio e nelle sue prerogative.
Non c’erano assistenti sociali, allora, non c’era quello che oggi chiamia-
mo ‘lo Stato sociale’; ed i poveri erano totalmente, disperatamente po-
veri. Erano gli altri, tutti gli altri, che li aiutavano, attraverso, appunto,
l’Opera della chiesa: una via di mezzo fra una compagnia religiosa, un
ente amministrativo e un’associazione di volontariato.
Poi crescevi, e ancora alla tua chiesa ti rivolgevi, per venerare l’altare
del santo che avevi scelto per tuo particolare protettore, per pregare
assieme ai tuoi familiari e ai tuoi vicini, ma anche per sentirti parte di
un gruppo, protetto e consigliato dai suoi membri, rafforzato nella tua
identità personale oltre che religiosa.
Nella chiesa (con la minuscola) oltre che nella Chiesa (con la maiusco-
la) ti trovavi ancora quando riuscivi a interrompere la fatica di ogni
giorno con una festa, un ‘tempo forte’, come Natale o Pasqua, o il santo
patrono, o il patrono della tua opera, del tuo altare, della tua compa-
gnia; e durante la festa, durante la processione e il culto, i giovani si
guardavano, si conoscevano, si univano fino a celebrare, sempre nella
chiesa, il matrimonio che faceva nascere una nuova famiglia.
14
Il parroco era un’autorità indi-
scussa, anche se formalmente
era escluso dalle cariche del-
la comunità. Generalmente
dotato di una cultura almeno
discreta, sempre capace di leg-
gere e di scrivere, depositario
dei segreti di tutti, era da lui
che si andava per un suggeri-
mento, un consiglio, un con-
forto o uno sfogo; era lui che
spesso faceva da tramite fra la
comunità e le autorità supe-
riori dello Stato, che ispirava o
addirittura scriveva le suppli-
che e le istanze, e poi insegna-
va ai bambini il catechismo,
certo, ma anche un po’ di alfa-
beto, di lettura e di scrittura, ai
più bravi addirittura qualche
rudimento di latino. Ancora,
era a lui che ci si rivolgeva
per fare testamento; il notaio
era un lusso per i ricchi o una
stravaganza per gli istruiti. Il
testamento il più delle volte
lo rogava il parroco, secondo
una norma della Chiesa e una
antica consuetudine, e spesso
i testatori gli affidavano anche
l’esecuzione dei legati, per
porre il poco o tanto patrimo-
nio che lasciavano dietro di
sé nelle mani di qualcuno che
desse la garanzia di giudicare
con equità.
Alla fine era nella chiesa che
la comunità piangeva e saluta-
va i propri morti, che venivano
benedetti al suo interno e sep-
pelliti nelle sue vicinanze.
Insomma, secondo una visione
del mondo e della vita quoti-
diana ancora lontana dalla se-
paratezza fra chi è credente e
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chi non lo è, non solo la condi-
zione di cristiano era scontata,
per tutti, ma era anche il col-
lante sociale che teneva ogni
individuo legato a tutti gli altri,
che ne rappresentava e garan-
tiva l’identità e l’appartenen-
za; identità ed appartenenza
che si concretizzavano nella
partecipazione diretta al suo
culto, ai suoi luoghi e spazi,
alle sue liturgie.
Niente di strano allora se una
fetta significativa delle risor-
se che venivano prodotte in
questo variegato e comples-
so mondo di istituzioni e di
gruppi umani (in un contesto
di non oltre un migliaio di
persone, si badi bene) fosse
destinata all’abbellimento dei
luoghi e degli spazi liturgici
riservati alla devozione collet-
tiva o individuale.
Non si trattava di sacrifici fat-
ti a una divinità enigmatica e
nascosta o imposti da un pote-
re superiore e lontano. Erano
segni concreti di adesione al
culto divino ed anche simboli
altrettanto concreti di apparte-
nenza a un gruppo, di prestigio
di quel gruppo, di rapporti di
forza e di potere fra gruppo
e gruppo; insomma, segni di
storia e di storie, che contri-
buivano e contribuiscono a
far capire come funzionasse la
collettività che li esprimeva nel
corso degli anni e dei secoli.
Oggi questo patrimonio di
opere d’arte di molti generi
(sculture, pitture, decorazioni,
arredi, tessuti, indumenti litur-
16
gici) viene sbrigativamente definito come «patrimonio culturale eccle-
siastico», e viene considerato come un blocco unico, in genere poco
visibile o addirittura sottratto alla vista, accuratamente serrato entro
contenitori spesso inadeguati che lo nascondono a turisti e studiosi.
È un peccato. È la testimonianza di un mondo e di una vita cui viene
negata funzione e continuità.
È stato proprio per rendere giustizia a questa straordinaria testimo-
nianza di arte, fede e storia che si è pensato di costruire questo libro;
un libro che non può, ovviamente, andare oltre i confini del territorio
di Collodi, anzi già questo per le forze di chi lo ha promosso e di chi lo
ha prodotto è stato molto difficile, per quanto appassionante. Eppure
questo libro ha l’ambizione di costituire un modello per far conoscere
meglio altri patrimoni, magari più importanti e spesso persino meno
conosciuti; e quello che abbiamo cercato di illustrare qui è solo una
tappa del percorso, un capitolo soltanto della storia che la vita e la
morte e i dolori e le gioie e il lavoro e la festa della gente di Collodi
hanno scritto nel più grande libro della storia del mondo. Una storia
apparentemente sconosciuta, seppellita negli archivi e nelle chiese,
pure consapevolmente presente nella gente, nelle sue abitudini quoti-
diane, in quello che si chiama identità collettiva.
Altri sono i capitoli da scrivere, e le fonti per scriverli stanno lenta-
mente emergendo alla luce, grazie all’opera e all’impegno oscuro e il
più delle volte volontario di chi in questo strano, straordinario paese
ha vissuto e vive.
Ma alla base di questa iniziativa, al punto di partenza di questo percorso,
sta un’avventura dello spirito, l’avventura di un dipinto. Ed è necessario
conoscerla per comprenderne il senso e l’importanza.
Ve ne presento i protagonisti.
Il primo è Mario Bogani, un pittore lombardo contemporaneo che
vive ed opera nei dintorni di Como dove ha esercitato il suo talento in
molte forme d’arte: la pittura tradizionale, certo, secondo le tecniche
più svariate, e poi l’incisione, la pittura murale, la scultura in bronzo.
Molte case italiane possono esibire alle loro pareti i quadri e le incisio-
ni di Bogani così come molte chiese gli hanno affidato la decorazione
delle proprie navate, a illustrazione dei riti divini che in esse vengono
celebrate. Alcune di queste chiese possono vantare per i loro porta-
li i grandi battenti di bronzo che Bogani ha realizzato in altorilievo,
praticando da maestro raffinato ed ispirato l’antica e nobile tecnica
della cera persa. Insomma, lo possiamo definire senza timore di essere
smentiti un esponente illustre dell’arte italiana di oggi.
17
Chi lo ha portato qui in Tosca-
na, nella piena sua maturità
umana ed artistica? Chi è l’al-
tro protagonista della nostra
avventura?
L’idea di affidargli l’incarico di
realizzare un’opera pittorica
di grandi dimensioni a Collodi
venne, alla fine degli anni No-
vanta del secolo scorso, a Gio-
vanni Bianchi, imprenditore del
posto che ha dedicato una vita
intera ad un artigianato sapien-
te e impegnativo, facendolo co-
noscere ed apprezzare in tutta
Italia, girando letteralmente tut-
to il mondo per andarsi a pro-
curare di persona le preziose
materie prime che gli occorre-
vano. La sua esperienza di vita e
di lavoro meriterebbe un libro
a parte; ma qui non ne possia-
mo parlare, e torniamo dunque
all’avventura del dipinto.
Siamo al tempo in cui Giovanni
Bianchi è presidente della So-
cietà Sviluppo Turistico Collodi,
cioè della società operativa me-
diante la quale la Fondazione
Collodi, che ha la sua sede nel
paese sin dagli anni Cinquanta
del Novecento, gestisce sia le
sue proprietà immobiliari il par-
co di Pinocchio e le strutture
annesse, anzitutto, ma da qual-
che anno anche il giardino e il
parco della villa Garzoni, che le
sono stati affidati in gestione. In
tale qualità intraprende l’inizia-
tiva detta I muri dipinti, una
galleria di grandi pitture murali
a cielo aperto destinate a deco-
rare ed abbellire il percorso da
Ponte all’Abate a Collodi basso.
18
Al concorso di idee a suo tem-
po bandito partecipò anche
Mario Bogani, classificandosi
fra i vincitori, per cui una delle
pitture avrebbe dovuto essere
opera sua; ma si trattava di ope-
razioni costose e impegnative
e il turno per vedere realizzata
l’opera tardava. Fu allora che
Bianchi, impressionato dal ta-
lento dell’artista oltre che dalla
sua personalità profondamente
umana e disponibile, concepì
l’idea di affidargli la realizzazio-
ne di un grande dipinto nella
chiesa parrocchiale di Collodi,
dedicata a San Bartolomeo.
Alla base dell’idea ci fu una se-
rie di considerazioni che meri-
tano di essere riportate in que-
sto volume, come documento
della persistenza di un costume
antico (l’arricchimento e l’ab-
bellimento dei luoghi sacri di
Collodi e del suo territorio) che
si esercita ancora oggi, sia pure
in modalità in parte differenti.
Perché dunque l’idea del dipinto?
Animava anzitutto le intenzioni
del moderno mecenate il desi-
derio che venisse riconosciuto
il talento di un artista di quel
livello che si era lasciato ispi-
rare da un paese come Collo-
di, dando il meglio di sé per la
patria del burattino più famoso
del mondo. Bianchi insomma
voleva che Bogani lasciasse un
segno concreto e duraturo di
quella sua ispirazione e di quel
suo lavoro. Il rapporto di vera,
profonda amicizia fra i due,
instauratosi come per istinto,
< Fauno che suona il flauto giardino Garzoni.
19
rendeva quasi necessaria una proposta del genere, al punto che in una
conversazione fra amici Bianchi non esitò a dire, con la schiettezza che
sempre lo ha connotato: «Se conosci uno come Bogani come fai a non
portarlo a Collodi?».
Un così generoso desiderio nei confronti di un amico non sarebbe stato
sufficiente però, da solo, a giustificare un progetto tanto vasto e tanto
ambizioso. Giovanni Bianchi è anche un abitante di Collodi, e come tale
non poteva sfuggire al costume di tanti suoi concittadini nel corso dei
secoli: accrescere, cioè, le attrattive del paese natale; e la destinazione
della chiesa per compiere una operazione del genere fu per lui naturale.
Secondo lui era importante l’opportunità che si presentava di lasciare
un messaggio, tanto ai suoi concittadini quanto a tutta l’umanità; un mes-
saggio forte, pieno di significato, capace di superare i confini del paese
e di parlare a tutte le genti, nella prospettiva di lasciare di sé, della sua
famiglia, ma anche del luogo dove è nato e vissuto e dove ha ricevuto e
condiviso la prosperità concessagli dal suo lavoro duro e incessante, una
testimonianza destinata a durare nel tempo.
Soprattutto Giovanni Bianchi riteneva di grande importanza il segna-
le che si sarebbe dato realizzando nella chiesa di Collodi, cioè nella
chiesa di tutti gli abitanti del castello, un’opera capace di uscire dai
limiti angusti del paese e di portare il messaggio dell’arte in tutto il
mondo; è questo, anche, il motivo per cui pensò appunto alla chiesa
come sede per il dipinto.
Una chiesa infatti è luogo e spazio anzitutto della comunità in cui
sorge e che spesso l’ha voluta e realizzata, ma una volta realizzata e
adeguatamente arredata e decorata può travalicarla senza scandalo
perché una chiesa è, per definizione, anche lo spazio di tutti i creden-
ti e persino di tutti i non credenti, nella misura in cui questi ultimi
riescono a viverla come opera d’arte e come contenitore di opere
d’arte. Inoltre, la presenza di un’opera di tale importanza avrebbe
consentito di prolungare il percorso del turista dal cancello di villa
Garzoni fino alla chiesa parrocchiale, ampliando così la già ricca of-
ferta di arte e storia che caratterizza il paese.
L’adesione del parroco e del vescovo di Lucca furono immediate, il con-
senso della sovrintendenza fiorentina non si fece aspettare e si trattò,
per l’iniziativa, di altrettanti passi che ne confermarono la validità.
Una volta decisa la collocazione dell’opera e ottenuti i relativi permessi,
era necessario trovare chi potesse e volesse fornire le risorse necessarie
alla sua realizzazione; e anche da questo punto di vista la partecipazio-
ne della famiglia Bianchi nel dono dell’opera alla gente di Collodi e al
mondo fu determinante, fino a trasformarsi in un atto di vero e proprio
mecenatismo artistico. Su ispirazione di Giovanni, infatti, suo fratello,
l’imprenditore Dino titolare di una delle più importanti ditte di fiori
artificiali italiane, vide nell’iniziativa l’occasione per onorare la memoria
20
del suo primogenito Franco, deceduto a sedi-
ci anni per un incidente stradale; il coinvolgi-
mento nell’impresa del critico d’arte Renato
Valerio, che era legato per vari motivi sia alla
famiglia Bianchi che all’artista, volle essere
un’ulteriore garanzia per la qualità dell’opera
e per la serietà dell’iniziativa.
Tutte queste premesse garantivano il successo;
e il progetto prese a concretizzarsi nel corso
del 2006, con una serie di bozzetti per fissare
le prime idee, i primi schizzi appena accennati
su semplici fogli di carta, che venivano sotto-
posti sia alla competente sovrintendenza che
ai rappresentanti della curia diocesana.
Non si trattò di un lavoro semplice né di un
percorso lineare.
Mario Bogani si trovò a risiedere per lunghi
periodi direttamente sul posto, per poter
verificare con immediatezza la corrispon-
denza fra le idee che il suo ingegno gli pro-
poneva e lo spazio destinato ad accoglierle.
Giovanni Bianchi ebbe l’onore di ospitarlo
a casa sua: e grazie a questa presenza l’ami-
cizia fra i due crebbe ulteriormente, fino a
diventare fraterna.
Nel frattempo il lavoro preliminare procedeva.
I bozzetti vennero a più riprese stesi, propo-
sti, modificati, scartati, anche a causa di alcuni
problemi tecnici che parevano insuperabili e
che rischiavano di condizionare pesantemen-
te la riuscita dell’opera.
In più di un occasione tanto il pittore che i
suoi amici si ritrovarono a un passo dall’ab-
bandonare l’impresa; e in questo la discrezio-
ne e il savoir faire della Carla, la consorte
di Giovanni, si rivelarono fondamentali per
smussare la punta all’amarezza con un fiore
sul tavolo, un piatto speciale, una tazzina di
caffè o un semplice sorriso. Ma l’arte e la bel-
lezza, apparentemente così tenere e indifese,
sanno certe volte trovare in sé e trasmettere
una tale forza da far superare ogni difficoltà.
In questa complessa fase preliminare fu assai
importante il ruolo di monsignor Martinelli,
L’antica chiesa di San Bartolomeo. >
21
della curia lucchese, che suggerì un tema in
armonia con le celebrazioni dell’anno paoli-
no, allora in pieno svolgimento. Fu grazie al
suo contributo che il tema dell’opera acqui-
sì la sua definitiva fisionomia: dal brano del
profeta Isaia che preannunzia la venuta di
Cristo, germoglio della radice di Jesse alla fi-
gura di Paolo ‘apostolo delle genti’; e appun-
to Inno alle genti fu il suo titolo definitivo, e
il progressivo anche se faticoso superamen-
to di ogni ostacolo permise di provvedere
alla stesura del testo pittorico e alla sua mes-
sa in opera nel catino absidale della pieve
di San Bartolomeo, da dove adesso domina
maestoso la navata.
Il grande dipinto è stato realizzato facendo
ricorso a una complessa tecnica mista che
Bogani conosce molto bene per averla mes-
sa in pratica in molte occasioni analoghe. I
colori sono pigmenti silossanici, capaci di
resistere a lungo all’azione della luce e degli
altri elementi atmosferici, stesi su un prepa-
rato al quarzo appositamente applicato come
un velo sottile parte sulla tela (che viene poi
montata sul posto) e parte direttamente sul-
le pareti. Alcune delle figure delle ‘genti’ che
circondano la grande immagine centrale del
Redentore sono veri e propri ritratti, sia dei
committenti (la famiglia Bianchi, a partire dal
giovane alla cui memoria il lavoro è dedicato)
sia di molti di coloro che hanno dato il loro
contributo alla realizzazione del dipinto.
È stata una scelta coraggiosa da parte
dell’artista, perché ormai la pratica, un tem-
po usuale, di rappresentare sui dipinti reli-
giosi le figure di persone reali a vario titolo
coinvolte nella loro realizzazione è passata
in disuso e lo stesso Bogani confessava che,
prima del grande lavoro di Collodi, per lui
era normale inserire in opere simili figure
umane realizzate attingendo soltanto alla
sua creatività. Il recupero di una tanto illu-
stre tradizione, così, non è stato un lavoro
di poco conto. La presenza di veri e propri
22
ritratti ha posto numerosi problemi di ordine tecnico e poetico.
Prendere coscienza di ciascun soggetto, interpretarlo secondo le
sue intenzioni compositive senza impedirne il riconoscimento, anzi
esaltando ogni fisionomia nei suoi aspetti peculiari è stato un im-
pegno severo e tecnicamente arduo, specialmente se si tiene con-
to del fatto che si doveva prendere spunto da riprese fotografiche
istantanee, non in posa, che non sempre erano orientate nello spa-
zio come invece l’artista intendeva riprodurle nel dipinto.
Il giudizio del critico, Renato Valerio, è stato molto incoraggiante nei con-
fronti di una simile scelta. Secondo la sua opinione, proprio il fatto che
le figure del dipinto di Collodi siano rappresentazioni di persone reali
ha conferito loro una maggiore forza, una maggiore efficacia espressiva
e il lavoro di insieme a suo avviso ne viene assai avvantaggiato. Il ricorso,
per le figure umane, a modelli reali rende l’opera che adorna la chiesa di
Collodi unica nel contesto del lavoro di Bogani, accrescendone il valore,
e il risultato finale è il raggiungimento di un insieme originale, complesso
e leggibile a più livelli ma soprattutto caratterizzato da una concretezza
altrimenti impossibile da raggiungere.
