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Chat and mail interviews CULTURA AND BIZ Un viaggio virtuale con Marco Pozza alla scoperta dei mirabolanti misteri nascosti nella Storia Professore Universitario

Marco Pozza è professore associato all’Università Cà Foscari di Venezia, con insegnamento in Diplomatica e Paleografia Documentaria, e ricercatore in campo storico archivistico internazionale. Un settore affascinante, fatto di storie nascoste che ritornano alla luce grazie al lavoro paziente di ricerca in carte antiche dal profumo

inconfondibile e dalle scritture veloci, dal colore nocciola e nero, che sembrano misteriose creazioni artistiche. Le università italiane stanno attraversando momenti difficili, contestazioni, tagli, scarsa attenzione da parte degli organi competenti in materia di ricerca e sviluppo. Qual è il suo punto di vista in merito alla situazione contingente e futura degli atenei italiani? «Qualcuno sostiene che la civiltà di una nazione si misuri in base all'attenzione rivolta alla cultura. Io sono d'accordo. Pertanto, sono molto preoccupato per la situazione attuale e le prospettive future della nostra struttura universitaria. Vorrei essere ottimista, come da mia natura, ma credo che ci sia poco da stare allegri in questo momento. Spero ovviamente di sbagliarmi. C'è un urgente bisogno di ricambio del corpo docente, ma la tendenza in atto è quella di ridurre il personale, di ricreare un ampio precariato, di non premiare sempre il merito. Un altro problema è che si tende a valutare ogni cosa in termini quantitativi: più studenti, più esami, più tesi, non tenendo conto che la quantità non procede necessariamente di pari passo con la qualità. C'è poi la grossa questione della mancanza di adeguati sbocchi lavorativi per i neolaureati etc». Concordo pienamente con il quadro che ha delineato, il merito è poi un nodo difficile da sciogliere per l'Italia La ricerca in Italia ha scarsa considerazione anche nelle aree scientifiche, figuriamoci nel vasto campo delle discipline umanistiche e storico artistiche; sebbene la conoscenza della storia sia una delle chiavi essenziali per interpretare il proprio presente e disegnare il futuro in maniera corretta.

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Lei è un ricercatore, cosa l’ha spinta ad intraprendere la carriera universitaria e quali sono le difficoltà che incontra nel fare, oggi, ricerca in Italia? «Quando ero uno studente, non avrei mai pensato di abbracciare la carriera universitaria, non essendo un figlio d'arte. Ma l'attività di studio e di ricerca mi ha appassionato al punto da farmi compiere questa scelta. Ho lavorato moltissimo per riuscire a emergere. Sono stato naturalmente sostenuto da chi ha creduto nelle mie potenzialità, ma ho dovuto fare una lunga gavetta. Ora, che sono arrivato quasi all'apice della mia carriera, non rimpiango quanto ho dato, la passione per la ricerca è rimasta immutata, la voglia di scrivere lo stesso. Forse non c'è più il sacro fuoco, ma il desiderio di continuare al meglio possibile questo lavoro è rimasto intatto. Devo inoltre riconoscere che con le moderne tecnologie mi è più facile svolgere l'attività di ricerca oggi rispetto al passato». La storia, affascinante narrazione mai banale, viene sempre più considerata come una materia di serie B, da accantonare a vantaggio di altre e da affrontare in maniera decisamente superficiale e rapida, basta dare un’occhiata ai programmi ministeriali per le diverse classi scolastiche italiane. Per me, archeologa, è un delitto perpetrato dall’ignoranza in materia, Lei come definirebbe la storia e quali suggerimenti darebbe per ridare slancio allo studio del nostro passato? «Secondo un vecchio detto la storia è "magistra vitae". Potrebbe sembrare una definizione banale ma realistica, pensandoci bene e considerati gli errori nei quali non di rado incorrono ai giorni nostri personaggi dotati di funzioni pubbliche, evidentemente poco esperti di vicende storiche. La storia dovrebbe essere sicuramente più valorizzata a livello di istruzione scolastica. Per una sua migliore conoscenza, oltre a un maggiore spazio nei programmi ministeriali, bisognerebbe, a mio avviso, incoraggiare le ricerche individuali degli studenti su temi specifici, come da miei lontani ricordi liceali,

mentre in ambito accademico sarebbe opportuno resuscitare la vecchia attività seminariale di ricerca, spesso più utile rispetto ai corsi ufficiali, che le riforme dell'ultimo decennio hanno fatto praticamente scomparire. Per discipline particolari, comprese le materie di cui mi occupo in prevalenza: paleografia e diplomatica, mi parrebbe inoltre indispensabile favorire l'attività sul campo da parte degli studenti, mediante visite guidate e attività seminariali presso istituti di conservazione, come faccio ogni volta possibile». Concordo, bisognerebbe valorizzare la storia attraverso la pratica attiva, sarebbe il miglior modo per renderla viva e vitale. In Italia uno dei punti deboli del mondo accademico è la scarsa propensione alla pubblicazione sistematica dei processi di studio e ricerca; non è raro attendere anni per vedere stampati in costose edizioni i risultati, molte volte parziali e già superati. I tempi lunghi non danno la possibilità di seguire il costante aggiornamento degli studi, che andrebbe a vantaggio di tutti gli studiosi e degli addetti ai lavori del settore. Oggi grazie alla possibilità di auto pubblicare velocemente sul Web, con tanto di codice isbn e detenzione dei diritti da parte dell’autore, potrebbe essere più facile aggiornare, quasi in tempo reale, i parziali risultati degli studi e delle ricerche; ferma restando la possibilità di raccogliere, poi, i risultati in via definitiva in volumi di maggiore pregio. Personalmente Lei crede sia davvero una strada percorribile e che vada veramente a vantaggio della conoscenza? «Come molti colleghi, pure io conservo nel cassetto i risultati di varie ricerche che poi pubblico a distanza di anni oppure non pubblico affatto, per le ragioni più varie. Da qualche anno però, anche per le discipline che mi interessano, si sta affermando l'edizione online, che indubbiamente presenta vantaggi non da poco rispetto a quella tradizionale cartacea: in particolare costi ridotti, tempi rapidi di collocazione, facilità di diffusione, possibilità di procedere a interventi di modifica, correzione, integrazione etc.

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Risolti i problemi legali relativi ai diritti d'autore che frenavano in passato queste iniziative, credo che questa sia la strada da seguire. Io stesso ho alcuni lavori pubblicati online e ho incoraggiato qualche allievo a seguire questa strada». Le università italiane non sono ancora in grado di utilizzare il Web in modo costruttivo e soprattutto diretto. Sarebbe un buon modo per abbattere determinati costi di gestione e per favorire la comunicazione, non sempre trasparente e chiara, fra studenti, docenti e uffici. Perché c’è ancora scarsa attenzione al Web e poca dimestichezza nell’utilizzare strumenti gratuiti, ma efficaci e liberamente disponibili su internet, per migliorare in modo semplice un servizio e favorire la libera circolazione della cultura? «La questione non si pone per la mia Università, che è fra le prime in Italia ad aver abbandonato quasi completamente la documentazione cartacea per passare al Web per tutte le attività sue proprie. Devo riconoscere che questo sistema funziona, anche se richiede da parte dei docenti l'apprendimento di conoscenze informatiche che magari non tutti possiedono, soprattutto i più anziani, o non desiderano possedere, in quanto esulano dalla loro attività istituzionale. L'Università fornisce i mezzi, poi dipende dai singoli saperli usarli. Credo che sia proprio questa la ragione principale per cui qualcuno non utilizza al meglio il Web, né per le attività d'ufficio né per quelle di ricerca. Io sono invece largamente favorevole a questo strumento che in fin dei conti ha il pregio di semplificarti la vita nel senso più esteso dell'espressione». Si sta delineando il quadro di un ricercatore in discipline che guardano all'antico decisamente moderno, in grado di utilizzare in modo ottimale tutti gli strumenti digitali che oggi abbiamo a disposizione. Molto diverso da uno stereotipo che l’immaginario collettivo ancora ha. L’accessibilità alle fonti, non solo documentarie, è sovente limitata e segue lunghissimi iter burocratici che rendono

difficile poterle studiare attraverso un’analisi autoptica diretta, non crede si dovrebbe dare maggiore accesso alle fonti anche ai giovani studenti e studiosi? Pensa che il recente processo di digitalizzazione di fonti originali possa essere una buona base di partenza per facilitarne la consultazione e per scremare gli accessi a documenti di grande valore storico in modo razionale, valorizzando la ricerca? «Io studio il passato ma vivo il presente e guardo al futuro. Sono pertanto più che favorevole alla digitalizzazione di fonti manoscritte ed edizioni delle stesse. Per fortuna, possiamo disporre già ora sia delle une che delle altre, sia pure in maniera non sistematica e molto differenziata a seconda delle diverse aree del nostro paese. Penso, ad esempio, all'edizione online delle più antiche pergamene medievali della Lombardia o alla digitalizzazione di molti manoscritti da parte dell'Archivio di Stato di Venezia. Un magnifico lavoro in questo senso sta facendo anche l'Archivio Segreto Vaticano. Tutte queste edizioni sono naturalmente facilmente consultabili da parte di studiosi e studenti interessati». Oggi “fare sinergia” è un mantra costante, ogni giorno lo si sente ripetere in tutti i settori. In teoria tutti si dicono disponibili a fare rete, a lavorare in team con obiettivi e linee di integrazione ottimale delle risorse professionali in campo. In realtà non è così semplice, né automatico, si trovano tante belle idee, proposte ma poi, al momento di scendere in campo per costruire, molte rimangono dichiarazioni d’intenti, mancano il coordinamento e l’interscambio diretto e tutto questo va a discapito del risultato. Ritiene che sia davvero possibile trovare il modo di mettere in campo progetti di studio articolati e sinergici per ottenere i migliori risultati possibili? «Personalmente non ho alcuna difficoltà a collaborare con studiosi appartenenti ad aree disciplinari diverse dalla mia. L'ho già fatto in passato e conto di rifarlo, se se ne

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presentasse la possibilità, su progetti mirati. La funzionalità di coordinamenti e interscambi è però legata alle singole persone e alla loro capacità o meno di uscire dalla "casta" alla quale appartengono e di misurarsi sul concreto, abbandonando preconcetti e l'idea di poter fare tutto da soli, secondo criteri e modalità obsolete. Nei lavori di questo genere, bisogna darsi con la massima apertura mentale e affidarsi al buon senso quando ci si trova di fronte a disparità di visione». I modelli vincenti oggi sono ben lontani dalla “cultura umanistica”, Lei che ha il polso della situazione sull’appeal che materie come le Sue hanno sugli studenti, ritiene che, oggi, i giovani siano ancora attratti dal mondo della cultura storico letteraria e quali sbocchi professionali reali possono avere per il futuro coloro che decidono di intraprendere questo tipo di percorso? «Io ritengo che il successo di una disciplina presso gli studenti dipenda da una serie di fattori, fra i quali le capacità didattiche dei docenti e la loro abilità nell'affascinare i discenti. Malgrado le discipline che insegno siano decisamente elitarie, i miei corsi, soprattutto quelli magistrali, sono ben frequentati. Spero che almeno in parte sia merito mio! Noto che questa considerazione vale anche per altre discipline umanistiche, per cui non dubito che i giovani siano ancora attratti dalla cultura storico-letteraria, malgrado il fatto che gli sbocchi occupazionali siano molto ridotti. Ragionando in termini pratici, sono convinto che una cultura esclusivamente umanistica ai giorni nostri non sia sufficiente. Consiglio sempre a studenti e laureati di non chiudere la porta a eventuali altri sbocchi, inserendo, se possibile nei loro piani di studio, anche insegnamenti scientifici e soprattutto linguistici. Credo inoltre utile che frequentino master o corsi di perfezionamento postuniversitari. Poi, ognuno sarà artefice del proprio destino». Ci racconti cosa significa navigare attraverso documenti sconosciuti alla ricerca di tasselli per ricostruire, attraverso micro storie, nuovi punti di vista per la macro storia, per nuove

riletture di processi economici, sociali e culturali di un passato che è vivo e vitale. «La navigazione tra documenti inediti alla ricerca di un filo conduttore dei loro contenuti per me equivale a una ricerca di stampo poliziesco, da detective del passato. Il massimo della soddisfazione si raggiunge, almeno dal mio punto di vista, quando si riesce a ricostruire una vicenda storica, non importa se grande o piccola, individuando il materiale utile sparso in fondi archivistici e anche in istituti di conservazione diversi. Quando si riesce in questo intento, ma non sempre la cosa va a buon fine, ci si sente al settimo cielo. In questo senso, mi ha dato la massima soddisfazione un lavoro minore rispetto alle mie monografie, che mi ha permesso di ricostruire una vicenda umana: un uxoricidio spacciato per caso di stregoneria accaduto nell'Istria del XIII secolo. Ancora adesso, a distanza di vent'anni dalla pubblicazione, gli studenti mi chiedono di trattarlo come ciliegina di fine corso». Chiudiamo con un’ultima domanda come nascono i suoi progetti di studio e di ricerca, da cosa trae spunto per intraprendere uno studio archivistico e se Le va ci racconti quali sono ora i suoi percorsi di ricerca attivi? «I miei progetti di ricerca partono in modi diversi: dalla disponibilità di un documento particolarmente interessante dal quale tento di ricostruire il contesto e gli agganci, dall'individuazione di un personaggio che ricorre in documenti diversi di cui cerco di percorrere la vita e le vicende oppure dalla scelta di una tipologia documentaria scarsamente studiata o non studiata per nulla. Seguendo queste linee, attualmente sto studiando la figura di un cancelliere del Comune di Venezia vissuto all'inizio del XIII secolo che usava come proprio simbolo il leone di san Marco e curando l'edizione critica dei documenti vescovili veneziani dal IX al XII secolo sui quali non esistono studi né edizioni complete. Poi ho molti altri progetti variamente sviluppati».

