introduzione ai libri sapienziali

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ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE “S. Apollinare” – Forlì Introduzione ai Libri Sapienziali e al Libro dei Salmi a cura di GIUSEPPE DE CARLO ad uso degli studenti

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Page 1: Introduzione Ai Libri Sapienziali

ISTITUTO SUPERIORE DI SCIENZE RELIGIOSE

“S. Apollinare” – Forlì

Introduzione

ai Libri Sapienziali

e al Libro dei Salmi

a cura di

GIUSEPPE DE CARLO

ad uso degli studenti

Page 2: Introduzione Ai Libri Sapienziali

Il materiale contenuto in questo volume è ad uso esclusivo degli studenti che frequentano il Corso di Antico Testamento su Libri sapienziali e Salmi presso l’Istituto Superiore di Scienze Religiose “S. Apollinare” di Forlì. Non è materiale originale, ma quasi tutto è preso integral-mente da altri autori che hanno studiato a fondo la materia: a suo luogo vengono puntualmen-te indicate le parti prese da ciascuno. Il lavoro redazionale mira a dare a tutto il materiale uni-tà sistematica per una presentazione introduttiva tendenzialmente completa alla letteratura sa-pienziale e al Salterio.

Page 3: Introduzione Ai Libri Sapienziali

Prima Parte

LIBRI SAPIENZIALI

INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZIALE BIBLICA

INTRODUZIONE AI SINGOLI LIBRI SAPIENZIALI:

– Proverbi

– Giobbe

– Qohelet

– Cantico dei Cantici

– Siracide

– Sapienza

Page 4: Introduzione Ai Libri Sapienziali

INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA*

INTRODUZIONE

La sapienza è un fenomeno che ritroviamo in tutti i popoli e in tutti i tempi. Eppure, fino a qualche decennio fa, la sapienza biblica è stata poco presa in considerazione. I padri della chiesa ne hanno parlato poco, come pure i grandi teologi del Medioevo, mentre i grandi com-mentatori del XVI e XVII sec. se ne sono interessati maggiormente, seguiti, nel XIX sec., dai fondatori dell’esegesi storico-critica moderna, pur senza raggiungere la ripresa di interesse della nostra epoca. La ragione di questa scarsa considerazione per la corrente sapienziale bi-blica si spiega in parte con il fatto che la cultura occidentale, in cui il cristianesimo si è innan-zitutto sviluppato, ha accordato un’attenzione maggiore alla filosofia e alle scienze, mentre la sapienza popolare, che anche in Occidente si esprime in proverbi e altre forme, è rimasta allo stadio di trasmissione puramente orale, cosicché in Occidente i proverbi non hanno altra fun-zione che di ornare lo stile. La situazione è cambiata con la scoperta, a partire dal XIX sec., delle letterature sapienziali della Mesopotamia e soprattutto dell’Egitto, fino ad allora scono-sciute. La loro affinità con la sapienza biblica fu un’autentica rivelazione. Inoltre la scoperta, soprattutto nel XX sec., delle sapienze orali africane, la cui messa per iscritto si rivela sempre più urgente, ha accresciuto ulteriormente l’interesse attuale per la sapienza biblica, di cui esse potrebbero illuminare alcuni aspetti, in particolare l’origine, la funzione e il significato. Anche la figura della Sapienza personificata (sempre con la S maiuscola), che la chiesa non ha mai dimenticato del tutto a motivo del suo legame con la cristologia, ha beneficiato, a partire da ricerche rinnovate dalle scoperte recenti, di spiegazioni sempre più precise, la cui portata teo-logica e spirituale non è certamente trascurabile1.

1. TERMINOLOGIA

I termini saggezza o sapienza, saggio o sapienziale, derivano, in un modo o in un altro, dai vocaboli latini sapientia, sapiens che a loro volta si rifanno al verbo sapere: gustare, percepi-re, comprendere, assaporare.

Nella Vulgata sapientia e sapiens rendono o traducono di solito i termini greci della ver-sione dei Settanta e del NT sophía e sophós, la cui radice è di etimologia sconosciuta.

Nei Settanta questi termini greci rendono generalmente le parole ebraiche derivanti dalla radice ˙km, presente nella maggior parte delle lingue semitiche: ˙okmah, sapienza, e ˙akam, saggio.

Nella Bibbia ebraica, la radice ˙km viene usata 318 volte, alle quali bisogna aggiungere un’altra cinquantina di casi nei frammenti ebraici del Sir. Di fatto i vocaboli ˙akam e ˙okmah sono utilizzati soprattutto nei libri sapienziali: Gb, Pr, Qo, Sir. Nei Settanta, comprendendo il libro della Sapienza, avviene lo stesso per i vocaboli greci sophós e sophía.

Nel NT sophía viene usato 50 volte e 20 sophós, con una concentrazione particolare in 1Cor 1–3.

Accanto a questi termini fondamentali, l’ebraico e il greco utilizzano anche altri vocaboli, che si avvicinano come significato. Così troviamo ad es. i seguenti binomi: sapienza e sapere (da‘at, gnôsis: Pr 2,6; 30,3; Qo 1,16-17; 2,21-26; 9,10; Col 2,3), sapienza e intelligenza (bî-nah o tebûnah, sýnesis: Dt 4,6; Pr 24,3; Sir 14,20; Is 29,14; Ger 51,15; Col 1,9), sapienza e educazione (mûsar, paideía: Pr 1,2.7; 15,33). Il fatto che la traduzione non renda sempre allo stesso modo i termini ebraici denota una certa fluidità nel vocabolario. Questa osservazione è corroborata da alcuni testi che accumulano termini di cui non è facile stabilire con precisione

* M. GILBERT, Sapienza, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo (MI) 1988, 1427-1442. 1 Cfr. J. VILCHEZ LINDEZ, Storia della ricerca sulla letteratura sapienziale, in L. ALONSO SCHÖKEL – J. VIL-

CHEZ LINDEZ, I Proverbi (Commenti Biblici), Roma 1988, 43-93.

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Introduzione alla tradizione sapienziale biblica 5

il senso specifico. Ad es.: « Per conoscere sapienza e disciplina (mûsar)... per apprendere de-strezza e acutezza (mûsar hasekel)... per dare ai giovanetti la prudenza (‘ormah), al giovane scienza (da‘at) e assennatezza (mezimmah)... » (Pr 1,2-4); «Io, sapienza, abito insieme alla prudenza (‘ormah), ho trovato la scienza dei consigli (da‘at mezimmôt), ...a me il consiglio (‘eßah) e l’abilità (tûšijah), io sono l’intelligenza (bînah), a me la forza (gebûrah)» (Pr 8,12.14); «In lui [Dio] risiede la sapienza e la forza (gebûrah), sue sono la perspicacia (‘eßah) e la prudenza (tebûnah)» (Gb 12,13); «Spirito di sapienza e di discernimento (bînah), spirito di consiglio (‘eßah) e di fortezza (gebûrah), spirito di conoscenza (da‘at) e di timore del Si-gnore» (Is 11,2).

In maniera molto generale si può dire, alla luce di questa terminologia, che la sapienza si acquisisce attraverso un’educazione progressiva, mira ad una comprensione profonda e pene-trante del reale, porta ad un ‘saper fare’, ad un ‘saper vivere’ da cui i valori morali, come ad es. il coraggio, e religiosi, come il timore di Dio, non sono esclusi. In questo la sapienza bibli-ca non si distingue affatto dalla sapienza di ogni popolo e di ogni tempo.

La sapienza si rivolge agli ingenui, a gente infantile (peta’îm: Pr 1,4.22.32). Si tratta di per-sone semplici, che manifestano leggerezza e che sono dunque suscettibili di essere influenzate dal bene o dal male (Pr 9,4.16). Colui che ha poca sapienza è uno stolto, un ottuso (kesîl: Pr 26,1-12); parla a vanvera; di lui non ci si può fidare e non conclude nulla. È un essere pieno di meschinità, vile, ignobile (nabal: Pr 17,7.21; Sir 4,2); agisce senza pensare, sconsideratamente; i suoi modi sono sconvenienti (Pr 30,32); è un insensato, un pazzo (’ewîl: Pr 10,8.14.21) e dal suo parlare lo si capisce. Sir 21,11–22,18 traccia un quadro gustoso dello stolto.

2. LE FORME DI ESPRESSIONE

Anche le forme attraverso le quali la sapienza si esprime sono le stesse dovunque. Nella Bibbia troviamo la forma dell’adagio: «Quale la madre, tale la figlia» (Ez 16,44); «Pelle per pelle» (Gb 2,4); «Medico, cura te stesso» (Lc 4,23); incontriamo dei proverbi: «Dai malvagi esce malvagità!» (1Sam 24,14); «Chi indossa le armi non si vanti come chi le depone» (1Re 20,11: quattro parole in ebraico); o ancora: «I padri hanno mangiato l’agresto e i denti dei figli si sono allegati» (Ger 31,29; Ez 18,2). Accanto a queste forme semplici c’è poi l’enigma, co-me quello proposto da Sansone: «Da colui che mangia è venuto fuori cibo. Dal forte è uscito qualcosa di dolce» (Gdc 14,14); oppure la favola, come quella di Iotam (Gdc 9,7-15) o quella di Ioas: «Il cardo del Libano mandò a dire al cedro del Libano: “Concedi tua figlia in sposa a mio figlio”. Ma passarono le bestie selvagge del Libano e calpestarono il cardo» (2Re 14,9). Troviamo ancora il proverbio numerico, soprattutto in Pr 30,15-33, o la parabola, come quella narrata da Natan a Davide (2Sam 12,1-4). Talvolta il testo si sviluppa in forma di racconto, come la narrazione in prosa che apre e chiude Gb; lo sviluppo può apparire anche in forma di discorso molto elaborato come ad esempio in Pr 2, o addirittura in forma di dialogo, come il poema di Gb. Tutte queste espressioni sapienziali, brevi o lunghe, sono chiamate dalla Bibbia ebraica mašal.

3. SAPIENZE DEL VICINO ORIENTE ANTICO NON BIBLICO

Contrariamente a quanto si pensava all’inizio del secolo scorso, la sapienza biblica non è la più antica. Essa si inserisce all’interno di una corrente che ha le sue radici in Mesopotamia e in Egitto, dove i saggi, come del resto quelli della Bibbia, misero per iscritto i loro insegna-menti. Questa messa in iscritto costituisce una delle caratteristiche fondamentali della sapien-za del Vicino Oriente Antico.

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6 Introduzione alla tradizione sapienziale biblica

3.1. LE LISTE

La prima tappa di questa sapienza scritta è stata probabilmente la composizione di liste det-te onomastica: allo scopo di comporre un inventario del loro universo, gli autori di queste li-ste enumeravano, per categorie, gli esseri e le cose che li circondavano e potevano essere loro di utilità. Così fecero i sumeri e gli egiziani. La Bibbia attribuisce a Salomone questa stessa attività che segna l’inizio della ricerca scientifica: «Trattò degli alberi, dal cedro che si trova sul Libano sino all’issopo che spunta dal muro; dissertò anche sul bestiame e sui volatili, sui rettili e sui pesci» (1Re 5,13).

3.2. LE ANTICHE RACCOLTE DI SENTENZE

La sapienza mesopotamica e quella egiziana sono conosciute soprattutto per le raccolte che l’archeologia moderna ha permesso di scoprire. Vi troviamo innanzitutto delle istruzioni tra-smesse solitamente da un re al suo erede o da uno scriba al proprio figlio. Queste istruzioni sono composte ordinariamente da proverbi che indicano il comportamento da tenere per riu-scire nella vita o nel lavoro. Il testo più antico proviene dai sumeri e sono le Istruzioni di Shu-ruppak. Questo testo risale probabilmente alla metà del III millennio e se ne può seguire la trasmissione, malgrado i molti cambiamenti, fin verso l’anno 1000 a.C. In Egitto troviamo le Istruzioni del vizir Ptah-Hotep al figlio, risalenti ugualmente alla metà del III millennio; del XXII sec. a.C. sono le Istruzioni del re al figlio Merikare; quelle dello scriba Ani al figlio risa-lirebbero alla metà del II millennio. Le Istruzioni dello scriba Amenemope al figlio, la cui da-tazione oscilla tra il 1000 e il 600 a.C., potrebbero aver influenzato l’autore della collezione biblica di Pr 22,17–24,22; infine l’insegnamento di Onkh-Sheshonq-qy sarebbe databile al V sec. a.C. Le raccolte di proverbi biblici (Pr 10–31) si inscrivono in questa corrente sumerica ed egiziana di cui abbiamo ricordato i principali testimoni.

3.3. ALTRI TESTI

3.3.1. Testi anteriori alla Bibbia

La Mesopotamia e l’Egitto hanno tramandato anche dei testi sapienziali in cui il discorso ha un respiro più ampio e strutturato e che contengono riflessioni sul senso della vita e della morte, sulla sofferenza e altri problemi umani. In Egitto2, la Disputa sul suicidio tra un uomo disperato e la sua anima risalirebbe alla fine del III millennio; dell’inizio del II millennio sa-rebbe invece la Novella del contadino loquace che reclama giustizia e la Satira dei mestieri, in cui Khety fa al proprio figlio Pepy l’elogio, per contrasto, del mestiere di scriba. Questo contrasto si ritrova, molto più tardi, in Sir 38,24–39,11. Anche in Mesopotamia troviamo delle favole, tra cui quella, in accadico, del Tamarisco e della Palma, risalente al 1700-1600 a.C. Il monologo accadico conosciuto – dalle prime parole del testo – come Ludlul bel nemeqi, “Vo-glio celebrare il signore della sapienza”, presenta un giusto sofferente paragonabile a Giobbe, e risalirebbe agli anni 1500-1200 a.C. Anche il Dialogo pessimistico tra un padrone e il suo servo, che approva sempre i progetti più contraddittori del primo, è scritto in accadico e non deve essere di molto anteriore all’anno 10003.

2 Cfr. J. LÉVÊQUE, Testi sapienziali dell’Antico Egitto, in L’Antico Testamento e le culture del tempo, Roma

1990, 393-497; A. ROCCATI (ed.), Sapienza Egizia. La letteratura educativa in Egitto durante il II millennio a.C., Brescia 1994; G.E. BRYCE, A Legacy of Wisdom. The Egyptian Contribution to the Wisdom of Israel, Lewinsburg-London 1979.

3 Fonte principale per i testi sapienziali del Vicino Oriente Antico resta J.B. PRITCHARD, Ancient Near Ea-stern Texts Relating to the Old Testament, Princeton 19683, con supplemento; vedi G.R. CASTELLINO, Testi sumerici e accadici, Torino 1977, 471-515; M. CIMOSA, L’ambiente storico-culturale delle Scritture Ebraiche, Bologna 2000.

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3.3.2. Testi contemporanei all’AT

Nel I millennio avranno una grande risonanza due opere. La prima viene dalla Grecia: Le opere e i giorni, di Esiodo (VIII sec. a.C.), è un poema didattico in cui sono esaltati i valori del lavoro. Molti accostamenti sono possibili tra questa opera e la letteratura sapienziale del Vicino Oriente Antico. La seconda è il romanzo di Achikar, opera probabilmente aramaica (VI-V sec. a.C.), di cui si sono ritrovati lunghi frammenti presso la comunità ebraica di Ele-fantina in Egitto. Il greco Esopo e Tb (1,21-22; 14,10) vi si ricollegano. Ministro di Sennache-rib e di Assarhaddon, Achikar narra come, a causa degli intrighi del nipote che egli aveva formato alla sapienza degli scribi, egli sarebbe morto se l’ufficiale che lo aveva arrestato non avesse accettato di nasconderlo. Tornato nelle grazie del re, ottenne di castigare lui stesso il nipote. L’insegnamento che Achikar trasmette a quest’ultimo è simile a quello di tutte le rac-colte antiche del genere: severa educazione dei figli, obbedienza al re, difficoltà nei rapporti umani, prudenza nelle parole e anche qualche favola.

3.3.3. Testi dell’inizio dell’era cristiana

Al di fuori della Bibbia, all’inizio dell’era cristiana, videro la luce anche altri testi sapien-ziali. Nel giudaismo ellenistico troviamo le Sentenze di Focilide (fine del I sec. a.C. o inizio del I sec. d.C.) e 3Esd 3,1–5,6 (racconto posteriore a Dan e anteriore a Giuseppe Flavio); nel giudaismo palestinese i Pirqê ’Abôt, “Sentenze dei Padri” (nella Mišnah e quindi anteriori alla fine del II sec. d.C.); nel cristianesimo, le Due Vie (questa raccolta di origine giudaica si ritro-va nella Didaché 2,2–6,1, nella Lettera di Barnaba 18-20 e nella Dottrina dei Dodici Aposto-li), le Sentenze di Sesto (di origine pagana e la cui redazione cristiana risale al II sec. d.C.) e gli Insegnamenti di Silvano (a cavallo tra il II e il III sec. d.C.). Anche in Egitto, nel I sec. d.C., troviamo una sapienza in demotico, conservata dal Papiro Insinger.

3.4. COS’È LA SAPIENZA?

Per illuminare il concetto biblico di sapienza possono essere utili due confronti. Nel pantheon egiziano classico la dea Ma’at, figlia del dio Ra, è raffigurata come una ragazzina ac-covacciata, ricoperta di una lunga veste, avente in testa un velo sormontato da una lunga piuma e in mano una croce ansata simbolo della vita (ankh, in egiziano). Alcuni avori del palazzo reale di Samaria provano che nel IX sec. la dea era conosciuta anche lì. Ma’at assicura l’ordine co-smico e l’armonia nei rapporti umani attraverso la giustizia e la bontà verso i poveri. Amata da Ra, essa porta alla vita colui che la venera: il suo ruolo presso i responsabili della società è di aprirli alla verità e alla giustizia soprattutto verso i più sprovveduti. La figura della Sapienza in Pr 8 è forse parzialmente ispirata a quella di Ma’at, ma non senza che una purificazione radicale sia stata operata: la Sapienza non è una dea. Negli ultimi secoli prima dell’era cristiana la dea Iside assunse la maggior parte delle prerogative di Ma’at e il suo culto si diffuse nel mondo el-lenistico. È possibile che Sir 24 e Sap 7–9, parlando nuovamente della Sapienza, a loro volta si ispirino un po’ alla figura di Iside, ma senza fare della Sapienza una dea.

Nella Grecia antica, agli occhi dei sette Saggi, la sapienza è un’arte di vivere piena di equi-librio, una capacità a pronunciarsi con avvedutezza sui problemi tanto della vita quotidiana quanto della politica. Contro i sofisti Socrate affermò più tardi la nobiltà della sapienza, che ai suoi occhi è divina: con la pratica della virtù l’uomo deve diventarne l’amico. Ma Platone ri-dusse la sapienza all’ambito intellettuale: attraverso la contemplazione essa permette la cono-scenza intuitiva delle idee divine, in particolare il bene e il bello. Aristotele invece distinse la sapienza, sophía, che è conoscenza delle cause prime e dei princìpi – da identificarsi quindi con la filosofia – dalla prudenza, phrónēsis, sapienza pratica nella linea dei sette Saggi. Più tardi lo stoicismo fece della sapienza «la scienza delle cose divine e umane» (cfr. pure 4Mac 1,16): realtà divina, essa si identifica con la ragione universale ed è l’ideale che l’uomo può raggiungere attraverso la filosofia e la pratica della virtù. Il saggio realizza questa sapienza i-

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8 Introduzione alla tradizione sapienziale biblica

deale, unica virtù. Ma a causa della difficoltà a conseguire questa sapienza perfetta gli stoici si applicarono sempre di più alla phrónēsis, sapienza pratica, frutto della virtù. Parlando di phrónēsis e insistendo sul suo aspetto virtuoso, Sap 3,15; 4,9; 6,15.24; 7,7; 8,6-7 si muove nell’ambito del pensiero greco.

3.5. LA BIBBIA E LE SAPIENZE PAGANE

Questa serie di contatti, nell’ambito sapienziale, tra la Bibbia e le culture circostanti non fa che continuare una lunga tradizione. Spesso un riferimento alla sapienza pagana serve a dimo-strare la superiorità della sapienza biblica. È il caso di Giuseppe (Gen 41), di Mosè (Es 7,8–9,12), di Salomone (1Re 5,10-11; 10,1-13), di Daniele (Dan 2; 4), che hanno la meglio sui saggi pagani. I profeti a loro volta sottolineano i limiti della sapienza dei popoli pagani (Is 19,3.11-12; 44,25; 47,8-15; Ger 49,7 = Abd 8; Ger 50,35-36; 51,57; Ez 28,1-19): loro bersa-glio sono quasi sempre l’Egitto, Babilonia o Edom. In Egitto e a Babilonia i saggi sono spesso considerati come dei maghi, mentre la sapienza di Tiro, secondo Ez 28, sta nella sua abilità ad arricchirsi con il commercio marittimo. Ma la Bibbia non nutre solo disprezzo per la sapienza dei pagani. Si intuisce in 1Re 5,9-14 quanto la sapienza salomonica debba a quella delle gran-di culture circostanti. Più ancora: Pr 30,1-14 ha conservato i proverbi di Agur e Pr 31,1-9 quelli che Lemuel ha imparato dalla madre; ora questi due sapienti non sono di origine israeli-ta. Il caso di Giobbe è più sottile, perché nemmeno Giobbe è israelita: è del paese di Uz (Gb 1,1), da localizzare probabilmente in Transgiordania. Questa finzione serve a dimostrare il ca-rattere universale della risposta biblica al problema posto dalla sofferenza del giusto. In un ca-so almeno la sapienza biblica si annetterà la sapienza pagana: Achikar è considerato in Tb 1,21 come nipote del vecchio Tobi, a riprova del grande rispetto che nel giudaismo si nutriva per la sapienza di Achikar. Un rispetto analogo spiega perché Pr 22,17–24,22 dipenda dalle Istruzioni di Amenemope. Tutto ciò conduce a pensare che la Bibbia fosse cosciente tanto dell’influenza che la sapienza pagana esercitava sulla propria, quanto della differenza che se-parava la propria sapienza da quella dei pagani, ed anche dell’universalità tipica di ogni auten-tica sapienza.

4. LA SAPIENZA BIBLICA

4.1. I LIBRI SAPIENZIALI

Nella Bibbia ebraica i libri propriamente sapienziali si trovano tra gli Agiografi o Scritti (Ketubîm): si tratta di Pr, Gb, Qo; quest’ultimo fa parte della sottosezione dei Cinque Rotoli (Megillôt). Nei Settanta troviamo inoltre l’opera di Ben Sira o Siracide o Ecclesiastico (di cui da circa un secolo è stata ritrovata una parte importante del testo ebraico) e infine Sap. Nel NT possiamo considerare libro sapienziale la lettera di Giacomo.

4.2. NEGLI ALTRI LIBRI BIBLICI

4.2.1. Nell’AT

La corrente sapienziale biblica si manifesta anche in altri testi. Prendiamo innanzitutto quelli in cui il fatto è più esplicito. Alcuni salmi sono detti sapienziali o didattici; i commenta-tori però non si accordano sulla loro scelta soprattutto a causa della difficoltà di determinarne il genere letterario e il rapporto con il culto. Vengono considerati tali, ad es., i salmi che can-tano la bellezza della tôrah (Sal 1; 19b; 119), quelli che semplicemente formulano un inse-gnamento (Sal 37; 91; 112; 127), quelli che riflettono sulla sorte dell’essere umano (Sal 49; 73, che viene accostato a Gb; 90). In maniera più esplicita Bar 3,9–4,4 è una esortazione a re-star fedeli alla Sapienza, identificata con la tôrah. Alcuni racconti, le cui apparenze storiche possono ingannare, sono didattici e potrebbero ricollegarsi a quelli che leggiamo in Gb 1–2 e

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Introduzione alla tradizione sapienziale biblica 9

42 o in Achikar: sono soprattutto Rt, Gi, Tb, Gdt, Est e Susanna (Dan 13). Questi testi hanno pure dei legami con i midrašim. In altri testi o in altre correnti l’influsso sapienziale è ricono-sciuto o controverso. Il racconto J del giardino dell’Eden (Gen 2–3) ha dei tratti sapienziali4. Le opinioni sono divise quanto all’influenza sapienziale su Dt e Am. G. von Rad ha pensato di poter ricollegare l’apocalittica non già al profetismo bensì alle correnti sapienziali; tuttavia so-lo Sap integra bene, sia pure tardivamente, sapienza e apocalittica. Alcuni testi brevi denotano una forte tendenza sapienziale: per es. Ct 8,6-11; 1Sam 25, in cui Abigail pone rimedio alla stupidità del marito; 2Sam 14, dove vediamo la saggia donna di Tekoa perorare la riabilitazio-ne di Assalonne. L’importanza dei saggi appare anche nelle critiche che i profeti – Isaia e Ge-remia in particolare – hanno formulato nei confronti di alcuni di loro: allora è la saggezza di corte, i consiglieri regali che vengono presi di mira (Is 3,1-3; 5,21; 29,14; 30,1; Ger 8,8-9; 9,11.22-23). Queste critiche riprendono spesso quelle che Pr rivolgeva a coloro che confidano solo nella propria saggezza (Pr 26,12; 28,11) o nelle proprie forze (Pr 21,31). D’altra parte testi come Is 9,1-6; 11,1-5 sul re-messia ricordano per certi aspetti l’insegnamento dei saggi di Pr sull’esercizio della funzione regale (Pr 20,28; 29,14).

4.2.2. Nel NT: Gesù maestro di sapienza

Nel NT troviamo, accanto a Gc, un certo numero di testi che parlano della sapienza di Dio o che, a proposito di Gesù, ricorrono ad espressioni che l’AT utilizza per parlare della Sapien-za. Fermiamoci per ora a ciò che, nell’insegnamento di Gesù, prende una forma sapienziale. Non si può infatti negare che molti discorsi di Gesù erano simili a quelli dei saggi. Del resto gli abitanti di Nazaret se ne sono resi conto, arrivando addirittura a considerare Gesù superio-re agli scribi (cfr. Mt 7,28-29): «Donde viene a costui questa sapienza?» (Mt 13,54).

La cosa si nota nelle parabole. Anche i maestri d’Israele dell’epoca di Gesù, che d’altronde si chiamavano saggi, utilizzavano la parabola soprattutto per spiegare ai discepoli il senso di un testo della Scrittura. Così, per spiegare il banchetto della Sapienza in Pr 9,1-6, si diceva: «E come un re che si costruì un palazzo e che, per inaugurarlo, diede un banchetto...» (Toseftah, Sanhedrin 8,9). Oppure, per spiegare perché nel deserto gli ebrei non ricevettero solo una volta all’anno la loro razione di manna, si diceva: «Un re diede al proprio figlio il necessario per l’intero anno e il figlio si accontentò di presentarsi davanti al padre una volta all’anno. Allora il padre decise di dargli il necessario giorno per giorno ed è così che il figlio fu costretto a visitare il padre ogni giorno» (Talmud Babli Joma 17a). Talvolta la parabola rabbinica chiarisce un pun-to dottrinale: «Alla domanda se i morti risuscitano nudi o vestiti, R. Meir rispose: “Se il grano di frumento messo nudo nella terra riappare con una moltitudine di vestiti, i giusti che sono se-polti con i loro abiti non dovrebbero risorgere vestiti?”» (Talmud Babli, Sanhedrin 50b).

Si intuisce facilmente la portata pedagogica delle parabole che prendono spunto dalla vita quotidiana in Palestina: tanto i maestri in Israele quanto Gesù parlano di pastore e di pecore, di vigna, di compera o di vendita, di monetina smarrita, di casa da costruire, di tesoro dato in consegna o in prestito, ecc., e i personaggi abituali sono un re, un padre e un figlio, un padro-ne e un servo, una massaia, ecc. Quando Gesù parla in parabole, si rivolge alla folla (Mt 13,34), prende spunto dalla vita rurale e campestre e i suoi temi si riferiscono al regno di Dio o alla sua stessa persona, alla sua missione, oppure all’atteggiamento di colui che ascolta l’appello di Dio.

Oltre alle parabole, anche molti discorsi di Gesù hanno un taglio sapienziale. È il caso in particolare del discorso sul monte (Mt 5–7) o del discorso sul pane di vita (Gv 6). Accanto a queste composizioni ampie troviamo pure, attribuite a Gesù, delle formulazioni sapienziali di vario tipo. Sono delle massime come: «Tutti quelli che mettono mano alla spada, di spada pe-

4 Cfr. A. VANEL, Sagesse (courant de), in DBS XII, Paris 1989, 23-27 e L. MAZZINGHI, Quale fondamento

biblico per il “peccato originale”? Un bilancio ermeneutico: l’Antico Testamento, in I. SANNA (ed.), Questioni sul peccato originale, Padova 1995, 61-140.

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10 Introduzione alla tradizione sapienziale biblica

riranno» (Mt 26,52); «Chi vuole salvare la propria vita, la perderà» (Mt 16,25); «C’è più feli-cità a dare che a ricevere» (At 20,35). Possono assumere una connotazione personale: «Chi non è contro di noi è per noi» (Mc 9,40), o diventare delle esortazioni: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti» (Mt 8,22), oppure: «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Mt 22,21).

5. ORIGINE DELLA SAPIENZA IN ISRAELE5

5.1. SALOMONE MODELLO DEI SAGGI

La Bibbia collega la fioritura della sapienza in Israele alla persona del re Salomone (972-932). Alla morte di Davide, che fu il creatore di un autentico impero, il riunificatore delle do-dici tribù, il conquistatore, il suo giovane erede Salomone domandò a Dio, fin dall’inizio del suo regno, «un cuore saggio e perspicace» per governare (1Re 3,4-15; 2Cr 1,3-12). La sapien-za di Salomone si manifestò nelle sue qualità di giudice (1Re 3,15-28: il famoso giudizio di Salomone), nelle capacità di amministratore (1Re 4,1–5,8), di costruttore del tempio (1Re 5,15–8,66). Organizzò i lavori pubblici (1Re 9,15-24) e il commercio con l’estero (1Re 9,26–10,13: la visita della regina di Saba), accumulando un’enorme fortuna (1Re 10,14-25). Ma il regno di Salomone non fu senza ombre: l’oppressione del popolo in funzione dei suoi proget-ti, il fasto della corte e soprattutto la sua infedeltà religiosa gli procurarono dei nemici, tanto che alla sua morte il regno si divise. Possiamo supporre che un’attività del genere da parte di Salomone abbia richiesto allo stato l’organizzazione di una specie di scuola superiore di am-ministrazione, in cui tutti i membri degli organismi statali ricevessero una formazione adegua-ta, in particolare sul piano culturale. L’accoglienza delle culture straniere fu probabilmente uno dei motivi del successo della politica del re. Aveva sposato in prime nozze la figlia del fa-raone (1Re 3,1; 9,16; 11,1) e si può pensare che la cultura egiziana abbia fatto il suo ingresso a Gerusalemme coi bagagli della giovane regina. Si può pensare anche che la lingua accadica, e forse anche il sumerico, fossero conosciuti nelle alte sfere dello stato, per necessità diploma-tica e formazione culturale. L’attività letteraria fu verosimilmente favorita negli stessi ambien-ti. L’autore detto correntemente J scrisse probabilmente sotto Salomone la sua storia delle ori-gini; il racconto così profondamente umano della successione a Davide (2Sam 13ss) fu redat-to, sembra, da un testimone, familiare alla corte. I proverbi di Pr 10,1–22,16 e il fondo origi-nario di Pr 25–29 sono attribuiti a Salomone: in realtà potrebbe trattarsi piuttosto di raccolte compilate dagli scribi e dai saggi su indicazioni del re. Del resto 1Re 5,12-13 attribuisce a Sa-lomone «tremila proverbi e i suoi carmi furono mille e cinque. Trattò degli alberi, dal cedro che si trova sul Libano, sino all’issopo che spunta dal muro; dissertò anche sul bestiame e sui volatili, sui rettili e sui pesci». Dobbiamo probabilmente vedere in questi ultimi riferimenti degli onomastica, specie di lessici realizzati essi pure su indicazioni del re. Il patrocinio di Sa-lomone doveva continuare a lungo dopo di lui, se gli viene attribuito il Ct, se dei suoi panni si riveste Qo, se i Sal 72 e 127 (in rapporto con 1Re 3,14-15) portano il suo nome e Sap lo mette ancora in scena. Salomone è dunque diventato una figura ideale (cfr. anche Mt 6,29; Lc 12,27; Mt 12,42). Ci si può d’altronde domandare se già 1Re 3–11 e 2Cr 1–9 non abbiano risentito di questa tendenza all’idealizzazione. Ad ogni modo, la Bibbia attribuisce alla corte reale un ruo-lo determinante nello sviluppo della corrente sapienziale in Israele. Questo ruolo si rinnoverà sotto il regno di Ezechia (Pr 25,1).

5 Sull’ambiente vitale della sapienza israelita cfr. V. MORLA ASENSIO, Libri sapienziali e altri scritti (Introdu-

zione allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 49-54.

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5.2. SCRIBI E SCUOLE

Gli scribi del re, ricordati in Pr 25,1 o che 1Re 5,13 lascia supporre, non sono da identifi-carsi puramente e semplicemente con i suoi consiglieri politici. Leggendo i proverbi delle rac-colte salomoniche si intuisce che certi scribi avevano un’altra funzione di importanza capitale per l’avvenire dello stato: quella di preparare la gioventù maschile meglio dotata a prendere un domani il cambio nella responsabilità dell’amministrazione, della diplomazia e del gover-no. Bisognava insegnare a questi giovani ciò che rende l’uomo equilibrato e completo, e in-nanzitutto il comportamento corretto a corte (Pr 16,10-15; 25,2-7). Che questa formazione fosse impartita a dei giovani, lo si può dedurre dal fatto che troviamo nei proverbi (come in Pr 27,11) il vocativo “figlio mio”.

5.3. ORIGINE POPOLARE DELLA SAPIENZA

La maggior parte dei proverbi antichi non ha niente a che vedere con la vita di corte. Un gran numero di proverbi riuniti nelle raccolte salomoniche proviene sicuramente dalla campa-gna o dai villaggi e il loro contenuto lo testimonia; ad es.: «Se non ci sono buoi la greppia è vuota; nella forza del giovenco c’è abbondanza di prodotti» (Pr 14,4). In questo l’origine del-la sapienza in Israele non differisce da quella di tutti gli altri popoli. Le testimonianze antiche, anteriori a Salomone, confermano questo dato. In Israele, come dappertutto, la sapienza pro-verbiale è di origine popolare e si trasmette in famiglia, come avverrà ancora molto più tardi con Tobia (Tb 4,3-21). Salomone e i suoi scribi non hanno fatto altro che raccogliere questa saggezza popolare antica, organizzarla e metterla per iscritto, salvo a modificare qua e là la formulazione originale per farla meglio entrare nei quadri previsti per la raccolta. La sapienza proverbiale non è solo l’opera di artigiani abili nel loro mestiere (cfr. Es 31,31; 2Cr 2,12); è più di questo. Un proverbio infatti è una espressione armoniosa – piacevole da ascoltare e da dire, concisa al massimo e che richiede riflessione per essere ben compresa – di una verità comprensibile a tutti e che sintetizza una lunga esperienza di osservazione degli uomini e del-le cose. Un proverbio è il frutto di una lunga maturazione e l’osservazione ne è la base. La ri-petizione di uno stesso fenomeno fu osservata da spiriti pazienti e perspicaci, rimasti quasi sempre anonimi, forse perché usciti dal popolino, e ciò ha permesso loro di scoprire il princi-pio generale che regge questa molteplicità. Inoltre questa gente osservatrice è riuscita a con-densare la propria scoperta in una formula breve e stringata, trasmessa dapprima oralmente, come avviene ancor oggi nell’Africa nera. È solo a questo punto che è intervenuta l’azione degli scribi di corte o dei circoli intellettuali. E questa messa per iscritto fin dalla più remota antichità è caratteristica delle culture del Vicino Oriente Antico. In Israele questa stesura dei proverbi in raccolte organizzate, come si faceva anche in Mesopotamia e in Egitto, conobbe un avvenire ancora migliore, dal momento che queste raccolte furono accettate come tali e trasmesse fedelmente lungo i secoli fino a noi. Così si conservava la tradizione, che alla fine acquistò un carattere religioso, dal momento che Pr fa parte della Bibbia, è parola di Dio.

6. IL FINE DELLA SAPIENZA

Il fine primo della sapienza è di comprendere, è il sapere. Il mondo in cui vivevano gli an-tichi sfuggiva loro molto più che a noi, che beneficiamo di secoli di osservazione e di analisi che arrivano fino alle scienze contemporanee in tutti i campi. Il primo scopo dei saggi era, ovviamente, quello di conoscere questo mondo in tutta la sua complessità: il mondo fisico, il mondo degli animali e soprattutto quello dell’uomo con il suo comportamento, le sue tenden-ze e le sue capacità. Essi erano convinti quanto noi che l’uomo, di fronte alla molteplicità dei fenomeni e alla loro varietà, è capace di mettere il dito su ciò che è permanente, che si verifica sempre: in definitiva su una legge che governa il reale fin nei dettagli. Quindi erano implici-tamente convinti quanto noi che il reale è governato da leggi precise e stabili. Intendevano conoscere il senso del reale in cui ammettevano l’esistenza di un ordine. Tale sforzo non era

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certamente privo di esitazioni, di insuccessi, di contraddizioni; ma un po’ alla volta le cose si chiarivano.

Apparentemente l’opera dei saggi era essenzialmente profana. Ma l’uomo antico non pen-sava, come noi, che bisognasse distinguere o addirittura separare nettamente il mondo profano dal religioso: per loro il reale costituiva un tutt’uno, il profano si mescolava al religioso e vi-ceversa. Per questo nella loro ricerca si interessavano anche al comportamento morale dell’ uomo e ai valori religiosi ammessi nella loro società. Ma lo facevano da saggi, da osservatori attenti e imparziali di questa parte del reale, più che da difensori di tradizioni etiche e teologi-che di cui i sacerdoti e i profeti avevano, con il re, la responsabilità.

Tuttavia la scoperta e la formulazione delle leggi che reggono il reale non era per loro uno scopo a sé stante. I saggi cercavano ciò che poteva aiutare l’essere umano ad orientarsi in que-sto mondo, a meglio vivere e a meglio agire. L’obiettivo della loro sapienza era il ‘saper vive-re’, il ‘saper fare’. Una miglior conoscenza del reale poteva certamente aiutare a riuscire nella vita, a equilibrarla e a darle armonia e felicità. E la ricerca di ciò non era né edonismo né ego-ismo, perché i saggi avevano capito che la felicità dell’uomo passava attraverso l’azione vir-tuosa e la rinuncia a se stessi. Anche l’agire morale e religioso aveva delle leggi e delle con-seguenze.

Trasmessa oralmente o per iscritto, ma soprattutto in quest’ultimo modo, la sapienza antica governava le attività della società e regolava i comportamenti e le controversie che sorgevano tra le persone o i gruppi. Nell’Africa nera i proverbi hanno ancora questa funzione, mentre nel mondo occidentale sono ridotti solitamente a semplici infiorettature stilistiche che ornano il discorso o lo scritto. Proprio perché aveva questa funzione regolatrice della società, la sapien-za antica doveva essere trasmessa alla gioventù, nella cui formazione occupava una parte im-portante. Attraverso di essa i giovani imparavano i princìpi del comportamento e quanto pote-va dare pienezza ed equilibrio alla loro vita. E tutto ciò era estremamente importante per quel-la parte della gioventù che doveva essere preparata ad assumere nella società i posti di respon-sabilità. Quella dei saggi era dunque un’opera di formazione e di educazione, e questo com-portò ben presto il nascere di una scuola o accademia sotto la direzione di un maestro di sa-pienza.

7. L’ATTEGGIAMENTO DEI SAGGI

7.1. IL CONSIGLIO

Il saggio non è né capo né sacerdote né profeta. Non comanda né in nome dello stato né in nome di Dio. Propone ciò che gli sembra di aver scoperto, espone ciò che sa, indica la via che secondo lui conduce alla pienezza di vita e sconsiglia quella che, in base alla propria espe-rienza, porta al fallimento. Il suo discorso descrive, indica, consiglia, suggerisce ma non co-manda.

7.2. I LIMITI DELLA SAPIENZA

D’altra parte il saggio percepisce i limiti del proprio sapere e della propria esperienza, dal momento che sa di non essere padrone della realtà e dei cuori cui si rivolge. E poi vuole anche ricordare i limiti di ogni sapere umano, perché essi pure fanno parte della sua conoscenza. Non c’è nulla di peggio di un uomo convinto di sapere tutto: «Vedi uno che si crede di essere saggio? C’è da sperare più dallo stolto che da lui» (Pr 26,12). Molte cose ci sfuggono, ma es-se sono nelle mani di colui che tutto governa; l’uomo propone e Dio dispone, dice il nostro proverbio: «All’uomo i progetti del cuore, ma dal Signore la risposta della lingua» (Pr 16,1). Ecco ancora due esempi più concreti: «La casa e la ricchezza si ereditano dagli avi: ma dono del Signore è una moglie intelligente» (Pr 19,14); «Si equipaggia il cavallo per il giorno della lotta; ma al Signore appartiene la salvezza» (Pr 21,31). L’uomo non è nemmeno sicuro che il

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suo agire sia giusto: «Tutte le vie dell’uomo sono pure ai suoi occhi, ma chi esamina gli spiriti è il Signore» (Pr 16,2; 21‚2). Il saggio sa infatti che in definitiva noi siamo nelle mani di Dio: «Dal Signore sono ordinati i passi dell’uomo: come può dunque l’uomo conoscere la sua vi-a?» (Pr 20,24). La nostra sapienza, al limite, sta nel negare se stessa: «Non c’è sapienza né in-telligenza né consiglio di fronte al Signore» (Pr 21,30).

7.3. LA SAPIENZA DI DO

Di qui ad affermare la sapienza stessa di Dio il passo era breve. Tuttavia, al contrario della Mesopotamia e dell’Egitto, Israele esitò a lungo prima di attribuire a YHWH la sapienza. La ragione va cercata probabilmente nel fatto che la sapienza appariva come una qualità profon-damente umana. Eppure la donna di Tekoa, che andò a perorare davanti a Davide la causa di Assalonne, riconobbe che il re aveva la sapienza dell’angelo di Dio (2Sam 14,20). È da Dio che Salomone ricevette la sapienza (1Re 3,12), come un tempo gli artigiani dell’esodo (Es 31,3) tutta la loro abilità, e la stessa sapienza di Salomone venne percepita come una sapienza divina (1Re 3,28; 10,24). Ma probabilmente i testi che esaltano l’erede di Davide sono meno antichi di una frase di Isaia a proposito di YHWH, quando il profeta criticava i consiglieri rega-li: «Anch’egli [il Signore] è saggio e causerà il disastro, non ritira le sue parole» (Is 31,2). Già prima dell’esilio si affermava che il re-messia sarebbe stato rivestito dello Spirito di YHWH, «spirito di sapienza e di discernimento...» (Is 11,2). Probabilmente però è solo dopo la distru-zione di Gerusalemme (586), durante e dopo l’esilio (586-539), che alcuni rari testi afferma-rono esplicitamente la sapienza di Dio: «Egli ha fatto la terra con la sua potenza, ha stabilito il mondo con la sua sapienza e con la sua intelligenza ha steso i cieli» (Ger 10,12; 51,15; cfr. Pr 3,19); «Quanto sono numerose le tue opere, o Signore! Tutte le hai fatte con sapienza» (Sal 104,24); e soprattutto: «In lui risiede la sapienza e la forza, sue sono la perspicacia e la pru-denza» (Gb 12,13). Questa corrente andrà via via sviluppandosi.

7.4. IL PROBLEMA DELLA RETRIBUZIONE

È in definitiva in rapporto a Dio che i saggi affronteranno i grandi enigmi dell’esistenza umana. Senza dubbio alcuni proverbi antichi presentano delle allusioni a una vita religiosa e morale in rapporto con YHWH: «Chi cammina nella sua rettitudine ha il timor di Dio, chi per-verte la sua strada lo disprezza» (Pr 14,2); «Chi opprime il povero disonora il suo creatore, lo glorifica chi ha pietà dell’umile» (Pr 14,31); «Molti cercano i favori del capo, ma viene dal Signore la sorte di ciascuno» (Pr 29,26). L’introduzione al libro dei Proverbi (Pr 1–9), che ri-sale probabilmente al ritorno dall’esilio, si fa più religiosa ed è lì che troviamo messo in evi-denza il principio ben conosciuto: «L’inizio della sapienza è il timore del Signore» (Pr 9,10; cfr. Pr 1,7; Sal 111,10; Sir 1,14). Ma questa introduzione, come del resto gli antichi proverbi, non mette in dubbio l’idea che Dio favorisce l’uomo giusto: «Il Signore non fa morire di fame un giusto, ma reprime l’ingordigia degli empi» (Pr 10,3) e «Maledizione del Signore sulla ca-sa dell’empio, mentre benedice la dimora dei giusti» (Pr 3,33). L’evidenza di ciò che avviene sulla terra doveva far insorgere Gb e Qo contro questa dottrina classica. Fu la grande crisi del-la sapienza biblica: non è vero, dicono Gb e Qo, che quaggiù la felicità ricompensa la virtù e il vizio produce sventure durante questa vita. Questo problema della retribuzione individuale non trova soluzione nemmeno nel Sir, per il quale tutto si conclude con la morte. Eppure scri-ve: «Chi teme il Signore si troverà bene alla fine, nel giorno della sua morte sarà benedetto» (Sir 1,11). Ma non possiamo dedurre da questo testo, conosciuto solo nella sua versione greca, che Ben Sira attendesse una retribuzione dopo la morte. Nei libri sapienziali della Bibbia que-sta soluzione appare solo in Sap: «Le anime dei giusti sono nelle mani di Dio e nessun tor-mento le toccherà» (Sap 3,1; cfr. anche 3,13.15; 5,15), la loro sofferenza durante questa vita è una prova (Sap 3,5-6), la loro sterilità accettata virtuosamente avrà il suo frutto nell’aldilà

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(Sap 3,13-15). Solo questa fede in una retribuzione dopo la morte ridà serenità alla sapienza biblica.

7.5. UNA RIFLESSIONE SULLA STORIA DELLA SALVEZZA

Per giungere a questa dottrina l’autore di Sap integra nella sua riflessione l’esperienza sto-rica di Israele. Già la riflessione di Pr 1–9 faceva eco all’insegnamento di Dt e Ger. Qohelet si identificava a Salomone, giudicando la sua opera alla fine di una vita fastosa. Più esplicita-mente Sir 16,24–17,14 e soprattutto Sir 44–49 rileggevano tutta la storia della salvezza al mo-do di un saggio. Sap 7–9 riproponeva ai giovani l’esempio di Salomone; Sap 10–19 rileggeva gli eventi centrali di Israele cominciando dagli eroi di Gen e soffermandosi a lungo sugli e-venti dell’esodo. In tutti i casi, il patrimonio spirituale di Israele era fonte di insegnamento per il saggio. Per Sap, in particolare, l’esodo testimoniava come Dio protegge il giusto contro gli empi, servendosi delle forze del cosmo. Ciò che Dio fece un tempo, lo farà ancora in futuro. Rileggendo in questo modo la storia santa i saggi inauguravano modestamente quella che po-tremmo chiamare già una filosofia della storia.

8. LA PERSONIFICAZIONE DELLA SAPIENZA NELL’AT6

8.1. I TESTI

Alcuni testi sapienziali dell’AT emergono in modo speciale per il fatto che non parlano semplicemente della sapienza umana, e neppure della sapienza di Dio – nel senso che Dio sa-rebbe un saggio – ma perché danno alla Sapienza una configurazione, una personificazione il cui significato è controverso. Questi testi hanno un’importanza teologica tale da richiamare la nostra attenzione.

8.1.1. Gb 28

Considerata da molti esegeti come un’aggiunta del IV o III sec., questa pagina si inserisce tra il dialogo dei tre amici con Giobbe (Gb 4–27) e l’apologia finale di quest’ultimo (Gb 29–31). Poema sapienziale di un afflato evidente, Gb 28 pone la questione radicale: «Ma la sa-pienza donde viene?» (Gb 28,12.20). Gli sforzi dell’uomo per scavare la terra e la roccia alla ricerca dei metalli non permettono di scoprirne la strada. Così pure la ricchezza non può servi-re da moneta di scambio per acquistarla. È che la Sapienza «è nascosta agli occhi di ogni vi-vente» (Gb 28,21). «Dio solo ne ha conosciuto la via» (Gb 28,23) quando organizzò l’universo; fu allora che egli la vide, la scrutò (Gb 28,27). Un ultimo versetto, probabilmente ancora più tardivo, aggiunge: «...Dicendo all’uomo: “Ecco, temere Dio, questa è sapienza”» (Gb 28,28). Così l’attività industriale o commerciale non conduce di per sé alla Sapienza. Di tutto ciò gli scambi tra Giobbe e i suoi amici non avevano detto nulla, eppure tutti i loro sforzi erano tesi a spiegare il perché della sofferenza di Giobbe. La loro ricerca di sapienza umana assomigliava in un certo modo allo sforzo industriale e commerciale, ma senza successo, poi-ché il mistero restava intatto: quello della sofferenza dell’uomo e quello della giustizia di Dio. Nella sua forma originale, il poema intendeva ricordare tanto al lettore quanto ai partecipanti ai dialoghi precedenti che l’uomo è incapace di risolvere da solo il problema sollevato. La so-luzione non è alla sua portata, resta di esclusivo dominio divino. Ma è qui che la Sapienza ac-quista rilievo, perché appare distinta da Dio e distinta dal mondo, ed è in funzione di essa che

6 Sulla sapienza personificata cfr. R.E. MURPHY, L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sa-

pienziale biblica, Brescia 1993, 171-191; M. GILBERT-J.N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo, Torino 1982; G. SEGALLA, Le figure mediatrici di Israele tra il III e il I secolo a.C. La storia di Israele tra guida sapienziale e attrazione escatologica, in G.L. PRATO (ed.), Israele alla ricerca di identità tra il III sec. a.C. e il I sec. d.C., in RStB (1989/1) 13-65.

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Dio ha fatto ordine nel mondo. Dobbiamo allora pensare che la Sapienza fosse intesa come un’astrazione dell’ordine cosmico, come il piano concepito da Dio e da lui messo in opera nell’organizzazione dell’universo? La cosa è ben possibile. Più tardi, tuttavia, l’ultimo verset-to orientò verso un atteggiamento complementare da parte dell’uomo: a quest’ultimo non re-sta che venerare Dio, senza conoscere altra sapienza, senza capire nulla oltre a questo. Il mi-stero di Dio e della Sapienza rimaneva intatto, ma l’uomo si sottomette attraverso una sapien-za più umile.

8.1.2. Pr 8–9

Pr 1–9 introduce, probabilmente dopo l’esilio, le raccolte di antichi proverbi. Per tre volte la Sapienza entra in scena. Come Pr 1,20-33, ma in modo positivo, Pr 8 fa parlare la Sapienza alle porte della città, là dove la gente si riunisce per gli affari o semplicemente per incontrarsi (Pr 8,1-3). Il suo discorso è teso a giustificare l’ascolto che essa richiede a tutti. Innanzitutto ciò che ha da dire darà loro la chiave del discernimento e del ‘saper fare’, perché essa è porta-trice della verità e della giustizia; esalta dunque le qualità del proprio messaggio, senza tut-tavia esplicitarlo (Pr 8,4-11). D’altra parte è la Sapienza che assicura l’armonia nelle relazioni umane, accordando ai responsabili di governare saggiamente (Pr 8,12-21). Anche quando YHWH organizzò il cosmo, essa era accanto a lui come figlia primogenita, generata prima di ogni altra opera (Pr 8,22-31). Ecco perché la Sapienza rinnova l’invito a prestarle ascolto per poter conoscere la beatitudine e la vita (Pr 8,32-36). Come la dea egiziana Ma’at, la Sapienza assicura l’ordine nella società, senza di essa non ci sarebbe nemmeno l’ordine nel cosmo, essa è verità e giustizia. Ma, a differenza di Ma’at, la Sapienza non è dea: essa viene da YHWH, la sua felicità sta nel vivere alla presenza di lui, trova la sua delizia nello stare con gli uomini. Simboleggia l’ordine sociale, l’ordine cosmico e l’equilibrio personale di ciascuno. Tuttavia Pr 8 non fa che spiegare le ragioni fondamentali per cui la Sapienza domanda di essere ascol-tata. Infatti Pr 8 fa parte dell’introduzione a Pr 10–31: è lì, in quelle raccolte di proverbi, che si trova il contenuto del suo messaggio. Quindi Pr 8 lascia intendere che i proverbi riuniti nel-le raccolte provengono da lei e che accoglierli è accogliere lei stessa: è il primo tentativo che la Bibbia fa per spiegare perché Pr 10–31 sono, come noi diciamo, ispirati.

Pr 9,1-6 riprende, con l’immagine del banchetto, lo stesso messaggio. Avendo costruito il suo palazzo la Sapienza, come un re che inaugura il proprio regno, invita tutti, e soprattutto quelli che ne hanno bisogno, a partecipare alla festa preparata nel suo palazzo dalle sette co-lonne. Anche questa finale dell’introduzione alle sette raccolte di proverbi antichi vuol dire che è la Sapienza stessa ad avere in qualche modo costruito la raccolta di Pr. Tutti sono invi-tati a consumare questo cibo, questa sapienza tradizionale, a farla propria, per trovarvi la vita e la comprensione del reale.

8.1.3. Sir

Già nella prima pagina della sua opera Ben Sira, verso il 200 a.C., pone la Sapienza: «Tutta la sapienza viene dal Signore, e con lui rimane per sempre» (Sir 1,1). La sapienza umana vie-ne da Dio, di cui la Sapienza condivide l’esistenza. Questa Sapienza di Dio è sua creatura (Sir 1,4); lui, «il solo sapiente» (Sir 1,6[8]; cfr. Rm 16,27), «l’ha riversata in tutte le sue opere, su ogni carne » (Sir 1,7-8[9-10] che completa Gb 28,27 attraverso Gl 3,1). La Sapienza non è al-la portata degli sforzi dell’uomo (Sir 1,5[6]), è dono di Dio che «l’ha dispensata a quanti lo amano» (Sir 1,8[10]). In 4,11-19 Ben Sira sottolinea il ruolo educatore della Sapienza; questa, secondo il testo ebraico, tiene addirittura un discorso: farà passare il discepolo attraverso la prova, ma, così dice, «chi mi presta orecchio fisserà la sua dimora all’interno del mio padi-glione » (Sir 4,15). Sir 6,24-31 riprende il tema dell’educazione: il discepolo si sottometta al giogo della Sapienza o, meglio, la insegua come si caccia la selvaggina: «Una volta afferrata, non la abbandonare. Alla fine otterrai il suo riposo, si muterà per te in godimento» (Sir 6,27-28): Ben Sira parla dunque di rapporti di amore tra la Sapienza e il discepolo. Ma Sir 15,1 dà

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la chiave di lettura che Sir 24 svilupperà: «Chi prende in mano la tôrah, raggiunge la Sapien-za». Infatti Sir 24, di cui manca il testo ebraico, propone un grande discorso della Sapienza, pronunciato probabilmente durante un’assemblea liturgica. La Sapienza ricorda che, uscita dalla bocca di Dio come sua parola creatrice e regnante su tutto l’universo, ha cercato dove stabilirsi. Il Signore le ha detto di stabilirsi in Giacobbe. A partire dal tempio di Sion essa si è progressivamente sviluppata, come un albero di vita, fino a coprire tutta la terra santa; ha messo rami, dato fiori e profumo ed infine invita i suoi ascoltatori a gustare i suoi frutti.

Ben Sira dà immediatamente la chiave di questo discorso: «Tutto ciò... è la legge» (Sir 24,23), cioè la rivelazione, più che i codici di leggi o lo stesso Pentateuco. Questa rivelazione di Dio è stata fatta ad Israele, al suo interno si è sviluppata ed ogni figlio d’Israele deve nutrir-sene, secondo l’invito di Dt 8,3 a nutrirsi della parola di Dio. In questo caso, più che in Pr 9,1-6, è tutto il patrimonio religioso e spirituale, che Israele ha ricevuto da Dio, ad essere visto come Sapienza venuta da Dio (cfr. Dt 4,6; Esd 7,14.25).

8.1.4. Bar 3,9–4,4

Un’esortazione rivolta alla diaspora giudaica e di poco posteriore a Ben Sira riprende in-sieme i temi di Gb 28 e di Sir 24: la via della Sapienza è sconosciuta all’uomo, solo Dio può rivelargliela. L’esortazione (3,9-14; 4,2-4) inquadra una domanda e la sua risposta. La do-manda riprende quella di Gb 28: «Chi ha scoperto il suo luogo [della Sapienza]?» (Bar 3,15). La risposta è dapprima negativa (Bar 3,16-31): né i potenti né gli artisti né i loro discendenti né i saggi del Vicino Oriente pagano e nemmeno i giganti antidiluviani hanno conosciuto la via che conduce alla Sapienza. Viene quindi la risposta positiva: Dio solo, Signore supremo del cosmo, l’ha conosciuta e l’ha anche indicata ad Israele (Bar 3,31-38). L’autore chiude la sua risposta, come Sir 24,23, fornendo la chiave: la Sapienza è la tôrah, rivelata ad Israele.

8.1.5. Sap 6–9

Rileggendo 1Re 3,4-15, il racconto della preghiera di Salomone a Gabaon, l’autore, sulla soglia dell’era cristiana, inquadra la sua riflessione sulla Sapienza (Sap 7,22–8,1) con una e-vocazione della figura di Salomone idealizzata al punto da poter essere identificata con ogni giovane lettore in ricerca della Sapienza: essa non può essere ottenuta da Dio che con la pre-ghiera (Sap 7,7; 8,21; 9). Questo comporta che la si preferisca a tutti i beni (Sap 7,8-10) e la si ami come un uomo ama la propria moglie (Sap 8,2-18), e sarà essa a colmare il saggio di tutti i beni di cui è madre (Sap 7,11-12.21; 8,5-6). L’autore chiarisce tre aspetti della Sapienza: la sua natura è di una purezza tale da penetrare ogni cosa fino al più profondo, in vista del bene (Sap 7,22-24); la sua origine è in Dio di cui è l’esaltazione, l’effluvio, l’irradiazione, lo spec-chio, l’immagine, e questo indica quanto la Sapienza dipenda da Dio da cui è inseparabile (Sap 7,25-26); la sua attività è tanto di ordine cosmico quanto di ordine morale e spirituale: essa governa l’universo in maniera benevola animandolo con la sua presenza e forma i santi (Sap 7,27–8,1). Un messaggio del genere va oltre i testi precedenti, completandone il senso. La Sapienza non è più inaccessibile, poiché la preghiera permette di ottenerla; non è più solo la tôrah, la rivelazione storica, ma è vista come una presenza interiore al cuore di chi l’accoglie; non è una semplice immagine dell’ordine del mondo, dal momento che l’autore, riferendosi ad una dottrina degli stoici, vede in essa la presenza stessa di Dio nel mondo.

8.2. INTERPRETAZIONE

In questi testi, soprattutto Pr 8–9; Sir 24; Sap 7–8, la Sapienza appare personificata. Come intendere questa personificazione? Il problema fondamentale è quello del rapporto di Dio con il mondo e gli uomini. Può la fede d’Israele concepire degli esseri intermediari? Parlando del Lógos, Filone lo pensava. Possiamo anche noi fare della Sapienza un intermediario o addirit-tura una persona? Attualmente sono sempre più rari gli autori che propendono per questa so-

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luzione. Ugualmente non convince più la soluzione che fa della Sapienza un’ipostasi, perché in un modo o in un altro un’ipostasi esige rispetto a Dio un’autonomia che i nostri testi non accordano alla Sapienza. Altri hanno preferito parlare di personificazione poetica di un attri-buto o di una virtù di Dio. Ma i nostri testi dicono di più, perché la Sapienza è generata da Dio (Pr 8,22), è sua creatura (Sir 24,8-9), si distingue da lui ma non può esistere senza di lui né separata da lui (Sap 7,25-26). Il problema di fondo è di sapere come esprimere trascendenza e immanenza divina. La Sapienza esprime, soprattutto in Sap 7–9, questa immanenza o presen-za di Dio nel mondo e nelle anime dei giusti e, in quest’ultimo caso, non si è molto lontani dal concetto cristiano di grazia. Ma questa presenza divina dà anche al mondo la sua coerenza (Sap 1,7), il suo senso, il suo significato. È a questa idea che potremmo ricondurre il concetto di ordine del mondo, utilizzato a proposito di Pr 8,22-31, a meno di vedervi il progetto creato-re e anche salvatore di Dio, progetto considerato anteriore alla sua messa in opera. Dio si ren-de presente alla storia e particolarmente alla storia di Israele; e questa presenza noi la chia-miamo rivelazione, secondo il disegno originale di Dio. Così bisogna intendere, nel senso più pieno, il termine tôrah usato da Sir 24,23 e Bar 4,1.

9. GESÙ E LA SAPIENZA NEL NT

9.1. NEI VANGELI SINOTTICI

Abbiamo visto sopra che, nel suo insegnamento, Gesù si esprimeva spesso come i saggi. Ma alcuni testi del NT, a cominciare dai vangeli sinottici, vanno oltre, attribuendo a Gesù ciò che l’AT attribuisce alla Sapienza. Leggiamo in Mt 11,28-30: «Venite a me, voi tutti che siete affaticati e stanchi, ed io vi darò sollievo. Portate su di voi il mio giogo e imparate da me che sono mite ed umile di cuore e troverete ristoro per le vostre anime. Poiché il mio giogo è soa-ve e leggero è il mio peso». Gesù parla come il saggio di Sir 51,23-26: «Avvicinatevi a me, o ignoranti, fermatevi nella mia casa per istruirvi..., sottomettete il collo al suo giogo [della Sa-pienza]»; ma in Sir 6,24-25.28 la medesima immagine del giogo è più esplicitamente applica-ta all’insegnamento della Sapienza stessa: «Introduci i piedi nei suoi ceppi ed il collo nei suoi lacci. Abbassa le tue spalle per caricartela, non infastidirti per i suoi legami... Alla fine otterrai il suo riposo, si muterà per te in godimento ». In Mt 12,42 (e Lc 11,31) leggiamo: «La regina del sud risorgerà nel giudizio con questa generazione e la condannerà; poiché venne dall’estremità della terra ad ascoltare la sapienza di Salomone; eppure c’è qui qualcosa di più di Salomone». Ora, Salomone esprimeva una Sapienza ricevuta da Dio; possiamo dunque pensare che in Gesù si esprime una Sapienza più grande, la Sapienza stessa di Dio. Preveden-do la persecuzione dei suoi Gesù dice, secondo Mt 23,34: «Ecco che io mando a voi profeti, sapienti e scribi... », mentre Lc 11,49 scrive: «La Sapienza di Dio ha detto: “Manderò lo-ro...”». Per Mt, Gesù ha autorità sui saggi, mentre in Lc la Sapienza di Dio sembra essere Ge-sù stesso che, in conclusione, fa proprie le parole della Sapienza di Dio: «Sì, ve lo ripeto...» (Lc 11,51). In Mt 11,19 leggiamo infine: «Alla Sapienza è stata resa giustizia dalle sue opere»; ora queste opere della Sapienza sono probabilmente le «opere del Cristo» (Mt 11,2). Questi testi, che dipendono probabilmente dalla stessa fonte comune a Mt e Lc (la fonte Q), sono molto discussi. Non affermano in modo esplicito che Gesù è la Sapienza, lo suggeriscono so-lamente.

9.2. IN PAOLO

Sono da prendere in considerazione soprattutto due testi che nuovamente assimilano Gesù alla Sapienza dell’AT.

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9.2.1. 1Cor 1–3

Di fronte alle divisioni di una comunità avida di bei discorsi, Paolo proclama il Cristo cro-cifisso, scandalo per gli uni e follia per gli altri ma potenza di Dio e sapienza di Dio (1Cor 1,23-24); Dio infatti ha scelto ciò che è follia nel mondo per confondere i sapienti (1Cor 1,27). La Sapienza di Dio è di andare al contrario delle pretese umane: salvandoci per mezzo di un messia crocifisso, Dio ha manifestato la profondità della sua Sapienza. Paolo dunque non identifica Gesù con la Sapienza, ma vede nel mistero della croce la manifestazione della Sapienza di Dio: per i discepoli di Gesù, il Crocifisso diventa autentica Sapienza di Dio; la croce fa parte integrante della Sapienza salvifica di Dio (1Cor 1,30; 2,7).

9.2.2. Col 1,15-20

La prima parte di questo inno (1,15-18a) ricorre, per parlare del Cristo Gesù – il Figlio prediletto del Padre, che ci salva (Col 1,13) –, ad alcune espressioni che nell’AT sono attribui-te alla Sapienza: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (cfr. Sap 7,26; Eb 1,3); «primogenito» (cfr. Pr 8,22); «in lui sono stati creati tutti gli esseri» (cfr. Pr 3,19; 8,30-31 [TM]; Sal 104,24; Ger 10,12; Sap 7,21; 8,4-5; 9,2); «egli esiste prima di tutti» (cfr. Pr 8,22-25; Sir 1,4; 24,9; Sap 9,9); «tutti in lui hanno consistenza» (cfr. Sap 1,7).

9.3. IN GIOVANNI

Gv 1 propone una dottrina simile: «Il Verbo era in principio presso Dio. Tutto per mezzo di lui fu fatto e senza di lui non fu fatto assolutamente nulla di ciò che è stato fatto. In lui era la vita» (Gv 1,2-4). Anche i testi dell’AT (cfr. Pr 8,22ss; Sir 24,3.9; Sap 9,1-2) parlavano della preesistenza della Sapienza: ma ancora una volta non vi è nessuna identificazione esplicita tra Gesù e la Sapienza. Così pure il discorso sul pane di vita (Gv 6,26-58) può essere compreso correttamente solo alla luce dei testi che paragonano il discorso della Sapienza ad un banchet-to imbandito (Pr 9,1-6; Sir 24,19-21); questo vale soprattutto per Gv 6,35-50: il messaggio di Gesù viene dall’alto e nutre come la Sapienza, come la parola di Dio (Dt 8,3; Sap 16,26), e questo vale anche per Gv 4,13-14 (cfr. Sir 24,21); 7,37-38.

9.4. INTERPRETAZIONE

Perché questa discrezione del NT che mai identifica in modo esplicito Gesù con la Sapien-za, pur attribuendogli molto di quello che i testi dell’AT attribuivano alla Sapienza? La ragio-ne è probabilmente questa: Gesù supera infinitamente la Sapienza quale potevano conoscerla i saggi dell’AT; la rivelazione del NT è allo stesso tempo in continuità e in rottura con quella dell’AT; se il NT avesse semplicemente identificato Gesù con la Sapienza, avrebbe potuto mascherare la rottura.

È solo in epoca successiva al NT che Gesù sarà esplicitamente detto Sapienza di Dio. Que-sto titolo cristologico è rimasto lungo tutto il corso della storia cristiana. Citiamo alcuni dei testimoni più significativi: nel III sec. Origene, nel suo trattato Sui princìpi (I,2, PG 11, 130-145), sviluppa il suo discorso su Cristo fondandosi principalmente su Sap 7,25-26. Il beato Enrico Suso (1295-1366) redasse verso il 1335 il suo Libro della Sapienza eterna in cui medi-ta principalmente sulla croce di Cristo. Verso il 1700, Louis-Marie Grignon de Montfort scris-se un breve trattato su La Sapienza eterna, in cui, sulla base di quasi tutti i testi scritturistici che abbiamo ricordato, «spiega semplicemente ciò che è la Sapienza, prima della sua incarna-zione, durante l’incarnazione e dopo l’incarnazione e i mezzi per ottenerla e conservarla» (n. 7). La liturgia romana, fin dall’alto Medioevo, rilegge Pr 8,22ss e Sir 24,3-12 per le feste del-la Vergine Maria, ma è per vedere nella madre di Dio, inseparabile dal suo Figlio, non la Sa-pienza, bensì il luogo in cui la Sapienza si stabilì al momento della sua incarnazione.

D’altra parte, continuando il movimento già avviato esplicitamente da Sir 24,23 e Bar 4,1, il giudaismo riconosce nella tôrah la Sapienza di Dio. Il cristiano per parte sua proclama, nel-

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la fede, che Dio si è rivelato pienamente in Gesù, presenza di Dio tra gli uomini, Emmanuele, ed è per questo che Gesù è detto Sapienza di Dio7.