È evidente che, per chi conosce gli interessati, l’effetto può essere
sconcertante; il detto per cui nessuno è profeta in patria vale anche
per Collodi e le critiche, a lavoro finito, non sono mancate. Si è parlato
di eccesso, di desiderio di acquisire meriti «a futura memoria», di man-
canza di buon gusto. Mario Bogani, però (e in questo anche il suo ami-
co Giovanni Bianchi è perfettamente d’accordo) non si è preoccupato
23
eccessivamente; è convinto che il tempo, in simili materie, sia il miglior
giudice. Passeranno gli anni, gli animi turbati dalla novità si placheran-
no; le figure dei personaggi trascenderanno il limite della loro povera
umanità per assurgere al ruolo di simbolo concreto eppure ideale di
un’umanità da due millenni in ascolto, e nella serenità dello spazio ab-
sidale della chiesa di Collodi resterà il segno dell’arte, il ricordo di un
artista, il messaggio di pace e di fraternità che Paolo, «apostolo delle
genti», dalla Palestina diffuse in tutto il Mediterraneo, oltre che un se-
gno concreto del mecenatismo di una famiglia del luogo.
Questa dunque l’occasione che rese possibile il dono a tutte le gen-
ti di un’opera d’arte insigne ed originale; e già avrebbe contenuto
materia sufficiente per giustificare una pubblicazione. Ma si trattava
di avere a che fare con una realtà come quella di Collodi: e in fase
di progettazione ci si rese conto che limitarsi a parlare dell’opera di
Bogani sarebbe stato riduttivo.
Collodi oggi, grazie alla geniale intuizione di Rolando Anzilotti e al lavo-
ro quotidiano della fondazione da lui voluta, è tutta animata dalla presen-
za del burattino frutto del genio di Carlo Lorenzini, concretizzatasi in un
monumento bronzeo ma anche in un intervento al confine fra l’architet-
tura, la scultura e l’urbanistica, di dimensioni decisamente inusitate. La
scenografica villa Garzoni e il suo splendido parco fanno da contraltare,
sulla sponda sinistra del fiume, al parco dedicato al burattino più famoso
del mondo e al romanzo di cui è protagonista. Un visitatore che tocchi
queste due grandi manifestazioni del genio e del gusto italiano già po-
24
trebbe dirsi soddisfatto per aver incluso un piccolo paese nel suo piano
di viaggio in Toscana. La loro dimensione e la loro qualità, però, rischiano
di far passare in secondo piano il patrimonio culturale assai meno ap-
pariscente ma non per questo meno rilevante costituito dalla presenza
dell’arte sacra a Collodi e nel suo territorio.
Già la chiesa del paese nuovo, sulla riva sinistra del fiume, al centro
dell’abitato, custodisce, oltre al dipinto di Bogani, alcune testimonian-
ze artistiche di grande valore, che un visitatore anche meno che fretto-
loso normalmente trascura.
A due passi dalla chiesa nuova, poco più in alto, lungo il tracciato via-
rio medievale che dal fondovalle recava da un lato a Pescia, dall’altro
al castello fortificato posto sul crinale della collina sovrastante, ancora
è riconoscibile la prima, più antica testimonianza della fede cristiana
nella zona, unico resto del nucleo originario del paese: la chiesetta,
ormai sconsacrata, dedicata a San Martino (siamo in territorio tradizio-
nalmente lucchese, una simile dedicazione era d’obbligo) con la sua
piccola, perfetta abside orientata rimasta miracolosamente integra no-
nostante una vicenda complessa e tormentata che l’ha infine portata a
perdere la sua originaria destinazione d’uso.
In cima al castello, poi, immediatamente sotto i ruderi della rocca,
l’antica chiesa parrocchiale, col titolo di pieve, punto di riferimento
per gli abitanti del paese fino alla fine dell’Ottocento quando nuove
esigenze e uno sforzo economico incredibile per un abitato di poche
centinaia di anime resero possibile l’erezione dell’edificio attuale,
posto nel fondovalle.
Infine, a pochi chilometri di distanza, l’antica chiesa di Veneri, suffraga-
nea della pieve di Collodi sino alla metà dell’Ottocento, anch’essa scri-
gno prezioso di opere di insospettabile qualità ed importanza.
Non era possibile parlare di un’opera come quella di Bogani e trascu-
rare il contesto in cui essa si è venuta a trovare; punto di arrivo di un
percorso che dal secolo XI porta sino ad oggi. Ecco allora l’idea di
questo libro: che vuole far vedere in quale ricco, complesso contesto
di storia e di devozione, da secoli, si sia collocato il dipinto dell’artista
lombardo. Un altro contributo, il suo, ai molti, in certi casi eccezionali,
contributi della pietà popolare e dell’identità collettiva; chi ha voluto
questo libro e quel dipinto è felice di trovarsi in così numerosa com-
pagnia e si augura che non si tratti dell’ultimo.
Collodi Castello da Sud Est. >
25
27
Tatiana Lunardini
Collodi, storia e territorio
28
Sulla sponda sinistra del fiume Pescia, arroccato su di un pendio scosceso,
si trova il piccolo paese di Collodi, nella Valdinievole nord-occidentale.
Reso celebre nella prima metà del XIX secolo dalla fama del racconto Le
avventure di Pinocchio e del loro autore Carlo Lorenzini, Collodi rappre-
senta oggi un centro di particolarissimo rilievo storico e culturale, per
alcuni aspetti di dimensione internazionale.
L’abitato sorge sulla costa occidentale del monte Verruca, a circa 240
metri di quota sul livello del mare; il paesaggio che lo circonda è ca-
ratterizzato a nord dalle ultime propaggini dei rilievi preappenninici
e in particolare dai due costoni che in direzione nord-sud si staccano
dalla dorsale preappenninica, laddove quest’ultima corre invece in di-
rezione est-ovest. Questa particolare porzione di territorio, conosciuta
sin dal Medioevo come Valleriana, è costituita da numerosi rilievi che
degradano dal monte Battifolle (1509 m.) verso sud, fino al monte Mi-
tola (900 m.) e al monte Telegrafo (705 m.) fino a giungere al monte
Verruca (546 m.) e da qui al piano.
La zona è caratterizzata da un ambiente ricco di rilievi montuosi, di valli e
corsi d’acqua che hanno reso particolarmente favorevole sin dall’antichi-
tà la nascita e lo sviluppo degli insediamenti umani. Collodi ne rappresen-
ta un valido esempio e non l’unico se si considera che nella Valleriana si
trovano numerosi altri centri abitati attestati dall’età medievale.
A determinare la nascita di Collodi, così come degli altri insediamenti,
sembrano essere stati in particolare due fattori: l’acqua e la viabilità.
La presenza dell’acqua è data dal passaggio del torrente della Pescia ‘mi-
nore’, così chiamato per distinguerlo dall’altro detto invece ‘maggiore’,
che scorre più ad est e che attraversa l’omonima città di Pescia; mentre il
primo nasce nei pressi della località di Boveglio, il secondo è frutto della
confluenza presso Sorana dei due torrenti provenienti da Pontito e Cala-
mecca. I due fiumi pur avendo lo stesso nome sono torrenti ben distinti
che sin dall’antichità sono stati il principale punto di riferimento per la
gestione del territorio, sia per la determinazione dei confini che per la
localizzazione dei beni e dei terreni.
Il secondo fattore sembra essere stato, invece, la particolare predispo-
sizione di tutta la valle a costituire via di passaggio verso i valichi ap-
penninici e quindi le città di oltralpe; la strada che da Collodi porta a
Boveglio prosegue infatti oltre la Valleriana, verso Benabbio e da qui
conduce alla Val di Lima. La viabilità della valle conserva una matrice
antica, di età romana, che non si limita soltanto a questa porzione di
territorio; sin dall’età tardo-antica la Valdinievole era passaggio obbli-
gato per chi intendeva raggiungere il nord Italia e al tempo stesso per-
metteva l’accesso ai territori della fascia litoranea del Mar Ligure e del
Mar Tirreno e viceversa, mettendo in collegamento gli stessi territori
al centro e al sud Italia.
La strada più importante di questo sistema viario era la Cassia Clodia,
una via consolare romana che attraversava in direzione est-ovest tutta
29
l’Etruria transitando da Firenze a Lucca fino all’Aurelia, l’altra strada
consolare posta lungo la costa tirrenica. Dalla tarda antichità all’età
medievale, a seguito della crisi politica e civile dovuta alla scomparsa
dell’impero romano, alla Guerra greco-gotica e in seguito all’affermarsi
della presenza longobarda, questa direttrice fu progressivamente tra-
scurata e in parte modificata con la nascita di insediamenti lungo la
fascia collinare che si trovava ai piedi dei rilievi montuosi già sopra
descritti. Il nuovo percorso attraversava tutta la Valdinievole passando
per i principali centri abitati che erano Montecatini, Massa di Valdinie-
vole (oggi Massa e Cozzile), Buggiano, Uzzano, Pescia e Collodi e da qui
proseguiva in direzione ovest verso Lucca. Inoltre è da ricordare che
la Cassia Clodia svolgeva una funzione di raccordo anche tra queste
località e la via Francigena per coloro che volevano raggiungere Roma;
infine non si può dimenticare che la viabilità interna alla Valdinievole
non era data solo dalle vie di terra, ma anche da quelle d’acqua: le ac-
que dei numerosi torrenti e fiumi che alimentavano il bacino del Padu-
le di Fucecchio a sud della valle lo rendevano navigabile e mettevano
in contatto in tempi brevi aree molto distanti.
A seguito di queste considerazioni è facile comprendere come tutto il ter-
ritorio avesse assunto, nel corso dei secoli, un certo valore strategico mili-
tare e commerciale che ha portato questa terra ad essere più volte teatro
di scontri fra opposte fazioni. Per quanto riguarda la comunità di Collodi,
questa si trovava in una posizione particolare dal punto di vista delle vie
di comunicazione. Nei pressi di Collodi una strada perpendicolare si stac-
cava, come ancora è oggi, dalla Cassia-Clodia e proseguiva lungo il fiume
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della Pescia minore, in direzione nord verso i
paesi della Valleriana e verso la Val di Lima e la
strada che portava oltralpe, costituendo così un
percorso alternativo a quelli analoghi presenti
nelle valli della Pescia maggiore, o della valle
della Borra e oltre il Serravalle per quanto ri-
guarda il territorio pistoiese. Dalla stessa Cassia-
Clodia un’altra diramazione si staccava invece
in direzione sud, al di là del corso della Pescia
minore e seguendo il torrente attraversava la
località di Veneri raggiungendo la pieve di San
Piero in Campo.
Con la determinazione dei confini tra Lucca e
Firenze, tra XIII e XIV secolo, Collodi assunse
un rilievo di particolare interesse nei progetti
di espansione territoriale delle due città do-
minanti; ma prima di affrontare questa parte
della storia è necessario fare un passo indietro
per meglio comprendere il territorio in cui si
è sviluppata questa comunità.
Le origini dell’abitato
Le origini della nascita del primo insediamen-
to umano nei pressi dell’attuale Collodi sono
incerte e basate su ipotesi, a causa della man-
canza sia di ritrovamenti archeologici che di
fonti scritte a riguardo, tuttavia alcune perga-
mene del secolo XI, assieme allo studio della
toponomastica del luogo, hanno fornito indizi
interessanti da cui si è stato possibile ipotizza-
re che la comunità di Collodi abbia avuto origi-
ne da un primo insediamento sorto nei pressi
dell’attuale chiesa di San Martino; una località,
poi una sorta di quartiere più volte citato nel-
le fonti antiche con il toponimo di “Debbia”, ai
piedi dell’attuale centro storico. Questa ipotesi
sarebbe sostenuta dal fatto che in età medie-
vale era diffusa la pratica del “debbio” ossia un
sistema per la messa a coltura di nuovi terreni
che consisteva nel taglio e nella combustione
della vegetazione per liberare e al tempo stes-
so fertilizzare la terra. Questa era una pratica
particolarmente adatta a terreni ricchi di bo-
schi e meno vocati all’agricoltura come quelli
Bambino corre verso la Porta Vecchia.
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della zona e più adatti invece ad attività come
la caccia e la pesca o la raccolta dei frutti del
bosco. L’esistenza di un legame stretto con
questa località è comunque confermata da un
diploma imperiale del 1196 in cui si cita la ter-
ra di Collodi come formata dagli uomini che
provenivano dalla località ‘in Debbia’, come se
quel quartiere fosse stato per qualche motivo
abbandonato a favore di quello di Collodi. Le
piene della Pescia, l’insicurezza dovuta ai pos-
sibili saccheggi e le incursioni di forze ostili,
soprattutto in quest’area di passaggio, potreb-
bero essere state le motivazioni che hanno giu-
stificato un tale spostamento.
La storiografia che si occupa di Collodi è scar-
sa; nell’opera La Valdinievole illustrata scrit-
ta nell’Ottocento dallo storico Giuseppe An-
saldi, l’origine del toponimo «Collodi» viene
erroneamente attribuita alla presenza in quel
luogo di un Forum Clodii, secondo una let-
tura scorretta della Tavola Peutingeriana. Una
seconda ipotesi più recente ha attribuito il to-
ponimo alla derivazione da nome germanico
di persona quale «Colle di Odo» o di «Odolo»;
ipotesi a cui si è aggiunto successivamente
il parere della linguista Maria Giovanna Ar-
camone, la quale ha ritenuto più opportuno
vedere nella presenza del suffisso «-odi» non
l’indicazione di un nome proprio quanto in-
vece un caso più generalizzato di mutazione
linguistica del genitivo locativo «-aldi» di ori-
gine germanica, già osservata frequentemen-
te in numerose terminazioni di altri toponimi
italiani. In ogni caso, al di là delle incertezze
dovute alla mancanza di fonti storiche atten-
dibili, ciò che è stato accertato è che le prime
notizie sul popolamento della Valleriana risal-
gono al secolo IV a. C. e riguardano proprio il
colle di Verruca dove sembra che un insedia-
mento etrusco fosse sorto a guardia delle vie
di transito verso gli Appennini; forse quello
stesso colle costituiva una linea di confine fra
due diversi popoli locali: gli Etruschi volter-
rani e quelli fiesolani. In seguito si insediò in
Bambino corre verso la Porta Vecchia.
32
questo contesto territoriale il popolo dei Liguri apuani che dal IV sec.
a.C. si spostò in un’area situata proprio fra la Lunigiana e l’alta Valdinie-
vole. Queste popolazioni mantenevano rapporti commerciali pacifici e
in occasione della seconda Guerra punica collaborarono con le forze
romane dando vita poco a poco ad una fusione fra le diverse etnie.
Interessanti sono anche le notizie che riguardano lo sviluppo della co-
munità di Villa Basilica, a nord di Collodi, situata sulla sponda destra della
Pescia, dove si diffuse rapidamente la lavorazione dei metalli e sorsero le
prime fucine per la fabbricazione delle armi e degli attrezzi. Alcuni stu-
diosi hanno ipotizzato che già in età antica Villa Basilica fosse un centro
manifatturiero di rilievo e questo potrebbe essere stato un fattore deter-
minante nello sviluppo degli insediamenti che si trovavano a fondovalle,
rendendoli una specie di embrioni della futura Collodi.
Una delle prime attestazioni certe dell’esistenza dell’insediamento di Col-
lodi è attribuita ad un documento del 1217, anche se alcuni studi condotti
da Rosanna Pescaglini Monti hanno fornito ulteriori notizie che testimo-
niano l’esistenza di un castello precedentemente a quella data. Nell’Archi-
vio di Stato di Siena si trova infatti una pergamena rogata nel 1198 proprio
nel castello di Collodi che ne conferma l’esistenza precedentemente al
1200 ed è lecito perciò dedurre che il castello fosse abitato da almeno un
secolo prima. La presenza di questo documento a Siena sarebbe giustifica-
ta dal fatto che nel 1217 era podestà di quella città un tale Gherardino di
Ghiandone da Lucca, che come vedremo aveva un ruolo importante nella
comunità di Collodi. Un altro documento in cui compaiono sia il toponi-
Collodi Castello da Nord Est.
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mo ‘Collodi’ che ‘Debbia’ è un atto di donazione del 1020 che descrive
come i membri della nobile casata dei ‘da Uzzano, Montechiari e Vivinaia’
donarono alla loro chiesa cittadina dei santi Simone e Giuda nei pressi di
Lucca una cascina posta in luogo detto Debbia presso Collodi, attestando
la compresenza dei due toponimi. Altri atti risalenti agli anni 1075, 1175
e 1209 contengono riferimenti a persone provenienti da quel territorio
e confermano che già nell’XI secolo Collodi era una realtà ben definita.
Un altro aspetto importante per la storia di Collodi è la presenza del po-
tere imperiale nel controllo del territorio della Valleriana e il confronto
fra gli opposti interessi dati dalle mire espansionistiche che su di esso
aveva la città di Lucca nel suo lento processo di affermazione da un lato,
e il mantenimento delle zone più strategicamente rilevanti sotto il diretto
dominio dell’imperatore dall’altro. Il territorio di Villa Basilica fu concesso
infatti nel 1121 dal Marchese di Toscana ai Vescovi lucchesi, ma nel 1196
fu riassegnato da Enrico VI assieme a Veneri e a Collodi a Ghiandone da
Lucca, lo stesso citato sopra, come ricompensa per i suoi meriti e la fedel-
tà dimostrata verso l’Impero. Questa scelta sembra essere stata motivata
da ragioni politiche, in particolare dal tentativo da parte dell’imperatore
di preservare il territorio più distante da Lucca dall’estensione del pote-
re locale della città, mantenendo così il controllo delle fortificazioni che
si trovavano nella Valleriana, fra cui quella di Collodi, situata non a caso
proprio a guardia dell’imbocco della valle. Questo dato risulta essere di
grande interesse soprattutto perchè suggerisce l’ipotesi, non avvalorata
però da fonti certe, che Collodi sia sorta inizialmente proprio come for-
tezza a scopo difensivo e di controllo del territorio, in cui in un secondo
momento si è trasferito, molto probabilmente per ragioni di sicurezza,
l’insediamento più a valle, forse proprio quello stesso della località detta
«in Debbia». Questo fenomeno di incastellamento proprio là dove esiste-
vano già delle fortificazioni fu frequente in tutta l’area della Valdinievole,
che era contraddistinta dalla presenza, sin dal secolo VI d. C., di una rete
di luoghi fortificati di maggiore o minore importanza controllati prima dai
Bizantini e dopo dai Longobardi.