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Terra all’orizzonte, ci stiamo avvinando al porto per attraccare la nostra nave, in viaggio per un breve tragitto sulla rotta sicura della navigazione internauta di cabotaggio. Una storia fatta di commistioni fra passato e presente, dove l’antico si mescola con i più moderni mezzi digitali, uno sguardo bidirezionale che parte da ieri per arrivare al domani, attraverso la passione per la propria professione e la condivisione del proprio sapere con gli altri.

Facebook& Matemates Intervista a Paolo Pellizzari Professore Universitario Paolo Pelizzari è professore associato all’Università Cà Foscari di Venezia, dove insegna Matematica al Dipartimento di Economia. Per superare lo scoglio di una materia ostica come la sua, non me ne voglia ma la matematica incute sempre un certo timore fra gli studenti, si è inventato un modo innovativo per aggirare l’ostacolo: sbarcare ufficialmente su Facebook per essere più vicino ai discenti. Ci vuole raccontare com’è nata questa idea? «Ci sono state due principali motivazioni: La prima è che, in un certo senso, sono stato costretto. Il mio corso era, solitamente, riservato a 150 studenti e ha raggiunto 400 presenti dopo che è stato tolto il numero chiuso. Quindi ho dovuto “fare di necessità virtù” e inventarmi un nuovo modo per comunicare. Avevo già fatto diverse esperienza di e-learning e uso di computer-assisted platform per la didattica e provare Facebook è stato naturale. Ma, in realtà, dietro alle quinte c'era un'altra motivazione, avevo letto tempo fa di un'esperienza di un backchannel, un canale di comunicazione alternativo fra docenti e studenti all'url http://www.nytimes.com/2011/05/13/education/13social.html?_r=1&pagewanted=all,

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ed ero rimasto affascinato dalla possibilità di offrire questa opportunità ai miei studenti. Mettendo insieme le due cose è nata la pagina Facebook Matemates 2011, e, forse, nemmeno io all'inizio avevo ben compreso tutti gli aspetti dell'iniziativa». I social network sono spesso demonizzati; vengono puntualmente accusati di estraniare l’individuo dalla società, di essere luoghi virtuali senza volti, dove truffe, raggiri e chissà quale altre trame oscure sono all’ordine del giorno. Invece il suo esperimento ha messo in luce la positività di un social destinato per eccellenza “al dolce far nulla”, come Facebook. Alla luce della sua esperienza diretta ci faccia una SWOT di Matemates 2011. «Qualche considerazione generale prima di passare alla SWOT propriamente detta. Non sono e non ero un grande utente di Facebook,forse per una questione generazionale restringo l'uso della parola "amico" a mezza dozzina di persone e mi fa effetto (negativo) vedere migliaia di friends nel profilo dei miei studenti o conoscenti. Credo che sia impossibile mantenere l'intensità relazionale necessaria per rapporti profondi con le persone, se questo fiume di pensieri, anche intimità, riflessioni si polverizza in centinaia o migliaia di rivoli. Credo, però, che la rete (e Facebook, come altri strumenti) possano moltiplicare le relazioni che già ci sono. In questo senso i social network fanno leva e potenziano i rapporti già esistenti, intensificandoli. Nel mio caso avevo di fronte 350-400 persone, che potevo vedere, sentire e che mi rivolgevano domande; Facebook mi ha consentito di conoscerne meglio alcuni e di parlare forse con 150 di loro,sarebbe stata un'impresa impossibile in contesti normali. In ogni caso, la mia era una relazione blended, in cui la rete sosteneva la comunicazione face2face delle lezioni tradizionali. Non ho percepito nessuno straniamento o tentativo di uscire dal mondo reale che, anzi, è stato “aumentato” dalla possibilità di usare Facebook.

SWOT Strenghts: facilità d'uso, conoscenza pregressa dello strumento da parte degli studenti, estrema semplicità dell'interfaccia e dei due strumenti principe, brevi post e "like". Weaknesses: di nuovo l'estrema semplicità, che è un valore a doppio taglio, va bene ma, talvolta, servirebbe di più, di meglio... e bisogna passare ad altri strumenti, come la voce, la vista, la lavagna. Altro problema è stato la scarsa dimestichezza profonda di molti studenti con Facebook. Alcuni non sapevano trovare i post più recenti o reperire informazioni che erano apparse il giorno prima. Infine, Facebook forse favorisce una comunicazione così veloce e "consumistica" che non si pensa prima di scrivere, è un flusso di coscienza in diretta che talvolta non ha molto senso. Opporunities: certamente la possibilità di interloquire con centinaia di persone e di mostrare sul serio che si può comunicare con una generazione talvolta percepita come extraterrestre. Gli studenti mi hanno più volte detto che questo lo hanno percepito subito e che è stato utile. Threats: direi che si corre il rischio di pensare che bastino pochi post e qualche like per imparare la matematica (ma vale per qualsiasi altra materia). Apprendere significa cambiare la propria comprensione del mondo e comunicare col docente serve a questo, non a memorizzare fatti e dati o carpire domande d'esame. Forse Facebook, superficialmente, si presta a una volatilità che mal si coniuga con la riflessione e la fatica divertente di capire e di mettere in relazione cose diverse, che stanno alla base dell'apprendimento». Devo dire che condivido la sua premessa iniziale su Facebook e le sue valutazioni nella SWOT, mi stupisce, invece, l’aver sottolineato che i giovani, che passano molto tempo sui social, non siano in grado di utilizzarli nel modo migliore. Pensa ci sarebbe la necessità di aiutarli a

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capire meglio il funzionamento di questi strumenti a proprio vantaggio? «Talvolta pensiamo che basti osservare che sono "nativi digitali" per concludere che "sono bravi" col computer o con Facebook. Credo che questo sia rischioso: passare molte ore su Facebook, chattando, scrivendo o anche leggendo cose stimolanti non necessariamente implica che si è in grado di andare oltre, che si possa usare l'interfaccia con profondità e che si possa estrarre tutto il vantaggio possibile. Credo che Facebook, la rete e le possibilità dell'IT siano poco sfruttati perché, spesso, ci si limita ad un uso fulmineo e "consumistico", dove si fa prima a chiedere nuovamente anziché riflettere sul fatto che l'informazione magari è già disponibile e sta già di fronte agli occhi di chi la vuol vedere. In ogni caso, credo che maggiore consapevolezza nell'uso di Facebook e altro aiuti anche a non compiere madornali errori in termini di privacy. In un certo senso avere strumenti potenti è un'arma a doppio taglio, e bisogna imparare “a non tagliarsi” involontariamente».

I social network hanno un sistema di relazione “amicale”, diretto, non filtrato, molto diverso dal tradizionale rapporto bilaterale alunno - insegnante. Usare Facebook, per veicolare le informazioni del corso, per dialogare senza filtri con gli studenti e per incrementare le interrelazioni, ha cambiato i rapporti offline durante il corso? È stato un buon mezzo per facilitare la comprensione della materia, per

avvicinarli ed incuriosirli verso il suo approfondimento? «Il "problema” del rapporto docente - studente può essere delicato, ma questo vale a prescindere dallo strumento. Credo che il docente debba cercare di inserirsi nella testa dello studente perché, altrimenti, tutto “scivola via come acqua fresca”. Allo stesso tempo lo studente deve mantenere la sua autonomia e la sua immaginazione. Ci deve essere un po’ di transfert controllato (estremamente controllato, direi). Facebook da questo punto di vista aiuta molto, anche perché stimola lo studente, che vede un docente per certi versi come un suo pari, almeno per la scelta della modalità comunicativa. Nel mio caso non ci sono stati cambiamenti percettibili nel comportamento offline, né ho riscontrato particolari problematicità nell'uso di Facebook. Non ho mai cancellato un solo post inappropriato e le cose si sono incanalate subito su binari di grande civiltà, formale e sostanziale. Certamente Facebook ha consentito a molti studenti di essere informati tempestivamente e di seguire molto meglio gli argomenti; sicuramente alcuni studenti hanno colto l'opportunità per fare domande difficili e avere risposte che sarebbe stato arduo fornire in un corso di massa. Credo che Facebook si presti ad essere usato a livelli diversi: alcune persone ne traggono beneficio pratico e magari direttamente orientato al superamento dell'esame; altri lo hanno usato un po’ come stimolo e sfida. In fondo questa dinamica variegata si crea anche in ogni classe "che funziona": Facebook l'ha reso possibile anche fra "400 intimi" senza che ci fossero problemi». Nel questionario, che ha proposto ai suoi studenti per valutare l’impatto reale di Matemates 2011, è emerso che ben il 37% era convinto di ottenere, grazie alla partecipazione attiva alla pagina Facebook, un effetto positivo in crescendo sul voto d’esame.

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Quanto è distante il gap fra la percezione mentale degli studenti e i voti effettivi registrati agli esami? «Sto studiando i dati raccolti su Facebook in molti modi diversi. Per dare un'idea: ci sono pattern d'uso che rivelano che 2/3 degli studenti sono "passivi" e più o meno leggono solamente, mentre 1/3 partecipa attivamente; ma ci sono anche altri piani di analisi, dato che si può tentare di associare la maggiore o minore attività su Facebook agli esiti qualitativi (entusiasmo, comprensione...) e quantitativi (voti!) del corso. Infine, per venire alla sua domanda, sarebbe interessante capire se la loro percezione è allineata con quello che è successo veramente (o, almeno, con ciò che ci dicono i dati). Quello che so, per ora, è questo: pare che la maggiore attività su Facebook sia benefica, per meglio dire, l'attività è correlata positivamente col voto. Però non sappiamo se ci sia un rapporto causale e potrebbe darsi che i più attivi prendono voti più alti per "merito" di Facebook, oppure che i più bravi (a priori) siano quelli che si attivano di più. Per quello che ho capito finora, sembra che l'ottima percezione di Facebook fra gli studenti sia abbinata anche ai risultati (di tipo vario), ma sto ancora lavorando sui dati, proprio nel tentativo di capire quello che è successo. Io c'ero in mezzo, ma per certi aspetti ho sempre più domande che risposte...». I dati statistici sottolineano come, in Italia, ci sia scarsa propensione a laurearsi in campo scientifico e matematico. Spesso sentiamo ripetere che sarebbe opportuno spingere i giovani verso queste strade, facendo appelli ai docenti per migliorare e potenziare l’insegnamento in queste discipline durante tutto il lungo corso di studi degli studenti italiani. Qual è il suo parere in merito, è davvero così? Se lo è, quali sono i suoi suggerimenti per superare l’ostacolo “a monte”? «Devo confessare che nonostante io sia un matematico "duro e puro" mi sento intriso di cultura umanistica da capo a piedi.

Mi ritrovo quasi con sorpresa a citare frasi in latino, figlie del liceo scientifico che ho frequentato, senza quasi sapere che le ricordavo! Tento di dire che ritengo che viviamo in un contesto che, per ricchezza storica, artistica, culturale, ci ha riempito (e donato) talmente tanto che la scienza “dura” sembra una Cenerentola (anche se abbiamo avuto e abbiamo fior di scienziati in Italia). Resta fuor di dubbio che serve potenziare la cultura scientifica e avvicinare i ragazzi alla matematica e ad altre scienze quantitative. Credo che si possa e si debba "umanizzarle", facendo percepire la ricchezza che passa in secondo piano, talvolta dietro a formule e tecnicismi. Anche la scienza aiuta a capire il mondo e a farsi una ragione critica e forse alcuni corsi perdono di vista questi aspetti nel tentativo di colmare vuoti tecnici...; ma mi rendo conto di non avere (meno male!) grandi suggerimenti da dare o bacchette magiche da agitare!». Che piacere, per me che provengo dal grande calderone umanistico, sentire un matematico D.O.C. così amante della cultura letteraria, a volte disprezzata dall’area scientifica. La cultura, qualsiasi forma abbia, ha sempre lo stesso Dna, il conoscere, lo scoprire, l’insegnare, il verificare, l’arricchire, per questo, io, personalmente, non vedo distinzioni di sorta alcune. Semmai tessiture di contaminazione che aprono la mente. In Italia il digital divide colpisce molte università. Purtroppo, spesso, sono gli stessi docenti e l’organizzazione scolastica universitaria a collocarsi lontano dalla velocità del Web ed a non sapere usare nel modo migliore il digitale per dare un valore aggiunto all’insegnamento. Lei ha scelto di innovare in questa direzione ma non è da tutti. Qual è la reale situazione attuale nel nostro paese, secondo il suo punto di vista privilegiato? «Io credo che l’Italia sia nella media per quel che riguarda l'uso delle nuove tecnologie nell'istruzione superiore. In realtà i nostri problemi derivano da altro.

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C'è una situazione demografica in cui molti docenti appartengono a generazioni in cui il digital divide “morde” di più ed è oggettivamente più raro per un 50-60enne mettersi in gioco al punto da usare Facebook o simili. Attenzione, non credo che l'età significhi alcunché in sé, ma può non essere facile rimettersi a "studiare" quando si fa il professore da una vita. Credo che tutti dovrebbero tornare a scuola perché, rifacendomi anche a quanto detto prima, la rete e Facebook possono moltiplicare quello che un docente può fare. È, o dovrebbe essere, il sogno di ogni docente! Non tanto per il numero di studenti che si possono seguire, ma anche per la profondità con cui possono essere seguiti in modo, direi, quasi personalizzato. Mi pare che siamo più indietro su altri fronti: manca quasi completamente la cultura del life-long learning, quella in cui si sa che s'impara tutta la vita e non si finisce mai di essere contemporaneamente da una parte e dall'altra del banco. E, infine, temo un po' che si vogliano usare le tecnologie didattiche, stupidamente, solo per comprimere i costi, quasi come fosse possibile fare online cose diverse da quelle ben fatte che si fanno in presenza. La situazione economica è bizzarra, ma sarebbe assurdo fare male online corsi per centinaia di studenti nella speranza di risparmiare. Sarebbero solo costi ingenti differiti e scaricati sulle nuove generazioni, che non avrebbero istruzione di qualità adeguata». Concordo; la qualità, la continua crescita e la conoscenza debbono essere i cardini base per l’istruzione sia off che online. Sono d’accordo anche nel valutare un pessimo insegnamento un pesante valore negativo per i costi sociali che andranno, poi, ad inficiare su tutto il contesto umano futuro. “Economics is an art”, è la frase che apre il video di presentazione abbinato al suo curriculum vitae, pubblicato sul suo sito. L’economia è un’arte, o meglio, a mio modesto parere, la base vera di tutte le arti. Ci dia la sua personale definizione di Economia.