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA

CRENSHAW, J.L., Old Testament Wisdom. An Introduction, Atlanta 1981. Questo noto e prestigioso esperto della letteratura sapienziale biblica offre un’opera esem-

plare, suggestiva e matura. Dopo una prima parte dedicata al mondo della sapienza e alla tra-dizione sapienziale, egli affronta la presentazione dei libri sapienziali includendo anche i sal-mi didascalici. Due capitoli finali sull’eredità della sapienza, con eccellenti suggestioni, e sul-la letteratura sapienziale egiziana e mesopotamica concludono quest’ottimo lavoro.

CRENSHAW, J.L. (ed.), Studies in Ancient Israelite Wisdom, New York 1976. Si tratta di una compilazione con traduzione dei testi originariamente non in inglese dei

migliori articoli, a giudizio dell’editore, sulla sapienza pubblicati fino alla data di edizione. Apre il volume un eccellente prolegomenon, in cui il curatore presenta un compendio molto ben elaborato dei contenuti della tradizione sapienziale biblica. L’opera comprende ventisette articoli firmati, tra gli altri, da Alonso Schökel, Alt, Crenshaw, Di Lella, Fohrer, Gordis, Murphy, Skehan, Terrien, von Rad, Whybray, Zimmerli, ecc.

DUESBERG, H. – FRANSEN, I., Les scribes inspirés, Paris 21966. È un lavoro eccellente divenuto meritatamente un classico. Opera completa ed erudita, pre-

senta un esame approfondito della letteratura sapienziale d’Israele, cui si aggiunge una espo-sizione della sapienza d’Egitto e della Mesopotamia, oltre a due capitoli finali sul «pessimi-smo ispirato» e «i misteri salvifici della sapienza». L’opera conserva la propria grande utilità malgrado la farraginosità degli autori e alcune opinioni datate.

GAMMIE, J.G. – PERDUE, L.G. (edd.), The Sage in Israel and the Ancient Near East, Winona Lake 1990.

Il libro è un’ampia opera collettiva alla quale hanno contribuito i migliori specialisti statu-nitensi in letteratura sapienziale. Consta di sei parti: 1. il sapiente nella letteratura del Vicino Oriente Antico (sei contributi); 2. sedi sociali e funzioni dei sapienti (nove contributi); 3. il sapiente nella letteratura sapienziale della Bibbia ebraica (sei contributi); 4. il sapiente in altri testi biblici (quattro contributi); 5. il sapiente tra l’epoca precedente la chiusura del canone e-braico e il periodo postbiblico (otto contributi); 6. l’universo simbolico del sapiente (tre con-tributi). Una ricca bibliografia e quattro ampi indici chiudono quest’opera indispensabile.

GESE, H., Lehre und Wirklichkeit in der alten Weisheit, Tübingen 1958. Nella prima parte del libro, già divenuto un classico, intitolata «L’insegnamento sapienzia-

le come tentativo d’interpretazione del mondo come ordine», l’autore mette a confronto la dottrina della maat degli insegnamenti egiziani con la percezione del mondo come ordine e-spressa particolarmente dai Proverbi. La seconda parte è dedicata al libro di Giobbe, del quale l’autore cerca di dedurre il genere d’appartenenza e lo scopo sulla base di un’analisi dell’ana-loga letteratura sumero-accadica.

7 Una sintesi teologica delle tradizioni sapienziali in G. VON RAD, La sapienza in Israele, Torino 1975. Sintesi

più recenti: J.L. CRENSHAW, In Search of Divine Presente: Some Remarks Preliminaıy to a Theology of Wisdom, in Review and Expositor 74 (1977) 353-369 e soprattutto M. GILBERT, Qu’en est-il de la sagesse? ?, in J. TRUBLET (ed.), La sagesse biblique de l’Ancien au Nouveau Testament, Paris 1995, 19-60; cfr. anche R.E. MURPHY, L’albero della vita, 145-170; F. FESTORAZZI, Riflessione sapienziale (antropologia ed escarologia), in Dizionario Teologico Interdisciplinare, 3, Torino 1977, 88-102 e L. MAZZINGHI, Sapienza, in G. BARBAGLIO - G. BOF - S. DIANICH (edd.), Teologia (Dizionari San Paolo), Cinisello Balsamo (MI) 2002, 1473-1491.

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MURPHY, R.E., Wisdom Literature (FOTL 13), Grand Rapids 1981. È il volume XIII, primo in ordine di pubblicazione, della prestigiosa collana «The Forms of

the Old Testament Literature» edita a cura di R. Knierim e G.M. Tucker. Purtroppo, ma in os-sequio al canone protestante, l’opera non comprende il Siracide e la Sapienza; in compenso sono presenti Rut, Ester e il Cantico (!). La presentazione dei diversi libri biblici segue gene-ralmente uno stesso schema: 1. il libro in sé (struttura, genere, ambiente vitale, intenzione); 2. singole unità, in cui vengono esposte le caratteristiche di ciascuna pericope (struttura, genere, ambiente vitale e intenzione). Non si tratta quindi di un commento ma di uno studio stretta-mente formale.

PREUSS, H.D., Einführung in die alttestamentliche Weisheitsliteratur, Stuttgart 1987. È un’introduzione molto aggiornata alla letteratura sapienziale. Alla presentazione tradi-

zionale dei cinque libri sapienziali Preuss aggiunge due capitoli su «il pensiero sapienziale al di fuori della letteratura sapienziale» e «ruolo teologico della letteratura sapienziale dell’Antico Testamento».

SHEPPARD, G.T., Wisdom as a Hermeneutical Construct (BZAW 151), Berlin-New York 1980. Tenendo conto dell’indubbio influsso esercitato dalla sapienza sull’intero corpus della

Scrittura, l’autore si propone di esaminare la funzione letteraria e teologica della sapienza nel periodo esilico e postesilico. Partendo dall’analisi del materiale sapienziale canonico ed extra-canonico, egli giunge alla conclusione che nel processo di «redazione canonica» di alcune parti dell’Antico Testamento si osserva un’interpretazione in senso sapienziale di tradizioni originariamente non sapienziali.

SCHMID, H.H., Wesen und Geschichte der Weisheit, Berlin 1966. Secondo quanto afferma nell’introduzione dell’opera, l’autore cerca di stemperare le accu-

se rivolte alla sapienza di essere «utilitaristica, eudemonistica, razionalistica, originariamente profana, solo tardivamente religiosa, astorica e atemporale» (p. 3). In vista di ciò si propone una ricerca suddivisa in tre parti: 1. Egitto: fonti, struttura fondamentale della sapienza egizia-na, storia della sapienza nel contesto della storia dell’Egitto; 2. Mesopotamia: fonti, storia del-la sapienza nel periodo sumerico, la sapienza del periodo accadico, la crisi della sapienza; 3. Israele: teologizzazione della sapienza, antropologizzazione della sapienza, elementi antichi presenti nella forma storico-sapienziale tarda della sapienza israelitica. L’opera si conclude con una cinquantina di pagine dedicate alle fonti sapienziali egiziane e mesopotamiche. Opera classica, imprescindibile.

VON RAD, G., La sapienza in Israele, Torino 1975 (1a rist. Genova 1990; 3a rist. 1995). È senza dubbio il miglior compendio tematico della sapienza israelitica composto finora.

L’autore non segue la presentazione convenzionale dei libri sapienziali – soltanto alla fine le dedica un capitolo – ma approfondisce lo studio della visione del mondo e dell’uomo dei sa-pienti d’Israele. La riflessione è profonda ed equilibrata. Von Rad ha assunto tutto lo spirito umanistico necessario per affrontare la riflessione umanistica dell’Antico Testamento.

WESTERMANN, C., Wurzeln der Weisheit. Die ältesten Sprüche Israels und anderer Völker, Göttingen 1990.

Come suggerisce il sottotitolo, l’opera è incentrata essenzialmente sul libro dei Proverbi. Westermann studia le forme proverbiali meramente espositive o dichiarative (Aussagesprü-che), le istruzioni imperative e i poemi, e infine il passaggio dal detto sapienziale (Weishei-tsspruch) al poema didascalico (Lehrgedicht). L’autore dedica un capitolo ai detti sapienziali attribuiti a Gesù e un altro al rapporto Dio-uomo nell’antica sapienza proverbiale. L’opera termina con un’appendice sulla letteratura proverbiale di Sumer, Egitto, di altri popoli africani e di Sumatra.

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WHYBRAY, R.N., The Intellectual Tradition in the Old Testament (BZAW 135), Berlin-New York 1974.

L’opera è essenzialmente uno studio sulla terminologia della sapienza nell’Antico Testa-mento, in particolare sui lessemi ˙ākām e ˙okmâ. L’autore intende raggiungere il nucleo es-senziale di ciò che intende l’Antico Testamento quando parla di «sapienti» e «sapienza». An-che se alcune sue conclusioni sono state duramente criticate, l’opera ha tracciato un solco im-portante per ulteriori approfondimenti più rigorosi sul piano metodologico. Bibliografia in italiano [a cura di L. MAZZINGHI, in Parole di Vita, 48/6 (2003) 43]

Anzitutto l’opera fondamentale già ricordata, di livello molto elevato, ma ancora davvero molto importante per la comprensione della letteratura sapienziale biblica, di G. VON RAD, La sapienza in Israele, il cui originale tedesco è del 1970, e più volte ristampato in Italia da Ma-rietti (TO) a partire dal 1975.

A un primo livello, di carattere divulgativo, ma allo stesso tempo serio e documentato, può essere utile leggere il testo di A. NICCACCI, La casa della sapienza. Voci e volti della sapienza biblica, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 1990, che insiste molto sul rapporto tra la sapien-za biblica e la sapienza dei popoli vicini. Utilissimo è il libro recente di M. GILBERT, La Sa-pienza del cielo. Proverbi, Giobbe, Qohèlet, Siracide, Sapienza, San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2005.

Utile è anche il libretto di M. GILBERT - J.-N. ALETTI, La sapienza e Gesù Cristo (Bibbia-oggi 21), Gribaudi, Torino 1987, con uno sguardo anche al Nuovo Testamento.

A un secondo livello, più impegnativo, segnalo prima di tutto la voce «Sapienza» curata da M. GILBERT nel Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1998, 1427-1442, oltre a due testi di studio, R.E. MURPHY, L’albero della vita. Una esplorazione della letteratura sapienziale biblica, Queriniana, Brescia 1993, talora un po’ pesante, e il più completo manuale curato da V. MORLA ASENSIO, Libri sapienziali ed altri scritti (Introduzio-ne allo studio della Bibbia 5), Paideia, Brescia 1997.

Una panoramica globale, di taglio teologico, sulla letteratura sapienziale biblica è conte-nuta nella voce curata da L. MAZZINGHI, «Sapienza», in G. BARBAGLIO - G. BOF - S. DIANICH

(edd.), Teologia (Dizionari San Paolo), San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2002, 1473-1491.

Per completare questo quadro, ricordo alcuni testi di taglio divulgativo e allo stesso tempo di carattere spirituale, che provano ad indicare alcune conseguenze per la vita dei credenti che scaturiscono dal metodo esperienziale proprio dei saggi di Israele; si tratta dell’opera di E. BEAUCAMP, I sapienti d’Israele o il problema dell’impegno, Paoline, Cinisello Balsamo (MI) 1991, e del libretto di G. DE CARLO, «Ti indico la via». La ricerca della sapienza come itinera-rio formativo, EDB, Bologna 2003.

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PROVERBI*

1. PRESENTAZIONE D’INSIEME

1.1. IL CONTESTO

Il lungo periodo dell’esilio in Babilonia, nel VI secolo a.C., per i deportati di Gerusalemme e di Giuda era stato il tempo della presa di coscienza e della conversione. Li accompagnavano sul difficile cammino i sacerdoti e i profeti. Fra questi c’erano Ezechiele e il secondo Isaia. Dopo che nel 538 Ciro aveva autorizzato il ritorno al loro paese, la comunità, progressiva-mente rimpatriata, si mise a salvare dalla rovina tutto quel che ancora era possibile. Si comin-ciò così a recuperare, sistemandolo, tutto il patrimonio letterario e religioso ricevuto dagli avi. Fu in quell’epoca che assunse la sua forma definitiva il Pentateuco, la Legge mosaica, cosid-detta poiché Mosè ne è la figura dominante. Lo stesso si fece con i profeti, finalmente ricono-sciuti come tali e accettati, i cui scritti, raccolti e riletti, vennero posti sotto il nome d’ognuno. Fra i re, di cui una narrazione ricordava fatti e gesta (1Sam – 2Re), l’attenzione si concentrò soprattutto su Davide e Salomone. Il nome del primo venne unito ai Salmi, mentre sotto il nome del secondo, il sapiente per eccellenza, secondo la narrazione di 1Re 3, si mise l’insie-me della sapienza che fu possibile recuperare e organizzare; fu così che venne costituito il li-bro dei Proverbi, che ebbe per titolo: «Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d’Israele» (Pr 1,1).

1.2. LA STRUTTURA DEL LIBRO

Dopo una lunga introduzione (Pr 1–9), composta per l’occasione, furono inserite sette col-lezioni di proverbi; a mo’ di conclusione, si pose il ritratto della «donna forte» (Pr 31,10-31), anch’esso tracciato dai redattori nel tempo dopo l’esilio.

La differenza di stile fra le sette collezioni e la loro cornice (introduzione e conclusione) salta agli occhi. La cornice, su cui torneremo, è fatta di lunghi testi, mentre le sette collezioni raccolgono il più delle volte semplici proverbi o detti sapienziali, appena un poco elaborati. Ecco la lista delle sette collezioni:

«Proverbi di Salomone» (Pr 10,1–22,16), «Parole di sapienti» (Pr 22,17–24,22), «Anche queste sono parole dei sapienti» (Pr 24,23-34), «Ecco ancora dei proverbi di Salomone, trascritti dagli uomini di Ezechia, re di Giuda» (Pr 25–29), «Parole di Agùr, figlio di Jakè, da Massa...» (Pr 30,1-14), una collezione senza titolo di proverbi numerici (Pr 30,15-33), «Parole di Lemuèl, re di Massa, che gli insegnò sua madre» (Pr 31,1-9).

Questa lista permette molte osservazioni. Sei collezioni hanno un titolo, messo in testa. Soltanto quella dei proverbi numerici non ha titolo, ma anche l’antica versione greca dei Set-tanta, che la colloca in altro punto, ne rivendica l’autonomia. Il fatto di maggiore importanza è il rilievo che vien dato ai proverbi attribuiti direttamente o indirettamente a Salomone. Essi costituiscono l’intelaiatura di tutto l’insieme, sia per l’ampiezza delle due collezioni – pren-dono i tre quarti del totale – sia per il posto attribuito alla prima, la più lunga, che così giusti-fica il titolo del libro. Viene anche precisato che la seconda collezione salomonica aveva già ricevuto una sistemazione prima dell’esilio, ai tempi del re Ezechia (716-687). Quanto alle collezioni minori, le prime due vengono dai sapienti, mentre le due ultime che hanno un titolo non sono d’origine israelitica: i loro autori, Agùr e Lemuèl, erano d’una tribù del nord dell’ Arabia; inserendole, la Bibbia accoglieva una sapienza straniera. Infine, tutte le collezioni mi-

* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello Balsamo 2005, 17-58.

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Proverbi 23

nori presentano dei testi più elaborati del semplice proverbio, che invece perlopiù ricorre, in forma di distico, nelle due collezioni salomoniche.

1.3. IL RUOLO DI SALOMONE

Nella leggendaria narrazione della vita di Salomone si legge questo passo: «Egli parlò del-le piante, dal cedro che sta in Libano all’issopo che cresce sui muri; parlò anche dei quadru-pedi, degli uccelli, dei rettili e dei pesci» (1Re 5,13). Cosa significa? Secondo la Bibbia, è a Davide che le dodici tribù d’Israele debbono la loro costituzione in un solo Stato. Davide il valoroso, figura affascinante, più conquistatore che amministratore. Fu al suo figlio e succes-sore Salomone che toccò invece il compito d’organizzarlo, quello Stato, di creare un’ammini-strazione, stabilire delle relazioni internazionali e costruire il tempio. Ciò che Davide creò e inaugurò, Salomone consolidò, e la pace assecondò i suoi piani. Si può anche ritenere che sia stato lui a fare un primo inventario di ciò che il nuovo Stato, una volta affermatosi, aveva a disposizione. Ma allora il passo che abbiamo citato diventa chiaro: Salomone fece censire tut-ta la flora e la fauna del paese. Progetto probabilmente utilitaristico, ma che fu anche, alla maniera di quei prospetti sempre in uso ai nostri giorni che descrivono tutti i fiori o tutti i fun-ghi delle nostre regioni, un tentativo di catalogazione. Le grandi civiltà confinanti, in Egitto e in Mesopotamia, facevano simili rilevamenti, che erano scienza bella e buona, ma con i quali si prendeva pure conoscenza dell’ambiente naturale. E sarebbe anche abbastanza normale che non sia stato proprio Salomone a farli direttamente, ma ne abbia incaricato l’amministrazione, composta di persone competenti da lui nominate.

Peraltro, la narrazione della venuta a Gerusalemme della regina di Saba (1Re 10,1-13) deve riferirsi a un qualche accordo, concluso fra lei e Salomone, di autorizzazione al passaggio di carovane. Ebbene, le relazioni internazionali suppongono, in coloro che le stabiliscono e le praticano, una cultura aperta agli altri. Non possiamo immaginarci che il piccolo Stato ebraico potesse sopravvivere in mezzo a grandi nazioni dalle civiltà già multisecolari senza che a Ge-rusalemme qualcuno non si preoccupasse di ricavare tutto il beneficio che si poteva dalle cul-ture dominanti dell’epoca. Se così non fosse stato, un’amministrazione centrale sarebbe stata destinata al fallimento nei suoi rapporti con i potenti vicini. Anche se la Bibbia non lo dice, alla corte di Gerusalemme dovevano esserci persone che conoscevano le lingue e le culture dei vicini. Per metterla sul ridere, quale lingua usò Salomone per chiacchierare con la regina di Saba o la propria affascinante moglie, figlia del faraone? Ebbene, da secoli una gran parte delle culture del Vicino Oriente Antico era di tipo sapienziale. E anche sotto quest’aspetto – proprio come oggi si tenta, e con successo, di farlo in Africa, prima che sia troppo tardi e il patrimonio autoctono sparisca sotto la pressione della cultura moderna –, la corte di Gerusa-lemme dovette preoccuparsi di salvaguardare, mettendola per scritto, nero su bianco, quella sapienza, fino a quel momento solamente popolare e orale, come fra tutti i popoli. Anche la sapienza d’Israele andava inserita nel concerto delle altre sapienze medio-orientali fiorenti da tempo. Che sia stato Salomone l’ideatore di quel processo, è quel che la Bibbia suggerisce, appunto mettendo sotto il suo nome due raccolte di proverbi e anche dichiarando che pronun-ciò tremila proverbi (1Re 5,12).

Ma «si presta soltanto ai ricchi», dice un nostro proverbio. E anche supponendo che Salo-mone sia veramente stato, storicamente parlando, all’origine delle raccolte a lui attribuite, è ragionevole pensare che la raccolta materiale dei proverbi sia stata fatta, per suo ordine, da persone della sua corte, come più tardi avverrà sotto Ezechia (Pr 25,1): questo re avrebbe fat-to raccogliere il patrimonio sapienziale portato a Gerusalemme dagli scampati della città di Samaria, distrutta nel 722 dagli Assiri. In ogni caso, la raccolta si fece, possiamo supporre, in tutti gli ambienti in cui la sapienza proverbiale veniva trasmessa, cioè prima di tutto nelle fa-miglie, ma anche in campagna e nelle città e alla corte. Una volta fatta la raccolta, bisognava ancora metterla in bella forma, e un simile lavoro suppone gente del mestiere, i sapienti ap-punto. Il tutto, a servizio della volontà regale.

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Eppure, se la narrazione biblica della vita di Salomone è più leggendaria che storica, pos-siamo chiederci fino a che punto abbiamo il diritto d’attribuire a Salomone la paternità del progetto. In ogni caso è chiaro che furono i sapienti dell’epoca posteriore all’esilio a dare al libro dei Proverbi, e quindi anche alle raccolte cosiddette salomoniche che esso trasmette, la forma definitiva che conosciamo oggi. Lo fecero utilizzando raccolte più antiche, alcune delle quali potevano risalire anche all’inizio dell’epoca dei re? Chi potrà mai provarlo? Sulla que-stione, gli esegeti sono divisi.

Resta il fatto che la superiore sapienza di Salomone è rimasta nella tradizione. La Bibbia ebraica gli attribuisce anche il Cantico dei cantici; anche l’anonimo autore che si presenta come il Qohelet si farà passare per Salomone; e altrettanto farà, nella Bibbia greca dei Settan-ta, l’anonimo autore del libro della Sapienza.

1.4. DALL’ELABORAZIONE D’UN PROVERBIO ALLA RACCOLTA

Un proverbio ha sempre dietro di sé una lunga preistoria. Ogni proverbio è anonimo. Il nome di chi per primo lo formulò resta sconosciuto, e tuttavia i proverbi sono il bene comune d’ogni cultura. Ma prima d’arrivare a quel punto, ci dovette essere una persona d’acuto spirito d’osservazione. Il legame tra un fatto e un altro o la loro concomitanza o analogia deve aver calamitato l’attenzione d’un osservatore sagace. Una volta risvegliata la curiosità, l’osserva-tore avrà poi voluto accertarsi della solidità del rapporto intuito, un rapporto che poteva avere per esempio la validità che c’è fra causa ed effetto. Solamente la ripetuta osservazione in me-desime circostanze poteva confermare l’osservatore e dare all’intuito rapporto la solidità d’un principio. Da quel momento esso potrà perciò applicarsi ad altre situazioni in cui si osserverà sia il primo fatto che il secondo e collegarli fra loro.

Ancora oggi, qualsiasi ricerca scientifica procede alla stessa maniera. Ma quanti presuppo-sti, per una simile impresa! Dal punto di vista dell’osservatore, più che curiosità e pazienza ci vuole fiducia nell’intelligenza umana. Dalla molteplicità di osservazioni simili, questa può trarre un principio generale che le governa. Ma ciò suppone anche l’implicita convinzione, al-trettanto salda, che non tutto nel mondo è disordine e caos, ma che il mondo si mantiene, in una sua coerenza, in ordine. Il principio generale che spiega molteplici osservazioni simili non è che una parziale messa in luce di quell’ordine. Se nel mondo non ci fosse ordine, nessuna affermazione di carattere generale si potrebbe fare. Ogni scienza implica questa medesima convinzione che un ordine c’è, nel mondo, e che l’intelligenza umana può conoscerlo.

Ma una volta conosciuto il principio che governa una molteplicità di fatti simili, bisogna ancora formularlo. Nel nostro caso, si tratta cioè di tradurre quel che è stato scoperto in una formula chiara e che colpisca l’immaginazione. E tutto si deve dire in maniera che il principio scoperto si possa utilizzare in future situazioni identiche, e nello stesso tempo esprimerlo il più sobriamente possibile – i proverbi eliminano tutte le parole inutili – e anche in maniera che suoni bene all’orecchio: perché il proverbio prima si dice, poi si ripete e si capisce. Qui è l’arte a contare; è la condizione perché il proverbio si diffonda in una cultura e si trasmetta. In effetti, un proverbio si ripete perché esprime in maniera gradevole, condensata e spesso cau-stica una verità universale.

Alla base di questa tappa c’è, nel sapiente, la certezza che ogni intelligenza umana può trar profitto e perfino gustare il frutto del travaglio della sua intelligenza. In questa sua certezza egli rimarca la fiducia che ha nell’intelligenza d’ognuno, e con ciò stesso afferma l’uni-versalità della capacità presente in ogni uomo di conoscere delle verità.

E ciò fino al giorno in cui, passando dall’oralità alla scrittura, la codificazione di proverbi in una collezione ne assicurerà la trasmissione da una generazione all’altra per una via più si-cura. E tuttavia, questo passaggio modifica il ruolo del proverbio. Perché, fino a quando lo si usava oralmente, si poteva farlo soltanto al momento giusto, in una situazione in cui doveva produrre effetto, per aiutare a prendere una decisione corretta. Ricordo quanto fui colpito il giorno in cui, durante un consiglio di famiglia per risolvere una drammatica situazione, mia

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madre, che perlopiù interveniva ben poco, si limitò semplicemente a citare questo proverbio: «Pena di denaro non uccide», e quello ci aiutò ad affrontare con maggiore serenità il proble-ma. Dei casi così son rari, in Occidente, ma essi fanno ben intuire tutta la potenza d’un pro-verbio, maturo frutto d’una tradizione, nel dirimere questo o quel caso concreto. Ma quando i proverbi vengono riuniti in collezioni scritte, soprattutto poi quando le collezioni sono anti-che, essi perdono ogni contatto con il contesto in cui avevano un senso immediato per diven-tare letteratura. Questa terza tappa è quella del nostro libro dei Proverbi. Possiamo ben coglie-re tutta la differenza mettendo a confronto le collezioni di questo libro con il proverbio «I pa-dri mangiarono uva acerba e i denti dei figli si allegarono» che Geremia (Ger 31,29) ed Eze-chiele (Ez 18,2) commentarono in precise situazioni concrete.

Altri problemi li pone l’organizzazione letteraria dei proverbi. Si può infatti riunirli se-guendo ad esempio l’ordine alfabetico della prima parola – come capita per certe raccolte di proverbi africani –, magari poi allegando in appendice un indice tematico. Si può anche orga-nizzarli dall’inizio per temi. Le collezioni del libro dei Proverbi, che danno l’impressione d’averli giustapposti senza criteri, potrebbero in realtà averli disposti secondo un ordine ben più preciso di quanto si pensi. In tal caso, è possibile che quella sistemazione abbia avuto un fine pedagogico: sistemati in sequenza, i proverbi avrebbero formulato, in forza del loro acco-stamento, un insegnamento che nessuno d’essi conteneva da solo nelle tappe precedenti. Rac-colti per scritto e organizzati in piccoli gruppi, i proverbi potevano da quel momento servire all’educazione e alla formazione.

1.4.1. Un esempio: Pr 10,28–11,7

Da una decina d’anni, alcuni esegeti si son dati a studiare l’organizzazione dei proverbi della prima collezione salomonica. Già si sapeva che essa è fatta di due parti: Pr 10–15 e Pr 16,1–22,16. È sulla prima di queste parti che si è concentrata l’attenzione. Ecco per esempio come Ruth Scoralick1 divide Pr 10–15 in cinque sezioni, che cominciano rispettivamente in Pr 10,1; 11,8; 12,14; 13,14 e 14,28. In una ricerca del genere non si deve certo far conto della numerazione dei capitoli, che risale al Medioevo, o dei versetti, che è del XVI secolo e non ha uno scopo scientifico migliore che quello del vostro numero di telefono; questa ripartizione è un puro espediente per rintracciare i vari passi. Nel suo minuzioso studio, Ruth Scoralick si basa soprattutto sulle riprese di versetti in punti del testo lontani fra loro e su altri indizi lette-rari. Ella addirittura divide quella che per lei è la prima sezione in altre cinque sotto-sezioni, che cominciano rispettivamente ai versetti 1.6.13.22.28 di Pr 10. Lì in effetti c’è una ripresa di Pr 10,2b e Pr 11,4b: «ma la giustizia fa scampare alla morte»; il fatto poi che tre parole chiave si trovino sia in Pr 10,28 che in Pr 11,7 giustifica l’opzione di chiudere la prima sezio-ne a Pr 11,7:

«L’attesa dei giusti non è che gioia, la speranza dei cattivi perirà» (Pr 10,28).

«La speranza del cattivo perisce con la sua morte, l’aspettativa delle ricchezze è annientata» (Pr 11,7).

Questi due versetti formano un’inclusione che mette in rilievo la conclusione della sezione che comincia con Pr 10,1: essa è tutta incentrata sulla fallace fiducia che il cattivo ripone nel-la ricchezza e nel potere, oggetti di cupidigia, a costo anche di menzogna e inganno. È l’antitesi di quanto affermava il doppione di Pr 10,2b e Pr 11,4b.

1 Einzelspruch und Sammlung. Komposition im Buch der Sprichwörter Kapitel 10–15 (Beihefte zur Zeit-

schrift für die alttestamentliche Wissenschaft 232), Berlin-New York 1995.

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Su questa base, di cui qui riportiamo soltanto l’essenziale, Hans Winfried Jüngling2 analiz-zò, nel 1999, la struttura interna di quella conclusione. Egli ci vede due piccoli insiemi: Pr 10,29-32 e Pr 11,1-6. Ciascuno comincia con un proverbio che cita il nome di YHWH:

«La via di YHWH è un bastione, per l’uomo integro; per i malfattori è una rovina» (Pr 10,29).

«Abominio, per YHWH, la bilancia falsa, ma il peso giusto gli piace» (Pr 11,1).

Il primo insieme continua con tre proverbi sul giusto:

«Mai il giusto vacillerà, ma i malvagi non abiteranno la terra. La bocca del giusto dice la sapienza, la lingua del malvagio verrà estirpata. Le labbra del giusto conoscono la benevolenza, la bocca dei malvagi, la perversità» (Pr 10,30-32).

Il secondo insieme riprende dapprima i due temi dell’integrità (Pr 10,29) e della sapienza (Pr 10,31):

«Compaia l’insolenza, verrà il disonore; ma negli umili si trova la sapienza. La loro integrità guida gli uomini retti; la loro perversità porta i traditori alla rovina» (Pr 11,2-3).

Seguono allora tre proverbi sulla giustizia e non più, come nel primo insieme, sui giusti:

«Nel giorno del furore la ricchezza sarà inutile, ma la giustizia fa scampare alla morte. La giustizia dell’uomo integro gli spiana la via, il malvagio soccombe nella sua malvagità. La loro giustizia salva gli uomini retti, i traditori cadono per la loro cupidigia» (Pr 11,4-6).

Lasciamo al lettore di continuare le sue osservazioni sui vari proverbi che riprendono il tema principale di tutta la sezione. A me pare che questa proposta di lettura, di cui abbiamo presentato soltanto l’argomentazione fondamentale, sia abbastanza convincente. Quanto alla datazione di questi proverbi, il conflitto fra giusti e malvagi è di tutti i tempi, anche quelli dei re dell’antico Israele! Gli esegeti dovranno ancora continuare a indagare, dato che fin qui non c’è proprio nessun vero accordo su questi raggruppamenti in sezioni significative. L’esempio qui riportato ha semplicemente cercato di mostrare cosa potrebbe venirne, da simili ricerche.

1.5. GLI ARGOMENTI AFFRONTATI

I sapienti del libro dei Proverbi non si occuparono di scienza naturale. Quando capita loro d’accennare a fenomeni atmosferici o del mondo animale, è a titolo di contesto o di confronto. Al centro delle loro riflessioni e delle loro indagini c’è l’uomo, in se stesso e in tutte le sue re-lazioni, compresa quella con Dio. Del cosmo e degli animali essi trattano per la loro somi-glianza e vicinanza con gli esseri umani. E anche questo significa affermare, una volta di più, la coerenza del mondo. «Non c’è nebbia d’estate, non c’è pioggia alla mietitura, e neppure si-tuazione onorevole per lo stupido. Il passero fugge via, la rondine s’invola; allo stesso modo, la maledizione gratuita non ha effetto» (Pr 26,1-2).

È soprattutto l’uomo a interessare i sapienti dei Proverbi. E soprattutto sulle sue relazioni si sono concentrati. A cominciare – ma quest’ordine non pretende d’essere quello della frequen-za né dell’importanza – dalle relazioni con l’autorità, in particolare il re (Pr 16,10-15; 25,2-7). Poi all’interno della famiglia, a riguardo della sposa e della severa educazione dei figli. La presenza dei poveri nella società e il contrasto della ricchezza: i sapienti costatano, ma sanno

2 «Proverbi e l’origine della tradizione sapienziale in Israele», in G. BELLIA - A. PASSARO (a cura di), Libro

dei Proverbi. Tradizione, redazione, teologia, Casale Monferrato 1999, 35-54.

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anche incoraggiare ad aiutare i miseri. Alcune categorie di persone vengono giudicate negati-vamente, come i pigri (Pr 26,13-16). Spesso i sapienti mettono in opposizione il sapiente e lo stupido, il secondo dei quali è ben poco affidabile, per mancanza d’educazione e d’auto-controllo; qui è spesso la parola a far da criterio: è una parola scervellata, oppure frutto di ri-flessione? Chi schernisce è ancora peggio, perché, sbraitando, si fa gioco di tutto: è imperme-abile a ogni sapienza. E ancora più marcato è lo scarto fra il sapiente o il giusto e il malvagio, prova che per questi maestri il comportamento morale rientrava nelle loro analisi, come ab-biamo visto a proposito di Pr 10,29–11,6.

Siccome lo scopo dei sapienti è mostrare le vie della felicità, della maturazione personale e del successo nella vita, essi tendevano – anche troppo – a vedere un rapporto di causa ed ef-fetto fra la buona educazione o la virtù e una buona riuscita nella vita. Nel suo Topaze, Marcel Pagnol mette in scena un maestro di scuola che insegna ai suoi giovani scolari: «I beni mala-mente acquisiti non danno profitto». È un proverbio che viene dal nostro libro biblico, preci-samente Pr 10,2. Un certo numero di noti episodi della nostra epoca tenderebbe a confermar-lo. E tuttavia, a prenderlo per un principio universale, le obiezioni di Giobbe hanno una certa pertinenza: vi sono persone che godono un lusso che si sono procurate con la fraudolenza. I sapienti si limitano sempre alla vita di quaggiù, dato che essi non hanno altra prospettiva d’un aldilà che vada oltre il cupo sheòl in cui scendono tutti i defunti. L’idea d’una retribuzione impregna i sapienti. È il rapporto di causa ed effetto. Ma in questo contesto d’acquisizione fraudolenta, l’effetto si mostrerà smentito da taluni fatti. A meno di dirci che le comunità u-mane dell’epoca erano il più delle volte di piccole dimensioni e l’anonimato delle nostre grandi città era allora ignoto. Come potrebbe accadere, in un contesto tanto diverso dal nostro, che colui il quale disonestamente si arricchisce non desti dei sospetti che finiranno per rovi-narlo?

Perché i sapienti non sono degli ingenui. Il loro sapere è limitato, e ammetterlo, per essi, è già un vero sapere. «Vedi un uomo che si prende per un sapiente? C’è più speranza per un in-sensato» (Pr 26,12). Uno dei proverbi numerici ammette i limiti del sapere dei sapienti (Pr 30,18-19). Anzi, di più ancora – alla maniera del nostro proverbio «L’uomo propone e Dio di-spone» –, essi affermano che fra il progetto dell’uomo e la sua effettiva realizzazione c’è un abisso d’imponderabili su cui l’uomo non ha alcuna presa, ed è qui che essi videro il ruolo di Dio, del Dio d’Israele nell’esercizio della sua sovranità universale. «All’uomo i progetti del cuore; da YHWH viene la risposta» (Pr 16,1). «Il cuore dell’uomo delibera la propria via, ma YHWH rende sicuri i suoi passi» (Pr 16,9). Queste osservazioni generali trovano a volte appli-cazioni concrete. Per esempio: «Una casa e dei beni sono eredità paterna, ma YHWH dà una donna di senno» (Pr 19,14): la propria felicità, l’uomo non la costruisce solamente su beni materiali che eredita, ma ancora meglio la costruisce nell’armonia coniugale; eppure, è sicuro che l’avrà, il giorno in cui si sceglie la sua sposa? Allo stesso modo, «si equipaggia il cavallo per il giorno della battaglia, ma a Dio appartiene la vittoria» (Pr 21,31): si ha un bel preparar-si, e anche seriamente, allo scontro, alla prova, l’esito resta sempre incerto: a chi toccherà la vittoria? È Dio a decidere. Qui una sapienza incredula avrebbe parlato di caso. Il sapiente bi-blico, invece, vede il suo Dio come il sovrano dei destini. A ben guardare, siamo noi i padroni delle nostre vite? Non è leale ammettere quanto esse sfuggano al nostro controllo? «YHWH di-rige i passi dell’uomo: come potrà l’uomo capire il suo destino?» (Pr 20,24). La distanza è ta-le, fra la nostra sapienza e l’azione di Dio nelle nostre vite, che è prudente ripetere il prover-bio: «Non c’è sapienza né intelligenza né consiglio che tenga di fronte a Dio» (Pr 21,30).

Insomma, i sapienti dei Proverbi non esitano a mettersi «di fronte a YHWH». Qual era il lo-ro atteggiamento religioso? Una prima serie di proverbi a questo riguardo compare nella pri-ma raccolta salomonica: in essi si dice ciò che per YHWH è abominio. Abominio è una parola ben forte. In Deuteronomio implica l’esclusione dalla comunità, ma soprattutto sottolinea la totale incompatibilità fra il Dio d’Israele e ogni forma di comportamento depravato. Il Dio d’Israele è chiamato con il suo nome, ma ciò non significa che i sapienti vedano in lui soltanto

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il Dio della storica rivelazione fatta a Israele. Niente rimanda esplicitamente a essa. La ragio-ne è che il Dio del loro popolo, agli occhi dei sapienti è anche il padrone assoluto dell’uni-verso, al quale niente sfugge di quel che c’è nel cuore dell’uomo. Ciò che per lui è abomine-vole sono l’orgoglio (Pr 16,5), i progetti e le macchinazioni perfide (Pr 11,20;15,26), la men-zogna (Pr 12,22), le bilance false (Pr 11,1; 20,23), l’offerta cultuale degli empi (Pr 15,8). L’atto morale, anche in quello che può avere di più intimo, non è dunque affatto separabile dal suo rapporto fondamentale con la religione.

Alcuni proverbi affermano che il modo di trattare il povero riguarda anche il suo Creatore: «Opprimere il povero è oltraggiare chi l’ha fatto; essere buono con l’infelice, invece l’onora» (Pr 14,31; vedi anche Pr 17,5; 19,17). Gesù sarà altrettanto chiaro: Mt 25,40.

Un’altra espressione dell’atteggiamento religioso si legge in tutto il libro dei Proverbi: il timore di Dio, eccetto nella seconda raccolta salomonica e nelle raccolte complementari di Pr 30,1–31,9. Ogni volta che l’espressione compare, potrebbe anche trattarsi di testi del tempo posteriore all’esilio, il che lascerebbe intendere che l’importanza del timore del Signore sa-rebbe una scoperta piuttosto recente dei sapienti. Ma che scoperta! Perché il timore del Signo-re pare essere proprio l’atteggiamento di fondo che l’uomo deve tenere dinanzi a Dio. Per ti-more non dobbiamo intendere paura, come se la differenza fra l’Antico Testamento e il Nuovo fosse che il primo teme il suo Dio, mentre il secondo l’ama. Questo genere d’opposizioni è malsano: non ha nessun serio fondamento. Del resto, vedremo che i sapienti d’Israele fanno procedere di pari passo timore e amore del Signore. Il timore del Signore è piuttosto simile al-lo stato che descriveva Ignazio di Loyola nel suo Diario spirituale dopo un momento di ten-sione intempestiva: «Dammi l’umiltà amante, e il rispetto e la venerazione». Forse è quest’ul-tima parola a esprimere al meglio il senso del timore del Signore: venerare qualcuno è un at-teggiamento di fondo nei suoi riguardi; implica il rispetto e l’umiltà, ma anche l’amore, e ciò farebbe sì che per niente al mondo io potrei fare qualcosa che dispiaccia o ferisca colui dal quale ammetto di ricevere o aver ricevuto così tanto. Il legame fra il timore di Dio e l’agire buono è in realtà indicato da questo o quel proverbio (Pr 15,33; 22,4). È il timore di Dio che spinge a evitare il male (Pr 16,6) e a camminare nella rettitudine (Pr 14,2): esso è alla base d’una retta condotta morale. È vero, è caparra di felicità e di benedizione (Pr 10,27; 14,26-27; 19,23; 22,4; 23,17-18), ma a chi ne vive, esso basta (Pr 15,16).

I sapienti avevano anche scoperto che c’è un rapporto fra la sapienza e il timore di Dio: «Il timore del Signore è una scuola di sapienza» (Pr 15,33). Il prologo del libro dei Proverbi fa ancora un passo in più, spiegando che «il timore del Signore è principio di sapere» (Pr 1,7), «inizio della sapienza» (Pr 9,10), il suo punto di partenza. Non si dà sapienza autentica, se l’uomo non si mette anzitutto nel timore del Signore, che altro non è se non «la conoscenza di Dio» (Pr 2,5), cioè il fatto di riconoscerlo per quel che è. Il rifiuto d’ogni forma di male nel nostro agire (Pr 1,29; 8,13) ne è la conseguenza. I sapienti avevano insomma preso coscienza che ogni vera sapienza non sarebbe possibile se non sulla base d’un radicale atteggiamento re-ligioso d’umiltà e di venerazione dinanzi al mistero divino. Atteggiamento di disponibilità, d’apertura e d’accoglienza, che rende l’uomo permeabile a ciò che sta più in alto di lui.

1.5.1. L’impatto delle sapienze straniere

Di per sé, ogni sapienza è universale, internazionale, e già abbiamo detto quanto la scoper-ta, nel XX secolo, delle sapienze del Vicino Oriente Antico abbia rinnovato lo studio dei libri sapienziali dell’Antico Testamento. Qui lo faremo vedere a proposito di Pr 22,17–23,14, dove le analogie con la sapienza egiziana di Amenemope vengono riconosciute da tutti. Se la Bib-bia può, senza dirlo esplicitamente, subire l’influenza d’una sapienza straniera, può anche pre-tendere di far propria l’una o l’altra. È il caso anche dei proverbi attribuiti ad Agùr (30,1-14) e a Lemuèl (31,1-9). Che son poi i passi di cui tratteremo adesso.

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1.5.1.1. Pr 22,17–23,14 e Amenemope

Il manoscritto della Sapienza di Amenemope era stato portato dall’Egitto al British Mu-seum nel 1888 da Ernest A. T. W. Budge, ma venne pubblicato soltanto nel 1923. L’anno se-guente Adolf Herman fece un elenco dei possibili accostamenti fra questo testo egiziano e Pr 22,17s. Gli esegeti furono a lungo divisi sulla priorità da attribuire all’uno o all’altro dei due testi. Alcuni pensavano che fosse stata la raccolta biblica a influenzare l’autore egiziano; fino al giorno in cui, negli anni ’80, si scoprì un frammento di Amenemope che risaliva probabil-mente al XII secolo a.C. Diventò allora evidente che non potevano essere stati i sapienti della Bibbia la fonte di quella Sapienza egiziana.

Quel frammento, ben conservato, si compone di trenta sezioni, o «capitoli», preceduti da un’introduzione e seguiti da un colophon. Il tutto è scritto in forma di poesia, su ventotto fogli d’una ventina di versi ciascuno. L’autore, Amenemope, figlio di uno scriba, era intendente dei possedimenti regali e incaricato, fra le altre cose, dei cereali e delle tasse. Il copista, che dice il suo nome, si chiamava Senu. Amenemope era pieno d’umanità. Mostra riserbo e autocon-trollo. Trattando delle relazioni interpersonali, invita all’onestà, ma anche alla generosità, all’indulgenza, mentre gli ripugna la violenza, e così pure la voglia d’arricchire.

Ebbene, alcuni passi della sapienza di Amenemope sono così simili a questo o quel prover-bio della prima raccolta dei sapienti del libro dei Proverbi da far pensare a un’influenza del testo egiziano su quello biblico. Ecco alcuni esempi.

Amenemope3 comincia il suo insegnamento con queste parole:

«Presta orecchio, ascolta questi consigli, applica il tuo cuore a capirli» (cap. 1, III, 9-10).

Pr 22,17 fa all’incirca lo stesso invito all’inizio della raccolta. Il rispetto del povero (Pr 22,22) viene raccomandato in un modo simile da Amenemope (cap. 2, IV, 4-5):

«Guàrdati dal rubare a un infelice e dall’irritarti con un debole».

Evitare l’irascibile (Pr 22,24) è anche un consiglio d’Amenemope (cap. 9, XI,13-14):

«Non fraternizzare con l’impulsivo; non fare conversazione con lui».

Due volte i Proverbi chiedono di non «spostare il vecchio confine» che segna la parte dei vari proprietari (Pr 22,28; 23,10). Lo stesso fa Amenemope (cap. 6, VII, 12-13; VIII, 9):

«Non spostare i confini al bordo dei campi e non cambiare la posizione dei recinti». «Guàrdati dal distruggere i confini dei campi!».

Pr 22,29 dice, d’un uomo che si presta, che egli entrerà al servizio del re. Amenemope conclude il suo insegnamento con questa osservazione (cap. 30, XXVII, 16-17):

«Lo scriba esperto nel suo mestiere è degno d’essere uomo di corte».

Pr 23,1-3 invita alla discrezione, quando si è a tavola con un grande personaggio. Amene-mope dà lo stesso consiglio (cap. 23, XXIII, 13-18):

«Non mangiare il pane in presenza d’un notabile e non portartelo alla bocca per primo. Se ti basta fingere di masticare, contèntati della tua saliva...».

Pr 23,4-5 sconsiglia di volersi arricchire, soprattutto in modo disonesto, e anche Amene-mope diceva lo stesso (cap. 7, IX, 14-19):

3 Alcuni testi di Amenemope si possono leggere in J. LEVÊQUE, Testi sapienziali dell’Antico Egitto, in L’Antico testamento e le culture del tempo, Roma 1990, 448-465.

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«Non stancarti per cercare l’abbondanza: quel che hai ti basti. Se le ricchezze ti giungono per furto, non passeranno la notte con te. Al levar del sole non saranno più in casa tua: si vede il loro posto, ma esse non ci son più; [...] come le oche si son fatte delle ali e in cielo si sono involate».

Questi accostamenti forse impressionano, però ognuna delle due sapienze mantiene le sue caratteristiche. Ma dobbiamo proprio intendere Pr 22,20 come un’allusione a questa sapienza egiziana di «trenta capitoli» (Amenemope, cap. 30, XII, 7)? Il nostro testo ebraico non è chia-ro, e quando si traduce: «non ho scritto per te trenta capitoli?» si fa un’ipotesi, non si formula una certezza. Tanto più che non c’è proprio accordo sul modo di dividere Pr 22,17–23,14 in trenta «capitoli».

Inoltre, le due sapienze hanno un ordine diverso. Pr 22,17–23,14 non segue quello di A-menemope. E in più, questi dava consigli utili al funzionamento dello Stato. Quel che nell’uno era esplicito, nell’altro diventa assai implicito, ma non assente.

Il sapiente ebreo mantiene la sua originalità anche se s’ispira al collega egiziano. Questi e-laborava con ampiezza il suo insegnamento; il sapiente biblico è più stringato, anche se poi aggiunge un testo sul rischio di prestare garanzia per altri (Pr 22,26-27) che in Amenemope non c’era. L’uno e l’altro sono religiosi e la citazione di YHWH in Pr 22,19.23 non deve stupi-re: l’acculturazione impone un adattamento alla propria credenza.

Gli accostamenti non vanno più in là di Pr 23,11, mentre la prima raccolta dei sapienti bi-blici continua fino a Pr 24,22. In più, a partire da Pr 23,15 il testo dà un nuovo insegnamento in cui nulla fa pensare a un influsso di Amenemope. Influsso che poté invece farsi sentire in altri passi del libro dei Proverbi. Un ben evidente esempio lo troviamo in Pr 15,16-17:

«È meglio poco con il timore di Dio che molto con l’inquietudine. È meglio un piatto di legumi con l’affetto che un bue grasso con l’odio».

Amenemope scriveva (cap. 6, IX, 5-9):

«È meglio la povertà nella mano del dio che tante ricchezze in magazzino. È meglio un po’ di pane con la gioia nel cuore che delle ricchezze con tormenti».

Che la sapienza di Amenemope abbia insomma avuto influenza sui sapienti d’Israele non si può negare. Ma questi ultimi non si sono mai mostrati servili. La sapienza è internazionale, e ciò lascia a ognuno il diritto d’essere egli stesso un sapiente originale e autentico.

1.5.1.2. La preghiera di Agùr (Pr 30,7-9)

Agùr non è personaggio noto da altri testi. Sebbene il testo ebraico del titolo di questa rac-colta (Pr 30,1-14), come di quella di Lemuèl, sia di difficile interpretazione, Agùr e Lemuèl appartenevano alla tribù di Massa. Questa è citata in Gen 25,14 tra i figli di Ismaele. Alcune iscrizioni assire parlano di essa a partire dal 734 a.C. e altre segnalano ancora la sua esistenza nel V secolo a.C. La si posiziona nel nord-ovest dell’Arabia, non lontano da Tema.

I pochi proverbi messi sotto il nome di Agùr colpiscono per la loro discrezione e il loro ri-spetto dei deboli. L’insegnamento impressiona. Vi si legge, fra l’altro, una bellissima preghie-ra, la sola trasmessa dai Proverbi. Questo libro aveva riportato, nelle collezioni salomoniche, appena tre proverbi sulla preghiera: Pr 15,8.29; 28,9. Affermavano che soltanto la preghiera del giusto, di colui che mette in pratica i precetti di rettitudine, viene ascoltata dal Signore. Escludevano l’efficacia del rito cultuale quando non fosse accompagnato da un comportamen-to morale corretto e veramente religioso.

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Ma ecco la preghiera attribuita ad Agùr (Pr 30,7-9):

«Due cose da te imploro, e tu non rifiutarmele, prima che muoia: allontana da me menzogna e falsità, non darmi povertà né ricchezza, lasciami gustare la mia parte di pane, per timore che, colmato, mi volga altrove e dica: chi mai è YHWH? oppure, indigente, rubi e me la prenda con il nome del mio Dio».

È veramente la preghiera d’un sapiente. Niente in essa fa una qualche allusione alla storia sacra d’Israele, e per il buon motivo che è attribuita a uno straniero. E tuttavia, l’inserimento in un libro biblico fece sì che il nome del Dio d’Israele venisse citato.

La costruzione di questa preghiera è quella dei proverbi numerici: l’orante chiede due cose. Ma subito sorge una difficoltà: quali sono, queste due cose? Il testo attuale suppone che la prima richiesta sia evitare menzogna e falsità. In tal caso, la seconda è allora espressa in du-plice maniera: negativamente, né povertà né ricchezza, e poi positivamente: soltanto la mia parte di pane. E tuttavia, si può esitare sull’autenticità della prima richiesta, così intesa: che c’entrano qui menzogna e falsità? In realtà, una preghiera d’analoga struttura si trova nel libro di Giobbe (Gb 13,20-22):

«Due cose soltanto concedimi, perché osi affrontare la tua presenza: scosta la tua mano che pesa su me e non spaventarmi con il tuo terrore, poi comincia a dibattere e io risponderò, o meglio, io parlerò e tu replicherai».

Qui abbiamo chiaramente due richieste complementari: negativamente, farla finita con l’oppressione, e poi, positivamente, avviare il dibattito. Ma allora è possibile che in Pr 30,8 la frase «allontana da me menzogna e falsità», che appesantisce la preghiera e fa di tre stichi il versetto – ciò che è anormale –, sia un’antica aggiunta, non priva di senso, a ogni modo, come diremo. Se così fosse la preghiera di Agùr chiederebbe allora due cose altrettanto complemen-tari: scartare gli estremi e concedere proprio il giusto per vivere.

Gli estremi di cui il sapiente si augura di non fare di persona l’esperienza sono la povertà e la ricchezza, cioè l’indigenza e il lusso. Perché sia l’una che l’altro comportano dei rischi, di cui Agùr è ben conscio. Se fosse ricco, rischierebbe di dimenticare il Signore. Non è una ten-tazione perpetua? La ricchezza può bastare a tutto, per chi la possiede. Diventa un dio, «Mammona», diceva Gesù (Mt 6,24). Chi ci si attacca finirà per disprezzare Dio. La ricchezza dà potere; orgoglio e sufficienza non son lontani. Dio diventa un inutile sconosciuto. Così re-agiva il faraone quando ritorse a Mosé: «Chi è YHWH?» (Es 5,2). E Giobbe farà dire ai ricchi senza fede né legge (Gb 21,15):

«Cos’è Shaddai, perché dobbiamo servirlo? Quale profitto ne abbiamo, a invocarlo?».

La loro felicità, essi già la palpano. Ma anche l’altro estremo comporta dei rischi. La miseria spinge al furto. Anche se poi la

nostra morale ammette che il poveraccio che ruba per sopravvivere, quando la sua vita è in gioco, non è di fatto colpevole: è la società ad averne la responsabilità, essa che l’abbandona. Nel profondo della sua angoscia, il povero può anche finire nella disperazione, o, peggio an-cora, può prendersela con Dio che dà l’impressione di abbandonarlo lui pure. Un frammento del profeta Isaia (8,21) descrive con queste parole la sorte di chi si ritrova il paese razziato:

«Accadrà che la fame lo spingerà alla collera e allora maledirà il suo re e il suo Dio».

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32 Proverbi

La sposa di Giobbe non inviterà il marito, ormai spogliato di tutto e colpito fin nella pro-pria carne, a maledire Dio (Gb 2,9)?

Che uno sia ricchissimo o non abbia più nulla, è dunque grande il rischio che si allontani da Dio. Forse è per questo che una glossa venne aggiunta: misconoscere il Signore quando si è diventati ricchi o maledirlo nella miseria nera non è, per il credente, menzogna e falsità? Per ciò Agùr chiede al suo Dio d’evitargli questi estremi, finché vive. A questa così lucida richie-sta in negativo, Agùr ne oppone una seconda, positiva: «Lasciami gustare la mia parte di pa-ne». Come non pensare a quell’altra preghiera che Gesù insegna ai suoi discepoli: «Dacci og-gi il nostro pane quotidiano» (Mt 6,11)?

Preghiera di sapiente, preghiera intelligente, perspicace, incisiva. Chi ardirà pronunciarla in tutta sincerità? Eppure, non sarebbe la via su cui il fossato sempre più profondo fra ricchi e poveri si ridurrebbe? Se il nostro sguardo si posa sull’attuale situazione dell’intera umanità, l’urgenza d’una simile preghiera, per chi crede, è più che evidente.

1.5.1.3. Le parole che Lemuèl ricevette da sua madre (Pr 31,1-9)

È uno dei rari testi di cui la Bibbia attribuisce l’origine a una donna, per giunta straniera. È ragionevole supporre che Lemuèl, sconosciuto nel resto della Bibbia non meno di Agùr, ap-partenesse a quella medesima tribù di Massa, ma lui n’era il capo, il re. Sappiamo che la Bib-bia stessa attribuisce alla madre del re un ruolo speciale. Betsabèa ne è l’esempio tipico: è lei che intriga per far scegliere Salomone come successore di Davide (1Re 1,11-40).

Qui è dunque la madre di Lemuèl che parla. Comincia con parole alquanto oscure, nell’ebraico: cosa significa per esempio l’espressione «figlio dei miei voti»? Si sarebbe forse ella impegnata, come Anna, la madre di Samuele, che, disperando d’avere una progenitura, promise, se fosse rimasta gravida, di consacrare al Signore il frutto delle sue viscere (1Sam 1,11)? Quale sarebbe stato il voto della madre di Lemuèl, dato che quel suo figlio non fu, a ogni buon conto, un consacrato, bensì un detentore del potere?

L’insegnamento di questa madre a suo figlio verte su due punti: non concedersi alle donne e non ubriacarsi. È curioso costatare che nella prima raccolta dei sapienti, nel punto in cui finisce l’influenza della sapienza di Amenemope, il testo, che comincia con solenni appelli del padre, cui poi si unisce anche la madre, si dilunghi sulle prime sui medesimi consigli (Pr 23,15-35).

Il primo consiglio della madre di Lemuèl a suo figlio riguarda dunque le frequentazioni femminili. Ma qui il consiglio è per il principe: egli corre perfino maggiori rischi a lasciarsi andare alle sue passioni. Il testo ebraico non è chiaro, ma proprio di ciò pare trattarsi. La Bib-bia ha sottolineato i disastrosi effetti della poligamia di Salomone (1Re 11,1-13; Nee 13,26; Sir 47,19). Si capisce che alla madre di Lemuèl una parola basta, su quest’argomento.

L’altro consiglio viene invece sviluppato in sorprendente maniera. La madre del principe – ella di nuovo richiama la sua pronta attenzione – l’invita pressantemente a non prender gusto al vino e alle bevande forti. Consiglio in negativo, come il primo, ma insistendo, questa volta, sulla sconvenienza, per un principe, d’ubriacarsi. E la ragione vien subito detta: se il re è in potere di quel che ha bevuto, rischia assai di non essere più un giudice equo. Il principe, lo sappiamo, esercitava la più alta funzione giudiziaria. Fu per esempio nel suo famoso giudizio (1Re 3,16-28) che Salomone rivelò la sua saggezza. Il tribunale del re è l’ultimo appello del povero. Un salmo, l’unico attribuito a Salomone, dice (Sal 72,4):

«Con giustizia egli giudicherà il popolo minuto, salverà i figli dei poveri, schiaccerà i loro carnefici».

Se il re-giudice ha bevuto troppo, non ha più una visione netta della legge e per ciò stesso il suo giudizio, che è senza appello, verrà falsato. Degli eccessi del principe, saranno i poveri a patire. S’intuisce, nell’originalità e verità della motivazione, la più affinata e altruistica sen-sibilità d’una donna.

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Dopo ciò, quella madre consiglia due comportamenti che contrastano, in un tono del tutto positivo, con il consiglio negativo di non ubriacarsi. Il primo è di stordire con una forte be-vanda chi sta per morire, consiglio pieno d’amarezza: così dimenticherà la sua disgrazia. Que-sto testo perlomeno stupisce, ma in ebraico non è ĺimpido, perché il consiglio è formulato al plurale. «Procurate delle bevande forti...» non è detto a Lemuèl; si può quindi dubitare della sua autenticità. In più, non si può dire chi siano queste persone in punto di morte: dei condan-nati, dato che si sta parlando di processi, e si continuerà a parlarne sino alla fine del passo? In ogni caso, il pensiero non può non andare al gesto dei soldati alla passione di Gesù (Mt 27,34). Se bisognasse prendere in conto un’applicazione più generale di questo consiglio di Pr 31,6, allora si potrebbe parlare di cinismo e uno avrebbe tutto il diritto di scandalizzarsene. Conosciamo abbastanza i misfatti dell’alcool fra le popolazioni povere, senza lavoro e senza speranza. Ma io dubito che il testo abbia questo senso, soprattutto ricordando quanto gli abi-tanti del deserto rifuggano le bevande inebrianti.

L’ultimo consiglio propone un altro contrasto, basato questa volta sul fatto che, per bere, bisogna aprire la bocca: qui la bocca riceve la bevanda, mentre, con la parola che emette, essa dà. Donde l’insistenza di questo consiglio finale sul fatto d’aprire la bocca non più per ingur-gitare vino ma per pronunciare dei giusti giudizi. Ciò suppone che il re-giudice sia sobrio. Il contrasto continua, poiché è in favore del muto, cioè uno che non può aprire la bocca per e-sporre la sua lamentela, che il re aprirà la sua per pronunciare il giudizio.

Il testo presenta poi una frase che deve essere parallela alla precedente, ma il suo senso è oscuro. Molti traducono: «per la causa di tutti gli abbandonati», ma è soltanto una delle tante ipotesi. Neanche l’antica versione greca dei Settanta pare aver saputo dare un senso a questo versetto. Il testo ebraico, che san Girolamo rende in latino quasi alla lettera, può tradursi: «per la causa dei figli del passaggio». Alcuni hanno pensato al passaggio dalla vita alla morte. Ma perché non tener conto del contesto? Lemuèl è re di Massa, e lì passano le carovane del deser-to. Non necessariamente i carovanieri parlano la lingua di Massa, e spesso finiscono vittime di razzie o altre malversazioni. Perché la madre di Lemuèl non potrebbe sollecitare il figlio a cu-rarsi di questa gente di passaggio, non in grado di spiegarsi sui fatti di cui è stata vittima? Si tratterebbe allora della protezione degli stranieri di passaggio.

Il consiglio finisce riprendendo la stessa idea di giudicare correttamente difendendo la cau-sa del povero e dell’infelice. Questo appello positivo contrasta con ciò che accadrebbe se il re si desse al bere (Pr 31,5 ), e si armonizza con quello che tutto il Vicino Oriente Antico consi-derava il compito fondamentale del principe.

Si sarà notato che questa raccolta non cita il nome di YHWH. Ma ciò non impedisce che il valore di quest’insegnamento sia ben alto. Chi assume delle responsabilità è tenuto verso se stesso a conservarsi degno di svolgere con correttezza la sua missione. Insegnamento sapien-ziale tipico, che il libro dei Proverbi altrove (vedi Pr 23,15-35) non contraddice. Ma qui è una madre che parla, una madre di più acuto sentimento altruistico.

1.5.1.4. Conclusione

In questi tre esempi, la sapienza straniera si rivela nella sua varietà e nella sua ricchezza. I sapienti d’Israele non la disprezzarono né la trascurarono. Vivere e pensare in ambiente chiuso non è veramente molto saggio, non è da sapiente. Al contrario, trovare quello che per noi è un bene dovunque esso stia significa riconoscere le ricchezze dei sapienti delle nazioni. È vero, la nostra conoscenza sulla maniera di procedere dei sapienti è limitata. Della madre di Le-muèl, si sono limitati a riprendere puramente e semplicemente l’insegnamento? Quel che è chiaro, è che la preghiera di Agùr venne invece adattata al contesto religioso d’Israele, dato che fa il nome di YHWH. Quanto alla sapienza di Amenemope, essa è sì la fonte di Pr 22,17–23,14, ma i sapienti biblici vi si sono ispirati con grande libertà. La ragione è che in Israele la sapienza, anche sotto l’influenza dei suoi vicini, si sviluppa in linea con i suoi doni specifici.

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2. IL PROLOGO (PR 1–9), L’EPILOGO (PR 31,10-31) E LA SAPIENZA

È tempo d’affrontare la lunga introduzione del libro dei Proverbi. Se lo facciamo soltanto ora, è perché si tratta della parte più recente del libro. Deve essere opera degli editori del-l’epoca posteriore all’esilio.

2.1. LE CARATTERISTICHE DEL PROLOGO4

Questo prologo si differenzia dalle sette collezioni che costituiscono il corpus del libro per alcune caratteristiche.

Qui abbiamo dei discorsi molto più elaborati. Non se ne può comunque trarre la conclusio-ne che al principio la sapienza si esprimesse con maggiore concisione e che i lunghi discorsi siano diventati possibili solamente più tardi. La sapienza straniera del Vicino Oriente Antico, per esempio quella di Amenemope, di cui abbiamo già parlato, proverebbe quanto si sbaglie-rebbe a pensarla così. Resta il fatto che nel libro dei Proverbi i testi lunghi si trovano soltanto in questo prologo e nella conclusione, cioè nel ritratto della «donna forte» (Pr 31,10-31).

Più che in altre parti del libro, in questa introduzione si scopre un’influenza dei profeti e del Deuteronomio. Per i profeti basta confrontare il primo discorso della Sapienza (Pr 1,20-33) con le invettive d’Isaia (Is 65,2.12; 66,4) e di Geremia (Ger 6,19; 7,13; 11,11) per cogliere tutta la potenza di quella requisitoria, ben simile a quelle che aprono i libri d’Isaia (1,10-20) e di Geremia (2,1-37), per esempio: qui la Sapienza assume la funzione del Signore che accusa il suo popolo d’infedeltà. E quando il lettore viene sollecitato a legarsi al collo e scriversi sul cuore i precetti (Pr 6,21; cfr. 3,3; 7,3 ), il pensiero evidentemente va a Dt 6,6-9; 30,14. Ma queste osservazioni non devono far credere che le collezioni proverbiali raccolte nel resto del libro non abbiano alcun legame con l’insegnamento dei profeti d’Israele e di Giuda. Le attuali ricerche proverebbero piuttosto il contrario, e si capisce, dato che anche le collezioni son state rimaneggiate dai redattori che scrissero il prologo.

I nove capitoli del prologo presentano due tipi di discorsi. Famosi sono soprattutto quelli in cui si fa parlare la Sapienza. A questo primo tipo di discorsi, che si comincia a incontrare ben presto nel prologo (Pr 1,20-33), bisogna anche aggiungere tutto il capitolo 8 e l’inizio del ca-pitolo 9, sulla fine dello stesso prologo. Torneremo su questi due famosi passi. L’altro tipo di discorsi è pronunciato da un padre di famiglia che si rivolge al lettore chiamandolo «figlio mio», un’espressione che torna più d’una decina di volte (Pr 1,8.10.15; 2,1; 3,1.11.21; 4,10.20; 5,1.20; 6,1.20; 7,1); talora si trova il plurale «figli» (Pr 4,1; 5,7; 7,24). Il padre invita ad ascoltarlo (Pr 1,8; 4,1.10; 5,1.7; 7,24). Deve trattarsi d’un insegnamento dato in famiglia, considerando che accanto al padre viene citata anche la madre (Pr 1,8; 6,20). Il piano di que-sto prologo non è ancora stato chiarito. Partendo dal ripetuto invito «figlio mio», si è tentato di individuare una dozzina di discorsi paterni, ma senza grande successo. La difficoltà deriva probabilmente dal fatto che la redazione di questo prologo non è stata fatta di getto. Pare in-vece che si siano succedute più tappe redazionali; alla stessa maniera si spiegano alcuni testi intrusi in Pr 6,1-19.

Le raccomandazioni paterne vertono, in negativo, su due avvertimenti e, in positivo, su due consigli. Gli avvertimenti riguardano le cattive frequentazioni: i compagni poco raccomanda-bili (Pr 1,10-19; 2,12-15; 4,14-19), poi la straniera di vita malvagia (Pr 2,16-19; 5,1-14.20; 6,23-35; 7,1-27; 9,13-18); quest’ultima figura prende sempre più spazio a mano a mano che il prologo avanza. I due consigli, al di là dei pressanti appelli ad ascoltare l’insegnamento pater-no, vertono sulla ricerca della sapienza (Pr 2,1-9; 3,1-18; 4,19) e sull’amore fedele che l’uomo deve avere per la sua sposa (Pr 5,15-19). Quest’ultimo breve testo basta come contral-tare agli estesi avvertimenti a riguardo della straniera che è bene evitare? I testi sulla Sapienza

4 Sui capp. 1–9 di Pr si vedano i due studi recenti, che riproducono due tesi di dottorato: S. PINTO, “Ascolta figlio”. Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9, Roma 2006; M. SIGNORETTO, Metafora e di-dattica in Proverbi 1–9, Assisi 2006.

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fanno da contrappunto a quelli che parlano della straniera, come le due descrizioni parallele di Pr 9,1-6 e Pr 9,13-18 potrebbero far pensare? Per rispondere a queste domande dobbiamo ri-leggere Pr 8 e 9, insieme al ritratto finale della «donna forte» (Pr 31,10-31); ed è quello che ora faremo.

2.2. IL DISCORSO DELLA SAPIENZA IN PR 8

È un testo importante, ma difficile. Ha avuto degli echi sia nel giudaismo che nel cristiane-simo. Va perciò letto nel suo insieme, senza accontentarsi dei versetti più noti e più discussi (Pr 8,22-31). Bisognerebbe anche leggerlo nel suo contesto, in particolare confrontandolo con il capitolo 7 che descrive la donna tentatrice; ma noi non lo faremo, dato che il nostro scopo è quello di fermarci sui testi essenziali.

2.2.1. La strutturazione e il contenuto del capitolo

I primi tre versetti introducono al discorso della Sapienza (Pr 8,1-3), dandole un luogo. Va-ri motivi fanno pensare che l’autore non la collochi in più posti, ma in uno solo, cioè alla por-ta della città, dove convergono le strade esterne e quelle interne. Luogo d’obbligato passaggio e d’incontri, dove tante persone si ritrovano fianco a fianco per passare dalla porta, ma anche per commerciare, per conversare... È a questa variegata folla che si rivolge la Sapienza.

Essa comincia con l’interpellare tutte queste persone, senza poi neanche farsi di loro una grande idea. Ma non sta lì proprio per quelli che, se pur non se ne rendono conto e perfino magari non se ne danno pensiero, hanno d’essa maggior bisogno?

La prima parte del suo discorso (Pr 8,4-10) vanta la qualità delle proprie parole: son parole sincere, rette, franche; quel che essa ha da dire è insieme verità e giustizia; aborre il male, la falsità, la perversità. Propone, in concreto, un sapere che vale più della ricchezza. L’aggiunta del versetto 11 rincara su quest’ultima caratteristica. La Sapienza, insomma, giustifica l’ascol-to che chiede con la qualità di ciò che propone e con il vantaggio che gli ascoltatori ne avran-no per la loro vita. Va in particolare rimarcato che la Sapienza afferma il valore morale di quel che dice: essa ha ripugnanza per il male.