Nel 1204, dopo la morte dell’imperatore Enrico VI e con la minorità
di Federico II, il Comune di Lucca restituì il piviere di Villa Basilica ai
vescovi di Lucca, escludendo però Collodi e Veneri e un documento
del 1258 informa che le due comunità erano ancora sotto il dominio
della famiglia di Ghiandone alla quale spettava la nomina dei magistrati.
Il documento descrive chiaramente Collodi come un comune retto da
due consoli o vicari, affiancati da ventiquattro funzionari. Le varie cari-
che elencate nell’atto di nomina ci informano della presenza di quattro
addetti alla custodia e al controllo di due zone ben definite che erano
il monte e il piano, confermando la realtà composita dell’insediamento,
esteso sia sulla montagna che nella pianura.
La giurisdizione della famiglia di Ghiandone su Collodi e Veneri si
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esaurì nella seconda metà del secolo XIII e
nello statuto di Lucca del 1308 le due locali-
tà sono citate come facenti parte della Vica-
ria di Valleriana, quindi definitivamente as-
soggettate al dominio lucchese; la mancanza
di indicazioni circa l’estimo da versare alla
città di Lucca ha indotto a pensare che l’ac-
quisizione di queste comunità fosse avvenu-
ta solo poco tempo prima.
Lo statuto del 1308 elenca i nomi dei dodici
comuni che formavano la Vicaria, distinti in tre
pivieri: il piviere di Villa Basilica formato dai
quattro comuni di Boveglio, Colognora, Paria-
na e Villa Basilica; il piviere di San Tommaso di
Valleriana composto dai sei comuni di Pontito,
Stiappa, Castelvecchio, San Quirico, Lignana,
Sorana, Aramo e Medicina; infine una parte del
piviere di San Piero in Campo con i due comu-
ni di Collodi e Veneri. Restavano invece nella
Vicaria di Valdinievole i comuni di San Piero in
Campo, Castellare e Vivinaia.
Collodi dal Medioevo ad oggi
La storia della Valdinievole nei secoli XIII e
XIV fu caratterizzata dalla lotta continua per
la conquista del territorio condotta in parti-
colar modo dal Comune lucchese e da quello
fiorentino che proprio attorno a Collodi ave-
vano i loro confini. Per questo tutta la zona fu
spesso teatro di continui scontri e di assedi,
conseguenza di contrasti politici di ben più
ampio respiro e che videro anche la parteci-
pazione di eserciti esterni.
Fra il 1330 e il 1339 Lucca perse molte delle
terre che possedeva in Valdinievole: le comu-
nità di Castelvecchio, Lignana e Sorana nella
Valleriana, la parte inferiore della Pescia mino-
re dal ponte di Squarciabocconi al Padule di
Fucecchio e infine le vallate della Pescia mag-
giore e della Nievole. Il territorio dei pivieri di
San Tommaso di Valleriana e di San Piero perse
la sua continuità: alcune delle loro comunità
restarono sotto la giurisdizione dei vescovi di
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Lucca, ma ricaddero politicamente sotto il do-
minio di Firenze.
Fra gli eventi più significativi che coinvolse-
ro Collodi si ricorda un tragico saccheggio
subito nel 1430 da parte di Firenze; la resa
del castello ai fiorentini che abbandonarono
dopo pochi mesi il castello sconfitti da Nic-
colò Piccinino, fino ad essere riconquistato
per essere nuovamente espugnato da Fran-
cesco Sforza. Il castello subì un altro terribi-
le saccheggio da parte di Pescia nel 1502 e
dalle forze di Piero Strozzi nel 1554. La fine
delle continue lotte fra Lucca e Firenze si
ebbe con il trattato di pace del 1442, che
stabilì il definitivo passaggio di Montecarlo
ai fiorentini e la restituzione di alcuni terri-
tori alla Vicaria di Villa Basilica e quindi ai
lucchesi, fra cui proprio Collodi e Veneri.
Collodi restò sotto Lucca fino al 1884 e ne se-
guì perciò tutte le vicende politiche ed isti-
tuzionali; in seguito fu annessa al Comune di
Pescia e con la nascita della provincia di Pi-
stoia nel 1929 fu ricompresa in quest’ultima,
mentre dal punto di vista ecclesiastico appar-
tiene ancora oggi, così come la chiesa di Vene-
ri, all’Arcidiocesi di Lucca.
Le chiese di Collodi
e del suo territorio
Le chiese di Collodi e Veneri erano sin dalle
origini suffraganee della pieve di San Piero
in Campo, quindi officiate dal clero lucchese.
Conferma questo dato un documento molto
noto, l’estimo delle chiese di Lucca del 1260.
L’elenco delle cappelle soggette alla giurisdi-
zione di San Piero erano la chiesa di Santa Ma-
ria di Castellare, San Martino e San Bartolomeo
di Collodi, San Quirico di Veneri e l’Hospitale
de strada, che doveva trovarsi nei pressi del
ponte di Squarciabocconi. La pieve di San Pie-
ro in Campo, oggi declassata a semplice chiesa,
fu una delle prime fondazioni cristiane della
valle; citata in un atto di livello per dei terreni
dati a un certo Rachimondo nel 485, probabil-
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mente esisteva già prima della dominazione gota. Il documento in que-
stione è però andato perso e un altro documento dell’846 resta la fonte
più autorevole a cui si fa risalire la prima citazione attendibile dell’esi-
stenza di questa pieve. L’edificio sorgeva in un primo tempo fra il corso
della Pescia minore e della Pescia maggiore ma per ragioni di sicurezza il
corso della Pescia minore fu in seguito deviato così che la pieve venne a
trovarsi sulla sponda sinistra del fiume. Nel 1014 il vescovo di Lucca Gri-
mizzo concedette in feudo tutti i beni di questa pieve ad un certo Ghe-
rardo detto il Moretto della famiglia dei Fralminghi. In seguito, al tempo
del vescovo di Lucca e Papa Alessandro II (1061-1072), la pieve fu retta
dai figli dello stesso Moretto. Nel 1252 una bolla di Papa Innocenzo IV, fir-
mata da dodici cardinali e vescovi e conservata nell’archivio parrocchiale
di Montecarlo, stabilì l’esenzione dei canonici e pievani di San Piero dalla
giurisdizione del vescovo di Lucca. Questa breve storia della pieve di
San Piero sembra confermare il fatto che su più fronti, sia ecclesiastico
che politico, sembra essersi ripetuto il tentativo di rendere autonomo dal
controllo di altri questo lembo di terra.
Le chiese che l’estimo del 1260 attribuisce a Collodi sono San Martino
citata a volte anche come San Martino in Debbia e San Bartolomeo. Per
quanto riguarda la chiesa di San Bartolomeo, essa si trova all’interno
delle mura castellane, nella parte alta del paese; il documento più antico
che la cita risale al 1217, ma un’iscrizione posta sull’ingresso della cano-
nica attribuisce la sua costruzione al 1200. Il fonte battesimale fu con-
cesso a questa chiesa nel 1388 dal vescovo di Lucca Giovanni a seguito
delle istanze rivolte dagli abitanti al Papa Urbano VI per evitare di dover
raggiungere la pieve di San Piero in Campo che in quegli anni sembrava
essere stata, da ciò che le stesse istanze dichiarano, in cattive condizioni
e in un’area ormai disabitata ed incolta.
Alcune visite pastorali della fine del Trecento rendono conto di un ge-
nerale stato di decadenza delle chiese del territorio: una visita del 1379
descrive San Quirico di Veneri come una chiesa in cui non c’era più il ret-
tore; nel 1383 venne trovata totalmente distrutta e in luogo detto «deserto
e disabitato». Interessante è la notizia che nel 1384 il vescovo di Lucca
Giovanni chiese agli abitanti di Collodi la ricostruzione dell’ospedale della
Beata Vergine Maria, sito dalle parti di San Martino. La notizia ci informa
infatti dell’esistenza di un ospedale di cui oggi non si ha più traccia e de-
scrive la chiesa di San Martino come fuori e nei pressi di Collodi.
La chiesa dedicata ancora oggi a San Bartolomeo si trova all’interno
del castello mentre quella di San Martino era stata edificata nel piano,
su di un piccolo colle nella zona indicata con il toponimo «in Debbia».
Questa chiesa sembra essere stata costruita prima di quella di San Bar-
tolomeo e probabilmente subì le conseguenze di quello spostamento
di abitanti dal piano alle mura castellane di cui già si è detto, dovuta ai
frequenti scontri che, fra la fine del secolo XIII e la metà del successi-
vo, avevano tormentato la zona.
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Una visita pastorale del 1467 trovò San Martino in gran parte scoperta
e in rovina e in condizioni analoghe San Quirico a Veneri, tanto che il
rettore di San Bartolomeo venne nominato responsabile anche di que-
ste chiese; spesso si trova infatti nei documenti parrocchiali la defini-
zione di «San Bartolomeo con i suoi Uniti». Questa visita pastorale cita
anche l’esistenza di un oratorio, quello di San Martino in Oppido che
oggi è meglio conosciuto come oratorio di Sant’Antonio e lo descrive
come senza tetto. Questo edificio ancora esistente, fu costruito dopo
il 1414 dai parrocchiani ai quali il vescovo di Lucca, Nicolao Guinigi,
aveva concesso il permesso di erigere un altare nei pressi della casa dei
Garzoni, una nobile famiglia la cui presenza determinò in parte la sto-
ria di Collodi tra XIV e XVI secolo, decretandone la fedeltà all’impero
e l’opposizione al dominio fiorentino.
La attuale chiesa parrocchiale, dedicata anch’esso a San Bartolomeo, sorge
nel piano ai piedi del colle di San Martino e venne costruita costruita a
partire dalla seconda metà del XIX secolo. Con una deliberazione datata
23 settembre del 1860 la Compagnia della Buona Morte eretta nell’Orato-
rio di San Martino nominò una Deputazione che avrebbe poi presentato
l’istanza al Prefetto di Lucca per la costruzione del nuovo edificio. Il testo
dell’istanza spiega le motivazioni per cui si richiedeva la costruzione del-
la nuova chiesa e queste erano soprattutto la soddisfazione dei bisogni
e dei servizi spirituali della popolazione della pianura dato che l’orato-
rio di San Martino, dove la compagnia aveva sede, era ormai in pessime
condizioni e troppo piccolo per accogliere tutti. Nell’istanza si descrive
Trasporto ghiaia col mulo.
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come fosse diventato difficile e scomodo rag-
giungere la chiesa di San Bartolomeo in cima al
paese, date le “vie scoscese e malagevoli e poco
praticabili in alcune stagioni dell’anno”. Allo
scopo di costruire il nuovo edificio, dal mar-
chese Giuseppe Garzoni Venturi venne ceduto
gratuitamente un terreno e fu deciso di usare
le somme raccolte tramite le volontarie offerte
dei parrocchiani oltre alla manodopera gratuita
dei volontari e la somma di 200 scudi lasciata
alla Compagnia della Buona Morte nel 1842 dal
Marchese Paolo Garzoni Venturi.
Una relazione fatta dall’architetto lucchese
Carlo Cervelli nel 1860 descriveva la popola-
zione di Collodi come di circa 1800 abitanti
e 350 famiglie di cui 50 circa abitanti nel ca-
stello e le altre nella parte inferiore detta “più
moderna”. La compagnia attraverso la delibera
del 1860 nominava la deputazione come orga-
no di direzione e sorveglianza dei lavori affin-
ché questi fossero eseguiti secondo le perizie
del Cervelli ed entro i termini previsti. Una
successiva adunanza dei capifamiglia decise
all’unanimità che l’oratorio di San Martino sa-
rebbe stato ceduto alla Confraternita di Miseri-
cordia al termine dei lavori della nuova chiesa.
In seguito, dopo circa vent’anni, sembra che
i lavori fossero stati trascurati tanto che nel
1886 i parrocchiani si riunirono nuovamente
e dettero vita ad un Comitato provvisorio che
aveva come compito quello di far almeno ter-
minare i lavori necessari a rendere la chiesa
“uffiziabile”. I lavori terminarono nel 1902 e la
chiesa fu consacrata nel 1922.
Al termina di questa trattazione bisogna ricor-
dare l’importante ruolo svolto dall’Opera di San
Bartolomeo annessa alla chiesa omonima, di cui
si ha notizia sin dal 1457 e che nel corso dei
secoli ha favorito lo sviluppo di una ricca attivi-
tà devozionale testimoniata dalla fondazione di
numerose confraternite ed altari unita ad opere
di natura pubblica in favore dell’intera comuni-
tà. Fra le compagnie e altari che si sviluppano
attorno alle chiese di Collodi si trovano le più
39
caratteristiche tanto che nel descriverne la sto-
ria si potrebbe ricostruire in parte lo sviluppo
della storia della devozione nella Chiesa cattoli-
ca, dalla diffusione delle compagnie del SS. Ro-
sario, all’affermarsi di quelle nate a seguito del-
la Controriforma, fino ad arrivare alle Società
operaie di mutuo soccorso, con la particolarità
di essere presenti proprio in una comunità così
piccola. L’archivio parrocchiale, attualmente
riordinato grazie all’iniziativa dell’associazione
Collodinsieme, conserva svariati documenti ap-
partenenti a molti enti che si configurarono nei
secoli come committenti di opere d’arte anche
assai prestigiose. Fra essi i più interessanti sono
i seguenti.
La Compagnia del SS. Rosario, fondata nel 1577
da un membro dell’Ordine di San Domenico
originario di Fibbialla nella chiesa di San Bar-
tolomeo e che risultava ancora attiva nel 1986.
La Compagnia della Buona Morte, eretta in
San Martino nel 1590, che nel 1704 fondò
nella stessa chiesa l’Altare delle Anime San-
te del Purgatorio.
L’altare del SS. Crocifisso, eretto nella chiesa
di San Bartolomeo nel secolo XVII a segui-
to della particolare devozione degli abitanti
per un’immagine lignea del Cristo crocifisso
acquistata nel 1618 a Lucca da un membro
dell’Opera di San Bartolomeo. All’immagine
furono attribuiti numerosi miracoli di cui il
più importante fu la protezione data al paese
durante il cosiddetto «mal del contagio» del
1631. L’epidemia di peste di quell’anno, mira-
bilmente descritta da Alessandro Manzoni, si
diffuse in quasi tutte le comunità circostanti
della Valdinievole con esiti disastrosi ma col-
pì a Collodi soltanto venti persone.
La Confraternita del Santissimo Sacramento,
istituita nel 1587 in San Bartolomeo.
La Confraternita del Corpus Domini, già attiva
alla metà del secolo XVI.
La Congrega dei devoti di San Domenico,
attiva nel 1723.
L’altare dei Sette Dolori di Maria Vergine, atte-
40
stato intorno alla seconda metà del secolo XVIII ed eretto con il consen-
so del Padre Generale dell’ordine dei Servi di Maria Addolorata.
La Congregazione di Sant’Antonio di Portici che nel 1728 fu inserita fra
gli enti amministrati dal parroco di Collodi a seguito della consegna fatta a
quest’ultimo da parte di un membro della famiglia fondatrice del’oratorio.
È bene ricordare che questi enti sono ancora oggetto di studio e di con-
seguenza non è possibile darne molte altre notizie, resta evidente però
che la ricchezza di espressioni devozionali da parte della comunità di
Collodi rivela una peculiarità che per un paese delle sue dimensioni
sembra almeno per adesso non avere pari nel territorio circostante.
Le origini di un miracolo: la villa Garzoni e la sua storia
Oltre a questa forte attività devozionale e ad una notevole operosità dei
parrocchiani nelle questioni di carattere “pubblico”, Collodi si distingue
anche per la presenza di un bellissimo capolavoro architettonico che
esprime pienamente l’egemonia e la ricchezza di una delle famiglie più
importanti del luogo già sopra citati: i Garzoni.
Le origini di questa famiglia sembrano risiedere nella città di Pescia e in
particolar modo nel quartiere del Duomo. Della famiglia Garzoni si trova-
no varie notizie nelle opere scritte sia dallo storico Ansaldi che dal Repetti
che dedica il suo Dizionario Geografico Fisico della Toscana proprio al
marchese Paolo Garzoni Venturi.
L’archivio parrocchiale recentemente riordinato conserva alcuni appun-
41
ti in cui viene ricostruita la discendenza della famiglia nella linea di Ro-
mano Garzoni, deceduto nel 1786. Le notizie raccolte confermano le
stesse informazioni date dagli storici sopra citati: la famiglia dei «da Gar-
zone» sembra discendere dal capostipite Garzone consigliere dell’impe-
ratore Arrigo VII, e investito nel 1333 da re Giovanni di Boemia, assieme
a Bonagiunta e Leonardo di Bartolomeo Garzoni, di Castelnuovo, Vellano
e del feudo delle Cerbaie come ricompensa per le spese e gli sforzi fatti
nel tentativo di conservare la Valdinievole sotto Lucca. L’imperatore Car-
lo IV confermò nel 1355 gli stessi possedimenti a Giovanni Garzone suo
consigliere e nel 1376 nominò lo stesso e il fratello Bartolomeo conti
palatini, titolo nobiliare che si sarebbe esteso a tutti i discendenti della
famiglia. Un altro membro della famiglia, Lippo Garzoni, fu consigliere di
Castruccio Castracani, ma alla morte di quest’ultimo con il ritorno dei
guelfi, i Garzoni, a differenza di altre famiglie ghibelline, furono banditi
da Pescia e costretti all’esilio; fra questi, Buonagiunta di Bartolomeo Gar-
zoni fu a capo di una congiura per riprendere Pescia da poco passata
sotto il dominio di Firenze. Non a caso, il libro delle riformagioni di Fi-
renze del 1364 dà notizia di una ricompensa di 100 fiorini per la cattura
di un qualsiasi membro di quella famiglia.