«Wow! Non so bene se sono un economista. So che una volta ero un matematico ma adesso chi lo sa? In ogni caso, l'economia m'intriga perché cerca di comprendere i fenomeni e spiegare i dati senza rinunciare ai modelli ed alla comprensione profonda, se possibile, di quello che succede. Un economista serio, non io!, dovrebbe cercare sempre di capire le determinanti e le forze che stanno dietro alle quinte, riconducendole a meccanismi semplici. Devo dire che sono personalmente rimasto folgorato dall'economia perché è una scienza sociale con la "pretesa" (lo dico con affetto) di essere scienza ”dura”; come tale è incredibilmente difficile perché si occupa dei sistemi degli umani, delle loro preferenze e delle loro organizzazioni, continuando a pensare che, in un certo senso, siano sistemi fisici, retti da leggi matematiche e comprensibili. Insomma è una gran bella sfida perché si prende il meglio di tutto (o almeno tenta di farlo)».

Per saperne di più è online il working paper,

scaricabile gratuitamente in download, di

Paolo Pellizzari Facebook as an Academic

Learning Platform: A Case Study in

Mathematics

http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=2016139

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Intervista a Francesco Colombo

Country Manager Careerjet.it http://www.careerjet.it Ci racconti in due parole cos’è Careerjet, come funziona e quali sono i suoi obiettivi principali? «Careerjet è un motore di ricerca di annunci di lavoro. Funziona proprio come Google, con la sola differenza che i risultati di ricerca su Careerjet sono solo ed esclusivamente offerte di lavoro. Queste vengono scandagliate ed estrapolate ogni giorno da più di 1600 siti internet diversi: dai siti che pubblicano solo offerte di lavoro, alle pagine delle singole aziende, dai siti di annunci a quelli delle agenzie di reclutamento. L'obiettivo principale di Careerjet è quello di facilitare e velocizzare la ricerca di lavoro: vogliamo che il lavoratore abbia a disposizione la migliore e più ampia selezione di annunci, raggiungibili tramite un'unica ricerca – senza dover navigare sito per sito». Careerjet.it è un motore di ricerca, con interfaccia diretta su internet, pur con tutti i limiti e gli ostacoli che gravano sul virtuale in Italia, questo tipo di servizio da chi viene utilizzato principalmente e quali sono i riscontri effettivi in termini di gradimento da parte degli utenti? «Stando alle statistiche di Alexa, Careerjet.it viene utilizzato prevalentemente da ragazze laureate di età compresa tra i 25 e i 34 anni. In realtà, se diamo un'occhiata alla tipologia di utenti che si registrano al sito (la registrazione non è obbligatoria per l'utilizzo), l'età media di chi usa Careerjet è leggermente più alta, e c'è una presenza maschile maggiore. Segno forse che è uno strumento utile anche a chi è in cerca di un cambio di direzione nella propria vita professionale.

In generale, il gradimento è più che buono; riceviamo anche lamentele, per carità, ma riguardano soprattutto disguidi tecnici che portano a problemi temporanei come annunci doppi o di bassa qualità. Ovviamente interveniamo il prima possibile per risolvere questo tipo di problemi. Aggiungo anche che il “virtuale” ora è un concetto se vogliamo ancora più ampio. Con l'arrivo delle nuove tecnologie mobile, infatti, si è costantemente immersi in un ambiente “virtuale”, o meglio “social”. Anche noi ci stiamo muovendo in questa direzione, e non a caso Careerjet è disponibile gratuitamente anche come applicazione per iPhone e Android». Quanto, e se, pesa su un’attività come la vostra la cronica arretratezza nazionale in materia di banda larga, wi-fi e internet? «I nostri uffici hanno sede a Londra, e la banda larga qui non è un problema. In realtà, non risentiamo molto di un'eventuale arretratezza dell'Italia in materia di connettività. Anche per far fronte a questo tipo di problemi (Careerjet è presente anche in paesi a sviluppo ben più lento dell'Italia), abbiamo realizzato un sito il più semplice e veloce da caricare possibile. In modo che si possa utilizzare agilmente sia con un vecchio modem analogico, sia con una connessione dal telefonino. Abbiamo sempre ben presente che la nostra utenza è composta da gente in cerca di lavoro, che magari ha accesso a internet da posti pubblici, da scuole, o che comunque ha un tempo limitato da dedicare alla ricerca di lavoro – e per questo cerchiamo di massimizzare la resa di ogni secondo speso, rendendo tutto il più leggero e veloce possibile». Careerjet è presente in tutto il mondo, in termini di confronto interno con i portali transazionali del vostro marchio, come si pone in Italia sul piano dello sviluppo e dei risultati ottenuti? «In Italia Careerjet funziona molto bene. Abbiamo una novantina di portali in tutto il mondo, e la versione italiana è al terzo posto

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in termini di accessi giornalieri e puro traffico di persone che ne utilizzano i servizi. In testa c'è la versione francese, Optioncarriere.com, che è stato il primo portale lanciato dal gruppo, presente sul mercato dal 2000 (mentre in Italia Careerjet è arrivato nel 2007). Poi c'è la versione dedicata agli USA (Careerjet.com), dove ovviamente ci sono moltissimi accessi anche per il fatto che la popolazione è proporzionalmente molto più elevata. Un altro sito giovane e in forte crescita è quello di Malta (Careerjet.com.mt), con accessi giornalieri che quasi raddoppiano di mese in mese». Negli ultimi tempi tutti si stanno concentrando per capire quali saranno le professioni in del futuro, dicendo, fra l’altro, un mare di banalità e di luoghi comuni. Dal vostro punto di vista di osservatori privilegiati quali sono effettivamente, in Italia, le professioni oggi più ricercate e quali i trend professionali per il futuro prossimo, dati alla mano? «Le ricerche più frequenti effettuate su Careerjet riguardano professioni molto comuni e generiche, ma è abbastanza normale: si tratta di una questione di numeri, e la maggior parte degli utenti, soprattutto se privi di una qualifica, ricerca professioni il più generico possibile. I trend più frequenti sono l'accoppiata “badante / pulizie”, le tipologie “part time / indeterminato”, e posizioni generiche come: impiegata, segretaria, commessa, autista, operaio, barista. Se andiamo però più nello specifico, confrontando anche il trend delle offerte di lavoro che compaiono su Careerjet (e quindi su internet in generale) direi senza dubbi che il settore delle energie rinnovabili è molto battuto – in particolare il fotovoltaico. Con tutti gli ambiti ad esso legati: dalla ricerca e sviluppo di tecnologie, alla produzione, alla manutenzione, fino alla vendita di prodotti e servizi». L’Europa chiede con forza all’Italia di imparare a fare network, per costruire e crescere attraverso relazioni e scambi costruttivi per lo sviluppo concreto

dell’economia. Secondo voi qui è davvero possibile poterlo fare? «È un tema molto delicato e attuale. Che sia possibile o no, non sta a me determinarlo. Di sicuro, fare network è assolutamente necessario. Fare marcia indietro dopo dieci anni di moneta unica sarebbe un tracollo forse ancora più pesante del debito fuori controllo. D'altra parte la gestione attuale dell'economia e delle finanze europee deve cambiare. Bisogna che le democrazie coinvolte focalizzino i propri sforzi in una direzione comune e che snelliscano i propri processi decisionali – anche eventualmente delegando più poteri in materia economica al Parlamento Europeo. Per quanto riguarda l'Italia in particolare, è condizione necessaria che quantomeno riacquisti la propria credibilità a livello internazionale». In ultimo quali sono le chiavi del successo per realizzare in Italia un attività business online? «Le chiavi del successo sono fondamentalmente quelle valide in qualsiasi Paese: idee innovative e magari geniali, spirito di iniziativa, volontà di mettersi in gioco e di rischiare, determinazione e lavoro sodo. E magari qualcuno che investa un po' di soldi e lasci un minimo di libertà d'azione. Quello che forse in Italia però mette un po' i freni sono fenomeni come nepotismo, raccomandazioni e corruzione dilagante, nonché una macchina burocratica lenta, pesante e opprimente. Senza tralasciare la quasi assoluta volontà di investire nell'ambito della ricerca, dell'istruzione e dell'innovazione tecnologica».

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CINEMA, MUSICA, FOTOGRAFIA Raccontami una storia: dalla voce narrante del regista Luca Vullo. Dalla home del suo sito Web www.lucavullo.it un personaggio da fumetto ti guarda negli occhi raccontandoti la sua voglia di osservare, scoprire, esplorare e ascoltare il mondo, quel mondo che racconta attraverso il suo lavoro. Un promettente giovane regista italiano, Luca Vullo, dice di sé “i need to tell a story”, come resistere alla tentazione di farci raccontare la sua storia, immaginandoci nel buio avvolgente di una sala cinematografica? So, please, tell us a story. Tu sei un giovane regista che, “alla faccia” di chi dice che i giovani hanno rinunciato al fare, ha già fondato una sua casa di produzione, oltretutto in una regione del Sud. Qual è stato il tuo percorso e quali molle ti hanno spinto a costruire un progetto imprenditoriale culturale nella tua Sicilia?

«Fino all'età di 20 anni non avevo le idee chiare, poi ho scoperto il Dams cinema a Bologna e mi sono lanciato in questa avventura facendo corti sperimentali con amici, studiando cinema, frequentando corsi e laboratori formativi e collaborando a diversi set con qualunque ruolo (comparsa, runner, microfonista); il tutto facendo enormi sacrifici (3-4 lavori in contemporanea) per sopravvivere da “immigrato meridionale” a Bologna. Poi “l'illuminazione”, ho fatto il mio primo lavoro in autonomia dal titolo “Cumu veni si cunta” che si è rivelato un successo di pubblico. Subito dopo il Comune della mia città, nella figura di un assessore all’Identità e Futuro, mi ha commissionato due progetti documentari e da li è nata l'esigenza di avere una figura professionale. Ho deciso di aprire la Ondemotive, la mia casa di produzione, proprio a Caltanissetta la mia città natale, per non scappare come tanti dai luoghi difficili. Credo che la palestra fatta con una scelta di questo tipo non possa che essere formativa». Concordo, è una scelta difficile e coraggiosa ma che da grandi soddisfazioni. «Se riesco ad uscire dalla mia bella e difficile terra sono pronto a qualunque sfida». Tu hai fatto un percorso di contaminazione e di collaborazione in crescendo con Lampedusa InFestival, da partecipante alla prima edizione, premiato per il tuo documentario “Dallo Zolfo al Carbone”, sei diventato in questa edizione 2011 il direttore artistico. Cosa ha significato e cosa significa per te Lampedusa InFestival? «LampedusaInFestival è per me una bellissima esperienza umana, di crescita culturale e di impegno sociale. I ragazzi dell'associazione Askavusa, l'isola di Lampedusa, i lampedusani, tutte le persone che arrivano via mare hanno bisogno del nostro sostegno e del nostro supporto creativo e umano. Tutti loro hanno dato una lezione al mondo intero sul significato di ospitalità e di accoglienza.

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Quest'anno una squadra di giovani professionisti sta facendo sinergia per realizzare un'edizione del Festival importantissima». La situazione economica attuale non aiuta il mondo della cultura né quello del sociale, scarsi fondi, pochi aiuti a livello legislativo, meno opportunità, tu quale futuro vedi per la tua professione? Pensi che i produttori indipendenti e i piccoli produttori possano avere chanches e nicchie di mercato per continuare a vivere, dando ad ogni tipo di pubblico il giusto film oltre le logiche distributive delle grandi major? «Riguardo al futuro io sto già pensando all'estero, in Italia la situazione è sempre più complicata. Senza aprire collaborazioni con l'Europa e con l'America non vedo un futuro florido per la mia società e il mio mestiere di regista». Non pensi che la situazione possa cambiare, attraverso una nuova consapevolezza da parte degli addetti ai lavori? «La consapevolezza penso sia fondamentale, ma non credo che basti. Mi auguro possa cambiare ma in Italia il sistema mi sembra abbastanza marcio. Bisognerebbe formattare e ricominciare con altre teste. In più non c’è nessun aiuto fiscale e finanziario». Purtroppo l'Italia non da spazio ai giovani, al loro talento e alle loro idee. Tu, seppur giovane, ha già una lunga esperienza ricca di riconoscimenti, quali consigli ti sentiresti di dare ai filmaker del futuro? Soprattutto in quest'ottica di stasi e di arcaismo nelle logiche del mercato cinematografico. «Fate, fate, fate con quello che avete. Poi provate le vostre carte in altri paesi dove la meritocrazia non è un sogno ma una realtà. Non perdete troppo tempo sulla teoria e sui libri: il cinema s'impara facendolo. L’esperienza, in questo mestiere, è fondamentale».