La seconda parte del discorso (Pr 8,12-21) permette alla Sapienza di presentarsi. Finalmen-te dice il suo nome (Pr 8,12), per descriversi come perfetta consigliera di re, intelligente, per-spicace, ma anche coraggiosa (Pr 8,12-16). Guardando meglio, potrebbe stupire che la Sa-pienza, per giustificare l’ascolto di quelli che passano attraverso le porte della città, sottolinei la sua attività a corte. Ma ciò significa: ascoltatemi, perché anche il re m’ascolta, trovandoci tutto da guadagnare (Pr 8,15-16). Ma ciò ha un senso solamente quando il potere venga assai positivamente apprezzato. E proprio questa è la ragione per cui a me pare che questo discorso della Sapienza non si sia potuto tenere dopo l’esilio, a meno che non si volesse dar atto alla sapienza di Ciro che mise fine all’esilio babilonese. Per trovare un re amato in Israele bisogna infatti risalire ben indietro fino a Giosia, sulla fine del VII secolo, oppure al suo avo Ezechia, un secolo prima, a meno che non si voglia pensare addirittura a Salomone, visto che il prolo-go, come il libro, è posto sotto il suo nome. Ma comunque stiano le cose riguardo a Salomo-ne, la nostra osservazione vorrebbe fondare l’ipotesi che Pr 8 è un testo più antico che i redat-tori del periodo posteriore all’esilio inserirono nel loro prologo. Questa seconda parte del di-scorso (Pr 8,17-21) è una logica prosecuzione della prima, dato che elenca i vantaggi e i bene-fici che l’attività della Sapienza presso il potere reca a tutti, perché essa cammina sulla via della giustizia e sui sentieri della dirittura morale (Pr 8,20): anche i poveri e i piccoli ne trag-gono beneficio. Ma ciò suppone che fra essa e i beneficiari della sua azione ci sia una relazio-ne d’amicizia fedele (Pr 8,17.21). Quanto al beneficio che se ne ricava, è di molto superiore alle ricchezze (Pr 8,19). Insomma, la Sapienza sostiene che, se nella società c’è pace e ordine, è a essa che lo si deve.

Viene poi la terza parte del discorso (Pr 8,22-31), la più famosa. La Sapienza dà un nuovo argomento per l’ascolto che chiede alle persone. Argomento di peso, trattandosi della sua re-

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lazione con YHWH da tutta l’eternità e quando mise ordine nell’universo. Ma è a questo punto che le discussioni fra gli esegeti si fanno più vivaci, soprattutto sul senso da attribuire ad al-cune parole di primaria importanza. L’interpretazione che io, insieme con altri, qui propongo si basa sulla coerenza del testo.

A differenza delle due precedenti, questa parte segue l’ordine cronologico, se così possia-mo dire, della Sapienza stessa, della sua origine e del suo sviluppo. Si succedono quattro stro-fe.

La prima strofa (Pr 8,22-23) mette avanti YHWH, ma in quanto origine della Sapienza: lui l’ha «generata» prima d’ogni cosa. Manteniamo la traduzione «generata», proprio come in Gen 14,19 si dice che Dio «generò il cielo e la terra». Evidentemente questi testi non suppon-gono nessuna attività sessuale. È vero, la traduzione è discussa. Altri preferiscono «creata», in linea con l’antica versione greca dei Settanta; ma l’idea base del verbo ebraico qānāh, essendo quella d’acquisire, si può benissimo intenderlo nel senso di «acquisire per generazione». Ciò su cui Pr 8,22 insiste è l’assoluta priorità della Sapienza, la sua anteriorità e la relazione che la fa dipendere, per la sua stessa esistenza, da YHWH. Il versetto seguente, Pr 8,23, ripete questa medesima idea dell’assoluta anteriorità della Sapienza, anche in rapporto alle origini della ter-ra. Ci si mette dunque prima d’ogni creazione del mondo. Ma questo versetto 23 aggiunge un nuovo verbo (nāsak, alla coniugazione niphal) che, insieme ad antiche traduzioni, come la Volgata, e alcuni esegeti moderni, io traduco: «sono stata tessuta». Gb 10,11 e Sal 139,13 pro-vano che la gestazione dell’embrione in seno alla madre la si concepiva come una confezione analoga a quella della tessitura. È il secondo stadio dell’esistenza della Sapienza, la sua cre-scita. Di nuovo, è soltanto un’immagine: quando Giovanni (Gv 1,18) parla del Figlio che è «nel seno del Padre» ricorre alla medesima simbolica, volendo sottolineare la stretta relazione che fa dipendere il Figlio dal Padre in quanto tale. Lo stesso in Pr 8,22-23: la Sapienza è to-talmente dipendente da YHWH, e lo è da tutta l’eternità, prima d’ogni cosa.

La seconda strofa (Pr 8,24-26) accenna per due volte alla successiva tappa vissuta dalla Sapienza: «io venni partorita» (˙ôlāltî), traduzione incontestabile, che significa che fu YHWH a partorirla. Anche qui si tratta di un’immagine simbolica. La differenza dai verbi precedenti è che quelli di Pr 8,22 suppongono piuttosto una misteriosa interiorità, mentre il parto indica l’esteriorità, la visibilità, in qualche modo, rispetto a Dio. Anche gli Antichi vedevano un’op-posizione fra parola interiore, che precede, e parola esteriore, pronunciata e udibile. In Pr 8,24-26 l’esteriorità della Sapienza è ancora anteriore al mondo. Quest’ultimo viene descritto alla maniera d’una foto: in basso l’abisso e le sorgenti che ne fanno affiorare le acque, le mon-tagne e le colline in alto, poi la terra dove abiterà l’uomo. Questo mondo ancora non esisteva, e la Sapienza era già stata partorita da YHWH.

La terza strofa (Pr 8,27-30a) mostra la Sapienza al fianco di YHWH quando YHWH passò all’azione. YHWH mise ordine nell’universo fissando al loro posto tutti gli elementi. Da quel momento tutto è saldamente stabilito: i verbi usati insistono su quest’idea. Ciò suppone che tutte le parti del mondo già esistessero. Per questo, qui non possiamo parlare di creazione del mondo, ma semplicemente della fissazione delle sue parti, che sembrano già esistere, ma senz’ordine, in quello che Gen 1,2 chiamerà il «tohu-bohu». Questa descrizione dell’attività di Dio implica una concezione della struttura dell’universo che non è più la nostra e non preten-de affatto d’essere scientifica. Qui ha un ruolo la poesia. Allora ci si rappresentava la terra come un disco piatto, sopra il quale il cielo faceva da volta semisferica, posata sull’abisso all’orizzonte; la terra stessa poggiava su colonne immerse nelle profondità dell’abisso. In que-sta semplicistica rappresentazione, la terra, di cui qui si descrive soltanto la cornice che la contiene, è al centro dell’universo. Ebbene, quando YHWH diede al mondo la sua stabile strut-tura, la Sapienza era là, al suo fianco. È qui, in Pr 8,30a, che troviamo, nel testo ebraico, quel-la parola ’amôn che tanto inchiostro ha già fatto scorrere: dobbiamo intenderla nel senso che la Sapienza era di fatto come l’architetto di tutta l’organizzazione? È il senso che il testo e-braico vocalizzato suggerisce e che molte traduzioni moderne accolgono. Ma i versetti prece-

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denti non hanno attribuito alla Sapienza nessuna attività nella messa in ordine del mondo: di-cono che è soltanto YHWH ad agire. Per questo, con un’antica traduzione, altri esegeti inten-dono quella parola ebraica nel senso di «bambina», vocalizzando ’emûn: la Sapienza, ancora piccolina, assistette all’attività organizzatrice di YHWH.

Ma allora, anche la quarta strofa (Pr 8,30b-31) si capisce meglio: una volta ben organizza-to il mondo, la Sapienza, potremmo dire, è ai sette cieli, e si mette a giocare, a danzare davanti a YHWH sulla terra degli uomini. Fin lì descritta a fianco di YHWH, le ultime parole di questa strofa la collocano nello stesso tempo accanto agli umani che fanno la sua felicità.

È così che la terza parte del discorso della Sapienza vuole giustificare l’ascolto che chiede: essa è di YHWH e si trovava al suo fianco quando YHWH ordinò stabilmente l’universo. Appa-re come l’ispiratrice della sua azione, già fin da prima che YHWH la progetti e l’intraprenda. Generata, tessuta, partorita e poi ancora bambina giocherellona, la Sapienza viene dunque de-scritta nella sua sequenza logica, in base alle tappe della sua crescita. Con la sua sola presen-za, con i suoi giochi e la sua felicità, il bambino non è spesso una fonte d’ispirazione per le migliori azioni dei suoi genitori? Questa coerenza di immagini mi pare preferibile. Ma se tali furono la storia e il ruolo della Sapienza alle origini accanto a YHWH, perché dunque coloro che ascoltano il suo discorso non dovrebbero accettare che quella medesima Sapienza che tro-va le sue delizie fra gli umani entri nella loro vita? Essa vi metterebbe ordine e stabilità. Que-sto, a me pare, è il senso della terza parte del discorso della Sapienza.

E la Sapienza conclude (Pr 8,32-36) di nuovo rivolgendosi ai suoi ascoltatori. Gli argo-menti che ha presentato giustificano adesso il suo rinnovato appello. Ma la Sapienza aggiunge anche la promessa della beatitudine: chi seguirà le sue vie, e per farlo si metterà fedelmente alla sua scuola, avrà parte alla vita e al favore di YHWH. Invece, chi rompe con essa fa torto a se stesso e alla fine della via troverà la morte.

2.2.2. Chi dunque è la Sapienza?

Una figura femminile? Evidentemente sì, dato che quel che la riguarda è detto al femmini-le. Ma potrebbe essere diversamente, dal momento che la parola «sapienza» è femminile in ebraico, in greco, in latino e nelle lingue moderne? Peraltro, la Bibbia riconosce ad alcune donne una profonda sapienza che le autorità ascoltano: per esempio la donna venuta da Tekòa a perorare davanti a Davide il ritorno di Assalonne (2Sam 14,2-20). E tuttavia, nell’intero di-scorso della Sapienza non c’è nessun termine esplicito che la dica donna o figlia, neppure il termine di Pr 8,30a che ho tradotto con «bambina», ma che alla lettera è piuttosto «bebè». In Pr 8,35, soltanto il proverbio parallelo di Pr 18,22 – «Chi trova una sposa trova la felicità e ottiene il favore di Dio» – può suggerire di vedere nella Sapienza una donna, ma è possibile soltanto per una certa qual analogia testuale.

La Sapienza ha dei lineamenti d’un maestro di sapienza. Basta rileggere Pr 4 per convin-cersene: appello ad ascoltare, valore dell’insegnamento, citazione del padre di chi parla – per giustificare l’ordine impartito –, promesse di felicità e di successo. Ma il maestro è soltanto un intermediario: è la sapienza stessa che il discepolo viene invitato a procurarsi (Pr 4,5). Ebbe-ne, in Pr 8 è la Sapienza in se stessa che bisogna ascoltare, amare, frequentare come il mae-stro in casa sua (Pr 8,34) e alla fine trovare.

Rispetto ai profeti, la Sapienza di Pr 8 se ne differenzia. I profeti chiamano all’ascolto, ma il loro messaggio e la missione che li giustifica hanno la loro origine in YHWH. Parlano in suo nome. In Pr 8 la Sapienza può giustificarsi per la sua relazione con YHWH, ma parla di propria iniziativa.

Solamente i discorsi che la Bibbia attribuisce direttamente a YHWH hanno una pari autorità e una pari autonomia. Se ne trovano molti nel secondo Isaia, per esempio Is 41. Tuttavia, in Pr 8 la Sapienza non è YHWH: la distinzione vien chiaramente colta a partire da Pr 8,22. In realtà, è la terza parte del discorso della Sapienza in Pr 8,22-31 a sollevare le principali diffi-coltà per chi vuol precisare chi sia la Sapienza.

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Di qualunque sorta siano stati gli antecedenti di questa figura in altri popoli del Vicino O-riente Antico o anche in Israele – su questo punto gli esegeti sono ben lontani dall’essere d’accordo –, la Sapienza di Pr 8 non è una dea. Essa è uscita da YHWH e l’accompagna quan-do organizza l’universo, ma non pretende d’essere una divinità. Niente nel testo di Pr 8 va in questo senso, e il monoteismo, ormai chiaro in Israele a partire dal secondo Isaia, avrebbe censurato una simile linea d’interpretazione; mentre la figura della Sapienza verrà ripresa con la medesima forza ancora nella Sapienza di Salomone.

Forse nella Sapienza dobbiamo vedere la personificazione d’un attributo di YHWH. Isaia aveva affermato che YHWH è sapiente (Is 31,2), e dal canto suo Pr 3,19 dice che YHWH fondò la terra mediante la sua sapienza. Allora, in Pr 8 si sarà personificata la sapienza di YHWH, ma in una maniera molto più esplicita di quando si personifica ad esempio la verità o la giustizia (Sal 85,11-12). L’analogia, già ricordata, fra Sapienza e parola interiore ha forse qui un suo ruolo. La Sapienza sarebbe il piano di YHWH, il suo progetto stabilito da tutta l’eternità, prima che il tempo fosse. Quel progetto venne poi realizzato quando il mondo ricevette da YHWH la sua struttura organizzata. Anche noi procediamo in questa maniera: chi vuole costruire una casa comincia con farsene il progetto e vederne la disposizione in testa, poi lo mette sulla car-ta; e quando la casa viene costruita, la si fa sulla base di quel progetto, sì che alla fine si può dire che il progetto si è concretizzato nella costruzione, che il progetto è stato realizzato, senza che tuttavia esso sia stato cancellato dalla testa di chi l’ha immaginato. Potrebbe essere lo stesso per la Sapienza. Si spiega allora perché essa è presente all’organizzazione del mondo. Pr 8,27-29 in effetti fa vedere che c’è ordine e stabilità nell’universo: è opera di YHWH, ma la Sapienza era al suo fianco (8,27a.30a), proprio come il costruttore continuamente consulta il progetto. Possiamo allora pensare che la Sapienza è il progetto di YHWH, progetto d’ordine nel mondo ormai concretizzato nella realtà stessa del mondo. La Sapienza è vista allora come doppiamente distinta da YHWH e dal mondo, e nello stesso tempo doppiamente unita a YHWH – da cui è venuta – e al mondo, che non ha stabile struttura se non in forza d’essa, pur senza identificarsi con essa. L’ordine nel mondo è segno della presenza al mondo della Sapienza di YHWH.

2.2.3. Perché la Sapienza così si giustifica?

Analizzando l’argomentazione del discorso della Sapienza di Pr 8 abbiamo visto che essa dà al suo appello all’ascolto una triplice giustificazione, che ogni volta implica l’idea d’ordi-ne: nella vita personale d’ognuno (Pr 8,4-10) – e questo è lo scopo stesso del discorso –, nella società (Pr 8,12-21) e nell’universo (Pr 8,22-31). Ma allora, abbiamo tutto il diritto di chie-derci: cos’è dunque che dobbiamo ascoltare? Parrebbe infatti che Pr 8 non sia che l’inizio del discorso della Sapienza. Perché, una volta convinto dalla triplice giustificazione data, chi leg-ge o ascolta dovrebbe chiederle cosa deve ascoltare.

Nessuna delle ammonizioni caratteristiche del prologo del libro ricompare in Pr 8 e, d’altro canto, il discorso della Sapienza è quasi al termine del prologo, cioè poco prima che si aprano la prima collezione salomonica (Pr 10,1–22,16) e le altre. Non avrebbe dunque torto chi si chiedesse se Pr 8 non si proponga di giustificare l’accoglienza delle collezioni di proverbi che costituiscono il cuore del libro e il patrimonio sapienziale d’Israele. Ciò che dalla Sapienza stessa il lettore è invitato ad ascoltare sarebbe appunto quel patrimonio.

Ma per ciò stesso, quel patrimonio, pura sapienza umana, riceve una più alta dimensione: attraverso i sapienti dell’antico Israele, è la Sapienza stessa di YHWH che parla e insegna. Ciò che l’autore di Pr 8 avrebbe allora scoperto è che, alla maniera dei profeti investiti dello Spiri-to del Signore, a quella stessa maniera i sapienti, senza averlo detto e senza averne, forse, neppure coscienza, furono i messaggeri della Sapienza divina perché ognuno fondi la sua vita sulla verità e sulla giustizia (Pr 8,7-8). Non sarebbe un modo per rivendicare alla sapienza dei proverbi d’Israele ciò che la teologia cristiana chiama ispirazione? Fu la Sapienza di YHWH a muovere i sapienti autori delle collezioni cui il prologo del libro introduce. Una siffatta inter-

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pretazione suppone però che Pr 8 venga letto in tutto il suo contesto, che è il prologo e tutto quello cui esso introduce, cioè le collezioni di proverbi.

Questo discorso di Pr ebbe degli echi nei libri sapienziali che vennero in seguito, ma anche nel Nuovo Testamento. Il prologo del vangelo giovanneo (Gv 1,1-3) e l’inno cristologico della lettera paolina ai Colossesi (Col 1,15-17) dissero del Cristo qualcosa che Pr 8 diceva della Sapienza. A loro volta, anche i Padri della Chiesa rifletterono sul mistero cristologico e trinita-rio allacciandosi anche a questo discorso della Sapienza, soprattutto Pr 8,22-31. Atanasio d’Alessandria scriveva, nel IV secolo, a riguardo del Cristo Gesù: «È il vero Figlio del Padre, per natura e per generazione, sostanza della sua sostanza, Sapienza unica generata, solo e vero Verbo di Dio; non è creatura né produzione, ma il vero generato dalla sostanza del Padre. Per questo è Dio vero, essendo consustanziale al Padre vero. (...) Da sempre egli era ed è, e mai “non era”. E siccome il Padre è eterno, eterno è anche il suo Verbo e la sua Sapienza»5.

2.3. IL BANCHETTO DELLA SAPIENZA (PR 9,1-6)

Pr 9 conclude il prologo che fa da introduzione alle collezioni di proverbi. Bisognerà riflet-tere sul senso che può avere la conclusione d’una introduzione. Inoltre, Pr 9 presenta due quadretti in forte contrasto fra loro: da una parte, quello della Sapienza che invita a un ban-chetto e, dall’altra, quello di «Donna Stoltezza» che invita anch’essa a casa sua (Pr 9,13-18). Qual senso dare a inviti così diversi? Fra i due ritratti del dittico, alcuni versetti (Pr 9,7-12) sono sempre stati problematici per gli esegeti; ma noi qui non li tratteremo. Quanto ai due quadretti – della Sapienza e di Donna Stoltezza –, essi sono già stati preparati nei precedenti capitoli rispettivamente dai due discorsi della Sapienza (Pr 1,20-33; 8); e dagli avvertimenti dati a riguardo della donna di vita malvagia: quegli avvertimenti si sono moltiplicati e sono stati sviluppati nella seconda metà del prologo. Pr 9 riprende dunque dei temi già proposti: ma la loro ripresa alla fine del prologo potrebbe dare a questi temi un significato particolare?

2.3.1. La Sapienza e il suo invito

«La Sapienza ha costruito la sua casa». Già un proverbio delle collezioni affermava che «la sapienza costruisce la sua casa, ma la stoltezza con le sue mani l’abbatte» (Pr 14,1). L’idea di proporre un dittico alla fine del prologo venne forse suggerita ai redattori del periodo che se-guì l’esilio proprio da quest’antico proverbio. C’è tuttavia una evidente differenza fra i due: il proverbio semplicemente dice che una casa si costruisce realmente quando uno ci mette intel-ligenza e perspicacia, mentre basta un pizzico di stoltezza per insediarvi il disordine; invece, in Pr 9,1 non si tratta più di sapienza umana, ma della Sapienza in persona, come in Pr 1,20-33 e 8. La Sapienza ha dunque costruito la sua casa. Dev’essere un’immagine, che dovremo spiegare. A ogni buon conto, nulla vieta di pensare che si sia servita d’un costruttore con ope-rai. Non diciamo ancora oggi: «Mi son fatto la casa per la famiglia», senza dover per forza e-scludere che uno sia ricorso alla collaborazione d’un architetto e d’altri esperti? L’«io», come minimo, dice che quella casa di famiglia io l’ho voluta e ci ho messo i soldi.

È grande, la casa della Sapienza. Si può dedurlo dal fatto che il testo precisa che essa ha squadrato, o innalzato (ma poco importa), i suoi sette pilastri. Perché dei pilastri, e perché set-te? È la cifra della perfezione, ma non spiega ancora tutto. Nell’antico Israele, la casa, come spesso accade ancora oggi in Medio Oriente, formava un recinto che dava sulla strada attra-verso un’unica porta. Il recinto era composto d’un cortile, attorno al quale si trovavano varie stanze. Un primo piano permetteva alla famiglia di alloggiare più confortevolmente, mentre il pianoterra era occupato dal bestiame, minuto e grosso, e dai vari magazzini. Il centro del re-cinto fungeva da cortile interno; lì era predisposto un focolare. Il cortile poteva essere coperto, almeno in parte: delle colonne sostenevano allora il tetto. Nell’epoca regale d’Israele molte case avevano un cortile coperto, a due colonne, ma nelle case più ricche o importanti si ritro-

5 Contro gli Ariani, I, 9: Migne, Patrologia Graeca 26, 28C-29A.

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varono fino a sei e anche sette colonne di sostegno del tetto. La casa della Sapienza è dunque una dimora grande. È nel cortile, accanto al fuoco, che si riceve. La Sapienza può dunque ac-cogliere molta gente.

E in realtà, darà un banchetto. Non un semplice spuntino, ma carne e vino, dai suoi posse-dimenti, che sono bestiame e una vigna fuori città. Questo tipo di banchetto è comune ancora oggi, per le grandi feste, in tutto il bacino del Mediterraneo. La tavola è apparecchiata, e si può supporre che abbia trovato dell’aiuto per preparare tutto, dato che il testo parla di «ancel-le» (Pr 9,3). Ma quale rapporto c’è fra il costruirsi la casa e l’offrire un banchetto? Non po-trebbe trattarsi della festa per celebrare la fine della costruzione e inaugurare la nuova dimo-ra? Non è una tradizione viva ancora ai nostri giorni? La casa rende visibile e pubblico l’inse-diamento della famiglia. Il palazzo manifesta l’instaurazione del potere. Nel IX secolo a.C., il re assiro Assurnazirpal II inaugurò il suo palazzo nella città di Calah, che aveva riconquistato, con dieci giorni di celebrazioni, e ogni giorno cinquemila persone, di tutte le classi sociali, e-rano invitate al regale banchetto! La Sapienza avrebbe fatto lo stesso: essa mandò le sue an-celle a chiamare gli invitati.

Questi abitano nella città alta. Se l’autore pensa a Gerusalemme, ed è verosimile – dato che i redattori del periodo immediatamente successivo all’esilio sono con ogni probabilità della capitale –, allora la città alta è il nuovo quartiere costruito sulla collina a ovest del tempio, quando lì si accolsero i profughi di Samaria che fuggivano davanti agli Assiri intorno al 722. È la città nuova di cui parla 2Re 22,14. Forse era un quartiere di nuovi ricchi, se dobbiamo credere a Safonia (Sof 1,10 e il suo contesto). Se così fosse, la Sapienza dimorerebbe nella cit-tà vecchia, in basso, l’antica città di Davide.

Ebbene, quelli cui la Sapienza fa trasmettere il suo invito non sono dei parenti prossimi né degli amici, ma chiunque non abbia ancora un’educazione, giovani rozzi, meschinelli. Potran-no anche essere tanti, ma il cortile dalle sette colonne riuscirà ad accoglierne decine. Eccoli dunque invitati al banchetto della Sapienza. Questa offre loro cibo e bevanda, e il lettore sa che ha preparato carne e vino. Credere che in Pr 9,5 essa non offra altro che pane, invece di carne, non è capire che la parola ebraica qui usata significa globalmente cibo. Per questo, se noi, per indicare la città di cui sono originari Davide e Gesù diciamo Betlemme, la città del pane, in arabo la si chiama la città della carne! Pane o carne? Etimologicamente, il senso ori-ginario è cibo.

E la Sapienza conclude il suo invito con una spiegazione: rispondere al suo appello signifi-ca rinunciare a comportarsi da sciocchi, a non fare più i bambini, ma accettare di vedersi adul-ti, insomma trovare la vita, e scendere alla sua dimora significa prendere la via dell’intelli-genza.

2.3.2. Il senso della parabola

Questa parabola giunge al termine del prologo che apre sulle sette collezioni di proverbi raccolte dai sapienti dopo l’esilio. Con la loro opera, essi hanno dunque costruito una grande dimora, dal fondo antico; ma i sapienti ben sanno che non è soltanto opera loro o dei loro pre-decessori: è anche opera di quel Signore che tutti quanti li ispirava. E si tratta di collezioni che offrono un vero festino a chi accetti di farsene dono: costui ci guadagnerà in saper fare e in saper vivere; ci guadagnerà, in una parola, una buona educazione.

E per dirlo, niente di meglio, alla fine dell’introduzione, di questa parabola cui ognuno de-ve rispondere per se stesso: «Verrai a nutrirti a questo festino?». Anche Dt 8,3, la cui eco si sente fin nella tentazione di Gesù nel deserto (Mt 4,4), dice che è la parola di Dio a nutrire ve-ramente l’uomo, e anche Is 55,1-3a dice a sua volta che la parola profetica è un festino che dà la vita e a esso gli ascoltatori del profeta vengono per grazia invitati.

Dobbiamo soltanto aggiungere che il ritratto parallelo di Donna Stoltezza – soprattutto per-ché fa anch’essa un identico appello (Pr 9,16 e 9,4) – lascia capire che c’è da scegliere. Dt 30,15-20 mette ognuno al punto d’incrocio fra due vie: una porta alla vita, alla felicità, l’altra

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porta alla morte. L’introduzione del libro dei Proverbi termina con la medesima esigenza: devi scegliere; devi scegliere fra la Sapienza che ispirò i sapienti e mostra un cammino di vita e, dall’altra parte, Donna Stoltezza, simbolo dell’attrazione di tutte le sregolatezze che portano alla morte.

2.3.3. La lettura cristiana

Nell’ultima Cena, Gesù prese del pane e disse: «Questo è il mio corpo», e poi: «Questa è la coppa del mio sangue». La somiglianza con Pr 9,1-6 è così forte che spesso la parabola della Sapienza viene ripresa come cantico eucaristico. E con buona ragione. La seconda parte del discorso di Gesù a Cafarnao sul pane di vita (Gv 6,51-58) vi preparava, mostrando come esso porti a una scelta radicale (Gv 6,60-69). Ma sulla scorta di Dt 8,3 e Is 55,1-3a, già la parola di Gesù, già il suo messaggio è cibo che dà la vita (Gv 6,26-50; vedi anche 4,13-14; 7,37).

2.4. L’EPILOGO: IL RITRATTO DELLA DONNA FORTE (PR 31,10-31)

Il ritratto della sposa e madre esemplare che conclude il libro dei Proverbi suscita molte problematiche. Come dobbiamo intenderlo, quel ritratto, se letto come brano a sé stante? È il ritratto d’una donna veramente esistita, oppure idealizzata? Letto invece nel contesto del libro dei Proverbi, vi svolge una funzione particolare? Il prologo del libro (Pr 1–9) in effetti ha già descritto altre figure femminili, perlopiù considerate delle figure idealizzate oppure simboli-che; fra esse, le principali sono la Sapienza e la donna di vita malvagia; e neppure possiamo sottacere questa o quella allusione alla madre (Pr 1,8; 6,20). Il ritratto conclusivo della padro-na di casa ha dunque un ruolo speciale da svolgere, rispetto agli altri ritratti femminili del pro-logo? Sono le domande cui tenteremo ora di rispondere.

2.4.1. Alcune grandi donne dell’Antico Testamento

Non è la prima volta che l’Antico Testamento presenta delle grandi donne. Già nella Gene-si emergono le figure di Sara, Rebecca, Lia e Rachele. Al tempo dell’esodo troviamo Maria (o Miriam), la profetessa, sorella di Aronne. Poi venne Debora, al tempo dei Giudici; Rut, già anch’ella definita «donna forte» (Rt 3,11), e Anna, la madre di Samuele (1Sam 1,1–2,10); quindi Abigail, l’intelligente sposa del brutale Nabal (1Sam 25), e soprattutto Betsabea, la madre di Salomone. Ci furono anche altre regine, ma esse lasciarono un cattivo ricordo di sé, come Gezabèle, di Tiro, e sua figlia Atalìa, sulla metà del IX secolo. Al contrario, la Sunamita (2Re 4,8-37; 8,16), che ospitò Eliseo e il cui figlio venne riportato in vita dalla preghiera del profeta. Al tempo della riforma sotto Giosia, 2Re 22,14-20 fa ben risaltare il ruolo che vi ebbe la profetessa Culda, di Gerusalemme.

Dopo l’esilio e fino agli ultimi secoli che precedettero l’èra cristiana, ci si compiacque a tessere l’elogio di donne in brevi romanzi, come quelli dedicati a Sara, che divenne sposa di Tobia, a Giuditta e a Ester, che salvarono il loro popolo, a Susanna, liberata dalla lucidità di Daniele, alla madre dei sette figli (2Mac 7), senza poi dimenticare la giovane innamorata del Cantico dei cantici.

Se abbiamo ricordato tutte queste figure, è soltanto per dire che Pr 31,10-31 non è l’unico testo dell’Antico Testamento ad aver saputo riconoscere e descrivere una donna eccezionale.

2.4.2. La donna forte di Pr 31,10-31

2.4.2.1. L’elogio d’una donna

Eppure, questo ritratto ha qualcosa di particolare che lo rende unico nell’Antico Testamen-to. È un lungo poema tutto dedicato a una innominata. Anche Giuditta verrà cantata in un po-ema (Gdt 13,18-20; 15,9-10), ma più in breve e per un’azione di spicco, mentre la «donna for-te» sembra essersi distinta per anni interi. Questo passo (Pr 31,10-31) è anche un poema alfa-

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betico: ogni versetto comincia con una parola la cui prima lettera corrisponde, un versetto do-po l’altro, alle successive lettere dell’alfabeto. Nel testo ebraico, il primo versetto comincia con la lettera alef e l’ultimo con la lettera tau. È un procedimento letterario caratteristico della poesia. Suo scopo è sottolineare una totalità, «dall’a alla zeta», diremmo noi: può essere una lode (Sal 111–112), una preghiera (Sal 9–10), una meditazione (Sal 37; 119), ma anche un o-racolo profetico (Na 1,2-8, incompleto) oppure il grido d’un immenso dolore (Lam 1–4). In Pr 31, questo procedimento, che di per sé non è dunque caratteristicamente sapienziale, vuole sottolineare l’eccezionale qualità della donna.

È il ritratto d’una donna realmente esistita, oppure si tratta d’una pura finzione dell’imma-ginario poetico? Gli esegeti divergono sulla risposta da dare, e la maggior parte delle nostre Bibbie moderne traduce tutti i verbi del poema dedicato a questa donna con presenti atempo-rali o descrittivi, dunque senza riferimento a una persona concreta. In questo modo, allora, si sottolinea soprattutto il carattere idealizzato del ritratto, perfino sostenendo che una donna co-sì, possiamo pur starne certi, non solamente è fuori del comune, ma non è neanche immagina-bile che sia mai realmente esistita.

Eppure, degli esegeti fanno notare – e a ragione, io credo – che tutti i verbi del poema si spiegano correttamente, a livello grammaticale, se riferiti al passato, con alcune eccezioni, d’altronde evidenti (Pr 31,10a.31). Si tratterebbe allora d’un elogio funebre d’una sposa e madre, da poco scomparsa. In realtà, noi conosciamo l’elogio funebre, di grande poesia, che Davide intonò in onore di Saul e di Gionata (2Sam 1,19-27). Il Vicino Oriente Antico, né più né meno della Bibbia, non ci ha lasciato nessun altro elogio funebre d’una donna, ma un tal silenzio è ben debole argomento, considerando lo stato delle nostre attuali conoscenze. Resta il fatto che l’antichità latina, invece, ci ha trasmesso questo o quel testo analogo al nostro: si tratta di lunghi poemi, ritrovati su pietre tombali, che tessono l’elogio di questa o quella don-na di cui si compiange il decesso, vantandone le qualità e virtù. De mortuis nihil nisi bene, di-ce la massima latina: «d’una persona deceduta, si parli soltanto bene», anche se ciò non vuol dire che non avesse difetti. Lo stesso potrebbe valere per la donna di Pr 31,10-31.

Al Wolters6 ha dimostrato che il nostro poema corrisponderebbe al genere letterario dell’in-no, di cui anche i Salmi 111 e 112, ugualmente alfabetici, sono dei buoni esempi. L’inno viene introdotto e concluso con brevi parole, mentre il corpus del poema si diffonde ampiamente sui motivi della lode: successo delle imprese compiute da colui di cui si tesse l’elogio e, in parti-colare, il suo senso della giustizia, l’aiuto prestato ai poveri, il buon ricordo che lascia. La conclusione non omette d’alludere alla partecipazione d’altri all’elogio (Sal 111,10; 112,9). I due salmi cominciano con l’alleluia, «lodate YHWH!»; ebbene, Pr 31,31b adatta l’invito di-cendo: «la si lodi», che in ebraico ha quasi lo stesso suono. All’interno del genere letterario della lode, l’elogio funebre potrebbe costituire una sorta di sottogenere.

In questo caso, i primi tre versetti (Pr 31,10-12) farebbero da introduzione. Quella notevole donna fu un esempio raro, ma non inaudito: si vada al versetto 29. Chi non ha mai incontrato delle donne straordinarie? Da sole valgono più della ricchezza. Ricordiamo Madre Teresa, la fondatrice delle Missionarie della carità. I loro beni possono a volte essere frutto della loro fa-tica e della loro ingegnosità. La prima qualità della donna di cui il nostro testo tesse l’elogio fu l’armonia che l’univa al marito. Lui poteva contare su di lei, e lei non lo deluse mai; nel senso che, responsabile degli affari della casa, quella sposa li ha fatti prosperare «tutti i giorni della sua vita», cioè fino alla morte, la cui causa non è detta.

I quattro versetti che chiudono il poema (Pr 31,28-31) fanno da conclusione. Al marito a-desso si uniscono i figli a cantare l’elogio di quella donna che chiamano beata. L’elogio si ac-centua: quella sposa, quella madre superava molte donne di cui si sarebbero potuti vantare i meriti e l’efficienza. Pia esagerazione, forse, ma comprensibile quando si piange una sposa o

6 «Proverbs XXXI 10-31 as Heroic Hymn. A Form-critical Analysis», in Vetus Testamentum 38 (1988) 445-

457.

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una madre ammirata quanto amata. Valeva più della ricchezza, dice l’inizio del poema; adesso si aggiunge che il suo valore non stava nella grazia o nella bellezza – ne aveva passato l’età –, ma nella sua intelligenza. O perlomeno così lessero i Settanta della traduzione greca (Pr 31,30). Il testo ebraico, difficile da tradurre con esattezza, pare aggiungere o interpretare che quella donna viveva nel timore del Signore. È la sola nota religiosa dell’elogio. Dobbiamo soltanto più far osservare che l’ultimo versetto (Pr 31,31) probabilmente va corretto, modifi-cando le vocali del verbo iniziale; non già: «datele una parte...», ma piuttosto: «celebratela per...», che è formula caratteristica d’un elogio; e che l’ultima frase si spinge addirittura a chiedere che quell’elogio divenga un atto pubblico, ufficiale, da affiggere «alle porte della cit-tà», luogo delle assemblee e del Consiglio.

2.4.2.2. Le ragioni dell’elogio

La descrizione di questa notevole persona apre il corpus del poema (Pr 31,13-27). Qui so-no esposte le ragioni dell’elogio.

È evidente che si trattava d’una donna con la testa sul collo. Per descriverla, l’autore del poema non ha disposto i suoi versi come gli venivano, cercando unicamente di rispettare l’ordine alfabetico della loro prima lettera. Il suo poema è abbastanza ben congegnato. E ciò che tiene in unità la sua descrizione sono le precisazioni sul lavoro di quella donna. In effetti, ella dirigeva una piccola azienda familiare di tessitura. Selezionava le materie prime, la lana e il lino (Pr 31,13); per filarli, usava due strumenti, il fuso e quello che noi chiameremmo il rocchetto; ma la differenza fra i due termini ebraici sta forse nel fatto che uno serviva per il filo semplice, mentre l’altro assemblava due fili (Pr 31,19). Fabbricava tessuti, cuciva vestiti foderati (ma il senso è incerto), perché tutta la famiglia resistesse al freddo invernale (Pr 31,21), e altri indumenti (Pr 31,22). I vestiti che lei preparava erano di qualità: fine lino egi-ziano d’un bianco perfetto – lo s’indossa direttamente sulla pelle –, mentre altri venivano tinti con porpora rossa, che oggi sappiamo provenire da un mollusco delle spiagge di Tiro. Vestiti di lusso e pompa (Pr 31,22). Ma quella donna non si contentava di vestire i suoi; dei suoi tes-suti faceva anche commercio; vendeva drappi e anche delle cinture multicolori assai apprez-zate (Pr 31,24). Dirigeva insomma una fabbrica di tessitura che, dalla materia prima al pro-dotto finito, realizzava tutte le tappe della lavorazione e vendeva direttamente al grossista fe-nicio. La nostra donna manager non aveva aperto un piccolo commercio di vendita al detta-glio. Il quadro è logico e coerente. È anche in perfetta sintonia con gli usi del tempo e del luo-go. Da questo punto di vista, non è idealistico, ma realistico. Gli elementi che ordinano la de-scrizione vanno completati da altri dati del testo. I versetti 19 e 20, a motivo della loro somi-glianza e del loro contrasto, probabilmente dividono in due parti la descrizione. Potremmo, abbastanza alla lettera, tradurli così:

«Slanciava le sue mani sul fuso e le sue palme tenevano il rocchetto. Il suo palmo porgeva al misero e le sue mani slanciava verso il povero».

Il versetto 19 la descrive al lavoro, mentre il versetto 20 mostra la sua sollecitudine per i miseri. E in effetti, Pr 31,13-19 descrive le attività di questa dirigente, mentre Pr 31,20-27 ne sottolinea alcune qualità, in particolare il suo altruismo.

Nella prima serie di versetti, Pr 31,13-19, risalta la sua impetuosa attività: si levava presto al mattino, prima di giorno, e di notte la sua lampada brillava; ma dev’essere un’iperbole, per dire che si coricava tardi. Ecco una che aveva bisogno di dormir poco! Inoltre, era lei a procu-rare a tutta la casa il cibo e anche il vino, perché, con i suoi fruttuosi commerci, aveva potuto comprare anche una vigna. Infine, i suoi conti li faceva a notte tarda, e poteva costatare il po-sitivo bilancio della sua impresa, alla quale collaborava di persona filando con il fuso.

In compenso, la seconda parte, Pr 31,20-27, la mostra attenta agli altri. I poveri erano i primi beneficiari della sua efficace bontà. Un tocco autenticamente biblico, che fa capire co-

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me il successo non avesse fatto imbozzolare quella fortunata donna in se stessa o nei suoi stretti familiari. Anche questi erano comunque oggetto della sua sollecitudine. Vestiti foderati per tutti d’inverno. Vestiti di rappresentanza, di cui doveva essere il marito il primo a trar be-neficio. Lui faceva parte del Consiglio della città e in essa aveva un posto importante. Quel Consiglio, composto di note personalità – gli Anziani –, doveva in concreto assicurare il buon ordine nelle faccende locali, discutere i progetti e decidere le controversie fra gli abitanti. Egli esercitava dunque un’importante funzione pubblica, mentre la sua sposa assicurava il buon andamento della casa e dell’impresa di famiglia. Segno della nostra epoca, c’è chi ha trovato scandaloso che facesse lavorare così tanto la moglie in casa, mentre lui se ne stava a far girare i pollici alle porte della città! Significa non tener conto delle reali e a volte grandi responsabi-lità del marito. A ognuno il suo mestiere! C’è di più, se questo poema è veramente l’elogio funebre pronunciato dal marito (31,28): non sarebbe stato decoroso, se si fosse dilungato sulle proprie attività. Semplice questione di bon ton! Ma il poema torna alle qualità della defunta. Forza e dignità la caratterizzavano, e così pure la fiduciosa serenità nel futuro: non la minava l’ansietà. Ma, soprattutto, questa donna che stava appresso all’intera organizzazione della sua impresa e che si faceva personalmente la pasta per il pane (Pr 31,27), parlava con sapienza a tutti quelli che abitavano o lavoravano nella sua casa: i suoi avvertimenti e i suoi consigli era-no improntati a bontà (Pr 31,26).

2.4.2.3. Questo ritratto completa il prologo (Pr 1–9)?

La descrizione di questa donna esemplare ha fatto concretamente vedere come ella visse praticando una sapienza insieme industriosa e sollecita verso gli altri, fin nel modo di parlar loro. Dobbiamo andar oltre e dare al ritratto una dimensione simbolica?

Starebbe semplicemente a simboleggiare la Sapienza? Pr 8,22-31 ha descritto l’origine e l’infanzia della Sapienza; Pr 9,1-6 l’ha mostrata mentre inaugurava la sua casa. Pr 31,10-31 la descriverebbe pervenuta alla sua maturità di donna? Non si è riuscito a provarlo.

Ma quel che resta vero è che questa sposa e madre ammirevole fu la concretizzazione di tutto l’ideale della Sapienza. E poté esserlo solamente appropriandosi l’insegnamento dei sa-pienti e, soprattutto, poiché in qualche modo abitava in lei, come nei sapienti, la Sapienza che viene dall’alto.

Per questo si può capire come mai gli editori del libro dei Proverbi abbiano collocato alla fine questo ritratto e anche abbiano precisato, nel testo ebraico, che la donna era abitata dal timore di YHWH (31,30), una cosa che il prologo definiva il principio stesso della sapienza (1,7; 9,10).

È vero, il prologo ha messo fra loro in fortissimo contrasto la donna di vita malvagia de-scritta in Pr 7 e la Sapienza di Pr 8. Il dittico di Pr 9,1-6.13-18 ha ancor più accentuato il con-trasto.

Gli ammonimenti paterni che scandiscono il prologo mettevano in guardia dalla donna straniera, descritta qua e là in termini assai realistici. Non bisognava che a quelle concrete de-scrizioni si offrisse, a mo’ di contrappunto, il ritratto altrettanto realistico d’una donna esem-plare agli occhi dei sapienti? La figura della Sapienza non poteva soddisfare del tutto una si-mile esigenza, perché la Sapienza non è una donna di questo mondo, ma la personificazione della sapienza divina.

C’è sì Pr 5,15-19 a far da contrasto, con la raccomandazione d’evitare la straniera, che fa-cilmente diventa tentatrice. Ma quei pochi versetti invitano soltanto a restare fedeli alla pro-pria legittima sposa. Di questa, non vien data nessuna precisa descrizione, salvo chiamarla «la donna della tua giovinezza» (Pr 5,18), «amabile cerbiatta e gazzella deliziosa» (Pr 5,19). E ciò fa pensare al Cantico dei cantici e confermerebbe la supposizione che l’invito paterno alla fedeltà verso la sposa legittima sia rivolta a giovani. Del resto, gli scarni accenni alla madre (Pr 1,8; 6,20) e al suo insegnamento sono fatti come en passant, senza la minima elaborazio-ne.

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Proverbi 45

Mancava dunque, nel prologo, un ritratto in positivo d’una donna concreta che prendesse in contropiede il ritratto dell’adultera e della prostituta. Tale è il senso del ritratto qui dedicato alla «donna forte»: il prologo trova così un’eco.

È per questa ragione che questo finale ritratto del libro dei Proverbi viene perlopiù conside-rato opera dei redattori del periodo successivo all’esilio. E tale conclusione ne comporta una seconda: questo ritratto va letto come complemento positivo del prologo: esso fa vedere come la Sapienza divina può animare una vita di tutti i giorni e fare da antidoto alla tentazione. Il libro finisce insomma con una nota d’ottimismo.

CONCLUSIONE

L’itinerario proposto in queste pagine avrà fatto intuire non soltanto la complessità del li-bro dei Proverbi, ma anche alcune delle sue ricchezze. Oltre a fornire dei dati generali utili per la comprensione del libro, ci siamo maggiormente dilungati su questo o quel passo più impor-tante. Forse dobbiamo ancora un’ultima volta sottolineare che questo libro è una somma di documenti sapienziali d’origini quanto mai diverse. Qui sono riuniti molti secoli di sapienza; gli autori furono molti e non tutti appartenevano al popolo d’Israele. E ciò fa del libro dei Proverbi un compendio di stupenda varietà. È il libro fondamentale della sapienza d’Israele. Gli altri libri sapienziali dell’Antico Testamento hanno infatti una propria unità interna che deriva loro dall’unicità dell’autore, almeno per quanto concerne la parte essenziale dei vari li-bri.

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA

Commenti

ALONSO SCHÖKEL, L. - VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., I Proverbi, Roma 1988. I numerosissimi meriti di questo commento lo collocano tra i tre migliori. Il libro si apre con una

ampia introduzione al mondo della sapienza. Un’altra introduzione specifica per i Proverbi e uno stu-dio delle sue forme letterarie costituiscono il portale d’accesso al commento vero e proprio. Prevalgo-no negli autori due virtù che ben si attagliano all’oggetto del loro studio: l’ingegno e la perspicacia. Attraverso numerosi esempi comparativi tra le sentenze dei Proverbi e l’epigrammatica spagnola (stu-diati sotto il profilo della forma, dello stile e del contenuto) il lettore è condotto alla comprensione e all’approfondimento di questo tipo di letteratura. Il lettore troverà una ricca scelta di paralleli tratti dal-le paremiologia spagnola.

BARUCQ, A., Le livre des Proverbes (SB), Paris 1964. Una breve introduzione di trenta pagine e una bibliografia sintetica introducono al commento. La

forma espositiva varia in ragione dell’ampiezza e delle caratteristiche formali del testo. Mentre per i capp. 1–9 e 30–31 l’autore commenta separatamente le varie unità, la forma gnomica dei capp. 10–29 lo obbliga a cambiare il metodo espositivo. Così nelle diverse raccolte che compongono i capp. 10–29 egli evita il commento delle singole massime a vantaggio dei luoghi comuni o degli elementi teologici della raccolta in oggetto. Questa scelta rende difficoltosa per il lettore la consultazione del commento a singoli proverbi.

HUBBARD, D.A., Proverbs, Dallas 1989. L’elemento più rilevante di quest’opera è la disposizione del commento. I capitoli che lo costitui-

scono coincidono in numero con i capitoli dei Proverbi; l’autore li commenta capitolo per capitolo, ma in modo originale. Di ciascun capitolo sottolinea i luoghi comuni più significativi, studiati alla luce di (e insieme a) sentenze identiche o analoghe del resto dei Proverbi. Per evitare confusioni e consentire al lettore di trovare senza difficoltà il passo in cui un certo testo viene commentato all’inizio del libro, viene proposta una tavola in cui ciascun versetto è affiancato dal capitolo e dalla pagina in cui viene trattato. Quest’opera, pur essendo di scarsa utilità per gli specialisti, costituisce senza dubbio un im-portante contributo alla divulgazione di alto livello.

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46 Proverbi

MCKANE, W., Proverbs (OTL), London 1977. È probabilmente il miglior commento ai Proverbi dal punto di vista degli studi storico-formali.

L’introduzione è dedicata alla problematica di Pr 1–9, alla letteratura di sentenze dei Proverbi, al si-gnificato del termine māšāl e al testo greco dei LXX. La parte più originale e valida del libro, che oc-cupa 160 pagine, è incentrata sull’analisi formale delle istruzioni egiziane e assiro-babilonesi. La se-conda parte del libro affronta il commento ai Proverbi propriamente detto.

PLÖGER, O., Sprüche Salomos (Proverbia) (BK 17), Neukirchen/Vluyn 1984. Il prestigio e l’alto livello scientifico dei commenti del «Biblischer Kommentar» sono noti. L’opera

di Plöger non delude le attese dei lettori. L’introduzione (pp. xiii-xxxvii) affronta con chiarezza e pro-fondità la problematica generale dei Proverbi; gli aspetti particolari e controversi sono trattati nel commento. Il contenuto dell’esposizione può risultare talvolta farraginoso e tedioso, perché l’autore si perde in dettagli poco o punto decisivi per la comprensione del testo. Tuttavia si tratta di un’opera ec-cellente, di consultazione obbligata per gli specialisti.

TOY, C.H., The Book o f Proverbs (ICC), Edinburgh 1948, rist. 1977. I commenti di questa collana sono caratterizzati dall’eccellente (talvolta insuperabile) esame del te-

sto e per la sobrietà e il rigore dell’esposizione. Il libro di Toy è superiore agli altri della stessa collana proprio da questi punti di vista. Al contrario è scarso l’interesse per gli aspetti letterari e stilistici, il che peraltro non compromette la posizione privilegiata che questo libro occupa nelle biblioteche.

Altri studi

BOSTRÖM, L., The God of the Sages, Stockholm 1990. Il sottotitolo di questo libro restringe la portata del titolo: The Portrayal o f God in the Book of Pro-

verbs. Una introduzione dedicata alla letteratura sapienziale e al libro dei Proverbi conduce il lettore sulla soglia delle due parti che formano il libro: i. teologia della creazione e ordine (teologia della cre-azione, Dio, retribuzione e ordine); ii. rapporto tra Dio e il mondo (il Signore come Dio supremo e come Dio personale). Le analisi dei testi biblici sono affiancate da costanti riferimenti alle letterature di sentenze dei paesi vicini a Israele.

KAYATZ, CH., Studien zu Proverbien 1–9, Neukirchen/Vluyn 1966. Prima di procedere alla minuziosa analisi dei capp. 1–9 dei Proverbi l’autrice dedica un’ampia in-

troduzione ai risultati del metodo comparativo tra le letterature sapienziali di Israele e d’Egitto, in par-ticolare per i luoghi comuni più discussi: problemi formali, problemi di contenuto (rapporto azione-risultato; sapienza e timore di YHWH; processo d’ipostatizzazione). Le analisi formali del resto del li-bro attirano l’attenzione del lettore per la chiarezza espositiva, il rigore analitico e le conclusioni sor-prendenti.

LANG, B., Die weisheitliche Lehrrede, Stuttgart 1972. L’opera è dedicata alle «istruzioni» del libro dei Proverbi. Dopo un’introduzione sui Proverbi nella

critica biblica da Nicola di Lira a Adolf Erman, l’autore affronta le istruzioni dal punto di vista lettera-rio (carattere, funzione ed epoca) ed esegetico (rapporto azione-risultato; pietà e religione; la «donna straniera»).

LANG, B., Wisdom and the Book of Proverbs, New York 1986. Questo libro è la traduzione dell’originale tedesco Frau Weisheit (Donna Sapienza). Il sottotitolo

indica la portata e i limiti del libro: A Hebrew Goddess Redefined. L’opera si compone di quattro capi-toli: 1. la Sapienza come maestro; 2. la Sapienza come dea; 3. la Sapienza personificata di fronte alla personificazione della stoltezza; 4. chi è Sapienza? L’opera nel suo insieme è di grande utilità se si e-sclude l’errore così frequentemente ripetuto di mettere in rapporto la Sapienza di Pr 1–9 con un corpus di elementi mitologici che portano a questa inaccettabile affermazione: «In Pr 1–9 scopriamo bei testi politeistici su una dea israelita. Questa dea, chiamata ˙okmâ (Sapienza o Intelligenza), fu solo in se-guito considerata una semplice personificazione poetica riferita alla sapienza scolastica o alla sapienza di Dio stesso» (p. 129).

STEIERT, F.-J., Die Weisheit Israels, ein Fremdkörper im Alten Testament?, Freiburg i.Br. 1990. L’autore si propone di riesaminare il libro dei Proverbi alla luce delle istruzioni egiziane, secondo

quanto recita il sottotitolo dell’opera: Eine Untersuchung zum Buch der Sprüche auf dem Hintergrund

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Proverbi 47

des ägyptischen Weisheitslehre (Ricerca sul libro dei Proverbi sulla base della dottrina sapienziale e-giziana). Nella prima parte, dedicata ai capp. 10–29, in cui si affronta il «locus teologico» della sa-pienza israelitica, l’autore passa in rassegna le proposte dei principali studiosi moderni sull’argomento per rileggerle secondo la prospettiva della sapienza egiziana. Il secondo capitolo è incentrato su Pr 1–9. È notevole lo studio dei rapporti Sapienza/maestro e Sapienza/YHWH.

WHYBRAY, R.N., Wisdom in Proverbs (SBT 45), London 1965. Anche quest’opera è già un classico dedicato allo studio di Pr 1–9 in rapporto con il problema della

sapienza (I). Dopo un’analisi del «Libro dei dieci discorsi» (II), l’autore lo compara con le istruzioni egiziane (III). La parte più interessante del libro studia l’evoluzione del concetto di sapienza in due fa-si (IV). Un sintetico riepilogo riassume la ricerca dell’autore. Nonostante il tempo trascorso dalla pub-blicazione e i recenti interventi critici su alcune sue idee, quest’opera è ancora una lettura utile e indi-spensabile.

Inoltre, in italiano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:

BERNINI, G., Proverbi (NVB 19), Roma 1978. LAURENTINI, G., Proverbi, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Introduzione alla

Bibbia 3), Bologna 1978, 377-404. RAVASI, G., Proverbi, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 1247-1257. BONORA, A., Proverbi-Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990 MCCREESH, T.P., Proverbi, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 591-601. MORLA ASENSIO, V., Il libro dei Proverbi, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 91-116. BONORA, A., Proverbi, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4),

Torino-Leumann 1997, 47-56. MAZZINGHI, L., Il libro dei Proverbi (Guide spirituali all’Antico Testamento), Roma 2003. PINTO, S., “Ascolta figlio”. Autorità e antropologia dell’insegnamento in Proverbi 1–9, Roma 2006. SIGNORETTO, M., Metafora e didattica in Proverbi 1–9, Assisi 2006. CIMOSA, M., Proverbi. Nuova versione, introduzione e commento (I libri biblici. Primo Testamento

22), Milano 2007.

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 1/2003: «Il libro dei Proverbi».

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GIOBBE*

1. GIOBBE NELLA STORIA Quando si evoca il libro di Giobbe vengono fatte risuonare differenti armoniche, che varia-

no in rapporto all’uditorio o all’ambiente. A volte, infatti, è il problema della sofferenza o lo scandalo del male nel mondo a provocare maggiormente la riflessione. In altri casi, in sintonia con una lunga tradizione giudaico-cristiana, emerge in modo specifico la questione della sof-ferenza dell’innocente; nel personaggio di Giobbe viene identificato il popolo di Israele per-seguitato, o ancora, in ambito cristiano, la figura del Crocifisso del Calvario. Ai numerosi let-tori contemporanei, che privilegiano una lettura incentrata sui dialoghi colmi di pathos del li-bro, Giobbe appare come l’uomo ribelle. Per altri, più attenti alla «storia» del prologo e dell’epilogo, egli è il modello dell’uomo sottomesso al destino o alla volontà di Dio.

Qualunque sia stata la sua destinazione originaria, questo libro viene annoverato nella Scrittura fra i «libri sapienziali». Questo fatto va tenuto in considerazione ai fini di una corret-ta interpretazione. Infatti, mentre la Torāh e i Profeti dicono e interpretano la Parola che Dio rivolge all’uomo, gli scritti sapienziali esprimono i sentimenti e i pensieri dell’uomo respon-sabile del mondo che è creato e che riceve un fine da Dio. La Bibbia ebraica colloca il libro di Giobbe dopo i Salmi e i Proverbi, con i quali forma un gruppo indivisibile, e prima del Canti-co. La Bibbia greca e la Volgata latina lo situano immediatamente dopo i Salmi e prima dei Proverbi. Nelle nostre traduzioni moderne Giobbe lo si trova all’inizio dei libri sapienziali, prima del Salterio e dei Proverbi (Bibbia di Gerusalemme), o fra il Salterio e i Proverbi (TOB).

Non si può leggere quest’opera senza porsi dei problemi essenziali: a che serve la vita u-mana se la sofferenza è inevitabile? Come si pone Dio di fronte al male dell’uomo? Se Dio è buono, perché la sofferenza? In nome di quale giustizia soffre l’innocente? Ha un senso la preghiera quando l’uomo è colpito dall’afflizione e piomba nell’angoscia della morte?... In modo ancora più radicale, questo scritto sapienziale suscita l’interrogativo supremo: «La sof-ferenza dell’uomo ha forse un senso: un significato o un orientamento, meglio, una finalità?».

I grandi teologi non hanno ignorato questo libro: sant’Agostino (354-430), san Girolamo (342-419), sant’Ambrogio (333-397), per citarne solamente alcuni, lo hanno meditato e com-mentato. In particolare, si possono ricordare gli Scritti morali su Giobbe di Gregorio Magno (540-604); sviluppando il triplice senso della Scrittura (storico, allegorico e morale), egli si preoccupa di far percepire come la dottrina cristiana sia orientata alla pratica. San Tommaso ha scritto un commentario ricco e approfondito, che si propone di presentare una nozione esat-ta della provvidenza divina così come essa appare nella Sapienza di cui ci parlano i libri santi, e in modo singolare quello di Giobbe.

La letteratura, lungo il corso dei secoli, si è ispirata a quest’opera: il XV secolo ci offre il bel Mistero della Pazienza di Giobbe, mentre Pascal, Racine e Bossuet evidenziano più volen-tieri il suo carattere tragico. Gli scrittori moderni si sono lasciati afferrare da questa potente figura dell’uomo Giobbe, schiacciato arbitrariamente da mali immeritati e che grida al mondo la sua ribellione contro una ingiustizia la cui stessa dismisura indica Dio come il grande re-sponsabile. Citiamo il filosofo Søren Kierkegaard, lo psicologo C.G. Jung, il pensatore Philip-pe Nemo. Questo leggendario contestatore non è forse presente nella filigrana di grandi capo-lavori quali il Faust di Goethe, La peste d’Albert Camus, I fratelli Karamazov di Dostoevskij, i film di Bergman, quali Luci d’inverno o Sussurri e grida?

* Cfr. J. LÉVÊQUE, Libro di Giobbe, in J. AUNEAU (ed.), I salmi e gli altri scritti (Piccola Enciclopedia Bibli-

ca 5), Roma 1991, 89-114; D. SCAIOLA, Giobbe, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 60-67; J. RADERMAKERS, Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, Bologna 1999, 11-15; W. VOGELS, Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, Cinisello Balsamo 2001.

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Giobbe 49

Da parte loro, i condannati di Auschwitz, così come gli uomini della resistenza del Salva-dor, vi hanno riconosciuto il volto del loro dolore e della loro ribellione, al punto che questa immagine dell’uomo piagato ma non vinto assilla gli spiriti dei sofferenti di sempre e di ogni luogo: il male dell’uomo, la sofferenza contro la quale egli si dibatte disperatamente hanno un senso o non è invece il segno dell’assurdo nel cuore della nostra umanità?

Malgrado l’incontestabile posta in gioco di tale opera, la liturgia romana fa poco spazio a questo scritto sapienziale, lasciando al drammaturgo o al romanziere la cura di «rappresenta-re» il dramma che esso esprime. Due piccoli passi sono ripresi nel lezionario domenicale: la 5a e la 12a domenica nell’anno del ciclo B; si tratta di un lamento, tutto sommato poco incisi-vo, sul destino umano paragonato a un duro lavoro (7,1-7), e dell’inizio del discorso di Dio, che mostra la grandezza del suo progetto creatore (38,1-11). Per contro, l’antica liturgia dei defunti citava una decina di passi del libro di Giobbe, culminando con l’annuncio velato della risurrezione in 19,25-27; quella uscita dal Vaticano II non ha seguito le sue orme. Ci si può di-spiacere per questo. La 26a settimana del Tempo ordinario presenta, ogni due anni, dei tratti significativi del prologo (1,6-22) e dell’epilogo (42,1-6.12-17), poi dell’angoscia (9,1-19) e della speranza (19,21-27) di Giobbe, e infine del discorso di Dio (38,1-3.12-21 e 40,3-5). Il martirologio romano poi, iscrive al 10 di maggio la festa di san Giobbe, «uomo di una ammi-rabile pazienza». Il suo culto lo si vede apparire nel IV secolo, a Bosra, alla frontiera fra l’Arabia e l’Idumea (cfr. Gen 36,33; Is 34,6; 63,1), ma la pellegrina spagnola Egeria situa la tomba del santo a Carneas, nell’Ausitide: riflesso di due antiche tradizioni divergenti. In occi-dente, il culto di san Giobbe si è fissato a Pavia, Bologna e Venezia, così come in Belgio, e particolarmente a Uccle. Lo si invoca contro la lebbra e l’elefantiasi.

Il personaggio di Giobbe è rappresentato nell’arte dei primi secoli, ad esempio nelle cata-combe romane di Callisto e Domitilla, nei sarcofagi di Giunio Basso al Museo Vaticano e a Lione. Lo si vede nelle miniature bizantine, poi, dal X secolo, nelle sculture romaniche a Ri-poll in Catalogna, a Tolosa e ad Avignone; raffigura la passione e la risurrezione di Cristo. Si profila sui timpani di Reims e di Chartres (XIII sec.) e adorna i manoscritti dei Moralia di san Gregorio (Bibbia di Sauvigny a Moulins), poi, verso il XV secolo, i «libri delle ore», fra cui quello di Stefano Chevalier, a Reims, o quello di Anna di Bretagna. Notiamo ancora le Bibbie fiamminghe del XVI secolo, in particolare quella di Willem Vorsterman (1528), che fa di Giobbe il patrono dei menestrelli, rappresentati dai suoi amici che vengono a fargli una matti-nata. Nella maggior parte di queste rappresentazioni, Giobbe appare come un modello di pa-zienza, che prefigura le sofferenze del Crocifisso. Nel rinascimento viene posto l’accento so-prattutto sulle prove di Giobbe, torturato da satana, schernito da sua moglie e dai suoi amici, come nella pala di Van Orley a Bruxelles o in quelle di Dürer a Francoforte e a Colonia, e, dal XVII secolo, nelle pitture di Lievens e di Rubens, al Museo del Louvre, e in quelle di Rem-brandt e di La Tour (Epinal), di Murillo e di Ribera in Spagna, fino agli acquerelli per il libro di Giobbe di W. Blake (1825) o lo studio recente di Françoise Burtz a Lilla. Notiamo ancora la straziante statua dello scultore israeliano Nathan Rapoport posta all’ingresso del memoriale di Yad Vashem a Gerusalemme.

Anche l’islam fa spazio alla figura di Giobbe (’Ayyûb). Il Corano ne parla più volte e la versione di al-Kisâ’î, fra l’altro, apporta numerosi dettagli leggendari che non compaiono nel-la Bibbia ebraica. Così la moglie di Giobbe, il cui ruolo è abbellito, sarebbe lei pure musul-mana: simboleggia, in qualche modo, la moglie fedele che non abbandona suo marito nell’av-versità. La tradizione dell’islam presenta così il personaggio di Giobbe come il modello della pazienza nella prova, e anche come tipo del vero mistico.

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50 Giobbe

2. IL PERSONAGGIO DI GIOBBE Se si dà retta al Talmud di Babilonia, «Giobbe non è mai esistito, e non è mai stato creato.

È solo una parabola»1. Così la tradizione giudaica considera prioritaria innanzitutto la que-stione della sofferenza, lasciando in secondo piano l’identità del sofferente. I libri sapienziali infatti, eliminano generalmente gli aspetti concreti della storia per conservare soltanto il carat-tere umano universale di un problema o di un tema. Ora l’autore del libro di Giobbe situa il suo personaggio nel tempo – l’epoca patriarcale – e nello spazio – in Edom o in Arabia. Que-sto indica la volontà di sottolineare la realtà dell’eroe messo in scena e nello stesso tempo di mostrare che egli non si riduce a una figura emblematica. Se il lettore può riconoscere la sua personale sofferenza o quella dei suoi parenti nel personaggio del libro, è perché quest’ultimo ha prima di tutto una consistenza storica: colpito lui stesso dalla sventura, riassume nella sua esistenza le sofferenze reali di uomini e di donne della storia umana, nel senso in cui la storia, lungi dall’essere imprigionata in individualità giustapposte, concerne tutti coloro che la vivo-no, e la cui testimonianza è consegnata nel libro.

Il personaggio di Giobbe non è sconosciuto nella Bibbia. Come altri, è testimone di una re-altà vitale diventata esemplare. Due testi della Scrittura ne fanno menzione: l’uno, nel libro di Ezechiele, appartiene all’Antico Testamento; l’altro, nella Lettera di Giacomo, appartiene al Nuovo Testamento.

Il testo di Ez 14,12-23 parla del peccato e della responsabilità personale:

«Figlio dell’uomo, se un paese pecca contro di me e si rende infedele, io stendo la mano sopra di lui... anche se nel paese vivessero Noè, Daniele e Giobbe: come è vero che io vivo, dice il Signore Dio: non salverebbero né figli né figlie, essi con la loro giustizia salverebbero solo se stessi. Dice infatti il Signore Dio: Quando manderò contro Gerusalemme i miei quattro tremendi castighi: la spada, la fame, le bestie feroci e la peste, per estirpare da essa uomini e bestie, ecco, vi sarà in mezzo ad essi un re-siduo che si metterà in salvo, con i figli e le figlie. Essi verranno da voi perché vediate la loro condotta e le loro opere e vi consoliate del male che ho mandato contro Gerusalemme, di quanto ho mandato contro di lei. Essi vi consoleranno quando vedrete la loro condotta e le loro opere e saprete che non invano ho fatto quello che ho fatto in mezzo a lei. Parola del Signore Dio».

Il profeta fa allusione a un peccato collettivo di infedeltà all’alleanza di Dio. Questi ha il dovere di infierire contro il paese attraverso i cataclismi ben noti: la violenza commessa con-tro l’alleanza richiede una violenza di compensazione contro le persone che hanno peccato; questa è la legge della retribuzione assegnata alla giustizia divina. Questa violenza si esercita con la carestia distruttrice, le bestie feroci, la guerra e la peste, cioè attraverso l’aggressività degli uomini e della natura: ritroveremo l’una e l’altra nel prologo del libro di Giobbe. Ora il profeta suppone che abitino questo paese tre uomini esemplari: Noè, la figura del giusto per eccellenza (cfr. Gen 6,9), che ha attraversato il diluvio delle potenze del male; Daniele, pre-sente nei testi fenici del II millennio ritrovati a Ugarit, è un esempio insigne di virtù e di sa-pienza nella sofferenza – da identificarsi senza dubbio con l’eroe del libro di Daniele (cfr. Dan 2,14ss) –, che sfida i fulmini di Nabucodonosor e interpreta i suoi sogni; e Giobbe, di cui il prologo ci descrive la pazienza e la sottomissione in mezzo alle prove. Ebbene, continua il profeta, questi tre uomini «con la loro giustizia salveranno solo se stessi» (Ez 14,14.20), men-tre i loro figli periranno, senza possibilità di intercessione paterna.

Il profeta, come si vede, mette l’accento sulla responsabilità individuale, dovendo ciascuno portare il peso e le conseguenze del proprio peccato, nel quadro di una giusta retribuzione, fi-no a sembrare escludere la partecipazione ai meriti dei propri padri. Tuttavia questi tre perso-naggi, che la loro giustizia personale protegge, salvando la loro vita, diventano per i loro con-temporanei, grazie al profeta, una interpellanza e un invito alla conversione. L’applicazione che Ezechiele fa a Gerusalemme è significativa: malgrado l’irrompere dei quattro terribili fla-gelli, c’è un resto: dei sopravvissuti che hanno resistito al male e hanno retto grazie alla loro

1 Trattato Baba Bathra 15 ab.

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Giobbe 51

perseveranza. Questi testimoni sono «consolazione» per i loro fratelli. Non c’è dunque soltan-to una giustizia retributiva che castiga i malvagi, ma esiste anche una azione consolatrice dei giusti in rapporto ai loro contemporanei, segno della misericordia di Dio al di là della stretta retribuzione. E si intuisce che questa deve non solo invitare gli uomini al pentimento, ma a-prirli anche all’esatta comprensione dell’azione di Dio, ugualmente responsabile.