A seguito dell’esilio i Garzoni si trasferirono a Lucca dove furono in breve
tempo ammessi alla cittadinanza e ascesero a ruoli importanti nella vita
politica della città, entrando nel Consiglio generale e accedendo all’Anzia-
nato. I Garzoni si adoperarono per non restare esclusi dallo scenario po-
litico e militare della penisola e nel corso del secolo XIV, oltre a ricevere
le laute ricompense dell’imperatore Carlo IV, rivestirono cariche di alto
rango al servizio di importanti signori della penisola: furono alti magistra-
ti, ambasciatori o intimi amici di personaggi illustri alla corte di Roma e
dell’Impero. Tra il 1366 e il 1377 sembra essere stato proprio Giovanni
Garzoni ad acquistare dai monaci di Santa Maria Novella e Santa Croce in
Valdarno i possedimenti della famiglia a Collodi e fra questi, quello che
ancora oggi resta come uno dei monumenti più spettacolari della zona: la
Villa Garzoni ed il giardino storico.
La villa sorse inizialmente per assolvere il compito di residenza e al tem-
po stesso di fortificazione a scopo difensivo, soprattutto negli anni appena
successivi all’allontanamento dei Garzoni da Pescia, quando ancora erano
particolarmente accesi il risentimento e la reciproca volontà di rivalsa. La
conflittualità fra Pescia e la nobile famiglia ghibellina si risolveva nella pratica
con frequenti scontri armati e saccheggi ai danni delle due parti. In seguito,
nel secolo XVII, sulle rovine della fortezza si cominciò a costruire quella che
è l’attuale villa. La prima notizia certa della costruzione risale al 1633 e il
progetto sia della villa che del giardino storico sono stati quasi integralmen-
te frutto dell’opera di Romano di Alessandro Garzoni che da grande cultore
dell’architettura riuscì a progettare un palazzo che si distingue nel paesaggio
per la raffinata eleganza unita alla spettacolarità della sua imponenza.
< Uomo porta del fieno in spalla.
42
La villa sorge ai piedi dell’abitato, quasi a dife-
sa di esso, come a chiudere la cascata di case
che dà forma al castello e al tempo stesso fa-
cendosene base portante: la facciata sud, uno
dei primi elementi del paesaggio a farsi notare
alla vista di chi si avvicina a Collodi, è trionfa-
le, quasi regale, mentre la facciata nord, rivolta
all’interno, è severa e composta. L’aspetto attua-
le è il frutto di interventi compiuti nel secolo
XVIII, così come per il giardino che, realizzato
inizialmente su progetto di Romano Garzoni, è
stato poi terminato sia da Filippo Juvarra che
dall’architetto lucchese Ottaviano Diodati.
Il giardino appare costruito su di un asse diver-
so rispetto alla villa con un suo ingresso auto-
nomo e costituisce un mondo a sé compiuto
fatto di luoghi meravigliosi e fantastici, tipici dei
giardini delle grandi dimore signorili del tempo.
Il parco è considerato oggi uno dei rari esem-
pi di giardino all’italiana in cui con armonioso
equilibrio si fondono il gusto per la misura e la
forma geometrica, del tutto rinascimentali, alla
spettacolarità barocca. Il giardino è animato da
una ricchezza di elementi e di scenari suggestivi
sapientemente costruiti per evocare una dimen-
sione di stupore e meraviglia che reinterpreta la
realtà in chiave fantastica affascinando lo spetta-
tore; vi si trovano teatri di siepi, statue di sogget-
to mitologico, giochi d’acqua, grandi vasche, il
labirinto, le aiuole fiorite, scenografiche scalina-
te e numerosi vialetti che dal percorso principa-
le si staccano conducendo in luoghi più segreti
quasi di carattere privato e misterioso.
La famiglia Garzoni ha mantenuto il possesso di
questo notevole complesso fino alla metà del
XX secolo; Giuseppe Garzoni Venturi, senatore
del Regno dal 1871 lasciò il palazzo e il giar-
dino alle due figlie Maria ed Emilia fino a che,
negli anni ‘60 del ‘900, la struttura passò nelle
mani di alcuni membri dei Conti Gardi dell’Ar-
denghesca, una nobile famiglia di antiche ori-
gini allontanata da Siena nel XIII secolo per
motivi politici e poi trasferitasi a Firenze. Per la
sua spettacolarità e perfetta eleganza, nel 1909
il parco fu dichiarato monumento nazionale.
43
Il Parco di Pinocchio
e la nascita della Fondazione Collodi
Nel 1951, nel 70° anniversario della pubblica-
zione de Le avventure di Pinocchio, l’allora
sindaco di Pescia, il Professor Rolando Anzilot-
ti, decise di celebrare l’evento creando un co-
mitato per la realizzazione di un monumento
a Pinocchio ed invitò a parteciparvi numerosi
artisti del tempo che avrebbero gareggiato in
concorso. Gli artisti che presero parte a questa
iniziativa furono 84 e i vincitori furono Emilio
Greco e Venturino Venturi. Lo spazio utilizzato
per la realizzazione del concorso è oggi diven-
tato il noto “Parco di Pinocchio”. Il parco è stato
inaugurato dal Presidente della Repubblica Gio-
vanni Gronchi nel 1956 e completato dal mo-
numento a Carlo Collodi nel 1990; nel 1963 si è
arricchito con la realizzazione dell’Osteria del
Gambero Rosso da parte di Giovanni Micheluc-
ci e nel 1972 si è ampliato con la costruzione
del Paese dei Balocchi. Nel 1987 si è infine ag-
giunto il Laboratorio delle Parole e delle Figure.
Considerato un vero e proprio museo all’aper-
to, il parco è composto dalle opere di numero-
si artisti che nel tentativo di illustrare la storia
di Pinocchio hanno dato vita ad un percorso
creativo attraverso la loro personale interpre-
tazione, riproponendo la celebre fiaba con le
più diverse espressioni e tecniche artistiche.
Il comitato nato nel 1951 è divenuto oggi la Fon-
dazione nazionale Carlo Collodi. La Fondazione
è un Ente morale senza fini di lucro riconosciu-
to dallo Stato con D.P.R. n. 1313/1962 e dal 1990
è inserita nella Tabella ufficiale delle Istituzioni
Culturali di interesse nazionale del Ministero
per i Beni e le Attività Culturali; la sua attività è
volta a diffondere la conoscenza e valorizzare
l’opera di Carlo Collodi attraverso varie attività
culturali, manifestazioni, mostre, concorsi per
la scuola e gli artisti, spettacoli, borse di studi
e convegni. Il 28 marzo 2009 è stato innalzato
proprio nei pressi della sede della Fondazione il
Pinocchio più grande del mondo.
< Scale alla piazza del lavatoio.
44
La comunità di Collodi oggi è
conosciuta e ricordata soprat-
tutto per il valore culturale
internazionale che ha acqui-
sito grazie allo sviluppo del
Parco di Collodi e all’attività
della Fondazione. Se nel cor-
so dei secoli le principali at-
tività produttive sono state la
viticoltura e l’olivicoltura mol-
to adatte ai terreni terrazzati,
nella seconda metà del secolo
XV si è diffusa l’industria del-
la carta di cui si ricordano le
numerose cartiere fondate da
ricche famiglie di origine luc-
chese come i Duccini, i Buon-
visi ed ovviamente i Garzoni.
Oggi invece, l’attività principale
del paese è costituita dalle at-
tività del terziario, soprattutto
nei servizi turistici, dovuta alla
presenza del Parco di Collodi e
dello storico giardino Garzoni,
senza dimenticare che anche
il castello di Collodi continua
a conservare quasi intatto un
fascino tutto particolare, una
dimensione d’altri tempi che
pian piano si lascia scoprire e
riesce ad affascinare chi si in-
cammina all’interno del paese.
Con le sue ripide salite, le sue
stradicciole in pietra, i caratte-
ristici scorci medievali, il silen-
zio e la pace di un luogo dove
il tempo sembra essersi ferma-
to e dove ancora si può acce-
dere solo a piedi, si può godere
ancora, come un tempo, di un
panorama tra i più belli della
Valdinievole.
45
47
Gabriele Marangoni
Breve visita artistica nelle chiese di Collodi e di Veneri
48
C’era una volta...
– Un pezzo di legno! – diranno subito i miei interessati lettori. No, signori,
avete sbagliato. C’era una volta un paese.
Non era una grande città, ma un semplice, piccolo paese, di quelli
con le case di pietra ed i balconi fioriti, dove tutti si conoscono e
vivono una vita semplice e raccolta.
Mi si permetta il gioco e la parafrasi dell’incipit di quello che è
considerato il libro più diffuso al mondo dopo la Bibbia, ma dif-
ficilmente si può parlare di Collodi senza citare quel libro e quel
personaggio che hanno reso il nome di questa cittadina toscana
così famoso a livello internazionale e che ne hanno così fortemente
condizionato l’identità culturale, nonché l’aspetto urbanistico ed
economico in questo ultimo secolo.
Il nome del paese sì, non il paese stesso, perché Collodi è un nome,
il nome del paese di Pinocchio; chissà se è un paese inventato, di
quelli che si trovano nei libri, nelle favole, nelle storie, magari con il
castello, la principessa ed un drago, o forse no… senza principesse
ma con un falegname, due carabinieri, una fatina ed un grillo parlan-
te che camminano per la pubblica via.
Se tutti conoscono il nome di Collodi, anche solo per averlo sentito
di sfuggita in un racconto, in un film, a scuola, pochi sapranno dire
se Collodi è un paese che esiste veramente e darne una esatta collo-
cazione geografica (Italia? Toscana? Provincia di Pistoia addirittura,
anzi, una frazione del Comune di Pescia, pensa un po’!), anche perché
l’identità concreta, fisica, tangibile, il riconoscimento del dato fanta-
stico in qualcosa di reale e riconoscibile toglie la magia, il mistero del
vago e dell’immaginifico; ed allora perché sciuparsi il gusto di imma-
ginare un paese che non c’è? Chi mai vorrebbe sapere che Pinocchio
viveva in una frazione del comune di Pescia, in provincia di Pistoia (al
semaforo sul ponte a destra, poi tutto a diritto)?
Quando penso a Collodi mi vengono in mente le città invisibili di Italo
Calvino e penso che Calvino stesso prima di metter penna su quello
straordinario libro non fosse mai venuto da queste parti, altrimenti
ne avrebbe inevitabilmente fatto menzione: Eusapia la città che vive,
Zemrude la città che cambia volto negli occhi di chi la guarda, Collodi
la città che tutti conoscono ma che nessuno conosce davvero.
E invece no: Collodi è un paese esistente, reale, vero, vivo, con una storia
(una signora storia, di quelle storie fatte di castelli, magari senza princi-
pesse e draghi, e di battaglie, battaglie vere non quelle con i cavalieri ed
i principi azzurri) ed una identità culturale ed artistica, ma non artistica
di quelle da poco, artistica di quelle vere, con gli artisti veri, con i nomi
grandi ed altisonanti, di quelli che non sono i Mastro Geppetto ed i Ma-
stro Ciliegia dei libri di fiabe, ma i Francesco di Valdambrino i Giovanni
da Imola i Fra’ Paolino che si trovano nei cataloghi dei musei; nomi veri,
persone vere, mica inventate. E sculture vere, di quelle di legno sì, ma
49
non burattini che si muovono, bensì capolavori della scultura rinasci-
mentale, fatte di legno, ma a differenza di Pinocchio sconosciute ai più e
non per questo meno importanti.
Chissà se Carlo Lorenzini quando si è messo a scrivere il suo libro più ce-
lebre si era accorto che il suo piccolo paese ospitava alcuni dei maggiori
capolavori della scultura lignea del ‘400. Che cosa curiosa questa, chissà
se è una coincidenza. Noi immaginiamo di sì, anzi, probabilmente lo è;
gli stessi abitanti di Collodi, adesso, non ne sono a conoscenza: nemme-
no, anzi ancor di meno, i turisti che in grande quantità affollano i sentieri
del parco tematico che al burattino di Lorenzini è stato dedicato giù a
valle e quelli frondosi e brulicanti di verzura dello splendido giardino
settecentesco nella attigua villa Garzoni.
Bello il parco di Pinocchio: ci sono le sculture di Consagra e di
Emilio Greco, i mosaici di Venturi, le architetture di Michelucci,
inganni e sorprese dietro ad ogni siepe.
Bello, anzi splendido, il giardino monumentale della villa Garzoni: ci
vanno tutti, anzi, ora ci hanno messo anche le farfalle, si va anche più
volentieri a visitarlo.
Ecco: tra una farfalla e l’altra, tra una siepe e l’altra, tra una fatina, una ba-
lena ed un albero degli zecchini si alzino gli occhi in alto e si provi a ve-
dere quello strano mucchio di strane case, tutte vecchie, tutte di pietra,
tutte allineate, con quei sentieri lastricati in pietra e gli stipiti delle porte,
i davanzali delle finestre, ed i gradini tutti di pietra, quella pietra grigia,
fredda, antica dei paesi duri e aspri della Toscana, ecco, quella è Collodi
(adesso la chiamano Collodi alta, per distinguerla dalla Collodi bassa,
50
quella della espansione a valle
tardo ottocentesca e novecen-
tesca) ma la Collodi quella vera,
quella del “c’era una volta”, ma
non solo del “c’era una volta” un
burattino ma anche quella del
“c’era una volta” un paese, con i
suoi abitanti, con le sue chiese,
con le sue battaglie, con la sua
storia: storia che come tutte le
storie lascia segni materiali, che
noi lettori interessati ed accorti
delle cose del mondo cerchia-
mo, per darne lettura incuriosi-
ta ed interpretazione sapiente.
Certo, però, che arrivare lassù
è davvero faticoso! Ora, quello
che abbiamo detto “lassù” è un
lassù che dista poche centinaia
di metri, mica chilometri, ma è
un “lassù” tanto faticoso, tanto
ripido (ma ripido ripido, e diffi-
cile anche e che diventa ancora
più ripido quando si arrivano a
toccare le prime case) un lassù
che richiede tanto sforzo, tanta
volontà di volerci arrivare.
Si pensi addirittura che nella
vicina Pescia si prendono in
giro i collodesi dicendo che a
Collodi hanno le galline con i
freni alle zampe, per non farle
rotolare giù a valle. Pescia è la
città, quella in pianura, mica
come Collodi che è “lassù”;
Pescia è la città grande, quella
che dà il nome al Comune; lì si
che c’è una storia, ma di quel-
le vere, mica come “lassù” tra
quelle vecchie pietre
Chi scrive, tanti e tanti anni fa,
proprio a Collodi ha deciso di
smettere di fumare, dopo l’en-
nesima, inevitabile, sosta per ri-
prendere fiato.
51
Il “lassù” di Collodi è un “lassù” un po’ arduo è vero, forse anche poco
segnalato dai cartelli, dalle guide turistiche, dagli uffici competenti, dai
libri eruditi, ma un “lassù” assai bello; un “lassù” che nasconde esperien-
ze interessanti e pietre che raccontano storie, le storie vere, la storia
del mondo reale, quello che se inciampi ti fai male e che se sotterri
monete d’oro non nasce niente se non il rimpianto di averlo fatto.
Speriamo che queste brevi, semplici righe possano risultare utili a quel
qualcuno che, per curiosità, per passione, per interesse o anche solo per
noia, voglia prendersi la briga di salire “lassù”, o magari semplicemente
fare un giro tra le pietre, tra le campagne, tra gli ulivi ed aprire la porta di
una chiesa per vedere i tesori che in essa sono conservati.
Ci si perdoni il tono scherzoso con cui apriamo questo scritto, ma sia-
mo a Collodi, qui i grilli parlano e ed i burattini si muovono; noi non
vogliamo sembrare troppo seriosi e ci adeguiamo.
La chiesa di San Bartolomeo a Collodi alto
A Collodi ci si arriva attraverso la via Pesciatina, un tracciato viario che
collega l’abitato di Pescia con la città di Lucca e che corre parallela
all’antico tracciato della via Cassia Minor conosciuta pure con il nome
di via Cassia Clodia, la strada che nell’antichità collegava Firenze (at-
traverso Pistoia e Lucca) con i territori della Liguria e quindi, poi, della
allora Gallia e che nel Medioevo costituiva un diverticolo assai impor-
tante di quello straordinario movimento di idee, di pellegrini, di merci e
Oratorio del SS. Sacramento.
52
di culture che conosciamo abitualmente con il nome di “via Francigena”, che proprio di qui passava;
si dice, anzi che il nome di Collodi derivi dal latino Forum Clodii, proprio per la sua ubicazione lungo
questo importante asse viario. Nel Medioevo il paese era uno dei castelli della Vicaria di Valle Ariana e
della repubblica lucchese, contesa con numerose battaglie tra lucchesi e fiorentini. Assedi, devastazio-
ni, scontri armati fecero per secoli di questa zona nevralgica un luogo continuamente martoriato, feri-
te a cui si devono aggiungere quelle pestilenze, quelle carestie e quelle sofferenze che inevitabilmente
impoveriscono ed affliggono luoghi come questo in conseguenza di lunghi e dolorosi assedi.
Le pietre del castello situato nella parte più alta dell’abitato, insieme a quello della vicina Montecarlo
considerato uno dei più potenti ed inespugnabili del territorio, sono andate via via sgretolandosi; il
possente torrione è stato mozzato; una delle torri minori è stata trasformata in torre campanaria (una
torre campanaria ancora merlata, con quei merli ghibellini che tradiscono, o comunque alludono alla
sua storia di dipendenza lucchese); le porte di accesso all’antico paese murato sono andate in rovina
o inglobate tra le nuove costruzioni civili e l’intero abitato è stato nascosto, ormai nel secolo XVIII,
con la costruzione più a valle
dell’imponente Villa Garzoni
e del suo grande giardino del-
le meraviglie.