Il vostro Festival offre ai giovani registi l’opportunità di poter mostrare il proprio talento, attraverso tematiche di rilevanza sociale importanti, ritieni che i festival siano effettivamente un buon trampolino di lancio e, soprattutto, siano uno spazio creativo libero ed interattivo di primaria importanza? «Assolutamente si. Paradossalmente i festival più piccoli sono ancora meglio sotto questo punto di vista: dimensione umana, dialogo reale tra le parti, sincerità e passione. Per me i festival sono stati e sono fondamentali». Personalmente ritengo che oggi collaborare, creare una rete di connessioni, virtuali e reali, attraverso il territorio e oltre frontiera sia una necessità per crescere e per trovare nuovi percorsi. Il vostro Festival fa parte della “Rete del Caffè Sospeso”, utilizzate internet e i suoi strumenti per lavorare e per farvi conoscere, qual è il tuo personale pensiero in merito e quali risultati avete ottenuto attraverso l’interscambio, on&offline? «Ottimi e migliorabili. Stare al passo con i tempi utilizzando tutti i mezzi moderni che ci aiutano a fare sinergia ben venga e li ritengo fondamentali. Il Web è la chiave e possiamo usarla ancora meglio: ci stiamo lavorando». Questo vuol dire che siete orientati al futuro per uscire da un circolo ristretto ed allargare gli orizzonti, una cosa che in Italia, personalmente, credo sia ancora rara, sfruttata più a parole che nei fatti, tu che ne pensi? «Noi pensiamo globalmente e non localmente. Tramite il piccolo si racconta il grande». Il tuo documentario pluripremiato, “Dallo Zolfo al Carbone”, racconta le storie dei minatori italiani in Belgio, tanti connazionali partiti con la speranza di

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giorni migliori che dovettero affrontare fatica, emarginazione e miseria. Un periodo, da molti dimenticato, in cui “gli altri” eravamo noi. Corsi e ricorsi storici: non credi che ci siano molte somiglianze con le storie dei “migranti” di oggi? «Ovviamente si e l'idea di partenza era proprio questa , parlare del passato ragionando sul presente». Per concludere quali sono i tuoi progetti ed obiettivi futuri, sia per la tua carriera personale che per il Lampedusa InFestival? «Ho appena finito di girare il mio nuovo documentario “La voce del corpo” sulla gestualità del popolo siciliano. Sto finendo un progetto con il carcere minorile di Caltanissetta e sto lavorando al mio primo lungometraggio. Ora sto lavorando al LampedusaInFestival 2011 che sarà un evento unico e indimenticabile che aprirà il percorso ad uno dei Festival più interessanti e stimolanti del Mediterraneo». Hai molti progetti in cantiere, sei sempre in movimento. «Tutto questo sempre con le valigie pronte. Io sono fatto così. Non conosco la noia. Mi sento vivo e bene con me stesso solo quando faccio tutto quello che mi piace, che mi appassiona e spesso sono tante cose poliedriche e diverse insieme». La passionalità è un elemento che traspare chiaramente dalle tue parole, da cosa e come dici le cose e da come ti esprimi nel tuo lavoro. «Sono felice che si noti, sono cresciuto nella giungla e sono pronto al confronto. Non è facile questo mestiere quando non sei figlio di papà o d'arte, spesso lavori gratis e per passione. Ma tutti dobbiamo sopravvivere e finalmente credo che stia arrivando la svolta per me e per la mia famiglia. Abbiamo sofferto troppo in questi anni e adesso è il momento di raccogliere i frutti».

Ti auguro di raggiungere i tuoi sogni, perché l’Italia ha bisogno di crede in ciò che fa e che lavora attivamente per ottenere quello in cui crede. «Su quello ci puoi contare, sarò così fino alla morte». Stanno ormai scorrendo i titoli di coda su questo intenso cortometraggio dove emergono il carattere e la determinazione del protagonista di questa storia... Un giovane regista con le idee chiare, con talento, passione e con attenzione al contesto sociale contemporaneo, un bell’esempio positivo che dimostra come la voglia di fare e di crescere attraverso stimoli e contaminazioni con il proprio territorio di appartenenza siano possibili. Dare voce e libertà professionale ai giovani sono due delle carte vincenti per cambiare il sistema, per aumentare in maniera esponenziale la creatività e per dare nuovo slancio al mercato cinematografico nazionale. Ci auguriamo che le cose possano davvero cambiare e che finalmente il talento e la professionalità siano valorizzate e sostenute come meritano.

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Il cammino di Luca Intervista a Luca Vullo Regista, produttore Ondemotive

Con vero piacere re-incontriamo, a distanza di tempo, un amico di Wi-Mee, Luca Vullo, giovane e vulcanico regista siciliano pronto a raccontarci una nuova storia. Bentornato Luca, ci eravamo lasciati con le tue parole di determinazione e con la tua certezza di essere sul punto di una svolta importante per la tua carriera, riprendiamo il filo da quel punto, verso quali orizzonti ti ha portato il tuo lavoro? «Ancora non credo di aver raggiunto degli orizzonti, ma di certo arrivano diverse risposte positive e sto cominciando a raccogliere i frutti di un duro lavoro di semina fatto negli scorsi anni». Da poco è uscito il tuo ultimo lavoro, la docu-fiction intitolata La Voce del corpo, che ha avuto sin da subito un grande successo, ce ne vuoi parlare brevemente? « Certo. La voce del corpo è un viaggio all'interno dell'affascinante mondo del linguaggio del corpo del popolo siciliano. Prendendo spunto dalle analisi antropologiche di Giuseppe Pitrè e dai dvd multimediali per imparare le lingue straniere ho realizzato un viaggio didattico

che illustra le straordinarie potenzialità del linguaggio dei segni dei siciliani. Una docu-fiction comica che accompagna lo spettatore dal passato leggendario fino ai nostri giorni in questo divertente percorso gestuale. Per farlo ho lavorato con attori siciliani di grandissime potenzialità: Evelyn Famà, Rosario Petix e Vincenzo Volo, con i quali ci siamo davvero divertiti e il film, oltre alla colonna sonora originale, realizzata da Fabrizio Galante, Enrico Nisati e Pietro Simoncini, è arricchito da alcuni brani di gruppi siciliani di fama mondiale: Agricantus, Tinturia, Ipercussonici. Il punto di forza del film è certamente la mia famiglia, che è sempre al mio fianco, dall'inizio alla fine mi sostiene sul piano lavorativo in modo efficacissimo». La voce del corpo è un viaggio storico e socio demo etno antropologico, attraverso la gestualità siciliana, alla scoperta del dna di una popolazione che vive su un territorio dal ricco passato, fatto di contaminazioni e stratigrafie diverse. Pensi che il cinema possa e debba tramandare la cultura attraverso la trasposizione cinematografica della conoscenza, seguendo un percorso di ”docere delectando”? «Penso che potrebbe, sicuramente, essere un ottimo strumento/linguaggio utile a questo scopo». Hai presentato La voce del corpo anche in alcune università, come hanno risposto i giovani studenti, e i docenti, a questo modo nuovo di affrontare la materia antropologica, secondo la tua personale esperienza? «Il primo incontro didattico si è tenuto all'Università di Barcellona, con un pubblico misto ed internazionale e di certo è stato per me molto importante. La risposta è stata ottima. La Voce del corpo ha destato curiosità, interesse e non ti nascondo che si sono divertiti molto, le risate erano spontanee e di cuore. Soprattutto è importante precisare che la proiezione era in lingua italiana e molti degli

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spettatori non comprendevano l'italiano, ma hanno capito ugualmente il film. Questo prova che il linguaggio universale dei segni funziona». Un modo di certo più diretto, arcaico e senza barriere di comunicare fra esseri umani, che, come ci testimoni tu, funziona ancora oggi. Comprendersi, dunque, non è poi così difficile ed impossibile. «Assolutamente si, un modo di comprendersi diretto ed efficace e, perché no, molto divertente. Con questo film voglio dare un’altra prospettiva di sguardo sul popolo siciliano». La voce del corpo parla della Sicilia e dei siciliani, racconta il loro modo di comunicare ed è accompagnato dalle musiche di giovani musicisti siciliani, tu sei siciliano: quanto contano le tue radici e il legame con la tua terra? «Guardando quello che ho realizzato fino ad ora, posso dire che contano moltissimo. La Sicilia e i siciliani sono sempre presenti nei miei film, ma altro aspetto interessante è che io sono per metà calabrese e, adesso, la Calabria diventerà l’altra musa ispiratrice. Le radici contano molto nella creazione e devo dire che l'emozione che riesco a trasmettere a me stesso e agli altri, quando lavoro su temi che parlano della mia terra di origine, è profonda». Mi piace il tuo legame con le tue radici, la capacità di farne una base di partenza per costruire nuovi percorsi e per cambiare gli stereotipi, attraverso la conoscenza, ovvero ciò che hai fatto con La voce del corpo. Fare del proprio background una ricchezza è un valore aggiunto che può fare una grande differenza. Tu sei un vulcano in eruzione e non ti fermi mai, tanti progetti e promozione degli stessi in giro per il mondo, quanto è importante sapere comunicare ciò che si crea? «È importantissimo!

Credo che la comunicazione stia alla base dello sviluppo di una società. Per un artista che vive di comunicazione sarebbe assurdo non riuscire a trasferire agli altri quello che fa. Da diversi anni sono affiancato da professionisti del settore che curano l’aspetto comunicativo del mio lavoro con professionalità e attenzione. Dario Adamo e Revolweb, che sostengono la mia comunicazione verso il mondo, sono le persone di mia più grande fiducia. Un team con il quale voglio crescere e continuare a sviluppare un percorso umano e professionale, perché il mio è un lavoro di squadra e io amo lavorare in squadra». Concordo. Personalmente credo sia l'approccio migliore per ottenere grandi risultati, l’uno sommato ad altri è di certo più ottimale di un semplice singolo. Dunque quanto contano l’idea, la professionalità, la voglia di fare, le connessioni, una buona squadra, la carica creativa e la famiglia, che per te è un legame importante, per trovare il modo di aggirare la crisi e creare prodotti di qualità? «Beh cara Barbara, io sono cresciuto a stretto contatto con la crisi e ci convivo da diversi anni, quindi, fondamentalmente per me non è cambiato nulla, anzi, semmai, conoscendo bene la situazione, forse, questo è un momento buono per risalire dalle macerie ». Concordo con te e mi piace la tua positività. Vedere la crisi come un'opportunità e di certo una carta vincente che pochi, oggi, hanno. «Ci credo veramente». Si vede dal tuo lavoro, si legge nelle tue parole e nel tuo entusiasmo. Il tuo cortometraggio VRT è stato premiato al I’ve seen films Festival 2011 di Milano, un bel riconoscimento per il proprio lavoro. VRT ha un cast di stelle, fra le

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quali ricordiamo Massimo Dapporto e Benedicta Boccoli, come sei riuscito a coinvolgere attori di calibro nel tuo progetto, cosa gli ha spinti a credere in un giovane regista? «A volte bisogna essere determinati e pazzi e io un po’ lo sono. È stato un incontro a cena non premeditato, dal quale poi, per gioco, è uscita l'idea di fare un cortometraggio insieme e io ho pensato fosse un occasione da prendere al volo. In 48 ore abbiamo scritto l'idea, in 8 ore, divise in due pomeriggi, l'abbiamo girato a Palermo con una produzione di circa 200,00 euro, Giuseppe Vasapolli ha realizzato la colonna sonora in 3 giorni e in 10 giorni abbiamo sfornato Vrt. Ma è l'approccio sperimentale dell'opera, secondo me, l’aspetto più interessante, perché, mentre io, Roberto Gallà e Rosario Petix abbiamo scritto lo scheletro della storia, ho chiesto agli attori di partecipare attivamente, mettendoci “farina dal proprio sacco” e devo dire che i risultati sono stati sorprendenti. Considera, poi, che il finale del film lo sapevamo solamente io e Rosario, quindi, gli altri si sono ritrovati a reagire realmente a quello che stava succedendo in modo imprevisto. Quando ho portato il lavoro finito a Roma, per la visione dietro i camerini di un teatro, il risultato è stato entusiasmante. Sono stati tutti stupiti e piacevolmente colpiti dal prodotto finale». Questa è la trasposizione concreta del concetto Munariano “da cosa nasce cosa”, la prova tangibile che se si crede veramente in sé stessi e nei propri sogni tutto è possibile, anche in tempi cupi come questi. “Meditate gente, meditate”, aggiungerei. Oltre a sottolineare che se esiste una buona idea e si propone un percorso di coinvolgimento diretto di tutti gli interessati si crea la determinante per attrarre interesse anche su un’incognita. Quindi la compartecipazione e l'idea sono per te valori aggiunti giocabili sempre? «Ovviamente si e l'autostima e il carisma

giocano un ruolo importante, naturalmente devi, poi, dimostrare quello che dichiari; e finora devo dire che nessuno può smentire il mio entusiasmo». Sei sempre in giro per il mondo, con una vita ad alta velocità, dove e come trovi il tempo per pensare a nuovi progetti da realizzare? Qual è il tuo percorso creativo? «Il mio essere “girovago” è la linfa vitale per la mia creatività, proprio mentre sono in movimento, e sono fortemente stimolato, riesco a pensare a nuovi progetti. Il mio percorso creativo praticamente non si ferma mai, lavoro sempre con la mente». Prima di terminare la nostra chiacchierata, augurandoci di poterne fare ancora altre per raccontare dei tuoi successi, se ti va, anticipaci i tuoi progetti in cantiere. «Sto terminando un lavoro con il carcere minorile di Caltanissetta, che sarà pronto per dicembre; mi sto occupando della diffusione nel mondo del documentario La voce del corpo; sto scrivendo il mio primo lungometraggio; sto facendo due corsi di formazione sul cinema e legalità, all'interno di un progetto POR per le scuole di Agrigento ed Enna; sto pensando al mio nuovo documentario; ho un cortometraggio girato a Roma da montare e tanto altro...ti basta?». Poliedrico come sempre… «Senza contare il Lampedusa in festival e altri festival con i quali collaboro, i videoclip, insomma…». Un fiume in piena, senza sosta. L’energia che emana Luca è dirompente e catalizzante. Dinamico, poliedrico, sempre in movimento e carico di entusiasmo che sa trasmettere ai suoi collaboratori e al mondo che lo circonda. Un altro capitolo di una storia in divenire verso il futuro, che valorizza il proprio passato guardando al presente come un’opportunità per costruire il domani.