È difficile decidere se questo oracolo di Ezechiele è posteriore o anteriore al libro di Giob-be, e particolarmente al racconto del prologo. Ad ogni modo, questi due testi sembrano pre-sentare una stessa teologia, ispirata da una riflessione sulla distruzione di Gerusalemme di cui fu testimone il profeta (cfr. Ez 24,15-27). Senza dubbio esisteva una «leggenda di Giobbe», un antico racconto tradizionale utilizzato dal prologo del nostro scritto; è a questo che si riferi-rebbe l’oracolo di Ezechiele.

Anche il Nuovo Testamento fa una allusione a Giobbe, in Gc 5,11:

«Ecco, noi chiamiamo beati quelli che hanno sopportato con pazienza. Avete udito parlare della pazienza di Giobbe e conoscete la sorte finale che gli riserbò il Signore, perché il Signore è ricco di misericordia e di compassione».

Si tratta qui dell’avvento del Signore che si attende come l’agricoltore che nutre la speran-za che una bella mietitura verrà a ricompensarlo dei suoi sforzi. Il Signore viene per giudicare gli uomini, invitandoci fin d’ora ad assumere un atteggiamento di pazienza in mezzo ad una sofferenza paragonabile a quella dei profeti «che hanno parlato in nome del Signore». E l’autore cita il modello proverbiale della costanza nella prova: Giobbe, prima di riprendere un versetto più volte ripetuto nella Bibbia dall’apparizione del Dio di misericordia alla fine dell’episodio del vitello d’oro (cfr. Es 34,6; Sal 103,8...); «perché il Signore è ricco di miseri-cordia e di compassione». Giacomo parla qui di Giobbe per riferirsi alla misericordia e alla compassione di Dio nel tempo stesso in cui ricorda la sua pazienza e la sua perseveranza nella prova. Così Ezechiele sottolineava piuttosto la giustizia di Giobbe e il suo ruolo di consolato-re per i suoi contemporanei. Giacomo lo considera soprattutto come un modello di costanza, nel quale si scopre qualcosa della misericordia di Dio.

Ma il passo della Lettera di Giacomo non finisce lì. Egli porta avanti la sua idea nella sua esortazione finale (Gc 5,13-20):

«Chi tra voi è nel dolore, preghi; chi è nella gioia salmeggi. Chi è malato, chiami a sé i presbiteri della Chiesa e preghino su di lui, dopo averlo unto con olio, nel nome del Signore. E la preghiera fatta con fede salverà il malato: il Signore lo rialzerà e se ha commesso peccati, gli saranno perdonati. Confessate perciò i vostri pec-cati gli uni agli altri e pregate gli uni per gli altri per essere guariti. Molto vale la preghiera del giusto fatta con insistenza. Elia era un uomo della nostra stessa natura: pregò in-tensamente che non piovesse e non piovve sulla terra per tre anni e sei mesi. Poi pregò di nuovo e il cielo diede la pioggia e la terra produsse il suo frutto. Fratelli miei, se uno di voi si allontana dalla verità e un altro ve lo riconduce, costui sappia che chi riconduce un peccatore dalla sua via di errore, salverà la sua anima dalla morte e coprirà una moltitudine di peccati».

Così la preghiera della fede – conversazione con Dio – appare come rimedio alla sofferen-za. Essa è accoglienza del perdono di Dio; conduce alla condivisione scambievole delle pro-prie debolezze e alla solidarietà nell’atto di guarigione. E dopo il modello di Giobbe, è quello di Elia, l’intercessore, che viene proposto alla nostra meditazione: la supplica fervente del giusto ha una sicura efficacia. E di nuovo il finale della lettera ritorna all’intercessione e alla correzione fraterna che manifestano la solidarietà fra giusti e peccatori.

Queste due menzioni scritturistiche di Giobbe ci dicono il modo in cui la tradizione giudai-co-cristiana considera il personaggio; ci aprono un cammino di interpretazione. Giobbe appa-re come il segno della presenza di Dio giusto e misericordioso. È modello di resistenza nella prova, e come tale, la sua testimonianza per noi è insieme consolazione e mediazione. Ma è forse questa la visione che ci dà una prima lettura di Giobbe? Non appare piuttosto come il paradigma della contestazione e della ribellione? L’accettazione di questi contrasti fa parte dell’atto di lettura del libro nella Scrittura e nella Tradizione.

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3. PARALLELI EXTRA-BIBLICI La tematica del libro di Giobbe è trattata anche da altri autori del Vicino Oriente Antico in

testi che affrontano espressamente il tema dell’uomo davanti al dolore o il tema del «giusto sofferente».

3.1. MESOPOTAMIA

È la Mesopotamia che ha fornito finora i paralleli più convincenti al libro di Giobbe sul tema della sofferenza del giusto. Sembra che il mistero, irritante per la ragione umana, di un destino che sfugge a tutte le regole della giustizia, abbia fin dal principio intrigato gli abitanti della regione dei due fiumi dal momento che dall’epoca proto-sumera attraverso l’epoca di Hammurabi, il periodo cassita, assiro e fino agli ultimi tempi dei Sargonidi, non è mai venuto meno in Mesopotamia l’interesse per i problemi umani e teologici sollevati dall’arbitrarietà del destino.

3.1.1. Teodicea babilonese

Tra i testi del mondo mesopotamico il più vicino a Giobbe per il genere letterario e la teo-logia soggiacente è la Teodicea babilonese2, una conversazione filosofica sul problema del male tra un uomo angosciato e il suo amico. Alla fine nessun intervento divino cambia la si-tuazione del protagonista. Molto sviluppato in questo testo è il dialogo e interessante è il cam-biamento che avviene nell’amico: a partire da una posizione positiva e disponibile, poco a po-co si indurisce fino ad attaccare il protagonista accusandolo di empietà. Ma anche per lui gli dèi finiranno per divenire enigmatici.

Entrambi i personaggi subiscono un’evoluzione: il primo passa dal dubbio e dalla ribellio-ne all’accettazione, mentre l’altro parte dalla certezza e arriva al mistero. I punti di contatto col libro di Giobbe sono: la forma dialogata, l’ironia, la difesa della teologia tradizionale. In entrambi i casi viene messa in discussione la giustizia degli dèi, il tono generale è pessimisti-co, ma la soluzione del conflitto si pone in Giobbe su un piano più elevato.

3.1.2. Il «Giobbe sumerico»

Il testo, noto anche come «Lamentazione di un uomo al suo dio», può essere suddiviso in cinque parti. Nella prima si invita a lodare la divinità e questo fornisce lo sfondo sul quale in-serire la storia di un individuo innocente («non usa la sua forza per fare il male») che, colpito dalla sofferenza e dalla malattia, si rivolge al suo dio (seconda parte). La sezione centrale svi-luppa il lamento del protagonista, falsamente accusato, perciò caduto in disgrazia presso il re, tradito da compagni e amici, senza che il suo dio intervenga. La causa di tutto questo potrebbe essere imputata alla colpa personale. La quarta parte descrive il rovesciamento della situazio-ne perché la divinità «cambiò la sofferenza dell’uomo in gioia» e il testo si chiude con una lo-de al dio.

La tesi generale è che, quando si sperimenta la sofferenza, anche ingiustificata, bisogna ri-correre alla divinità; interessante è la relazione stabilita tra peccato e sofferenza: anche se il protagonista sembra essere un giusto, non è esente dalla situazione di colpa, comune alla con-dizione umana, e neanche da possibili colpe personali. Rispetto a Giobbe, questo testo aiuta a comprendere le posizioni degli amici; però non viene posto il problema della teodicea perché il peccato spiega tutto.

2 Conosciuta anche come «Poema acrostico» o «Dialogo di un sofferente con il suo amico». Per il testo, va-

riamente datato, vedi ANET, 601-604; G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, Torino 1977, 493-500.

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3.1.3. «Voglio lodare il signore della sapienza»

Si tratta di un ampio monologo3 in cui il protagonista loda il suo dio Marduk per averlo li-berato da tutte le sofferenze che gli erano capitate. Degna di nota è l’ambivalenza di questa divinità che alterna momenti di collera a momenti di compassione. Il testo, pur descrivendo una situazione di angoscia simile a quella contenuta nel libro di Giobbe, appare fin dall’inizio orientata verso la soluzione positiva («Voglio lodare») riducendo la tensione drammatica del poema. Dominante infatti nel testo non è la situazione di crisi nella quale si trova il protagoni-sta e neanche l’enigma rappresentato dai diversi atteggiamenti di Marduk, ma la gioia di aver ricuperato la salute e la fiducia nel dio.

Ritroviamo qui la tesi fondamentale sostenuta dal «Giobbe sumerico»: nella sofferenza si deve ricorrere agli dèi e aspettare da essi la salvezza. Pure in questo testo la teodicea non è un problema perché l’enigma, se c’è, consiste nel conoscere ciò che fa piacere alla divinità e che permette, di conseguenza, di essere liberati dalla punizione.

In conclusione, da questo rapido confronto emerge la superiorità del libro di Giobbe: per la complessità della struttura, per l’estensione dell’opera, per la tensione drammatica e per la ricchezza della problematica; insieme è interessante notare che l’autore, in fondo, non ha crea-to nulla perché si è servito di temi e motivi già noti nell’ambiente culturale e religioso del Vi-cino Oriente Antico. Soprattutto ha saputo mantenere uniti due atteggiamenti diversi che si trovano nell’uno o nell’altro testo rispetto al problema: il lamento («Giobbe sumerico») e il confronto intellettuale (Teodicea babilonese). Giobbe inizia con il lamento, ma tiene desta an-che, soprattutto nel dialogo con gli amici, la ricerca intellettuale.

3.2. EGITTO

3.2.1. Dialogo di un disperato con la sua anima4

L’opera utilizza la forma del dialogo tra un uomo stanco di vivere e la sua anima. Il prota-gonista, deluso soprattutto dalla corruzione della società, si sente solo e abbattuto, mentre la sua anima cerca di dissuaderlo dal commettere un gesto insano, temendo di non poter godere di riti funerari degni. Questo dialogo non costituisce in senso stretto un precedente letterario del libro di Giobbe, anche se alcuni aspetti sono interessanti. In primo luogo l’uso del dialogo, che darà origine in Mesopotamia alla figura dell’amico che discute, consola o intercede, un procedimento che avrà un grande sviluppo in Giobbe.

Rilevante è poi la situazione complessiva di difficoltà e di disillusione in cui versa il prota-gonista e che genera in lui l’idea del suicidio come unica via di scampo (una soluzione che Giobbe, essendo un credente, non prenderà mai in considerazione). A differenza di Giobbe, però, questo testo non si pone il problema della teodicea, non si sforza cioè di coniugare la sofferenza con la realtà di un dio creatore e provvidente.

La differenza tra Giobbe e la letteratura egiziana sul giusto sofferente appare particolar-mente sensibile per quel che riguarda il pessimismo. È vero che l’Egitto ha conosciuto periodi di profonda depressione spirituale (per es. il Primo Periodo Intermedio), imputabili ad una dif-ficile situazione politica e sociale. L’Egiziano ha imparato allora ad attendere tutto dagli dèi, sviluppando, almeno embrionalmente, una sorta di pietà personale, di religione del povero. Resta però vero che, nonostante la situazione politica segnata da insicurezza e da sconvolgi-menti sociali abbia talvolta messo a dura prova l’ottimismo di fondo di questa cultura, favo-rendo l’emergere di un certo scetticismo, per esempio a proposito dell’efficacia delle pratiche funerarie, il pessimismo non raggiungerà mai in Egitto la densità esistenziale e la violenza che rendono Giobbe così vero e la sua angoscia così umana. La teologia egiziana rimane inconsi-

3 Spesso citato anche come Ludlul bel nemeqi; cfr. G.R. CASTELLINO, Testi sumeri e accadici, 478-492. 4 ANET, 405-407; E. BRESCIANI, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino 21969, 111-118.

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stente e rende impossibile la maturazione di un’esperienza di fede autentica, come pure il con-fronto decisivo tra la libertà umana e la volontà sovrana di un Dio creatore e provvidente uni-versale. Le questioni e le soluzioni che toccavano il destino e la sofferenza affioravano nella riflessione individuale e nella coscienza collettiva solo a livello dell’immaginario, senza ap-portare certezze né esigere convinzioni. Insomma, la religione egiziana resta troppo elementa-re, troppo amabile e noncurante per suscitare la crisi esistenziale che si legge in Giobbe.

In conclusione, la leggenda primitiva di Giobbe, la forma del dialogo con gli amici e lo scenario culturale di fondo del libro provengono dalla regione dei due fiumi; l’Egitto non ha fornito che delle immagini e dei generi letterari (la questione retorica e la confessione negati-va), ma è soprattutto la Bibbia, in particolare le tradizioni sapienziali e salmiche (secondaria-mente quelle profetiche), che ha messo a disposizione dell’autore un patrimonio di immagini tradizionali e ha creato l’atmosfera teologica che rende il dramma di Giobbe così originale.

Si può allora ritenere che il libro di Giobbe sia un crocevia in cui si incontrano la sapienza del Vicino Oriente Antico e quella di Israele. Là si incontrano e spesso si scontrano le tesi classiche sulla retribuzione e le domande angoscianti che provengono dall’esperienza perso-nale.

4. GENERE LETTERARIO Le opinioni sono molto varie: Giobbe è stato considerato rispettivamente un’epopea, una

tragedia (o una commedia), una lamentazione, un’opera appartenente al genere sapienziale, a quello giudiziario, ecc.

4.1. UN DRAMMA

Tra i primi a considerare Giobbe una tragedia bisogna ricordare nel IV sec. d.C. Teodoro di Mopsuestia5; l’idea venne poi riproposta all’inizio del ventesimo secolo e sviluppata negli ul-timi decenni soprattutto da L. Alonso Schökel. Secondo questo autore, Giobbe sarebbe un dramma con pochissima azione e molto pathos. Il libro non è altro che la rappresentazione del dramma eterno e universale dell’uomo. Tra un doppio prologo e un doppio epilogo, si svolgo-no quattro serie di dialoghi: tre volte parla Giobbe e gli rispondono a turno gli amici, la quarta volta l’interlocutore di Giobbe è Dio. Attraverso i dialoghi si passa da un Dio troppo noto e scontato, quasi «geometrico» nel suo rapporto con il mondo, a un Dio imprevedibile, difficile e misterioso.

4.2. UN PROCEDIMENTO GIUDIZIARIO

Per altri saremmo piuttosto di fronte ad un dibattimento processuale con accuse, produzio-ne di testimoni, intervento del giudice supremo. Giobbe compare come imputato nel libro e si trova al centro di un’azione giudiziaria complessa. È innegabile che questo genere abbia avuto un influsso sul libro, anche se forse non rende ragione di tutto il testo attuale, pur costituendo una chiave interpretativa significativa.

4.3. UNA DISPUTA SAPIENZIALE

Nell’ambiente del Vicino Oriente Antico esisteva un genere noto come la disputa tra saggi, che, quasi nella forma di una tavola rotonda, affrontava un argomento mostrandone i pro e i contro per illustrare la tesi in discussione. Caratteristico della riflessione sapienziale sarebbe l’elaborazione di un insegnamento valido per ogni uomo (Giobbe non è un ebreo, viene da Uz).

5 In Iobum, PG 66, 697-698.

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4.4. UNA LAMENTAZIONE SALMICA

È la proposta di C. Westermann il quale pensa che Giobbe sia una grandiosa lamentazione drammatizzata. L’autore di Giobbe ha trasformato in dramma una lamentazione, inserendovi un dialogo giudiziario. Tutto il libro sarebbe costruito come i salmi di lamento nei quali com-paiono tre personaggi: l’uomo che supplica, Dio, i nemici. Come nei salmi di supplica indivi-duale, il libro si chiude su un orizzonte positivo, di luce e di liberazione, di senso ritrovato.

5. LA STRUTTURA DEL LIBRO L’analisi letteraria dei 42 capitoli del libro di Giobbe fa apparire le seguenti unità: – un prologo in prosa (capp. 1-2); – un primo monologo di Giobbe (cap. 3); – tre serie di dialoghi di Giobbe con tre visitatori: Elifaz, Bildad, Zofar (capp. 4–27); – un componimento poetico sulla sapienza introvabile (cap. 28); – un secondo monologo di Giobbe (capp. 29–31); – i discorsi di Eliu, un quarto visitatore (capp. 32–37); – i discorsi di YHWH e le risposte di Giobbe (capp. 38,1–42,6); – un epilogo in prosa (cap. 42,7-17). E, in maniera più dettagliata, le suddette unità risultano così strutturate: 6

A. PROLOGO (1,1–3,1)

A1: la situazione di partenza - la fortuna di Giobbe (1,1-3)

A2: Giobbe intercessore per i fıgli (1,4-5)

A3: le obiezioni del śātān

I. prima prova (1,6-22) a) nella corte celeste - presentazione (1,6) - dialogo istruttorio (1,7-11) - decisione divina (1,12a) - il śātān si allontana (1,12b) b) sulla terra - la serie di sciagure (1,13-19) - reazione di Giobbe (1,20-21) c) giudizio conclusivo del narratore (1,22)

II. seconda prova (2,1-10) a) nella corte celeste - nuova presentazione (2,1) - secondo dialogo istruttorio (2,2-5) - seconda decisione divina (2,6) - il śātān si allontana di nuovo (2,7a) b) sulla terra - nuova sciagura (2,7b-8) - reazione della moglie e di Giobbe (2,9-10a) c) giudizio conclusivo del narratore (2,10b)

A4: l’arrivo degli amici e l’inizio del dramma (2,11–3,1)

6 Cfr. G. BORGONOVO, La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel Libro di Giobbe. Analisi simbolica (Analecta

Biblica 135), Roma 1995, 98-100.

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B. L’AZIONE DEL DRAMMA

I parte: Giobbe e gli amici (3,2–27,23) A. Lamentazione introduttiva (3,2-26) B. Prima serie di dialoghi 1. Elifaz (4,1–5,27) 1A. Giobbe (6,1–7,21) 2. Bildad (8,1-22) 2A. Giobbe (9,1–10,22) 3. Zofar (11,1-20) 3A. Giobbe (12,1–14,22) B’. Seconda serie di dialoghi 1. Elifaz (15,1-35) lA. Giobbe (16,1–17,16) 2. Bildad (18,1-21) 2A. Giobbe (19,1-29) 3. Zofar (20,1-29) 3A. Giobbe (21,1-34) A’. Conclusioni 1. Elifaz (22,1-30) 2A. Giobbe (23,1–24,25) - interruzione di Bildad (25,1-6) - risposta di Giobbe (26,1-14) 2A’. Giobbe (27,1-23)

Interludio (28,1-28)

II parte: Giobbe e YHWH (29,1–42,6) A. Lamentazione, giuramento e appello a Dio (29,1–31,40) → commento di Elihu (32,1–37,24) B. Primo dialogo - YHWH (38,1–40,2) - risposta di Giobbe (40,3-5) B’. Secondo dialogo - YHWH (40,6–41,26) - risposta di Giobbe (42,1-6)

A’. EPILOGO (42,7-17) A3’: la sentenza conclusiva di Dio (42,7) A2’: l’intercessione di Giobbe per gli amici (42,8-9) A1’: la nuova situazione - la fortuna raddoppiata (42,10-17)

6. LE TAPPE DELLA COMPOSIZIONE

Nello studio del libro di Giobbe, come d’altronde nello studio di qualsiasi libro biblico, gli studiosi applicano vari metodi di analisi. I metodi diacronici studiano prevalentemente la sto-ria della formazione dei vari libri biblici, sforzandosi di individuare la forma dei testi alla loro genesi. I metodi sincronici si concentrano invece sulla forma finale dei libri biblici e ne indi-viduano il messaggio studiandone la trama, la struttura e le relazioni tra le diverse parti; fa-cendo perciò grande attenzione all’opera del redattore finale.

I divesi approcci applicati al libro di Giobbe hanno dato un grande contributo alla sua comprensione. Presenteremo perciò prima il contributo dell’approccio diacronico per indivi-duare le tappe della composizione del libro, per poi concentrarci su una proposta di lettura da una prospettiva sincronica.

Un approccio diacronico al libro di Giobbe fa emergere che esso è il frutto di una lunga storia letteraria in cui è possibile distinguere quattro tappe:

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6.1. IL RACCONTO POPOLARE PRIMITIVO

Rinsaldando il prologo e l’epilogo attuali, entrambi in prosa, viene ricomposto abbastanza facilmente il racconto che è servito da base a tutta l’opera. A giudicare dai nomi di persona e di luogo sembra che il racconto sia nato o in Edom o, più probabilmente, in Transgiordania, nella regione del Hauran. Il nome stesso dell’eroe (in ebr.: ’iyyob) si incontra fin dal II mil-lennio in tutto il Vicino Oriente Antico sotto forme diverse7, e molti aspetti di questo racconto rinviano a un contesto arcaico: Giobbe viene presentato come semisedentario; i Sabei e i Cal-dei vivono ancora come nomadi predatori nel deserto siro-arabo; l’idea di una corte celeste e il simbolismo dei numeri hanno dei paralleli ugaritici nel XIV secolo. È tuttavia impossibile risalire al di là del 1200 a.C., data probabile dell’addomesticamento del dromedario (cfr. Gb 2,3).

Introdotto molto presto in Israele ricevendone i tratti della fede jahvista, il racconto popola-re di Giobbe figura certamente, nell’AT, tra i testi in prosa della prima ispirazione. Giobbe viene presentato come un contemporaneo dei patriarchi: è lui, padre di famiglia, che presenta le offerte a Dio (1,5; 42,8), e offre, per il peccato, un olocausto, alla maniera degli antichi (Gen 8,20; 22,2.7.13; 31,54). Inoltre l’arte narrativa ricorda per vari aspetti quella messa in opera negli strati più antichi del Pentateuco. Molto probabilmente il vecchio racconto di Giobbe fu messo per iscritto e ricevette il suo tocco israelitico nella stessa epoca. Ben presto si conquistò un suo posto nella memoria collettiva d’Israele poiché, verso il 600, come ab-biamo visto, Ezechiele poteva fare allusione a Giobbe come a un eroe ben conosciuto (Ez 14,12-23). Verso il VI secolo saranno introdotte nel racconto alcune espressioni tipiche della sapienza popolare; per esempio le due espressioni che descrivono in 1,1 la pietà di Giobbe: «integro e retto» (tām weyāšār)8, «che temeva Elohim ed era alieno dal male»9. Infine alcuni dati del racconto in prosa ci rimandano all’inizio del periodo postesilico: così la fraseologia sacerdotale fa sentire la sua influenza in 42,16-17, e soprattutto il Satana viene presentato nel prologo come nel Proto-Zaccaria (520-518); cfr. Zc 3,1-5; 1,21; 4,10; 6,7.

6.2. L’OPERA POETICA DEL V SECOLO

Nella prima metà del V secolo, un poeta israelitico geniale riprende il vecchio racconto po-polare per infondervi una nuova teologia abbastanza sovversiva perché contestava uno degli assiomi della sapienza preesilica: la retribuzione temporale dei buoni e dei malvagi. Egli con-servò il racconto, solo con qualche ritocco, come prologo ed epilogo della sua opera, e vi inse-rì in mezzo i dialoghi di Giobbe con tre visitatori (capp. 4–27), inquadrati da due monologhi del giusto (capp. 3 e 29–31), e poi il dialogo di Dio e di Giobbe al momento della teofania (38,1–42,6). Rispettando al massimo il racconto tradizionale che riprendeva, egli si limitò a introdurre alla fine del prologo (2,11-13) i tre visitatori.

6.3. I DISCORSI DI ELIU

È poco dubbio che la redazione dei discorsi di questo quarto visitatore sia posteriore alla redazione dei dialoghi di Giobbe e dei tre amici; non tanto per il carattere aramaicizzante della lingua, notevolmente più forte in questi capp. 32–37, ma perché alcuni temi sviluppati da Eliu riflettono le stesse preoccupazioni teologiche e lo stesso stato d’animo del libro di Malachia (2,17; 3,14-16). Per tale ragione è possibile datare questi discorsi di Eliu al 450 circa a.C. Fu-rono probabilmente aggiunti o da un redattore o dal poeta principale.

7 Ayyabum, A-ya-ab, A-ya-bi, Hy’abn, ecc. 8 Cfr. Pr 2,21; 28,10; 29,10; Sal 25,21; 37,37. 9 Cfr. Pr 3,7; 14,16; 16,6.

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6.4. IL POEMA SULLA SAPIENZA INTROVABILE (GB 28)

Introdotto da un redattore anonimo nel IV o nel III secolo, questo componimento poetico conclude il dibattito, in fondo sterile, tra Giobbe e i suoi interlocutori, e fa da transizione ver-so l’altro versante dell’opera in cui Giobbe, dopo aver protestato la sua innocenza e lanciato a Dio la sua ultima sfida (29,31), vedrà a sua volta contestato il suo potere e la sua sapienza (38,1–42,6).

La storia letteraria del libro di Giobbe può essere perciò riassunta nello schema seguente:

X-IX sec. Prologo Epilogo capp. 1–2 cap. 42,7-17

Prima metà Monologo Dialoghi Monologo Teofania del V sec. cap. 3 capp. 4–27 capp. 29–31 capp. 38,1–42,6

Metà Discorsi di Eliu del V sec. capp. 32–37

IV-III sec. Inno alla Sapienza cap. 28

7. PERCORSO DI LETTURA DEL LIBRO DI GIOBBE

7.1. LA POSTA IN GIOCO

7.1.1. I molteplici sensi

Tutti i lettori di Giobbe, quale che sia il loro approccio, cercano il «senso» del libro. Di co-sa si tratta? Una cosa è certa: il libro affronta problema della sofferenza. Si sono fatti studi ad-dirittura per determinare quale fosse la malattia di Giobbe quando fu colpito da «un’ulcera maligna» (2,7). Tuttavia dire che il libro affronta questo problema è chiaramente insufficiente: bisogna sottolineare che si tratta della sofferenza dell’innocente. Le domande e le discussioni si moltiplicano. Il problema sollevato da questa sofferenza innocente è analizzato dal punto di vista dell’uomo o da quello di Dio? Un certo numero di autori opta per la prima possibilità. Secondo loro, il libro è pratico, esistenziale. Esso affronta il punto di vista umano, cioè l’aspetto morale: cosa l’essere umano deve fare nella sofferenza? come deve comportarsi? Oppure la prova della fede: come conservare la fede? Il libro insomma studierebbe il compor-tamento morale o religioso dell’innocente che soffre.

Altri autori, invece, ritengono che il libro sia più intellettuale, esistenziale, e che l’aspetto divino predomini. Il problema della sofferenza dell’innocente solleva, infatti, la questione del-la giustizia di Dio, del conflitto tra la giustizia dell’uomo e quella di Dio, e rovescia la dottri-na della retribuzione. Insomma si tratterebbe di una teodicea. Queste sono le teorie più comu-ni sul senso di Giobbe. Anche altri temi sono stati proposti, come la preghiera, i rapporti uma-ni, l’amicizia, o la pecora nera della comunità.

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7.1.2. Il filo conduttore del libro

Questa discussione semantica proviene da una certa concezione del testo. Si ritiene che l’autore abbia dato un senso ben preciso che il lettore deve sforzarsi di ritrovare. Diverse teo-rie sull’essenza di un testo suggeriscono che uno scritto non ha solo «un senso», ma è aperto a «vari sensi». La lista dei molteplici sensi che è stata proposta per il libro di Giobbe è quasi in-finita e, in realtà, il libro si presta, a quanto pare, a una tale polisemia. Il testo è inesauribile e rimane aperto a prospettive sempre nuove. Ogni lettore è unico e legge attraverso la propria esperienza personale.

È nostra intenzione vedere come il testo funziona. Qual è la posta in gioco? Cosa succede in questo testo? Come si concatenano i passaggi? Quali sono i legami che li uniscono? Appe-na si tocca uno degli elementi di un testo, si tocca inevitabilmente il suo insieme. Come ren-dere conto dell’unità del testo attuale del libro di Giobbe? Noi condurremo la nostra analisi utilizzando alcuni grandi principi dell’analisi semiotica. In un testo, un personaggio è descrit-to con verbi che evocano il suo stato (la persona è, oppure essa ha), o con verbi di azione (la persona agisce). Un racconto consiste in una trasformazione che fa passare un personaggio da uno stato a un altro. Questo principio è molto chiaro nel libro di Giobbe. L’inizio del testo de-scrive ciò che Giobbe è, e presenta in questo modo lo state iniziale di Giobbe (1,1-5) mentre la fine descrive lo stato finale dell’eroe (42,10-17). Tutto quello che si trova tra i due costitui-sce la trasformazione, che spiega come il cambiamento si sia prodotto.

È importante scoprire in un testo ciò che mette in moto la trasformazione. Qual è l’occasione che ha dato origine al racconto? Il libro inizia con la sfida tra il satana e YHWH. Il satana è convinto che Giobbe, se fosse nella miseria, maledirebbe YHWH in faccia (1,11). La prova che Giobbe deve subire è dell’ordine del linguaggio. Cosa dira? Per sapere come Giob-be ha superato la prova bisogna attendere la fine, quando YHWH dà il suo verdetto e approva le parole di Giobbe (42,7).

La sfida inaugura l’azione del testo (nella terminologia della semiotica, la sfida è la mani-polazione), il parlare costituisce l’agire del testo (la performance), e il verdetto di Dio indica chi ha vinto la sfida (la sanzione). L’unità del libro e il suo filo conduttore è la domanda: Co-me parlare di Dio nel momento della sofferenza?

7.2. LO SVOLGIMENTO DEL DRAMMA

7.2.1. La condizione iniziale: la felicità di Giobbe

I primi versetti del libro (1,1-5) descrivono ciò che Giobbe è, ciò che possiede, quello che ha l’abitudine di fare: «Giobbe soleva fare così, immancabilmente». Ma non succede nulla. Il testo semplicemente descrive la condizione iniziale di Giobbe. Tuttavia questi versetti sono molto preziosi per orientare il lettore del libro.

L’apertura: «C’era nella regione di Uz [paese straniero] ...» corrisponde al classico inizio dei racconti o delle favole (2Sam 12,1). Questi testi iniziano tutti con: «C’era una volta..., molto tempo fa..., molto lontano da qui...». Siccome la storia è molto antica e si è sviluppata lontano da qui, non ci sono testimoni possibili. Così l’autore può dire ciò che vuole, e nessuno è in grado di contraddirlo. L’eroe o l’eroina di questi racconti è sempre straordinariamente ricco, bello o buono. Giobbe è questo genere di eroe, è diverso dai comuni mortali. Nelle fa-vole, c’è sempre «un cattivo», che mette «il buono» alla prova. Il lettore del libro non dovrà attendere a lungo per incontrare il cattivo e per essere informato di questa prova. La buona sorte vince sempre e così la favola finisce bene: «e vissero a lungo felici e contenti». Il lettore potrà costatarlo alla fine del libro. Il libro di Giobbe, in conseguenza, non è un libro storico, e dunque non parla di un personaggio storico. Ma le favole trovano talvolta la loro origine in un evento storico. Potrebbe essere, realmente, che sia vissuto da qualche parte, a un dato momen-to, un certo Giobbe, ma il fatto di sapere se Giobbe sia esistito o no ha perso tutto il suo valo-re. Giobbe, nel testo attuale, non è una figura storica, è l’immagine di ogni persona umana.

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Ciò aumenta il valore del libro. Infatti, se il libro raccontasse la storia di un personaggio stori-co, si potrebbe forse nutrire compassione per questo uomo, ma se il libro è una favola o un racconto, esso testimonia della vita umana in generale. Quello che è successo a Giobbe è in realtà ciò che succede nella vita di molta gente. Il libro parla di un’esperienza umana univer-sale e dunque di quella di ogni lettore.

Questi testi hanno l’aspetto anodino e molte persone vi si lasciano prendere, come il re Da-vide che non coglieva la portata delle parole del profeta Natan dopo il suo peccato (2Sam 12,1-15). È questa la «falsa ingenuità» di testi del genere. Il lettore attento dovrà approfondi-re. Certe favole contengono fantasia e realtà, sono raccontate per intrattenere (non sempre per far ridere, talvolta anche per far piangere) e per insegnare.

Ogni essere umano cerca la felicità, una vita nella pienezza. Giobbe ha esattamente tutto ciò, e anche in abbondanza. Tutti hanno bisogno di amore, il che significa amare e sapersi a-mati. Giobbe conosce ciò nella sua vita: ha una famiglia ideale, con un numero perfetto di fi-gli, e nella quale regnano un’armonia e un’intesa ideali. Allo stesso modo, tutti hanno bisogno di beni materiali, certo lo stretto necessario, ma anche un po’ di lusso in sovrappiù. Giobbe non può certamente lamentarsi, ha proprio molte ricchezze. Anche la salute fa parte della feli-cità umana. Per il momento, non si dice nulla su questo aspetto della vita di Giobbe, ma po-tremo dedurlo dal fatto che la malattia lo colpisce solo più tardi, come vedremo in seguito. E infine, una buona reputazione contribuisce alla felicità umana. In questo ambito, Giobbe non può aspettarsi di meglio: è fortemente rispettato. È vero che ci sono persone che possono es-sere felici anche se uno o più di questi elementi mancano loro, ma la felicità perfetta, una vita piena, li esige tutti e quattro, secondo la letteratura sapienziale. Giobbe è l’immagine di un uomo molto felice.

La saggezza sa che ogni effetto presuppone una causa. Questa felicità umana perfetta non cade dagli alberi, ma è legata all’agire umano. Per questo Giobbe è descritto come l’uomo più perfetto possibile e immaginabile. Alcuni esegeti, per mostrare con forza il legame tra la pietà di Giobbe (v. 1) e la sua felicità, traducono: «è così che sette figli...», oppure: «così gli erano nati...» (vv. 2-3). Giobbe è un uomo esemplare, e conseguentemente Dio lo ha benedetto con una vita piena. Il testo ci presenta anche l’immagine dell’ordine perfetto fondato sulla teoria della retribuzione la quale vuole che il giusto sia benedetto, e il peccatore maledetto.

Giobbe, l’uomo perfetto, si tiene lontano dal male nella sua vita, e dunque non ha nulla da temere. Tuttavia, nella descrizione di questo mondo di sogni, c’è un’allusione al peccato. Giobbe si inquieta dei possibili peccati dei suoi figli; non è nemmeno sicuro che ne abbiano commessi, ma chi sa, «forse». È meglio prendere tutte le precauzioni possibili. Giobbe, l’uomo perfetto, è anche scrupoloso, si occupa della purificazione dei figli e offre olocausti per loro. Se per caso i figli hanno provocato il caos, Giobbe rimette ordine in questo caos. Il principio della responsabilità collettiva spiega che un uomo, anche se giusto, potrebbe soffrire a causa degli errori dei figli. Giobbe previene questa possibilità. Conseguentemente, nulla nel testo lascia sospettare e giustificare che qualcosa possa guastarsi nella vita di Giobbe.

Abbiamo accennato che la parola conferisce unità al libro di Giobbe. È importante osserva-re che, già nell’apertura, c’è una citazione delle parole pronunciate da Giobbe in una forma poetica. Fin dall’inizio del libro troviamo l’alternanza della prosa e della poesia. Giobbe parla a se stesso. Il suo monologo è formulato in un versetto che comporta due parti (bicolon) in pa-rallelismo sinonimico. Il peccato per Giobbe consiste nel maledire (benedire) Dio, non solo con le labbra, ma nel cuore. Questo deve essere evitato a ogni costo. Il resto del libro mostrerà il ruolo importante che questa maledizione vi giocherà.

7.2.2. La sfida: «scommetto che ti maledirà in faccia»

I primi versetti del libro descrivono la condizione iniziale di Giobbe (1,1-5). Un racconto consiste nella trasformazione da uno stato iniziale a uno stato finale. Perché questa modifica avvenga, bisogna che manchi qualcosa. Se tutto è già al proprio posto fin dall’inizio, non c’è

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racconto possibile. Qual è la cosa mancante che mette in movimento l’azione e spiega perché c’è un racconto di Giobbe? Secondo il satana, YHWH non conosce veramente a fondo Giobbe. YHWH ha un’idea molto alta di Giobbe, ma è veramente fondata? Giobbe conduce una vita talmente facile! Ed è questa la ragione per cui il satana lancia la sfida: «scommetto che ti ma-ledirà in faccia» (1,11; 2,5). Il modo in cui Giobbe parlerà nella sua sofferenza rivelerà a YHWH ciò che Giobbe è in realtà. In questo modo Dio acquisirà quella conoscenza che per ora gli manca, secondo il satana.

Il grande interrogativo che anima il libro è: «Come Giobbe parlerà di Dio nel momento della sofferenza?». «Parlare» rimane, in effetti, centrale attraverso tutto il libro, dall’inizio alla fine (e non solo nella parte centrale).

Quando si parla, ci si rivolge sempre a qualcuno. Parlare esige due attori: uno emette la pa-rola e uno la riceve. In certi casi la stessa persona ricopre i due ruoli: se qualcuno parla a se stesso, allora ci troviamo di fronte a un monologo. Tuttavia parlare implica generalmente due attori distinti. Qualcuno si rivolge a un’altra persona: e questo è un dialogo. Se la persona a cui parliamo è Dio, il dialogo si chiama preghiera. Il libro di Giobbe contiene tutto questo. Troviamo dei monologhi di Giobbe, ma ci sono soprattutto numerosi dialoghi con interlocuto-ri diversi. In questo modo, l’orizzonte del libro si allarga e non rimane limitato alla domanda: «Come parlare di Dio quando si soffre?», ma si estende all’altra: «Come parlare di Dio alla persona che soffre?». Giobbe cerca anche di parlare a Dio nella preghiera, con la speranza di ottenere una risposta da parte di Dio. Solo dopo che tutti i partner della conversazione avran-no finito di parlare potremo sapere chi ha vinto la sfida. Giobbe ha, sì o no, maledetto Dio in faccia? E questa sarà la risposta all’interrogativo che ha dato inizio al libro e il libro allora po-trà concludersi.

La posta in gioco del libro di Giobbe è: «Come parlare di Dio nella sofferenza?». Si tratta della questione del linguaggio religioso. È importante ciò che gli attori del libro dicono, ma ancor più come lo dicono, i diversi tipi di linguaggio religioso che essi utilizzano. Per questo presteremo un’attenzione particolare a questi diversi linguaggi religiosi che si susseguono nel libro.

Questa sfida tra il satana e YHWH solleva il problema del rapporto tra due mondi, tra il cie-lo e la terra. La prima parte del libro, in effetti, ha come scenario due mondi. Ci sono due luo-ghi ben distinti: il cielo (il termine non compare nel testo, ma si fa allusione alla sfera nella quale YHWH s’intrattiene con la sua corte celeste) e la terra. Il testo introduce il lettore per due volte nel cielo, ma il resto del libro si sviluppa interamente sulla terra. I due mondi hanno il loro ritmo del tempo. In cielo gli eventi si svolgono «un giorno...» (1,6; 2,1), e anche sulla ter-ra «un giorno...» (1,13). Ogni mondo ha i suoi attori. In cielo, YHWH è la figura centrale; ha attorno a sé «i figli di Dio», e uno di essi, il satana, ha un ruolo particolare, è, tra l’altro, una specie di messaggero. Sulla terra, l’uomo Giobbe è la figura centrale: ha «figli» e «figlie», e dei messaggeri si recano da lui. Tuttavia ci sono certe differenze tra questi due mondi. Non si parla di una moglie di YHWH, né di beni suoi. YHWH è, mentre Giobbe è e ha. L’essere umano tuttavia può perdere tutto il suo avere, e la morte mette fine al suo essere.

Il mondo divino è in contatto con la terra. Uno dei figli di Dio, il satana, percorre la terra (1,7; 2,2). Dio sa cosa succede sulla terra, conosce l’essere umano (1,8; 2,3). Dio può benedi-re l’opera che l’essere umano ha costruito con la propria mano (1,10), ma Dio può anche di-struggerla con la sua mano (1,11; 2,5), consegnandola in mano al satana (1,12; 2,6). Si è an-che parlato della mano destra con la quale Dio benedice e della sinistra con la quale colpisce. Questa mano distruttrice di Dio diventa visibile, qui sulla terra, nei disastri naturali (cfr. 1,16.19), nella violenza umana (1,15.17), e nella malattia. Il mistero della malattia viene addi-rittura attribuito in modo più diretto al mondo divino: «Egli [il satana] colpì Giobbe di un’ulcera maligna» (2,7).

Il contatto del mondo umano con il mondo divino è completamente diverso. L’essere uma-no ne conosce certamente l’esistenza, ma non sa nulla di quello che vi succede. Giobbe è

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completamente all’oscuro della sfida al centro della quale si trova (solo il lettore lo sa). Altri-menti conoscerebbe almeno la causa delle proprie miserie. L’essere umano sa anche che tutto ciò che succede qui sulla terra non è unicamente opera delle sue mani, ma che tutto è anche nelle mani di Dio. Dio dona e riprende. Le cose che Giobbe considera come ordine e caos so-no ambedue opera di Dio.

Il rapporto tra questi due mondi rimane così un grande mistero. Da una parte e dall’altra, gli attori parlano tra loro, e parlano anche degli attori dell’altro mondo, ma non si rivolgono a loro. Ma un dialogo del genere è possibile? Può Giobbe parlare a Dio e può Dio parlare a Giobbe? Stupisce alquanto sentire il satana scommettere che Giobbe maledirà Dio «in faccia» (1,11; 2,5), mentre solo i figli di Dio in cielo si presentano davanti alla «faccia/presenza» di Dio (1,12; 2,7). Giobbe, anche se volesse maledire YHWH in faccia, potrebbe veramente vede-re questa faccia di Dio?

7.2.3. I linguaggi degli attori del dramma

7.2.3.1. Il linguaggio della fede popolare

Le prime reazioni di Giobbe alle prove che gli sono sopraggiunte sembrano molto pie, so-prattutto se paragonate con le parole successive. Di solito si interpretano le prime parole di Giobbe come l’espressione della sua fede profonda. Dal senso che si dà a queste parole di-pende la comprensione dell’insieme del libro. Possiamo così capire l’importanza di questo approccio. Le esamineremo scrupolosamente tenendo conto della falsa ingenuità del testo, senza dimenticare le somiglianze e le diversità nelle ripetizioni. Studieremo le due reazioni separatamente e le metteremo a confronto tra loro per vedere se c’è stata evoluzione in Giob-be.

Le due reazioni hanno tre elementi in comune: l’azione di Giobbe, le parole di Giobbe e la valutazione del narratore.

1) LA PRIMA REAZIONE DI GIOBBE (1,20-22)

a) Le azioni di Giobbe (1,20)

Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo e, caduto a terra, prostrato...

Strappare le vesti (Gen 37,29; Ger 41,5), radersi il capo (Is 15,2; Mic 1,16), e prostrarsi (Gen 23,7; 2Sam 1,2) sono tutti riti convenzionali, socialmente bene accettati, che esprimono il dolore o il lutto e la riverenza nella Bibbia. Possono tuttavia esprimere la fede o la dispera-zione e l’incredulità.

b) Le parole di Giobbe (1,21)

«Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore ha dato e il Signore ha tolto; sia benedetto il nome del Signore».

La prima frase (v. 21a) è un’affermazione dichiarativa, una riflessione di saggezza profana sulla vita, che ha tutta l’aria di un proverbio popolare, dal momento che lo troviamo anche al-trove nella Bibbia (Qo 5,14, cfr. Gen 3,19; Qo 12,7; Sir 40,1). Anche la seconda frase (v. 21b) è un’affermazione dichiarativa, ma, questa volta, una riflessione di saggezza religiosa sulla vi-ta. Anche questo modo di dire che tutto ciò che succede è una decisione di Dio (1Sam 3,18) sembra ugualmente proverbiale e si ritrova in altri proverbi religiosi (Pr 10,22; 16,1.9; Sir 11,14). Possiamo accostarlo a una formula araba utilizzata quando un membro della famiglia muore: «Il Signore l’ha dato, il Signore l’ha tolto», o con il proverbio mesopotamico: «Il re ha dato, il re ha ripreso; viva il re».

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L’ultima frase (v. 21c) è un’esclamazione, una benedizione. Essa assomiglia a una formula liturgica che troviamo anche altrove nella Bibbia in termini molto simili (Nm 6,24-26) o addi-rittura identici (Sal 113,2). C’è tuttavia una differenza notevole tra ciò che Giobbe dice e il te-sto del salmo. Il salmo aggiunge, dopo la benedizione: «ora e sempre». E questo Giobbe non lo dice; infatti, non benedirà Dio a lungo. Le prime parole di Giobbe sono dunque due prover-bi, e una benedizione che potremmo chiamare una preghiera giaculatoria.

Tanto le azioni quanto le parole di Giobbe dopo la sua prima prova sono riti e formule tra-dizionali e convenzionali. Molti lettori, che potremmo dire «lettori superficiali», interpretano questa reazione di Giobbe come espressione di una fede profonda. Ma io penso che il testo sia un testo aperto che obbliga il lettore a fare delle scelte. La falsa ingenuità del testo sta preci-samente nel fatto che esso permette e, credo, favorisce un’altra interpretazione. La reazione di Giobbe alla perdita di tutto quello che ha è un’azione: non sa che dire. E poi, quando parla, le uniche cose che sa dire sono pie formule stereotipe. Utilizza parole prese a prestito, ma non le sue parole. È spesso la prima reazione delle persone di fronte alla sofferenza. Sono prese alla sprovvista e fanno ricorso a slogan pii, ma vuoti, più per paura che per convinzione. Hanno paura di dire ciò che succede nel loro profondo, ciò che considerano come indegno di un buon credente. Ciò che Giobbe dice non è l’espressione di una fede profonda, ma piuttosto di una fede popolare superficiale, che non resisterà a lungo.

Il contesto conferma quest’interpretazione. La successione rapida e ininterrotta dei mes-saggi di sventura: «Mentre costui stava ancora parlando...» (1,16.17.18), non lascia nemmeno il tempo a Giobbe di riflettere e di assimilare quanto gli sta succedendo. Reagisce in modo convenzionale. Il seguito lo confermerà. Dopo l’arrivo degli amici, tutti stanno in silenzio, ma quando Giobbe finalmente parla con le sue parole nel monologo, demolisce punto per punto ciò che ha appena detto con queste formule imparate a memoria.

Quando comincia il dialogo dopo il monologo di Giobbe, i tre amici utilizzano un linguag-gio stereotipo, mentre Giobbe parla un linguaggio personale esistenziale. Gli autori che inter-pretano la prima risposta convenzionale di Giobbe come espressione di una fede profonda condannano il linguaggio degli amici come disonesto e falso, poiché gli amici rifiutano di ri-mettere in discussione i dogmi. Pochi interpreti sono portati a considerare i tre amici come e-sempi di fede profonda e, in questo, hanno ragione poiché YHWH stesso condannerà il loro linguaggio convenzionale (42,7.8). Non dovremo allora concludere che YHWH non fu troppo impressionato dalla prima reazione convenzionale di Giobbe?

b) La valutazione del narratore (1,22)

In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] insolenza contro Dio.

Giobbe non ha maledetto YHWH come il satana aveva previsto (1,11) e, conseguentemente, ha superato la prova. Ma dobbiamo osservare che il narratore esprime la sua valutazione con due formule negative. Questo può forse indicare che apprezza poco la reazione di Giobbe?

2) LA SECONDA REAZIONE DI GIOBBE (2,8-10) A CONFRONTO CON LA PRIMA (1,20-22)

Le due reazioni di Giobbe sono descritte con gli stessi tre elementi. Tuttavia il testo non è una pura e semplice ripetizione. Il confronto tra i due atteggiamenti mette in luce le somi-glianze, ma anche le differenze significative. Questo indica che qualcosa sta cambiando in Giobbe.

a) Le azioni di Giobbe (1,20 e 28)

Allora Giobbe, alzatosi, si strappò il manto, si rase il capo e, caduto a terra, prostrato... Allora Giobbe prese un coccio per grattarsi, mentre stava seduto in mezzo alla cenere.

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La reazione di Giobbe dopo la seconda prova è spesso tradotta in modi diversi, come ad es.: «Giobbe prese un coccio per grattarsi e si sistemò in mezzo alla cenere» (BJ e TOB). Se-condo queste traduzioni, Giobbe compie due azioni: si gratta e si sistema per terra.

L’ebraico ha un participio e non precisa quando Giobbe sia andato a sistemarsi in mezzo alla cenere. La vera reazione di Giobbe, conseguentemente, è quella di grattarsi.

Siccome la cenere è utilizzata per i riti legati al lutto (2Sam 13,19), alcuni autori hanno in-terpretato questa sistemazione in mezzo alla cenere come un’altra espressione del lutto di Giobbe. Tuttavia nessun altro testo biblico utilizza l’espressione «si sistemò in mezzo alla ce-nere», come rito di lutto. Il testo dice semplicemente che Giobbe si è sistemato sull’im-mondezzaio fuori della porta della città, dove si buttavano la spazzatura, la cenere e le stovi-glie rotte, e dove si ritrovavano gli emarginati.

La vera reazione di Giobbe è il grattarsi con un coccio, che può facilmente trovare in mez-zo a quelle immondizie. C’era gente che si faceva delle incisioni, come rito di lutto (Ger 16,6; 41,5; 47,5). Non è il caso di Giobbe, il quale «si gratta» piuttosto per calmare il prurito.

Tutte le azioni di Giobbe dopo la prima prova erano pii riti convenzionali di lutto o di rive-renza; l’azione di Giobbe dopo la seconda prova è un’azione puramente profana per trovare un po’ di sollievo. Nel testo è introdotta una differenza importante.

b) Le parole di Giobbe (1,21 e 2,10a)

Giobbe reagisce alla prima prova con riti di lutto, seguiti immediatamente da parole. Alla seconda prova reagisce con un’azione profana e il silenzio. Probabilmente si tratta di una buona difesa psicologica per dissimulare il suo pensiero. Giobbe dice solo qualche parola do-po che la moglie gli ha parlato. Ma le parole della moglie sono veramente ambigue, e questo rende anche la risposta di Giobbe molto ambigua. Dopo il rimprovero rivolto alla moglie, Giobbe dice alcune parole che esprimono la sua sofferenza e che possiamo mettere a confron-to con le parole dopo la prima prova.

«Nudo sono uscito dal ventre di mia madre e nudo vi farò ritorno! Il Signore [YHWH] ha dato e il Signore ha tolto. Sia benedetto il nome del Signore...». «Se accettiamo il bene da parte di Dio, perché non dovremmo accettare anche il male?». Il parallelismo (accettare il bene..., accettare il male) nella seconda risposta di Giobbe fa

pensare che le sue parole, come la prima volta, siano proverbiali. Tuttavia non ripete «da parte di Dio» anche nella seconda parte. Si dice esplicitamente che il bene viene da Dio, ma di dove viene il male? Viene anch’esso da Dio o da un altro? Il verbo può essere tradotto con «accetta-re» o con «ricevere», e questo cambia il senso della frase.

Siccome la risposta di Giobbe in ebraico non è introdotta da una particella interrogativa, la possiamo leggere anche come un’affermazione dichiarativa: «Noi riceviamo, infatti, il bene da parte di Dio e non riceviamo il male». Questo potrebbe aver due significati: «Noi non rice-viamo il male da Dio, perché il male viene da un’altra parte», oppure: «Noi non riceviamo il male da Dio, perché tutto ciò che Dio ci dona, anche la sofferenza, è un bene». La maggior parte degli autori tuttavia considera la risposta di Giobbe come una domanda retorica, il che rende la sua interpretazione ancora più complessa.

Il confronto tra la prima e la seconda risposta di Giobbe è significativo. La prima è lunga, e comprende tre elementi: una riflessione sapienziale profana, una riflessione sapienziale reli-giosa e una benedizione. La seconda risposta è molto più corta, e si compone di un unico e-lemento: una riflessione sapienziale religiosa. L’assenza della benedizione va sottolineata, so-

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prattutto dopo l’invito della moglie a «benedire» o a «maledire» Dio. Avremmo potuto imma-ginare che Giobbe rispondesse ora con una benedizione.

Anche la forma letteraria delle due risposte è probabilmente molto diversa. Le prime parole di Giobbe erano affermazioni positive dichiarative che esprimono la certezza. La seconda ri-sposta, se accettiamo l’interpretazione comune, è una domanda negativa. Fare una domanda è segno d’incertezza, tanto più che Giobbe risponde alla domanda della moglie con un’altra domanda. Anche se generalmente è considerata come una domanda retorica, interpretata come un modo particolare di affermare qualche cosa, non possiamo ricavarne alcuna certezza. Ogni domanda, anche una domanda retorica, può nascondere diverse cose e può anche essere un modo educato per evitare di svelare il proprio pensiero o un modo indiretto per esprimere cer-te osservazioni eterodosse.

Il senso aperto della domanda è confermato dal cambiamento dal singolare personale, «i-o», della prima risposta, al plurale generale, «noi», della seconda. Siccome Giobbe e la mo-glie avevano perduto figli e beni, ci saremmo aspettati il plurale piuttosto dopo la prima pro-va, e il singolare dopo la seconda prova che tocca le ossa e la carne di Giobbe soltanto. Eppu-re Giobbe dice: «Noi [tu e io] riceviamo [o accettiamo] il bene da parte di Dio, e non ri-ceveremmo [accetteremmo] [tu e io] anche il male?». La risposta appropriata sarebbe: «Io suppongo che dovremmo»; oppure: «forse noi dovremmo»; oppure: «certamente noi do-vremmo». Giobbe, senza dubbio, vuole dare una lezione alla moglie: «Certo che dobbiamo accettare il male. E tu faresti meglio a seguire il mio esempio. Io lo accetto; tu invece sembri incapace di farlo». Ma può anche darsi che Giobbe affermi i propri limiti: «Certo che do-vremmo accettare il male. Ma noi – tu e io – non siamo capaci di farlo».

Anche il contenuto delle due risposte è molto diverso. Nella sua seconda risposta, Giobbe parla di «accettare», il che presuppone «dare». Questo indica il legame molto stretto tra la se-conda risposta e la seconda parte della prima risposta (1,21b). Nella prima risposta, «dare» (le cose buone) è opposto a «togliere» (le cose buone), mentre, nella seconda, «accettare il bene» è opposto non a «togliere il bene», ma ad «accettare il male». Quando Giobbe ha perduto tut-to, ne parla concretamente come di «togliere», ma ora parla in modo più astratto della sua sof-ferenza come di «accettare il male», il che presuppone il «dare il male». Giobbe non dice e-splicitamente chi dà il male. Ha forse paura di dire che è Dio? Perdere tutto è normale e accet-tabile, fa parte della vita. Ma la sua malattia la chiama «un male». È il primo giudizio di valo-re di Giobbe.

Anche se la seconda risposta di Giobbe e la seconda parte della prima risposta sono en-trambe riflessioni sapienziali religiose, c’è una differenza importante tra le due. Nella prima Giobbe parla tre volte di «YHWH» (Signore). È il nome rivelato a Mosè per rassicurarlo nella sua missione di liberare i figli d’Israele dalla loro schiavitù in Egitto (Es 3,15-16). È il nome speciale del Dio dell’alleanza e dice che Dio è con noi per liberarci e custodirci. Nella secon-da risposta «YHWH» è sparito. Giobbe parla ora una volta di «Elohim», un nome che si riferi-sce alla divinità in generale, a un Dio che può essere molto lontano e trascendente.

E poi, la prospettiva di Giobbe sugli eventi è diversa. Nella prima risposta, Giobbe osserva la vita dal punto di vista di Dio: Dio è il soggetto dei verbi. La formulazione della risposta ha una risonanza dinamica, YHWH dà e YHWH riprende. Nella risposta spontanea convenzionale, che proferisce ancora prima di aver avuto il tempo di riflettere sul problema, Giobbe afferma che Dio può fare ciò che vuole. Nella seconda risposta, Giobbe osserva la vita dal punto di vi-sta dell’uomo: gli esseri umani sono i soggetti dei verbi. La sua risposta evoca un atteggia-mento molto più passivo: non abbiamo scelta, non abbiamo che da ricevere e subire la soffe-renza. Il secondo sguardo porta Giobbe a rimettere in discussione il suo primo. È proprio così scontato che dobbiamo accettare tutto? La conflittualità tra la prospettiva divina e quella uma-na diventerà acuta nel seguito del racconto.

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c) La valutazione del narratore (1,22 e 2,10b)

In tutto ciò Giobbe non commise peccato né proferì [lett. «diede»] alcuna insolenza contro Dio... In tutto questo Giobbe non peccò con la sua bocca [lett. «con le sue labbra»].

Anche il confronto tra queste due valutazioni è illuminante. E possiamo osservare una pri-ma differenza notevole: la seconda valutazione è molto più corta della prima, così come le a-zioni e le parole di Giobbe erano più corte dopo la seconda prova. Nella prima risposta, Giob-be dice: «YHWH ha dato», e il narratore conclude che Giobbe «non proferì alcuna insolenza contro Dio». La seconda volta, il narratore abbandona questa affermazione. Giobbe, nella se-conda risposta, pronuncia il primo giudizio di valore. Chiama la sua malattia un «male», e suggerisce che sia Dio a «darglielo». Forse il narratore insinua in questo modo che Giobbe, questa volta, insulta Dio?

La seconda valutazione ripete parola per parola la prima parte della prima valutazione: «In tutto ciò Giobbe non peccò». Ma l’autore aggiunge significativamente: «con la sua bocca». Dobbiamo pensare che Giobbe ha peccato nel suo cuore? Ci troviamo di fronte a un testo a-perto. In molti testi biblici «labbra» e «cuore» sono in parallelismo sinonimico (Sal 21,2; 45,1; Pr 10,8; 22,11; 24,2). Se Giobbe non ha peccato con le labbra, non ha peccato nemmeno con il cuore; insomma non ha peccato (33,3). Ma altri testi biblici sottolineano come ciò che è detto con le labbra può essere diverso da ciò che capita nel cuore (Pr 26,23; Sal 12,2; Is 29,13; Sir 12,16; Mt 15,8). Raba, citato nel Baba Batra 16a, ha inteso il testo di Giobbe in questo modo: «Con le sue labbra non ha peccato, ma nel suo cuore ha peccato». Il Targum va nella stessa direzione e aggiunge: «ma nei suoi pensieri coltivava già parole peccaminose». Il contesto favorisce questa interpretazione. Perché l’autore avrebbe modificato la prima valuta-zione aggiungendo: «con le sue labbra», se avesse semplicemente voluto dire che Giobbe non aveva peccato per niente? Il cambiamento non è certamente motivato da ragioni artistiche. Lo attesta il confronto tra la valutazione di Giobbe da parte del narratore: «non peccò con le sue labbra» e la preoccupazione che tormentava Giobbe a proposito dei figli: «Forse i miei figli hanno peccato e maledetto/benedetto Dio nel loro cuore» (1,5; c’è un altro riferimento al cuo-re in 1,8 nel testo ebraico). I due testi parlano di «peccare», ma uno evoca il «cuore», l’altro le «labbra». La differenza è notevole.

Anche se Giobbe non ha maledetto Dio dopo la sua seconda prova – come il satana aveva predetto (2,5) –, e di conseguenza non ha peccato con le labbra (31,30), il suo cuore non è più in pace. Quando Giobbe finalmente «aprì la bocca» (3,1) dopo sette giorni di silenzio e non parla più in proverbi, ma con le sue parole, egli rivela ciò che si trova nel suo cuore. E, come vedremo, questo monologo di Giobbe rovescia completamente la risposta data dopo la prima prova.

Una lettura attenta delle reazioni di Giobbe nella prima parte del libro (1,6–2,10) suggeri-sce che Giobbe non è il credente convinto che spesso si ritiene. Quando perde tutto ciò che ha, è veramente disorientato. Replica solo con riti e parole convenzionali nei quali non c’è nulla di personale, ma solo formule puramente superficiali, vuote, anche se pie. Sia Giobbe che la moglie, quando essa interviene al momento della seconda prova, utilizzano quello che po-tremmo chiamare il linguaggio della fede popolare. Di fronte alle prove, l’atteggiamento della gente semplice è dello stesso genere. Certe persone rifiutano un Dio che dovesse permettere che succedano sventure del genere. La moglie di Giobbe – ed è un’interpretazione possibile del suo intervento – si colloca in questa categoria. Altre persone, invece, accettano questo Dio con una fede cieca espressa talvolta con cliché simili a quelli che Giobbe utilizza. Una fede del genere, che potremmo dire «la fede della vecchietta», può essere soddisfacente per un cer-to tempo, ma è fragile. Prima o poi, finirà per crollare poiché l’individuo non si è ancora ve-ramente scontrato con il problema. A quel punto, allora, alcuni rifiutano tutto; altri, come Giobbe, approfondiscono la fede con un lungo cammino.

Il confronto tra la prima e la seconda reazione di Giobbe indica che qualcosa è cambiato. I riti e le parole convenzionali non bastano più. Quando la malattia colpisce Giobbe, egli ha an-

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cora meno da dire di quanto avesse dopo la perdita dei beni e dei figli. Reagisce con un’azio-ne puramente profana per alleviare la sofferenza ed è solo quando la moglie lo provoca ad e-sprimersi, che fa una domanda. Giobbe si interroga, comincia un po’ alla volta a porsi delle domande.

7.2.3.2. Il linguaggio del silenzio

Nella prima parte del racconto (1,6–2,10) Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popo-lare. Alla prima prova aveva reagito con riti e formule convenzionali, ma il suo atteggiamento, dopo la seconda prova, era già un po’ diverso. La reazione dei tre amici (2,11-13) è in parte simile a quella di Giobbe: anch’essi seguono un certo numero di riti convenzionali; ma non ricorrono, come lui, a formule stereotipe, e tacciono. Il racconto ha raggiunto il linguaggio del silenzio, che è spezzato solo dai pianti degli amici. La letteratura sapienziale parla spesso del potere della lingua. La lingua può fare meraviglie o, al contrario, ferire profondamente. C’è tutta un’arte di controllare la lingua. Quando parlare o non parlare? Cosa dire o non dire? Come dirlo? (Pr 13,3; 14,23; 18,21; 21,23; 26,28).

Se gli amici conoscono i riti convenzionali, devono sapere anche le pie formule superficia-li, ma si rendono conto che non ci sono parole adatte nel momento di una «grande» sofferen-za. Non si può dire nulla, non si ha nemmeno il diritto di parlare. Nessuna parola può consola-re. L’unica cosa che gli amici possono fare è «simpatizzare» con Giobbe, «soffrire con» e «vi-vere con» Giobbe. Lo fanno «giorno» e «notte», e non solo un giorno, ma sette. La presenza prolungata e anche le lacrime di questi tre saggi – gli uomini hanno il diritto di piangere – provano che sono veri amici. Non vengono certamente per quanto Giobbe ha, dal momento che non ha più nulla. Vengono unicamente per quello che Giobbe è, e non importa ciò che è diventato. Molte persone hanno paura di visitare dei malati gravi; ma non gli amici! Tutti i malati lo dicono: una presenza vale più delle parole. Cosa dire infatti al malato? «Oggi hai un bell’aspetto!» è una menzogna; e dire allora: «Oggi non ti vedo molto bene!»?

Giobbe è felice di avere amici del genere, che hanno lasciato la famiglia e gli impegni uni-camente per lui. Come loro, anche Giobbe tace. Aveva saputo cosa dire ai servi, e aveva mo-strato di essere forte nella replica alla moglie, ora non dice più nulla. Vede le lacrime degli amici che, essi pure, in un certo modo, hanno bisogno di incoraggiamento, ma Giobbe non ri-volge loro alcuna parola. Avrebbe potuto ripetere quanto aveva detto ai servi o alla moglie, o dire altre pie frasi convenzionali, del genere: «Non piangete, è la volontà di Dio!». Niente di tutto questo. Per sette giorni e sette notti regna un grande silenzio.

Il silenzio offre l’occasione di riflettere e di guardare profondamente dentro di sé. Quello che sta succedendo nel cuore di Giobbe e nel cuore di Elifaz, di Bildad, e di Zofar verrà alla luce quando le loro parole interromperanno il silenzio.

7.2.3.3. Il linguaggio del dubbio

Nella sua reazione spontanea di fronte ai membri della famiglia, ai servi e alla moglie, Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare. Dopo l’arrivo degli amici, Giobbe è pas-sato al linguaggio del silenzio. Anche gli amici tacciono, si rendono conto di non potere dire nulla e non hanno nemmeno il diritto di parlare. Solamente lo sventurato ha il diritto di rom-pere il silenzio, solo lui decide quando è opportuno e permesso parlare.

Infatti, Giobbe è il primo a riprendere la parola. Il suo monologo (cap. 3) rivela ciò che è successo nel suo spirito e nel suo cuore durante quei sette giorni e sette notti di silenzio. Ha avuto il tempo di riflettere, ma ha anche sentito il dolore nel suo corpo. Non può più control-larsi. Il furore e il dolore di Giobbe esplodono in una maledizione e un lamento.

C’è un parallelismo evidente tra questo monologo e le parole della prima parte in cui Giobbe esprimeva la sua accettazione spontanea, ma ne è il polo opposto. Nella sua reazione alle prove, Giobbe era ricorso a formule convenzionali, a proverbi e a una giaculatoria. Alcuni lettori vi vedono un’espressione della fede profonda di Giobbe. Ho fatto presente che formule

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del genere potrebbero essere l’espressione di una fede superficiale e che sarà il seguito del li-bro a chiarirci le cose. Nel monologo Giobbe non si esprime più mediante formule imparate a memoria e imparate da altri, ma parla con parole sue. Confuta punto per punto ciò che aveva detto in precedenza. La fede superficiale crolla.

Dopo la prima prova, Giobbe diceva ai servi che aveva accettato la propria nascita: «Nudo sono uscito dal ventre di mia madre» (1,21a). Nella prima parte del suo monologo Giobbe ri-fiuta il giorno della nascita e vorrebbe non aver mai lasciato il seno materno (vv. 3-10): «essa non chiuse per me il varco della matrice» (v. 10; un altro riferimento al seno materno al v. 11). Ai suoi servi Giobbe aveva detto di essere pronto ad accettare la morte: «nudo vi farò ritorno» (1,21b). Nella seconda parte del monologo Giobbe aspira alla morte, che è migliore della vita (vv. 11-19): «come un aborto interrato» (v. 16). Ai servi, aveva detto: «YHWH ha dato, YHWH ha tolto» (1,21c). Ora, nella terza parte del monologo, Giobbe s’interroga sul dono della vita (vv. 20-26): «Perché dare la luce...» (v. 20). In effetti, a cosa serve dare, se è solo per riprende-re ciò che abbiamo dato? Giobbe aveva concluso la sua risposta ai servi con una benedizione: «Sia benedetto il nome di YHWH» (1,21d). Ora, dice l’autore, Giobbe «maledice il giorno del-la sua nascita» (v. 1 e v. 8).

Giobbe sembra più incline a seguire il consiglio che la moglie gli ha dato dopo la seconda prova: «Maledici Dio, e muori» (2,9). Giobbe certamente aspira alla morte, vuole morire. In verità non possiamo dire che Giobbe stesso abbia «maledetto», spera piuttosto che altri lo fac-ciano per lui (v. 8). L’autore ha dunque ragione in un certo modo quando dice che Giobbe ha «maledetto» (v. 1), almeno indirettamente. Rimane il fatto che la maledizione non si rivolge a Dio direttamente, ma all’esistenza, e dunque all’opera creatrice di Dio.

Giobbe non si accontenta di respingere le formule stereotipe, si pone anche parecchie do-mande: «Perché?» (vv. 11.12 [2x].20); e certamente la domanda che colui che soffre si pone prima o poi: «Perché io?». Una domanda richiede una risposta. Giobbe non rivolge le sue domande direttamente agli amici o a Dio. Giobbe non capisce più nulla. L’apparente certezza delle formule stereotipe è scomparsa, se mai c’è stata! Giobbe dubita, cerca risposte nuove. Forse sarà capace di trovarle lui stesso, oppure altri gliele daranno.

Il dubbio ha condotto Giobbe a certe domande e a una recriminazione, la disperazione lo ha condotto a una maledizione. L’autore ha ben riassunto il contenuto del monologo all’inizio: «Dopo di ciò Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno [di nascita]» (v. 1). Il satana sem-bra sul punto di trionfare, tuttavia non ha ancora vinto la sfida. Anche se Giobbe ha, almeno direttamente, maledetto, non ha ancora maledetto YHWH in faccia.

Giobbe è diventato il credente che si pone delle domande, che cerca di capire. E allora ri-correrà a un altro linguaggio.