Anche la chiesa parrocchia-
le dedicata a San Bartolo-
meo, situata nella emer-
genza superiore del paese,
in prossimità delle rovine
dell’antica rocca, ha subito
numerose trasformazioni e
Collodi alto - interno veduta verso l’altare.
< Interno dall’alto con altare Madonna.
53
ben poco rimane della costruzione originale, risalente al secolo XII,
se non alcune tracce in facciata.
Vi si accede attraverso una lunga strada ripida, lastricata in pietra, che
attraversa tutto il paese nella sua estensione verticale; l’intero abitato di
Collodi è in realtà, di per sé, una lunga ed ordinata fila di case disposte lun-
go due strade, relativamente dritte e parallele tra loro, che si inerpicano
verticalmente sulla cresta di un ripido colle e che raggiunge una estensio-
ne massima in larghezza di poche decine di metri, tanto quanto l’edificio
settecentesco fatto costruire più in basso dalla famiglia Garzoni, il quale
riesce, con la sua mole, a nascondere l’intero centro abitato.
Collodi alto - S. Bartolomeo, esterno.
54
La chiesa di San Bartolomeo
è costruita su un’ampia ter-
razza, lastricata anch’essa in
pietra (sarebbe improprio
definirla piazza), che si af-
faccia sulla profonda vallata
sottostante: sul lato sinistro
della chiesa, perpendicola-
re all’edificio stesso, si trova
l’Oratorio del SS. Sacramento,
assai più tardo ma ormai spo-
glio e abbandonato (all’inter-
no soltanto un altare in gesso
e decorazioni parietali a finte architetture risalenti alla fine del secolo XVIII).
La facciata è a capanna, costruita interamente in pietra grigia locale, eccezion fatta per alcune sarciture in
muratura nella sua parte superiore, in prossimità del tetto e del profilo degli spioventi in laterizio sagomato.
Il trattamento non isodomo della muratura tradisce numerose ricostruzioni, nell’inserimento di
blocchi in pietra di forme e dimensioni diverse (estremamente evidente l’ampliamento dell’edificio
verso il lato sinistro e la costruzione di più fasce verticali, superiormente alla trabeazione dell’attua-
le portale); nella parte destra della facciata sono ancora ben visibili l’archivolto, la lunetta e l’innesto
del protiro del primiero ingresso all’edificio (presumibilmente quello dugentesco originale) murati
ed inglobati nell’attuale paramento.
Un’alta scalinata poligonale permette l’accesso alla chiesa attraverso un semplice ma elegante portale
trabeato costruito in pietra serena, così come nella più pura tradizione edilizia toscana.
Due semplici finestre rettangolari non profilate, disposte simmetricamente rispetto al centro del-
Coro e cappella crocifisso.
< Interno verso l’organo.
55Altare.
57
la facciata ed una nicchia qua-
drangolare centrale sono pre-
sumibilmente aggiunte tarde
e non contribuiscono affatto
all’armonia dell’insieme.
Sulla facciata della canonica
sono murate due lapidi: una
datata 1360, l’altra datata 1631,
anno in cui, durante una epide-
mia di peste, la popolazione di
Collodi, per liberarsene, portò
in processione per le strade del
paese il crocifisso ligneo attual-
mente conservato all’interno
della chiesa.
L’interno è piccolo e regolare
ma assai elegante.
wIn sostituzione di quelli de-
moliti nel 1617 questi due altari
sono stati posti in opera in quel-
lo stesso anno e dorati nel 1632
da Piero Bertella da Pescaglia;
similmente a quello posto nel
transetto destro, dedicato alla
Madonna delle Grazie, gli altari
della navata hanno una struttura
a edicola, di gusto ancora cin-
quecentesco, con colonne co-
rinzie addossate, dal fusto liscio
su alto plinto ed un timpano cir-
colare spezzato nel fastigio: gira-
li e racemi dorati invadono tutta
la superficie del fusto con effetti
decorativi di preziosismo forma-
le assai interessanti.
Nonostante l’origine medioeva-
le, l’interno della chiesa tradisce
in realtà il gusto barocco del do-
minio della famiglia Garzoni e
dell’estetica settecentesca che
corrisponde al periodo di suo
maggiore sviluppo: l’alternanza
di stucchi dorati e campiture
bianche, i legni intagliati e dora-
ti, la tavolozza cromatica caratte-
Particolare di altare.
58
rizzata dai toni pastello dell’insieme, il repertorio decorativo abbondante
in ghirlande fiorite, conchiglie, festoni di fiori e frutta, cartigli, quadrature
architettoniche e cornici polilobate rivelano al primo colpo d’occhio la
dipendenza dell’assetto interno della struttura da un gusto decorativo tar-
do seicentesco e settecentesco.
Di grande effetto ed eleganza le quadrature architettoniche dipinte sulla
volta nell’incrocio del transetto e, soprattutto nella zona presbiteriale da
Decorazione del presbiterio.
Altare maggiore.
59 Decorazione del transetto.
61
un pittore anonimo, probabil-
mente toscano, risalente al se-
colo XVIII.
Le pareti del presbiterio sono
decorate a finte architetture ad
affresco, con strutture verticali
a ricciolo che inquadrano finte
nicchie con vasi fioriti dipin-
ti; sulla volta, quattro grandi
mensole affrescate sui peduc-
ci reggono altrettante nicchie,
anch’esse dipinte, che ospita-
no scudi araldici e vasi fioriti
ed un oculo polilobato cen-
trale che lascia scoperta una
porzione di cielo, al centro del
quale campeggia la colomba
dello Spirito Santo.
Al centro dell’ambiente pre-
sbiteriale, un ricco altare set-
tecentesco di gusto romano,
in legno e stucco dipinti e
dorati, con un binato di co-
lonnine tortili al centro, a
cornice dello sportello del
tabernacolo.
Sugli ampi pilastroni che so-
stengono l’arco trasverso di im-
bocco del presbiterio si aprono
due nicchie simmetriche entro
Particolare affresco.
62
le quali sono ospitate due scul-
ture quattrocentesche, patrimo-
nio mobile suntuario dell’edifi-
cio preesistente al rifacimento
in età barocca della chiesa.
La scultura di destra, condotta
in argilla biscottata con tracce
di policromia, rappresenta un
figura femminile stante, vestita
con una ampia veste altocinta
riccamente panneggiata (coper-
ta da un mantello che compie
un abbondante sbuffo centrale
all’altezza dei fianchi), i capelli
raccolti dietro la nuca e con la
mano destra piegata al petto; la
scultura dà forma, probabilmen-
te, ad una Vergine Annunciata o
ad una Santa Caterina di Ales-
sandria (privata dal tempo degli
attributi iconografici: l’Angelo
nunziante che le doveva neces-
sariamente fare da contraltare o
la ruota dentata simbolo e stru-
mento del martirio, nell’uno o
nell’altro caso) riferibile ad am-
biente lucchese/pisano quattro-
centesco, ma difficilmente ri-
conducibile ad una ben precisa
identità artistica riconoscibile e
Scultura Santa, terracotta.
63
nominabile (nonostante il largo
ricorso al nome di Matteo Ci-
vitali ed alla sua cerchia che è
stato fatto a proposito di questa
scultura, forse con anche trop-
pa facilità e non necessariamen-
te con ampio riscontro di per-
tinenza).
Di grandissimo interesse poi, la
scultura raffigurante un San Bar-
tolomeo stante, posta nella nic-
chia opposta e lì collocata solo
di recente, dopo essere stata per
anni occultata negli armadi di sa-
crestia di una chiesa vicina per
presunti motivi di sicurezza.
La piccola scultura, condotta
in legno intagliato e policro-
mato, tradisce sin dalla prima
occhiata caratteri stilistici di-
pendenti dall’opera di Jaco-
po della Quercia e deve con
estrema probabilità essere ri-
feribile alla mano di Giovanni
da Imola, scultore di estrazio-
ne quercesca, documentato
come aiutante del Maestro
fin dai tempi dell’impresa
della edificazione dell’altare
per la famiglia Trenta (1416)
Scultura San Bartolomeo.
64
nella chiesa di San Frediano in Lucca.
La composizione generale dell’opera risente della attività sculto-
rea di Jacopo in terra di Lucca (si pensi ad esempio al bel Sant’An-
sano autografo nella chiesa lucchese dei SS. Ansano e Giulitta o
all’altro, sempre autografo, della chiesa di Santa Maria degli Uli-
veti a Massa rappresentante un San Leonardo) ma senza riportare
particolari sigle stilistiche che possano indicare la partecipazio-
ne diretta del Maestro nella esecuzione dell’opera e senza trovar
traccia delle espansioni plastiche barocchette che ne connotano
altra attività, per esempio quella nella natìa Siena (per quanto si
possano evidenziare utili riferimenti con l’Annunciante quercesco
della Pinacoteca di Siena, non tanto nella definizione delle masse
plastiche quanto nella impostazione non colonnare della figura).
Il santo è rappresentato stante, coperto da una veste corta che
lascia vedere la parte inferiore delle gambe ed i piedi nudi, un am-
pio manto panneggiato incrociato sul petto e rialzato sul fianco,
il capo scoperto con il volto barbuto fortemente reclinato di lato
ed un coltello (attributo iconografico di riconoscimento) stret-
to nella mano destra. L’intaglio è nervoso e spigoloso (un ductus
formale così persistente da sembrare un attributo del carattere
piuttosto che un elemento stilistico materiale), minuto nella defi-
nizione della barba e dei capelli, ampio e modulato nei panneggi,
soprattutto nel risvolto delle maniche e nelle festonature centrali.
La scultura lignea policromata rappresentante San Bartolomeo con-
servata nella chiesa omonima di Collodi Castello deve essere consi-
derata uno dei più suggestivi esempi di scultura lucchese del terzo
decennio del ‘400 in Valdinievole e rappresenta un interessante caso
critico nel rapporto con l’attività, assai indagata e quindi criticamen-
te significativa, dell’illustre maestro senese alla cui attività si ispira.
Sempre scultura lucchese assai significativa, anch’essa condotta in
legno policromato, ma di dimensioni assai più ampie e datazione
più alta (secolo XVII) è il bel crocifisso che si conserva nell’altare
posto nel transetto sinistro e che i documenti ci dicono essere stato
intagliato nel 1618 dallo scultore lucchese Santi Gugliemi, artista
del quale, allo stato attuale delle ricerche, non è stato possibile col-
legare altre opere né ricostruire un catalogo ed una fisionomia ar-
tistica credibili; non ci pare però così ardito tentare in questa sede
un primo avvicinamento del crocifisso collodese agli esemplari di
stessi soggetto ed iconografia conservati nella chiesa parrocchiale
di Montevettolini in Valdinievole (altare maggiore), nella chiesa di
Santomato di Pistoia (altare maggiore) e nella chiesa della Madonna
del letto in Pistoia, se pur le pesanti superfetazioni messe in opera
sugli esemplari citati e le difficili condizioni di fruizione degli stessi
rendano di fatto impossibili confronti puntuali.
Di grandezza al naturale (170 cm di altezza), il Cristo è rappresentato ap-
65 Scultura San Bartolomeo - particolare volto.
67
peso ad una croce immissa, con
le gambe leggermente piegate,
le braccia impostate nel busto
con un angolo a 45°, i piedi in-
fissi in un unico chiodo e pog-
giati su un suppedaneo; il capo
è reclinato verso destra, gli oc-
chi chiusi; il perizoma (fluido e
lineare, non pannoso) è realizza-
to in forma di una stretta fascia
ad andamento diagonale che si
articola in un grande nodo sul
fianco destro e scende con un
ampio svolazzo di grande effet-
to decorativo.
L’anatomia è possente e mas-
siccia, ben espansa nello spa-
zio - nelle masse e nell’artico-
lazione delle traiettorie - senza
insistenze formali ed esaspe-
razioni espressive, nella sem-
plice ricerca di valori natu-
ralistici, ordine, equilibrio ed
armonia compositiva.
Il volto è allungato e insistito
nella resa del dato anatomico,
non corroso da esasperazioni
di tipo fisiognomico; i capelli,
fluenti e la barba circondano il
volto lasciando scoperti gli zi-
68
gomi e la fronte, descritti in ogni singola, minuta, ciocca e si articolano
in vortici ed onde dalla direzione e dall’andamento spezzati.
Una recente definizione della policromia, se non sembra alterare in
maniera pesante il modellato, di fatto impedisce, o comunque disturba,
una corretta lettura del manufatto, soprattutto per quanto riguarda il
dato cromatico e la visione d’insieme.
La cappella che ospita il crocifisso è una aggiunta ottocentesca
all’edificio e si presente come spazio posto in continuità fisica
con quello della navata.
Il grande altare di fondo, entro il quale il simulacro ligneo è conser-
vato, riprende nel disegno e nelle dimensioni, ma non nei materiali
e nella scelta cromatica, quelli seicenteschi della navata e del corpo
opposto del transetto. Il sistema di copertura superiore si articola
in una bella cupola a spicchi ottagona innestata su pennacchi e de-
corata con semplici specchiature dai toni pastello.
Sul lato opposto del transetto, di fronte alla porta di accesso alla sa-
crestia, è posto l’altare dedicato alla Madonna entro il quale è conser-
vato quello che deve essere considerato il capolavoro più prezioso
conservato all’interno dell’edificio.
Si tratta di una scultura in legno dipinto rappresentante la Madonna
in trono con il Bambino in braccio attribuibile alla mano sapiente
e delicata dello scultore senese Francesco di Valdambrino, attivo in
terra di Lucca all’aprirsi del secolo XV.
Quello di Francesco di Valdambrino è un nome, lo diciamo subito, su
cui la critica specializzata si è soffermata con ampia casistica negli
69Crocifisso.
71
Madonna di Francesco di Valdambrino.
73
ultimi decenni e sul cui conto
le scoperte e le attribuzioni si
sono moltiplicate, forse anche
senza più controllo. E pensa-
re che la fortuna critica dello
scultore è nata quasi per caso e
solo in tempi piuttosto recen-
ti, unicamente attraverso dati
documentari: fino agli inizi del
secolo scorso quello di Fran-
cesco di Valdambrino (o Fran-
cesco de Sena con cui talvolta
viene ricordato) era soltanto
un nome particolarmente ri-
corrente nei documenti senesi
e lucchesi dei primi decenni
del Quattrocento. Sapevamo
che questo scultore era stato
impiegato insieme a Jacopo
della Quercia ed in qualità di
suo collaboratore, nel cantie-
re del San Martino di Lucca e
che aveva assistito il Maestro
nella realizzazione del celebre
monumento funebre ad Ilaria
del Carretto, attualmente con-
servato nel Duomo di Lucca;
sapevamo che questi aveva
partecipato, sempre insieme
all’amico Jacopo, con Filippo
Brunelleschi e Lorenzo Ghi-
berti (poi risultato vincitore),
al concorso del 1401 per la re-
alizzazione della seconda por-
ta bronzea del battistero di Fi-
renze; sappiamo che una volta
rientrato nella natìa Siena era
stato coinvolto nell’impresa
della realizzazione di quattro
sculture lignee rappresentanti
i Santi patroni della città, assisi
in trono e posti di fronte all’al-
tare maggiore del Duomo; sap-
piamo che intorno alla fine del
secondo decennio del Quat-
74
trocento, dopo una lunga e prolifica carriera
di scultore, Francesco si ritirò beatamente
dalla pratica artistica per dedicarsi a servigi
ben più remunerativi al soldo del Comune
di Siena.
Una intera vita professionale descritta nei
documenti cartacei (raccolti e pubblicati da
Peleo Bacci nel 1930) ma nessuna scultura
attribuibile al Maestro conservata o attribu-
ibile con sicurezza per capirne l’identità ar-
tistica. Questo fino al 1930 quando lo stesso
Peleo Bacci rinvenne fortunosamente in un
armadio della sacrestia del Duomo senese
tre busti maschili interamente ridipinti di
bianco ad imitazione del marmo, che si ri-
velarono, in seguito ad una provvidenziale
ripulitura, intagli lignei policromati ricon-
ducibili agli inizi del ‘400 e che lo stesso
studioso tentò di riconoscere come rima-
nenze di quei quattro Santi patroni a figura
intera commissionati al Valdambrino dagli
Operai senesi; una proposta attributiva ri-
masta tale fino a che intorno agli anni ’80
del Novecento il restauro di una Madonna
lignea conservata nella chiesa di Sant’An-
drea a Palaia (Pisa), perfettamente coerente
dal punto di vista stilistico e formale con i
tre busti senesi rinvenuti dal Bacci, ha ri-
messo in luce la firma del maestro e la data
di realizzazione (1403). Da quel momento è
stato possibile quindi comporre un corpus
credibile di sculture riferibili a Francesco
di Valdambrino, gruppo che col tempo è an-
dato ad articolarsi in un catalogo ampio e
complesso, a cui hanno dato un forte con-
tributo la mostra sulla scultura lignea luc-
chese del 1995, quella sulla scultura lignea
pisana del 2001 e, per quanto riguarda lo
specifico del nostro caso, lo studio sulla
scultura lignea medioevale della Valdinie-
vole pubblicato nel 2005.
È emerso infatti senza ombra di dubbio che
la presenza di sculture autografe di Fran-
cesco di Valdambrino nel territorio di Pe-
scia sia particolarmente abbondante, com-
75
ponendosi di un gruppo di Annunciazione
conservato nella chiesa dei SS. Stefano e
Nicolao in Pescia, di una Madonna Nunziata
conservata parimenti nella stessa chiesa, di
una Vergine stante col Bambino conservata
nella chiesa parrocchiale di Medicina e di
questa nostra Madonna in trono della chie-
sa di San Bartolomeo a Collodi.
La Vergine è rappresentata assisa su di un
trono (privo sia di schienale, sia di brac-
cioli in vista) la cui struttura è completa-
mente nascosta dagli ampi panneggi del
manto che la ricopre.
La veste altocinta è visibile solo per alcuni
tratti sotto il mantello: sopra il piede sinistro
e sul busto, dove le due falde, unite sul petto
da un fermaglio a forma di rosetta, si allarga-
no lasciando intravedere le minute increspa-
ture provocate dalla cintola e l’ampia scolla-
tura dalla semplice forma circolare.