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In fondo tutto dipende dall’orizzonte che si fissa dal cannocchiale, verso il basso, ad osservare la terra, o verso l’alto, a guardare il cielo. www.lampedusainfestival.com Luca Vullo http://www.lampedusainfestival.com/staff.html Lampedusa InFestival http://www.lucavullo.it/index.php?option=com_qcontacts&view=contact&id=1&Itemid=86&lang=it www.lucavullo.it www.ondemotive.net www.dallozolfoalcarbone.com

Autoscatti di Chiara Intervista a Chiara Schiaratura Fotografa Tu sei una fotografa freelance, descrivi in due parole la tua professione. «Innanzitutto tengo a precisare che non sono una fotografa professionista, al momento. Purtroppo devo fare altri lavori “per portare a casa pochi spiccioli al mese”. Lavoro come educatrice in una scuola elementare e alleno i bambini a Pallavolo, cose che amo profondamente ma che non mi permettono di essere autonoma dal punto di vista economico. Come fotografa lavoro nei locali...puoi immaginare, i locali non pagano chissà quanto. Comunque cercare di fare la fotografa, oggi, è davvero una bella scommessa: la crisi e la concorrenza spietata dovuta alle macchine digitali, che hanno aumentato in modo esponenziale le fotografie scattate dalle persone e le persone stesse che sognano di fare i fotografi, rendono tutto molto, molto, molto difficile; in una realtà di provincia poi, come la mia, emergere è un sogno». Il tuo racconto è la “fotografia”, scusa il gioco di parole, che accumuna tutti i giovani creativi nel contemporaneo, qual è l'elemento che ti fa “andare avanti” e continuare a credere nella tua passione, nonostante tutto? «Eh. Te lo spiego in maniera molto “terra terra”, se mi permetti, è come trattenere la pipì. Non si può! Ecco, la fotografia per me è così.

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Arriva un momento in cui devo assolutamente realizzare quell'immagine che ho in testa». Si, capisco, e direi che questo è davvero amore, quella commistione fra bisogno e desiderio che è “la creatività”. Come è nata la tua passione per la fotografia, quando hai capito che era vita per te? «Diciamo che un po’ è colpa di mio padre. Lui ha sempre avuto una macchina fotografica bellissima e scattava tante fotografie, però non mi sono mai buttata nello scatto, mi sono sempre limitata ai libri di autori, a collezionare le immagini. Poi durante l'università, ho frequentato un laboratorio di elaborazione dell'immagine. Lì il professore ci ha messo in mano la macchina fotografica e ha detto: "adesso, rappresentate con le foto la noia" ed è cominciato tutto». Bella partenza, rappresentando la noia hai trovato la passione. Ti sei laureata in Scienze della Comunicazione a Urbino e ti sei specializzata allo IUAV di Venezia, hai esposto le tue fotografie in importanti esposizioni e hai vinto il premio alla critica al Saturarte di Genova, quanto è importante per la tua professione la preparazione culturale e tecnica, oltre alla creatività personale, per emergere e dare “voce” ai propri lavori? «Diciamo che una buona preparazione tecnica a mio avviso ci vuole. Se conosci tutti i lati della fotografia, usando anche la tua creatività, puoi “tirar fuori” cose parecchio interessanti. Poi ci vuole molto, molto, molto senso critico, autocritico più che altro e io ne ho da vendere!». Ecco, questo mi piace molto, mi pare che, oggi, tutti si sentano artisti ma con poca autocritica, che, invece, io trovo sia assolutamente necessaria per rendere la

teoria Arte, non so se sei d'accordo. «Si. Sono d'accordo. Diciamo che fare l'artista è come essere un po’ schizofrenici, bisogna essere molto autocritici e severi nei propri confronti ma, allo stesso tempo, crederci molto nella propria arte, perché se non ci credi e non ti proponi le tue opere rimarranno nel cassetto, come succedeva a me. Ora invece mi butto in tutto». Tu hai un interessantissimo progetto personale “Ritratti di precari”, per documentare attraverso l’arte la condizione umana contemporanea, come nasce l’idea, qual è l’obiettivo finale e come è accolta dal mondo dei precari del XXI secolo, i protagonisti del progetto? «Il progetto nasce con la mia tesi specialistica allo IUAV. Finché sei uno studente, il mondo del lavoro lo vedi lontano, ti senti come un futuro uomo/donna di successo, no? "io farò questo, avrò quello e vivrò qui". Man mano che mi avvicinavo alla laurea ho invece preso coscienza che il futuro che mi aspettava non era tanto roseo, vuoi per la “fortuna” di terminare gli studi con la crisi, vuoi perché non è mai stato facile lavorare, come studiare. Allora ho cominciato a guardarmi attorno, partendo proprio dai miei stessi amici, tutti precari, così mi son messa anche io in mezzo al progetto, perché dalla mia laurea sarei stata precaria (sono stata ottimista). Poi mi son detta "ma perché non proviamo a continuare il progetto?". Ho cominciato a scrivere a tutte le associazioni che si occupavano di precari su Facebook, tutti i canali che mi venivano in mente. Devo dire che ho avuto una gran risposta, gli utenti hanno fatto girare molto il progetto e mi hanno scritto da tutta Italia. Ho cercato di raggiungere tutti, ma sono davvero tantissimi, al momento ho ritratto 20 persone, ma altrettante sarebbero ancora da

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ritrarre, però, essendo un progetto autofinanziato, con 300 euro al mese, non vai molto lontano. Alla fine penso farò un libro, se qualcuno vorrà pubblicarlo… Diciamo che il progetto è in continua evoluzione e ogni tanto mi vengono nuove idee, difficili da realizzare, ma vediamo cosa riuscirò a fare». Quali chance vedi per la tua professione in Italia per il futuro prossimo? «Eeeeeeeehhh - un lungo sospiro - ho la testa dura. Dico solo questo - dice ironica -. A parte gli scherzi». Questo è un pregio, se non altro significa che nel futuro ci credi ancora, nonostante tutto. «Si, anche se tutto ci porta a non credere più in questo paese. Io spero, comunque, che l’Italia si riprenda e dia la possibilità a noi giovani di portare avanti il nostro futuro. Al momento la realtà è ben diversa, da terzo mondo. Però, diciamo che ci spero. Non voglio emigrare, voglio affermarmi nella mia terra, nel mio paese. Non sono mai stata una aggrappata alle proprie origini, ma credo sia giusto così». Molte delle tue fotografie sono autoscatti, in cui emerge la materialità di Chiara oltre l’occhio creativo, qual è la metafora dietro a questo doppio ruolo di “sguardo/guardato”? «Come ho detto prima, sono molto autocritica, quindi, se una foto non viene come voglio la cancello. Per le mie foto, chiedo spesso alle mie amiche, che non sono né modelle né fotografe, ed è molto difficile “farle riuscire nei miei intenti”, anche perché spesso chiedo cose bizzarre. L'autoscatto è un ripiego, ecco. Siccome non posso trattenere la pipì, e non ho nessuno subito disponibile per posare, poso io, però, lavorare con una persona che

posa per te è tutta un'altra cosa. Quando sono sola, davanti all'obiettivo, spesso al buio, sono in intimità con me stessa. Insomma, ho detto tutto e il contrario di tutto, perché è una cosa difficile da spiegare». Molto interessante ciò che dici, perché, in fondo, il concetto, a me caro, tipico di alcune culture, della fotografia che ruba, o comunque, indaga l'anima è un elemento che c’è sempre. «Si». Ed avere la capacità, e la possibilità, di fare entrambe le cose, guardare ed essere guardata, deve essere un viaggio intimo e molto complesso. Credo. «Quando autoscatto cerco di tirare fuori immagini di me che gli altri non vedono: come mi vedo, cosa vorrei... ». Molto affascinante, è come se aprissi tè stessa a tutto il mondo. « Si. Ho imparato a conoscermi molto di più. Non tutti conoscono sé stessi fino in fondo, ecco, autoritrarsi, forse, è un modo per esplorare quegli angoli che rimangono bui. Anche perché sei più libero, quando sei solo».

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Da cosa ti fai guidare nel fiutare l’ispirazione del momento per trasporre la tua idea visuale in fotografia? «Da ogni cosa: a volte sono fotografie scattate da altri; altre volte è una canzone; un paesaggio; una frase; la luce del sole in una certa ora come illumina una stanza; un ricordo; tantissime cose. Le idee più geniali le ho avute comunque mentre guidavo». E riesci sempre a fissarle? A me capita spesso che le idee migliori mi arrivino a random quando non ho la possibilità di fissarle al volo, poi, quando le ricerco per darle corpo non le ritrovo mai uguali. «Non sempre, è che non sono mai pienamente soddisfatta dei miei scatti, mi piacciono ma, come si dice “manca sempre un pezzo” rispetto a come le avevo immaginate». Per me è un po’ come se l'arte, la creatività, fossero qualcosa di impalpabile da “cogli l'attimo, l’istante”. «È vero. Per questo faccio spesso autoscatti, mi viene in mente, scatto subito, quindi poso io». La rete, oggi, è uno strumento imprescindibile per avere visibilità, opportunità e contatti ma, può essere, se utilizzata in modo non corretto, un’arma a doppio taglio, cosa ne pensi in merito? Anche a livello di protezione dei contenuti e del diritto d’autore. «Il diritto d'autore argomento infinito e aggrovigliato, di cui ancora non ho capito un “cavolo”. Nel dubbio, le foto le firmo sempre. Sulla rete hai molte possibilità di emergere, come hai appena detto tu, però, come emergi così è facile cadere nel “dimenticatoio”, vale sempre la solita regola: “fare chiasso,rompere le scatole, scrivere, pubblicare di continuo”.

Oggi su social network si snocciolano immagini “a tutto andare”, l'informazione è veloce, leggi una cosa e subito un'altra, non bisogna adagiarsi se si vuole far conoscere i proprio lavori». Forse, la velocità di certo aiuta per farsi vedere, da un altro, invece, non permette di fissare e di suddividere in modo chiaro ciò che è davvero buono dal qualunquismo superficiale, forse, ma è una mia idea. «Beh, sui social, come Facebook, son tutti saggi e poeti, in realtà domina un qualunquismo spiazzante. Però con la mania del condividi qualsiasi cosa si riesce a far circolare anche cose interessanti, a me è capitato così con i precari, un passaparola su Facebook e altri canali che l’ha fatto conoscere, poi se hanno condiviso solo perché chiedevo io, oppure si sono fermati davvero a leggere, non lo so - ride -. Ho ottenuto, comunque, un risultato oltre alle mie aspettative, davvero».

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Una chiacchierata davanti ad un drink virtuale in compagnia di Yurj Buzzi Intervista a Yurj Buzzi Attore, scrittore, testimonial Martini

Due chiacchiere con Yurj Buzzi, brillante, bello, giovane ma con alle spalle un percorso denso di esperienze professionali nel campo della recitazione. Da un ipotetico futuro nelle aule dei tribunali si è ritrovato, un po’ per “Caso”, a calcare le scene del rutilante mondo del cinema e dello spettacolo diventando attore professionista. Pubblicità, televisione, cinema, teatro e scrittura, un artista a tutto tondo che si muove in libertà nel vasto mondo dell’arte. Per rompere il ghiaccio non posso esimermi dal chiederti qual è stata la molla che ti ha portato a scegliere la recitazione come professione per il tuo futuro?

«Io studiavo Giurisprudenza a Bari dove vivevo circa 9 anni fa, in quel periodo una serie di accadimenti negativi, tra i quali la morte dei miei nonni, hanno scombussolato un po’ la mia vita. Ho trovato nel teatro prima e poi nello studio di teatro e cinema un nuovo modo di respirare e di comunicare con le persone, un forte desiderio di cominciare nuovamente un percorso mettendomi in gioco con qualcosa che non conoscevo ma che mi faceva stare bene. Da qui i primi spettacoli a Teatro in Puglia e il desiderio di cominciare a fare sul serio trasferendomi a Roma, là dove le cose succedono. Quindi la molla è stata decisamente "il desiderio di cominciare un nuovo percorso" dimenticando o comunque allontanandomi da quel periodo della mia vita, cercando un nuovo modo di comunicare con gli altri, di esprimermi e di respirare». “Un nuovo modo di respirare” è un’espressione intensa che rivela la passione vitale per il proprio mestiere. Sei molto giovane ma hai un ricco bagaglio di esperienze, conosci il mondo dello spettacolo e le sue dinamiche, in questo periodo di crisi e di tagli alla cultura come vedi il futuro della “professione attore”? «Le dinamiche purtroppo sono state sempre sbagliate nel mondo dello spettacolo, tanto più ora se ne avverte il peso. I tagli alla cultura sono solo un piccolo granello, ci sono tante situazioni dietro che non sono mai state sviscerate e a tutti è sempre andata bene così, o alla maggior parte. Tra le prime cose un contratto di lavoro che tuteli il mestiere dell'attore: sarebbe un buon punto di partenza, altrimenti non c'è un futuro e non la si può chiamare professione!!! L'attore è un lavoratore che butta fuori tanta energia e fatica, va rispettato prima come essere umano e poi come facente parte di una categoria di "lavoratori".Finché non si rispetterà l'uomo in quanto lavoratore dello spettacolo il futuro sarà il periodo nel quale si riesce a "lavorare", periodi brevi sempre più sottopagati, lavorati male e da tutti, anche da

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chi questo mestiere lo fa per dire agli altri “sai sono un attore...”». Il mondo della recitazione oggi è, passami il termine, un po’ “generalista”, tutti si buttano nella recitazione spesso senza una vera preparazione, forse è per questo che non è semplice trovare dei miti a cui ispirarsi, tu che ne pensi? Quali sono i fari nella notte a cui ti sei ispirato o ti ispiri? «Io penso che in un mestiere è giusto che ci siano tante persone che "si buttano "e ci provano, come dici tu, ma è altresì vero che è assurdo che riescano ad emergere molte figure non competenti ma ben "sponsorizzate". È sempre stato e sarà così, ma mentre un tempo questi signori erano il contorno ora sono il piatto principale ed è per questo che a noi giovani "leve" manca l'appetito!!! Quindi per quanto mi riguarda degusto momenti del passato, da Troisi a Matroianni arrivando a Buster Keaton, non c'e' un modello ma un deliziarsi realmente di immagini e movenze ed energie di personaggi che stupiscono sempre di più nel vederli e rivederli». Secondo la tua personale opinione quali sono gli ingredienti necessari per diventare un attore professionista nel mondo di oggi? Perché come hai detto tu è una professione vera e gli attori sono lavoratori che meritano rispetto. Si parla molto di scuole di recitazione, agenzie e della forza del Web, ancora non sfruttata appieno dagli aspiranti e dai professionisti del mondo dello spettacolo, credi siano utili e, soprattutto, pensi che il Web sia una carta in più per aumentare le proprie opportunità e per raggiungere più facilmente il proprio pubblico? «Ingredienti per una persona: 30% psiche 30%respiro 30%talento (innato o maturato) 10% appartiene al fato da questa base si possono sfornare diverse categorie di attori e di esperienze vissute in modo diverso.