7.2.3.4. Il linguaggio della teologia

Nei capitoli da 4 a 27 Giobbe e gli amici si mettono a confronto, portando avanti ciascuno le proprie argomentazioni, che possono essere così riassunte: Le argomentazioni degli amici - nessuno è puro davanti a Dio (4,17-21; 15,14-16; 25,4-6; ecc.) - solo Dio è grande (dossologie: 5,9-18; 11,7-11; 22,12; 25,2-3; ecc.) - Dio punisce sempre i malvagi (4,7-11; 5,2-7; 8,11-15; 11,20; 15,17-35; 18,5-21; 20,4-29; 22,15-18; ecc.) - Dio ricompensa sempre la fedeltà del giusto (5,17-21.25-26; 8,5-7.20-22; 11,13-19; 22,21-30; ecc.)

Le argomentazioni di Giobbe - riconosce l’indegnità innata dell’uomo davanti a Dio (7,17; 9,2-3; 13,28-14,6; ecc.) - riconosce la grandezza di Dio (dossologie: 9,4-13; 12,7-10.13-25; 26,7-14; ecc.) - rifiuta ampiamente le affermazioni degli amici sul castigo inevitabile degli empi e sulla felicità sicura dei

giusti; ad esse oppone la smentita dell’esperienza comune (12,6; 21,27-34; ecc. ) e quella della sua stessa esperienza (9,22-24; 12,2-3; 13,2; 21,2-26; 24,1-17; ecc.)

- rifiuta che si spieghi la sua sofferenza con una pretesa colpevolezza; egli si sente invece oggetto di un’aggressione da parte di Dio (i lamenti «egli»: 3,23; 6,4; 9,2-3.14-24.32-35; 13,3.7-11.13-19; 16,7-17;

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19,6-12.21-22; 23,1–24,1; 27,2; ecc.; i lamenti «tu»: 7,7-21; 9,28b-31; 10,1-22; 13,20-28; 14,1-6; 17,4-6; ecc.).

- lo sbocco della morte è lo «Šeol», luogo di oppressione e di solitudine (7,9-10.21; 10,21-22; 14,7-12; 16,22; ecc.)

- esprime la speranza nella possibilità di essere riconosciuto innocente di fronte a Dio, prima in maniera im-plicita (7,16b; 10,20b; 14,6.13-17; 23,3) e poi in modo più esplicito (16,18-22; 17,3; 19,25-27)

Giobbe aveva reagito alle prove dell’inizio con il linguaggio della fede popolare, con for-mule stereotipe, imparate a memoria (1,6–2,10). Al momento dell’arrivo degli amici, i tre e Giobbe stesso sono passati al linguaggio del silenzio (2,11-13). Quando finalmente Giobbe decide di rompere il silenzio, rivela di aver raggiunto il linguaggio del dubbio: Giobbe fa del-le domande (3). Il credente che si pone delle domande cerca risposte. Le formule convenzio-nali della fede popolare non soddisfano più. Giobbe cerca di capire.

Arriviamo così al linguaggio della teologia. La definizione classica della teologia è fides quaerens intellectum (la fede che cerca di capire). I tre amici che sono rimasti seduti presso Giobbe, in silenzio per sette giorni e sette notti, hanno avuto molto tempo per riflettere. Han-no ascoltato le numerose domande impersonali di Giobbe (3) e si sentono invitati a rispondere (4,1). Il dialogo tra i tre amici e Giobbe prosegue con affermazioni, domande e risposte. Tutti parlano di Dio, che è poi il significato del termine «teologia» secondo la sua etimologia: theos (Dio)-logos (parola). La teologia cerca di comprendere, vuole verificare.

Anche se tutti e quattro parlano il linguaggio teologico, gli amici e Giobbe non praticano lo stesso tipo di teologia. I cicli di discorsi contengono due tipi di teologia, dal momento che ci sono due punti di partenza.

1) LA TEOLOGIA SCOLASTICA DEI TRE AMICI

Nell’epoca precedente il Concilio Vaticano II si insegnava spesso la teologia servendosi di

un genere particolare di manuali. Un bell’esempio è l’opera di A. Tanquerey, Synopsis Theo-logiae Dogmaticae ad usum Seminariorum. Il sottotitolo indica chiaramente che il libro è scritto prima di tutto per i seminaristi. Si parte da una tesi, che riassume una verità di fede, un dogma, ad es.: «Gesù è veramente Dio e uomo». Segue la prova di questo dogma in tre punti: 1) la prova ricavata dalla Scrittura (Scriptura probatur); 2) la prova ricavata dalla tradizione, che era sempre unanime (Probatur Traditione); 3) siccome un mistero non può essere provato con la ragione, si mostrava come la tesi fosse accettabile alla ragione (Ratione theologica suadetur). È questa la teologia insegnata nelle scuole per moltissimo tempo. Si provava una tesi ricorrendo alle tre fonti della teologia.

I tre amici seguono questo metodo per trovare una risposta alle domande di Giobbe a pro-posito della sua sofferenza e di Dio. Gli amici hanno cercato davvero di simpatizzare con Giobbe, ma come è possibile che qualcuno, pur con tutta la buona volontà di questo mondo, «simpatizzi» veramente, soffra con l’altro, senta la sofferenza dell’altro? Il loro approccio è più cerebrale. Ciascuno dei tre visitatori si muove a modo suo, ma in ultima analisi hanno tutti e tre lo stesso approccio. Il loro punto di partenza è il dogma, sono le verità di fede.

Elifaz, il primo amico a prendere la parola nel primo ciclo di discorsi, pone la tesi da cui parte: «Quale innocente è mai perito? [...] coloro che coltivano malizia e seminano miseria, mietono tali cose» (4,7-9). Questa tesi, ripresa poi anche dagli altri due, comporta il principio causa-effetto della dottrina classica della retribuzione: il bene viene ricompensato e il male viene punito. Dio, in quanto giudice giusto, assicura questo ordine nel mondo (20,29). Sicco-me a quel tempo non c’era ancora una dottrina chiara su una vita nell’oltretomba, la retribu-zione doveva aver luogo qui in terra. Il giusto è ricompensato con figli numerosi, ricchezze e una lunga vita; ed era proprio questa la felicità di cui godeva Giobbe all’inizio del libro (1,1-3). Il malvagio, invece, era punito con sciagure, con la malattia e una morte prematura. Molti scritti biblici, come, ad esempio, il libro del Deuteronomio, affermano questo principio. Eli-faz, che comincia il dialogo partendo da questa tesi, continua a difenderla costantemente

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70 Giobbe

(15,17-35; 22,12-20), e Bildad (18,5-21) e Zofar (20,4-29) parlano allo stesso modo. I tre co-noscono molto bene la teoria e la propongono a Giobbe come risposta alle sue domande sul perché della sua sofferenza.

Gli amici ricorrono alle tre fonti della teologia per provare questa tesi della retribuzione. Essi attingono le loro prove nella rivelazione divina: conoscono le Scritture. Elifaz dice: «l’infamia chiude la bocca» (5,16), citazione del Sal 107,42b; e, invece, «i giusti vedono ciò e si rallegrano» (22,19a), citazione dell’altra parte del medesimo versetto del Sal 107,42a. Quando Bildad rimanda alla grandezza di Dio e alla piccolezza dell’essere umano (25,2-6), sembra ispirarsi al Sal 8. Elifaz dice addirittura di aver avuto una ispirazione privata: «Una parola mi fu detta furtivamente» (4,12), e di conoscere la parola di Dio (15,11). Anche Zofar crede di sapere quello che Dio vuole dire (11,5). Per provare la loro tesi, essi ricorrono anche alla tradizione. Come tutti i manuali di teologia avevano l’abitudine di rimandare alla posi-zione «unanime» dei Padri della Chiesa, così i tre amici rimandano alla dottrina degli antenati. Bildad dice: «Interroga le generazioni passate, e rifletti sull’esperienza dei loro padri...» (8,8-10). Elifaz evoca l’autentica tradizione originaria, prima che fosse corrotta da elementi stra-nieri (15,18-19), e Zofar parla della tradizione primitiva: «... da sempre, da quando l’uomo fu posto sulla terra» (20,4). E infine si rifanno alla loro esperienza personale e alle loro rifles-sioni. Elifaz lo ripete spesso: «Ecco..., l’ho visto» (4,7-8; 5,3.27; 15,17) e Zofar parla della «i-spirazione del suo senno» (20,3). La tesi è provata, e non rimane alcuna obiezione possibile: «È così» (5,27).

Che fare ora di fronte alla realtà che sembra contraddire la tesi? Giobbe è riconosciuto dappertutto come un uomo integro e retto (1,1), e anche Dio lo giudica in questo modo (1,8; 2,3; ma solo i lettori lo sanno, mentre gli amici lo ignorano), eppure soffre. Come risolvono questa contraddizione gli amici? Impossibile intaccare il dogma; ogni sofferenza, e quindi an-che quella di Giobbe, non può essere spiegata che dal peccato. Essi allora fanno una di-stinzione tra l’essere e il sembrare. Giobbe si dichiara uomo integro, ed è in questo modo che gli altri lo pensano, ma tutto ciò non è che illusione. Ciò che Giobbe sembra essere, in realtà non lo è. Quale essere umano può essere senza peccato? «Può l’uomo essere giusto davanti a Dio...?» (4,17-19; cfr. 15,14-16; 25,4). I tre amici addirittura accusano Giobbe di «crimine» (15,5), di «colpa» (11,6), di «grande malvagità» (22,2-11): «Non è piuttosto per la tua grande malvagità e per le tue innumerevoli colpe... Perciò ti circondano i lacci» (22,5.10). Il principio causa-effetto è salvo. Giobbe farebbe meglio a riconoscere la sua colpevolezza, e allora Dio lo salverebbe certamente (11,13-20; 22,21-30). E Dio, anche se non sembra giusto, in realtà è giusto: «Può forse Dio falsare il diritto?» (8,3). Per gli amici Giobbe è nella menzogna e Dio è un mistero: «Pretendi forse di sondare l’intimo di Dio...?» (11,7-9).

I tre amici praticano una teologia scolastica, che parte dal dogma al quale la vita deve adat-tarsi, volente o nolente. Si tratta di una teologia statica senza possibilità di evoluzione, dal momento che le risposte sono conosciute in partenza.

2) LA TEOLOGIA ESISTENZIALE DI GIOBBE

Gli amici, pur con tutta la loro buona volontà, fanno un ragionamento astratto, mentre

Giobbe è il solo a soffrire e a ragionare con tutto il suo essere. Gli amici partono dal dogma al quale la realtà della vita deve adattarsi. Giobbe, invece, parte dalla realtà della vita per con-frontarla con il dogma della dottrina della retribuzione fondata sul principio causa-effetto, che conosce bene quanto i tre amici (24,18-25; 27,13-23). Anche Giobbe ricorre alle tre fonti della teologia. Egli conosce la rivelazione divina della Scrittura, e rimanda al Sal 8 (7,17-18; 19,9), lo stesso al quale Bildad si riferisce, e cita anche altri testi biblici (Sal 12,9 = Is 41,20; Sal 14,11 = Is 19,5). Egli conosce la rivelazione divina a proposito della sapienza e respinge la «rivelazione» su cui si fondano i suoi amici (26,4). Giobbe si rifà anche alla tradizione, senza ridurla a quella degli antenati; rimanda anche alle religioni del mondo, alla tradizione univer-

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Giobbe 71

sale: «Perché non lo chiedete ai viandanti?» (21,29). Ma ci sono anche le sue riflessioni per-sonali: «Ma anch’io ho senno come voi, non sono da meno di voi» (12,3; 13,1-2). Le tre fonti non sono utilizzate per provare a ogni costo un dogma, ma per riguardare la vita e per trovare possibilmente una risposta alla domanda esistenziale a proposito della sofferenza e di Dio.

L’esperienza contraddice il dogma della retribuzione: «Sono tranquille le tende dei razzia-tori, c’è sicurezza per coloro che provocano Dio» (12,6; cfr. 21,7-6). Se Giobbe costata ciò nel mondo che gli sta attorno, a quel punto osa interrogarsi anche a proposito della propria soffe-renza. Gli amici cercano di salvare il dogma facendo una distinzione tra ciò che una persona è e ciò che una persona sembra essere. Questo è inaccettabile per Giobbe, la realtà non può es-sere sacrificata al dogma. Siccome Giobbe ha visto che gli innocenti non sono sempre ricom-pensati e i malfattori non sono sempre puniti, osa proclamare la propria innocenza. Non solo sembra giusto, ma lo è in realtà: «Fino all’ultimo respiro rivendicherò la mia integrità. Terrò fermo alla mia innocenza, senza cedere!» (27,5-6; cfr. 9,15.20.21; 10,7.15; 16,17; 23,10). Ma la sofferenza di un innocente fa allora sorgere una domanda su Dio, che soggiace a questa dot-trina della retribuzione. Gli amici risolvono il problema parlando del mistero di Dio. Anche se Dio non sembra giusto, in realtà è giusto. E anche questo è inaccettabile per Giobbe. Egli arri-va alla dolorosa conclusione che Dio, che non sembra giusto, non lo è nemmeno in realtà: «Sappiate dunque che Dio mi ha fatto torto» (19,6; cfr. 9,22-24; 24,12; 27,2). Giobbe colloca se stesso nella posizione della verità e Dio nella posizione della falsità.

La teologia esistenziale di Giobbe parte dalla vita. Se la vita contraddice il dogma, allora il dogma è inesatto e il credente deve continuare la ricerca. Una teologia del genere è dinamica e permette l’evoluzione. Giobbe, infatti, è in lotta interiormente, si dibatte nelle contraddizioni e continua a cercare, come possiamo vedere nei diversi passaggi in cui si rivolge a Dio.

Partire dalla propria esperienza, e soprattutto se si tratta della sofferenza, anziché partire dai principi, cambia molte cose. Molti principi che sembravano importanti e chiari crollano e sembrano vani. Ciò che Giobbe dice ora è ben diverso da ciò che diceva in precedenza. Gli amici glielo fanno notare: «Le tue parole sostenevano i vacillanti [...]. Ma ora che tocca a te, sei depresso» (4,4-5). La risposta di Giobbe non manca. Se fossero al suo posto, parlerebbero meglio di lui? «Ora anch’io potrei parlare come voi se foste al mio posto» (16,4).

3) DUE TEOLOGIE IN CONFLITTO

Un dialogo tra due teologie così divergenti è difficile e addirittura penoso.

a) Un dialogo senza sbocchi La conversazione fra i tre amici e Giobbe è come una conversazione tra un teologo conser-

vatore e un teologo liberale, oppure tra un credente pieno di buon senso e un membro fanatico di una setta. Praticare due teologie equivale a parlare due lingue differenti. Gli amici e Giobbe non possono capirsi, e, anche se talvolta da parte di uno degli interlocutori ci troviamo di fronte a una replica vera e propria, in genere ciascuno parla senza rispondere all’altro. Si tratta di un dialogo tra sordi che in questo modo può durare all’infinito. Bildad si chiede: «Fino a quando...?» (18,2); Giobbe si pone la stessa domanda: «Fino a quando...?» (19,2). Questo spiega perché ci siano tre cicli di discorsi senza che si dica granché di nuovo.

È interessante notare la lunghezza dei diversi discorsi nel dialogo (4–27). Gli amici parlano ogni volta per un capitolo, solamente il primo discorso di Elifaz ne comprende due. Nove ca-pitoli sono consacrati alle parole degli amici. Giobbe, da parte sua, risponde quattro volte in due capitoli e due volte in tre capitoli. L’intervento di Giobbe comprende quindici capitoli e, se si tiene conto dei monologhi (3; 29–31), sale a diciannove.

Ad un certo punto, qualcuno deve pur abbandonare, e questo spiega perché il terzo ciclo si sfalda: Elifaz parla ancora (22), Bildad prende ancora la parola, ma brevemente (solo pochi versetti: 25,1-6), e Zofar abbandona. I tre amici si dimostrano i più saggi. Giobbe, che vuole uscire vincitore dal combattimento, continua a battersi con lunghi discorsi.

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72 Giobbe

In conversazioni del genere, diventa talvolta difficile seguire gli argomenti delle due parti, e in certi casi si ha quasi l’impressione che i due interlocutori comincino a ripetersi recipro-camente. Lo possiamo costatare nel terzo ciclo quando Giobbe dice cose che ci aspetteremmo piuttosto dagli amici. L’apparente disordine del terzo ciclo non è un’indicazione di un testo corrotto e non è necessario ricostruire questo terzo ciclo secondo lo schema dei primi due.

b) L’ossessione per l’ortodossia

Una conversazione del genere porta a nulla e a nessuna «conversione», perché Giobbe e i tre amici sono dei credenti che cercano di comprendere un mistero e vogliono difendere la «verità». Ciascuna delle due parti è convinta del proprio punto di vista e lo considera come l’unica verità, qualificando quella dell’altro come eresia. Elifaz conclude il suo primo discor-so dicendo: «Ecco quanto abbiamo studiato a fondo: è così» (5,27), non c’è dunque alcuna possibilità di discussione. Zofar incoraggia Giobbe a non aderire alla falsità: «Non permettere all’ingiustizia di abitare nella tua tenda» (11,14).

Anche Giobbe, per parte sua, è convinto della verità della propria posizione e dunque della falsità delle parole dei tre amici. «Certo non vi mentirò in faccia. Ritornate, di grazia, non si faccia ingiustizia! [.. .] C’è forse iniquità sulla mia lingua?» (6,28.29.30). «Voi invece siete manipolatori di falsità» (13, 4); «Volete forse dire falsità in favore di Dio e per lui parlare con inganno?» (13,7; cfr. 24,25; 27,4).

c) La rottura dell’amicizia

Una conversazione del genere, ossessionata dalla difesa della verità e di Dio, finisce per portare alla rottura delle relazioni umane. I tre erano venuti come veri amici, ma, alla fine, sembrano piuttosto nemici di Giobbe. Elifaz comincia il dialogo in modo molto delicato: «Se ti rivolgiamo la parola, riuscirai a sopportarla?» (4,2).

Dopo che Giobbe ha risposto con un lungo lamento, Bildad reagisce in modo già più diret-to: «Fino a quando dirai cose del genere?» (8,2). Quando successivamente Giobbe accusa Di-o, Zofar diventa aggressivo e insulta Giobbe, chiamandolo «chiacchierone» (letteralmente: «un eroe delle labbra») (11,2) e «stolto» (11,12). Siccome Giobbe rimane sulle sue posizioni, gli amici adottano un linguaggio sarcastico nel secondo ciclo di discorsi. Essi cominciano in-sinuando che nessun essere umano può essere giusto, e finiscono accusando direttamente Giobbe di peccato nel terzo ciclo. I tre amici si trovano di fronte a un dilemma, si sentono for-zati a scegliere tra Dio e Giobbe. Per difendere Dio, essi sacrificano la loro amicizia con Giobbe.

Giobbe non è per niente migliore dei tre amici, anche lui diventa sarcastico: «Davvero siete la voce del popolo e con voi morirà la sapienza!» (12,2.4; cfr. 26,2-4). Giobbe pensava di po-ter continuare a contare su di loro, anche se, ai loro occhi, proferisce parole sacrileghe: «L’uomo disfatto ha diritto alla pietà del suo prossimo, anche se avesse abbandonato il timore dell’Onnipotente» (6,14). Giobbe si lamenta degli amici (6,14-30; 19,13-22) che, per difende-re la «verità», sono disposti a «mettere in vendita l’amico» (6,27). Li chiama «manipolatori di falsità» (13,4), «sventurati consolatori» (16,2), «beffardi» (17,2). Dice che non lo «ascoltano» per niente (21,2-3; cfr. 13,5), ma che lo «tormentano, affliggono, insultano, torturano, rimpro-verano» (19,2-5). Arriva perfino a maledire gli amici (27,7-12). Quelli che un tempo erano amici sono diventati persone che si feriscono e si fanno del male reciprocamente. Giobbe dice a Bildad: «Sono già dieci volte che mi ingiuriate; non avete vergogna di torturarmi?» (19,3), e Zofar risponde a Giobbe: «Ho ascoltato una lezione umiliante» (20,3), e anche Elifaz si sente rigettato (15,11). L’ossessione dell’ortodossia ha condotto a uno scisma.

Il lettore che cerca di seguire il dialogo senza schierarsi anticipatamente in favore di Giob-be o dei tre amici opterà prima o poi per uno dei due tipi di teologia che sono all’opera: la teo-logia scolastica dei tre amici che parte dai principi, una teologia dall’alto; e la teologia di Giobbe che parte dalla sua esperienza, una teologia dal basso. Per sapere quale delle due teo-

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Giobbe 73

logie Dio preferisce, il lettore dovrà attendere la fine del libro. Alcuni lettori vedranno con-fermata la loro scelta, altri conosceranno forse una sorpresa.

7.2.3.5. Il linguaggio della preghiera

La seconda parte del libro è conclusa. Giobbe l’ha iniziata e conclusa con un monologo, nel quale non si rivolge direttamente a nessuno alla seconda persona. Chi vuole capire capi-sca, sia Dio che gli amici.

Nel monologo iniziale ha fatto ricorso al linguaggio del dubbio. Sono seguiti tre cicli di di-scorsi che costituiscono un dialogo fra i tre amici e Giobbe; tutti parlavano il linguaggio della teologia. I tre amici parlano di Giobbe, di Dio, e dei principi: essi praticano una teologia «dall’alto». Giobbe parla di sé, di Dio, e della propria vita: egli pratica una teologia «dal bas-so». Ma tutto questo discorso su Dio alla terza persona non ha portato a nulla. In apparenza gli amici sanno tutto su Dio, ma non parlano mai a Dio. Anche Giobbe sa molte cose su Dio, ma è nel dubbio e decide di rivolgersi a Dio alla seconda persona, con quello che è il linguaggio della preghiera. «Io voglio rivolgermi all’Onnipotente [...]. Voi, invece, non siete che dei ma-nipolatori di falsità» (13,3-4). Gli amici teologi, anche se hanno incoraggiato Giobbe alla pre-ghiera, (5,8; 22,27), sembrano prendersi gioco della preghiera di Giobbe. Giobbe se ne lamen-ta: «Sono un oggetto di beffa per il mio vicino, io che gridavo a Dio per avere una risposta!» (12,4).

Nel primo ciclo di discorsi, Giobbe si rivolge direttamente a Dio all’interno di ciascuna delle risposte agli amici (dopo Elifaz: 7,7-21; dopo Bildad: 9,25-31 e 10,1-22; dopo Zofar: 13,20-28 e 14,1-22). La preghiera di Giobbe ha un ruolo molto importante in questo ciclo, ma Dio non risponde. La sua preghiera diventa molto più breve nel secondo ciclo di discorsi, e si limita alla risposta ad Elifaz (alcuni versetti nei quali Giobbe si rivolge a Dio dandogli del tu, all’interno di testi nei quali parla di Dio alla terza persona, «egli»: 16, 7-8 e 17,3-4). Nel terzo ciclo non c’è più alcuna traccia di preghiera. Un’ultima volta, come un’ultima speranza, Giobbe si rivolge ancora a Dio nel monologo finale (30,20-31), proprio prima di passare al suo giuramento di innocenza.

Le sue preghiere non sono né inni di lode né preghiere di rendimento di grazie, ma lamenta-zioni. Giobbe supplica Dio (7,7), accusa Dio (7,12), e cita in processo Dio perché gli dia una ri-sposta e delle spiegazioni (10,2). Ma, quale che sia il contenuto della preghiera, Giobbe dice sempre quello che sente nel profondo del cuore. «Perciò non terrò chiusa la bocca, parlerò nell’angoscia del mio spirito, mi lamenterò nell’amarezza del mio cuore» (7,11). La preghiera di Giobbe è un grido di sofferenza, talvolta pieno di amarezza e di parole violente. Eppure Giobbe non ha mai maledetto Dio. Il satana non ha ancora vinto la sua sfida, la sua scommessa.

In diverse altre occasioni Giobbe, anche se non si rivolge direttamente a Dio alla seconda persona, fa vedere di voler mantenere il contatto con Dio e continuare ad appellarsi a lui. Questo appare chiaramente dalle sue espressioni di speranza (16,18–17,1; 19,23-29). Il suo giuramento di innocenza (27,2-6; 31) è un altro modo per forzare Dio ad agire.

Giobbe ha parlato il linguaggio della fede popolare, del silenzio, del dubbio, della teologia e infine della preghiera. Ma la preghiera non è diventata un vero dialogo. Giobbe ha parlato a Dio, ma Dio ha mantenuto il silenzio. Giobbe non sa più cosa fare: «Ecco la mia firma [o «Ecco la mia ultima parola»]! L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). L’aspirazione di Giobbe è di sentire il linguaggio divino, la parola di Dio. Egli non lo chiede più direttamente a Dio, ma lo esprime alla terza persona. Dio non ha ancora risposto, c’è forse qualche altro che può parlare questo linguaggio divino. Il testo conclude in questo modo: «Fine delle parole di Giobbe» (31,40c). In effetti, come vedremo, Giobbe non prenderà così spesso la parola nel re-sto del libro.

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7.2.3.6. Una voce fuori campo: Il linguaggio della sapienza

Il capitolo 28 rappresenta una pausa. Non è pronunciato né da Giobbe né dai tre amici, ma da una voce fuori campo. I discorsi di Giobbe e degli amici erano giunti ad un punto morto. Gli amici non parleranno più, Giobbe pronuncerà un ultimo monologo (29–31) per poi tacere anche lui. La voce fuori campo interviene per imprimere alla ricerca della soluzione della vi-cenda di Giobbe una nuova direzione, quella della tradizione sapienziale.

Il capitolo è facilmente divisibile in tre parti: vv. 1-12, vv. 13-20, vv. 21-28. Il tema è quel-lo della ricerca del luogo della sapienza. Nelle prime due parti il luogo è sconosciuto e inac-cessibile, mentre nella terza parte esso viene svelato. Protagonista della ricerca è l’uomo, ma in ognuna delle parti mette in azione una sua particolare capacità di ricerca: nella prima c’è la ricerca dell’homo faber, nella seconda la ricerca dell’homo mercator, nella terza la ricerca dell’homo religiosus.

Soffermiamoci nella lettura del testo.

La ricerca dell’homo faber (28,1-12). La prima ricerca che, pur meritando gli elogi del no-stro autore, non mette però cartelli e segnali veri sulla via della sapienza, è la ricerca dell’homo faber. “Faber” è l’uomo che lavora con i muscoli delle sue braccia e con l’ardimen-to del suo spirito, per penetrare nelle viscere della terra e per strappare al sottosuolo le sue ric-chezze. L’autore di Giobbe ha grande stima dei ricercatori del sottosuolo, dei cercatori e sca-vatori di metallo. Ma sa che la loro ricerca è limitata e destinata al fallimento di fronte alla domanda:

Ma la sapienza da dove si trae? E il luogo dell’intelligenza dov’è? (v. 12).

Non sono l’arte e l’ardimento dell’homo faber che raggiungono il tesoro della sapienza.

La ricerca dell’homo mercator (28,13-20). Non solo l’homo faber, ma anche l’abisso della terra da cui l’uomo estrae i metalli, e poi addirittura il mare, dichiarano il loro fallimento: non sono in grado di dare indicazioni a chi è in cerca della sapienza.

Se l’homo faber porta alla superficie oro e argento, lo fa per commerciarlo, per trovare pro-fitto economico. Non per nascondere il frutto della sua fatica in chissà quale luogo o deposito. Nasce dunque la necessità dello scambio dei beni economici, i traffici e l’attività commercia-le. Anche il commercio chiede capacità, esperienza, fatica e coraggio. Ma anche all’homo mercator viene posta la domanda:

Ma da dove viene la Sapienza? E il luogo dell’intelligenza dov’è? (Gb 28,20).

La risposta implicita dice che neanche il mercante lo sa. Il testo si chiude dunque come cominciava: col fallimento della conoscenza umana, se essa è lasciata a se stessa.

La ricerca dell’homo religiosus (28,21-28). Da buon maestro di sapienza, l’autore di Gb 28 procede prima negando e poi affermando. Prima esclude che, scendendo negli anfratti della terra e poi viaggiando fino ad Ofir e fino all’Etiopia, l’uomo possa trovare la sapienza. Poi presenta il versante positivo della montagna della sapienza, ardua da esplorare e da scalare. Dopo aver ribadito che la sapienza è nascosta e inaccessibile ai viventi che abitano sulla fac-cia della terra e che tentano di scendere nelle sue viscere, ed è ignota anche agli uccelli che dall’alto del cielo scrutano ogni punto del mare e della terra, esposti al loro sguardo corsaro, acuto e penetrante, al v. 23 opera un improvviso e decisivo cambio di soggetto. Prima l’iniziativa era dell’uomo delle miniere e dell’uomo del commercio e degli scambi. Ora inve-ce è detto che solo Dio conosce la via e il luogo dove si nasconde la sapienza:

Dio solo ne conosce la via, lui solo sa dove si trovi (v. 23).

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Giobbe 75

Il motivo per cui a Dio è conoscibile ed accessibile ciò che è nascosto agli uomini e agli uccelli del cielo sta anzitutto nel fatto che il suo sguardo è infinitamente più lungimirante di quello dell’uomo, perché è lo sguardo del creatore. Al v. 28 si torna a parlare dell’uomo per dire, però, non che egli raggiunge la sapienza, ma che è Dio a rivelargliela. Ciò che è inacces-sibile ai tentativi dell’uomo non è impossibilità assoluta. L’uomo ha un orecchio per ascoltare gli insegnamenti della sapienza ed ha dei piedi per camminare sulla sua via, ma la parola che giungendo al suo orecchio gli fa conoscere la sapienza è la parola di Dio.

Nella vita dell’uomo c’è incessante l’attività della ricerca, ma la ricerca è differenziata. E-gli può cercare i metalli nelle miniere, può cercare lo zaffiro o le perle nei centri di mercato, ma la ricerca della sapienza richiede itinerari diversi, gli itinerari non della terra, del mare o del deserto, ma gli itinerari dello spirito, sui quali cade la luce della rivelazione divina.

Qui conviene trarre dal testo una citazione brevissima e addirittura monca. Bisogna infatti metterne in risalto l’importanza, perché segna una svolta, la grande svolta:

E [Dio] disse all’uomo (v. 28a).

Dio che tutto vede e tutto creò, tenendo l’occhio suo di creatore fisso sulla sapienza, in questo testo, quando parla all’uomo, non gli dice dove è la sapienza, ma gli dice che cosa è:

E [Dio] disse all’uomo: “Ecco, temere Dio, questo è sapienza e schivare il male, questo è intelligenza” (v. 28).

È sapiente dunque chi teme Dio. Chi teme Dio ha uno sguardo più profondo e più acuto di chi scende nelle profondità della terra per estrarre l’oro e l’argento, ed intraprende una ricerca più produttiva e gratificante di chi commercia oro di Ofir o topazi d’Etiopia.

“Temere Dio” e “schivare il male” è l’attività propria dell’uomo religioso, che sa di non es-sere autosufficiente ma di dipendere da Dio.

L’homo faber e l’homo mercator svolgono attività degne di ammirazione e indispensabili all’esistenza. Ma se non hanno il senso di Dio producono ricchezza e mezzi di sostentamento senza conquistarsi ciò che vale più dell’oro e dell’argento. La loro sarebbe un’attività e un’esistenza dimezzata. Un’esistenza che tende a seguire le leggi spesso perverse del mercato e non quelle che tendono ad assicurare una buona e giusta convivenza. Un’esistenza che asso-lutizza il lavoro e il profitto tende poi sempre più a fare a meno di Dio e a disconoscere il suo superiore arbitrato e la sua superiore signoria sul lavoro e sul commercio, sul sacrificio degli uomini e sul loro mutuo rapporto.

La ricerca dell’homo religiosus, dell’uomo che si pone in attento ascolto della Parola di Dio, è la ricerca che è destinata al successo: a costui Dio rivela la via della sapienza.

Perché a questo punto del libro è stato collocato il poema sulla ricerca della sapienza? Se nei discorsi di Giobbe e degli amici non si riesce ad intravedere una via d’uscita al problema della situazione di Giobbe, la voce fuori campo del poema sapienziale invita ad affinare il me-todo di indagine. Finora i ragionamenti e di Giobbe e dei tre amici sono partiti dal basso ed hanno preteso, dalla stessa prospettiva, di giudicare l’agire di Dio in tutta la vicenda. Occorre invece tener conto della sapienza che viene dall’alto. L’agire di Dio non può essere compreso da una ricerca che parte solo dal basso, occorre aprirsi alla rivelazione che viene dall’alto. Ri-velazione che l’uomo può disporsi a ricevere in dono. L’atteggiamento che più favorisce l’accoglienza del dono della sapienza che viene dall’alto è quello dell’homo religiosus.

7.2.3.7. Il linguaggio profetico-carismatico

Perché Eliu, il quarto visitatore (capp. 32–37) è presente nel libro di Giobbe? Eliu è intro-dotto esattamente a questo punto del libro per ragioni interne all’intreccio, e come ulteriore mezzo per criticare alcune concezioni e tradizioni religiose dure a morire. Il modo in cui la

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sua comparsa a questo punto del libro serve all’intreccio è collegato col fatto che le sue parole vengono proposte sotto l’egida di una pretesa di ispirazione divina.

Ad eccezione di Elifaz in 4,12–5,7, Giobbe e gli amici hanno esposto le proprie diatribe sulla base dell’esperienza umana e dell’osservazione delle cose del mondo. Ripetutamente, Giobbe ha desiderato, richiesto, persino preteso un confronto con Dio in cui Dio gli parlasse direttamente. Possiamo quindi ben comprendere tutta la forza delle sue obiezioni alla presenza di Eliu, basate come sono sul fatto che, dopo il capitolo 31, sarebbe naturale aspettarsi di udire la voce di Dio dei capitoli 38–41. E tuttavia, un’ulteriore riflessione suggerisce che tale se-quenza offrirebbe una soluzione troppo scontata.

Quale rivelazione viene da Dio? Un riferimento a Gen 2–3 e a 1Re 22,5-22 ci aiuterà a comprendere come vada interpretato Eliu. Sia in Gen 2–3 sia in 1Re, un essere umano è posto di fronte alla voce e agli ordini di Dio, e poi a un’altra voce, che anch’essa sostiene di parlare a nome di Dio. Nel caso della Genesi, il consiglio del serpente non viene offerto in diretta op-posizione a quello di Dio, ma piuttosto come una comunicazione alternativa di ciò che Dio sa e vuole che gli esseri umani sappiano. Analogamente, nell’episodio di 1Re, sia Micaia sia il gruppo dei profeti affermano sinceramente di parlare a nome di Dio, e Micaia si spinge addi-rittura a confermare il gruppo dei profeti nella sua pretesa di parlare per ispirazione! Ma, subi-to dopo, fa notare che la loro ispirazione serve a un fine diverso da quello che essi credono.

In entrambi questi racconti, il lettore dispone di una prospettiva che è negata ai personaggi principali della vicenda. (La donna infatti non era presente quando Dio parlò all’uomo; e il re di Israele non era presente al consiglio divino.) Da questo punto di vantaggio, il lettore è in grado di comprendere che colui che deve prendere una decisione si trova di fronte a due ri-vendicazioni di verità divina. Il problema, quindi, non è semplicemente se obbedire o no; il problema è: qual è la vera voce di Dio? In una simile situazione, l’ascoltatore (il primo uomo e la prima donna; il re di Israele) è rinviato alla propria moralità: la decisione su quale sia la vera voce di Dio rivela l’intima realtà morale e spirituale dell’ascoltatore, che è poi anche co-lui che dovrà dare una risposta.

Abbiamo questa dinamica in atto nel prologo del libro di Giobbe (dove la moglie fedele svolge il ruolo di avvocato del diavolo nei confronti di Giobbe) e nei dialoghi (dove gli amici fedeli svolgono lo stesso ruolo). Proprio perché la moglie e gli amici argomentano perlopiù in base all’osservazione e all’esperienza, se le parole conclusive di Giobbe nel capitolo 31 fosse-ro immediatamente seguite dai discorsi divini di rivelazione dei capitoli 38–41, le pretese al-ternative degli amici da un lato e di Dio dall’altro rappresenterebbero una contesa impari. Con la loro pretesa di essere ispirati da Dio, i discorsi di Eliu si pongono immediatamente prima dei discorsi divini al fine di porre in modo vivido, ineludibile e tormentoso a Giobbe l’esigenza, ancora una volta, di soppesare quanto gli viene detto sul piatto della bilancia della sua coscienza e del suo spirito.

È questa, dunque, la funzione che gli interventi di Eliu assolvono nel libro di Giobbe, col-locandosi, come si collocano, tra le ultime parole di Giobbe e i discorsi divini dal seno della tempesta: essi sono giustapposti ai discorsi divini per creare una situazione in cui Giobbe debba decidere quale «rivelazione» venga da Dio.

Siccome la teologia è la fede che cerca di comprendere, essa rimane un linguaggio umano. Il linguaggio teologico umano non ha condotto ad alcun risultato e la conversazione fra i tre amici e Giobbe si è fermata. Giobbe aveva concluso auspicando il linguaggio divino (31,35). Gli amici hanno abbandonato il loro discorso perché si rendono conto che Dio solo può ri-spondere a Giobbe (32,13). Ci sono tuttavia esseri umani che sono convinti di proclamare la parola di Dio. I profeti, infatti, introducono i loro oracoli in questo modo: «Così parla il Si-gnore», e li concludono con: «Dice il Signore». Non parlano in nome proprio, ma in nome di Dio. L’«io» nell’oracolo non si riferisce al profeta, ma a Dio. Il linguaggio profetico e cari-smatico afferma di essere la parola di Dio.

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Eliu è la persona che offre a Giobbe il linguaggio divino. È cosciente del suo essere un uomo (33,6), di essere ancora giovane e dunque di aver meno esperienza e saggezza umana dei tre amici, ma questo non è un problema per lui. Le sue parole non trovano la loro origine nelle tre fonti della teologia, ma nello spirito di Dio. Eliu è un uomo ispirato: «Nell’uomo c’è uno spirito, il soffio dell’Onnipotente, che rende intelligente» (32,8 [2x].18; 33,4 [2x]; 37,10). Eliu, su questo punto, è simile al profeta Geremia, che, ancora giovane, era invitato a procla-mare la parola di Dio (Ger 1,67). Eliu attinge la sua scienza «da lontano», dunque da Dio, poiché Dio è lontano (36,3.25). Può dunque affermare di avere, come Dio (37,16), una sa-pienza consumata (36,4). È veramente la bocca di Dio. Sente dentro di sé una passione irresi-stibile a parlare: «mi preme lo spirito che è dentro di me» (32,18), cosa molto tipica anche nei profeti (Ger 20,9; Am 3,3-8). Dio fa fremere il cuore di Eliu (37,1), come fa anche con Gere-mia (Ger 4,19). Anche il suo nome evoca il profetismo. «Eliu [Elihu]» è da mettere in rappor-to con «Elijahu [Elia]», il profeta che parlò in nome di YHWH, e fu portato via nel turbine (2Re 2,1), e che doveva ritornare come precursore del giorno del Signore (Ml 3,23-24; Mt 11,10). Dopo che Eliu ha parlato in nome di Dio, Dio stesso appare nel turbine (38,1). Eliu è veramente il precursore di YHWH.

Eliu parla della collera di Dio (35,15; 36,13.33) come fanno molti profeti (Is 10,5; 13,3.9.13; Ger 4,8.26; 10,24; 12,13). E siccome un profeta ha gli stessi sentimenti di Dio, an-che Eliu è pieno di collera (32,2 [2x].3.5). Quando i profeti si rivolgono a qualcuno, gli parla-no in maniera molto personale. I tre amici non lo hanno mai fatto, Eliu è il solo a farlo. Si ri-volge a Giobbe chiamandolo per nome, «Giobbe» (33,1.31; 37,14; cfr. 34,5.7.35; 35,16).

Eliu è convinto, come lo sono i profeti, che Dio parla all’essere umano. Dio lo fa in vari modi: attraverso le visioni (33,15-18), frequenti nella vita dei profeti stessi (Am 7,1-9; 8,1-3; 9,1-4), e anche attraverso la sofferenza (33,19-22). Gli amici cercavano soprattutto di trovare la causa della sofferenza di Giobbe; Eliu parla invece dello scopo della sofferenza di Giobbe. Gli amici partivano dal principio causa-effetto. Dio è all’origine dell’ordine, e dunque è giu-sto. Se Giobbe soffre, deve essere colpevole. Giobbe, invece, afferma la propria innocenza e conclude che Dio è ingiusto. Eliu respinge tanto la soluzione degli amici quanto quella di Giobbe. Dio è giusto, ma la sofferenza può essere una lezione, un avvertimento (33,16-30; 36,8-12) per certi peccati attuali, per condurre l’essere umano alla conversione; e anche per certi peccati possibili, per preservare l’essere umano dall’orgoglio (33,17). La sofferenza con-duce in questo modo alla guarigione dall’orgoglio, a una vita nuova e salva dalla morte (33,18.22.24.28.30). Eliu, come un certo numero di uomini carismatici, si sente chiamato al ministero di guarigione.

L’essere umano, secondo Eliu, si trova a dover scegliere tra l’ascolto della rivelazione di-vina e il suo rifiuto (36,11-12), cosa che i profeti affermano spesso (Ger 17,24-27; 22,4-5). E, come tutti i profeti, Eliu passa anche all’esortazione: «Fai attenzione...» (36,18). Ripete anche, come un ritornello, l’invito che fanno i profeti ad ascoltare (32,10; 33,1.31.33; 34,2.10.16.34; 37,2 [2x].14; cfr. Am 3,1.13; 4,1; 5,1). Questo dovrebbe essere il cammino per essere accolti «nell’amore» di Dio (hesed: la lealtà, la fedeltà all’alleanza, 37,13), di cui parlano spesso i profeti (Os 2,21; 10,12). Eliu, come tutti i profeti, è pieno di un ottimismo quasi infantile. Quando tutti hanno abbandonato ogni speranza, il profeta conserva la fiducia. Dopo le tene-bre, verrà la luce. Anche se Giobbe crede di essere prossimo alla morte (33,22), se la caverà e ne uscirà non solo indenne, ma anche ringiovanito: «tornerà ai giorni della sua adolescenza» (33,25).

Eliu afferma che Dio parla anche in un modo completamente diverso: in particolare attraver-so la natura. La tempesta è la «voce» di Dio (37,2-5). Eliu invita Giobbe a contemplare Dio nel-la sua grandezza e nella sua sapienza (36,24–37,24). Egli invita Giobbe a non rimanere ripiega-to su di sé, ma ad aprire gli occhi e a guardarsi intorno: «Contempla il cielo e osserva; considera le nubi...» (35,5), e a contemplare Dio nelle sue meraviglie: «Ecco, Dio è sublime nella sua po-tenza...» (36,22.26). L’essere umano che soffre deve cercare di dimenticare se stesso per pensare

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ad altra cosa. Ci sono così tante meraviglie da scoprire... La persona potrà anche costatare che ci sono sofferenze peggiori e che non è la sola al mondo a subire dei rovesci.

Eliu ha tenuto quattro lunghi discorsi (sei capitoli, contro i quattro di Elifaz, i tre di Bildad e i due di Zofar). Dopo il suo primo discorso ha invitato Giobbe a rispondergli (33,5.32), e anche dopo il secondo (34,33). Ma Giobbe non ha detto nulla e allora Eliu ha continuato a parlare. Giobbe non ha mai risposto e anche i tre amici hanno taciuto. In realtà, chi può confu-tare gli argomenti di un profeta? Chi può contraddire uno spirito carismatico? Infatti, i profeti parlano in nome di Dio; il loro linguaggio è un linguaggio divino ispirato. La teologia, che rimane un linguaggio umano, permette scambio e discussione; e questo ha reso possibile un certo dialogo fra i tre amici e Giobbe. D’altra parte Giobbe aveva detto chiaramente ai tre a-mici che essi non godevano di una ispirazione divina (26,4). Con Eliu la situazione è molto diversa. Il linguaggio profetico è inconfutabile. Ci sono solo due opzioni: o si accetta il profe-ta o lo si rifiuta. O si ascolta il suo linguaggio o lo si riduce al silenzio. Giobbe ha ascoltato Eliu e mantiene il silenzio. Si attiene all’ultima esortazione di Eliu: «Per questo gli uomini lo [Dio] temono...» (37,24).

Eliu ha avuto un ruolo molto particolare. All’inizio, analizza ciò che gli amici e soprattutto Giobbe hanno detto, e cita varie volte le parole stesse di Giobbe (33,8-11; 34,5-6.9; 35,2-3). Dimostra in questo modo che il linguaggio teologico non conduce a nulla. Verso la fine dei suoi discorsi, Eliu rimanda alla grandezza di Dio nella tempesta e invita Giobbe alla medita-zione attraverso le domande che gli pone. Egli ha condotto Giobbe a cambiare il linguaggio della sua preghiera. Raccomanda a Giobbe di trasformare la sua lamentazione e la sua suppli-ca – nelle quali è troppo ripiegato su se stesso (35,9-14) – in linguaggio di adorazione (36,24), nel quale l’essere umano esce gradualmente da se stesso per aprirsi agli altri e al-l’Altro.

7.2.3.8. Il linguaggio della mistica

Giobbe aveva sperato che un linguaggio divino desse una risposta alle sue numerose do-mande (31,35). Eliu, il profeta, ha voluto rispondere a questa aspettativa di Giobbe, e ha pro-clamato la parola di Dio. Mentre Giobbe ascolta Eliu e passa gradualmente all’adorazione, è preso da un’esperienza meravigliosa. Si rende conto che non sta più sentendo la voce profeti-ca di Eliu, ma che la voce che gli sta parlando ora è Dio stesso: «Allora YHWH rispose a Giob-be di mezzo al turbine così» (38,1). L’atteggiamento di adorazione ha reso Giobbe atto a udire il linguaggio divino, non più con la mediazione di un profeta, né con mediatori celesti sui qua-li Giobbe aveva contato (9,33; 16,19-21; 19,25-27), ma direttamente nel suo cuore.

Quasi tutti i personaggi del libro hanno parlato della creazione, ma nel suo legame con il principio causa-effetto della teoria della retribuzione. La creazione, secondo gli amici, prova la giustizia di Dio, ma secondo Giobbe essa prova l’arbitrarietà di Dio. Eliu ha posto certi in-terrogativi sulla grandezza della creazione e ha così invitato Giobbe ad un atteggiamento di adorazione. Anche YHWH parla della creazione, ma come di un mistero. Dio non dà risposte, pone interrogativi, uno dopo l’altro, su molti soggetti, ad eccezione del problema di Giobbe stesso. Giobbe si rende conto sempre più di quanto sia piccolo nell’insieme immenso della creazione, continua a uscire da se stesso, a dimenticarsi, e ad adorare. E percepisce nuova-mente la grandezza, l’ordine e la sapienza della divina creazione. Tutto, nella vita di Giobbe, può riprendere le giuste proporzioni. Giobbe aveva sperato di parlare a Dio da uomo a uomo (9,32; 16,21), ora è in presenza di Dio come Dio. La prima risposta di Giobbe è quindi il si-lenzio (40,4-5).

Ma per Giobbe, il grande interrogativo sul caos nella sua vita rimane. Su questo punto, Dio gli dà ragione, e affronta dunque nel suo secondo discorso il tema del caos nel mondo. Ma l’interrogativo essenziale rimane: Che fare del caos? Il mondo non è perfetto, ed è molto complesso. L’agricoltore vuole la pioggia, ma il turista vuole il sole. Come può Dio conciliare tutti questi interessi? Dio è nell’imbarazzo, e soffre quanto Giobbe. Forse Giobbe può risol-

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vere il problema; in questo caso Dio gli renderà certamente omaggio (40,9-14). Dio ha scelto di mantenere il caos sotto controllo, ma senza eliminarlo completamente. Questo gli sembra la soluzione migliore, lo ha imparato per esperienza. Dio aveva sognato un giorno di ottenere una vittoria completa sul caos (Gen 1,2), ma aveva scoperto rapidamente che il caos conti-nuava ad esistere (Gen 6,5). Ne soffrì, «si afflisse in cuor suo», e «cambiò idea»; si pentì e de-cise di distruggere il mondo con un diluvio (Gen 6,6-7). Allora veramente tutto il caos sarebbe sparito. Ma la distruzione totale conduce a un male ancora più grande e a un caos peggiore. Dio decide allora di non ricominciare mai più un diluvio e di accettare piuttosto il caos, l’imperfezione e i limiti nel mondo (Gen 8,21). Il caos fa parte di un mondo che è limitato. Sarebbe un mondo migliore se Dio distruggesse tutto a causa di questo caos? In presenza di un Dio del genere, è ora la volta di Giobbe di «cambiare idea» su cosa sia l’essere umano e cosa sia Dio (42,6).

Il narratore ha avuto ragione quando ha detto, qualche capitolo prima: «Fine delle parole di Giobbe» (31,40c). Giobbe, infatti, è ritornato al silenzio, ma un silenzio diverso da quello dell’inizio del libro, al momento dell’arrivo dei tre amici (2,13). Allora né Giobbe né gli amici sapevano cosa dire. Si potrebbe parlare di un silenzio fondato sull’incomprensione di fronte alla grande sofferenza. Il silenzio della fine è altra cosa. In precedenza, Giobbe parlava di Dio, ora, ascolta e vede Dio: «Ti ho udito con i miei orecchi, e ora i miei occhi ti hanno visto» [ma anche: «Io ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto»] (42,5). Nel libro ritorna spesso il verbo «parlare», e parallelamente «udire». Il grande cambiamento è che Giobbe ha udito YHWH. Ma la grande novità è che il fatto di «istruire» e di «sapere», di cui tutti avevano parlato, è sostituito dal fatto di «vedere». Giobbe ha raggiunto il linguaggio del-la mistica nel quale parlare diventa tacere e sapere diventa vedere.

Giobbe ha fatto l’esperienza che il contatto tra cielo e terra è possibile. Ogni forma umana di linguaggio religioso può scomparire. Il linguaggio della fede non ha più nulla da offrire, es-sa ha compiuto la sua funzione specifica e non può aggiungere nulla all’essere umano che a-scolta e vede Dio. L’azione del libro, che è stata la parola, è sospesa. Il racconto sta per finire.

7.2.4. Il verdetto: «ha parlato di me rettamente»

Il racconto è iniziato dopo che il satana ha lanciato, per ben due volte, una sfida a YHWH: «Vedrai se non ti maledirà in faccia» (1,11; 2,5). Il grande interrogativo del libro è: Come par-lare di Dio nella sofferenza? I diversi attori hanno parlato diversi linguaggi religiosi. Anche Giobbe ha spesso cambiato di linguaggio; ha anche parlato duramente, e tuttavia non ha mai maledetto Dio, nemmeno nel momento in cui ha avuto la possibilità di «vedere» Dio (42,5). Giobbe ha superato la prova. Dio può concludere, egli pure per due volte, che Giobbe «ha par-lato rettamente di lui» (42,7.8).

La sfida ha luogo in cielo, ma tutto il discorso si svolge sulla terra. Il satana ha perduto la sfida, e non deve più riapparire nel racconto. YHWH dà il suo verdetto ai tre amici che, forzan-do la realtà, hanno irritato Giobbe. Essi ricoprivano, in un certo modo, il ruolo del satana, qui sulla terra. Le loro parole avrebbero potuto condurre Giobbe a maledire Dio. Essi non hanno parlato correttamente di Dio all’essere umano che soffre. Il loro linguaggio era una particolare specie di linguaggio teologico teorico, sordo alla realtà. E così il loro linguaggio non era cor-retto. Questo genere di linguaggio teologico non è adatto per parlare all’essere umano che sof-fre. In un caso del genere, deve cedere il posto ad altri linguaggi più adeguati.

Giobbe ha percorso un lungo cammino e ha parlato diversi linguaggi religiosi. Anche se talvolta ha utilizzato un linguaggio duro, tuttavia ha sempre parlato di Dio «rettamente», con giustizia, perché è sempre rimasto corretto, giusto e onesto con se stesso (7,11; 13,14-16). Molti dei protagonisti avevano tutte le risposte. Ma non Giobbe, che, in questo modo, aveva una possibilità di evoluzione. Partendo dalla fede popolare, Giobbe ha raggiunto la mistica.

Si dice talvolta che il libro di Giobbe non offre alcuna soluzione perché si ritiene che il li-bro tratti del problema della sofferenza. Il problema del libro si situa altrove, perché pone la

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domanda: Come parlare di Dio nel momento della sofferenza? E su questo, il libro dà vera-mente una soluzione. La sofferenza in sé rimane un problema; non c’è una spiegazione per es-sa, e certamente non la teoria della retribuzione basata sul principio di causa-effetto.

7.2.5. La condizione finale: la restaurazione doppia di Giobbe

Ogni racconto comincia con una condizione iniziale e si conclude, dopo la trasformazione, con una condizione finale. Tra queste due condizioni esiste sempre una correlazione. E questo si verifica in modo eccezionale nel libro di Giobbe. La condizione iniziale (1,1-5) descrive Giobbe stesso (v. 1), i figli (v. 2), gli animali (v. 3), le feste (v. 4), e il ruolo di Giobbe come mediatore (v. 5). La condizione finale (42,10-17) descrive la stessa cosa ma in ordine inverso: il ruolo di Giobbe come mediatore (v. 10), le feste (v. 11), gli animali (v. 12), i figli (vv. 13-15), e Giobbe stesso (vv. 16-17). Tutto inizia e finisce con Giobbe. Il suo ruolo di mediatore è in rapporto con il discorso che è l’argomento di tutto il libro. Giobbe intercedeva per i figli, perché si preoccupava di quello che eventualmente avessero detto: «Forse i miei figli hanno peccato oltraggiando [maledicendo] Dio nel loro cuore» (1,5); e intercede anche per i tre ami-ci «perché non hanno parlato rettamente di Dio » (42,8.10). Nella condizione iniziale, si par-lava di «maledire», «oltraggiare» (1,5), nella condizione finale, di «benedire» (v. 12).

Giobbe, che non ha cessato di parlare nel corso del libro, prende la parola ancora due volte, alla fine. Fa una preghiera di intercessione per gli amici (v. 10) e dà i nomi alle figlie (v. 14). Le parole della sua preghiera non sono riportate. Sappiamo che ha parlato, ma a questo punto i discorsi non sono più necessari.

Si è detto che la conclusione del libro rovina il libro, perché ritorna alla dottrina della retri-buzione secondo il principio causa-effetto, la stessa teoria che il libro avrebbe cercato di met-tere in discussione. Ma il testo non dice che la condizione di Giobbe è restaurata perché ha parlato correttamente di Dio, o perché ha interceduto per gli amici. Il testo dice semplicemen-te ciò che è capitato a quel punto: «YHWH cambiò la sorte di Giobbe, quando intercedette per gli amici» (v. 10). Il lettore sa che Giobbe ha perduto tutto a causa della sfida celeste, e sa pu-re che Giobbe ha superato la prova, e che, conseguentemente, Dio non ha più alcuna ragione di prolungare le sue prove. Dio ha agito «per nulla», «invano» (2,3), e allora è del tutto logico che cambi la sorte di Giobbe. Lo fa addirittura raddoppiando, forse come in una specie di compensazione (Is 61,7; Zc 9,12). Ma Giobbe, come non ha mai saputo che le sue sventure erano legate a una sfida, così non conosce nemmeno la ragione di questa restaurazione rad-doppiata. Se la considerasse come una ricompensa, dovrebbe concludere pure che le sue sven-ture erano un castigo per il peccato. Ma Giobbe non è cosciente di peccati e Dio non lo ha mai accusato di peccato. Sia la sventura che la restaurazione finale sono per Giobbe delle sorprese. Tutto fa parte dell’ordine misterioso della giustizia di Dio (40,8).

7.3. CONCLUSIONE

7.3.1. I generi di linguaggio religioso di Giobbe

L’approccio sincronico del libro di Giobbe, ricorrendo ad alcuni principi dell’analisi se-miotica, ha mostrato che il libro di Giobbe costituisce un’unità perfetta. Ogni parte ha il suo ruolo proprio. Potrebbe essere utile ripercorrerne il filo conduttore.

Il libro di Giobbe affronta l’interrogativo: Come parlare di Dio nel momento della soffe-renza?

7.3.2. Le tappe della crescita interiore di Giobbe

La parola rivela sempre qualcosa di quello che succede all’interno della persona che parla. Si può dunque pensare che la psicologia possa offrire un contributo alla lettura del libro di Giobbe.

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Giobbe 81

La sequenza dei diversi tipi di linguaggio religioso di Giobbe corrisponde notevolmente a un modello utilizzato in psicologia negli studi di Elisabeth Kübler-Ross. Le ricerche da lei fat-te su malati in fase terminale l’hanno portata a concludere che una persona morente ha molte possibilità di passare per cinque tappe: rifiuto – collera – discussione – depressione – accetta-zione. Dennis e Matthew Linn hanno applicato questo modello a persone che sono emoti-vamente provate e ferite. Se si ascoltano i diversi tipi di linguaggio che Giobbe usa nel corso del racconto, si costata che questi cinque movimenti sembrano descrivere l’esperienza interio-re di Giobbe. Giobbe forse non è morente, non si trova in una malattia terminale, ma è di certo emotivamente turbato e ferito.

7.3.2.1. Il rifiuto di Giobbe

Quando viene diagnosticata una malattia terminale, la persona passa attraverso una tra-sformazione significativa. I suoi sogni sono spezzati. Essa prova uno choc. La prima reazione è il rifiuto e la negazione. La persona morente rifiuta di accettare di morire, e può ritenere che la sua malattia non sia grave. Nel caso di una ferita emotiva, essa può arrivare fino a rifiutare di accettare di essere stata ferita.

Dopo che i messaggeri riferiscono a Giobbe la perdita dei beni e dei figli (1,13-19), Giobbe dice: «Il Signore ha dato e il Signore ha tolto» (1,21). Giobbe viene poi colpito nella sua carne dalle ulcere, e nella risposta alla moglie dice: «Se da Dio accettiamo il bene, perché non do-vremmo accettare anche il male?» (2,10). Abbiamo chiamato questa risposta: linguaggio della fede popolare. Queste parole di Giobbe sembrano riflettere un’accettazione, ma, come il resto del libro dimostra, Giobbe non ha ancora accettato la sofferenza nella sua vita. Si trova a mi-surarsi con qualcosa che non ha mai sperimentato in precedenza e che lo supera. Si trova per-duto e cerca di mascherare la sua difficoltà citando un pio proverbio, imparato a memoria. Una fede popolare di questo genere accetta che Dio possa fare qualsiasi cosa, perché è Dio. Questa fede è chiamata «fede cieca», il che significa che la persona, in un certo modo, chiude gli occhi sulla realtà della sofferenza. E questo corrisponde bene alla categoria del rifiuto o della negazione. Giobbe sembra accettare, ma, nel più profondo del suo essere, rifiuta di ac-cettare la pena.

7.3.2.2. La collera di Giobbe

Dopo la negazione iniziale, il paziente passerà attraverso la solitudine, il conflitto interiore, il sentimento di colpa e il non senso. Questi sentimenti condurranno gradualmente alla collera. Il malato se la prenderà con gli altri per la sua imminente morte. La persona ferita emotiva-mente se la prenderà con gli altri a causa della pena che la sta distruggendo.

Dopo la prima reazione, Giobbe riceve la visita degli amici. Ma questi, al loro arrivo, non sanno cosa dire: «Si sedettero a terra presso di lui per sette giorni e sette notti. Nessuno gli ri-volse la parola, perché avevano visto quanto grande era il suo dolore» (2,13). Giobbe speri-menta la solitudine. Nessuno sa come consolarlo. Anche con gli amici presso di lui, è solo. Giobbe è passato al linguaggio del silenzio.

Questa solitudine dà a Giobbe il tempo di riflettere. Gli sembra che la vita sia divenuta vuota e priva di senso. Le emozioni prendono progressivamente il sopravvento. Giobbe alla fine non può più tollerare questo silenzio e questa solitudine, ed è lui a rompere il silenzio: «Dopo di ciò, Giobbe aprì la bocca e maledisse il suo giorno» (3,1). Giobbe ora si pone degli interrogativi, soprattutto il grande interrogativo del perché della sua vita. Passa al linguaggio del dubbio e si chiede perché sia venuto al mondo. Tutti i perché (vv. 11.12 [2x].20.23) ri-guardano lo stesso evento. Il dubbio lo turba. La collera di Giobbe si infiamma. Comincia an-che a prendersela con gli altri. La collera si rivolge contro il padre e la madre: «Perché due gi-nocchia mi accolsero, e perché due mammelle per allattarmi?» (3,12).

Quando i tre amici decidono di rispondere agli interrogativi posti da Giobbe, tutti e tre e anche Giobbe passano al linguaggio teologico. Gli amici accusano Giobbe di peccati e d’or-

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goglio. E questo aumenta ulteriormente la collera di Giobbe. Se la prende con gli amici accu-sandoli di non cercare nemmeno di capirlo (6,14-15). La sua ira si rivolge anche contro Dio. Giobbe lo accusa d’ingiustizia: «Eppure Dio trova pretesti contro di me, e mi considera come suo nemico» (33,10). «Sono innocente, ma Dio mi nega giustizia» (34,5b). Giobbe continua i suoi lamenti contro Dio come una scappatoia per la collera che lo divora.

7.3.2.3. La discussione di Giobbe

La persona morente, dopo essersi stancata di prendersela con gli altri, con i medici e con Dio, comincia a rendersi conto di aver bisogno di loro per sopravvivere, o, almeno, per ritar-dare la morte. E così comincia a contrattare, a discutere. La persona ferita emotivamente, u-gualmente, mette certe condizioni prima di perdonare.

Giobbe ha espresso la sua collera verso i genitori, che gli hanno dato la vita in questo mon-do di miseria, verso gli amici, che non sono stati di nessun aiuto, e verso Dio, che è la causa ultima di tutte le sue sventure. Ma nel bel mezzo di tutte queste accuse contro amici e contro Dio, Giobbe ricorre anche a un altro linguaggio, il linguaggio della preghiera. La preghiera di Giobbe è il suo discutere, il suo mercanteggiare con Dio. Giobbe si rende conto di aver bi-sogno di Dio, perché Dio, in fin dei conti, potrebbe fare qualcosa per lui. Giobbe chiede, sup-plica, e promette: «Ricorda che la vita non è che un soffio, e i miei occhi non rivedranno più il bene» (7,7). Fa anche del ricatto: «Perché ben presto giacerò nella polvere; mi cercherai e io più non sarò» (7,21). Dio non può certo rifiutare, perché è in gioco il suo stesso onore. Biso-gna per forza fare qualcosa. Dio deve intervenire. Giobbe è certo che vedrà Dio (19,26).

Giobbe ricorda a Dio tutte le buone azioni compiute durante la sua vita: «Non portavo la mano contro il povero» (30,24); «Non ho forse pianto con l’oppresso?» (30,25); «Strinsi un patto con i miei occhi, di non fissare lo sguardo sulle ragazze» (31,1). Dio deve dunque fare qualcosa. Ma non sembra che Dio reagisca: «Io grido a te e tu non rispondi» (30,20).

7.3.2.4. La depressione di Giobbe

Quando la persona morente sente che le forze stanno diminuendo e si rende conto che tutto il suo discutere è inutile, comincia a prendere coscienza delle conseguenze reali. Vede allora tutto ciò che avrebbe potuto fare per evitare questa malattia mortale. Può essere portata a rim-proverarsi certe cose, ma sa anche che ormai è troppo tardi. Il malato si deprime, può diventa-re molto silenzioso e ritirato. E la persona ferita emotivamente seguirà la stessa trafila: in un primo tempo può farsi dei rimproveri e successivamente cadere in una profonda depressione.

Giobbe ha fatto tutta la sua discussione con Dio, ma Dio sembra non ascoltare. Giobbe è sul punto di abbandonare: «Oh, avessi uno che mi ascoltasse! Ecco la mia ultima parola! L’Onnipotente mi risponda!» (31,35). Giobbe entra in un nuovo silenzio. Cessa di parlare: «Fine delle parole di Giobbe!» (31,40b). Anche gli amici abbandonano la conversazione, non hanno più nulla da offrirgli come risposta: «Allora quei tre personaggi cessarono di replicare a Giobbe» (32,1). Giobbe si trova nell’isolamento. E sembra che più nessuno s’interessi a lui.

Giobbe ha supplicato Dio di parlargli. Eliu, il profeta, vuole offrirgli la risposta divina. Il racconto passa al linguaggio profetico-carismatico. Eliu, nel suo discorso, invita ripetutamen-te Giobbe a rispondergli, e a uscire dal suo isolamento: «Se puoi, rispondimi...» (33,5); «Se hai qualcosa da dire, rispondimi...» (33,32). Ma Giobbe non trova più parole per replicare. Cosa dire a qualcuno che si dice profeta? Eliu prosegue dunque: «Se non ne hai, ascoltami; ta-ci...» (33,33). Giobbe si sente profondamente depresso.

7.3.2.5. L’accettazione di Giobbe

La depressione finale fa parte della preparazione alla morte per il paziente in fase termina-le. Essa può diventare un movimento verso l’accrescimento della coscienza di sé e dei contatti con gli altri per arrivare all’accettazione finale. Non un’accettazione fatale o finta, ma un’accettazione con un senso accresciuto di fiducia in sé, un aumento dell’autonomia. La per-

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Giobbe 83

sona può anche aspirare alla morte. La persona ferita emotivamente, d’altra parte, può uscire dalla depressione, cosciente che anche la ferita che ha subito può farla crescere.

Le ultime parole di Eliu erano un invito per Giobbe a volgersi con ammirazione verso Dio: «Per questo gli uomini lo (Dio) temono» (37,24). Giobbe è invitato a passare al linguaggio dell’adorazione. La depressione non è l’atteggiamento finale di Giobbe. Il silenzio di Giobbe e degli altri interlocutori umani permette finalmente a Dio di parlare a Giobbe nel suo cuore. Dio invita Giobbe a cedere, ad abbandonare l’opposizione: «Colui che disputa con l’Onnipotente, lo istruirà? Colui che critica Dio, risponderà?» (40,2). Giobbe non risponde più nulla, mantiene il silenzio (40,4-5). Ma questo silenzio non è più il silenzio della depressione. Giobbe addirittura si ricrede dei ragionamenti fatti (42,2-3). Gradualmente Giobbe esce dalla depressione. Diventa sempre più cosciente di sé. Il contatto che ora ha con Dio è dei più pro-fondi: «Ti conoscevo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno visto» (42,5). Il racconto ha toccato il linguaggio mistico. Giobbe è arrivato all’accettazione: «Perciò cedo e cambio idea sulla polvere e sulla cenere» (42,6).

Dopo che il morente ha raggiunto la tappa dell’accettazione può aspirare a una vita nell’aldilà, che, secondo le promesse della religione, è una vita migliore. La persona ferita emotivamente, che è passata attraverso le cinque tappe della crescita, continuerà a vivere co-me una persona arricchita. Giobbe è passato attraverso le cinque tappe ed è arrivato all’accettazione. Anche se è ancora in piena sofferenza, senza beni, senza figli, e ancora mala-to, è diventato un’altra persona. Lui che se l’era presa con Dio per tante ragioni, è ridiventato amico di Dio, che di lui dice ancora una volta: «il mio servo Giobbe» (42,7-8). Questo Giobbe nuovo ha un atteggiamento molto diverso nei confronti degli altri. Anche se Giobbe non ha fatto che opporsi ai tre «amici», ora intercede per loro (42,8-9). Giobbe è cambiato e anche la sua vita è cambiata. È diventato una persona più ricca, ed è quanto la conclusione del libro racconta in modo molto semplice. Dio reintegra Giobbe nella sua fortuna e addirittura la rad-doppia. E Giobbe ridiventa anche padre di una bella famiglia e vive ancora a lungo, e, a quan-to pare, in buona salute.

Ciò che Giobbe dice nel libro corrisponde proprio a quanto succede dentro di lui.

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA

ALONSO SCHÖKEL, L. - SICRE, J.L., Giobbe, Roma 1985. Ottima opera in generale, della quale è da segnalare l’ampia ed esauriente introduzione e la preci-

sione e la bellezza della traduzione. La bibliografia è buona e sufficientemente ampia. Lo studio delle difficoltà testuali, anche se incompleto, affronta molto bene i problemi più urgenti. Il commento pre-senta ottimi e notevoli suggerimenti, difficilmente rinvenibili in altre opere del genere.