Le gambe sono piegate e divaricate, coper-
te dalle ampie festonature che il manto va
a disegnare tra le due ginocchia; il braccio
destro è flesso ed aderente al corpo, con la
mano appoggiata al ginocchio equivalente
del bambino, nell’atto affettuoso di premer-
vi un lembo del mantellino che lo ricopre,
come fosse una coperta da neonato; la mano
sinistra della Vergine tocca con dolcezza la
spalla destra del Figlio, per sostenerlo nel-
la poco naturale (per un bambino di quella
età) posizione semieretta.
Spostandosi dalla più puntuale riproposizione
di prototipi nineschi, pratica adottata con una
certa frequenza in questa fase della sua produ-
zione, lo scultore sembra impostare la figura
del Bimbo sulla base di uno schema compo-
sitivo caratteristico di alcune composizioni
dugentesche della Madonna in Trono di deriva-
zione Francese (si pensi ad esempio alla vicina,
ma di almeno un secolo più antica, Madonna
lignea di Massa di Valdinievole): caratteristici
di queste composizioni sono il posizionamen-
to del Bambino sulla coscia sinistra (con lo
spostamento forzato della massa del corpicino
76
verso l’estremità laterale) e la
posizione cavalcante, assai rico-
noscibile, delle gambine; l’atteg-
giamento benedicente del Bam-
bino, se pur caratteristico pure
di quel tipo di modello, può sot-
tostare a ben più generici per-
corsi di derivazione.
Di tipo francesizzante, e mai
utilizzato dal Valdambrino nel-
le opere finora a lui attribui-
bili conosciute in letteratura,
appare poi il velo che copre
il capo della Vergine, forse ele-
mento non pertinente.
I volumi sono, in generale,
nitidi e pieni, con un buon
equilibrio tra la stereome-
tria delle masse plastiche ed
i valori lineari del sistema di
pieghe; i volti pieni e ben de-
lineati sono caratterizzati dal
dolce degradare dei piani, ma
risultano piuttosto inespres-
sivi, forse anche per effetto
della brutta policromia, quasi
imbambolati; l’ovale perfetto
del viso della Madonna è acca-
rezzato dalle due voluminose
bande di capelli che si dipar-
tono da una scriminatura cen-
trale per andare a raccogliersi
sulla nuca.
Alla minuta definizione dei
capelli della madre, definiti
da solchi di scalpello lunghi
e paralleli tra di loro, lo scul-
tore accosta le brevi mas-
se sovrapposte dei riccioli
scompigliati del figlio.
Il modellato è fortemente al-
terato dalla messa in opera di
una policromia recente, sgar-
giante nella scelta cromatica
e dalla consistenza materica
77
di una glassa da pasticceria che occulta in maniera pesante e fasti-
diosa sia la lettura dei particolari più minuti e calligrafici, sia l’armo-
nia compositiva di insieme.
L’esemplare di Collodi, pur nella difficile leggibilità dell’intaglio,
è già legato a quello schema compositivo del viso e del capo che
corrisponde al 1403 della Madonna di Palaia e degli “Annuncianti”
di poco posteriori della chiesa dei SS. Stefano e Nicolao in Pescia,
ma una certa rigidità nell’innesto della testa nel collo (dove le for-
me sono ricondotte ad una geometricità essenziale e le articolazio-
ni spaziali ad una fissità meccanica e bloccata) protendono verso
le forme più arcaiche dell’altra Annunciata conservata nella stessa
chiesa pesciatina. Anche le mani qui, similmente all’altra, sono aper-
te a paletta: nelle opere già immediatamente successive, le mani
valdambrinesche cominceranno a chiudersi a pugno ed a stringere
come un artiglio i panni, a muoversi ed a contorcersi nervosamente,
a nascondere le dita per sottolineare le masse deformate del dorso
in una teoria di polsi inf lessi e metacarpi esplosi, così decorativi
nella loro complessità compositiva e nella loro articolazione da far
concorrenza agli schemi ornati dei panneggi.
Difficile fare un confronto tra la Madonna in Trono di Collodi e
l’esemplare di eguale soggetto della chiesa lucchese di San Giovanni
Battista a Cerreto Alto, esemplare assai prossimo al nostro, sia dal
punto di vista formale, sia da quello tipologico, per motivi di diversa
conservazione dei due manufatti: se l’esemplare collodese risulta es-
sere ricoperto da una pesante ridipintura moderna, l’altro lucchese
appare del tutto scarnificato, con l’esposizione del nudo legno.
Per quanto ci è dato di vedere, lo schema compositivo generale
delle due sculture è il medesimo, così come sembra appartenere
ad entrambe un certo gusto per i piani larghi e le linee distese, che
allontana dalle direttrici incisive e taglienti delle prime Madonne
stanti di derivazione tipologica pisana.
Concludiamo questa breve visita all’interno della chiesa di San Bar-
tolomeo a Collodi guardando verso il fondo del coro, al di la del Ta-
bernacolo, sulla grande macchina d’altare dipinta su tavola di legno
posta a conclusione della prospettiva (pur breve) della navata.
Circondata da un sipario a due falde e da un arlecchino reali, nonché
da un secondo sipario vermiglio affrescato sulla parete del coro, la
grande pala d’altare si compone di una tavola centrale di forma qua-
drangolare rappresentante la Madonna assisa in Trono col Bambino
tra i santi Bartolomeo, Antonio Abate, Sebastiano, Caterina, Giacomo
e Matteo e di una cimasa centinata con Dio Padre circondato dagli
angeli.
Databili entro i primissimi decenni del Cinquecento, le due tavole
dipinte sono racchiuse entro una svolazzante cornice settecentesca
di interessante pregio formale.
78
L’ambito produttivo è quello fecondo della Firenze rinascimen-
tale appena aperta alle novità della meteora raffaellesca (quel
Raffaello che, non ci dimentichiamo, proprio in Pescia lascia nel
1508 la sua opera più importante tra quelle del suo periodo to-
scano, opera alla quale questa collodese pare essere fortemente
debitrice, se pure, forse, non con percorso diretto); la mano che
l’ha dipinta può ben facilmente riconoscersi in quella a tratti
sapiente del buon Fra’ Paolino da Pistoia o, probabilmente, di
qualche suo dotato seguace, forse aperto più del maestro alle
Pala d’altare - intero.
79
composizioni e, soprattutto, alle atmosfere cromatiche di Fra’
Bartolomeo della Porta e di Ridolfo del Ghirlandaio (ma privo di
quella tendenza allo scimmiottamento facilone di modi e modelli
variamente raffaelleschi, sarteschi e perugineschi, a seconda del-
la moda del momento, dei coevi colleghi pistoiesi).
Mano onesta quella di Fra’ Paolino, non sempre eccelsa, spesso im-
pegnata a congelare in composizioni bloccate e variopinte intuizioni
formali di portata ben più alta, che parrebbe velatamente riconoscer-
si in questa tavola di Collodi, per quanto la resa generale della com-
posizione, la tavolozza cromatica e la qualità complessiva dell’opera
ci paiono di qualità forse più alta di quanto lo stesso Fra’ Paolino
abbia saputo raggiungere nella maggior parte del proprio catalogo.
Una buona tecnica pittorica ed un gusto sapiente per la compo-
sizione ordinata ed aggraziata - di sapore squisitamente raffael-
lesco - tradiscono citazioni puntuali da opere di Fra’ Bartolomeo
nella composizione di alcuni particolari e nella definizione dei
santi compendiari (si guardino ad esempio lo Sposalizio mistico
di Santa Caterina della Galleria Palatina di Firenze o la versione
di stesso soggetto conservata al Louvre).
Il bambino è labbruto, carnoso e paffuto, quasi invertebrato, riccio-
luto ed ammiccante, con quella posa un po’ ostentata e serpentina
che pare esasperare oltremodo una sana ricerca di fisicità carnale del
Cristo operata a partire dai primi albori dell’Umanesimo fiorentino
dopo secoli e secoli di ieraticità simbolica.
La Vergine è ordinata e simmetrica, armonica nel suo breve sorriso,
Pala d’altare - dettaglio.
80
nei suoi movimenti accenna-
ti, nel suo sguardo che, come
in una composizione chiasti-
ca, controbilancia quello del
figlio, indirizzato verso il lato
opposto.
I santi si distribuiscono in
due gruppi ordinati (Barto-
lomeo, Antonio Abate e Se-
bastiano sul lato sinistro,
Caterina, Giacomo e Matteo
nell’altro), alternandosi in
direttrici formali spezzate ed
opposte, senza comunicare
tra di loro né con gli sguardi
né con la propria fisicità.
Nella cimasa, il coro degli an-
geli ostenta le lettere dell’Al-
fa e dell’Omega, simbolo
dell’aprirsi e del chiudersi
del tempo, della origine del
Creato e della Apocalisse,
della eternità di Dio.
Particolare cimasa.
81
La chiesa di San Bartolo-
meo a Collodi basso
Uscendo dalla chiesa di San
Bartolomeo di Collodi alto,
la parte più antica del paese,
non si sarà potuto fare a meno
di soffermarsi sullo splendido
panorama. L’occhio è attratto
dalle bellezze della natura e
del paesaggio oltre che dalle
testimonianze storiche del
luogo. Le forme cristallizzate
di quelle case di pietra ag-
grappate al crinale affacciano
su una profonda vallata, della
quale l’ampio terrazzamento
prospiciente la chiesa dà pie-
na ed ampia visione. La posi-
zione assai alta dell’edificio,
situato nella emergenza su-
periore dell’abitato, permet-
te, seguendo l’andamento del
fiume sottostante, di posare
lo sguardo sull’ampia pianu-
ra coltivata che costituisce
il cuore della Valdinievole
moderna: della Valdinievole
moderna, sè, perché al posto
di quella pianura fino a due
secoli fa c’era un grande lago.
L’intero territorio della Valdi-
nievole, dal versante pistoiese
di Monsummano e Serravalle,
fino al confine con i territo-
ri di Lucca segnati proprio
dal paese di Collodi, si pone,
dal punto di vista geografico
e geologico, come un grande
bacino di raccolta delle acque
(abbondanti) che scendono
dalle cime, qui assai prossi-
me, dell’Appennino, e che qui
vanno impaludandosi; solo
in tempi recenti, durante il
82
dominio lorenese del secolo
XVIII, la canalizzazione ordi-
nata e controllata delle acque
ha permesso la bonifica dei
terreni della valle, ampliando
non di poco la superficie uti-
lizzabile dall’uomo per i pro-
prio bisogni.
Dal punto di vista degli inse-
diamenti umani la fascia pe-
demontana e pedecollinare
dell’intera valle vede la pre-
senza abbondante di borghi
incastellati (romani di origi-
ne, ma che si presentano a
noi con forme edilizie ed ur-
banistiche di assetto medioe-
vale) che solo a partire dalla
fine del secolo XVIII hanno
visto una espansione urbani-
stica più a valle.
Allo stato attuale possiamo
dire che la vita produttiva,
commerciale e gli insedia-
menti abitativi si sono sposta-
ti definitivamente in pianura,
in seguito ad una profonda
antropizzazione del territorio,
svuotando di fatto i paesi an-
tichi posti sulle alture, oramai
trasformati in paesi fantasma,
seconde case, luoghi tranquil-
li dove trascorrere periodi di
vacanza.
Anche l’abitato di Collodi
non è sfuggito a questo ine-
vitabile destino.
Finite le guerre, gli assedi, le
lotte e le epidemie, gli abi-
tanti del paese hanno prefe-
rito espandere il centro abi-
tato nei più comodi ed ormai
salubri terreni di pianura,
posti sulla riva del fiume nel-
la zona prospiciente la villa
83
Chiesa di San Bartolomeo a Collodi basso - Facciata.
85
87
Collodi basso - cupola.
89
settecentesca della famiglia
Garzoni; la piazzetta posta di
fronte alla nuova chiesa è di-
ventata sempre più il centro
organizzatore della nuova ur-
banistica cittadina.
Vi trova sede una grande edi-
ficio sacro, dall’aspetto scar-
no ed essenziale (nelle for-
me e nei materiali con cui è
costruito), ultimato nel 1902,
consacrato nel 1922 e dedi-
cato anch’esso a san Bartolo-
meo; una lapide in marmo in
facciata ricorda che il giorno
8 dicembre 1861 fu posta la
prima pietra della fabbrica.
Di grandi proporzioni, ha una
facciata a capanna sormonta-
ta da un timpano modanato
retto da due grandi contraf-
forti angolari.
Quattro grandi lesene pensili
(non si capisce il motivo del-
la mancanza di un basamento
e di un plinto da basso, for-
se previsti nel progetto e poi
non realizzati) dividono il
fronte in tre settori diseguali,
con la partizione centrale di
ampiezza maggiore: all’inter-
no di questa trovano spazio
un grande rosone circolare
tamponato, con la cornice in
laterizi sagomati ed un uni-
co grande portale centrale a
edicola (realizzato in pietra
serena, con un timpano trian-
golare modanato ad ovuli e
baccellature nel fastigio, ret-
to da due grandi mensole a
ricciolo).
Due grandi nicchie centinate
sono poste nei settori latera-
li, in asse con l’architrave del
Collodi basso - interno controfacciata.
90
portale centrale.
L’interno, ampio e spazioso, ad un’unica nave, non presenta opere
d’arte di rilievo storico ma pare assai elegante nella sintassi com-
positiva delle membrature e nel raccordo degli spazi.
La prospettiva della navata è ritmica e costante, scandita in cam-
pate regolari da un partito di lesene addossate a pilastri che si
articolano sulle pareti laterali e si concludono superiormente
con grossi archi trasversi; grandi nicchie centinate, poco profon-
de, modulano la superficie delle pareti; le grammatica composi-
tiva architettonica segue la consuetudine della profilatura delle
membrature in pietra serena su campiture ad intonaco bianco di
tipico gusto toscano.
Una grande cupola ribassata segna la conclusione superiore dell’in-
crocio tra il corpo centrale della chiesa ed il transetto ed è stata
decorata con finti lacunari dipinti e rosette, con esiti decorativi
piuttosto felici.
Il cleristorio è ricavato entro le lunette formate dagli innesti di
crociera sulle volte ed è caratterizzato dall’uso di vetri policromi
che si organizzano in composizioni non figurative e cromatica-
mente sature.
Nella parete di controfacciata, sopra il portale, è posta una copia
della tavola cinquecentesca con Madonna in trono e Santi conser-
vata nella chiesa di San Bartolomeo a Collodi alto.
Dietro l’altare, nell’ampia superficie dell’abside trova posto un
grande dipinto raffigurante Gesù in gloria, l’Inno alle genti rea-
lizzato nel 2009 dal pittore comasco Mario Bogani su commissio-
ne di una famiglia di industriali locali, in memoria di un parente
tragicamente scomparso.
La composizione è affollata, apparentemente disordinata, priva
di gerarchie cromatiche e direttrici visive; emerge da una grande
massa nebulosa di forme e colori, la maestosa (otto metri di al-
tezza) figura del Cristo che, con un gesto ampio ed uno sguardo
diretto, si rivolge ai fedeli nella navata.
L’ambientazione è neutra: non esistono indicazioni di tipo spazia-
le o connotative dell’ambiente, nè della luce (interno o esterno,
paesaggio architettonico o naturale, giorno o notte). Lo spazio in
cui i personaggi sono raffigurati è uno spazio psicologico, asto-
rico, indefinito.
La lettura dell’ampia scena gioca sulla contraddizione tra un colpo
d’occhio che suscita sensazioni di apparente disordine ed indefini-
tezza - sia cromatica, sia formale - ed una comprensione più attenta
del testo che si rivela, in seconda battuta, complesso e sapiente,
nelle componenti iconografiche e nelle forme.
L’idea generale che sottostà alla realizzazione della decorazione
pittorica dell’abside è quella della condivisione, della simulta-
91
Collodi basso - dipinto abside intero.
93
neità, della alterità, del poter svuotare
l’identità personale e la fede da qualsiasi
componente storica, spaziale, geografi-
ca, razziale e culturale: ecco quindi che
convivono entro la stessa composizione
entità diverse (per etnia, storia, epoca,
valori, identità) che vivono all’unisono
intorno alla grande effigie di Cristo, che
tutti raccoglie e tutti accomuna.
Gran parte dei figuranti dipinti nell’ope-
ra sono abitanti di Collodi, ben ricono-
scibili e ritratti in abiti contemporanei; la
scelta consapevole da parte del pittore è
motivata dalla volontà di attualizzare e di
restituire al presente la figura di Cristo
Salvatore, in una composizione che ne
esalta la centralità.
La composizione generale è di tipo ascen-
sionale e la lettura della traccia iconogra-
fica prevede un percorso che si articola
dal basso verso l’alto: al centro, fuori da
tutto, il Cristo maestoso; in basso il pro-
feta Isaia, circondato da astanti; sopra di
esso si svolge la scena del martirio di San
Bartolomeo, di fronte ad un testimone
94
che assiste attonito alla scena che gli si
sta svolgendo di fronte (in questo caso
si vuole rappresentare il relativismo e lo
scetticismo contemporanei nei confronti
della fede, della spiritualità e del senti-
mento religioso); ancora più in alto un
gruppo di persone di razza ed estrazione
diversa; tra essi San Paolo, l’Apostolo del-
le genti; superiormente, ancora in mezzo
a figuranti, le presenze riconoscibili di
Madre Teresa di Calcutta e del Santo Pa-
dre Benedetto XVI, eccellenze della fede
contemporanea.
Il dipinto si configura come una grande
tempera su muro dai toni terrosi e dal-
la consistenza acquerellata, con larghe
pennellate scomposte che non si amalga-
mano mai in un chiaroscuro volumetrico
e rivelatore, rimanendo lame di luce e
macchie trasparenti di colore.
All’evidente naturalismo descrittivo ed
alla ostentata sapienza ritrattistica che
connota l’intera composizione, il pitto-
re non ha risparmiato di unire citazio-
96
97
99
ni formali, riproposizione di prototipi, schemi, tipi e tipologie
dall’universo figurativo dell’arte italiana più classica.