Sicuramente una buona scuola accresce il talento quindi fa diminuire le percentuali della psiche e viceversa; iniziare senza scuola con un film da protagonista direttamente al cinema fa aumentare la psiche e quindi la voglia di credere in sé stessi, ma fa diminuire il respiro e il fato perché hai già avuto fortuna subito. Il tutto condito da questo potente mezzo che è internet e che permette di condividere con tutti quello che tu stai facendo, sebbene sia un'arma a doppio taglio. Mentre prima si doveva stare in giro per mesi in tournée per far risuonare il tuo nome, con spettacoli molto impegnativi e con ore di prove e fatica, ora ti metti una gonna e degli occhiali vai su you tube suoni il flauto traverso con il naso e hai vinto: ti cliccano in migliaia e poi ti chiamano a fare un film. Se usato invece come la vostra Community è sicuramente un modo per confrontarsi, esprimersi ed arrivare direttamente a molte persone che questo mestiere lo rispettano quanto sé stessi». Ti ringrazio per ciò che hai detto su Wi-Mee Moving Spirits, cogliendone l’essenza, preciso subito che non sei stato pagato né affascinato dalla mia bellezza che è quantomeno inesistente. Realtà virtuali dannatamente reali a parte parlando di umana beltade, oggi, dove tutti sono in vetrina, spesso clonati come brutte imitazioni di Barbie di sottomarca, in una scala di valori quanto ritieni sia importante la bellezza per farsi strada, almeno all’inizio, nel tuo mondo? «Sicuramente "la bellezza ha il valore dell'immediato", ovvero in quanto bello è degno di ammirazione, di essere preso in considerazione, di essere mostrato, ma come tutte le cose immediate la bellezza ha una scadenza e quindi un periodo. Pertanto il valore è alto ma immediato e consumabile in poco tempo». Oltre che attore vorrei ricordare che sei anche autore di un libro, La mia vita su di un cactus, edito da Laterza, poesie e un monologo teatrale. Ho letto in una tua

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intervista che lo porterai sul palcoscenico, quanto è importante per te scrivere e cosa significa riuscire a trasportare la scrittura dalla carta stampata alla scena? «Adoro scrivere, ho usato la scrittura nel senso più “becero” del termine, per superare diversi momenti, l'ho trovata terapeutica e ne ho gustato i benefici. Ho messo in scena il monologo teatrale tratto dal libro Da qui non scendo in una rassegna teatrale short Theatre a Nola, per la Napoli Cultural Classic, e non credevo fosse possibile che le mie parole e le mie "immagini mentali" potessero essere così vicine alla realtà, tanto da vederle riflesse negli occhi degli spettatori che applaudono». Personalmente credo che per uno scrittore sia qualcosa di meraviglioso “essere letto” dal pubblico attraverso le proprie parole e i propri gesti recitati. Un'emozione che raramente uno scrittore prova, cosa ha significato per te? « Ha significato spogliarmi da orpelli di attore e apparire nella fragilità dello scrittore che narra di sé stesso». Una bellissima immagine, molto evocativa e chiara per tutti coloro che scrivono. Intanto il tempo scorre e il nostro drink virtuale sta terminando sulle note di una notte di primavera.

The short movies comedy under the magnifying glass Intervista a Maddalena Mayneri Presidente Cortinametraggio Festival e Maremetraggio Festival Una chiacchierata al femminile around the cinema, immersi virtualmente nel candido scenario glamour di Cortina d’Ampezzo, con la vulcanica e brillante presidente di Cortinametraggio Festival 2012. Cortinametraggio è un festival dedicato alla commedia leggera, un tocco di lievità in un periodo piuttosto pesante. Il successo della Vostra manifestazione è indice della voglia di spensieratezza che gli spettatori cercano nelle sale; quali sono, secondo la tua personale esperienza diretta a Cortinametraggio, gli ingredienti che ne decretano il successo sul pubblico e quanto, questo genere, rappresenta la cinematografia italiana? « Cortinametraggio è nato per la prima volta nel 1996 ed era conosciuto come il “festival del pesciolino rosso”, che ne era il logo; allora eravamo in 4 a lavorare al festival credo, forse 5, e adesso siamo centinaia. Cortinametraggio ha avuto 4 edizioni, dopo si è trasferito a Trieste, dove ha cambiato nome ed è diventato Maremetraggio,ma questa è un'altra storia. Nel 2011 Cortinametraggio è ritornato, con una formula in più: mi sono legata al premio

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giornalistico “Nastri d'Argento” e proprio grazie a questo premio il festival è cresciuto ulteriormente. Non potevo, però, fare solo una rassegna sui corti ed è per questa ragione che ho avuto l'idea di dedicare un'intera sezione del festival ai “corti comedy”. In questo periodo non ci sono molte occasioni per ridere e, allora, in un posto di vacanza come Cortina, mi sembrava giusto far vivere agli spettatori dei momenti sereni, con del bellissimo cinema giovane e soprattutto con dei corti particolari, difficili da trovare,. per rappresentare meglio la cinematografia degli ultimi anni. Per l'edizione 2012 ho studiato anche un appuntamento diverso, ogni sera, prima delle proiezioni, mostrerò i back stage dei film commedia italiani girati quest'anno, “Vacanze di Natale”, “Tutta colpa della musica”, “Immaturi 2”, “Benvenuti al nord”, “Box Office” e spero proprio che i registi verranno a Cortinametraggio a raccontare personalmente al pubblico i retroscena di questi film». I tagli alla cultura in Italia sono ormai un’emorragia sistematica, e i festival non sono certo esenti da questa scure, quando, invece, un sistema di supporto razionale creerebbe un circolo economico virtuoso. Come si riesce, dunque, ad

organizzare eventi di successo e di qualità in questa bufera? «Vedi io credo molto nei sostegni da parte dei privati, credo che non sia giusto vivere solo di contributi istituzionali. Cortinametraggio per la prima edizione ha avuto un sostegno da parte del Comune di Cortina e della Regione Veneto, per quanto riguarda le Istituzioni, ma il grosso dell'aiuto è arrivato dai privati, dagli alberghi di Cortina ed in particolare quello dato dal “Grand Hotel Savoia” è stato fondamentale; la nostra base operativa era proprio in questo albergo e anche per la futura edizione sono state riconfermate le agevolazioni. Inoltre senza gli sponsor, come JTI ed Audi, non potrei andare avanti da sola. Le istituzioni sono importanti ma i privati ancora di più, quello che più mi preoccupa non sono i tagli alla cultura da parte del Ministero bensì i tagli delle aziende che non vogliono più investire in pubblicità! Se devo dire la verità, però, io dal Ministero ho un grande sostegno, soprattutto dal Ministero della Gioventù con il quale è partito un importante progetto dedicato ai giovani dai 18 ai 35 anni, realizzato in collaborazione con il Centro Sperimentale di Cinematografia». Mi piace molto il tuo punto di vista, perché mette in luce l'economia della cultura vista attraverso un pensiero imprenditoriale e non di passiva attesa di fondi pubblici. La cultura genera un volano economico ad ampio spettro, non è un rimorchio ma un traino e sa creare circuiti autoalimentati. Questo è l’approccio corretto per dare alla cultura il giusto peso e per guardarla con occhi diversi, soprattutto in un periodo di crisi dove la creatività culturale è un jolly di grande importanza. «Sì lo so, ma penso di essere l'unica a pensarla così, insieme a te..., e sono spesso criticata per questo». Cortinametraggio mette un accento forte sull’integrazione diretta fra cinema e promozione attiva del territorio in cui si

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inserisce, attraverso una relazione stretta fra l’ambiente e il festival stesso. Quanto è importante creare relazioni sinergiche di questo tipo per la buona riuscita dell’evento? « Cortinametraggio si svolge a Cortina, sulle Dolomiti che sono patrimonio dell’Unesco. JTI, uno dei main sponsor della manifestazione, crede nella salvaguardia dell'ambiente ed è proprio per questa ragione che ha deciso di aiutare il festival, per di più ci troviamo in uno dei posti più utilizzati come location nella cinematografia internazionale e se non ci fosse sinergia con tutti sarebbe un disastro. L'importante per Cortinametraggio è il coinvolgimento del pubblico ampezzano. Il festival deve coinvolgere anche chi vive qui tutto l'anno, gli abitanti per una volta diventano anche i protagonisti dell'evento, partecipando a tutti gli incontri che vengono organizzati durante i 5 giorni di proiezione». Oggi il mondo viaggia ad interconnessioni veloci e trasversali, il Web offre la possibilità di ampliare contatti e contaminazioni nello spazio di un click, secondo te, quanto e come Internet può essere uno strumento funzionale per promuovere e valorizzare i Festival in Italia? «Al 1000%, anzi al 100.000%. Io non riesco più a vivere senza internet , senza FB che utilizzo quasi esclusivamente per lavoro, You Tube poi è fondamentale per la ricerca di certi video». Una mentalità moderna ed imprenditoriale la tua, che sa utilizzare al meglio le connessioni che il web mette a disposizione per costruire nuovi percorsi. La cultura è business e la rete un’opportunità, se usata nel giusto modo. La mentalità aperta e il corretto approccio danno risultati positivi, soprattutto in tempo di crisi e umori neri. « Concordo». Il vostro festival bandisce il concorso “Corty Comedy” dedicato ai giovaregisti, una chance per mettersi in luce attraverso il passaggio in una vetrina

d’eccellenza. Dicci tutti i “buoni motivi” per i quali un giovane regista dovrebbe partecipare “seduta stante” a Cortinametraggio? «Prima di tutto perché c'è un bellissimo premio di 5.000€, offerto dalla Lotus Production, che non è male. Poi è sempre un concorso abbinato ai “Nastri d'Argento”, quindi, una splendida vetrina di lancio per tutti i giovani registi in cerca di fama». Tu sei presidente di due importanti festival cinematografici dedicati ai cortometraggi e hai la visione chiara della situazione del cinema nel nostro paese, vuoi raccontarci la tua personale visione sul contemporaneo? «Io trovo che il 90% dei registi abbia una rabbia e una tristezza interiore esagerata, e, a volte, anche una presunzione esagerata. Non fraintendere il mio giudizio ma mi domando perché tutti cercano sempre di fare dei corti complicatissimi, sperimentali, che esprimono solo amarezza. Ma i giovani non hanno più voglia di sognare? Comunque se parliamo della nuova cinematografia italiana devo ammettere che ci sono alcuni registi che stanno emergendo a testa alta; io metto in prima posizione pari merito Paolo Genovese, Luca Miniero e Luca Lucini, tutti registi nati grazie ai corti, e, così giusto per sottolinearlo, tutti venuti a Cortinametraggio nelle primissime edizioni…». Concordo con te sulla perdita della capacità di sognare, una ricchezza che, secondo me, di questi tempi cupi potrebbe cambiare molto le cose in senso positivo. Nelle sale, a quanto vedo, da profana, si trovano spesso in distribuzione un numero limitato di pellicole cinematografiche, di norma delle grandi major, quando, invece, il panorama della produzione cinematografica (corti, mediometraggi, lungometraggi, etc)

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indipendente o di piccole case di produzione è assai vasta, innovativa ed interessante a livello di qualità. Quanto sono importanti i festival per la promozione di altre realtà creative ed artistiche fuori dal circuito delle grandi sale e per lo spazio dato ai giovani emergenti, i futuri grandi di domani? «Qui ti posso rispondere parlando di Maremetraggio, perché proprio a Trieste il “Premio Ippocampo”, dedicato alle opere prime (siamo stati il primo festival in Italia a bandire un premio per le opere prime, adesso ce ne sono molti), premia anche i giovani produttori con “Premio Coraggio” e per questo motivo credo che un festival sia importantissimo, perché da un prestigio in più al regista e, anche, una visibilità di pubblico maggiore; pensa che a Trieste, durante Maremetraggio, c'è una presenza di 1000 persone a serata». Vorrei chiudere con un’ultima domanda più personale, se me lo permetti. Nel nostro paese essere donna, professionista e ricoprire incarichi di responsabilità e prestigio è quasi una Morgana in pieno deserto, tu lo sei, quali consigli daresti alle giovani professioniste per avere successo senza dover forzatamente emigrare? «Adesso nel mondo del cinema forse è ancora più difficile, ma credo che la professionalità debba sempre vincere su tutto, quando sei professionale nessuno ti può mettere i piedi in testa. In primis credo che ci debba essere l'amore per quello che si fa e più di tutto la volontà di crescere. Io ultimamente mi sto demotivando ma spero di riuscire a ricaricare la batteria presto, perché senza l'entusiasmo non si va da nessuna parte. Posso consigliare ai giovani di credere sempre in quello che fanno, di non demordere mai, altrimenti il fallimento è assicurato, ma, soprattutto, di avere la capacità di ascoltare e di imparare da chi ha più esperienza. Io continuo a farlo ancora oggi, perché troverò sempre qualcuno che mi

insegnerà qualcosa di nuovo e dal quale potrò, con classe, “copiare”. lo dico alle stagiste che lavorano da me in ufficio ascoltate, origliate, ripetete sottovoce, agite e crescete insieme a che vi accompagna per mano nel duro mondo del lavoro». La nostra chiacchierata va terminando sul fare della sera, quando le ombre disegnano magiche figure sulla neve bianca di Cortina. Le parole di Maddalena ci regalano il ritratto di una professionista che ama il suo lavoro e che sa guardare la cultura con gli occhi del business, perché l’arte e la cultura sono risorse economiche di grande valore, oggi più che mai.