CLINES, D.J.A., Job 1–20 (WBC 17), Dallas 1989. Il lettore può rendersi conto delle ambizioni di questo commento pensando che l’esposizione dei

primi 20 capitoli di Giobbe occupa 501 pagine. Dopo averlo sfogliato, si deve riconoscere che la sua qualità è direttamente proporzionale alla voluminosità. L’ampiezza della bibliografia e l’analisi quasi completa dei problemi testuali fanno di quest’opera uno dei tre migliori commenti attuali al libro di Giobbe.

DHORME, P., Le lívre de Job, Paris 1926. Dopo un’ottima introduzione di 178 pagine l’autore dispiega nel commento le sue eccellenti doti di

esegeta e le sue vaste conoscenze di storia dell’esegesi. Un’ampia analisi critico-testuale e un com-mento preciso e documentato fanno di quest’opera, nonostante gli anni trascorsi dalla sua pubblicazio-ne, un riferimento obbligato.

DRIVER, S.R. - GRAY, G.B., The Book of Job (ICC), Edinburgh rist. 1971. Come la collana cui appartiene, l’opera si segnala per il rigore e l’esaustività con cui affronta le

questioni filologiche. L’introduzione è sufficiente, anche se la data di composizione richiede la nostra

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84 Giobbe

benevolenza di fronte ad alcune prese di posizione attualmente insostenibili. Indispensabile nella bi-blioteca degli studiosi della Bibbia.

FOHRER, G., Das Buch Hiob (KAT 16), Gütersloh 1963. Questo libro è uno dei maggiori contributi alla storia dell’esegesi del libro di Giobbe. Opera mo-

numentale (565 pagine), affronta la problematica di Giobbe da tutti i possibili punti di vista: retorico, letterario, testuale, teologico, storico-religioso. Le sue pertinenti osservazioni, la profondità di pensiero e l’indiscutibile professionalità dell’autore ci pongono di fronte un’opera già classica e molto difficil-mente superabile.

GORDIS, R., The Book of God and Man, Chicago-London 1978. Non si tratta di un commento nel senso abituale del termine. La traduzione e il commento occupano

solo le pp. 231-306. Tuttavia ciò che l’autore non dice in queste pagine è già stato esposto nell’ampia introduzione (pp. 1-228) e nelle ricche note al termine del libro (pp. 313-336). L’analisi del testo e la conoscenza della letteratura giudaica in proposito costituiscono i migliori contributi del volume.

HABEL, N.C., The Book of Job (OTL), London 1985. È uno dei migliori commenti attuali al libro di Giobbe, appartenente alla prestigiosa «Old Testa-

ment Library». Se si eccettua l’interpretazione del genere letterario, il libro apparterrebbe alla «disputa giudiziaria», tutto ciò che si può attendere da un commento di questo tipo è affrontato con rigore e pro-fessionalità.

LÉVÊQUE, J., Job et son Dieu (EtB), 2 voll., Paris 1970. L’elemento maggiormente degno di nota di quest’opera è l’ampia e ottima introduzione: la prima

parte dedicata al tema del giusto sofferente nelle letterature del Vicino Oriente Antico (Mesopotamia, Ugarit, Egitto, Arabia), dell’India e della Grecia e le prime due sezioni della seconda parte: problemi di struttura letteraria e gli attori del dramma.

POPE, M.H., Job (AB 15), Garden City 31982. Il prestigio della collana e la qualità del commentatore sono universalmente noti. Tuttavia non ci si

può dire soddisfatti del libro, perché all’analisi relativamente inadeguata del testo si aggiunge la ten-denza «panugaritica» dell’autore, la quale toglie interesse a quello che sarebbe potuto essere un ottimo commento.

RAVASI, G., Giobbe. Traduzione e commento, Roma 1979. Bisogna rilevare in questo commento l’ottima ed estesa introduzione (174 pagine) nella quale

l’autore affronta la presentazione del libro di Giobbe secondo le coordinate letterarie e teologiche, prima di passare allo studio della tradizione di Giobbe secondo la prospettiva della sapienza ortodossa ed eterodossa. L’opera offre anche tre interessanti sezioni su «Giobbe, nostro contemporaneo» (con riferimenti alle opere, tra gli altri, di Kierkegaard, Melville, Dostoevsky, Jung, Camus, Bloch, Barth, Jaspers, von Balthasar, Henry Lévy), «Giobbe e il teatro» e «Giobbe nell’arte».

VOGELS, W., Giobbe. L’uomo che ha parlato bene di Dio, San Paolo, Cinisello Balsamo 2001. Essenziale ed originale commento che, adottando i principi del metodo semiotico, mette in risalto il

valore letterario e linguistico del libro di Giobbe. Secondo l’esegeta canadese l’asse tematico dell’in-tera opera è: come parlare di Dio nel momento della sofferenza? A questo interrogativo il libro di Giobbe tenta di rispondere con i diversi linguaggi usati dai vari attori del dramma: il linguaggio della fede popolare, il linguaggio del silenzio, il linguaggio del dubbio, il linguaggio della teologia, il lin-guaggio della preghiera, il linguaggio profetico-carismatico e il linguaggio della mistica. È a questo punto che scatta il verdetto divino: «Giobbe ha parlato di me rettamente!».

Inoltre, in italiano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:

FEDRIZZI, P., Giobbe (SBT), Torino-Roma 1972. WEISER, A., Giobbe, Brescia 1975. GUALANDI, D., Giobbe. Nuova versione critica, Roma 1976. LAURENTINI, G., Giobbe, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Introduzione alla

Bibbia 3), Bologna 1978, 343-376. VIRGULIN, S., Giobbe (NVB 17), Roma 1980. RAVASI, G., Giobbe, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 633-643.

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Giobbe 85

BORGONOVO, G., La notte e il suo sole. Luce e tenebre nel Libro di Giobbe. Analisi simbolica (Analec-ta Biblica 135), Roma 1995.

MACKENZIE. R.A.F. - MURPHY, R.E., Giobbe, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 608-637.

MORLA ASENSIO, V., Il libro di Giobbe, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo stu-dio della Bibbia 5), Brescia 1997, 117-146.

SCAIOLA, D., Giobbe, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 57-70.

RADERMAKERS, J., Il libro di Giobbe. Dio, l’uomo e la sapienza, Bologna 1999. MARCONI, G. - TERMINI, C. (ed.), I volti di Giobbe. Percorsi interdisciplinari, Bologna 2002. JANZEN, J.G., Giobbe, Torino 2003.

Infine, i numeri unici di:

Concilium, n. 19/1983: «Giobbe e il silenzio di Dio». Parole di Vita, n. 2/2003: «Il libro di Giobbe».

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QOHELET*

1. UN ENIGMA PER I COMMENTATORI La discussione sullo statuto canonico di Qohelet già nel giudaismo è stata accesa, e se la

tesi della canonicità alla fine è prevalsa, l’utilizzazione di Qohelet è lungi dall’aver raggiunto l’unanimità. Viene considerato un libro di difficile interpretazione, sconcertante, o addirittura imbarazzante o sconveniente, troppo terra terra o troppo pessimista.

I dubbi sulla sua canonicità si trovano forse già riflessi nell’appendice del redattore finale (12,9-14), che ha tutto il sapore di un tentativo di giustificazione delle parole di Qohelet. Non si trova, di questo libro, nessuna citazione esplicita nel Nuovo Testamento (fatta eccezione, forse, di 7,20 in Rm 3,10-12 e 11,5 in Gv 3,8), e le discussioni rabbiniche dimostrano che c’erano divisioni circa il suo statuto. In campo cattolico, Qohelet incontra ancora delle diffi-coltà a trovarsi una collocazione nella liturgia e nel cuore dei cristiani. Nel ciclo triennale del-le letture domenicali vi si trovano solo quattro versetti (1,2 e 2,21-23) nella diciottesima do-menica ordinaria dell’Anno C. È ben poca cosa per rendere giustizia alla complessità delle pa-role di Qohelet e troppo poco per permettere ai credenti di ritrovarsi nei suoi interrogativi e nella sua ricerca di Dio e del senso della vita.

2. INTERESSE E ATTUALITÀ DI QOHELET Eppure Qohelet ha qualcosa di moderno nelle sue parole e nel suo linguaggio, nella linea

del pensiero esistenzialista moderno e soprattutto di un’esperienza comune. In esso si trova una moltitudine di esperienze umane, descritte con molta acutezza e onestà: fragilità della for-tuna, ritorno ciclico delle cose, ineluttabilità della morte, mistero del tempo; rischi del lavoro e del susseguirsi delle generazioni, prova dell’invecchiamento e della morte.

La sua grande onestà e il suo gusto per l’assoluto lo portano a denunciare l’illusione delle belle teorie e delle tranquille certezze: «Anche questo è vanità... Anche questo è un inseguire il vento», dirà egli di tante avventure ed esperienze umane. Araldo della sapienza critica, con Giobbe, Qohelet fa un’opera critica in teologia e obbliga a un confronto della teoria con i dati dell’esperienza.

Infine, il modo di procedere di Qohelet raggiunge gli interrogativi dell’uomo sul suo desti-no. Qohelet vive la sua fede ponendo continuamente degli interrogativi: nei primi dieci capi-toli vi si trovano non meno di ventisei domande: «Quale utilità?... Cosa resta? Perché? Che differenza?, ecc.» (1,3; 2,12.19.22.25; 3,9.21.22; 4,11; 5,5.10.15; 6,6.8.11.12.; 7,10.13.16. 17.24; 8,1.4.7; 9,4; 10,14).

3. DATA DI COMPOSIZIONE Qohelet è chiaramente uno scritto tardivo, la cui redazione finale è da situare verso il 250

a.C. Innanzitutto per la lingua, dove si nota un gran numero di parole affini all’ebraico biblico tardivo mentre altre sono di derivazione aramaica, come pure certi neologismi ebraici, scono-sciuti nella Bibbia ma utilizzati nell’ebraico rabbinico. D’altra parte sembra che il Siracide (si confronti 3,12; 7,14; 9,10; 11,9 e Sir 14,11-19; 2,15-16 e Sir ebraico 41,11-13) e il libro della Sapienza (cfr. anche Sap 2 e 5, che riflettono le posizioni di Qohelet e sostengono la tesi con-

* J.-P. PRÉVOST, Qohelet, in J. AUNEAU (ed.), I salmi e gli altri scritti (Piccola Enciclopedia Biblica 5), Roma

1991, 167-174. Il termine qohelet può essere considerato un aggettivo sostantivato da qa\ha \l, assemblea) e può essere tradotto con «l’uomo dell’assemblea»; la LXX l’ha reso con e)kklhsiasth/j (ecclēsiastē:s), da cui Ecclesia-ste, altra designazione del libro.

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Qohelet 87

traria) conoscano il libro e talvolta facciano riferimento ad esso. Sono stati trovati dei fram-menti a Qumran risalenti al 150 a.C.

4. STRUTTURA LETTERARIA Qohelet è stato a lungo rimproverato di presentare dei discorsi sconnessi, senza un legame

logico e senza una vera e propria coerenza. L’autore, è vero, usa magistralmente il paradosso e il detto popolare, e non sembra preoccuparsi degli arrangiamenti logici e lineari. Ma rimane il fatto che i suoi discorsi sono stati raccolti in un libro, che sono stati abilmente incorniciati da un prologo e da un epilogo (1,2 e 12,8) che formano un’inclusione, e che la nota editoriale fi-nale (12,9-14) presenta Qohelet come un saggio che sa revisionare e dare forma ai discorsi dei saggi. Per cui l’impresa, giudicata rischiosa non molto tempo fa, di trovare una struttura d’insieme comincia a portare frutti interessanti, se non definitivi. Le ricerche di A. G. Wright1 hanno dato un nuovo impulso e hanno rianimato il fervore dei ricercatori. A. Schoors2 non ar-riva a una struttura d’insieme soddisfacente ma il suo studio delle distinte unità si rivela pre-zioso. Se la proposta di F. Rousseau3 non è stata molto seguita dal punto di vista della struttu-ra, ha nondimeno ricevuto una conferma indiretta da R. N. Whybray4 nel suo studio sul posto della gioia nell’opera di Qohelet.

La posizione di A. G. Wright sui procedimenti numerici utilizzati dall’autore merita qual-che considerazione. Wright costata innanzitutto con la Masorah che il libro di Qohelet consta di 222 versetti. Il centro si trova quindi in 6,9 essendo le due parti formate ciascuna di 111 versetti. Ora, osserva Wright, in 1,2 si ritrova tre volte la parola hābel, al singolare. Dato che il suo valore numerico è 37, si arriva a un totale di 111, che corrisponde al numero di versetti di ciascuna delle due metà! Bisogna dire anche che la stessa parola appare in principio 38 vol-te, ma risulta dubbia in 5,6 e 9,9. Wright ritiene che 9,9 non sia autentico con il risultato che si ha 37 volte la parola hābel, ossia la cifra corrispondente al suo valore numerico.

D’altra parte, sempre secondo Wright, se si toglie l’epilogo – che non apparteneva all’ope-ra originale – si ha un totale di 216 versetti. Ora l’inclusione di 1,2 e 12,8 (habel habālîm ... ha-kol hābel, vanità delle vanità ... il tutto vanità) ha un valore numerico di 216, così come il titolo dibrê ripreso tre volte in 12,10-11 per designare l’insieme del libro.

A questa posizione si può obiettare che non si vede in che modo il versetto 6,9 giochi un ruolo centrale nella struttura e nell’opera di Qohelet, e che l’epilogo non può essere accettato o rifiutato secondo le necessità dell’argomentazione perché il totale coincida con il valore numerico ricercato. Lo stesso dicasi del numero di ricorrenze della parola hābel, per la quale Wright regola troppo rapidamente l’autenticità di 9,9 in funzione della sua tesi5.

5. MESSAGGIO

5.1. SIGNIFICATO DEL SUO DISEGNO TEOLOGICO

Il disegno teologico di Qohelet ha qualcosa di esplorativo. Esso viene collocato sotto il se-gno dell’esperienza e della sperimentazione6. Si trovano in lui molteplici allusioni al suo me-

1 A. G. WRIGHT, The Riddle of the Sphinx: The Structure of the Book of Qoheleth, in CBQ 30 (1968) 313-334; The Riddle of the Sphinx Revisited: Numerical Patterns in the Book of Qoheleth, in CBQ 42 (1980) 38-51; Additional Numerical Patterns in Qoheleth, in CBQ 45 (1983) 32-43.

2 A. SCHOORS, La structure littéraire de Qohéleth, in OLoP 13 (1982) 91-116. 3 F. ROUSSEAU, Structure de Qohelet 1,4-11 et plan du livre», in VT 31 (1981) 200-217. 4 R. N. WHYBRAY, Qoheleth, Preacher of Joy, in JSOT 23 (1982) 87-98. 5 Sulla struttura di Qohelet vedi anche il lavoro di V. D’ALARIO, Il libro di Qohelet. Struttura letteraria e re-

torica (Suppl. alla RivBib 27), Bologna 1992. 6 A. BONORA, Esperienza e timor di Dio in Qohelet, in Teologia 6-2 (1981) 171-182.

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todo, basato sull’osservazione e sull’esperienza: vedere (37 ricorrenze: «Ho visto tutte le cose che si fanno sotto il sole...», 1,14), conoscere («Ho deciso allora di conoscere la sapienza e la scienza, come anche la stoltezza e la follia, e ho compreso che anche questo è un inseguire il vento», 1,7), ricercare e investigare («Mi sono proposto di ricercare e investigare con saggez-za tutto ciò che si fa sotto il cielo», 1,13), riflettere, provare («Vieni, dunque, ti voglio mettere alla prova...», 2,1), trovare («Quello che io cerco ancora e non ho trovato...», 7,28), conside-rare («Ho considerato poi la sapienza, la follia e la stoltezza», 2,12), cercare di conoscere... Qohelet è un ricercatore avido di comprendere e di trovare un significato alle realtà umane.

La sua ricerca vuole anche essere radicale e riguarda l’insieme del reale. Si può notare in lui la frequenza delle parola «tutto» (91 ricorrenze), come pure delle espressioni di globalità: «sotto il sole» (1,3.9.14...); «sotto il cielo» (1,13; 2,3; 3,1); «un tempo per tutte le cose» (3,2-8). Niente viene escluso a priori; egli si interessa a tutto ciò che forma la vita.

Infine la ricerca di Qohelet lo porta a un acuto senso della fragilità umana, di ciò che egli chiama hābel, vanità. Il termine è tipico di Qohelet (38 ricorrenze contro le 35 di tutto il resto dell’AT). Ben poche realtà umane sfuggono al verdetto di vanità pronunciato da Qohelet. Per illustrare la sua tesi che «tutto è vanità», Qohelet dichiara «vanità»: le opere che si compiono (1,14), l’esperienza della gioia (2,1); il lavoro delle sue mani (2,11), la saggezza (2,15), la successione dei giorni e delle notti (2,23), il denaro e il lusso (5,9) la prolissità (6,11), il riso dello stolto (7,6), la giustizia (8,14), la vecchiaia (11,8) e la gioventù (11,10).

5.2. QOHELET E IL MISTERO DEL TEMPO (3,1-12)

Questo celebre passo si rivela uno dei poemi più profondi, e certamente la riflessione più sviluppata di tutta la Bibbia, sul mistero del tempo.

La struttura di 3,2-8 si sviluppa come una duplice serie di opposizioni (positivo-negativo o inversamente). Alle due estremità (versetto 2 e 8), il poema inizia e si conclude con una nota positiva. La complessità così come la ricchezza del tempo si traduce al livello del vocabolario. L’autore usa qui tre termini. Il primo che appare è zemān (tradotto in greco xro/noj [chrónos]). Indica l’aspetto quantitativo del tempo, il tempo numerico, che si può calcolare, misurare. Il secondo, che domina il poema, è ‘et: ricorre trenta volte in questo passo, e dieci volte nel resto del libro. Il termine indica il tempo qualitativo: da qui la sfumatura di occasione, di tempo fa-vorevole, di stagione. Infine, il poema si conclude rinviando a un altro aspetto del tempo, que-sta volta relativo a Dio: è ‘ôlām, cioè il tempo totale, la durata eterna, il tempo di Dio.

Qual è il significato di questa serie di opposizioni e della variazione del vocabolario ri-guardo al tempo? Bisogna fare una lettura successiva della serie di opposizioni? L’autore non farebbe allora che costatare che la vita è un composto, una successione di elementi e di attività contrarie che finiscono per annullarsi. Bisogna farne una lettura deterministica? Qohelet sa-rebbe dell’avviso che, qualsiasi cosa si faccia, non sarà possibile evitare la coesistenza dei contrari. O bisogna al contrario farne una lettura esclusivistica secondo la quale l’autore fa-rebbe una vibrante difesa per invitare a optare per l’una o l’altra delle possibilità offerte dal tempo?

Possiamo ritenere che il poema rende giustizia alla complessità del mistero del tempo, di cui rivela l’ambivalenza: al tempo stesso grazia (dono offerto) e occasione di libertà (luogo in cui si prende ogni decisione umana). Il tempo è fatto di molteplici occasioni: il problema per l’uomo è di far entrare l’occasione, fuggente, nel mistero più profondo e più duraturo del tem-po di Dio7.

7 Si vedano le osservazioni in questo senso di D. LYS, L’Être et le Temps. Communication de Qohèlèth, in La

Sagesse de l’AT, 249-258.

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Qohelet 89

5.3. LA FEDE DI QOHELET

Anche se Qohelet arriva fino al limite dei suoi interrogativi e anche delle sue inquietudini, rimane nondimeno un grande credente. Come i saggi, il suo credo si basa soprattutto sulla fondamentale bontà e sulla incrollabile solidità dell’opera creatrice di Dio: «Riconosco che qualunque cosa Dio fa è immutabile; non c’è nulla da aggiungere, nulla da togliere...» (3,14). E come i profeti, rifiuta un culto chiassoso (4,17–5,6) dove la moltiplicazione delle parole prevale sull’ascolto della Parola e sul rispetto del mistero di Dio. I suoi discorsi realistici sulla morte non sono privi di una certa speranza piena di coraggio: anche se non crede ancora nella risurrezione, sa che «l’uomo se ne va nella dimora eterna» (12,5) e che «il soffio ritorna a Dio che lo ha dato» (12,7). C’è lì una nota di serenità che non manca di grandezza per uno che i-gnorava tutto della rivelazione evangelica sull’aldilà.

5.4. «TUTTO È VANITÀ» O «TUTTO È GRAZIA»?

Abbastanza paradossalmente, per un autore ritenuto pessimista, Qohelet punteggia la sua riflessione con frasi sulla felicità. All’interno stesso dei passi che denunciano la vanità delle realtà umane, l’autore si è preoccupato di inserire sette riflessioni (idea di pienezza?) sulla fe-licità (2,24; 3,12.22; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9)8. Ogni volta l’autore esprime un giudizio di va-lore (aôb), quattro volte su sette l’affermazione è esclusiva: «Non c’è di meglio che...» (2,24; 3,12.22; 8,15). Ogni volta l’autore fa riferimento alla gioia o al godimento, invitando i suoi discepoli a «gustare la gioia». Si nota anche un crescendo nella raccomandazione della gioia: dalla semplice constatazione (2,24) l’autore passa all’elogio incondizionato della gioia (8,15; 9,7-9; 11,7-9). Bisogna quindi tener presente, con l’editore finale del libro, la nota risoluta-mente ottimista del disegno teologico di Qohelet: «Qohelet cercò di trovare detti piacevoli il cui esatto tenore viene qui trascritto...» (12,10).

Per fare giustizia a Qohelet è necessario perciò andare al di là della prima impressione la-sciata dal suo celebre ritornello «tutto è vanità». Anche se egli ha percepito con acutezza ed espresso con una sensibilità poco comune la caducità di tutte le cose, rimane nondimeno un assetato di assoluto e un sostenitore incondizionato della felicità, che ha saputo riconoscere le gioie semplici e quotidiane come autentici doni di Dio.

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA BARTON, G.A., The Book of Ecclesiastes (ICC), Edinburgh 1908, rist. 1971.

Le caratteristiche dei commenti che compongono l’«International Critical Commentary» sono una garanzia a priori del contenuto di quest’opera. Le ottime analisi testuali di questa collana sono univer-salmente riconosciute. Il commento vero e proprio occupa 65 pagine; in esso ha una speciale impor-tanza la problematica relativa alle versioni e al rapporto tra Qohelet e il pensiero greco. Tanto l’introduzione quanto il commento seguono coordinate piuttosto tradizionali, il che è comprensibile se si considera la data dell’edizione originale.

CRENSHAW, J.L., Ecclesiastes (OTL), Philadelphia 1987. Gli studiosi della letteratura sapienziale conoscono molto bene la statura intellettuale e gli ottimi

contributi di questo esegeta alla ricerca biblica. In questo commento vengono affrontati senza pregiu-dizi e con franchezza i problemi teologici più seri proposti dal libro biblico. Simile atteggiamento libe-ro da parte dell’autore trova corrispondenza nella qualità del commento. Questo è preceduto da un’in-troduzione di 30 pagine, sommaria ma sufficientemente completa. Il miglior pregio del commento sta nell’affrontare in modo non convenzionale un’opera biblica non convenzionale.

8 F. Rousseau è stato il primo a riconoscere loro una funzione importante nella struttura del libro (Structure

de Qoheleth 1,4-11 et plan du livre, in VT 31 [1981] 200-217). In modo indipendente, R. N. Whybray attribuirà loro un ruolo chiave nella teologia del libro (Qoheleth, Preacher of Joy, in JSOT 23 [1982] 87-98).

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90 Qohelet

DI FONZO, L., Ecclesiaste (BG), Torino-Roma 1967. Nonostante il passare degli anni la qualità dei commenti biblici della Bibbia di Garofalo non cessa

di sorprendere. Il commento all’Ecclesiaste segue tale linea di serietà e professionalità. Dopo una completa ed erudita introduzione di 102 pagine il lettore si trova di fronte a una bibliografia quasi e-saustiva di 17 pagine. Il commento è ampio e ben elaborato sotto il profilo linguistico e testuale. L’assenza di sensibilità letteraria è condivisa malauguratamente da quasi tutti i commentatori moderni. Una prospettiva un po’ più aperta e l’assenza di un certo carattere farraginoso avrebbero certamente accresciuto l’indiscutibile valore dell’opera.

FOX, M.V., Qohelet and His Contradictions, Sheffield 1989. Il commento vero e proprio (pp. 151-329) è preceduto da un’introduzione finalizzata a presentare il

libro del Qohelet al lettore moderno e da quattro capitoli più sostanziosi: 1. Significato di hebel e di re‘ût rûă˙; 2. sofferenze e piaceri; 3. epistemologia di Qohelet; 4. giustizia e teodicea. Tutti e quattro seguono, grosso modo, il seguente schema espositivo: impostazione del problema; terminologia; valu-tazione critica. Il commento, ben fatto e ardito, è affrontato dopo una breve esposizione di vari aspetti connessi alla comprensione letteraria dell’opera: alcune parole chiave; il linguaggio di Qohelet; la struttura letteraria; il valore delle versioni greca e siriaca.

GORDIS, R., Koheleth. The Man and His World, New York 31978. Il commento vero e proprio occupa le pp. 203-355. Le pp. 145-201 contengono il testo e la tradu-

zione. La prima parte costituisce un’ottima introduzione, le cui dimensioni possono essere apprezzate dal lettore. Vi si affrontano aspetti letterari di carattere generale, alcuni elementi stilistici e la visione del mondo di Qohelet senza trascurare tematiche più comuni come l’autore, la canonicità, il testo e le versioni. Il commento è equilibrato ed erudito. Questo commento è uno strumento imprescindibile per acquisire familiarità con lo stile del pensiero e dell’espressione del Qohelet.

LAUHA, A., Kohelet (BK 19), Neukirchen/Vluyn 1978. Si tratta probabilmente del miglior commento moderno all’opera di Qohelet, almeno come tratta-

zione d’insieme. Le 24 pagine d’introduzione sono forse troppo brevi, anche se la problematica gene-rale del libro è presentata in maniera sufficiente. Manca un’adeguata disamina letteraria, assenza tipica dei commenti del «Biblischer Kommentar». La critica testuale, pur corretta, non è ampia come ci si sarebbe potuto attendere per alcuni versetti.

OGDEN, G., Qoheleth, Sheffield 1987. Studio piuttosto ampio (circa 200 pagine), considerate le dimensioni del Qohelet. L’analisi testuale

è adeguata; il commento teologico è esauriente e felice; gli aspetti letterari sono correttamente indivi-duati e accuratamente presentati. Lamentiamo la mancanza di un’introduzione adeguata; non si può dir molto in 8 pagine. Titolo di merito dell’opera sono due appendici introduttive sul significato di hebel e jitrôn. Curioso l’excursus conclusivo intitolato «Sapienza cinese e rivelazione biblica».

WHITLEY, CH.F., Koheleth. His Language and Thought (BZAW 148), Berlin - New York 1979. Come si può cogliere dal sottotitolo, questo non è propriamente un commento. Dopo una brevissi-

ma introduzione (A), l’opera è aperta da uno studio del linguaggio di Qohelet (B), esaminato capitolo per capitolo, che si conclude con una valutazione della tesi di Zimmermann e Dahood (con esito nega-tivo). Questo esame critico (C) affronta le peculiarità del linguaggio di Qohelet e il suo rapporto con l’opera di Ben Sira. Lo studio del pensiero dell’autore del Qohelet (D) tiene conto delle teorie sulle in-fluenze babilonesi, egiziane e greche. Nell’ultima parte (E) l’autore cerca d’impostare una valutazione delle fonti israelite, del problema dell’influenza greca, del materiale proverbiale comune e della natura dei problemi affrontati da Qohelet. Se si prescinde da alcune conclusioni affrettate, questo è senza dubbio il migliore studio attuale sul Qohelet.

WHYBRAY, R.N., Ecclesiastes, Grand Rapids 1989. Il commento (pp. 33-174) è preceduto da una breve ma ricca introduzione di 31 pagine: titolo e po-

sizione nel canone; contesto storico, autore e luogo di composizione; lingua; unità letteraria e struttura; pensiero; analisi del contenuto. Pur mantenendosi nei limiti di una comprensibile prudenza, il com-mento è buono, molto aggiornato, di alto livello.

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Qohelet 91

Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:

SACCHI, P., Ecclesiaste (NVB 20), Roma 1971. BARUCQ, A., Qohélet (ou Livre de l’Ecclésiaste), in DBS 9 (1977) 609-674. LAURENTINI, G., Ecclesiaste o Qoelet, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Intro-

duzione alla Bibbia 3), Bologna 1978, 423-442. FESTORAZZI, F., Il Qohelet: un sapiente di Israele alla ricerca di Dio. Ragione e fede in rapporto dia-

lettico, in Quaerere Deum. Atti della XXV Settimana Biblica, Brescia 1980, 173-190. BONORA, A., Qohelet. La gioia e la fatica di vivere (LoB 1,15), Brescia 1987. RAVASI, G., Qohelet, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 1272-1278. RAVASI, G., Qohelet (La parola di Dio), Cinisello Balsamo 1988. D’ALARIO, V., Il libro del Qohelet. Struttura letteraria e retorica (Supplementi alla Rivista Biblica

27), Bologna 1993. PAHK, J.Y.-S., Il canto della gioia in Dio. L’itinerario sapienziale espresso dall’unità letteraria in

Qohelet 8,16–9,10 e il parallelo di Gilgameš Me. iii (Istituto Universitario Orientale. Diparti-mento di Studi Asiatici. Series Minor 42), Napoli 1996.

WRIGHT, A.G., Qohelet, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 638-646. MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiaste, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione al-

lo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 147-174. BONORA, A., Qoélet, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), To-

rino-Leumann 1997, 71-83. BELLIA, G. - PASSARO, A (edd.), Il Libro di Qohelet. Tradizione, redazione, teologia, Milano 2001. MAZZINGHI, L., Ho cercato e ho esplorato. Studi sul Qohelet, Bologna 2001.

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 3/2003: «Il libro di Qohelet».

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CANTICO DEI CANTICI*

Con il libro dei Salmi e il vangelo di Giovanni, il Cantico è senza dubbio uno degli scritti biblici più commentati dalla tradizione cristiana, e certamente quello che ha dato origine al ventaglio più grande di interpretazioni. Già la sua accettazione nel canone delle Scritture e-braiche non avvenne senza causare dei problemi, come testimoniano le discussioni rabbiniche riportate nella Mišnah:

Tutte le sante Scritture rendono impure le mani. Il Cantico dei Cantici e l’Ecclesiaste rendono im-pure le mani. R. Ieudà dice: Il Cantico dei Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani. R. Ieudà dice: Il Cantico dei Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani e intorno all’Ecclesiaste vi è diversità di opinioni. R. Iosè dice: l’Ecclesiaste non rende impure le mani e intorno al Cantico dei Cantici vi è diversità di opinioni. R. Simeone dice: l’Ecclesiaste è una di quelle cose in cui la scuo-la di Šammai facilita, mentre la scuola di Hillel è più rigida. Disse R. Simeone figlio di Azai: Io ho per tradizione dalla bocca dei settantadue anziani, nel giorno che insediarono R. Eliezer figlio di Azaria a presidente, che il Cantico dei Cantici e l’Ecclesiaste rendono impure le mani. Disse allora R. Akibà: Dio guardi! Nessuno si oppone in Israele col dire che il Cantico dei Cantici non renda impure le mani perché il mondo intero non ha tanto valore come il giorno in cui fu dato a Israele il Cantico dei Cantici, perché tutti gli altri agiografi sono santi ma il Cantico dei Cantici è il più san-to di tutti e se ci fu diversità di opinioni ciò fu soltanto rispetto all’Ecclesiaste1.

Una volta fissato il canone, le tradizioni ebraica e cristiana hanno tenuto il Cantico in gran-dissima stima, rileggendo in esso il proprio itinerario spirituale descritto sotto i tratti dell’ama-ta che si meraviglia dell’amore che le porta il suo amato e che, nel tempo della separazione o dell’assenza, non ha pace finché non l’ha ritrovato.

1. ASPETTO LETTERARIO DEL CANTICO

1.1. CONTENUTO

Il Cantico è una raccolta di canti d’amore. Ora in forma di dialoghi, ora di monologhi, que-sti canti esprimono le diverse fasi dell’esperienza amorosa di una giovane di Gerusalemme, «bruna ma bella» (1,5) e soprannominata la «Sulammita» (7,1: dalla radice šālem, «pace», da cui deriva anche il nome di Salomone), e del suo amato, che abita tra i pastori (1,7-8), ma che il testo identifica anche con il re (1,12) e più specificamente con Salomone (3,7-11). Ricchi di lunghe descrizioni della bellezza fisica dell’uno e dell’altro, questi canti esprimono l’ammi-razione che i due amanti hanno reciprocamente e il desiderio che essi provano l’uno dell’altro. I canti fanno posto anche a una certa nostalgia e alle inquietudini provocate dall’assenza dell’altro. Essi terminano anche con un invito alla separazione («Fuggi, mio diletto»: 8,14), ma non senza aver proclamato con forza la convinzione che attraversa ciascun poema: «Forte come la morte è l’amore; tenace come gli inferi è la gelosia; le sue vampe sono vampe di fuo-co: un colpo di fulmine sacro» (8,6).

1.2. STRUTTURA

La critica letteraria ha proposto per il Cantico un’infinita varietà di strutture e di divisioni: si è creduto di individuarvi tra i quaranta e i quarantadue poemi!2 Al di là di queste varianti, la tendenza è tuttavia quella di riconoscere una certa unità al Cantico, specialmente in ragione della sua lingua così particolare (vi si trovano una cinquantina di hapax legomena insieme a

* J.-P. PRÉVOST, Cantico dei cantici, in J. AUNEAU (ed.), I salmi e gli altri scritti (Piccola Enciclopedia Bibli-

ca 5), Roma 1991, 155-166.189-191. 1 Yadaim III,5; trad. di V. Castiglioni. 2 Cfr. M. H. POPE, The Song of Songs (AncB 7c), Garden City-New York 1977, 40-54, per una panoramica

delle principali proposte riguardanti la struttura del Cantico.

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Cantico dei Cantici 93

un numero impressionante di termini rari) e soprattutto della ripetizione di certi ritornelli (ri-sveglio dell’amore: 2,7; 3,5; 8,4; appartenenza mutua: 2,16; 6,3; 7,11), o di certe espressioni («figlie di Gerusalemme»: 1,5; 2,7; 3,5.11; 5,8.16; 8,4; «la più bella fra le donne»: 1,8; 5,9; 6,1) o ancora di certi temi (giardino: 4,12.15.16; 5,1; 6,2.11; 8.13; vigna: 1,6; 2,15; 7,13; 8,11.12; ricerca dell’amato: 3,1.2; 5,6; 6,1), ecc. Gli studi recenti sulla struttura del Cantico3 vanno tutti nel senso dell’omogeneità se non dell’unità dell’insieme.

2. DATA DI COMPOSIZIONE Appoggiandosi sull’intestazione del libro, un buon numero di autori (Segal, Gerleman,

Ginsberg, Chaim Rabin, ecc.) propongono come probabile data di composizione del Cantico il periodo di Salomone. Si argomenta a partire dai dati topografici generali, che corrispondereb-bero ai confini territoriali di Israele al tempo di Salomone, o dall’importanza accordata a Tirza nei confronti di Gerusalemme (6,4), o ancora dalle descrizioni sontuose del Cantico, perfetta-mente in linea con la prosperità e il lusso del regno di Salomone. All’altro estremo, autori co-me Hartmann e Graetz propongono il periodo ellenistico e sono disposti a scendere fino al III secolo. La maggior parte di commentatori oggi opta per una data postesilica, piuttosto il peri-odo persiano, dato che il Cantico porta i segni di un’influenza aramaica e persiana4.

3. LE GRANDI CORRENTI DI INTERPRETAZIONI Di fronte all’estrema diversità di interpretazioni è bene procedere a un certo raggruppa-

mento5 e sottolineare già i punti essenziali delle principali interpretazioni insieme alle que-stioni che esse sollevano. Per il Cantico, più che per ogni altro libro biblico, è necessario evi-tare le posizioni esclusivistiche ed è senza dubbio più importante porre bene le questioni anzi-ché pretendere di avere l’interpretazione che si impone su tutte le altre. La storia dell’interpre-tazione mostra, se ce ne fosse bisogno, che il Cantico può e deve essere letto a diversi livelli.

3.1. LETTERALE

Si propone di leggere il Cantico come una raccolta di canti d’amore (descrizione concreta o metaforica). Originariamente questi canti sarebbero stati composti per un matrimonio qua-lunque, o più specificamente per il matrimonio di Salomone con la figlia del Faraone, o anco-ra di un re con una pastorella. Il loro significato sarebbe quindi quello di una celebrazione dell’amore umano, e il Cantico avrebbe l’apparenza di un commento sviluppato dei primi due capitoli della Genesi.

Benché relativamente poco attestata nel corso della tradizione (con Teodoro di Mopsuestia, la cui esegesi di questo punto sarebbe stata condannata, e poi più tardi con Bossuet, Dom Calmet e Renan), questa interpretazione si impone sempre di più nell’esegesi recente. Essa ha il vantaggio di rispettare il significato ovvio del testo, rendendo nello stesso tempo conto del carattere sapienziale del libro.

D’altra parte, essa non manca di suscitare degli interrogativi: come si spiega il fatto che sia stata praticamente ignorata da tutta la tradizione ebraica e che abbia incontrato così pochi so-

3 J. C. EXUM, A Literary and Structural Analysis of the Song of Songs, in ZAW 85 (1973) 47-79; F. LANDY,

Beauty and the Enigma: An Inquiry into Some Interrelated Episodes of the Song of Songs, in JSOT 17 (1980) 71-85; R. E. MURPHY, The Unity of the Song of Songs, in VT 29 (1979) 436-443; W. H. SHEA, The Chiastic Structu-re of the Song of Songs, in ZAW 92 (1980) 378-396; T. ELLIOTT, The Literary Unity of the Canticle (Europäische Hochschulschriften XXIII,371), Frankfurt a.M. 1989.

4 A. ROBERT – R. TOURNAY – A. FEUILLET, Le Cantique des Cantiques. Traduction et commentaire (EtB), Gabalda, Paris 1963, 20-22.

5 Per un quadro più completo, con ampli riferimenti bibliografici: POPE, The Song ot Songs, 89-229.

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stenitori nella tradizione cristiana antica? Come spiegare le derivazioni dal vocabolario profe-tico? E, se si tratta di canti d’amore, come spiegare i riferimenti così numerosi alla geografia d’Israele?

3.2. ALLEGORICA

All’opposto dell’interpretazione letterale, questa attribuisce un significato nascosto ai per-sonaggi, al loro linguaggio e alla loro ricerca amorosa. L’amato non è altro che Dio, mentre la donna è diversamente interpretata come Israele, la Chiesa o l’anima credente, alla ricerca di Dio. La tradizione giudaica, fissata nel Talmud e più tardi nel Targum e nei vari midrašim, in-terpreta il Cantico come uno scambio di lode tra Dio e Israele e non esita ad allegorizzare tutti i dettagli: l’assenza dell’amato è un’allusione all’esilio, il vino significa la Torāh, i baci desi-gnano la profezia, ecc. Sul versante cristiano, Origene farà opera di pioniere nel sostituire alla lettura ebraica una lettura similmente allegorica, ma completamente rivista alla luce del miste-ro del Cristo e della Chiesa. Egli affermerà senza mezzi termini: «Per “sposo” intendo il Cri-sto. Per “sposa senza macchia né ruga” intendo la Chiesa...»6.

L’interpretazione allegorica è quindi fortemente radicata in ambiente ebraico e cristiano. Essa non è mai venuta meno presso gli ebrei, dove è praticamente esclusiva, mentre nell’esegesi cristiana dopo Origene ha goduto di un forte consenso presso i Padri della Chiesa e i teologi del Medio Evo, per poi dominare l’esegesi cattolica fino alle soglie del Concilio Vaticano II. Il suo grande vantaggio è quello di armonizzare la teologia del Cantico con l’insieme della tradizione biblica.

Questa quasi unanimità della tradizione è stata rimessa in discussione recentemente. Per quanto antica e venerabile, l’interpretazione allegorica non s’impone necessariamente alla let-tura del testo. Si nota a tale proposito il sorprendente silenzio su Dio, che non viene mai no-minato nel testo, e bisogna ammettere che, se c’è parabola o allegoria, la chiave non viene da-ta nel testo (contrariamente alle parabole o allegorie che si trovano nei profeti o nei vangeli). Ciò che lascia ugualmente dubbiosi è il carattere soggettivo, e talvolta arbitrario, della decodi-ficazione dei simboli.

In questa scuola è da inserire anche l’interpretazione mistica. Iniziata anch’essa da Orige-ne, doveva essere ripresa da Gregorio di Nissa, Gregorio di Elvira e Bernardo di Chiaravalle, prima di essere consacrata da Giovanni della Croce e Teresa d’Avila.

3.3. ANTOLOGICA

Sotto molti aspetti, l’interpretazione antologica avanzata da A. Robert7, aderisce alle tesi di fondo dell’interpretazione allegorica. Appartiene infatti a un metodo che tende a dimostrare la validità e la necessità di una lettura allegorica. Merita tuttavia di essere distinta da essa per la serietà della sua documentazione e per il fatto che ha segnato tutta un’epoca dell’esegesi cat-tolica.

Secondo i sostenitori della lettura antologica, il testo del Cantico sarebbe un midraš, intes-suto di allusioni e di citazioni bibliche. Il metodo antologico cerca di fare una lettura sistema-tica dei possibili accostamenti (quindi fatti dall’autore?) con altri testi biblici. In pratica que-sto metodo porta a una lettura profetica del Cantico secondo la quale è possibile trovare dietro ciascuna parola altrettante allusioni alle diverse fasi della storia della salvezza e delle relazioni amorose tra Dio e il suo popolo.

Bisogna sottolineare qui la serietà della ricerca e la coerenza del sistema proposto. Uno studio così minuzioso si rivela estremamente prezioso dal punto di vista filologico, aprendo nello stesso tempo a una più ampia comprensione della Bibbia. Ma la sua forza costituisce an-

6 Prima omelia sul cantico 1. 7 ROBERT – TOURNAY – FEUILLET, Le Cantique des Cantiques, passim.

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Cantico dei Cantici 95

che la sua debolezza: attaccandosi troppo ai dettagli, non si rischia di perdere di vista il signi-ficato ovvio del testo? E se è necessaria una dimostrazione così abbondante e minuziosa per arrivare a comprendere otto piccoli capitoli, non si cerca di imporre una logica estranea al te-sto?

3.4. CULTUALE

Corrente all’inizio del secolo ventesimo, l’interpretazione cultuale del Cantico è stata a-vanzata dai sostenitori dello studio comparativo delle religioni. Secondo loro il Cantico sa-rebbe la versione israelitica del matrimonio sacro attestato nella letteratura del Vicino Oriente Antico (presso i Sumeri, tra il dio Dumuzi e la dea Inanna, e a Babilonia, tra Marduk e Ištar). Una versione più recente (M. H. Pope)8 collega il Cantico alle celebrazioni funerarie del Vici-no Oriente Antico, impregnate di erotismo e accompagnate da abbondanti libagioni di vino e di canti.

I sostenitori dell’interpretazione cultuale possono invocare un numero impressionante di corrispondenze verbali, così come una somiglianza certa nel simbolismo terra-sposa e nel simbolismo teologico del matrimonio divino. Ma comparare non vuol dire provare, e una si-mile spiegazione non rende giustizia all’originalità d’Israele nei riguardi della sessualità e an-cor meno all’originalità del Cantico. In rapporto ai suoi vicini, Israele ha proceduto a una vera e propria demitizzazione della sessualità umana, della fecondità e della sessualità divina9. E nel contesto più ampio del monoteismo, bisogna notare che l’ebraico non ha un termine per dire dea.

4. UNA TEOLOGIA DELL’AMORE

4.1. VERSO UN’ERMENEUTICA DEL «DUPLICE SIGNIFICATO»

Come orientarsi nella scelta tra queste interpretazioni che, ciascuna a suo modo, rivelano qualche cosa del testo o del suo ambiente biblico o dei suoi legami con le correnti sapienziali straniere?

La soluzione potrebbe trovarsi nell’accostamento delle due posizioni che sono apparse a lungo inconciliabili: quella letterale e quella allegorica. In effetti, i sostenitori della prima non si sono opposti alla possibilità di un secondo significato, simbolico o parabolico, mentre i so-stenitori della seconda non hanno mai negato il significato primario del vocabolario del Canti-co e delle sue forti connotazioni sessuali. I sostenitori dell’una e dell’altra interpretazione concordano nel dire che si tratta indubbiamente dell’amore umano. Mentre per molto tempo il problema era quello di sapere quale fosse il significato del Cantico, gli sviluppi recenti delle scienze del linguaggio e dell’ermeneutica portano a riconoscere la polisemia o pluralità di si-gnificato per uno stesso testo. Non ci si sorprenderà allora di sentire un rappresentante dell’in-terpretazione letterale, D. Lys, concludere che il significato del Cantico è al tempo stesso ses-suale e sacro: «Sessuale e sacro: è necessario tenere i due insieme altrimenti si perde il signi-ficato. Per esempio, se si comprende il Cantico dei Cantici come sessuale ma non sacro, allora è profano, serve da canto conviviale e l’amore è profanato. Ma dall’altra parte grande è la ten-tazione, considerandolo sacro, di rifiutare il suo carattere sessuale che fa paura o vergogna, e di cadere nell’allegorizzazione. In realtà il senso letterale parla di sessualità e questa non è per

8 POPE, The Song ot Songs, 210-229. 9 «Costatiamo innanzitutto che la fede jahvista ha “de-sacralizzato” il matrimonio, l’ha secolarizzato e ne ha

fatto una realtà di questo mondo terreno» (E. SCHILLEBEECKX, Il matrimonio, realtà terrestre e mistero di sal-vezza nell’AT e nel NT e nella storia della Chiesa, Roma 21971). Lo stesso giudizio viene espresso da P. GRE-

LOT, Le couple humain dans l’Écriture (LeDiv 31), Paris 1962, 28-31.

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96 Cantico dei Cantici

sua natura oscena e non ha bisogno di essere moralizzata o allegorizzata per diventare teolo-gica»10.

Ugualmente significativa del cammino percorso nell’ultimo quarto di secolo dall’esegesi del Cantico è la posizione recente di uno dei principali rappresentanti dell’interpretazione al-legorica (con il concorso del metodo antologico), R. J. Tournay, che scrive nella prefazione dei suoi nuovi studi sul Cantico: «Il principio ermeneutico più fecondo sembra essere quello del duplice significato [...], già applicato, credo, dal responsabile ispirato dell’edizione defini-tiva del Cantico dei Cantici. Questo libretto altamente poetico resiste a ogni tentativo di ato-mizzazione; nel suo stato attuale, canonico, biblico, esso si presenta come una parte integrante dell’Antico Testamento. La lettura che ne propongo cerca di integrare due registri che sarebbe vano e inutile, secondo me, ridurre a una semplice opposizione dato che mi sembrano correla-tivi. Il mistero dell’amore umano è inseparabile da quello dell’Amore divino di cui costituisce il segno e il simbolo»11. Non si potrebbe meglio riassumere il Cantico: «L’amore umano è in-separabile [...] dall’Amore divino».

4.2. UNA TEOLOGIA DELL’AMORE UMANO

Per rendere conto del messaggio e dell’originalità del Cantico bisogna dapprima ridare tut-to il suo valore al linguaggio di cui è intessuto. Ora questo linguaggio si distingue da quello di tutti gli altri libri della Bibbia per il fatto che sfrutta tutti i registri del linguaggio sessuale (a-more, bellezza fisica, baci, carezze e abbracci, desiderio, passione, unione sessuale e apparte-nenza mutua).

Letterale o metaforica, il linguaggio del Cantico è ampiamente improntato al campo della sessualità: amore (dôd, 29 volte e ’āhab, 16 volte), bellezza fisica (yāphāh, 11 volte; nā’āh, 5 volte), desiderio e passione (˙āmad, 2,3 e 5,16; tešûqāh, 7,11), baci e carezze (nāšaq, 3 volte; ˙ābaq, 2 volte), unione sessuale (1,4.13.16; 3,1.4; 7,12). Una tale abbondanza dà ugualmente una connotazione sessuale a certe espressioni quali: la ricerca amorosa (cercare-trovare), il giardino, la vigna e il vino (si vedano i riferimenti dati sopra).

È, per così dire, la materia prima del Cantico. Certo, l’autore commenta con libertà la vi-sione fondamentalmente positiva delle relazioni uomo-donna di Gen 1–2, ma opera anche un numero impressionante di correzioni in rapporto a una tradizione diventata più diffidente e so-spettosa nei riguardi della sessualità. Così, in rapporto al desiderio: là dove il desiderio era fi-nito per essere percepito come cupidigia e per diventare oggetto di divieto (Es 20,17; Dt 7,25; Pr 6,25), il Cantico l’assume in pieno e ne fa l’elogio: «Tutto il suo essere è l’oggetto stesso del desiderio» (5,16). Stessa cosa in rapporto alla passione, vista un tempo come un rapporto di dominio (Gen 3,16) e celebrata qui con meraviglia: «Io sono per il mio diletto / e la sua brama è verso di me» (7,11). Rompendo anche con la diffidenza della sapienza tradizionale circa i baci seduttori e le carezze (Pr 5,20; 7,13), il Cantico non nasconde la sua ammirazione per i gesti d’amore: «Mi baci con i baci della sua bocca! Sì, le sue carezze sono più dolci del vino...» (1,2; cfr. anche 1,4; 4,10; 7,13)12.

La visione dell’amore umano che emerge dal Cantico si potrebbe riassumere in quattro af-fermazioni.

1) L’amore umano è una realtà profondamente, intrinsecamente bella e buona. Nel Canti-co non si trova nessuna traccia di riserva, di sospetto o di compromesso. Il tono è in esso di ammirazione dall’inizio alla fine. L’autore non cessa di esprimere l’eccellenza (è buono) e la bellezza (tutta l’insistenza sulla bellezza fisica) dell’amore umano nella sua dimensione sen-

10 D. LYS, Le Cantique des Cantiques. Pour une sexualité non ambiguë, in Lumière et Vie 28 (1979) 47. 11 R. J. TOURNAY, Quand Dieu parle aux hommes le langage de l’amour: études sur le cantique des Canti-

ques (CRB 21), Paris 1982, 5-6. 12 Cfr. F. RAURELL, Il piacere erotico nel Cantico dei Cantici, in Lineamenti di antropologia biblica, Casale

Monferrato 1986, 185-226.

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Cantico dei Cantici 97

suale, carnale e sessuale. Tutti i suoi canti tendono a esaltare il piacere di amare, insito nell’in-nata bontà della creazione.

2) L’amore umano rimane una realtà terrena. L’autore del Cantico celebra un’avventura e una storia umana. Matrimonio e sessualità non derivano da un qualunque archetipo divino e mitico. Sono due realtà inserite nell’esistenza umana e il cui significato è da scoprire e da co-struire come un progetto umano, che richiede tempo, ricerca di significato e libertà.

3) L’esperienza amorosa è basata su una relazione di uguaglianza e di reciprocità. Gli studi biblici ispirati dal femminismo hanno giustamente sottolineato come il Cantico vada al di là dei pregiudizi sessisti, particolarmente spiccati nell’Israele antico13. Ricordiamo i tratti principali che mettono in evidenza l’uguaglianza della donna e dell’uomo nel Cantico. La donna ha la prima e l’ultima parola nel libro. Non è certo per caso. Essa ha l’iniziativa e la conserva durante tutto il dialogo. Poi, contrariamente alle poesie antiche che celebrano l’amo-re, il Cantico non descrive il corpo e la bellezza della donna soltanto, ma anche dell’uomo. E infine, la donna ha tutto lo spazio desiderato per affermare il suo desiderio. Preso nel suo in-sieme, il Cantico è quindi una mirabile illustrazione dell’unità originale e dell’uguaglianza vo-luta da Dio per le relazioni tra l’uomo e la donna.

4) L’amore trova in se stesso la propria giustificazione. Il Cantico non finisce di stupire. Se tratta intensamente dell’amore umano, non si parla mai del matrimonio e della procreazione. Parla molto semplicemente di due amanti. Certo, si può vedere in questo il fondamento del matrimonio, ma è importante rispettare quest’altro silenzio del Cantico. L’amore umano non ha qui bisogno di essere incorniciato: rimane la realtà più bella e merita di essere continua-mente riscoperto e reinventato.

4.3. UNA PARABOLA DELL’AMORE DIVINO

Questa è l’originalità del Cantico: celebrando l’amore umano in tutta la sua grandezza, l’autore ci trasmette la più bella parabola dell’Amore divino. Se l’amore umano è così bello e così grande è perché porta in sé un mistero più grande: quello dell’amore divino. In altre paro-le, l’amore umano così come descritto nel Cantico diventa un luogo teologico, rivelatore del modo in cui Dio ama. Conoscere l’amore umano così come descritto nel Cantico significa co-noscere qualcosa di Dio: «E chi non vedrebbe chiaro in questo specchio luminoso: ecco come ama il Dio dell’alleanza, con questa passione, questa impazienza e questa gioia»14. D’altra parte, se Dio ama come si ama nel Cantico, la parabola può anche essere rivolta verso di noi. L’amore umano ha quindi la sua fonte e la sua ispirazione nell’amore stesso di Dio. Eros ha la sua fonte nell’Agape.

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA Nell’abbondante letteratura sul Cantico sarebbe opportuno anzitutto selezionare le opere che, per

qualità, per la disamina esaustiva dei problemi, l’equilibrio nella presentazione tematica, l’originalità dei punti di vista o perché rappresentano una pietra miliare nella storia della ricerca, offrono un aiuto insostituibile e un punto di riferimento per chi le legge per curiosità o qualsivoglia esigenza. Ho scelto sette commenti:

ROBERT, A. - TOURNAY, R. - FEUILLET, A., Le Cantique des Cantiques, Paris 1963. È un classico dell’interpretazione allegorica pubblicato da Tournay otto anni dopo la morte di Ro-

bert, il suo principale ispiratore e autore. La traduzione e il commento occupano le pp. 61-329. La cri-tica testuale e la critica letteraria sono esposte con maestria ed erudizione. Uno degli aspetti più pre-ziosi dell’opera è costituito dalla sezione dedicata ai «paralleli non biblici», opera di Tournay (pp. 339-

13 POPE, The Song ot Songs, 205-210. 14 G. CASALIS, Le (bon) plaisir d’aimer, in Une chant d’amour insolite: le Cantique des Cantiques, Paris

1984, 21-22.

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98 Cantico dei Cantici

426): Egitto, Mesopotamia e area siro-fenicia (Sumer, Assiria-Babilonia, Ugarit), cultura ellenistica, mondo giudaico, arabo ed Etiopia.

RUDOLPH, W., Das Buch Ruth. Das Hohe Lied. Die Klagelieder (KAT 17/1-3), Gütersloh 1962. Il Cantico dei cantici occupa le pp. 73-186, suddivise in due parti: introduzione (pp. 77-120) e tra-

duzione e commento (pp. 121-186). Lo stile espositivo di Rudolph si distingue per la chiarezza, l’ordi-ne, il rigore scientifico e il costante riferimento alle letterature affini. Ragguardevole è il ragionato e ragionevole equilibrio nell’esposizione dei temi. Il commento si segnala per l’ottimo apparato critico, probabilmente il migliore oggi disponibile. Manca uno studio della retorica del Cantico. Un’edizione riveduta con una maggiore attenzione per gli aspetti letterari e con un’appendice sulla poesia d’amore egiziana e mesopotamica renderebbero quest’opera il miglior commento disponibile.

KRINETZKI, L., Das Hohe Lied, Düsseldorf 1964. L’opera consta essenzialmente di tre parti: introduzione (pp. 21-82), commento (pp. 85-257), testi-

monianza del Cantico (pp. 261-290), una serie di capitoletti su vari temi. In generale si tratta di un’opera di consultazione imprescindibile, in particolare per quanto riguarda la forma poetico-letteraria del Cantico (pp. 46-82), una sezione dell’introduzione cui si riferiscono necessariamente tutti gli studiosi. Krinetzki non ha tuttavia saputo liberarsi da un’interpretazione allegorica che in certi casi non fa che ostacolarne le riflessioni sul valore dell’amore umano come appare nel Cantico e rendere oscuro l’ottimo e chiaro sviluppo dell’esposizione.

GERLEMANN, G., Ruth. Das Hohelied (BK 18), Neukirchen/Vluyn 1965. Il commento al Cantico occupa le pp. 43-235. L’opera è composta fondamentalmente di due parti:

introduzione (pp. 43-92) e commento (pp. 93-223) e un breve excursus sulla lirica del Cantico (pp. 224-227). Il tutto è elaborato con sobrietà e profondità. In particolare spicca l’analisi della forma lette-raria, delle versioni dei LXX e della Peshitta e del valore teologico del Cantico. Nel commento vero e proprio, anche se povero nello studio del versante poetico, una povertà malauguratamente condivisa da quasi tutti i commenti moderni, assume particolare rilievo lo studio del testo ebraico.

POPE, M.H., Song of Songs (AB 7c), New York 1977. Da questo voluminoso commento al Cantico si ricava l’impressione che l’autore non abbia voluto

tralasciare assolutamente nulla. L’opera si compone essenzialmente di tre parti: introduzione (pp. 17-229), bibliografie (pp. 233-288), traduzione e note (pp. 291-701). Una serie di indici (pp. 703-743) completa l’opera. Nell’introduzione si segnalano la buona disamina, per quanto breve, delle versioni del Cantico; lo studio del parallelismo; la presentazione del cosiddetto «Cantico dei cantici indiano» (Gītagovinda); l’interpretazione del Targum e la sezione intitolata «Il Cantico dei cantici e la libera-zione della donna». Uno dei contributi di maggiore originalità è il rapporto stabilito dall’autore tra al-cuni elementi del Cantico e i culti funerari del Vicino Oriente Antico, feste d’amore rallegrate da vino, donne e canti (pp. 210-229). Considerevole, inoltre, è la conoscenza che l’autore dimostra delle culture vicine a Israele (Ugarit, Egitto, Mesopotamia). I punti deboli del commento sono individuabili nel co-stante disordine espositivo e nella scarsa sensibilità letteraria dell’autore, carenza sorprendente nel commento di un’opera di così elevata qualità poetica.

FOX, M.V., The Song of Songs and the Egyptian Love Songs, Wisconsin 1985. L’opera si compone di due parti: traduzione e commento (pp. 3-177); esposizione letteraria

dell’amore (pp. 181-331). Nella prima, articolata in due capitoli (1-2), l’autore traduce e commenta i poemi amorosi egiziani e il Cantico dei cantici, con una buona e utile analisi testuale, in particolare per quanto concerne i papiri egiziani. La seconda parte è suddivisa in sei capitoli (3-8), alcuni dei quali dedicati ad aspetti letterari trascurati da altri commentatori. Nel terzo capitolo Fox affronta il problema del linguaggio, la data di composizione e il contesto storico sia dei canti d’amore egiziani sia del Can-tico; il quarto è intitolato «Composizione delle fonti e i Canti» (cioè i canti egiziani e il Cantico); nel quinto considera la funzione delle due serie di poemi e il loro ambiente sociale; il sesto capitolo è inti-tolato «Chi parla e come? Voce e modi di presentazione» ed è incentrato sui caratteri drammatici e sui tipi di discorso; il settimo capitolo affronta i temi principali dei due tipi di canzoni; l’ottavo s’intitola «Amore e amanti nei canti d’amore». L’opera è completata da illustrazioni, appendici e bibliografia. Malgrado i rischi impliciti nelle opere comparative – non è mai possibile spiegare una manifestazione letteraria di una cultura determinata a partire da modelli culturali stranieri – questo è un ottimo lavoro d’indiscutibile utilità per chi ha affrontato in precedenza uno studio dedicato esclusivamente al Canti-co.

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Cantico dei Cantici 99

GARBINI, G., Cantico dei cantici. Testo, traduzione, note e commento, Brescia 1992. Il volume (di 358 pagine) consta di tre parti: il testo – dove sono riprodotte e messe a confronto le

più importanti testimonianze del Cantico: il testo masoretico; il frammento ebraico di Qumran; le va-rianti dei manoscritti ebraici medievali; le versioni greche dei Settanta e di Aquila, Simmaco, Teodo-zione; il cosiddetto codice Ebraico; la Vetus Latina e la Vulgata; infine la versione siriaca della Peshit-ta –, l’interpretazione del testo, il significato del Cantico. L’autore, come precisa a conclusione della breve introduzione, ha cercato in quest’opera, senza dubbio la più significativa degli studi italiani de-dicati al Cantico, «di dare una risposta a... che cosa rappresenti in realtà il Cantico dei cantici nella cul-tura ebraica antica» (p. 19). Ricostruito il testo con rigoroso metodo filologico, si passa al commento, mirante a chiarire il significato letterale e il valore poetico dei componimenti formanti il Cantico, e, infine, sono affrontati i più importanti problemi – datazione, struttura, le donne, l’amore, la Sapienza, ecc. – posti dal libro biblico, allargando l’attenzione all’epoca neotestamentaria, a Simone il Mago e ad altre figure gnostiche.

Inoltre, in italiano, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:

NOLLI, G., Il Cantico dei Cantici (SBT), Torino 1967. COLOMBO, D., Cantico dei Cantici (NVB 21), Roma 1970. LAURENTINI, G., Cantico dei Cantici, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Intro-

duzione alla Bibbia 3), Bologna 1978, 405-422. MANNUCCI, V., Sinfonia dell’amore sponsale. Il Cantico dei cantici, Torino 1982. COLOMBO, D., Cantico dei Cantici (LoB 1.16), Brescia 1985. RAURELL, F., Il piacere erotico nel Cantico dei Cantici, in IDEM, Lineamenti di antropologia biblica,

Casale Monferrato 1986, 185-226. RAVASI, G., Cantico dei Cantici, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988,

237-245. ALONSO SCHÖKEL, L., Il Cantico dei Cantici. La dignità dell’amore, Casale Monferrato 1990. RAVASI, G., Il Cantico dei Cantici. Commento e attualizzazione, Bologna 1992. MURPHY, R.E., Cantico dei Cantici, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 602-607. MORLA ASENSIO, V., Il Cantico dei Cantici, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 364-392. BONORA, A., Cantico dei Cantici, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti

(Logos 4), Torino-Leumann 1997, 135-146. REALI, A.V., Il Cantico dei Cantici. Trasposizione poetica dall’ebraico, Castel Maggiore (BO) 1999. BARBIERO, G., Il Cantico dei Cantici (I libri biblici. Primo Testamento 24), Milano 2004.

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SIRACIDE*

1. PRESENTAZIONE D’INSIEME

Con il Siracide passiamo dalla Bibbia ebraica alla traduzione greca cosiddetta «dei Settan-ta» (ma anche «la Settanta»). Questa traduzione della Bibbia venne realizzata, a partire dal III secolo a.C., dalla comunità giudaica di Alessandria, in Egitto. Il suo scopo continua a essere oggetto di discussione: se per far riconoscere dall’autorità dei Lagidi, che governavano il pae-se, i libri regolatori della vita della comunità giudaica, oppure se per facilitare l’accesso dei libri santi a quei giudei alessandrini che non parlavano più l’ebraico. Comunque sia, una ca-ratteristica della Bibbia alessandrina è che essa contiene dei libri che la Bibbia ebraica non ac-coglie. In particolare, ai tre libri sapienziali della Bibbia ebraica, la traduzione dei Settanta aggiunse in greco la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di Salomone.

1.1. DI QUALI TESTI DISPONIAMO?

1.1.1. L’originale ebraico

La Sapienza di Ben Sira passò per sorprendenti metamorfosi. In origine fu scritta in ebrai-co. Lo dice il Prologo della versione greca (Prologo, versetto 22). Alcuni Padri della Chiesa, per esempio Girolamo, Ilario di Poitiers, Epifano, lo sapevano. Gli scritti rabbinici ne avevano già citato questo o quel versetto. Ma il testo in ebraico era considerato perduto fino al 1896, quando S. Schechter, a Cambridge, ne identificò un foglio proveniente dal deposito (ghenizà) della sinagoga dei Caraiti del Vecchio Cairo, in Egitto. A quella scoperta, altre seguirono, fino al 1900. In quella data erano stati ritrovati quasi i due terzi del testo ebraico. Alcuni comple-menti vennero riportati alla luce fino al 1982. Al momento si dispone così di sei manoscritti dell’XI secolo, ma molto frammentari e assai deteriorati, i quali però, messi insieme, danno principalmente il testo ebraico di Sir 3,6–16,26 (manoscritto A) e Sir 30,11–51,30 (quasi per intero, grazie soprattutto al manoscritto B).

C’è chi ha dubitato dell’autenticità di questi testi: non potrebbero essere delle retroversioni in ebraico, sulla base del testo greco o della versione siriaca? La risposta venne dalle scoperte di Qumran e della fortezza giudaica di Masada, sulla riva occidentale del mar Morto. Fra il 1956 e il 1964 vi furono scoperti dei frammenti in ebraico del libro di Ben Sira, che per forza sono anteriori al disastro in cui finì la rivolta giudaica contro i Romani, cioè anteriori al 68 d.C. per Qumran e al 73 per Masada. Ebbene, questi testi confermano quelli ritrovati nella si-nagoga del Vecchio Cairo.

Sono scoperte d’importanza fondamentale per conoscere il messaggio originale del nostro autore. E tuttavia, le condizioni dei manoscritti ritrovati non permettono ancora, al momento, d’avere un buon testo ebraico della Sapienza di Ben Sira. Un terzo del libro continua a manca-re, e anche i testi recuperati non sono delle copie accurate. Confrontandoli con le versioni gre-ca e siriaca, entrambe fatte su un testo ebraico di Ben Sira, gli esegeti hanno tentato di rico-struire l’originale. Il confronto ha anche permesso loro di riscontrare, nei manoscritti ritrovati, dei doppioni, delle aggiunte, senza poi contare gli errori dei copisti. Ma ci torneremo.

1.1.2. La versione greca

Il Prologo del libro in greco venne redatto dal nipote dell’autore. Arrivato in Egitto nel 132 a.C. (vedi Prologo, versetto 27), costui lì scoprì l’opera del suo avo e decise di tradurla in gre-co. Pare che il lavoro gli abbia preso una decina d’anni. Le difficoltà non mancavano (Prolo-go, versetti 15-26): non è agevole trasporre il genio di una lingua in un’altra!

* M. GILBERT, La Sapienza del cielo, Cinisello Balsamo 2005, 137-147; A. BONORA, Siracide, in A. BONORA

- M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4), Torino-Leumann 1997, 90-96.

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Siracide 101

In genere si dà credito a questo Prologo, e il confronto, ormai possibile, fra l’originale e-braico e la versione greca permette d’intuire tutto un lavoro di trasposizione, perfino d’adatta-mento alle circostanze nuove, fatto dal traduttore con grande intelligenza, sebbene poi più d’una volta, come pare, gli sia stato difficile ben capire l’ebraico del nonno.

Resta il fatto che questa versione greca (ed. A. Rahlfs, 1935) è al momento il miglior te-stimone testuale dell’opera di Ben Sira, ed è essa che traducono le nostre Bibbie moderne. Qui il testo è completo, mentre dell’ebraico abbiamo soltanto un testo frammentario. Inoltre, que-sta versione greca venne trasmessa con grande cura. Prova ne è l’eccellenza dei manoscritti onciali – cioè in lettere greche maiuscole – del IV secolo. Si tratta soprattutto dei manoscritti cosiddetti Vaticano, conservato nella Biblioteca vaticana, e Sinaitico, attualmente al British Museum di Londra. Sia l’uno che l’altro danno, di questo libro, come degli altri libri biblici, un testo greco di qualità, quello precisamente che traducono le più note Bibbie. Di fatto, il lo-ro testo sembra provenire dalla scuola che Origene aveva creato a Cesarea nel III secolo.

1.1.3. Un’edizione riveduta e con aggiunte

Nell’epoca bizantina, alcuni manoscritti trasmettono, a partire dal IX secolo, un’altra ver-sione greca dell’opera di Ben Sira, ma scritta questa volta in caratteri minuscoli (ed. J. Zie-gler, 1965). Ebbene, questo testo differisce da quello dei grandi manoscritti onciali del IV se-colo per modifiche che incidono anche sul senso stesso delle frasi e per un certo numero di aggiunte – si contano 135 stichi, o righe – che orientano il testo in una direzione nuova e pre-sumono una teologia più recente di quella di Ben Sira e del nipote.