Si guardi ad esempio la figura scheletrita del San Bartolomeo
centrale, in cui non è difficile riconoscere il prototipo verroc-
chiesco/leonardesco di testa di vecchio (studio per San Girolamo
Dipinto abside, particolare.
100
nella Galleria Palatina di Fi-
renze, dipinto incompiuto di
San Girolamo della Pinacote-
ca Vaticana di Roma, resti di
affresco con San Girolamo
nel convento di San Domeni-
co a Pistoia) trasfigurato in
una inedita e strana associa-
zione con una citazione pun-
tuale dalle fotodinamiche fu-
turiste dei fratelli Bragaglia.
Uscendo dalla chiesa ed im-
boccando la strada carra-
bile (se pur molto stretta)
che porta al cimitero ed al
castello, si incontrano dopo
circa un centinaio di metri
i resti dell’antica chiesa di
San Martino di Debbia.
L’edificio è difficilmen-
te comprensibile nelle sue
emergenze architettoniche.
Si tratta però di una prege-
vole costruzione in pietra
risalente al secolo XII, per-
fettamente leggibile nelle
sopravvivenze della unica
abside e con ancora elemen-
ti figurati a protomi umane
nelle mensole di coronamen-
to superiore delle pareti la-
terali.
101Particolare san Bartolomeo a confronto.
Testa di vecchio - studio per San Girolamo - Galleria Palatina di Firenze
San Girolamo - Pinacoteca Vaticana di Roma
San Girolamo - convento di San Domenico a Pistoia
103
San Martino di Debbia
105
La Chiesa dei SS. Quirico e Giulitta a Veneri
Percorrendo il corso del fiume Pescia di Collodi verso sud si giun-
ge al punto in cui l’antico ponte di Squarciabocconi permetteva il
guado del corso d’acqua e la continuazione del tracciato della via
Cassia Clodia verso i territori di Lucca.
Alla sinistra del fiume (secondo l’attuale tracciato; in antichità il fiume
scorreva con andamento perpendicolare rispetto a quello odierno),
Veneri, Chiesa dei santi Quirico e Giuditta
106
la frazione di Alberghi di Pescia è il bacino di espansione urbanistica
dell’abitato pesciatino verso sud, teatro di un notevole afflusso demo-
grafico negli ultimi decenni; sulla riva opposta la frazione di Veneri.
In questa zona, in antichità attraversata direttamente dalla via Cas-
sia Clodia, sorgeva un antico ospizio per pellegrini, l’Hospitale de
Strata che si trova citato nel catalogo delle chiese lucchesi del 1260
come tributario della Pieve di San Piero in Campo ed alcuni stori-
ci locali hanno voluto riconoscere in queste terre pianeggianti il
luogo di ubicazione dell’antico Ad Martis ricordato nella Tabula
Peuntingerìana della Biblioteca imperiale di Vienna.
Tratti della strada medievale con il suo selciato in pietra perfettamen-
te conservato sono ancora visibili nei boschi che circondano l’abita-
to di Veneri, in direzione di Montecarlo e di Capannori.
Attualmente la frazione di Veneri è una piccolo quartiere residenziale, lam-
bito dalle rive della Pescia di Collodi, circondata dalle campagne e lontana,
o comunque appartata, rispetto alle vie di comunicazione più importanti.
Del suo vecchio castello, il Castrum Veneris non è rimasta traccia
alcuna così come non è possibile dare conferma all’ipotesi che
vuole il toponimo “Veneri” dipendente dalla presenza ab antiquo
di un tempio dedicato alla dea della passione.
Se si escludono la seicentesca villa di Portici (costruita sicuramente
sul tracciato della strada romana e probabilmente su fondamenta di
edifici preesistenti, come farebbe pensare l’ubicazione molto parti-
colare del palazzo) e la sua cappella privata, nessun edificio costruito
in questa zona parrebbe superare il secolo di vita.
La cappella privata della villa di Portici è un piccolo edificio di culto ad
aula unica, dal disegno semplice ma appesantito nell’uso di un bugnato
rustico di gusto ottocentesco che profila i cantoni e tutte le membrature
architettoniche. La semplice facciata a capanna, intonacata di calce, è pro-
filata in pietra grigia da un semplice timpano triangolare nel fastigio e da
conci di pietra alternati in unica fila sui cantoni; l’unica porta di accesso,
centrale ed architravata, è contornata da tre lucernari di forma ellittica,
due ai lati, al di sotto del livello di imposta, ed uno superiormente all’ar-
chitrave; lo stesso elemento viene inserito rispettando i livelli di quota, an-
che sulle parti laterali, dove la caduta dell’intonaco denuncia un muratura
povera e tarda, composta di pietre di fiume ed abbondante uso di calce.
La sintassi compositiva del partito architettonico, organizzata intorno all’uso
del bugnato rustico a conci alternati, si ritrova parimenti nel muro di cinta
posto accanto alla cappella, facendo pensare ad un unico complesso archi-
tettonico composto dal’edificio a sé stante della Villa, dalla cappella privata
edificata al di la della strada e dall’hortus conclusus postovi accanto.
La chiesa, che sappiamo essere un edificio di fondazione antica e
dipendente fin dal medioevo dalla chiesa di San Piero in Campo,
ci si presenta oggi in forme ottocentesche, avendo perso defini-
107
tivamente ogni traccia del suo
passato più antico.
L’iscrizione “D.O.M. / A.C. / D.
QUIRICO/ A.D. / MDCCCXIII” ri-
portata sul timpano in pietra del
portale principale, conferma il
1813 come data di ricostruzione
moderna dell’edificio.
Edificio che di per sé pare del
tutto fuori contesto (per dimen-
sioni e per qualità della struttu-
ra e degli arredi) rispetto ad un
luogo che si pone come quartie-
re residenziale moderno e che
può vantare un passato (anche
piuttosto recente) di destinazio-
ne agricola.
La facciata è estremamente sem-
plice, parallelepipeda, in pietra,
con profilature in laterizio ed un
portale timpanato in pietra sere-
na; un grande timpano triango-
lare, modanato in laterizio, con-
clude superiormente il fronte,
appoggiandosi su due massicci
contrafforti angolari; una nicchia
rettangolare poco profonda cam-
peggia al centro della facciata, in
asse con il portale sottostante.
Il campanile della chiesa è visibile
da tutta la Valdinievole occidentale
ed è divenuto ormai (come era nel-
le intenzioni di chi lo ha costruito)
elemento caratterizzante il paesag-
gio in quell’angolo della valle.
Fu pagato direttamente dagli
abitanti di Veneri; esistono an-
cora note di pagamento che te-
stimoniano che il campanile è
stato pagato con i soldi ottenu-
ti dalla vendita delle uova ed il
commercio di abiti e minuteria
da parte della popolazione tra il
1909 ed il 1916.
Il progetto originale risale in realtà
108
al 1896 ad opera dell’architetto
Giulio Bernardini, personalità di
spicco a livello locale, oggetto
di grande interesse da parte de-
gli studiosi contemporanei.
Giulio Bernardini si connota
come architetto divulgatore
di quel gusto vagamente me-
dievaleggiante così in voga
alla fine del secolo XIX, che
ha lasciato molte tracce sugli
edifici antichi della zona, spes-
so alterati nelle forme e nelle
strutture (anche in maniera
pesante, talvolta irreversibile)
da restauri orientati verso una
sorta di maquillage antichiz-
zante ed anacronistico.
Fin dalla prima stesura del pro-
getto, il campanile si presenta
come un’alta torre parallelepipe-
da in laterizio, poggiante su un
alto basamento a scarpa in arena-
ria, aperto da fasce sovrapposte
di aperture acutangole e corona-
ta da una cuspide goticheggiante,
organizzato in forme e materiali
assolutamente impropri, non
pertinenti ed assolutamente non
conciliabili con le caratteristiche
architettoniche della zona né
dell’alta Toscana tutta.
Una prima ipotesi del progetto
prevedeva addirittura l’abbat-
timento del campanile preesi-
stente, solo successivamente
risparmiato dalla foga devasta-
trice dei progettisti.
Fortemente voluto dalla popo-
lazione (che nel frattempo si
era costituita in un Comitato
organizzato) il progetto della
struttura definitiva venne pre-
sentato nel 1903 e nuovamen-
te nel 1904, ma approvato solo
< Veneri, Chiesa dei santi Quirico e Giuditta - veduta verso l’altare
109
nel 1908, anno in cui prese
avvio la costruzione effettiva,
durata solo pochi mesi.
Lo scopo, piuttosto manifesto,
dell’operazione era quello di
dotare l’abitato di Veneri del
campanile più alto, più vistoso
e, a detta (o comunque a gusto)
dello stesso Comitato, più bello
della intera Valdinievole.
Si tratta in realtà di una torre
campanaria isolata, poggiante
su un basamento autonomo,
condotto con un linguaggio ar-
chitettonico ed un uso dei mate-
riali che stride fortemente con
l’edificio chiesastico che le sta
accanto il quale, se pur meno
appariscente nelle forme, nelle
dimensioni e nella connotazio-
ne cromatica, ci pare assai più
garbato e architettonicamente
più significativo.
Diviso in quattro fasce autono-
me, la prima da basso è realiz-
zata in pietra grigia, mentre le
altre, in mattone rosso acceso,
vedono la presenza rispettiva-
mente di una monofora, una
bifora ed una trifora per lato
entro arconi di scarico ogivali
ed archetti pensili in laterizio
sotto una breve fascia marca-
piano in arenaria, a listello.
Quattro grandi cuspidi profilate
in pietra grigia coronano l’emer-
genza superiore dell’alzato, in
corrispondenza dell’innesto del-
la grande guglia di coronamento.
Gli altari che ornano l’interno
della chiesa (di notevole fattu-
ra e dignità formale) sono ele-
menti di riutilizzo, provenienti
dalla chiesa del Crocifisso dei
Particolare di un altare laterale >
110
Bianchi di Lucca: si tratta di altari rivestiti di marmi policromi com-
posti da colonne tortili su alto plinto, con la mensa fortemente ag-
gettante ed il fastigio composto da un timpano curvilineo spezzato.
L’andamento vibrante del fusto in marmo nero delle colonne degli
altari diventa l’elemento che connota maggiormente l’aspetto deco-
rativo della chiesa, nel suo interno.
Negli altari della navata sono conservati una tela cinquecentesca di scuo-
la lucchese raffigurante Tobiolo e l’Arcangelo Raffaele tra santi ed una
Madonna col Bambino e santi del secolo successivo, opere di tipo reper-
toriale, con indiscusso valore documentario e testimoniale del contesto
produttivo di origine ma senza particolare pregio estetico.
SS. Trinità tra i santi Giuseppe, Quirico e Bartolomeo.
111Assunta tra i santi Francesco, Paolino, Giorgio e Ansano.
113
L’imperatore Costantino alla battaglia do Ponte Milvio.
115
Di maggiore qualità esecutiva le due tele recentemente restaurate
e poste nel presbiterio: si tratta di una SS. Trinità tra i santi Giu-
seppe, Quirico e Bartolomeo degli inizi del secolo XVII e di una As-
sunta tra i santi Francesco, Paolino, Giorgio ed Ansano, parimenti
databile entro la metà del ‘600.
Si tratta, nel caso della seconda opera, di una bella tela condotta in un as-
sunto cromatico saturo e brillante (almeno per quanto riguarda le figure
in primo piano) e che si va stemperando in toni violacei e più torbidi nelle
figure sacre poste più in altro rispetto al punto di vista dello spettatore; i
contorni sono nitidi e dettagliati; la pennellata è compatta e preziosa, nella
resa dei tessuti, dei cangiantismi cromatici, nell’incarnato dei volti e delle
mani; la gestualità è esasperata e teatrale, ostentatamente contenuta nelle
figura della Vergine in ascesa celeste.
Il preziosismo coloristico e l’attenzione per la registrazione del det-
taglio minuto, stemperata nella resa di una drammaticità vera e uma-
na, scevra di compiacimenti estetici e formali, si configura come tra-
sposizione in terra di Lucca di quel gusto bolognesizzante riferibile
alla attività di Guido Reni (e in questo caso in maniera più puntuale
del bel Ludovico Carracci) che farebbe pensare alla mano dei pittori
lucchesi Paolo Biancucci o di Antonio Franchi: in particolar modo, il
riferimento più diretto con questo esemplare ci sembra poter essere
la tela raffigurante Santa Caterina D’Alessandria, Sant’Ansano, San
Francesco di Sales e San Gaetano da Thiene conservata nella chiesa
di San Pietro in Borgo a Buggiano, riferibile alla cerchia di Antonio
Franchi e che Innocenzo Ansaldi nella sua guida di Pescia del 1816
dice essere stata realizzata da Giuseppe Franchi, il figlio.
L’altra tela, che riproduce la Santissima Trinità, è un dipinto diviso in
due fasce orizzontali a cui corrispondono scene sacre simultanee, che
si caratterizza per l’enfasi esasperata nella gestualità degli attanti, ma
Veneri, cappella del Crocifisso - Intradosso.
soprattutto per l’uso dei forti contrasti e della sottolineatura delle om-
bre con toni nerastri un po’ troppo pesanti ed insistiti; senza indugiare
sul dato qualitativo, la tela parrebbe essere una riproposizione blocca-
ta e cromaticamente sporca di una composizione di Giovanni Maria
Butteri (alla cui opera corrispondono le linee generali del dato com-
positivo ed il tipo facciale dei Santi rappresentati) dipinta da parte di
qualche tardo pittore della sua cerchia; il San Quirico centrale ricorda
poi, trasfigurati in altra qualità esecutiva, modelli di tipo ligozziano.
L’ingresso alla zona presbiteriale è costituito da un grande archivol-
to semicircolare poggiante su colonne addossate, in marmo bianco;
al di qua del grande arco si aprono i due bracci del transetto, occu-
pati da due cappelle affrontate.
In cornu evangelii una cappella ottocentesca dedicata al Cristo cro-
cifisso, in bello stile neoclassico, riporta sulle pareti laterali e nel
sottarco opere ad affresco del pittore lucchese Michele Marcucci,
riferibili all’ultimo decennio del secolo XIX e di grande interesse.
Il simulacro ligneo del Cristo è opera novecentesca di uno scultore fiorentino
che le fonti ci dicono chiamarsi Pucci, senza riportare il nome di battesimo.
Le due panche in legno appoggiate alle pareti sono manufatti assai inte-
ressanti dello scultore pesciatino Secondo Ricciarelli, attivo a cavallo tra
i secoli XIX e XX: si tratta di due panche lignee a spalliera di gusto classi-
cheggiante, con fregio intagliato e fastigio baccellato a conchiglia; lo schie-
nale è diviso in scomparti da lesene poco aggettanti dotate di un capitello
composito; sei volute costituiscono l’elemento di appoggio inferiore.
L’intradosso dell’archivolto è diviso pittoricamente in tre campi qua-
drangolari entro i quali sono dipinti a fresco, in ambiente Celeste, gli
strumenti della Passione, sorretti da coppie di angeli e la SS.ma Trinità.
Sulle pareti continua lo svolgimento della iconografia del Crocifis-
so, cui la cappella è dedicata, con le scene affrescate entro campi-
ture quadrangolari de L’imperatore Costantino alla battaglia di
ponte Milvio e della Leggenda della vera Croce.
Nel primo si vede l’imperatore romano Costantino (colui che, conver-
tendosi al cristianesimo ed ufficializzandolo nell’impero da lui domi-
nato ha segnato il passaggio dalla religione pagana al culto rivelato)
che dialoga con i suoi soldati durante la battaglia contro Massenzio.
La composizione è molto ampia, in ambientazione naturale, con
l’imperatore ritratto a cavallo e posto al centro della composizio-
ne, come si confà ad personaggio di tale rango.
Di grande efficacia l’idea del pittore di non sottolineare in senso di-
dascalico né la fisicità dell’oggetto rivelato, né l’aspetto psicologico
dei rappresentati, sicuramente coinvolti in una esperienza difficil-
mente analizzabile e descrivibile dal punto di vista emozionale, quan-
to nell’insistere sulla posizione delle figure presenti nel quadro, i cui
sguardi volgono in direzioni opposte e casuali, mai verso lo spetta-
117
Leggenda della vera Croce.
119
tore, con il solo Costantino che mostra il viso rivolgendosi verso chi
guarda, ma con il volto in controluce e quindi non leggibile; su tutto
la luce radente del tramonto conferisce alla scena uniformità compo-
sitiva, ma anche quella leggera tensione emotiva non voluta raggiun-
gere con mezzi espressivi di sicuramente più facile realizzazione.
Più affollata e compositivamente più complessa la scena che le fa da
pendant, che si contraddistingue per un gusto narrativo ed un sapore di
emotività romantica, un po’ populista e leggermente stucchevole, assolu-
tamente assenti nell’altra composizione. La Leggenda della vera Croce è
la leggenda che racconta la genesi del legno su cui venne crocifisso Cristo,
spesso tramandata in letteratura e rappresentata in opere d’arte. La versio-
ne più nota è quella che fa parte della Legenda Aurea di Jacopo da Varagi-
ne composta nel XIII secolo. Nel ‘312, la notte prima della battaglia contro
Massenzio, l’imperatore Costantino I ha, durante il sonno, la visione che
porrà fine anche alle persecuzioni dei cristiani: una croce luminosa con la
scritta In hoc signo vinces gli appare in sogno; l’imperatore decide allora
di utilizzare la croce come insegna personale e con essa di guidare il suo
esercito, conducendolo verso la vittoria nella battaglia di Ponte Milvio. In
seguito, Costantino decide di inviare la madre Elena a Gerusalemme per
cercare il legno utilizzato per la crocefissione di Gesù. Elena trova una per-
sona che conosce il punto di sepoltura della vera Croce. Per farlo parlare
lo fa calare in un pozzo senza pane ed acqua per sette giorni. Convince
così il reticente ad indicare il luogo della sepoltura. Elena riesce a trovare
le tre croci utilizzate il giorno della morte di Cristo. Per identificare la
Croce su cui era stato appeso il Salvatore, Sant’Elena sfiora con il legno un
defunto e questi, secondo la leggenda, resuscita.