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Le due voci di Ucroniutopia Intervista a due voci con Gianluca Lalli, leader Ucroniutopia – cantautore, chitarra, voce – ed Eleonora Aleotti – flauto traverso, voce -. Un’intervista sperimentale più lunga del solito. Un doppio ritratto allo specchio, delineato da due membri del gruppo Ucroniutopia. Un discorso aperto di complicità e condivisione di un’idea per raccontare, come in una storia, il percorso creativo e professionale della musica indipendente in Italia. Un gruppo, un nome da percezione escatologica, atmosfere sospese. Un viaggio musicale dal Rinascimento al contemporaneo, sonorità folk e rock attraverso il tempo. Testi profondi si muovono su sottofondi morbidamente malinconici, creati dalle corde del violoncello e delle chitarre, che si fondono con quelli sottilmente metallici, come lame, del flauto. Iniziare un viaggio con una domanda banale non fa certo un gran effetto, mi appello alla vostra clemenza, ma non posso evitare di chiedervi qual è il significato della vostra essenza filosofica e creativa, racchiusa nel nome, assai complesso, del vostro gruppo “Ucroniutopia”, senza luogo e senza tempo?

Con un gesto di cavalleria Gianluca (G.L.) lascia che sia Eleonora (E.A.) ad “iniziare le danze”. E. A. «Il significato letterale del termine è "senza luogo e senza tempo", originato dalla fusione di due parole greche, è un neologismo creato da Gianluca. Dal mio punto di vista ognuno lo rende proprio a modo suo. Per me ha a che fare con la dimensione che creiamo per noi e per il pubblico quando siamo sul palco ma anche con la ricerca o più direttamente con il modo di vivere». G.L. «Condivido. Ucroniutopia nasce da un'idea di distacco, da sé stessi per salire di un gradino e guardarsi,cercando, prima di tutto, di capirsi e, poi, di veder in modo obiettivo ciò che ci circonda. Ucroniutopia è un posto non posto, dove si può vedere cosa sta accadendo sulla Terra. È un pianeta ancora inesplorato ,ma che molta gente durante la propria esistenza, con le proprie sensazioni, tocca in qualche modo: quando si canta; quando si fa all'amore; quando si ascolta una canzone che ci porta via lontano; quando succede “qualcosa di forte”. È una sorta d’inconscio “zone inesplorate”. Per quanto riguarda l’etimologia del nome è una parola che non esisteva prima ed è unica. Per questo rispetta la volontà di non togliere unicità all'individuo, mentre, in questa società, la sta “man mano” perdendo sempre di più. Quasi nessuno sa cosa significhi». S’inserisce E.A. «Quasi tutti sbagliano nello scriverla o nel pronunciarla». G.L. «Abbiamo locandine con il nostro nome storpiato nei modi più fantasiosi ed incredibili. Molti presentatori non riescono nemmeno a pronunciarlo e qualcuno ha rifiutato un nostro concerto solo per il nome del gruppo. Molti ci hanno consigliato di cambiarlo, perché avrebbe creato dei problemi in caso di un eventuale successo sul grande pubblico. Tutto ciò è divertente e bellissimo e mette in chiaro molte cose in merito alla situazione attuale».

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Il contemporaneo musicale, a parer mio, del tutto opinabile, è piuttosto spoglio: riciclo di canzoni, a volte già di seconda mano, reality che promettono luci della ribalta a chiunque, prodotti da etichetta prêt-à-porter per fugaci meteore, il tutto condito da una generalizzata assenza di creatività. In contraltare, invece, un’infinità di nicchie di maggiore interesse e libertà espressiva, spesso con pochi sbocchi. Cosa ne pensate del panorama musicale contemporaneo, qual’ è la vostra visione “dall’altra parte della barricata”? G.L.«Per quanto mi riguarda, penso che la musica sia cantare sotto la doccia, o per strada, o fischiettare distrattamente, tutto il resto mi pare abbastanza finto. Le danze tribali dei popoli primitivi avevano un forte senso; di quel senso è rimasto solo il dolore ,che spesso si esprime “in malo modo” e con cliché confezionati specificatamente per la vendita. Se a tutto questo aggiungiamo che esistono gli psicologi della musica e che, ormai, ogni etichetta discografica che si rispetti ne ha uno nel suo staff potete immaginare “cosa ne vien fuori...”. Per ora son felice di non appartenere a questa casta». E.A. «Io, a livello musicale, vengo da una nicchia: ho studiato musica classica e ho sempre pensato che, fuori dalla mura di casa, non avrei avuto possibilità, niente utilità pratica, il che, a dire il vero mi piace. Non avere nessuno sbocco verso l'esterno, però, al contempo, è una brutta sensazione. La musica che facciamo con la band, invece, si affaccia sull'esterno, è nostra ma si ricollega ad autori, cantautori, a temi fondanti dell'esistenza e, soprattutto, a sensazioni, sia nelle parole sia nella musica. Si spazia. Contemporaneo per me significa questo, credo. In veste di ascoltatrice ascolto un po’ di tutto, mi piace quello che “mi fa muovere il corpo e la mente”, anche se oggi si trova raramente». Il tempo scorre e Gianluca ed Eleonora diventano due fiumi in piena che raccontano il loro mondo senza filtri.

Sono affascinata dai percorsi creativi, di qualsiasi genere essi siano, così, come nasce un vostro pezzo? Quali sono i vostri percorsi di ricerca, le fasi evolutive che da un’idea, una parola, portano dall’ispirazione alla scrittura materiale dei testi e della musica delle vostre canzoni? E.A.«I testi,la musica di base e le idee portanti degli arrangiamenti sono di Gianluca. Per Gianluca - da quello che ho capito io - la musicalità parte dal testo. Alcuni testi sono quasi musica di per sé. Il significato dei testi è importante, perché è quello che risuona. Il suono, però, evoca ed allarga i confini - sempre che ce ne siano -. Negli arrangiamenti ognuno di noi mette il suo accento personale, ma, poi, alla fine tutto deve essere parte di uno stesso viaggio. Se l’ensemble non è organico significa che non va bene. Per me, che ero essenzialmente un’esecutrice, è “una bomba”, mi piace moltissimo. A volte “ci becco” e a volte no, ma quando il risultato è positivo l'immagine che nasce dalla melodia risuona come se echeggiasse, almeno, questo è quello che sento io». G.L. «Spesso nei miei testi prendo spunto dalla letteratura, essendo un topo da biblioteca, sebbene prima leggessi molto di più. A dire il vero quello che facevo di più prima, fondamentalmente, era vivere. Si può dire che per i miei testi lo spunto è un un mix di cose vissute sulla propria pelle e di personaggi della letteratura. Una canzone nasce se c’è qualcosa dentro di noi che prende fuoco; magari per due anni non succede nulla e poi in una settimana ne scrivo 5, dipende. Scrivere in qualche modo è una necessità. Di norma scrivo prima il testo, basandomi sull'importanza delle parole e dei concetti, poi segue la musica, facendo quartine che ricordano la poesia, ma non ce una regola fissa. Guai ci fosse!». E.A. «Alcune melodie che elaboro contengono richiami alla musica classica, che

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conosco e dalla quale provengo, ma mi sono accorta che ora mi lego moltissimo alle sensazioni che mi danno le parole. Anch'io, come Gianluca, non sono per le regole fisse». In coro ribadiscono, per rimarcare il concetto, che non ci sono regole fisse per gli Ucroniutopia.

Artisti, musicisti, in questa landa desolata sospesa in un’atmosfera surreale, come si costruisce la propria carriera da indipendenti nella bufera della crisi, quali sono i vostri percorsi, quali vie e mezzi avete a vostra disposizione? E.A. « Questo è un bel problema. (sorride). Noi ci auto produciamo, ci finanziamo e ci organizziamo, tutto da soli. “Ci metti la faccia” e se qualcosa va male ne paghi le conseguenze. Quindi quale carriera? Io, per ora, non ho voglia di fermarmi. I progetti nascono anche se la loro realizzazione effettiva è sempre un’incognita, ma è parte del gioco. Proviamo a farli diventare una carriera vera, ma se questo intaccasse i contenuti, la voglia, etc sinceramente preferisco evitare. Ad oggi il percorso mi piace, ci muoviamo e vedremo dove potremo arrivare». G.L. «La gente quando canti canzoni tue tenta di buttarsi dalla finestra,questo in particolare a Roma, che, a mio parere, è poco più di un paese arrogante che si spaccia per metropoli, della quale, in realtà, ha solo lo smog e il traffico. Ai concerti, di solito, in scaletta metto all’inizio le canzoni che credo siano per il pubblico più tristi, noiose e meno orecchiabili, devo dire che funziona.

La metà delle persone scappa,.gli altri non ti ascoltano e quei 5 che rimangono a sentirti, di solito, sono almeno 3 i cugini egli altri 2 nuove teste ucroniche. Funziona sempre così e riguarda l'umanità. Può darsi che lo stipendio di 800 euro piuttosto che 1300 euro sia anche un bene,può darsi che scuota finalmente le anime di persone ormai ridotte a cadaveri ambulanti, scusate la franchezza. Perciò le etichette grandi figurati se ti “cagano”, con quello che diciamo nelle nostre canzoni ,hanno bisogno di menti deboli e di vendere; le piccole ti aumentano solo il prezzo del disco cosicché si prendono il 90% del guadagno, imponendoti prezzi da 10 euro in su, insomma una grossa m****». Senza nessun filtro hai messo in luce la situazione attuale in campo discografico in Italia, ma, allora, cosa si potrebbe fare da subito per cambiare il sistema?, O, almeno, promuovere un cambiamento di rotta, attraverso una logica bottom down? G.L. «Io ci penso spesso ,davvero . Immagino che un giorno o l'altro arrivi qualcuno a dirmi “bla bla bla ,i soldi li metto io....”, sono terrorizzato,giuro, ho come la sensazione di tradire me stesso. Entrare a far parte di un determinato mondo può far bene alle tasche ,ma non all'uomo, non si può cantare una cosa e farne un'altra ,come i goffi politici,che senso ha? Il denaro non parla, bestemmia!». E.A. « Io sto provando a farmi finanziare dai miei genitori, mica funziona! (ride) Io mi sono creata un mio movimento personale, mi guadagno dei soldi con le serate, facendo la baby-sitter, o in un modo qualsiasi che non mi dispiaccia troppo e li rinvesto nella musica. È il mio modo concreto per fare quello che mi piace, per ora funziona, quando smetterà di funzionare mi chiederò come fare». Concreta Eleonora e duro Gianluca, ma un modo per trovare il giusto sistema ci deve pure essere, la famosa Eunomia, che

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avvantaggi l'arte, gli artisti, il pubblico e generi un circuito economico positivo, non credete? G.L. «Per cambiare il sistema si dovrebbe agire fuori dal sistema ,ma se, poi, fuori dal sistema nessuno ti ascolta,sei di nuovo davanti alla finestra a guardare l'orizzonte, che spesso, come dice qualcuno, si ferma al tetto. Paradossalmente proprio nei posti alternativi dove siamo andati a bussare, salvo qualche eccezione, abbiamo ricevuto il trattamento peggiore, presi “a pesci in faccia”, snobbati, peggio che negli ambienti definiti “borghesi”. Personalmente finché troverò sensazioni, stimoli e piacere ,lo farò, quando non mi sentirò più sincero e comincerò a chiedermi cosa sto facendo,allora smetterò di fare musica». E.A. «Su questo punto io e Gianluca abbiamo punti di vista diversi . Secondo me qualcosa dall’interno di questo sistema-mondo si può fare, senza necessariamente trovarsi definitivamente a coltivar cavoli o a guardare l'orizzonte. Quello che è interessante è che, forse, stiamo provando insieme a fare due cose molto simili ma diverse. Io, comunque, non vedo un metodo di cambiamento univoco ma trovo dei singoli movimenti che funzionano e se smettono di funzionare cambio direzione. In altri paesi trovo situazioni a cui ispirarmi, se non altro…».

Il Web, pur fra i contrastanti pareri, è sicuramente uno strumento comodo e veloce che da a tutti la possibilità di farsi conoscere ed arrivare ben oltre i confini geofisici propri. Qual è li vostro rapporto con il Web e quanto pensate vi sia utile? G.L. «Personalmente tutto quello che faccio lo faccio tramite il Web. Lo uso per farci conoscere, per trovare serate nei locali, per vendere il disco online, o tramite post pay, per conoscere musicisti, artisti e via dicendo. Una bomba atomica che puoi far esplodere da sotto la tua poltrona mentre ti bevi una birra ,cosa vuoi di più dalla vita?...». E.A. « Sono sempre connessa (“che palle” sentenzia prosaica, “però, è anche parecchio divertente” aggiunge). Online vendiamo i Cd, pubblicizziamo gli eventi e a volteci capita anche di scoprire un locale dietro casa che fa musica dal vivo che non conoscevamo: più facile sul Web che passeggiando per il quartiere. Funziona, si conosce gente, musiche muove, si trovano notizie strambe che possono sempre tornare utili». Irrompe Gianluca G.L. «Per la libertà di espressione… -siti controllati, privacy azzerata, unità di controllo alla “1984” di Orwell, a cui incredibilmente ci siamo consegnati - è un'altro discorso. Ci sono, anche, molti spunti sulla cultura generale, non approfonditi naturalmente, è un po’ il riflesso della nostra società, devi stare attento a dove “mettere i piedi”». E.A. «Si, certo, non si ha la libertà piena, anche solo per il fatto di stare incollato alla poltrona davanti ad un video, a mio parare, però, è comunque un gran bel mezzo». Il pubblico per gli artisti è linfa vitale, a volte dimenticato, è anch’esso artefice del successo professionale, chi è il vostro pubblico e che rapporti avete con i vostri fan? G.L. « Il nostro pubblico, di solito, non è molto numeroso ,questo perché esibirsi in grandi spazi è assai difficile se non hai le conoscenze, sto dicendo una cosa nuova sul