Tuttavia, queste modifiche e aggiunte non paiono d’una sola mano. I manoscritti greci non le trasmettono sempre alla stessa maniera. In più, alcune compaiono anche nei frammenti e-braici (per esempio in Sir 11,15-16; 16,15-16), ma anche nella versione siriaca, chiamata Pe-shitta, che ne riporta a sua volta altre ancora (ad esempio, in Sir 1,22-27), o anche nell’antica versione latina, cosiddetta Vetus Latina, che però traduce da un testo greco. Queste osserva-zioni inducono a pensare che il libro di Ben Sira sia stato fatto oggetto di una rilettura non omogenea ma pluriforme, per un periodo che va dagli anni 80 a.C. a tutto il I secolo d.C. La maggior parte delle modifiche e aggiunte potrebbe essere d’origine ebraica, peraltro difficile da individuare; ma non tutte, dato che alcune sembrano ispirarsi alla cultura greca. In ogni ca-so, ben poche sono d’origine cristiana: nei casi in cui potrebbe parere, bisogna dimostrare che il testo non può provenire dal giudaismo.

1.1.4. L’antica versione latina

Venne fatta nell’Africa cristiana – attuali Algeria e Tunisia –, alla fine del II secolo, sulla base d’un testo greco già arricchito d’aggiunte. Questa versione è arrivata fino a noi, perché Girolamo, sulla svolta fra il IV e il V secolo, non volle ritradurre in latino un testo che non fa-ceva parte della Bibbia ebraica. Ma questa Vetus Latina finì per entrare nella Vulgata, proba-bilmente già alla fine del V secolo, ed è ancora essa che si ritrova, appena ritoccata, nella No-va Vulgata che Paolo VI aveva chiesto alla fine del Concilio Vaticano II e che venne pubblica-ta nel 1979.

1.1.5. La versione siriaca

Potrebbe datarsi intorno al 300 e sarebbe opera d’un cristiano che traduce da un testo e-braico della Sapienza di Ben Sira. Se egli ebbe accesso, come pare, all’opera nel suo stato ori-ginario in ebraico, pare però anche si sia servito di un’edizione ebraica rimaneggiata. Fu un lavoro difficile, e probabilmente il traduttore non era intenzionato a seguire scrupolosamente i testi ebraici di cui disponeva. In questa versione, gli adattamenti sono innumerevoli.

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102 Siracide

Da tutto ciò possiamo ben vedere quanto l’approccio alla Sapienza di Ben Sira sia com-plesso. L’originale ebraico non ci è stato trasmesso nei modi soliti. Del testo possediamo poi due versioni, una corta e una lunga. L’origine di quest’ultima è sconosciuta.

1.2. LA TRASMISSIONE DEL LIBRO

Nel giudaismo antico la Sapienza di Ben Sira era stata apprezzata, fino a quando, intorno agli anni 100 d.C., Aquiba ne vietò la lettura. Prima d’allora la si citava, la si tradusse in gre-co, se ne fece una nuova edizione rimaneggiata e a Qumran la leggevano.

Nel IV secolo il divieto di Aquiba venne rimesso in discussione e l’opera di Ben Sira in e-braico fu di nuovo letta, fino all’arrivo del Talmud nel VI secolo. Di nuovo abbandonata, non ricomparve che nella setta giudaica dei Caraiti. È probabile che costoro ne avessero trovato un esemplare in una delle grotte di Qumran, scoperte, come si sa, un poco prima dell’anno 800. Si spiegherebbe così l’origine dei frammenti ebraici ritrovati al Cairo. Ma questa ricomparsa fu soltanto momentanea.

Nel cristianesimo. Non si può documentare che il Nuovo Testamento abbia utilizzato la Sapienza di Ben Sira. Eppure, sono stati i cristiani, senza discontinuità, a trasmettercela nelle varie lingue.

In greco. Già abbiamo detto che il testo breve tradotto in greco ci è pervenuto attraverso i grandi manoscritti onciali dei Settanta, del IV secolo, e che il testo lungo comparve invece in manoscritti bizantini scritti in minuscolo. Tuttavia, questa duplice versione del testo greco si lascia intuire già nei Padri greci. Alcuni utilizzano il testo lungo: per esempio Clemente d’Alessandria, all’inizio del III secolo, e Giovanni Crisostomo, nel IV secolo. Altri si attengo-no invece al testo corto, come Didimo il Cieco, di Alessandria, ancora nel IV secolo.

In latino. La versione latina trasmette il testo lungo ed è perciò quello che di norma citano i Padri latini; il primo fu Cipriano di Cartagine, nel III secolo. Ma vi sono due eccezioni: Giro-lamo citò Ben Sira un’ottantina di volte, ma traducendo in latino un testo greco di tipo corto, e qualche volta anche Agostino fece la stessa cosa, benché in genere egli citi il testo lungo della Vetus Latina.

In siriaco. La versione siriaca, la Peshitta, è trasmessa da molti manoscritti, l’uno o l’altro dei quali è stato anche edito, ma un’edizione critica di questa versione si dimostra un’impresa tale che ancora nessuno è riuscito a portarla a termine. Questa versione fu a sua volta tradotta in arabo fin dal Medioevo in due forme diverse, che molti manoscritti ci trasmettono. Una d’esse si trova nelle Bibbie poliglotte di Parigi e di Londra, edite nel XVII secolo.

Il cristianesimo, sia occidentale che orientale, ha dunque trasmesso e citato la Sapienza di Ben Sira, in traduzioni, utilizzando ora il testo corto e ora il testo lungo.

1.3. L’AUTORITÀ DEL LIBRO

1.3.1. Nel giudaismo

Nonostante l’interesse dimostrato in certe epoche e in taluni ambienti per il libro di Ben Si-ra, il giudaismo non lo riconobbe mai come un libro sacro. Nella Bibbia ebraica dunque non c’è: non ci fu mai e perciò mai ne è stato tolto. Il giudaismo alessandrino ne conobbe la ver-sione greca; e tuttavia dobbiamo chiederci se la raccolta fatta dai Settanta dei libri biblici in greco, in cui anche la versione greca del nipote di Ben Sira venne inclusa, non sia stata essen-zialmente un’iniziativa cristiana: i nostri grandi manoscritti onciali dei Settanta risalenti al IV secolo sono d’origine cristiana.

1.3.2. Nel cristianesimo

Un libro canonico? Nella Chiesa latina, la Sapienza di Ben Sira, chiamata (libro) Ecclesia-stico a motivo dell’uso che se ne faceva nelle comunità ecclesiali, a profitto forse dei catecu-

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meni, venne accolta, pare, senza problemi, e nessuno dovrà perciò stupirsi di vederla citata nel canone delle Scritture fissato nel Concilio d’Ippona del 393, cui assisteva anche Agostino, e poi nei Concili di Cartagine del 397 e del 419, come pure nella lettera che papa Innocenzo I inviò nel 405 al vescovo di Tolosa, Esupero.

In Oriente le cose furono più complicate, a causa probabilmente della vicinanza con le co-munità ebraiche, la cui Bibbia non comprendeva l’opera di Ben Sira. Già nel 170 il problema viene sollevato da Melitone di Sardi, che porta in Palestina una lista di libri biblici in cui Ben Sira non appare. All’inizio del III secolo, al contrario, Clemente d’Alessandria ammette l’au-torità scritturistica della versione greca di Ben Sira, e verso il 240 Origene riconosce la diffe-renza che c’è fra la Bibbia ebraica e l’Antico Testamento cristiano: nel dialogo fra ebrei e cri-stiani non si utilizzeranno perciò che i libri ammessi dai primi; anche se ciò non deve indurre a eliminare dalle nostre Bibbie cristiane i libri che il giudaismo non riconosce come Scrittura. La stessa differenza è percepita, ancora nel IV secolo, da Cirillo di Gerusalemme e Atanasio d’Alessandria, i quali non sanno bene quale collocazione dare ai libri che i Settanta avevano aggiunto alla Bibbia ebraica, come la Sapienza di Ben Sira e la Sapienza di Salomone. Ma per Giovanni Crisostomo e altri, Ben Sira fa parte delle Scritture. A Betlemme, Girolamo, deciso a tradurre in latino soltanto la Bibbia ebraica, esclude apertamente l’autorità canonica della Sapienza di Ben Sira e della Sapienza di Salomone, ma poi si comporta diversamente da que-sta presa di posizione chiara e netta: a partire dal 404 gli accade di citare come Scrittura un versetto di Ben Sira, e così pure la Sapienza di Salomone. L’influenza di Girolamo fu duratu-ra. Nel Medioevo, se Tommaso d’Aquino ammette la canonicità di Ben Sira e della Sapienza di Salomone, a motivo dell’uso corrente che ne fanno le Chiese, il grande commentatore Ni-cola di Lira la esclude. Le esitazioni perdurano in Occidente per tutto il XV e il XVI secolo, dato che il mistico Dionigi il Certosino e il cardinale Caetano, rifiutano la canonicità di tutti i libri aggiunti dai Settanta, dunque anche di Ben Sira. Con Lutero e Calvino, la Riforma prote-stante farà lo stesso, mentre nel 1545 il Concilio di Trento confermerà solennemente la lista dei libri canonici riconosciuti dalla Chiesa cattolica: l’opera di Ben Sira è fra essi.

Oggi la Chiesa cattolica e le Chiese ortodosse includono la Sapienza di Ben Sira, come an-che la Sapienza di Salomone, nel canone delle Scritture. Le comunità della Riforma le esclu-dono. Tuttavia, l’Antico Testamento della Traduzione ecumenica della Bibbia, pubblicato nel 1975, gli riserva un posto fra i libri aggiunti dai Settanta e che sono chiamati «deuterocanoni-ci».

Ma quale testo di Ben Sira un cattolico deve ritenere canonico? La domanda pare pertinen-te, dato che l’originale ebraico non ci venne trasmesso nelle forme solite; ci sono poi versioni differenti e, infine, il testo si presenta sotto due forme, una corta e l’altra lunga. A mio parere, la risposta è questa: la Chiesa cattolica non ha mai definito la lingua né la forma, breve o lun-ga, del libro di Ben Sira, come, peraltro, di nessuno dei libri che essa ammette nel canone. La tradizione ecclesiale è la prova, come minimo, che su questi due punti la Chiesa non intende prendere posizione, salvo a dire che non si può escludere la forma lunga della Volgata. Lo si desume da una decisione del Concilio di Trento, che aveva anche richiesto una buona edizione dei Settanta, la quale venne effettivamente pubblicata nel 1587: lì il testo è quello del mano-scritto Vaticano, cioè il testo corto! Nessuno perciò si stupirà di vedere le Bibbie moderne, cattoliche o ecumeniche, scegliere fra testi diversi. E neppure, a mio parere, si può escludere la canonicità, o perlomeno l’ispirazione, del testo ebraico, nei limiti in cui è recuperabile.

1.4. LA PERSONALITÀ DI BEN SIRA

1.4.1. Il suo nome

Fra i sapienti di cui il nostro Antico Testamento conserva gli scritti, è il solo di cui cono-sciamo il nome dalla stessa sua opera. In greco viene chiamato «Gesù, figlio di Sira», da cui Gesù Ben Sira (vedi Prologo, versetto 7; Sir 50,27 e la firma, dopo 51,30). Gesù dev’essere il nome e Ben Sira il cognome, cioè il nome della famiglia. Questi venne tradotto in maniera da

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indicare anche il titolo del libro: il Siracide. In ebraico, il manoscritto B del Cairo chiama l’autore «Simone, figlio di Gesù...», ma in genere si dà maggior credito alla tradizione greca.

1.4.2. La sua datazione

Se il nipote tradusse l’opera a partire dal 132 e il nonno non scrisse il libro che verso la fi-ne della sua carriera (vedi Prologo, versetti 7-12), possiamo presumere che l’autore compose il libro durante il primo quarto del II secolo a.C. e dovette nascere verso la metà del III secolo, nell’epoca in cui insegnava Qohèlet.

Ciò pare confermato ancora da altri indizi. In primo luogo, nell’opera di Ben Sira non si trova alcuna allusione alla crisi provocata dall’ellenizzazione a oltranza di Antioco IV nel 167 a.C., cui si erano fieramente opposti i Maccabei. In secondo luogo, l’elogio del sommo sacer-dote Simone il Giusto (Sir 50,1-21) suppone la morte di costui; ebbene, egli morì certamente dopo il 198, probabilmente verso il 187. Infine, il testo ebraico di Sir 50,24 ancora non sa che la discendenza del sacerdote Simone perderà il supremo sacerdozio nel 172, con l’ascesa di Menelao (2Mac 4,23-29); la versione greca dunque modificò il testo, dato che le circostanze non avevano permesso che l’auspicio dell’avo si realizzasse.

1.4.3. Il contesto storico

Gesù Ben Sira era maestro di sapienza a Gerusalemme. La Giudea e la Samaria facevano parte d’una regione, la Celesiria, che si trovava, nel III secolo a.C., sotto la dominazione dei Lagidi d’Egitto. Concupita dai Seleucidi d’Antiochia per il denaro che l’imposta avrebbe pro-curato, nel 198 a.C. finì per passare sotto il controllo di Antioco. Antioco III concesse allora a Gerusalemme dei favori di cui resta eco nell’inizio dell’elogio del sommo sacerdote Simone il Giusto (Sir 50,1-4).

A Gerusalemme, era una famiglia di finanzieri, quella dei Tobiadi, a riscuotere l’imposta, di cui naturalmente tratteneva per sé non piccola parte. Già sostenitori dei Lagidi, nel 198 era-no poi passati a sostenere i Seleucidi; eccetto Ircano, il principale esattore, che, rifugiatosi in Transgiordania, restò fedele ai Lagidi. Ma la sua fortuna era custodita nel tesoro del tempio di Gerusalemme. Ebbene, nel 190 Antioco III era stato battuto dai Romani a Magnesia, presso Smirne, e i vincitori gli avevano imposto il pagamento d’una forte somma, che il suo succes-sore, Seleuco IV, non aveva ancora finito di pagare. L’episodio di Eliodoro, del 175, narrato in 2Mac 3, va probabilmente messo in rapporto con questo debito verso i Romani: la fortuna d’Ircano avrebbe potuto fornire un bell’aiuto! A riguardo di questi avvenimenti, vedi Dn 11,10-20.

Ci si può dunque rendere ben conto come l’epoca di Ben Sira sia stata tutt’altro che tran-quilla. Un testo come Sir 10,8 parla per esperienza: «La sovranità passa da una nazione all’al-tra con ingiustizia, violenza e denaro!».

1.4.4. Il sapiente Ben Sira

È anche il solo sapiente del nostro Antico Testamento che abbia parlato di sé. Fin dalla giovinezza egli chiese, come Salomone (1Re 3,4-15), la sapienza al Signore, che gliela con-cesse, e fedelmente si diede a seguirla (Sir 51,13-17). Ripieno d’essa, decise allora d’aprire una scuola, o meglio un’accademia, in cui trasmettere la sua esperienza alla gioventù (Sir 51,23-30). Dopo aver lungamente meditato la Torāh, i profeti e gli altri libri del patrimonio spirituale d’Israele, cominciò a mettere per iscritto l’essenza del suo insegnamento sapienziale (Prologo, versetti 7.12). Ripieno della sapienza che Dio gli donava, la lasciava traboccare: at-traverso lui, i suoi discepoli avrebbero avuto accesso alla sapienza, in lui l’avrebbero scoperta; più ancora, la sapienza, di cui egli non era che il canale di trasmissione, avrebbe poi valicato i limiti del tempo e dello spazio: avrebbe superato le frontiere e le generazioni. Aveva coscien-za di prendere la staffetta dai profeti, di continuare la loro eredità, e forse si augurava che un giorno la sua opera venisse inserita fra i libri sacri (Sir 24,30-34; 33,16-18). Fu anche, lascia

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intendere, il consigliere di principi (Sir 39,4), e ciò lo portò all’estero, esperienza ben utile per conoscere il cuore umano e la varietà del mondo, ma non senza rischi (Sir 34,12-13). Dovette anche subire la calunnia, che stava per rovinarlo; soltanto la preghiera gli ottenne l’aiuto divi-no, e di ciò ringraziò il suo Dio (Sir 51,1-12).

L’opera permette d’intuire anche taluni aspetti della sua personalità. Da sapiente autentico, cercò l’equilibrio e il buon senso. In un momento in cui la cultura greca cominciava ad amma-liare il Vicino Oriente, tentò di mostrare che il giudaismo non aveva da arrossire del proprio patrimonio. Restava aperto all’ellenismo, eccetto quando dei ricchi ne facevano pretesto per un’arroganza sprezzante dell’antica tradizione giudaica. Fu sedotto dalla liturgia del santuario e per i sacerdoti aveva un’autentica venerazione; era anche convinto del valore sapienziale della Torāh; ma questi interessi non possono far concludere che dovesse per forza essere un sacerdote.

Più sereno di Qohèlet, trovava la pace nella sapienza e, di fronte al mistero, si rimetteva a Dio (vedi Sir 3,17-24; 39,32-34). Come Qohèlet, neanche lui aveva della luce sull’aldilà della morte. Una vita umana vissuta fino alla fine con dignità gli pareva eminentemente rispettabile e fruttuosa, senza che l’angoscia della morte dovesse farne cosa gretta, lui che confessava: «la speranza dell’uomo: i vermi» (Sir 7,17b, ebraico). Nessun’altra retribuzione, pensava, se non il buon ricordo lasciato quaggiù dall’uomo giusto e onesto e una discendenza non meno giusta di lui (Sir 16,1-3; 44,8-15). Saranno le posteriori aggiunte della seconda edizione del libro ad aprire più incoraggianti prospettive sull’aldilà.

1.5. COME È STRUTTURATO IL LIBRO DI BEN SIRA?

La Sapienza di Ben Sira è il libro sapienziale più lungo del nostro Antico Testamento. È e-vidente che l’autore avrà impiegato un bel po’ a scriverlo. Ne avrà egli stesso pubblicato una prima parte (Sir 1–24, o Sir 1–23), dando un testo completo più tardi? È un’ipotesi di cui si discute. Alcuni passi come Sir 24,34; 33,16-18; 49,14-16; 50,27-29 alimentano il dibattito. La questione più fondamentale è però sapere come Ben Sira abbia strutturato la sua opera. Ma su questo punto gli esegeti non hanno ancora una risposta soddisfacente. È chiaro che Ben Sira non scrisse dei semplici proverbi, alla maniera delle collezioni salomoniche di Pr 10,1–22,16 e Pr 25–29. Ben Sira propone invece delle riflessioni più o meno elaborate, alla maniera di Pr 1–9; 30–31. È anche chiaro che l’opera di Ben Sira non è costruita come il libro di Giobbe, che presenta una trama fin nel modo di procedere. In Ben Sira è appunto l’ordine delle peri-copi che il lettore non vede con chiarezza. Soprattutto prima di Sir 42,15, perché poi, da Sir 42,15 fino a Sir 43,43, il sapiente canterà le meraviglie della creazione, e poi ancora da Sir 44,1 a Sir 50,24 ripercorrerà la storia biblica, sulla scorta del Pentateuco, del corpus profetico e di certi scritti più recenti, da cui estrae soltanto pochi grandi uomini che risollevarono il tempio e la città di Gerusalemme, in particolare Simone il Giusto.

La questione dell’ordine delle pericopi si pone dunque per tutto il testo che precede Sir 42,15, ma anche per il capitolo finale Sir 51. Una prima risposta la dà l’importanza che Ben Sira attribuisce alle sue esposizioni sulla Sapienza e sul sapiente. La Sapienza ha il ruolo prin-cipale in Sir 1,1-30 (in relazione con il timore del Signore, necessario per accogliere il dono divino), Sir 4,11-19 e Sir 6,18-37 (sullo sforzo richiesto per procurarsi la Sapienza), Sir 14,20 -15,10 (sulla felicità di chi l’acquisisce), Sir 24,1-29 (l’elogio della Sapienza). A partire poi dalla conclusione di quest’ultimo testo, collocato al centro del libro, è il sapiente stesso a pre-sentarsi sul proscenio: in Sir 24,30-34 (Ben Sira trabocca di sapienza), Sir 37,16-26 (sul vero sapiente), Sir 38,24–39,11 (la sapienza dello scriba in confronto con gli altri mestieri), Sir 51,13-30 (Ben Sira, che ha chiesto e ricevuto la Sapienza, apre una scuola).

Questa prima risposta fa vedere che il rapporto fra la Sapienza e il sapiente scandisce tutto il libro, ma il problema resta: come Ben Sira ha organizzato le altre pericopi che si trovano fra l’uno e l’altro di questi passi dedicati alla Sapienza e al sapiente? È esattamente a questa do-manda che al momento gli esegeti non sono ancora in grado di dare se non risposte parziali.

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È possibile che ci sia un rapporto d’inclusione fra Sir 1,1-30 e Sir 51,13-30 e che, allora, Sir 51,1-12 (il ringraziamento di Ben Sira scampato a una prova) sia in relazione inclusiva con Sir 2,1-18 (il sapiente deve prepararsi alla prova).

Altrove, sono soprattutto dei trattatelli che Ben Sira ha inserito. Eccone qui l’uno o l’altro: Sir 9,17–10,18 è un trattatello a riguardo di coloro che dominano i popoli con arroganza, cui fa eco Sir 10,19–11,6, che è un poema sulla vera felicità; Sir 15,11–16,14 e Sir 16,17–18,14 sono due discussioni complementari sulla responsabilità morale dell’uomo e sul perdono di-vino; in Sir 22,27–23,27 una duplice preghiera introduce due esposizioni, l’una sulla maniera di parlare, l’altra sull’appetito sessuale; Sir 25,1–26,18 tratta dell’armonia coniugale; Sir 29,1-20, della maniera d’usare il proprio denaro per rendere servizio al prossimo; Sir 31,12–32,13, del comportamento da tenere durante un banchetto; Sir 36,23–37,15, del discernimento circa la scelta d’una persona con cui confidarsi, sposa, amico o consigliere che sia.

Potremmo ancora individuare altri insiemi, ma al momento è ben difficile esplicitare in modo migliore l’ordine che Ben Sira intese mettere nel suo libro.

2. IL MESSAGGIO Il Siracide non offre una teoria o una teologia sistematica, esposta con ordine e coerenza

logica. I temi trattati sono quelli tradizionali delle Scritture sacre d’Israele, ripresi e variati in modi differenti. La prospettiva generale è conservatrice ed è pervasa dallo spirito e dalle idee deuteronomici. Ci limiteremo qui a enucleare ed evidenziare alcuni temi teologici portanti del libro.

2.1. TIMOR DI DIO E SAPIENZA

Il «timor di Dio», da intendersi come «rispetto di Dio», è senza dubbio una delle idee cen-trali di Ben Sira. L’espressione o un suo equivalente ricorre circa 55/60 volte. Questo tema, che ricorre un po’ in tutta l’opera, è dominante nei cc. 1–2; anche nel c. 10 questo tema è rile-vante, mentre è assente in alcune sezioni, come per es. in 3,17–6,4 e 11,1–14,19. J. Haspecker lo considera il tema centrale e decisivo di tutto il libro; ma altri (G. von Rad e J. Marböck) so-stengono che non il «timor di Dio» bensì la «sapienza» è il tema fondamentale, il soggetto del libro.

Il timor di Dio è un’intensa e viva relazione personale di amore con Dio (1,28–2,6; cfr. 32,14-16), contrassegnata e pervasa da umiltà e sottomissione alla sua sovrana maestà (3,17-20) e da fiducia nella sua bontà e misericordia (2,6-14; cfr. 34,13-17). Significativa è l’esor-tazione, composta di due espressioni parallele e sinonimiche, di Sir 7,29-30: «Temi Dio con tutto il cuore... Ama il tuo Creatore con tutte le tue forze». La spiritualità di «chi teme il Si-gnore» appare in modo chiaro nel caloroso invito di 2,1-18.

Non è esclusa l’accezione nomista di «timore di Dio» inteso come osservanza dei coman-damenti, come appare da 2,15-16. In 19,20 il timore di Dio è unito indissolubilmente con la sapienza e l’osservanza della Legge: «Il timore del Signore è sintesi della sapienza, nell’osser-vare la sua Legge sta tutta la sapienza». Ben Sira non sembra affatto essere un pensatore su-perficiale che propone una morale piatta e prosaica. Il suo modo di intendere il «timore del Signore» rivela un pensatore profondo, che dà un peso decisivo all’intimo, al cuore dell’uo-mo. Questo primato dell’interiorità nel suo pensiero pedagogico assicura che egli, anche nella sua dottrina spirituale, dà un peso peculiare all’intimo rapporto con Dio... rispetto ai compor-tamenti concreti che da esso fluiscono.

Il timore del Signore è l’inizio (1,14), la pienezza (1,16), la corona (1,18) e la radice (1,29) della sapienza: soggettivamente, la sapienza è in pratica identica al timore di Dio; oggettiva-mente, la sapienza è il libro della legge di Mosè (c. 24). «Sapienza» è un termine che in Sira-cide ricorre 55 volte (in greco); ben 11 volte solo in Sir 1. La vera essenza della sapienza è il

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timore di Dio, che dà all’israelita una saggezza superiore alla sophia della cultura ellenistica. Essendo dono di Dio, la sapienza può essere accolta soltanto con un atteggiamento di dispo-nibilità che si concretizza nel timore di Dio e nell’osservanza della torāh. La tesi fondamenta-le del Siracide, infatti, può essere così formulata: la sapienza, che si identifica concretamente con la torāh, può essere «acquistata» soltanto da chi ha il timore di Dio e osserva i comanda-menti.

2.2. L’UOMO (SIR 16,24–17,14)

Dopo una solenne introduzione (16,24-25) seguono quattro strofe: a) 16,26-30; b) 17,1-4; c) 17,5-10; d) 17,11-14. Questo brano offre una profonda visione dell’uomo in rapporto a Dio e al creato e ci aiuta a

capire l’antropologia di Ben Sira. Nella pericope l’autore risponde alle obiezioni avanzate in 16,17-23 che tendono a negare

che Dio si prende cura dell’uomo. Ben Sira afferma che Dio ha creato l’uomo dalla terra, mortale come tutti gli altri esseri animati, ma vivente immagine di Dio e in quanto tale con il compito di dominare l’universo. La morte non è vista come castigo del peccato; l’uomo è mortale per la sua condizione di creatura terrena, secondo il limite fissato da Dio. L’uomo è un essere intelligente e responsabile, capace di scegliere liberamente (vv. 6-7). Dio «ha posto il suo occhio nei loro cuori» (v. 8a), cioè ha comunicato all’uomo la conoscenza divina di tut-te le cose; vi è quindi nell’uomo un sapere e un riconoscere che termina nella lode (vv. 9-10). È compito dell’uomo lodare Dio nella contemplazione delle sue opere.

Nella quarta strofa l’orizzonte è israelitico. Dio ha dato una legge e stabilito un’alleanza: si tratta della Legge data al Sinai quando Dio manifestò la sua gloria, una legge valida per ogni uomo. Anzi, la legge data ad Israele è valida in quanto significa per l’uomo capacità di cono-scenza e di scelta: essa è un modello indispensabile perché l’uomo non solo possa capirsi co-me creatura, ma perché possa realizzare il suo compito all’interno del cosmo. In altri termini, la legge è una forma di conoscenza e di sapienza.

Ben Sira parla dell’uomo in generale, ma dal punto di vista di Israele. Ciò significa due co-se: a) In Israele ciò che fu dato all’inizio dell’umanità è realizzato di nuovo. Per mezzo di I-sraele possiamo capire o percepire per noi quali furono gli inizi dell’umanità...; b) Una pro-fonda tendenza ed esigenza dell’umanità si realizza in Israele per dono ed elezione divini, non come un monopolio, ma perché Israele possa condividerli con gli altri. La vicenda del popolo di Israele è un paradigma per capire l’uomo.

2.3. SAPIENZA E LEGGE (SIR 24,1-34)

Questo capitolo è il centro e il culmine di tutto il libro e parte essenziale per la teologia del-la sapienza. Di questo capitolo non possediamo l’originale ebraico e quindi lavoriamo sulla versione greca. Circa la sua struttura letteraria sono state avanzate molte proposte. Noi se-guiamo L. Alonso Schökel, che divide il capitolo in quattro strofe dove parla la sapienza, e al-tre due nelle quali parla il sapiente:

la sapienza cosmica (vv. 3-6); la sapienza storica (vv. 7-11); dieci comparazioni (vv. 12-15); invito agli uomini (vv. 16-22);

il saggio parla della Legge (vv. 23-29); il saggio parla di sé (vv. 30-34).

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Il discorso della sapienza è pronunciato nel tempio di Gerusalemme («nell’assemblea dell’Altissimo», v. 2), dove si celebra il culto liturgico. Al popolo riunito la Sapienza rivolge il suo discorso, come fosse una signora, facendo conoscere la sua origine divina, la sua grandez-za e la sua dignità regale (vv. 3-4). Essa si espande su tutto l’universo e domina su ogni popo-lo e nazione (vv. 5-6). Pur avendo un dominio universale, la Sapienza cerca una dimora tra gli uomini (v. 7) e riceve dal Creatore l’ordine di stabilirsi in Israele (v. 8). Pur essendo creata «prima dei secoli, fin dal principio» (v. 9), cioè pur trascendendo il tempo, la sapienza si fa «storia» unendosi al popolo eletto e abitando al centro di esso, sul Sion, nel tempio di Gerusa-lemme (vv. 10-11). Qui essa esercita una funzione liturgica, sacerdotale; anzi, sembra identifi-carsi con lo stesso culto israelitico (v. 10). La Sapienza è «cresciuta» (verbo ripetuto 3 volte) come albero in mezzo al popolo di Dio (vv. 12-16): dieci paragoni presi dal mondo vegetale descrivono il crescere di quest’albero nel giardino paradisiaco che è il paese di Israele, dove sono prodotti gli elementi usati per il culto (olio, incenso, aromi).

Nei vv. 17-22 la sapienza enumera i suoi deliziosi prodotti che essa offre a chi accetta il suo invito; anzi essa dona se stessa (v. 20). Poi l’immagine viene interpretata: la Sapienza è la stessa torāh, cioè il Pentateuco (v. 23). Per Ben Sira è la sapienza, che è diffusa e si espande nella creazione e nell’umanità quale ordine primordiale immanente al mondo e voluto da Dio, trova la sua migliore, concreta e visibile formulazione nella torāh data ad Israele; chi, dunque, cerca il senso del reale (la sapienza) deve leggere in profondità la torāh: il sapiente israelita non ha nulla da invidiare agli altri.

Nei vv. 24-27 ritorna il tema del paradiso; ma qui è evidente che Ben Sira vede nella terra promessa il paradiso dove la sapienza fa abbondare i suoi frutti; la ricchezza della sapienza è tanto grande che essa è incomprensibile (vv. 28-29).

Se questo è la sapienza, che cos’è il sapiente? Al v. 30 prende la parola il saggio. Il sapien-te è come un canale (v. 31) o come una fonte di luce (v. 32) che illumina tutta la terra e le ge-nerazioni future (v. 33): la sapienza oltrepassa i confini spaziali della terra di Israele e quelli del tempo. Il sapiente si mette al servizio di ogni uomo che davvero cerchi la sapienza (v. 34).

2.4. LA PREGHIERA

Spesso e in varie forme Ben Sira parla della preghiera, almeno tanto quanto della Legge. C’è la preghiera del povero che Dio ascolta (35,14-26) e la supplica dell’intero popolo per la propria liberazione (36,1-22). L’uomo non può controllare tutto e perciò deve supplicare Dio, confidare in Lui che tutto dirige con misteriosa sapienza: «Al di sopra di tutto questo prega l’Altissimo perché guidi la tua condotta secondo verità» (37,15). Il malato prega per la guari-gione (38,9) e il medico per far bene la diagnosi (38,14). Lo studente che vuole comprendere la sapienza, oltre che allo studio della Legge deve soprattutto dedicarsi alla preghiera (39,5-6), perché la sapienza è dono di Dio. Un accento particolare è posto sulla preghiera che chiede il perdono dei peccati (17,25-26; 7,10; 18,21; 21,1; 38,9-10; 39,5). L’autentica conversione a Dio si concretizza nella preghiera (17,25-26.29).

La lode di Dio è il senso ultimo della vita umana (17,10) e conviene al sapiente in modo particolare (15,9-10). Ben Sira invita festosamente alla lode di Dio (39,14-15); da 42,15 a 43,33 innalza un inno di lode a Dio per tutte le meraviglie che Egli compie nella natura e nella storia. La lode è il vero centro del culto (50,16-24); nella liturgia convergono creazione, storia e timor di Dio.

Non tutti gli studiosi ammettono un atteggiamento positivo di Ben Sira verso la liturgia. Secondo J.G. Snaith, Ben Sira attribuirebbe importanza più alla giustizia sociale e alla legge morale che alla liturgia. A me non sembra che si debba sminuire l’importanza del culto in Ben Sira, che tra l’altro visse in un’epoca in cui il culto era praticamente l’unico mezzo per Israele di affermare la propria identità. Vedi anche quanto dice di Aronne (Sir 45,6-22).

La preghiera di 36,1-22 fa di Israele, Gerusalemme, Sion e del tempio il «luogo» dell’agire e del rivelarsi di Dio, il banco di prova della fedeltà di Dio alle sue promesse.

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2.5. TEODICEA

Il problema della teodicea, tanto urgente per Ben Sira in un’epoca in cui il giudaismo era sfidato dall’ellenismo, resta attualissimo anche per noi. Il termine «teodicea» indica l’interro-gativo che sorge quando dalla coscienza di ogni pur minima disarmonia dell’esistenza si im-pone il problema più vasto di Dio; per Israele in particolare di quel Dio che si prende a cuore la sorte del suo popolo.

Nella creazione e tra gli uomini ci sono realtà e aspetti contrari (bene-male, vita-morte, lu-ce-tenebre, il buono-il malvagio, ecc.): fin dall’inizio Dio ha creato tutte le cose a due a due, l’una di fronte all’altra (cf. 33,15). Ben Sira non considera la realtà ontologicamente e pertan-to non scinde le creature su due fronti, contrapposti secondo i canoni di un dualismo determi-nistico; ma ha una concezione dinamica, nella quale le cose si rivelano più per quello che val-gono che per quello che sono. Gli elementi creati sono visti nella loro funzionalità storica. In questa prospettiva vanno considerate sia l’ambivalenza delle cose create, alcune delle quali hanno una funzione punitiva (39,12-35), sia i fenomeni naturali, come testimonianza della gloria del Creatore (42,15–43,33). Non c’è posto per un dualismo metafisico.

Anche l’esistenza umana è piena di antinomie e di miserie, e infine è soggetta alla morte (15,11–18,14; 40,1-17; 41,1-13). Ben Sira risponde alle obiezioni di coloro che attribuiscono a Dio il male dell’uomo o che giustificano il male con la noncuranza di Dio nei confronti del mondo. Per lui è chiaro che l’uomo è libero e responsabile. Il male è il rifiuto della Legge data da Dio, è insensatezza (16,23) non solo perché resta incomprensibile, essendo rifiuto di sa-pienza, ma perché è un non-operare secondo le vie concrete degli insegnamenti della legge e della storia. Il cosiddetto problema del male diventa allora una questione esclusivamente sto-rica ed antropologica. Ben Sira non dice nulla in realtà sull’origine del male, limitandosi solo ad affermare la libertà e la responsabilità umana. Dio non può essere la causa del male. La morte è la sorte comune a tutti gli uomini e rappresenta la fine normale cui ogni creatura è soggetta. Di essa non si può accusare Dio. Il sapiente è consapevole della complessità della vita umana e di fronte al mistero resta in silenzio adorante.

2.6. LE DONNE

Della donna si parla in molti testi, soprattutto nelle seguenti pericopi: 23,16-27; 25,1–26,28; 41,14–42,14. Ben Sira è un uomo e si rivolge a uomini; egli si mette quasi sempre dal punto di vista dell’uomo, non della donna. Anche quando dà un giudizio negativo sulle rela-zioni tra uomo e donna, Ben Sira giudica dal punto di vista dell’uomo, tenendo conto della sua debolezza e fragilità. I suoi consigli sono diretti a giovani orientati al matrimonio e perciò tutto quello che dice sulla donna è in funzione della vita coniugale.

La sposa può essere buona o cattiva. L’uomo può rovinare la famiglia, ma quando il male viene dalla sposa è la morte del focolare domestico: «A causa della donna l’inizio della colpa e a causa di essa periamo» (25,24). Secondo М. Gilbert questo difficile versetto significa: è la rovina di un focolare quando la sposa è fonte prima di malvagità.

Tuttavia Ben Sira non è affatto un misogino. In verità, egli dice molto poco della donna in sé, perché la vede in funzione della famiglia e di ciò che essa è per l’uomo. Non parla di ciò che ella può e deve attendersi dal marito; non parla di un vero dialogo coniugale, benché rico-nosca il valore straordinario dell’armonia tra gli sposi (25,1). Ogni donna resta per l’uomo an-che sposato una potenza di attrazione davanti alla quale egli deve riconoscere la sua debolez-za. Ben Sira resta naturalmente legato ai condizionamenti culturali e sociologici del suo tem-po: la donna, per quanto responsabile dei suoi atti (23,22-23) quanto l’uomo, non ha gli stessi diritti nella società e nella famiglia, in cui lo sposo è il ba‘al (padrone, capo).

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110 Siracide

2.7. ELOGIO DEI PADRI (CC. 44–49)

Questa sezione è un insieme letterariamente e contenutisticamente ben compaginato in uni-tà. Qui è il «climax» dell’opera, cui tendono i capitoli precedenti. La «laus patrum» è anche la sezione più originale di tutta l’opera. Si tratta di una rilettura del passato nel genere del mi-drash haggadico.

Ben Sira traccia una galleria di «medaglioni» dei grandi eroi, buoni e malvagi, del passato con uno scopo didattico rivolto al presente. Il tema dell’alleanza percorre tutta la visione sira-cidea della storia: nei cc. 44–49 il termine berît ricorre 11 volte. Il concetto di alleanza di Ben Sira si avvicina a quello della tradizione sacerdotale: l’alleanza è una benevola e libera dispo-sizione della divina Provvidenza, una promessa fatta da Dio. Aronne è, tra i personaggi del-l’alleanza, quello che ha maggior rilievo; appare così che per Ben Sira la liturgia, il culto pub-blico reso al Dio di Israele è la gloria più grande della religione giudaica. Ma il culto non è af-fatto separato dalla sapienza e dalla legge.

Stranamente, Ben Sira non parla dell’esilio; anzi, si può dire che egli implicitamente lo ne-ga. Meraviglia anche il suo silenzio su Esdra. È di R.A.F. Mac Kenzie l’ipotesi che Ben Sira discendesse da una famiglia che non aveva mai conosciuto l’esilio ed era rimasta in Palestina; ciò spiegherebbe anche la sua scarsa simpatia per l’opera di riforme radicali di Esdra.

2.8. LE PROSPETTIVE FUTURE

Ben Sira ne parla poco. Per ciò che concerne la nazione, non pensa a un messia che possa un giorno stabilire un ordine nuovo1. Egli spera che il sacerdozio sadocita continui a mantenersi alla testa del suo popolo (50,24 ebraico). Prega per la restaurazione d’Israele, il compimento delle profezie e l’unità del genere umano nel riconoscimento dell’unico vero Dio (36,1-22). Egli è si-curo della perennità d’Israele (37,25).

Quanto al fine ultimo dell’individuo, Ben Sira non è un innovatore2. Parla della morte in un tono disincantato (14,11-19; cfr. 40,1-11; 41,1-4). Per il dopo morte egli prevede solo lo šeol (14,16), dove nessuno loda il Signore (17,27-28): «Ciò che attende l’uomo sono i vermi!» (7,17 ebraico). Di uno che è morto rimane solo il ricordo della sua saggezza (39,9-11) o delle sue buo-ne azioni (41,12-13; 4,10-15).

Alcune aggiunte del testo lungo hanno cercato invece di superare queste prospettive future abbastanza strette. Secondo queste aggiunte, dopo la morte ogni individuo avrà il suo giorno di giudizio, in cui Dio lo “visiterà” ed esaminerà tutte le sue azioni. Per i cattivi, sarà un gior-no d’ira e di vendetta; essi saranno gettati nelle profondità della terrà per ricevervi la loro “sorte” di tenebre e di dolore. Per i giusti sarà l’ingresso nel mondo futuro, il mondo santo, la “parte” di verità; essi gioiranno della vita eterna, ricompensa senza fine che comporta l’onore ricevuto da Dio e una gioia perenne. Uno stadio intermedio tra la morte e la sorte finale della ricompensa eterna viene segnalata in Sir VL 24,32(45) e forse 44,16 (“nel paradiso”).

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA

Commenti

DUESBERG, H. - FRANSEN, I. (edd.), Ecclesiastico (BG), Torino-Roma 1966. L’opera è introdotta da un’analisi dei problemi critico-testuali e critico-letterari (pp. 1-90). La tra-

duzione italiana (sulle pagine di sinistra) e il testo latino (pagine di destra) sono accompagnati da un modesto apparato critico e da commenti relativamente ampi.

1 Cfr. A. CAQUOT, Ben Sira et le messianisme, in Sem 16 (1966) 43-68; J. D. MARTIN, Ben Sira’s Hymn to the

Fathers. A Messianic Perspective, in OTS 24 (1986) 107-123. 2 Cfr. V. HAMP, Zukunft und Jenseits im Buche Sirach, in Festschrift Nötscher (BBB 1), Bonn 1950, 86-97; M.

FANG CHE-YONG, Ben Sira de novissimis hominis, in VD 41 (1963) 21-38.

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Siracide 111

LÉVI, I., L’Ecclésiastique ou la Sagesse de Jésus, fils de Sira, 2 voll., Paris 1898, 1901. È uno dei primi grandi commenti che seguirono le scoperte della geniza del Cairo. Nonostante la

precisione mostrata nell’analisi di alcuni problemi testuali, l’opera non ha ottenuto la fama, peraltro meritata, dei commenti di Smend e di Peters.

MORLA, V., Eclesiástico, Salamanca-Madrid-Estella 1992. Si tratta di uno dei pochi commenti (testo compreso) scritti originariamente in spagnolo. Dopo

un’introduzione di dodici pagine, dedicata agli aspetti generali dell’opera, l’autore affronta il commen-to dell’Ecclesiastico suddividendolo in unità letterarie per circa 220 pagine. Non è un commento scientifico ma un’opera di alta divulgazione concepita più per pastori e studenti che per gli specialisti.

PETERS, N., Das Buch Jesus Sirach oder Ecclesiasticus übersetzt und erklärt, Münster 1913. Dopo un’introduzione di settantotto pagine l’autore presenta un ampio e ottimo commento (pp. 1-

454) nel quale spicca l’ottima analisi del testo ebraico e delle versioni greca e latina. Nonostante la remota data di pubblicazione lo si può considerare, con l’opera di Smend, il miglior commento mo-derno all’opera del Siracide.

SEGAL, M.TS., Sefer Ben Sira haššalem, Yerushalaim 21958. Commento in ebraico moderno. La sua maggiore utilità per lo studioso consiste nella riproduzione

del testo ebraico dell’Ecclesiastico vocalizzato. Il commento, talora superficiale, presenta qualche la-cuna. La bibliografia (pp. 71-72.) è eccessivamente ridotta.

SKEHAN, P.W. - DI LELLA, A.A., The Wisdom of Beп Sira (AB 39), New York 1987. I nomi degli autori, noti specialisti in materia, sono di per sé una garanzia per questo commento

della «Anchor Bible». La traduzione e le note si devono a Skehan, che morì prima di vedere conclusa l’opera. L’introduzione e il commento sono opera di Di Lella. L’introduzione (pp. 3-92) è ampia e completa; la bibliografia (pp. 93-127) è praticamente esaustiva. Il commento (pp. 131-580), accompa-gnato dalla traduzione, è buono anche se non privo di una certa farraginosità e di scarsa profondità. Molto utile, infine, l’indice tematico (pp. 593-620).

SMEND, R., Die Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1906. Senza dubbio si tratta del miglior commento critico e teologico al Siracide. A estesi prolegomena –

Gesù Ben Sira e la sua opera, il testo ebraico, la traduzione greca del nipote, una seconda traduzione greca, le retrotraduzioni dal greco, le traduzioni siriaca e araba, la ricostruzione del testo originale (pp. XIV-CLIX) – fa seguito un’approfondita ed erudita analisi testuale (pp. 1-517). Si segnala, in partico-lare, l’intuito dell’autore e la sua abilità nel ricostruire a partire dal greco un ipotetico testo ebraico (o-ve manca) che in molti casi è stato confermato da successive scoperte.

SNAITH, J.G., Ecclesiasticus, Cambridge 1974. Questo commento fa parte del «Cambridge Bible Commentary». Opera di alta divulgazione, com-

porta la traduzione inglese e il commento articolato per pericopi.

Altre opere interessanti

AA. VV., Sefer Ben Sira, Yerushalaim 1973. Viene qui presentato l’originale ebraico nella collana «Dizionario Storico della Lingua Ebraica». Si

tratta di uno studio dedicato al testo, alle concordanze e all’analisi lessicale del Siracide. Dopo un’introduzione sulle caratteristiche tecniche del libro, questo è suddiviso in tre parti: 1. il libro di Ben Sira e le sue versioni (pp. 1-69), con la riproduzione del testo originale non vocalizzato; 2. concordan-ze (pp. 71-314); 3. elenchi lessicali (pp. 315-517). Opera di riferimento obbligato.

BOCCACCIO, P. - BERARDI, G., Ecclesiasticus. Textus hebraeus secundum fragmenta reperta, Roma 1986.

L’opera presenta la riproduzione del testo dei diversi manoscritti ebraici dell’Ecclesiastico. Pur-troppo non sono stati riprodotti i manoscritti di Qumran e Masada.

DI LELLA, A.A., The Hebrew Text of Sirach. A Text-Critical and Historical Study, The Hague 1966. Opera fondamentale per lo studio dell’autenticità dei manoscritti della geniza del Cairo. Una prima

parte, dedicata allo stato della questione, consente all’autore di affrontare il problema dell’autenticità

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112 Siracide

dei manoscritti ebraici dal punto di vista della critica testuale (pp. 47-77) e dal punto di vista storico (pp. 78-105). Nel cap. IV Di Lella sostiene la retrotraduzione di alcuni brevi passi dal testo siriaco.

RÜGER, H.P., Text und Textform im hebräischen Sirach. Untersuchungen zur Textgeschichte und Textkritik der hebräischen Sirach fragmente aus der Kairoer Geniza (BZAW 112), Berlin 1970.

Si tratta di un’indispensabile opera di critica testuale basata sulla supposizione di due forme testuali nell’Ecclesiastico. Presenta uno studio dei doppioni nel manoscritto A; dei paralleli tra i manoscritti A e C; dei paralleli tra i manoscritti A e B; il manoscritto A come testimone della trasformazione del testo ebraico di Ben Sira; l’età delle due forme testuali dell’Ecclesiastico.

SMEND, R., Griechisch-syrisch-hebräischer Index zur Weisheit des Jesus Sirach, Berlin 1907. Dopo una breve introduzione (pp. III-XIII) l’autore presenta il lessico greco del Siracide con le cor-

rispondenti voci ebraiche e siriache accompagnate dalle citazioni dei passi in cui ricorrono (pp. 1-251). Si tratta, dunque, della prima concordanza sul Siracide: di grande utilità per il ricercatore.

VATTIONI, F., Ecclesiastico. Testo ebraico con apparato critico e versioni greca, latina e siriaco, Na-poli 1968.

Un’introduzione dedicata a questioni generali (autore, data, ecc.) e una bibliografia scelta precedo-no il testo originale dell’Ecclesiastico e tre versioni. Il testo ebraico occupa la parte superiore delle pa-gine di destra; nella parte inferiore della stessa pagina viene riprodotta la versione siriaca. Le pagine di sinistra sono occupate dalle versioni greca e latina. Questa disposizione è pratica, perché il lettore può apprezzare in modo sinottico i punti di contatto e le divergenze. Purtroppo la versione siriaca non è stata sottoposta a una revisione critica.

YADIN, Y., The Ben Sira Scroll from Masada, Jerusalem 1965. La natura del manoscritto frammentario scoperto a Masada è esposta nell’introduzione. La prima

parte dell’opera è dedicata a un esauriente studio critico-testuale; nella seconda parte l’autore presenta una traduzione inglese del testo restaurato; l’opera si conclude con la riproduzione fotografica delle pagine del manoscritto. Fatta eccezione per alcune opinioni erronee – sulla natura del manoscritto e la lettura di alcuni passi dubbi –, si tratta di un libro d’indispensabile consultazione.

Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:

SISTI, A., Riflessi dell’epoca premaccabaica nell’Ecclesiastico, in RivBib 12 (1964) 215-256. PRATO, G.L., Il problema della teodicea in Ben Sira. Composizione dei contrari e richiamo alle origini

(AnBib 65), Roma 1975. VIRGULIN, S., Ecclesiastico o Siracide, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Intro-

duzione alla Bibbia 3), Bologna 1978, 443-472. MINISSALE, A., Siracide (NVB 23), Roma 1980. BOCCACCINI, G., Origine del male, libertà dell’uomo e retribuzione nella Sapienza di Ben Sira, in He-

noch 8 (1986) 1-37. ADINOLFI, M., Il medico in Sir 38,1-15, in Anton 62 (1987) 172-183. PRATO, G.L., Classi lavorative e otium sapienziale. Il significato teologico di una dicotomia sociale

secondo Ben Sira (38,24–39,11)», in G. DE GENNARO (ed.), Lavoro e riposo nella Bibbia (Stu-dio Biblico Teologico Aquilano), Napoli 1987, 149-175.

RAVASI, G., Siracide, in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988, 1490-1496. MINISSALE, A., Siracide. Le radici nella tradizione (LoB 1,17), Brescia 1988. ZATELLI, I., Yir’at JHWH nella Bibbia, in Ben Sira e nei rotoli di Qumran: considerazioni sintattico-

semantiche, in RivBib 36 (1988) 229-237. ZAPPELLA, M., Criteri antologici e questioni testuali nel manoscritto ebraico C di Siracide, in RivBib

38 (1990) 273-300. MINISSALE, A., La versione greca del Siracide. Confronto con il testo ebraico alla luce dell’attività

midrascica e del metodo targumico (Analecta Biblica 133), Roma 1995. DI LELLA, A.A., Siracide, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 647-664. MORLA ASENSIO, V., Il libro dell’Ecclesiastico, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione

allo studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 175-208. BONORA, A., Siracide, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti (Logos 4),

Torino-Leumann 1997, 85-98.

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Siracide 113

CALDUCH-BENAGES, N., En el crisol de la prueba. Estudio exegético de Sir 2,1-18 (Asociación Bíblica Española 32), Estella 1997.

CALDUCH-BENAGES, N., Un gioiello di sapienza. Leggendo Siracide 2 (Cammini nello Spirito. Biblica 45), Milano 2001.

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 4/2003: «Il libro del Siracide».

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SAPIENZA* Affascinante ed enigmatica, questa Sapienza di Salomone! È l’ultimo libro importante del-

la sapienza dell’antico Israele, ma il primo a parlare in greco e a confrontarsi con la cultura el-lenistica. Ponte gettato tra l’Antico Testamento e il Nuovo, quest’opera di un fedele giudeo ellenistico dovette vedere la luce quando stava per nascere il cristianesimo. Trasmesso dai cri-stiani, è riconosciuto come libro canonico dalla Chiesa cattolica.

Finora poco studiato, questo libro solleva molti problemi, soprattutto di ordine letterario. Per tale ragione, senza perdere di vista il messaggio dell’anonimo autore, la nostra attenzione si fermerà sull’analisi del libro.

1. IL LIBRO

1.1. CONTENUTO E STRUTTURA LETTERARIA DEL LIBRO

Per determinare la struttura letteraria del libro, cioè l’organizzazione e la disposizione delle sue diverse parti, l’esegeta può basarsi sugli indizi verbali offerti dal testo stesso. Si notano così le ricorrenze di parole o di espressioni e la loro collocazione; si individuano allora degli insiemi le cui estremità hanno, per esempio, le stesse parole; e se ne scoprono altri più lunghi la cui organizzazione si presenta sotto una forma detta concentrica (a-b-c-b’-a’, per esempio)1.

Per chiarezza presenteremo qui in modo schematico il piano delle grandi parti che costitui-scono il Libro della Sapienza, ma cominceremo ogni volta col riassumere il contenuto del te-sto seguendo le indicazioni fornite dall’analisi della struttura letteraria.

1.1.1. Sap 1–6

In apertura del libro l’autore si rivolge direttamente ai lettori, considerati come principi del mondo, invitandoli ad «amare la giustizia» e a «cercare il Signore» (1,1), a evitare le recrimi-nazioni, simili a quelle degli ebrei nel deserto, le parole empie e le azioni che meritano la morte (1,11-12). Infatti i pensieri e i propositi perversi allontanano la Sapienza e il giudizio attende i colpevoli (1,2-10).

A titolo di illustrazione l’autore dà subito la parola agli empi: la vita appare loro senza al-cuna prospettiva di un aldilà; al momento della morte lo spirito stesso si dissipa come l’aria; conviene perciò godere il più possibile del tempo presente (2,1-9). Ma la sola presenza del giusto, la sua fedeltà alle tradizioni ancestrali e i rimproveri che egli rivolge agli empi spin-gono questi ultimi a perseguitarlo: il giusto è convinto che Dio proteggerà la sua sorte finale; ebbene, «condanniamolo a una morte infame e vedremo» (2,10-20).

Questo discorso, in cui gli empi oppongono la loro concezione della morte a quella del giu-sto, è inquadrato da due riflessioni fondamentali dell’autore: le creature sono portatrici di sal-vezza e Dio ha creato l’uomo immortale, incorruttibile (1,13-16; 2,21-24).

Queste affermazioni sono allora applicate a tre categorie di giusti la cui esistenza, agli oc-chi di questo mondo, sembra una sciagura: i giusti che muoiono nella sofferenza (3,1-9), la donna sterile o l’eunuco, tuttavia fedeli (3,11-15; 4,1-2), infine il giusto che muore nel fiore degli anni (4,7-14a); nessuno di essi avrà conosciuto quaggiù la felicità che si ritiene ricom-pensa della virtù, ma riceveranno la loro ricompensa in occasione della «visita» di Dio, cioè al

* M. GILBERT, La Sapienza di Salomone, in J. AUNEAU (ed.), I Salmi e gli altri Scritti (Piccola Enciclopedia

Biblica 5), Roma 1991, 324-355. 1 Cfr. A. G. WRIGHT, The Structure of the Book of Wisdom, in Bib 48 (1967) 165-184; P. BIZZETI, Il libro

della Sapienza. Struttura e genere letterario, Brescia 1984, 49-111; M. GILBERT, Sagesse de Salomon (ou Livre de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 65-77 (con bibliografia).

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Sapienza 115

di là della morte, quando gli empi, che sono confrontati con essi caso per caso (3,10.16-19; 4,2-6.14b-20), saranno castigati.

L’autore immagina poi l’incontro nell’aldilà tra i giusti e gli empi (5,1-3). Facendo eco al loro discorso-programma, questi ultimi riprendono la parola, ma questa volta per esprimere il loro stupore per la felicità del giusto (5,4-5) e riconoscere la vacuità della loro vita (5,6-13). Infatti – commenta l’autore – Dio interverrà direttamente contro gli empi e in favore dei giusti e prenderà come armi le forze del cosmo (5,14-23).

A mo’ di conclusione l’autore si rivolge nuovamente ai re e ai principi perché ascoltino il suo messaggio (6,12.11.21.25): un giudizio più severo li attende perché sono più potenti degli altri (6,3-10) e, d’altra parte, la Sapienza, garanzia di un regno immortale, non si rifiuta a co-lui che la cerca (6,12-20).

Gli ultimi versetti (6,22-24) servono da transizione, annunciando la seconda parte: qual è la natura della Sapienza, la sua origine, la sua storia?

Il piano di questa prima parte, visto schematicamente, appare concentrico: all’esortazione iniziale corrisponde l’esortazione finale che riprende gli stessi temi, ma in ordine inverso; al discorso-programma degli empi fa eco quello che essi pronunceranno nell’aldilà, riprendendo le stesse idee, ma nuovamente in ordine inverso; infine nei tre dittici centrali, il contrasto tra virtù e morte inquadra quello della virtù nella sterilità.

Ecco i dettagli di questa struttura letteraria:

A. Esortazione ai principi (1,1-12) la Sapienza non si rivela all’empio; egli non dimentichi che ci sarà un giudizio!

B. Progetto degli empi: Introduzione (1,13-16): creazione e immortalità; critica degli empi.

Discorso degli empi (2,1-20): senso della vita e opzione per il piacere; complotto contro il giusto.

Conclusione (2,21-24): critica degli empi; creazione e incorruttibilità.

C. Tre tipi paradossali di esistenza e loro contrasto (3–4): il giusto che muore nella sofferenza – gli empi; la sterile e l’eunuco – la discendenza degli empi; il giusto che muore prematuramente – le folle degli empi.

B’. Bilancio degli empi: Introduzione (5,1-3): il giusto di fronte agli empi.

Discorso degli empi (5,4-13): il trionfo del giusto; la loro opzione e il senso della vita.

Conclusione (5,14-23): l’empio e i giusti; Dio e il combattimento cosmico finale.

A’. Esortazione ai principi (6): non dimentichino che ci sarà un giudizio! La Sapienza si rivela a chi la cerca ed è garanzia di immortalità. Annuncio di ciò che segue (6,22-25).

1.1.2. Sap 7–9

L’autore che, in questa nuova parte come in Sap 6, parla alla prima persona singolare, si presenta, senza dirlo, sotto i tratti di Salomone. Egli precisa, per cominciare, di essere nato come ogni altro uomo; non è quindi un dio e la sapienza non è una questione di eredità o di atavismo (7,16). Egli ha ricevuto la Sapienza perché l’ha domandata nella preghiera, prefe-rendola a tutti i beni che sono appannaggio della regalità; riconosce pure di aver ricevuto u-gualmente questi altri beni, grazie alla Sapienza da lui preferita (7,7-12). Egli rinnova poi la sua intenzione di parlare di essa e domanda a Dio la grazia di poterlo fare adeguatamente; ha

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116 Sapienza

ricevuto da Dio una vasta cultura: è ritenuto maestro in tutti i campi del sapere del suo tempo, ma in realtà è la Sapienza che l’ha istruito (7,13-21).

Egli descrive allora questa Sapienza attribuendo allo spirito che è in essa una lista di ventu-no qualità: di una purezza assoluta, la Sapienza penetra tutto, cercando solo di realizzare il bene. Queste qualità si giustificano per il fatto che la Sapienza emana da Dio di cui è il soffio, l’effluvio, il riflesso, lo specchio, l’immagine. Così si spiega la sua azione: essa regge l’uni-verso in modo benefico e forma amici di Dio e profeti (7,22–8,1).

Essendo la Sapienza fin dall’origine del mondo l’intima di Dio, lo pseudo-Salomone arriva a desiderare di averla come sposa poiché è più importante di qualsiasi altra cosa che possa formare un’autentica personalità: benessere, intelligenza, virtù, cultura (8,2-8). Prendendo la Sapienza come sposa, la sue qualità di re saranno ancora più evidenti, nel consiglio come nel-la guerra, e la sua vita privata sarà felice (8,9-16). Per tale ragione, dotato di buone doti natu-rali, ma consapevole che la Sapienza la si riceve solo domandandola, egli si decide a pronun-ciare la sua preghiera (8,17-21).

Possiamo presentare così in modo schematico la struttura di Sap 7–8:

A. Salomone nacque come ogni altro uomo (7,1-6), B. ma domandò la Sapienza nella preghiera e ricevette con essa tutti i beni regali (7,7-12); C. ricevette ugualmente tutti i beni di carattere culturale (7,13-21). D. Descrizione della Sapienza: natura, origine e azione (7,22–8,1). C’. La Sapienza porta tutto ciò che forma una personalità (8,2-8). B’. Con essa come sposa, Salomone si mostrerà un grande re (8,9-16). A’. Per l’uomo dotato di buone doti naturali, la Sapienza si ottiene solo con la preghiera (8,17-21).

La preghiera di Sap 9 si divide in tre strofe2: la prima (9,1-6) e la terza (9,13-18) riguarda-no ogni uomo, mentre la seconda (9,7-12) si riferisce a Salomone. L’insieme è strutturato in modo concentrico: la prima strofa trova un eco nella terza, ma nell’ordine inverso; la strofa centrale è anch’essa di struttura concentrica. Così la duplice richiesta della Sapienza appare al centro della preghiera (9,10), preparata da una prima richiesta al centro della prima strofa (9,4), alla quale fa eco il versetto centrale della terza (9,17). La struttura concentrica, già e-mersa in Sap 1–6 e 7–8, riappare quindi nella preghiera di Sap 9; eccone gli elementi princi-pali:

I. a : Vocazione dell’uomo (9,1-3) b : richiesta della Sapienza (9,4) c : a causa della fragilità umana (9,5-6). II. d : Vocazione di Salomone (9,7-8) e : La Sapienza presso Dio (9,9) b’ : richiesta della Sapienza (9,10ab). e’ : La Sapienza presso Salomone (9,10c-11) d’ : realizzazione della vocazione di Salomone (9,12). III. c’ : A causa della fragilità umana (9,13-17a) b’’ : richiesta implicita della Sapienza (9,17bc) a’ : realizzazione della vocazione umana (9,18).

1.1.3. Sap 10–19

Ricollegandosi all’ultimo versetto della preghiera di Sap 9 («essi furono salvati per mezzo della Sapienza»), si apre in Sap 10 un grande affresco in cui vengono evocati i principali per-sonaggi e gli eventi fondatori dell’umanità e d’Israele; l’autore si ispira evidentemente alla Bibbia, in particolare a Gen, Es e Num.

Sap 10 passa in rassegna gli eroi biblici che si sono succeduti da Adamo fino a Mosè alla testa del popolo: essi dovettero tutti la loro salvezza alla Sapienza, mentre quelli che si se-pararono da essa finirono male. Gli ultimi versetti (10,15-21) ricordano brevemente i grandi

2 M. GILBERT, La structure de la prière de Salomon (Sg 9), in Bib 51 (1970) 301-331.

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Sapienza 117

eventi dell’esodo e terminano con un’allusione al cantico di Es 15. I primi versetti di Sap 11 situano gli ebrei nel deserto, dopo il passaggio del mar Rosso (11,1-3).

I capitoli seguenti (11–19) presentano una struttura complessa. In breve l’autore, senza tut-tavia seguire alla lettera i racconti del libro dell’Esodo, oppone un diverso beneficio accordato da Dio a Israele a ciascuna piaga che colpisce gli egiziani. Questi dittici di contrari sono stabi-liti sulla similitudine dell’elemento cosmico utilizzato dal Signore. Due digressioni interrom-pono però questa lunga meditazione rivolta tutta quanta al Signore.

Primo dittico: avendo il faraone ordinato di gettare nel fiume i neonati maschi di Israele (11,6; cfr. Es 1,22), l’acqua del Nilo fu mutata in sangue e divenne imbevibile; invece, nel de-serto, Israele ricevette l’acqua della roccia (11,7-14)3.

Dittico seguente: le piaghe provocate da diverse bestiole sono dapprima segnalate rapida-mente (11,14); saranno spiegate molto più a lungo solo più avanti nel libro (16,1-14). Nel frat-tempo l’autore propone due digressioni.

La prima (11,15–12,27) spiega perché il Signore avesse deciso di punire con uno strumento così ridicolo. Queste piaghe inflitte dalle bestiole inviate contro l’Egitto sono messe in paral-lelismo con il castigo dei Cananei per mezzo dei calabroni; secondo l’autore, Dio castiga in questo modo non per impotenza ma per preoccupazione di moderazione, perché egli ama le sue creature e vuole solo la conversione dei colpevoli (11,23–12,2); ma se costoro si ostinano egli proseguirà fino al castigo supremo (12,23-27). L’autore ne trae la lezione che il giusto deve imitare la misericordia di Dio (12,19-22).

La seconda digressione (13–15)4 spiega la ragione per cui gli egiziani furono castigati pro-prio con degli animali. Il motivo è stato già brevemente annunciato in Sap 11,15-16; 12,23.27, ma, analizzando i tre tipi fondamentali di culto praticati dai pagani del suo tempo – culto degli elementi della natura (13,1-9), culto degli idoli (13,10–15,13), culto degli animali viventi (15,14-19) – l’autore sottolinea il carattere estremamente aberrante di questa zoolatria che gli egiziani praticavano da vari secoli (cfr. Es 8,22). Quando se ne presenta l’occasione, l’autore riprende la critica dell’idolatria, ma approfondendo le obiezioni di ordine teologico: all’inizio e alla fine (13,10-19; 15,7-13) egli mostra la follia dei fabbricanti di idoli, mentre al centro (14,11-31) analizza il processo degradante inerente all’idolatria: il culto sbagliato genera le peggiori depravazioni morali; invece la storia sacra dimostra che Dio salva senza gli idoli (14,1-7) e che Israele, benché anch’egli peccatore, non è sprofondato nell’abisso dell’idolatria (15,1-5). La struttura di questa seconda digressione è quindi la seguente:

I. culto della natura (13,1-9). II. culto degli idoli (13,10–15,13): A. idoli d’oro, d’argento, di pietra e soprattutto di legno; ruolo del legnaiolo fabbricante di idoli (13,10-19); B. riferimento alla storia sacra; invocazione; annuncio o transizione (14,1-10). C. Castigo degli idoli; invenzione e conseguenze dell’idolatria; castigo degli idolatri (14,11-31). B’. Riferimento alla storia sacra; invocazione; annuncio o transizione (15,1-6). A’. Idoli di argilla; ruolo del vasaio che fabbrica idoli (15,7-13). III. Culto degli animali viventi (15,14-19).

Terminate queste digressioni, l’autore riprende il suo racconto degli eventi dell’esodo là dove l’aveva lasciato in 11,15, cioè alle piaghe inflitte dalle bestiole. Questa volta però ne di-stingue due tipi: da una parte, alle rane che tolgono ogni appetito agli egiziani egli oppone le quaglie (16,1-4); dall’altra, ai tafani e alle cavallette, contro i cui morsi non c’era rimedio (qui

3 Es 17,5-6 avvicina già i due prodigi operati da Mosè con lo stesso bastone. 4 Cfr. M. GILBERT, La critique des dieux dans le Livre de la Sagesse (Sg 13–15) (AnBib 53), Rome 1973,

245-257.

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118 Sapienza

l’autore va oltre i racconti dell’Esodo), oppone il serpente di bronzo alla vista del quale Israe-le riceveva da Dio la guarigione (16,5-14).

Il dittico seguente oppone i raccolti degli egiziani, distrutti dalla grandine e dalla tempesta, alla manna donata a Israele durante il suo soggiorno nel deserto (16,15-29). Poi alle tenebre che avvolgono gli egiziani viene opposta la luce che illuminava Israele nel paese di Gošen, come pure in occasione del passaggio del mar Rosso (17,1–18,4).

Infine le piaghe degli ultimi due dittici vengono dapprima presentate insieme, la morte dei primogeniti degli egiziani e l’affogamento dell’esercito del faraone nel mar Rosso; esse furo-no motivate dal decreto infanticida del faraone (18,5; cfr. 11,6). Dopo di che l’autore distingue i due dittici. Alla morte dei primogeniti degli egiziani, quando Israele, riconosciuto figlio di Dio, celebra la pasqua e attende la salvezza (18,6-19), l’autore oppone l’intercessione di A-ronne che arrestò il flagello mortale che colpiva Israele nel deserto in occasione della rivolta di Core (18,20-25; cfr. Num 17,11-14). Infine, all’affogamento dell’esercito del faraone viene opposto il passaggio degli ebrei all’asciutto e ricorda il loro cantico di Es 15 (19,1-9; cfr. 10,20).