L’affresco del Marcucci rappresenta il momento in cui una fanciulla morta,
ancora avvolta nel suo sudario, resuscita al contatto con la sacra reliquia,
rendendo evidente la riuscita della missione della madre di Costantino.
La stessa Sant’Elena è visibile, inginocchiata e coperta da un manto
azzurro, nella parte destra della scena, ai vertici di quella grande pi-
ramide costituita dai tre personaggi principali che compongono lo
svolgersi narrativo e l’emergenza superiore della croce.
Il bel taglio diagonale della composizione è completato dalla pre-
senza dei due bambini accovacciati, posti nella parte sinistra dell’af-
fresco, espediente compositivo di introduzione spaziale verso la
profondità della rappresentazione, ma anche esempio un po’ noioso
di quel gusto tipicamente ottocentesco per la scena di genere intri-
sa di valori vagamente pietistici e fuggevolmente romantici.
Non è un caso che la critica contemporanea, di idee sicuramente
diverse dalle nostre ed in linea con il gusto di chi ha dipinto queste
opere, elogiasse indiscriminatamente questa seconda scena rispet-
to all’altra con l’imperatore Costantino, considerata priva di valori
espressivi e poco monumentale nell’insieme.
La cappella in cornu epistulae conserva invece l’opera più pregevole tra
120
quelle custodite all’interno della chiesa.
Si tratta di una tavola lignea a fondo oro recentemente attribuita alla mano del
pittore lucchese Angelo Puccinelli e databile entro il primo decennio del ‘400.
La tavola è, probabilmente, la pala centrale, unico elemento sopravvissuto di un
polittico più ampio, del quale non sono stati per adesso rinvenuti altri pezzi.
La presenza ab antiquo del manufatto all’interno di questo edificio non è
comprovata né probabile, dato che la presenza di una rappresentazione di
Santa Chiara nella predella farebbe pensare ad una committenza francescana.
Allo stato attuale la pala è stata rimontata entro una cornice dorata falsa,
in finto gusto medievaleggiante, realizzata nel 1855 da Eusebio Guccio-
ni; le due piccole tavole con Santa Caterina da Siena e Sant’Apollonia,
Madonna Puccinelli.
121
pure originali e pertinenti allo stesso polittico, sono state inserite arbi-
trariamente in una predella parimenti non originale.
Fonti degli inizi del secolo scorso ci dicono però che la pala con la Vergi-
ne si trovava separata dalla carpenteria (conservata nei locali della sacre-
stia) e rimontata all’interno di una tela seicentesca.
Angelo Puccinelli è un pittore lucchese di formazione seneseggiante,
attivo tra il 1365 ed il 1407 ed attento alle novità senesi in terra di Luc-
ca, in particolar modo all’attività di Jacopo della Quercia attivo in quegli
anni nel duomo di San Martino. Figura di primo piano della pittura tosca-
na degli ultimi tre decenni del secolo XIV, aperto alle asprezze espressi-
ve dei pittori pisani ed al preziosismo formale dei contemporanei senesi,
Angelo Puccinelli è artista che spicca incontrastato nel panorama figura-
tivo lucchese come figura in assoluto più originale e singolare.
La sua pittura si connota per un forte uso di contrasti cromatici e l’uso di
contorni grafici ed insistiti, che movimentano la solida volumetria massel-
la che pare derivarsi da modelli plastici statuari.
L’esemplare di Veneri parrebbe testimoniare l’attività tardiva del mae-
stro lucchese, quasi anticipatore di quelle forme liquide e sinuose dello
Jacopo nell’altare Trenta, qui trasposte nelle volute graziose del bordo
dorato del manto della Vergine e nel groviglio intrecciato di pieghe del
panno rosso che si avvolge intorno alle gambe del Bambino.
Un Bambino vispo come mai si era veduto nel Trecento, con questa
sua posa diagonale e quelle gambine aperte, instabili, che si intrec-
ciano con la mano e con la veste della madre; un bambino che si
aggrappa con i ditini della mano aperta allo scollo prezioso della
Madonna, afferrandolo per non cadere all’indietro e che con la madre
comunica attraverso un intenso incontro di sguardi.
Priva di elementi di contestualizzazione ambientale, la tavola riporta la
figura della Vergine assisa, con in figlio in braccio, su fondo oro (in ste-
sura uniforme a foglia, punzonato nelle profilatura trilobata nella parte
superiore e graffito a bolo nella metà inferiore, ad imitazione dei motivi
decorativi della stoffa su cui la Vergine è seduta); la plasticità e la volume-
tria delle figure sono assicurate da un prezioso utilizzo del chiaroscuro,
soprattutto nei panneggi, e dalla profilatura calligrafica del nastro dorato
che delimita il bordo inferiore del manto della Madonna, suggerendone
l’andamento nello spazio; elemento non pertinente l’azzurro del manto
stesso, frutto, probabilmente, di un pesante restauro ottocentesco.
Il pittore immagina in questo caso la Madonna come una creatura grafica,
dove una precisa tornitura dei corpi, ottenuta con il chiaroscuro, viene movi-
mentata da fluenze lineari che accrescono la consistenza plastica delle figure.
***
La “storia dell’arte” ha assunto sempre più negli ultimi secoli la forma
della “storia di capolavori” e lo storico dell’arte o il conoscitore d’ar-
122
te (o il “critico d’arte” secondo una accezione terminologica coniata
in tempi recenti ad uso di un pubblico televisivo poco consapevole)
ha assunto sempre di più la connotazione di figura atta allo snoc-
ciolamento abbondante e ruffiano di aggettivi e superlativi assoluti,
gratuiti e compiaciuti, riferibili a cotanta beltà.
Il compendio dei fatti e dei luoghi della produzione d’arte (non di
manufatti o di artefatti, bensì di arte, attenzione, l’Arte con la “A” maiu-
scola, l’idea metafisica dell’Arte, quella che non prevede scelte, fatica
e sudore, ma ispirazione e sentimento) si è complicato in una scelta
ben precisa di definizioni di campo, scelta articolata in dualismi e
contrapposizioni che hanno dato luogo a concetti quali quello di “Arti
maggiori” ed “Arti minori”, di “centri maggiori” e “centri minori”, di
“grandi maestri” ed “artisti di taglia” di “arte contemporanea” ed “arte
del passato”, di “artisti che creano” ed “artigiani che costruiscono”.
L’istituzione delle grandi raccolte di opere d’arte imperiali, reali,
granducali, signorili e familiari a partire dal Seicento, la soppressio-
ne tardo settecentesca delle compagnie sacre, di chiese e conven-
ti (con conseguente circolazione libera di arredi ed opere d’arte
fino ad allora utilizzati per il semplice scopo liturgico o comunque
cultuale) ed il fenomeno ottocentesco di istituzione di un fiorente
mercato antiquario nonché del collezionismo privato, hanno avuto
come conseguenza immediata la istituzione di grandi raccolte pub-
bliche d’arte e della selezione, concentrazione ed esposizione di
capolavori esclusivi riferibili alla mano di quelli che sono stati gli
artisti più eccelsi della storia dell’uomo.
La storia dell’arte è diventata quindi la conoscenza dei Giotto e dei Ci-
mabue, dei Leonardo, dei Raffaello e dei Michelangelo, a Firenze, Vene-
zia, Roma o Parigi, agli Uffizi piuttosto che al Louvre; in una sola parete
a caso di qualsiasi sala a caso degli Uffizi ci sono più opere d’arte e con
una qualità esecutiva così alta, di quante un abitante del Cinquecento
di Collodi possa aver visto in tutto il corso della sua vita.
Scriviamo libri solo sugli Uffizi allora, andiamo, anzi, solo lì; magari a
Collodi ci si va solo “a prendere il fresco”.
E invece no.
Invece no perché, a dispetto di ogni qualsiasi speculazione roman-
tica sulla figura dell’artista, un’opera d’arte non è espressione della
ispirazione, della sensibilità e dei moti dell’anima di chi la produce
bensì un oggetto materiale che testimonia il contesto culturale, stori-
co, politico, sociale che l’ha prodotta ed è quindi documento fisico e
tangibile del suo tempo tanto quanto i documenti scritti.
E non esiste la distinzione fittizia tra arte contemporanea ed arte
del passato perché gli oggetti realizzati nel Trecento sono l’arte
contemporanea di chi in quel secolo è vissuto e così via; così come
l’attributo “maggiore” o “minore”, che sia applicato al concetto di
tecnica piuttosto che a quello di personalità o di luogo di produzio-
123
ne, presuppone una scelta nell’uso di paradigmi critici non neces-
sariamente pertinenti, o comunque riconoscibili nella nostra stessa
accezione, nei confronti delle epoche passate.
Non è vero ad esempio che la storia dell’arte la si faccia studiando la
pittura o la scultura monumentali o che i centri maggiori di produ-
zione di opere d’arte siano per forza Roma o Firenze; nel Medioevo
ad esempio ben più importanti della pittura e della scultura erano
l’oreficeria e la miniatura e Roma e Firenze erano due città quasi ine-
sistenti e girare per le sale di un museo di grandi capolavori vuol dire
vedere tutte insieme opere che non sono state fatte per essere viste
così e non tutte di quella natura e di quella qualità.
Non è quindi vero che la fruizione significativa di manufatti artistici
possa avvenire solo nel grande museo famoso e non nella chiesetta
anonima del contado.
Può essere che il visitatore, attento o casuale, esperto o improvvi-
sato, che, incuriosito dalla opportunità di conoscenza che questo
testo offre, si trovi a camminare lungo il corso della Pescia di Collo-
di e voglia cimentarsi nella visita degli edifici sacri di questa zona,
si senta spaesato (se abituato a calcare solo i pavimenti dei grandi
musei, quelli dei capolavori, delle audio guide in giapponese e del
bookshop con il foulard del Botticelli).
Invitiamo però il visitatore a non cercare avidamente con lo sguardo
le etichette, le didascalie e le segnalazioni del percorso, a non aspet-
tarsi ad ogni soglia solcata o ad ogni testa voltata la visione della pala
mozzafiato o della tela famosissima della quale ha riproduzione fedele
sul magnete del frigorifero o sul calendario in salotto, a non fare a gara
con l’amico a chi riconosce più opere o a chi conosce più aggettivi per
descriverle (magari con gesti enfatici ed esclamazioni affettate).
Invitiamo invece il visitatore a guardarsi intorno, a respirare con calma,
ad ascoltare i rumori ed i silenzi, ad apprezzare la polvere e la fatica, a
capire che il luogo che sta visitando è ricco soprattutto di storia e di
esperienza, che le opere che sta guardando, alcune pregevoli, altre di
maniera, altre ancora di mediocre fattura, hanno accolto gli sguardi, le
preghiere e le suppliche di migliaia di persone, nei secoli, sempre lì e
sempre così, che quello che stanno ammirando non è una esposizione
ma una situazione reale e spontanea, costruita lentamente nella storia
e fatta di storia e che nella sua integrità e soprattutto per quella, è an-
cora prezioso ed insostituibile.
124
Bibliografia
(a cura di Tatiana Lunardini)
Nel tentativo di ripercorrere e descrivere la storia di questo ter-
ritorio è necessario chiarire innanzitutto che le fonti bibliografi-
che sulla storia di Collodi in quanto comunità sono ad oggi assai
scarse e quasi del tutto messe da parte dalla grande quantità di
scritti e studi dedicati all’opera di Carlo Collodi. Questo scritto
ha cercato di ricostruire e di illustrare in maniera organica la
storia di Collodi sia come territorio che come comunità attraver-
so le varie notizie esistenti tra le fonti di archivio e la bibliogra-
fia storica, avvalendosi degli studi e delle ipotesi fatte da quegli
studiosi che si sono dedicati alla ricerca su questa parte della
Valdinievole.
EMANUELE REPETTI, Supplemento al Dizionario geografico, fi-
sico, storico della Toscana, Firenze, Mazzoni, 1846.
GIUSEPPE ANSALDI, La Valdinievole illustrata nella storia na-
turale, civile ed ecclesiastica, dell’agricoltura, delle industrie e
delle arti belle, Pescia, Tipografia Vannini, 1879.
ROSANNA PESCAGLINI MONTI, Le vicende del Castello di Col-
lodi dalle origini alla metà del XIII secolo e appendici, in Atti
del Convegno I castelli in Valdinievole, Buggiano Castello giugno
1989, a cura dell’Associazione Culturale Buggiano Castello in colla-
borazione con la Biblioteca Comunale di Buggiano, la Sezione della
Valdinievole – Buggiano dell’Istituto Storico Lucchese e la Società
Pistoiese di Storia Patria, Bologna, Editografica Rastignano, 1990.
ALBERTO MARIA ONORI, Il Comune di Lucca e le Vicarie nei
secoli XIII e XIV. Alle radici di uno Stato cittadino, tesi di Dot-
torato di ricerca in Storia medievale, Università degli studi di
Firenze, ciclo XVIII, anno accademico 2005/06.
ALBERTO MARIA ONORI, Il Castello di Collodi nel Medioevo.
Immagini di vita quotidiana dagli atti notarili del Trecento,
Pescia, Edizioni Vannini, 2007.
Per quanto riguarda il contesto storico generale relativo alla sto-
ria di Lucca si veda:
GIROLAMO TOMMASI, Sommario della storia di Lucca, Lucca,
Nuova Grafica Lucchese, 1969.
Per quanto riguarda le indagini fatte sullo sviluppo della viabilità
in Valdinievole si vedano:
AAVV, Atti del Convegno sulla Viabilità della Valdinievole dall’an-
tichità ad oggi, Buggiano Castello, giugno 1981, a cura dell’Associa-
zione Culturale Buggiano Castello in collaborazione con la Bibliote-
ca Comunale di Buggiano, la Sezione della Valdinievole – Buggiano
dell’Istituto Storico Lucchese, Bologna, Editografica Rastignano, 1982.
125
Va anche presa in considerazione l’abbondante documentazione
su Collodi custodita nell’Archivio di Stato di Lucca, così come
la documentazione dell’archivio storico parrocchiale, in corso
di riordino per iniziativa dell’Associazione Collodi Insieme. Si
tratta di una grande massa di documenti del tutto inediti dalla
cui analisi dettagliata, impossibile da compiersi in questa sede, ci
si attende un’immagine assai più ricca e particolareggiata delle
vicende storiche del castello e della sua espansione in pianura.
126
Glossario
(a cura di Gabriele Marangoni)
Si è ritenuto opportuno corredare il testo di un essenziale glossario dei
termini tecnici in esso impiegati, per renderlo più comprensibile
BUGNATO Trattamento della superficie muraria con blocchi di pietra più o meno emer-genti rispetto alla superficie di fondo.CENTINATA Di forma curvilinea. Deriva dal termine CENTINA che sta ad indicare l’im-palcatura mobile, generalmente in legno, che viene utilizzata nella costruzione dell’arco.CHIASTICO Costruito su una struttura a chiasmo, importante figura retorica basata su uno schema a croce.CIMASA Tavola di coronamento superiore di un polittico o di una composizione figurativa complessa divisa in singoli supporti mobili.CLERISTORIO Dall’inglese clear store, letteralmente “zona chiara”; corrisponde alla parte più luminosa della chiesa, generalmente posta nella parte alta della costruzione, dove si aprono le infilate di finestre.CORNU EVANGELII/CORNU EPISTULAE Le due estremità dell’altare si chiamano, in latino, cornua (spigoli): guardando l’altare stesso, rispettivamente, cornu Epistulae (lato destro) e cornu Evangelii (lato sinistro). Si utilizzano questi termini solitamente per indi-care il lato destro ed il lato sinistro della navata interna della chiesa.CROCE IMMISSA Forma della croce dotata di capocroce, con l’immissione del braccio orizzontale a tre quarti del montante.FASTIGIO Elemento decorativo utilizzato come coronamento superiore di una struttura architettonica complessa.ISODOMO Tecnica di costruzione muraria a struttura simmetrica e regolare che utiliz-za corsi sovrapposti di conci squadrati, aventi la medesima altezza, secondo la modalità dell’opus quadratum romano.LESENA Elemento architettonico in forma di piedritto, privo di funzione di sostegno ed utilizzato come elemento decorativo ad imitazione del pilastro.LIGOZZIANO Riferito a Jacopo Ligozzi, pittore veneto attivo in Toscana a cavallo tra i secoli XVI e XVII.NINESCO Riferito a Nino Pisano, importante scultore pisano attivo in Toscana alla metà del secolo XIV.HORTUS CONCLUSUS Piccola porzione di terreno, coltivata e circondata da un muro di cinta.PERUGINESCO Riferito a Pietro Vannucci detto il Perugino, pittore umbro attivo in tutto il territorio centroitaliano a cavallo tra la fine del secolo XV e gli inizi del secolo successivo.PROTIRO Nelle chiese romaniche struttura colonnata dotata di volta, posta all’esterno del portale di accesso alla chiesa.QUERCESCO Riferito a Jacopo della Quercia, importante scultore di origine senese, attivo in tutta la Toscana e l’Emilia agli inizi del secolo XV.RAFFAELLESCO Riferito a Raffaello Sanzio, importante pittore marchigiano del rinasci-mento maturo attivo in tutto il centro Italia nel primo ventennio del secolo XVI.SARTESCO Riferito ad Andrea del Sarto, importante pittore anticlassico attivo in Firenze nei primi decenni del secolo XVI.SPECCHIATURA Campitura regolare ricavata a risparmio di una superficie più ampia.SUPPEDANEO Struttura a forma di zeppa trapezoidale inserita nella parte inferiore del montante su cui vengono appoggiati i piedi del Cristo crocifisso.TRABEAZIONE Utilizzato in senso di ARCHITRAVE, ovvero elemento architettonico por-tato di forma lineare ed andamento orizzontale, che ha la funzione di reggere il peso della struttura sovrastante di una apertura.VERROCCHIESCO Riferito ad Andrea di Michele Cioni detto “il Verrocchio”, im-portante scultore e pittore fiorentino attivo in Toscana ed in Veneto nella seconda metà del secolo XV.