Se ora, messe da parte le due digressioni (11,15–12,27; 13–15), guardiamo all’insieme del-la struttura di tutti questi dittici, costatiamo che essi sono o del numero di cinque (in cifre ro-mane), o del numero di sette (in cifre arabe), a seconda che si tenga conto o meno di 11,15 e di 18,5, in cui l’autore accosta da una parte tutte le piaghe per mezzo delle bestiole e dall’altra la morte che colpisce l’Egitto nei suoi primogeniti e nel suo esercito. Si ottiene allora lo schema seguente:

I = 1: acqua del Nilo – acqua della roccia (11,1-14) II = 2: rane – quaglie (16,1-4) = 3: tafani e cavallette – serpente di bronzo (16,5-14) III = 4: raccolto distrutto dalla grandine – manna (16,15-29) IV = 5 : tenebre – luce (17,1–18,4) V = 6: morte dei primogeniti degli egiziani – Israele risparmiato (18,6-25) = 7: il mar Rosso uccide – libera (19,1-9)

Inoltre delle allusioni al cantico di Es 15 appaiono in 10,20 e 19,9, che incorniciano l’in-sieme del racconto. Similmente il decreto infanticida del faraone viene menzionato all’inizio di I (11,6) e di V (18,5): è una seconda inclusione dell’insieme. Inoltre, i dittici 1 e 7 fanno in-tervenire entrambi lo stesso elemento, l’acqua. D’altra parte il dittico centrale, nell’uno e nell’altro sistema (III=4) offre l’occasione all’autore di precisare che il cosmo lotta con Dio contro i colpevoli e in favore dei giusti (16,24); ora questa affermazione centrale si trova ri-presa in conclusione del libro.

Alle correlazioni di struttura indicate sopra per l’insieme dei dittici possiamo aggiungere le seguenti che abbiamo appena rilevato:

cantico di Es 15 (10,20) l’acqua (11,6) decreto infanticida (11,7) . . . manna; ruolo del cosmo (16,20.24) . . . decreto infanticida (18,5) l’acqua (19,1-8) cantico di Es 15 (19,9) Queste ultime osservazioni dimostrano che l’ultima parte del libro comporta anch’essa de-

gli elementi di una struttura concentrica. La conclusione riprende l’essenziale dei principali avvenimenti dell’esodo: il cosmo si tra-

sforma per meglio lottare in favore dei giusti (19,10-12.18-21) contro dei nemici peggiori dei sodomiti che avevano accolto male degli stranieri (19,13-17; cfr. Gen 19,1-11). Questo rias-sunto si conclude con un richiamo alla manna, spiegata nel dittico centrale (III=4) e qualifica-ta qui come ambrosia, cibo celeste degli antichi che assicurava l’immortalità.

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Infine, secondo l’ultimo versetto del libro (19,22), ciò che il Signore aveva fatto in occa-sione dell’esodo in favore del suo popolo, lo ripete in ogni tempo e in ogni luogo sotto forme diverse: Dio non manca mai di salvare i suoi.

L’insieme della struttura del libro denota delle caratteristiche presenti ovunque. Le strutture concentriche sono individuabili in tutte le parti, anche nella presentazione degli avvenimenti dell’esodo. Talvolta la struttura concentrica si rivela a tre rami: lo stesso tema appare tre volte, all’inizio, in mezzo e alla fine di un insieme e delimita così la sua struttura; tale è il caso in 1,16; 2,9.24 (la parte degli empi); in 6,1-2.9-11.21 (appello ai principi); 9,4.10.17bc (richiesta della Sapienza); in 11,15-16; 12,23-27; 16,1 (la piaga per mezzo delle bestiole).

Quanto ai dittici, caratteristici del richiamo agli avvenimenti dell’esodo (11–19), si trovano anche in 3–4 (i giusti e gli empi), in 11,15–12,27 (egiziani e cananei) e in 13–15 (gli idolatri e il popolo di Dio).

Infine tutte le parti appaiono fortemente legate tra loro. La seconda, che fa l’elogio esplici-to della Sapienza, viene preparata in 6,12-21 e annunciata in 6,22. La terza si lega molto natu-ralmente alla seconda in quanto sviluppa 9,18, l’ultimo versetto della preghiera, e la lunga meditazione sull’esodo è preparata dal riassunto di 10,15-21; inoltre, la preghiera di Sap 9 si prolunga nel racconto che prende la forma di inno: da 10,20 fino alla fine del libro l’autore si rivolge il più delle volte al Signore stesso.

1.2. GENERE LETTERARIO

Qual è il genere letterario di questo libro preso nella sua totalità?5 Dopo Focke e soprattutto Reese6 si parla spesso di logos protreptikos, di discorso protretti-

co. Ma questa ipotesi solleva due difficoltà: innanzitutto del Protreptico di Aristotele, l’esem-pio tipo di questo genere letterario, sappiamo in realtà ben poco dai frammenti che ci sono pervenuti; inoltre, tutta la parte finale del libro della Sapienza, che sviluppa l’evocazione del-l’esodo con un continuo riferimento alla storia, non rientra in questo genere letterario. Co-munque sia, l’ipotesi offre il vantaggio di orientare la ricerca verso il mondo greco, dal mo-mento che nessun genere letterario propriamente biblico rende conto della totalità del libro della Sapienza.

Sembra opportuno parlare, con P. Beauchamp, di encomium o di elogio. Accanto ai discorsi deliberativi e giudiziari, Aristotele, nella sua Retorica, e, dopo di lui, Cicerone e Quintiliano, collocano il discorso epidittico: questo genere letterario non serve, come quello giudiziario, a giudicare il passato, né, come quello deliberativo, a favorire una decisione che deve orientare il futuro, ma cerca di incitare l’uditorio ad ammirare e a voler imitare una persona o a pratica-re una virtù, una precisa qualità. In quest’ultimo caso ci troviamo di fronte all’encomium. Le descrizioni che ne danno Aristotele e i suoi successori si adattano a quanto troviamo nel libro della Sapienza.

Secondo Aristotele, l’esordio è analogo a un «preludio di un pezzo di flauto» (Retorica, 1414b). La materia è tratta dall’elogio o dal biasimo; interviene anche il consiglio. Si tratta di risvegliare l’attenzione e l’interesse degli ascoltatori ai quali ci si rivolge direttamente. Si pre-senta loro brevemente il tema del discorso esortandoli a metterlo essi stessi in pratica. Per mo-strarne la posta in gioco si cede la parola a coloro che rifiutano il valore di ciò di cui si vuol fare l’elogio; si critica questa opinione e, attraverso situazioni dolorose o sorprendenti in cui possono trovarsi implicati gli stessi ascoltatori, si fa percepire anche quanto sia utile l’oggetto dell’elogio. L’esordio si conclude con una breve descrizione di ciò che si vuole lodare e con una traccia del seguito del discorso. Sap 1–6 corrisponde a questa descrizione. Sap 1 e 6 sono delle esortazioni in cui il contenuto del consiglio è tratto anticipatamente dall’elogio. Sap 2 e

5 Cfr. BIZZETI, Il libro della Sapienza, 113-180; GILBERT, DBS 11, 77-87. 6 F. FOCKE, Die Entstehung der Weisheit Salomos, Göttingen 1913, 85 (per Sap 1–5); J. M. REESE, Helle-

nistic Influence on the Book of Wisdom and its Consequences (AnBib 41), Roma 1970, 117-121.

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120 Sapienza

5 formano l’accusa di un’opinione avversaria e la sua critica. Sap 3–4 oppone al comporta-mento degli avversari delle situazioni universali paradossali. Infine, a mo’ di argomentazione, viene «congetturato» l’avvenire: immortalità, incorruttibilità e intervento di Dio in favore dei giusti mediante le forze cosmiche.

L’elogio, nel senso stretto, deve allora mostrare tre cose: l’origine, la natura e le opere o i benefici di ciò che si intende lodare. È la parte più ardua sia per l’oratore o lo scrittore che per l’ascoltatore o il lettore al quale viene chiesto uno sforzo di attenzione. Sap 7–9, annunciato al termine dell’esordio (Sap 6,22), corrisponde a questo progetto. Ma a proposito dell’origine della Sapienza vengono distinti due punti di vista: l’origine della Sapienza stessa e la sua ori-gine in Salomone o nel cuore del saggio. L’autore inizia con questo secondo punto di vista: il saggio non ha ricevuto la Sapienza fin dalla nascita, ma perché l’ha domandata a Dio nella preghiera; solo la preghiera è all’origine della Sapienza nell’uomo (7,1-7; 8,17-21; 9). Quanto all’origine della Sapienza stessa, essa si situa in Dio, di cui la Sapienza è il riflesso, lo spec-chio, l’immagine e di cui condivide l’intimità (7,25-26; 8,3). La natura della Sapienza viene descritta con ventuno attributi: è purezza assoluta, capace perciò di penetrare ogni cosa in vi-sta del bene (7,22-24). Questo porta a parlare della sua attività, in quanto questa deriva dalla sua natura: la Sapienza anima l’universo e forma gli amici di Dio e i profeti (7,27–8,1); è an-che l’artefice di tutte le cose (7,21; 8,4-6), la madre di tutti i beni, che essa porta con sé a colui che la riceve (7,12). La sua attività è perciò legata alla sua origine e alla sua natura; essa con-cede anche ogni cosa desiderabile (7,8-12.17-21; 8,5-8.10-18). Ma ciò che caratterizza questa parte del libro è il fatto che l’elogio della Sapienza, la sua origine, la sua natura e la sua azione esigono non soltanto che essa sia preferita a tutti i beni, ma che sia richiesta nella preghiera: questo è il motivo per cui l’elogio culmina in una preghiera (Sap 9). Così l’autore, facendo l’elogio della Sapienza, fa anche in qualche modo l’elogio di Salomone, il suo modello, di cui vanta la nobiltà, la cultura, lo sfarzo e la stima di cui fu circondato: tutte queste circostanze, che, secondo Aristotele, l’elogio deve esporre, trovano la loro ragion d’essere nel fatto che Sa-lomone domandò prima di ogni cosa la Sapienza.

Per confermare l’ascoltatore o il lettore nel suo desiderio di praticare ciò di cui si sta fa-cendo l’elogio, i maestri della retorica antica suggeriscono uno sviluppo fatto di esempi ben noti. Questa parte, più accessibile, può essere elaborata a piacimento dell’oratore o autore. Uno dei modi migliori per presentare questi esempi, sempre continuando a parlare implici-tamente dell’azione o dei benefici di ciò di cui si fa l’elogio, consiste nel proporre dei con-fronti in quanto dal contrasto emerge la luce. Questa «amplificazione», stando a quanto dice Aristotele (Retorica, 1392a), è il luogo comune più proprio dell’epidittico. Il confronto dev’essere fatto con dei personaggi molto famosi per far emergere la superiorità di coloro che si intende lodare (Retorica, 1368a): questo confronto si chiama in greco syncrisis. Inoltre que-sta parte deve trarre dagli esempi addotti una lezione morale per gli ascoltatori; l’oratore è del resto libero di introdurre delle digressioni il cui scopo sarà ancora quello di convincere l’uditorio. Infine il discorso termina con un riassunto succinto di ciò che si può trarre dagli e-sempi addotti; viene scagliata un’ultima freccia contro gli avversari e si conclude rapidamente lasciando all’uditorio il compito di prendere una decisione. Sap 10–19 corrisponde ancora una volta perfettamente a questa descrizione dei maestri della retorica greca e latina. Gli esempi addotti sono a tal punto conosciuti dagli ascoltatori che non è necessario dire il nome proprio (eccetto per il mar Rosso, in 10,18 e 19,7). Sono famosi: sono alla base della tradizione reli-giosa propria degli ascoltatori. La syncrisis molto elaborata e due digressioni si inseriscono appropriatamente. Infine la conclusione del discorso, in particolare l’ultimo attacco (19,13-17), corrisponde anch’essa alla teoria di questo genere epidittico. La grande differenza, in continuità con quella che caratterizzava l’elogio propriamente detto (7–9), deriva dal fatto che i paragoni che vengono addotti, pur traendo delle lezioni per l’uditorio, si rivolgono diretta-

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Sapienza 121

mente al Signore e non all’uditorio, eccetto quando si tratta di descrivere le colpe degli av-versari e il loro castigo7.

Si può quindi costatare che il libro della Sapienza corrisponde nella sua totalità al genere letterario degli oratori antichi: è un buon esempio di encomium o elogio.

Questa è la ragione per cui non bisogna cercare di attribuire l’una o l’altra parte alla diatri-ba o al midraš, per la ragione fondamentale che né l’una né l’altra costituiscono un genere let-terario propriamente detto. La diatriba8 infatti, più che un genere letterario, è un insieme di particolarità stilistiche od oratorie utilizzate dai cinici, e poi dagli stoici, allo scopo di far ac-cettare dal loro uditorio popolare alcuni opzioni morali. Lo stile della diatriba è diretto e di una estrema vivacità: non costruzione rigida nel discorso, ma tutto ciò che è necessario per te-nere in sospeso gli ascoltatori; interpellanza, dialogo, favola, un tono ora serio ora comico, o addirittura satirico, ecc. I temi sono nobili: superiorità della morale, che mira alla felicità dell’uomo; vita semplice e frugale; importanza del saggio per la società; la virtù si rivela nelle azioni, ecc. Alcune di queste caratteristiche stilistiche e tematiche si ritrovano qua e là nel li-bro della Sapienza, senza tuttavia fornirne un genere letterario propriamente detto.

Lo stesso vale per il midraš; anch’esso può difficilmente essere chiamato un genere lette-rario9. Sembra piuttosto una rilettura dei testi biblici per svelarne il significato e adattarlo ai bisogni della comunità attuale. Prima dei midrašim del III secolo della nostra era, si incon-trano solo delle caratteristiche sparse di una tendenza che non è ancora un genere letterario. Del resto questa tendenza si nota in tutte le parti del libro della Sapienza, e non soltanto in Sap 10–19; Sap 7–9 dipende dai racconti concernenti Salomone in 1Re 3–5; 2Cr 1, ma anche dai testi di Pr e di Sir che trattano della Sapienza; non mancano rapporti tra i primi capitoli del li-bro e Is 52,13–53,12, il canto del servo sofferente. Come scrive C. Larcher10, attraverso tutto il libro si ritrova, tra l’altro, la «stessa forma di esegesi libera o midrašica».

1.3. UNITÀ DEL LIBRO11

A partire da Chr. Fr. Houbigant (1753), parecchi critici hanno attribuito le diverse parti del libro ad autori differenti. Tuttavia, dopo C. L. W. Grimm (1860), la maggior parte dei com-mentatori del libro ne ha difeso l’unità. Sono stati utilizzati molti argomenti; quanto abbiamo cercato di spiegare nelle pagine precedenti va nella stessa direzione. Se il testo originale del libro è proprio quello greco che ci è stato trasmesso, se la struttura letteraria di questo libro è omogenea e corrisponde inoltre a un solo genere letterario, quello dell’encomium o elogio, al-lora bisogna ritenere che il libro costituisce un’autentica unità.

Sono state avanzate anche altre argomentazioni: 1. P. W. Skehan12 argomenta a partire dalla sticometria, cioè sulla base degli stichi nelle di-

verse parti del libro. Ma, se è vero che Sap 1–9 comporta cinquecento stichi, non si può ar-rivare a una conclusione certa per il numero degli stichi nei capitoli seguenti, in quanto questo numero, checché ne dica Skehan, non è sicuro. Conviene perciò abbandonare questo tipo di argomento.

7 Cfr. M. GILBERT, L’adresse à Dieu dans l’anamnèse hymnique de l’exode (Sg 10–19), in El misterio de la

Palabra. Homenaje a L. Alonso Schökel, Madrid 1983, 207-225. 8 Cfr. A. OLTRAMARE, Les Origines de la diatribe romaine, Genève 1926, 9-17; 43-65. 9 Cfr. R. LE DÉAUT, A propos d’une definition du midrash, in Bib 50 (1969) 395-413; REESE, Hellenistic In-

fluence, 91-99; nonostante G. M. CAMPS, Midras sobre la historia de las plagues (Ex 1–12), in Miscellanea bi-blica B. Ubach, Montserrat 1953, 97-114, e R. T. SIEBENECK, The Midrash of Wisdom 10–19, in CBQ 22 (1966) 176-182.

10 C. LARCHER, Études sur le Livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969, 103. 11 Cfr. C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, I (EtB n.s. 1), Paris 1983, 95-119; GILBERT, DBS 11, 87-91. 12 P. W. SKEHAN, Text and Structure of the Book of Wisdom, in Traditio 3 (1945) 2-5.

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122 Sapienza

2. A. G. Wright13 ritiene, da parte sua, che Sap sia stato scritto rispettando le proporzioni indicate dal numero d’oro. Sappiamo che le Georgiche di Virgilio sono costruite sul numero d’oro. Tuttavia la dimostrazione è poco convincente in quanto alcune divisioni del testo pro-poste da Wright sembrano artificiali.

3. J. M. Reese14 trova nelle diverse parti del libro la ripetizione di parole significative o di una stessa idea originale. I risultati di questo metodo sono molto più probanti; essi mostrano come Sap 10–19 sia legato a Sap 1–9.

4. Alcuni autori hanno dimostrato anche la coerenza del libro nel trattamento di alcuni te-mi. P. Beauchamp15 ha rilevato che, nelle tre parti del libro, il cosmo gioca continuamente un ruolo capitale. J. M. Reese16 aggiunge i temi seguenti ugualmente presenti in modo coerente in tutto il libro:

– conoscenza religiosa di Dio; – interazione di malizia e ignoranza; – immortalità dell’uomo e temi connessi; – uso didattico della storia. 5. Un’ultima argomentazione condurrà al capitolo seguente. Secondo C. Larcher17, le diffe-

renze nell’uso dei testi biblici anteriori nelle diverse parti del libro «non richiedono necessa-riamente autori distinti in quanto il modo di trattare il testo biblico rimane identico: stessa di-screzione nei riguardi delle citazioni implicite, stesso uso abituale della LXX, stesso problema posto dai passi in cui l’autore si allontana da questa stessa forma di esegesi libera o midraši-ca».

1.4. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E L’ANTICO TESTAMENTO

In quale misura il nostro libro ricorre agli scritti dell’Antico Testamento che lo precedono? Per rispondere a questo interrogativo sono possibili due metodi: o seguire l’ordine stesso del libro della Sapienza o seguire l’ordine dei libri dell’Antico Testamento. Seguiremo qui il pri-mo metodo18.

Dobbiamo innanzitutto notare che l’autore non facilita la ricerca perché mai fa esplicito ri-ferimento a un testo anteriore dell’Antico Testamento. Egli svolge il suo discorso senza alcuna citazione esplicita, senza nemmeno fornire un nome proprio, ad eccezione del mar Rosso (Sap 10,18; 19,7), come abbiamo già notato. Ciò non impedisce che colui che conosce la sua Bib-bia – e tali dovevano essere i primi lettori del libro – individui facilmente le allusioni e i rife-rimenti. Quali sono?

1.4.1. L’Antico Testamento in Sap 1–619

In questa prima parte del libro le influenze bibliche sono più difficili da individuare. L’in-segnamento dell’autore sull’escatologia emerge su uno sfondo in cui si situavano Giobbe e Qohelet con i loro interrogativi fondamentali. Ma l’autore di Sap supera anche tutta la dottrina classica della retribuzione affermando l’immortalità e la retribuzione nell’aldilà.

13 A. G. WRIGHT, Numerical Patterns in the Book of Wisdom, in CBQ 29 (1967) 524-538. 14 REESE, Hellenistic Influence, 123-140. 15 P. BEAUCHAMP, Le salut corporel des justes et la conclusion du livre de la Sagesse, in Bib 45 (1964) 491-

526. 16 Hellenistic Influence, 140-145. 17 Études, 103. 18 Già J. FICHTNER, Der AT-Text der Sapientia Salomonis, in ZAW 16 (1939) 155-192. Il secondo metodo è

seguito da P. W. SKEHAN. Studies in Israelite Poetry and Wisdom, Washington D.C. 1971, 149-236 (Sal, Es, Pr, Gb, Qo) e da LARCHER, Études, 85-103.

19 Cfr. M. J. SUGGS, Wisdom of Solomon II,10-V: A Homily Based on the Fourth Servant Song, in JBL 76 (1957) 28-33; G. W. E. NICKELSBURG, Resurrection, Immortality and Eternal Life in Intertestamental Judaism (HThS 26), Cambridge, Mass. 1972, 61-66; J. SCHABERG, Major Midrashic Traditions in Wisdom 1,1–6,25, in JSJ 13 (1982) 75-101.

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Sapienza 123

Tuttavia Sap 2,1-9 non è un quadro ispirato a Qohelet che il nostro autore intenderebbe ri-fiutare, in quanto ha di mira piuttosto delle correnti edonistiche e materialistiche della sua e-poca.

Tra i testi biblici anteriori ai quali l’autore si ispira in modo particolare va annoverato so-prattutto il Sal 2, dal quale Sap 1 e 6,1 prendono delle espressioni. Ma per l’affermazione di base concernente l’immortalità in Sap 1,13-15 e 2,23-24 punto di ancoraggio è Gen 1–3.

Quanto alla descrizione del giusto perseguitato, in Sap 2,10-20 e 5,1-6, essa si ispira in par-te al Sal 22 e forse a Is 53. Tuttavia Is 53 evoca l’idea della sofferenza vicaria subita dalla moltitudine, il che non viene ripreso dall’autore di Sap, e il tema del silenzio di Dio che ap-pare nel Sal 22 non figura in Sap. Inoltre in Sap 3,1-9 si possono individuare delle allusioni a Dan 7,22-27; 12,3.10.

In Sap 1–6 si riconoscono anche delle tracce di Is 40–66: Is 56,4-5 in Sap 3,14 a proposito dell’eunuco; Is 57,1-2 in Sap 4,14-18 sull’indifferenza delle folle di fronte alla morte del giu-sto. Dietro la descrizione di questa morte si riconosce invece la figura di Enoch di Gen 5,24 (LXX).

L’autore non segue perciò una sola fonte. Il suo discorso è nuovo e si basa su un’ampia tra-dizione.

1.4.2. L’Antico Testamento in Sap 7–920

Una delle principali chiavi di letture di Sap 7–9 è da ricercare indiscutibilmente nelle tradi-zioni bibliche concernenti Salomone, soprattutto in 1Re 3–11 e 2Cr 1–9. Ciò che costituisce il punto centrale di Sap 7–9 è la preghiera di Salomone per ottenere la Sapienza (1Re 3,5-15; 2Cr 1,7-12). La grande preghiera di Sap 9, annunciata in Sap 7,7 e 8,21, si ispira a questi due testi antichi. Anche l’insistenza di Sap 7,17-21 e 8,8 sul grande sapere del saggio è un adatta-mento di 1Re 5,9-14. Ma, fatta eccezione di Sap 9,8, tutto ciò che si riferisce alla costruzione del Tempio viene passato sotto silenzio. Altro silenzio: i matrimoni di Salomone; in questo Sap si avvicina a 2Cr.

Il solo matrimonio di Salomone a cui fa riferimento il libro della Sapienza è quello del gio-vane re con la Sapienza (Sap 8). Qui l’autore potrebbe ricordarsi del Cantico dei Cantici, attri-buito dalla Bibbia proprio a Salomone. Ma è possibile che siano intervenuti degli intermedia-ri, come Sir 6,26-28 e 51,13-22, come pure il ritratto della sposa perfetta di Pr 31, interpretato allegoricamente in funzione della figura della Sapienza di Pr 8–9. Pr 31,11.12.23.28 descrive già il marito felice.

Infine, per parlare della Sapienza stessa, l’autore del nostro libro si ispira a Pr 8 e in misura minore a Sir 24; l’insistenza sul ruolo attivo della Sapienza nell’azione creatrice (Sap 7,21; 8,5) richiama la lezione «architetto» di Pr 8,30.

1.4.3. L’Antico Testamento in Sap 10–19

In Sap 10,1-14 viene sfruttato soprattutto il libro della Genesi. Ma se l’autore di Sap intra-prende una rilettura sapienziale degli eventi passati, aveva un precursore in Sir 44–49.

A partire da Sap 10,15 fino alla fine del libro il nostro autore si ispira soprattutto ai libri dell’Esodo e dei Numeri per le sue descrizioni delle piaghe d’Egitto e dei benefici concessi a Israele nel deserto. I Sal 78 e 105 sono ugualmente tra le sue fonti preferite. Ma trova ispi-razione anche in altri testi, come per esempio Dt 8,3 in Sap 16,26.

Alcuni passi vanno considerati a parte. Sap 17,3-21, che descrive le angustie degli egiziani nelle tenebre, deve poco alla Bibbia. Nella conclusione, Sap 19,14-17, sulla cattiva ospitalità

20 Cfr. LARCHER, Études, 329-349; M. GILBERT, La figure de Salomon en Sg 7–9, in R. KUNTZMANN-J.

SCHLOSSER (ed.), Études sur le judaisme hellénistique (LeDiv 119), Paris 1984, 225-249.

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124 Sapienza

degli abitanti di Sodoma, si riferisce a Gen 19,1-11, mentre Sap 19,6-21, secondo P. Beau-champ21, non è senza analogie con Gen 1,1–2,4, l’azione creatrice di Dio in sette giorni.

Le due digressioni (Sap 11,15–12,27; 13–15) formano anch’esse un tutto a parte, dal punto di vista che ci interessa qui. Le allusioni bibliche sono il più delle volte rapide e diversificate: per esempio Gen 1,1-2 in Sap 11,17; Is 40,15 in Sap 11,12; Is 44,9-20 in Sap 13,10-19, la de-scrizione del legnaiolo che fabbrica idoli; Sap 14,5-7 fa allusione all’arca di Noè; Os 4,2, un catalogo di vizi che si ispira al Decalogo, sembra essere dietro a Sap 14,25; Es 34,6, la grande rivelazione della misericordia divina, traspare in Sap 15,1; Sal 115,5-7 è alla base di Sap 15,1522.

Questi sono i dati principali. Aggiungiamo che il nostro autore segue abbastanza spesso, quando fa riferimento al testo biblico, la versione greca dei LXX, ma non si può escludere un ricorso, diretto o indiretto, al testo ebraico. Comunque sia, tenendo conto dei riferimenti prati-camente obbligati a certi libri in Sap 7–9; 10; 16–19, il nostro autore utilizza quasi tutti i libri biblici anteriori, ma sfrutta le sue fonti con molta libertà.

1.5. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA LETTERATURA GIUDAICA

Fermiamo ora la nostra attenzione su alcuni scritti del giudaismo anteriori al libro della Sa-pienza che hanno presumibilmente esercitato un’influenza sul suo autore.

1.5.1. Libro di Enoch23

L’escatologia di Sap 1–6 attira l’attenzione sul libro di Enoch. Scritto in aramaico – alcuni frammenti sono stati trovati a Qumran –, il libro è conosciuto soprattutto nella sua versione etiopica, fatta sulla versione greca; di questa sono stati conservati parecchi frammenti, spe-cialmente per la maggior parte dei capitoli che interessano l’escatologia.

Enoch 1–5 è un discorso di Enoch che fa da introduzione alla raccolta. Vi si annuncia il giudizio: in esso gli empi riceveranno la punizione delle loro colpe e i giusti la luce, la gioia, la pace e la saggezza. L’autore di Sap ha forse conosciuto questa introduzione nella sua ver-sione greca. «Ma egli avrebbe allora legato in un sistema molto più solido delle nozioni esca-tologiche abbastanza imprecise trasponendole su un altro piano»24, trascendente, sopra-temporale.

Enoch 91–105, il «Libro dell’Esortazione e della Maledizione», scritto di andatura sapien-ziale, rivela il «mistero» delle ricompense trascendenti che saranno accordate alle anime dei giusti. Con C. Larcher25, si può aggiungere Enoch 108, ultimo capitolo dell’appendice; esso ritorna sul castigo dei peccatori e la ricompensa dei giusti. È ancora Enoch che parla. Egli af-ferma chiaramente la sopravvivenza dell’anima, ma mai la risurrezione dei corpi. A causa dell’ingiustizia e dell’empietà crescenti, il giudizio è vicino: gli empi scenderanno nello šeol e vi resteranno per la loro punizione, mentre i giusti, purificati dalle prove, si leveranno dal loro sonno nello šeol per prendere parte alla felicità degli angeli e brillare come i luminari del cie-lo. È possibile che l’autore di Sap, la cui escatologia e antropologia si accostano a quelle di Enoch 91–105.108, abbia conosciuto questo scritto; non è però certo che ne abbia conosciuto la versione greca.

21 Le salut corporel, 501-508. 22 Per Sap 13–15, cfr. GILBERT, Critique des dieux. 23 Cfr. P. GRELOT, L’eschatologie de la Sagesse et les apocalypses juives, in Mémorial A. Gelin, Le Puy

1961, 165-178 (= LeDiv 67, Paris 1971, 187-199); LARCHER, Études, 103-112 e 302-305. 24 LARCHER, Études, 106. 25 LARCHER, Études, 110-111.

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Sapienza 125

1.5.2. Gli scritti di Qumran26

Anche qui è il tema dell’escatologia di Sap 1–6 che viene confrontato con quella di Qum-ran. Ma quest’ultima è mal conosciuta e le opinioni degli specialisti non sono concordi. La co-munità di Qumran prevede sia la sopravvivenza dei giusti che degli empi: i primi godranno nella comunità degli angeli, mentre i secondi saranno gettati negli inferi prima di scomparire; ad ogni modo Dio procederà a un giudizio escatologico. Il punto controverso riguarda la ri-surrezione dei corpi, contestata da alcuni autori, mentre altri ve ne vedrebbero degli indizi nei testi. A parte questo punto, si avvicinano a Sap la distinzione netta tra due partiti, giusti ed empi, il giudizio di Dio sugli uni e gli altri, l’associazione dei giusti con gli angeli (cfr. Sap 5,5) nella presenza senza fine di Dio, e la distruzione degli empi.

Ma la dottrina qumranica dei due spiriti divide il mondo tra buoni e cattivi, radicalmente distinti e sottomessi a un vero determinismo; non è pensabile allora nessuna conversione. In-vece, per Sap, il Creatore non vuole la morte (Sap 1,14; 2,23), ma la conversione dei peccatori (Sap 11,23; 12,2.20) e sta all’uomo scegliere la vita o la morte (Sap 1,16; 2,21). D’altra parte la morte fisica preoccupa l’autore di Sap, che la supera con la sua riflessione sulla vita e la morte spirituali; a Qumran, invece, la morte fisica non riceve alcun rilievo. Infine, al contrario di Sap, Qumran non accorda alcuna personificazione alla Sapienza e allo Spirito, soprattutto per un’azione di dimensione cosmica (cfr. Sap 7,24; 8,1; 12,1).

Pertanto, nonostante le differenze che abbiamo segnalato, è possibile che l’autore di Sap abbia conosciuto, se non i testi stessi di Qumran, almeno un ambiente simile, proveniente quindi dal giudaismo palestinese.

1.6. IL LIBRO DELLA SAPIENZA E LA CULTURA GRECA27

Scrivendo direttamente in greco, l’autore di Sap doveva essere naturalmente molto aperto alla cultura greca. Il suo vocabolario presenta già delle caratteristiche. Su 1734 parole diffe-renti usate nel libro, 315, secondo C. Larcher28 che esclude 3-4Mac, non appaiono nella LXX; e se si escludono le parole che si leggono solo in Sap e 2Mac, libro anch’esso fortemente se-gnato dalla cultura greca, la cifra delle parole non presenti nel resto della LXX è ancora più elevato. È possibile che il nostro autore abbia creato dei neologismi29. Talvolta delle parole greche prendono sotto la sua penna un significato inusitato, almeno per quanto ne sappiamo noi, e non sembra che egli usi il greco spigliatamente.

L’impatto con la cultura greca si può percepire più chiaramente nella scelta del genere let-terario dell’opera. Abbiamo mostrato sopra che Sap corrisponde alle leggi dell’encomium o elogio, così come furono descritte dai maestri della retorica antica.

Seguendo l’ordine dei capitoli di Sap è possibile rilevare alcune precise influenze di questa cultura ellenistica:

– in Sap 2,1-3, nella prima parte del discorso degli empi si notano delle tracce della dot-trina degli epicurei; ma questi non sono gli unici ai quali si pensa, e in ogni caso non sa-rebbero diventati dei persecutori30;

– in 7,17-20, l’autore traspone secondo i gusti del suo tempo i dati tradizionali sul sapere enciclopedico di Salomone (specialmente 1Re 5,13);

– in 7,22-23, la descrizione dello spirito della Sapienza con ventuno attributi ricorda la de-finizione del bene dello storico Cleante31;

26 Cfr. A.-M. DUBARLE, Une source du livre de la Sagesse, in RSPhTh 37 (1953) 425-443; M. DELCOR,

L’immortalité de l’ame dans le livre de la Sagesse et dans les documents de Qumran, in NRTh 77 (1955) 614-630; LARCHER, Études, 112-119.

27 Cfr. LARCHER, Études, 179-262 e 349-361; REESE, Hellenistic Influence; GILBERT, DBS 11, 98-100. 28 LARCHER, Études, 181. 29 LARCHER, Études, 182, n. 1; D. WINSTON, The Wisdom of Salomon (AncB 43), Garden City 1979, 15, n 5. 30 Cfr. LARCHER, Études, 215-216.

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126 Sapienza

– in 7,24; 8,1, insistendo sull’idea che la Sapienza penetra tutto l’universo, l’autore le at-tribuisce una qualità essenziale dello pneuma cosmico degli stoici (cfr. anche Sap 1,17)32;

– in 8,7, le quattro virtù che saranno poi chiamate «cardinali» sono enumerate secondo la formula tipicamente stoica;

– in 9,15 si riconosce una tesi di Platone: il corpo ostacola le aspirazioni dell’anima (cfr. Fedone, 79C ss);

– in 11,20, la triade «numero, pesi, misura» è un bene comune della cultura greca33; ma Fi-lone l’utilizzerà, come il nostro autore, a proposito del Dio creatore;

– in 12,4-6, nella sua descrizione dei cananei, l’autore ricorre, al di là della testimonianza della Scrittura, alla leggenda greca degli Atridi34; ciò facendo egli ha di mira sia i greci che i cananei;

– 12,19, il tema della «filantropia», nel senso di humanitas, ha conosciuto un ampio svi-luppo nella letteratura greca e fu universalizzato dagli stoici. Ma la Lettera di Aristea ne ave-va già fatto, nel giudaismo, una virtù regale35;

– in 13,1-9, l’analisi del culto degli elementi della natura si spiega soprattutto con la teo-dicea del giovane Aristotele, ripresa dagli stoici36;

– in 14,15, lo sviluppo dell’idolatria a partire dal culto di un defunto riprende verosimil-mente una delle forme del mito di Dioniso secondo una fonte che si ispirava all’evemerismo. Il culto dei sovrani, stigmatizzato in 14,16-20, ha anch’esso delle tendenze dionisiache, men-tre in 14,23-26 l’autore sembra fare allusione ai baccanali. Invece 14,22 parla forse dell’in-ganno della pax romana37;

– in 15,12, le concezioni pagane della vita che sono evocate dipendono dal mondo greco-romano;

– in Sap 17, nell’analisi psicologica della piaga delle tenebre si può riconoscere il gusto dei greci. In ogni caso, la descrizione della natura in movimento, in 17,17-18, è più greca che bi-blica;

– in 19,18, il confronto musicale è anch’esso molto greco; – in 19,21, infine, considerare la manna come ambrosia significa applicare ad essa l’idea

omerica di incorruttibilità e immortalità (Iliade 19,38; Odissea 5,93). A questi temi vanno aggiunte la dottrina dell’autore sull’immortalità. In ogni caso questi ri-

lievi denotano una grande quantità di correnti greche ed ellenistiche. Non si può perciò dire che il nostro autore dipenda, per esempio, da una filosofia particolare. Appare piuttosto come un eclettico, prendendo ciò che si adatta al suo scopo là dove lo trova e integrandolo nella sua sintesi; ma, in compenso, non si può negare una reale influenza del mondo ellenistico.

31 Cfr. È. DES PLACES, Épithètes et attributs de la "Sagesse" (Sg 7,22-23) et SVF I 557 Arnim, in Bib 57

(1976) 414-419. 32 Cfr. G. VERBEKE, L’Évolution de la doctrine du Pneuma du stoicisme à St Augustin, Paris-Louvain 1945,

223-236. 33 Cfr. E. GENZMER, Pondere, numero, mensura, in Archives d’histoire du droit oriental – Revue interna-

tionale des droits de l’Antiquité 1 (1952) 469-494. 34 Cfr. D. GILL, The Greek Sources of Wisdom XII 3-7, in VT 15 (1965) 383-386. 35 C. SPICQ, La Philanthropie hellénistique, vertu divine et royale, in StTh 12 (1958) 169-191; R. LE DÉAUT,

Philanthropia dans la littérature grecque jusqu’au Nouveau Testament, in Mélanges E. Tisserant, 1 (Studi e Te-sti 168), Rome 1964, 255-294.

36 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 1-52; A.-M. DUBARLE, La Manifestation naturelle de Dieu d’après l’Écriture (LeDiv 91), Paris 1976, 127-154.

37 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 146-149.

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Sapienza 127

2. IL MESSAGGIO

2.1. MORTE, IMMORTALITÀ ED ESCATOLOGIA

L’autore affronta queste tematiche soprattutto in Sap 1–638, ma il suo pensiero è ricco di sfumature e perciò difficile da esplicitare; dovrà essere completato alla luce del resto del libro.

La morte, secondo lui, ha due livelli. C’è, naturalmente, la morte fisica. Gli empi danno ad essa un tale rilievo distruttore dell’uomo che, ai loro occhi, al di là di essa non c’è nulla (2,1-5). Dalla loro tesi sulla morte fisica essi deducono la validità di un comportamento sulla terra totalmente immorale (2,6-20): ciò che essi rivendicano come vita quaggiù è in realtà una mor-te spirituale, dove non c’è evidentemente alcun posto per Dio.

Ora, rileggendo Gen 1–3, il nostro autore è convinto che Dio, nel suo progetto iniziale, ab-bia destinato l’essere umano all’immortalità (a)Janasi/a; 1,13-16), all’incorruttibilità (a)fJar-si/a; 2,23-24). Ciò suppone che l’essere umano rimanga in amicizia con il suo Creatore. Ma il diavolo, identificato per la prima volta con il serpente di Gen 3, introdusse la morte nel mon-do (2,24). Questa ha nuovamente due livelli: disobbedendo, l’essere umano si separa da Dio – è la morte spirituale – e la morte fisica diventa di conseguenza il suo destino.

Questa morte fisica, che ora colpisce tutti, non è però l’ultima parola. Infatti, se il progetto iniziale del Creatore è stato svilito, non è stato totalmente abbandonato. I giusti, coloro che re-stano fedeli al Signore, passano come tutti attraverso la morte fisica, ma per essi questa morte è solo un passaggio verso la vera vita di amicizia con Dio (3,9; 4,14-15; 5,5). Per il giusto, la morte fisica non domina la vita spirituale: questa non sarà annientata, ma riceverà, al di là del-la morte fisica, la sua pienezza. Il progetto del Creatore non è caduco.

Praticando sulla terra la giustizia, l’essere umano si assicura l’immortalità (1,15). L’autore di Sap, quando parla di incorruttibilità, pensa anche alla risurrezione dei corpi? Esplicitamente no39.

Durante la vita terrena degli uomini Dio, onnipresente con la sua Sapienza e il suo Spirito, indaga con cura (1,6-10). Al momento della resa dei conti, al di là della morte fisica, i giusti saranno ammessi alla corte divina (5,5), mentre contro gli empi Dio si armerà delle forze co-smiche per annientare ogni potere terreno; affiora qui l’apocalittica. L’autore lega quindi l’escatologia a una cosmologia. Il mondo di quaggiù, regno degli empi, sparirà con essi; ma l’autore non si pronuncia sulla sorte finale degli empi. Rimarrà soltanto il regno dei giusti con Dio e i suoi angeli nell’aldilà.

Ma, se il dominio terreno degli empi sarà distrutto da Dio armato delle forze del cosmo, bi-sogna pensare che i corpi dei giusti sfuggiranno alla distruzione totale? Non viene detto, ma sembra essere suggerito implicitamente.

2.2. LA SAPIENZA E LO SPIRITO40

Per il nostro autore parlare della Sapienza significa collegarla allo Spirito e quindi a Dio, ma anche al saggio, al mondo e alla storia. Più di ogni altro testo biblico anteriore (cfr. Is 11,2; Sir 1,9-10), Sap 1,6; 7,22 e 9,1741 accostano Sapienza e Spirito. Essendo abitata dallo Spirito (7,22), la Sapienza gode delle sue stesse prerogative. Il problema principale del nostro autore potrebbe essere stato quello di ogni pensiero religioso: come conciliare la trascendenza e l’im-manenza di Dio? Accostare Sapienza e Spirito poteva aiutare a risolvere il problema. Da Pr 8

38 Cfr. M.-J. LAGRANGE, Le Livre de la Sagesse, sa doctrine des fins dernièrs, in RB, n.s., 4 (1907) 85-104;

R. SCHULZ, Les Idées eschatologiques du Livre de la Sagesse, Paris-Strasbourg 1935; J. P. WEISENGOFF, Death and Immortality in the Book of Wisdom, in CBQ 3 (1941) 104-133; R. TAYLOR, The Eschatological Meaning of Life and Death in the Book of Wisdom I–V, in EThL 42 (1966) 77-137; LARCHER, Études, 237-337.

39 Testi veterotestamentari sulla risurrezione dei corpi: Dan 12,2; 2Macc 7,11.14.23.29.36; 12.36-46; 14,46. 40 Cfr. LARCHER, Études, 362-414. 41 Cfr. M. GILBERT, Volonté de Dieu et don de la Sagesse (Sg 9,17s.), in NRTh 93 (1971) 145-166.

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128 Sapienza

e Sir 1,10 e 24,3-22, si sapeva che la Sapienza ha la sua origine in Dio. E l’autore di Sap 7 si sforza di situarla il più possibile nella sfera del divino (7,25-26; 8,3). Ma per parlare della sua immanenza, la dottrina stoica dello pneuma o soffio cosmico offriva una delucidazione alla quale si rifà il nostro autore, senza però cadere nel panteismo del Portico (cfr. 1,7 e 12,1). Con queste due correnti, biblica e stoica, si spiega l’accostamento tra la Sapienza e lo Spirito ope-rato dal nostro autore.

Di conseguenza la Sapienza esercita un’attività cosmica e storica. Nella creazione del mondo essa ha un ruolo attivo: ne è l’artefice (7,12.22a; 8,6; 9,1-2) e continua a penetrarlo to-talmente (7,22-24), a rinnovarlo (7,26), a reggerlo (8,1). Di conseguenza essa entra anche ne-gli uomini se però questi non la rifiutano (1,4); offre se stessa e viene incontro a colui che la cerca (6,12-16); penetra nelle anime dei santi per farne degli amici di Dio e dei profeti (7,27). Essa opera in loro la correzione morale di cui hanno bisogno (9,18–10,1); li salva da ogni pe-ricolo (10,6.9-14), li conserva irreprensibili davanti a Dio (10,5); fu essa a guidare Mosè e il popolo ebraico nel deserto (10,15–11,1). Se il saggio domanda a Dio la Sapienza, gli sarà ac-cordata, ed egli sarà allora in grado di realizzare la sua vocazione di uomo e la missione per-sonale che ha ricevuto da Dio (9); essa lo aprirà a tutte le scienze il cui oggetto è il mondo che essa anima (7,17-21; 8,8); gli accorderà i vantaggi della regalità (7,8-11; 8,10-15) e le virtù (8,7). Altro fatto, enigmatico: il saggio sarà il suo amante, il suo sposo (6,18; 8,2.9.16.18)42. Di conseguenza, l’immortalità, l’incorruttibilità saranno assicurate a colui che la desidera, l’ama e gli è fedele (6,17-19).

2.3. STORIA E COSMO43

La lunga rilettura in forma di preghiera degli episodi dell’esodo conferma le tesi principali del nostro autore. La particolare importanza dell’esodo sta nel fatto che quanto accadde in oc-casione dell’uscita dall’Egitto e nel deserto costituisce l’evento fondatore d’Israele. Ora, que-sto evento fondatore continua a segnare tutta la sua storia, anzi tutta la storia, a esservi presen-te, ed è alla luce dell’esodo che Israele può rileggere la sua storia e la sua situazione presente.

Al momento dell’esodo si trovarono a confronto due gruppi umani. L’uno per rifiutare il piano di Dio, disconoscerlo, o addirittura per travisarlo adorando gli elementi del mondo: questi sono gli empi (11,9). L’altro per sottomettersi alla pedagogia divina (11,10), accogliere le lezioni che offrono gli eventi (16,6.12; ecc.) e pentirsi delle loro colpe (16,5-6, ecc.): questi sono i giusti (11,14; ecc.). Il vero combattente non è nessuno di questi due gruppi, ma il Si-gnore (11,7-14; ecc.).

Ora, il Signore prende le sue armi dal cosmo: alcuni elementi del cosmo diventano nella mano di Dio degli strumenti della sua lotta contro gli empi e in favore dei giusti. L’autore, ri-flettendo sui racconti biblici dell’esodo, individua in essi due principi complementari dell’azione divina: 1) lo stesso elemento del cosmo serve a castigare gli empi e a salvare i giu-sti (11,5); 2) gli empi vengono puniti con lo stesso strumento delle loro colpe (11,15). Questo secondo principio stabilisce un rapporto di causalità tra la colpa e la punizione; il primo vede un’antitesi tra le piaghe d’Egitto e i benefici accordati a Israele nel deserto. Questi due princi-pi funzionano nella mano di Dio: per esempio, per aver deciso di annegare i primogeniti di I-sraele gli egiziani non poterono più bere l’acqua del fiume, mentre gli ebrei si dissetarono alla roccia (11,5-14). Si può quindi vedere l’importanza dell’arma cosmica.

In effetti, in questo combattimento di Dio l’autore vede la nuova creazione (16,24, al cen-tro del dittico e sviluppato in conclusione: 19,10-12.18-21). Ora, questa creazione nuova cul-

42 Cfr. P. BEAUCHAMP, Épouser la Sagesse – ou n’épouser qu’elle? Une énigme du Livre de la Sagesse, in La

Sagesse de l’AT, 347-369. 43 Cfr. H. EISING, Die theologische Geschichtbetrachtung im Weisheitbuche, in Vom Worl des Lebens. Fest-

schrift M. Meinertz, Münster 1951, 28-40; P. BEAUCHAMP, Le salut corporel; J. P. M. SWEET, The Theory of Mi-racles in the Wisdom of Salomon, in C. F. D. MOULE (ed.), Miracles, London 1965, 115-126; J. J. COLLINS, Co-smos and Salvation: Jewish Wisdom and Apocalyptic in the Hellenistic Age, in HThR 17 (1977-1978) 121-142.

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Sapienza 129

mina nel dono della manna agli ebrei, simbolo della Parola che nutre (16,25-26), alimento di immortalità (19,21). La storia implica così una cosmologia e fonda nello stesso tempo una e-scatologia. Non sorprende allora vedere l’autore affermare, al termine del suo esordio (5,17-23), che alla fine della storia umana Dio si servirà del cosmo per castigare gli empi e difende-re i giusti; questi beneficeranno dell’immortalità, il che implica probabilmente un elemento cosmico nella linea di ciò che noi chiamiamo risurrezione dei corpi. L’azione di Dio alle ori-gini è infatti esemplare di ciò che egli fa continuamente e farà alla fine.

3. L’AUTORE

3.1. L’AUTORE44

Il libro della Sapienza è anonimo. L’attribuzione a Salmone, proposta dal titolo greco del libro, è naturalmente fittizia.

Qual è allora il suo autore reale? Alcuni studiosi hanno cercato di dargli un nome. Si è pen-sato al nipote di Ben Sira che, secondo il prologo del Siracide, avrebbe tradotto in greco l’opera del nonno; ma Sap non può essere stato scritto nel II secolo prima della nostra era, come vedremo. Fin dall’antichità cristiana alcuni, come per esempio Girolamo, hanno pensato a Filone d’Alessandria; ma, anche se non mancano le corrispondenze tra Sap e le opere del fi-losofo alessandrino, quest’ultimo si interessa quasi esclusivamente al Pentateuco, mentre l’autore di Sap si ispira chiaramente anche ai profeti e agli «Scritti» dell’Antico Testamento; inoltre, Filone suppone un’esegesi allegorica che non si incontra nel libro della Sapienza; in-fine, Filone attribuisce una grande importanza alla teoria platonica delle Idee, che invece è i-gnorata completamente da Sap45.

Appare molto probabile che l’autore di Sap, rimasto sconosciuto, sia un ebreo di Alessan-dria. Ebreo, certamente, dato che nella sua opera non traspare niente di cristiano (Sap 2,10-20 non è un’allusione alla passione di Gesù, almeno nelle intenzioni dell’autore). Alessandrino, è verosimile, perché così si spiegherebbe la sua cultura ellenistica: la comunità giudaica di A-lessandria era aperta all’ellenismo, come dimostra l’opera di Filone. Inoltre, Sap accorda un posto del tutto particolare agli egiziani: la scelta stessa del suo soggetto in Sap 11–19 potrebbe rivelare la sua origine geografica.

3.2. DATAZIONE46

Se fino a poco tempo fa molti critici optavano per gli anni 100-50 a.C., attualmente c’è la tendenza a situare la composizione di Sap o dopo il 50 a.C. o al più presto a partire dal 30, an-no che segna l’inizio del trionfo di Augusto.

In effetti, anche se il libro forma un’unità organica in cui non si può vedere alcuna interpre-tazione cristiana, il fatto che vi si incontrino delle parole come Jrhskei/a (thrêskéia) e se/basma (sébasma), nel senso di venerazione cultuale e di oggetto di questa venerazione, è un principio sufficiente per datare il libro nel periodo augusteo dato che questi due termini conobbero la loro fortuna proprio sotto il regno di Augusto; l’allusione alla pax romana in 14,22 può essere una conferma47.

44 Cfr. LARCHER, Le Livre de la Sagesse I, 125-139. 45 Cfr. LARCHER, Études, 151-178. 46 Cfr. LARCHER, Le livre de la Sagesse, 141-161; GILBERT, DBS 11, 91-93. 47 Cfr. GILBERT, Critique des dieux, 126-173.

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130 Sapienza

3.3. SCOPO E AMBIENTE

Anche per determinare l’intenzione dell’autore disponiamo solo degli indizi forniti dalla sua opera. Secondo Reese48, «il Saggio scrive con uno scopo ben preciso: permettere ai futuri leader intellettuali del suo popolo di sviluppare un atteggiamento positivo di fronte alla loro presente situazione». Cosa significa?

Il genere letterario scelto dall’autore lascia intendere che la sua opera voglia rivolgersi a un pubblico accademico. Come tutti i saggi dell’Antico Testamento, è possibile che egli abbia avuto il compito di preparare la gioventù migliore della sua comunità ad assumere un giorno le responsabilità in seno a questa comunità.

D’altra parte, da profondo credente, egli intende riformulare per il suo tempo e in piena fe-deltà l’essenziale del messaggio ricevuto dagli antenati. Il suo ricorso a tante parti della Bib-bia dimostra pure che egli intendesse offrire una specie di sintesi. Ciò risponde del resto ad al-cune particolari preoccupazioni. La comunità è divisa (Sap 2). Alcuni sono a tal punto sedotti dalla cultura greca da rifiutare il patrimonio ancestrale; questi arrivano fino al punto di susci-tare tumulti nella comunità. L’autore certamente non approva il loro atteggiamento e annuncia loro lo smacco finale. Egli non si chiude però all’ellenismo, al quale sa attingere con discer-nimento senza mai diventarne schiavo, non mancando di criticarlo quando lo ritiene opportu-no. Questa apertura la insegna implicitamente col suo esempio all’altro gruppo di coloro che vogliono restare fedeli alla loro fede. Egli mostra loro anche il cammino della speranza nelle difficoltà e nelle sofferenze attuali. Il Signore non abbandona i suoi: restando fedeli a Lui, essi conosceranno la vita e la pace; la Sapienza non è forse una guida, come a suo tempo guidò gli antenati? E l’evento fondatore d’Israele, l’esodo, non è un puro avvenimento del passato: ri-mane come esempio per il presente perché ciò che il Signore ha fatto lo rinnova sempre e do-vunque in favore dei suoi fedeli (Sap 19,22).

BIBLIOGRAFIA COMMENTATA Una bibliografia completa di M. GILBERT, in C. LARCHER, Le Livre de la Sagesse, 11-48.

Commenti

LARCHER, C., Le livre de la Sagesse ou la Sagesse de Salomon (EtB n.s.), Paris 1983-1985. È il commento al libro della Sapienza più ampio, più maturo e meglio concepito. L’opera consta di

tre volumi. Il primo è dedicato alla bibliografia (molto ricca, pp. 11-48), a opera di M. Gilbert; all’introduzione generale (pp. 53-161): testo e versioni, analisi letteraria, autore e data di composizio-ne; al commento di 1,1–3,19 (pp. 163-311). Nel secondo volume (continua la numerazione di pagina del primo: pp. 312-648) l’autore commenta i capp. 4–10; nel terzo (pp. 649-1094) vengono commenta-ti i capp. 11–19.

SCARPAT, G., Libro della Sapienza, 3 voll., Brescia 1989-1999. È un commento ambizioso. L’introduzione, eccessivamente breve (vol. I, pp. 13-29) è dedicata a

una disamina erudita del problema della data di composizione della Sapienza. Il commentario studia il libro della Sapienza secondo due prospettive: il testo dei LXX e il testo e il commento della Vetus La-tina. Si tratta di un’opera di grande erudizione, in cui l’autore mostra le sue vaste conoscenze nell’ambito delle lingue e letterature greca e latina. Talvolta la preoccupazione di citare paralleli dot-trinali da questi due ambiti letterari toglie qualche profondità al commento biblico propriamente detto.

VÍLCHEZ LÍNDEZ, J., Sapienza, Roma 1990. È il miglior commento scritto in lingua spagnola (e tradotto in italiano) e, senza dubbio, uno dei più

qualificati nel panorama internazionale. Il libro si apre con un’introduzione di 125 pagine, completata da una bibliografia scelta ma sufficiente (pp. 126-140). Nell’introduzione viene affrontata la problema-tica propria dell’opera, con discussioni ampie e, in certi casi, erudite. Il commento, ampio (pp. 141-

48 Hellenistic Influence, 148.

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Sapienza 131

543), evidenzia la maestria dell’autore e l’equilibrio dei suoi criteri. Tre utilissime appendici chiudono l’opera: 1. I giudei in Egitto. 2. Lo statuto dei giudei ad Alessandria. 3. La letteratura giudeo-ellenistica alessandrina.

WINSTON, D., The Wisdom of Salomon (AB 43), Garden City, N.Y. 1979. Questo commento segue la linea caratteristica della «Anchor Bible»: ampia introduzione; testo e

commento, quest’ultimo ridotto in sostanza ai problemi testuali. Nell’introduzione (pp. 3-69) si segna-la la sezione relativa alle idee religiose palesi o soggiacenti al libro della Sapienza. Questo libro, pur raccomandabile, abusa del ricorso alla metodologia storico-religiosa.

Altre opere

GILBERT, M., La critique des dieux dans le livre de la Sagesse (AnBib 53), Roma 1973. Pregevole tesi di dottorato in scienze bibliche. Benché la tematica riduca il campo d’osservazione

ai soli capp. 13–15, il lettore può ricavarne una visione globale dell’intero libro della Sapienza.

LARCHER, C., Études sur le livre de la Sagesse (EtB), Paris 1969. L’opera è servita all’autore per maturare il proprio pensiero sulla Sapienza in vista della pubblica-

zione del suo ottimo commento in tre volumi. Consta di cinque capitoli: 1. Il libro della Sapienza nella chiesa di Cristo (Nuovo Testamento, Padri della Chiesa, altre chiese cristiane: pp. 11-84). 2. Il libro della Sapienza e la letteratura biblica e giudaica (Antico Testamento, Enoc, Qumran, giudaismo elle-nizzato, Filone: pp. 85-178). 3. L’influenza dell’ellenismo (pp. 179-236). 4. L’immortalità dell’anima e le retribuzioni trascendenti (pp. 237-327). 5. La sapienza e lo Spirito (pp. 329-414). Molto utile l’indice analitico (pp. 427-433). Opera da cui non si può prescindere.

MACK, B.L., Logos und Sophia. Untersuchungen zur Weisheitstheologie im hellenistischen Judentum (SUNT 10), Göttingen 1973.

Sebbene l’esame del libro della Sapienza occupi solo un terzo del volume (pp. 63-107), il quadro nel quale questa è inserita consente di apprezzare il contenuto e la portata del concetto di sapienza nel suo sviluppo dalla letteratura biblica vera e propria sino a Filone, grazie all’abilità magistrale con cui l’autore passa in rassegna la figura della sapienza nei Proverbi, Giobbe, Ecclesiastico, Sapienza e nell’opera dell’illustre giudeo alessandrino.

OFFERHAUS, U., Komposition und Intention der Sapientia Salomonis, Bonn 1981. Eccellente analisi storico-letteraria del libro della Sapienza elaborata a partire dalle sue tre sezioni

1,1–6,8; 6,9–9,18; 10,1–19,22. L’autore offre uno studio magistrale di parallelismi, inclusioni e corri-spondenze interne dei diversi sviluppi tematici. L’opera si conclude con più di cento pagine di note cri-tiche e un’ampia bibliografia.

REESE, J.M., Hellenistic Influence on the Book of Wisdom and Its Consequences, Roma 1970. L’opera è composta di cinque parti: 1. Portata dell’influenza ellenistica nel libro della Sapienza

(studio lessicale e stilistico). 2. Profondità dell’influenza ellenistica (sviluppo di tre temi: rapporto dell’uomo con Dio; natura dell’immortalità dell’uomo; antropologia della sapienza). 3. Il genere lette-rario del libro della Sapienza. 4. Unità e destinatari. 5. Riassunto e conclusioni.

Inoltre, si possono utilmente consultare i seguenti commentari e studi:

CONTI, M., Sapienza (NVB 22), Roma 1975. VIRGULIN, S., Sapienza, in T. BALLARINI (ed.), Ultimi storici, Salmi, Sapienziali (Introduzione alla

Bibbia 3), Bologna 1978, 473-500. BIZZETI, P., Il libro della Sapienza. Struttura e genere letterario (Supplementi alla Rivista Biblica 11),

Brescia 1984. GILBERT, M., Sagesse de Salomon (ou Livre de la Sagesse), in DBS 11 (1986) 58-119. PRIOTTO, M., La prima pasqua in Sap 18,5-25, Bologna 1987. RAVASI, G., Sapienza (Libro della), in Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Cinisello Balsamo 1988,

1442-1447. BONORA, A., Proverbi-Sapienza: sapere e felicità (LoB 1.14), Brescia 1990 SISTI, A., Il libro della Sapienza, Assisi 1992.

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132 Sapienza

MAZZINGHI, L., Notte di paura e di luce. Esegesi di Sap 17,1–18,4 (Analecta Biblica 134), Roma 1995.

GILBERT, M., La Sapienza di Salomone, 2 voll., Roma 1995. DE CARLO, G., «Ami, infatti, gli esistenti, tutti». Studio di Sap 11,24, in Laur 36 (1995) 391-434. WRIGHT, A.G., La Sapienza, in Nuovo Grande Commentario Biblico, Brescia 1997, 665-681. MORLA ASENSIO, V., Il libro della Sapienza, in IDEM, Libri sapienziali e altri scritti (Introduzione allo

studio della Bibbia 5), Brescia 1997, 209-230. BONORA, A., Libro della Sapienza, in A. BONORA - M. PRIOTTO (edd.), Libri sapienziali e altri scritti

(Logos 4), Torino-Leumann 1997, 99-114. FABBRI, M. V., Creazione e salvezza nel libro della Sapienza. Esegesi di Sapienza 1,13-15 (Studi di

teologia 6), Roma 1998. DE CARLO, G., L’amore provvidente e universale di Dio in Sap 11,24–12,1, in G. BORTONE (a cura di),

La Provvidenza nella Bibbia (Studio Biblico Teologico Aquilano 21), L’Aquila 2001, 103-142. BELLIA, G. - PASSARO, A (edd.), Il Libro della Sapienza. Tradizione, redazione, teologia (Studia Bibli-

ca 1), Roma 2004.

Infine, il numero unico di Parole di Vita, n. 5/2003: «Il libro della Sapienza».

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INDICE

Prima parte LIBRI SAPIENZIALI

Introduzione generale – Introduzione a ciascun libro sapienziale

INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE SAPIENZALE BIBLICA ___________________ 4 

Introduzione ___________________________________________________________________ 4 

1. Terminologia _________________________________________________________________ 4 

2. Le forme di espressione ________________________________________________________ 5 

3. Sapienze del Vicino Oriente Antico non biblico _____________________________________ 5 3.1. Le liste _________________________________________________________________________ 6 3.2. Le antiche raccolte di sentenze _______________________________________________________ 6 3.3. Altri testi ________________________________________________________________________ 6 3.4. Cos’è la sapienza? _________________________________________________________________ 7 3.5. La Bibbia e le sapienze pagane _______________________________________________________ 8 

4. La sapienza biblica ____________________________________________________________ 8 4.1. I Libri sapienziali _________________________________________________________________ 8 4.2. Negli altri libri biblici ______________________________________________________________ 8 

5. Origine della sapienza in Israele ________________________________________________ 10 5.1. Salomone modello dei saggi ________________________________________________________ 10 5.2. Scribi e scuole ___________________________________________________________________ 11 5.3. Origine popolare della sapienza _____________________________________________________ 11 

6. Il fine della sapienza __________________________________________________________ 11 

7. L’atteggiamento dei saggi _____________________________________________________ 12 7.1. Il consiglio _____________________________________________________________________ 12 7.2. I limiti della sapienza _____________________________________________________________ 12 7.3. La sapienza di Do ________________________________________________________________ 13 7.4. Il problema della retribuzione _______________________________________________________ 13 7.5. Una riflessione sulla storia della salvezza ______________________________________________ 14 

8. La personificazione della sapienza nell’AT _______________________________________ 14 8.1. I testi __________________________________________________________________________ 14 8.2. Interpretazione __________________________________________________________________ 16 

9. Gesù e la sapienza nel NT _____________________________________________________ 17 9.1. Nei Vangeli Sinottici ______________________________________________________________ 17 9.2. In Paolo ________________________________________________________________________ 17 9.3. In Giovanni _____________________________________________________________________ 18 9.4. Interpretazione __________________________________________________________________ 18 

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 19 

PROVERBI _______________________________________________________________ 22 

1. Presentazione d’insieme _______________________________________________________ 22 1.1. Il contesto ______________________________________________________________________ 22 1.2. La struttura del libro ______________________________________________________________ 22 1.3. Il ruolo di Salomone ______________________________________________________________ 23 1.4. Dall’elaborazione d’un proverbio alla raccolta __________________________________________ 24 1.5. Gli argomenti affrontati ___________________________________________________________ 26 

Page 134: Introduzione Ai Libri Sapienziali

134 Indice

2. Il prologo (Pr 1–9), l’epilogo (Pr 31,10-31) e la sapienza_____________________________ 34 2.1. Le caratteristiche del prologo _______________________________________________________ 34 2.2. Il discorso della Sapienza in Pr 8 ____________________________________________________ 35 2.3. Il banchetto della Sapienza (Pr 9,1-6) ________________________________________________ 39 2.4. L’epilogo: Il ritratto della donna forte (Pr 31,10-31) _____________________________________ 41 

Conclusione ___________________________________________________________________ 45 

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 45 

GIOBBE _________________________________________________________________ 48 

1. Giobbe nella storia ___________________________________________________________ 48 

2. Il personaggio di Giobbe ______________________________________________________ 50 

3. Paralleli extra-biblici _________________________________________________________ 52 3.1. Mesopotamia ____________________________________________________________________ 52 3.2. Egitto _________________________________________________________________________ 53 

4. Genere letterario ____________________________________________________________ 54 4.1. Un dramma _____________________________________________________________________ 54 4.2. Un procedimento giudiziario _______________________________________________________ 54 4.3. Una disputa sapienziale ___________________________________________________________ 54 4.4. Una lamentazione salmica _________________________________________________________ 55 

5. La struttura del libro _________________________________________________________ 55 

6. Le tappe della composizione ___________________________________________________ 56 6.1. Il racconto popolare primitivo ______________________________________________________ 57 6.2. L’opera poetica del V secolo ________________________________________________________ 57 6.3. I discorsi di Eliu _________________________________________________________________ 57 6.4. Il poema sulla Sapienza introvabile (Gb 28) ____________________________________________ 58 

7. Percorso di lettura del libro di Giobbe ___________________________________________ 58 7.1. La posta in gioco _________________________________________________________________ 58 

7.1.1. I molteplici sensi ______________________________________________________________ 58 7.1.2. Il filo conduttore del libro _______________________________________________________ 59 

7.2. Lo svolgimento del dramma ________________________________________________________ 59 7.2.1. La condizione iniziale: la felicità di Giobbe _________________________________________ 59 7.2.2. La sfida: «scommetto che ti maledirà in faccia» ______________________________________ 60 7.2.3. I linguaggi degli attori del dramma _______________________________________________ 62 7.2.4. Il verdetto: «ha parlato di me rettamente» __________________________________________ 79 7.2.5. La condizione finale: la restaurazione doppia di Giobbe _______________________________ 80 

7.3. Conclusione ____________________________________________________________________ 80 7.3.1. I generi di linguaggio religioso di Giobbe __________________________________________ 80 7.3.2. Le tappe della crescita interiore di Giobbe __________________________________________ 80 

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 83 

QOHELET _______________________________________________________________ 86 

1. Un enigma per i commentatori _________________________________________________ 86 

2. Interesse e attualità di Qohelet _________________________________________________ 86 

3. Data di composizione _________________________________________________________ 86 

4. Struttura letteraria ___________________________________________________________ 87 

5. Messaggio __________________________________________________________________ 87 

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 89 

CANTICO DEI CANTICI ___________________________________________________ 92 

1. Aspetto letterario del Cantico __________________________________________________ 92 1.1. Contenuto ______________________________________________________________________ 92 1.2. Struttura _______________________________________________________________________ 92 

2. Data di composizione _________________________________________________________ 93 

Page 135: Introduzione Ai Libri Sapienziali

Indice 135

3. Le grandi correnti di interpretazioni ____________________________________________ 93 3.1. Letterale _______________________________________________________________________ 93 3.2. Allegorica ______________________________________________________________________ 94 3.3. Antologica ______________________________________________________________________ 94 3.4. Cultuale ________________________________________________________________________ 95 

4. Una teologia dell’amore _______________________________________________________ 95 4.1. Verso un’ermeneutica del «duplice significato» _________________________________________ 95 4.2. Una teologia dell’amore umano _____________________________________________________ 96 4.3. Una parabola dell’amore divino _____________________________________________________ 97 

Bibliografia commentata ________________________________________________________ 97 

SIRACIDE ______________________________________________________________ 100 

1. Presentazione d’insieme ______________________________________________________ 100 1.1. Di quali testi disponiamo? ________________________________________________________ 100 1.2. La trasmissione del libro __________________________________________________________ 102 1.3. L’autorità del libro ______________________________________________________________ 102 1.4. La personalità di Ben Sira _________________________________________________________ 103 1.5. Come è strutturato il libro di Ben Sira? ______________________________________________ 105 

2. Il messaggio ________________________________________________________________ 106 2.1. Timor di Dio e sapienza __________________________________________________________ 106 2.2. L’uomo (Sir 16,24–17,14) _________________________________________________________ 107 2.3. Sapienza e Legge (Sir 24,1-34) _____________________________________________________ 107 2.4. La preghiera ___________________________________________________________________ 108 2.5. Teodicea ______________________________________________________________________ 109 2.6. Le donne ______________________________________________________________________ 109 2.7. Elogio dei padri (cc. 44–49) _______________________________________________________ 110 2.8. Le prospettive future _____________________________________________________________ 110 

Bibliografia commentata _______________________________________________________ 110 

SAPIENZA ______________________________________________________________ 114 

1. Il libro ____________________________________________________________________ 114 1.1. Contenuto e struttura letteraria del libro ______________________________________________ 114 1.2. Genere letterario ________________________________________________________________ 119 1.3. Unità del libro __________________________________________________________________ 121 1.4. Il libro della Sapienza e l’Antico Testamento __________________________________________ 122 1.5. Il libro della Sapienza e la letteratura giudaica _________________________________________ 124 1.6. Il libro della Sapienza e la cultura greca ______________________________________________ 125 

2. Il messaggio ________________________________________________________________ 127 2.1. Morte, immortalità ed escatologia __________________________________________________ 127 2.2. La Sapienza e lo Spirito __________________________________________________________ 127 2.3. Storia e cosmo __________________________________________________________________ 128 

3. L’autore ___________________________________________________________________ 129 3.1. L’autore _______________________________________________________________________ 129 3.2. Datazione _____________________________________________________________________ 129 3.3. Scopo e ambiente _______________________________________________________________ 130 

Bibliografia commentata _______________________________________________________ 130