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nostro paese? Forse no (ride). Quando abbiamo avuto occasione di suonare davanti a grandi platee, il pubblico era divertito e contento, ci hanno riempito di complimenti. Il pubblico è, in ogni caso, chi compra il nostro disco autoprodotto, ne abbiamo vendute 1200 copie in 3 mesi, non è poco, ora ristamperemo altre 1500 copie, che credo venderemo tranquillamente. Loro sono quelli che ci ascoltano, comprano il disco e ci danno la forza e la carica per continuare, una spinta importante. La cosa più bella è vedere la gente uscire col sorriso da Ucroniutopia. Certo, suonare per sé stessi è la cosa fondamentale ,ma non ci si può guardare tutta la vita allo specchio parlando da soli ». E.A. «Il pubblico ti cambia la serata,il modo di suonare e di cantare. Se hai un pubblico che risponde il suono è diverso, non cade nel vuoto. Poi quanto questa risposta del pubblico in sala abbia seguito dipende, a volte zero, altre, invece, c’è un ritorno nel tempo. Resta sempre il problema di non far fermare tutto dopo l’esibizione, però, quando ti metti su internet e vendi cd a sconosciuti , poi magari ci fai amicizia e, quando possono, ti seguono ai concerti, o puoi colloquiare con loro dopo il concerto o dopo l’ascolto del nostro cd è bello! Senza dialogo non avrebbe molto senso». Dulcis in fundo raccontateci, se vi va, in breve la vostra storia e quali sono i vostri progetti, attuali e futuri. G.L.« Il progetto nasce nel 2009. Io sono cantautore, lo faccio da almeno 15 anni. Dopo diverse esperienze con qualche band mi sono messo in proprio, voce e chitarra, suonando in locali del Centro Italia. Nel 2006 ho fatto un concorso per ricordare Rino Gaetano, cantando la cover “Il cielo è sempre più blu”. Poi, nel 2009, per caso incontrai Jacopo Mosesso, che suonava il violoncello in un gruppo metal sinfonico, e li cominciammo a esibirci in due, prima con il nome di John Fante e poi Ucroniutopia. Mi facevo chiamare John Fante per la mia

passione per l’omonimo scrittore italo-abruzzese, a l quale, tra l’altro, nel disco ho dedicato una canzone, tratta da un suo libro “La grande fame”. In seguito si sono aggiunti Danilo Congiu alla chitarra elettrica, mi piaceva il suo modo di suonare - lui è mancino e suona con la chitarra normale-, ha dei suoni sporchi, un po’ psichedelici che in un contesto folk cantautoriale sono molto rari, se non unici. Il bassista Walter Pandolfi e il tastierista Mattia Giordano. Eleonora è l’ultima arrivata nella band ed è quella che ha assimilato più velocemente lo spirito ucronico. Dove si è mai visto un soprano con una voce cosi bella in un gruppo folk? Lei suona anche il flauto traverso, altro strumento fondamentale per i nostri suoni. Eccoci, abbiamo suonato per almeno 200 locali in tutta Italia, attualmente apriamo i concerti del cantautore bolognese Claudio Lolli». E.A. « Io sono nel gruppo da poco, come ha detto Gianluca, quindi dirò qualcosa dei miei progetti concreti con la band. Con gli Ucroniutopia, da quando sono entrata, si è consolidata l'adesione ad un gruppo di nuovi cantautori e band che si lega ad un filone di autori precedenti, principalmente ruota attorno a Claudio Lolli, che non conoscevo ma che ora apprezzo, è fra le sonorità a cui facciamo riferimento senza dubbio. Abbiamo suonato in Calabria e a Ferrara, due esperienze molto diverse ma belle. È emozionante suonare su palchi più grandi, confrontarsi con musicisti validi e “avvinazzarsi” insieme dopo! A novembre saremo a La Spezia, in un teatro, per partecipare alla prima rassegna cantautoriale dedicata a De André. Suoniamo molto spesso nelle Marche, per via delle origini del Lalli, e ne vale la pena, ci sono scenari magnifici e suonare “Il Lupo” guardando le montagne è fantastico. In generale ci piace suonare nelle piazze. Per le sonorità del gruppo mi piace “rompere le balle” a Gianluca e al suo filone cantautoriale solitario, perché trovo che la mia voce e il flauto si prestano a decorare qua e là le nostre canzoni, così come mi piacciono i suoni e i tipi curiosi che si sono

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concentrati nel tempo in questo gruppo» Chiude Gianluca con l’ultima battuta G.L. «Oltre a continuare a suonare in giro per l’Italia stiamo preparando il nostro prossimo disco, che si chiamerà “La Fabbrica di Uomini”, abbiamo in cantiere qualche videoclip - oltre a quello già realizzato per “Il vino dell'assassino”, la prima traccia del nostro disco - tra cui uno per la canzone “Il Lupo” (sempre parte del loro disco “Il tempo degli Assassini”) e molto altro ancora…». Questa lunga chiacchierata, intervallata dalle digressioni ucroniutopiche di Gianluca ed Eleonora, è giunta al termine. La pausa caffè virtuale è finita e loro devono volare a prepararsi per il concerto che terranno al Teatro Valle di Roma, per un nuovo viaggio musicale.

Notturno in Musica, due chiacchiere al buio con Giovanni Pirri Giovanni Pirri, produttore musicale Una breve intervista a Giovanni Pirri, produttore musicale indipendente. Un racconto di parole vibranti per esprimere la voglia di fare, di innovare, di dare spazio alla musica e al talento dei giovani artisti. Racchiudere in un piccolo quadro la poliedrica figura di Giovanni Pirri è ben difficile, sorriso da moschettiere guascone, baffi secenteschi e la forza di lottare per il proprio sogno, senza arrendersi mai. Poeta, produttore musicale e molto altro ancora e dunque in due parole chi è Giovanni Pirri? «Giovanni Pirri è un ragazzo che ha il "brutto" vizio di sognare e di lottare affinché i propri sogni possano guadagnarsi anche un sola possibilità di attenzione. Viaggia ad alta velocità di pensiero e crede nel futuro e ha tanta voglia di imparare». Ragazzo è la giusta parola per descriverti, perché parli ancora come chi ha la speranza di un futuro migliore davanti al proprio cammino, pensi, dunque, sia possibile in questo periodo di crisi economica nero pece trovare uno spazio per la produzione indipendente senza soffocare fra le grandi major? «Il futuro è l'unico credo e si sposa perfettamente con la mia necessità di dare un

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contributo al mondo che mi circonda. E quando c'è crisi l'unica soluzione possibile diventa non smettere mai di credere in ciò che si fa, in ciò che si sogna. In questo senso aiuta credere nel valore dell'innovazione e si finisce con lo scoprire che c'è sempre un posto per tutti... soprattutto se si ha voglia di fare». Questo è un messaggio forte con una visione del domani propositiva, uno squarcio di sereno nel buio. Credi che Internet, il Web, la velocità delle informazioni, l’autopromozione, l’arrivare ovunque con facilità possano dare a tutti gli artisti la possibilità di diventare qualcuno, anche se si hanno scarsi mezzi, pure in Italia, esattamente come accade fuori dai nostri confini o ritieni che qui il pubblico non sia ancora abbastanza maturo per questo tipo di processo? «Se c'è anche la determinazione allora il quadro è completo e la determinazione spesso è necessario educarla. Non è facile gestirla mentre si forma perché gli ingredienti che la generano sono molto costosi, ti costringono a stare sotto la lente dell'autostima, hanno un prezzo ed un peso specifici. Oggi con internet molte strade sono possibili ...quelle che a volte mancano sono le dritte giuste per riuscire a percorrerle nella maniera più adeguata senza troppe soste. In Italia, paese di telefonini, internet comincia solo adesso a ricevere la giusta attenzione e solo chi ha lo spirito giusto per organizzarsi è nelle condizioni di crearsi chanches maggiori di successo». Quindi credi che manchi ancora l'educazione all'uso dello strumento, i mezzi ci sono ma non si è ancora in grado di utilizzarli nel modo giusto, che consiglio daresti allora ai giovani artisti per usare al meglio le potenzialità del Web? «L'unico consiglio che mi permetto di dare, visto che anche io ne sono alla costante ricerca, è di fermarsi un attimo a riflettere sul senso e sull'importanza nonché sulle potenzialità di uno strumento che ancora oggi

viene utilizzato esclusivamente sul posto di lavoro: molti giovani artisti non hanno nemmeno il pc a casa. Consiglio anche di ascoltarsi di più, di essere più istintivi e meno attenti a certi brutti esempi televisivi. Esempi che non demonizzo e sono convinto debbano continuare ad esistere per aiutarci a comprendere meglio ciò che vogliamo, quindi ciò che cerchiamo e di conseguenza chi siamo». Per brutti esempi televisivi cosa intendi esattamente? Oggi si da molto risalto a trasmissioni come i reality ma a mio avviso non favoriscono la meritocrazia, semmai suggeriscono come sia semplice arrivare in alto, basta un colpo di fortuna, ma secondo il parere di un esperto del settore quale sei tu credi che i reality aiutino veramente la musica, la buona musica, oppure no? O sono validi solo per quella commerciale? «Mi riferisco a tutti gli esempi televisivi che non hanno il coraggio di prendere una direzione ostinata e contraria alla voglia di non far pensare la gente, di far credere che il talento sia come l'acqua, che sia necessario apparire prima ancora di essere, quindi mi riferisco alla televisione "non generalista" di oggi che impera. La musica ha bisogno di più sperimentazione, ha bisogno non di professori ma di eccellenze da proporre da portare ad esempio. Credo anche che non esista musica buona o cattiva ma esista la musica “punto” e ve ne sia una adatta per ciascuno di noi» . Sono perfettamente d'accordo con te, la musica, che è arte, è una sola, poi ci sono tante nicchie specifiche e ogni ascoltatore ama l’una o l'altra o più d’una. Questo è il bello delle espressioni artistiche: uniscono sotto un unico grande recinto mille diversità adatte a ogni singolo individuo. Nel tuo mestiere, o meglio nella tua passione che hai fatto abilmente professione, che è fatto di grande responsabilità qual è la molla che ti fa

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scegliere un artista da promuovere, da sostenere, cosa ti fa dire fra mille “lui o lei si”, come arrivi a credere nel loro talento? «È una questione di pancia, non è un caso infatti che sia oversize, ma anche di vibrazioni nell'anima. Ciò che mi appassiona è ciò che riesce a comunicare con quell'armonia interiore che è parte di me e descrive al meglio il mood delle emozioni che riesco a provare, grazie alle quali riesco ad esplodere e ahimè anche ad implodere. Nel tempo, conoscendo sempre di più sul campo gli artisti, facendo insomma scouting proprio come si faceva una volta nei locali, mi sono reso conto che uno dei parametri che mi spinge oltre il limite della disattenzione è la sincerità dell'artista che riesco a percepire attraverso le sue canzoni». Dalla tue parole si capisce che per te il lavoro va oltre la semplice professione ma è commistione stessa con l'arte e hai sempre uno spirito propositivo e costruttivo, parlare con te è un piacere ma abusare del tempo altrui è peccato mortale per cui vado con l’ultima domanda, il famoso domandone finale. Pensi che il gioco valga la candela, ossia, credere nei propri sogni, lottare ogni giorno contro i mulini a vento come Don Chisciotte, impegnare il proprio tempo per costruire quanto vale per te e te ne penti mai, dicendoti che, forse, oggi in Italia non ne vale la pena? «So per certo che i sogni diventano realtà nel momento stesso in cui vengono condivisi - Don Chisciotte è cavaliere solitario -. Se ho intrapreso la strada che ancora oggi sto percorrendo grazie al mio portale, grazie alla mia società, ai miei interessi e a tutte le mie passioni è perché ho trovato lungo il cammino tante persone che mi hanno aiutato a comprendere che nulla è vano se quello che si fa lo si fa con il cuore e con la convinzione che dentro al Web più che cittadini italiani siamo gli abitanti di un Universo talmente diverso che vale la pena navigarlo e quindi affrontarlo senza indugio».

Non poteva che esserci chiusa migliore, un augurio di lunga vita all’arte e il segno che il fermento culturale è vivo e vitale, sempre pronto a mutare, a camminare innovando e rinnovandosi per creare e ricreare magia attraverso la condivisione e la sperimentazione.

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EDITORI E SCRITTORI Intervista a Lupo Editore http://www.lupoeditore.it/lupo/catalogo/pgxso-browse/ctx-8.html Casa Editrice Cosimo Lupo, editore.

Dite presentandovi “Il libro diventa per noi non un prodotto finale, ma l'oggetto che inizia un cammino, un viaggio verso la narrazione di una nuova storia.”, cos’è oggi il libro nel contemporaneo? E quale sarà il suo futuro? «Siamo convinti che il libro rimanga a tutti gli effetti l’invenzione più importante per l’umanità. Il libro, da secoli, e da quel famoso laboratorio di Gutenberg, non cambia mai. Cambiano sicuramente i generi e i gusti, ma il mezzo rimane incredibilmente lo stesso. Riteniamo che questa sia la magia dei libri. Nell’epoca dei sistemi operativi, il libro non cambia il suo codice e crea, così, un ponte tra le generazioni. Noi siamo convinti che il libro di carta non passerà mai di moda». Condivido appieno questa vostra affermazione.

La vostra è una casa editrice che ha un lungo cammino alle spalle e nasce al Sud, definito per “cronaca” territorio problematico, invece, a me pare, oggi, sia il centro di un vivace fermento culturale, attivo e propositivo; qual è il vostro punto di vista in merito, attraverso la vostra personale storia aziendale? «Sì, la nostra casa editrice nasce al Sud ed opera principalmente qui. Siamo convinti che il nostro territorio sia “una spugna”, aperto a tutti gli stimoli che arrivano da più parti d’Italia e dal mondo. C’è molto fermento culturale e gente che è pronta a fare, a mettersi in gioco, a non lasciare la propria terra e a provare a cambiare qualcosa qui. Nella nostra casa editrice accogliamo tante idee diverse, quasi tutte proposte di giovani del territorio, e ci piace essere parte attiva, sempre». Oggi, sembra, che le professionalità perdano la loro identità peculiare a causa dell’evoluzione contemporanea verso “il tutti fanno tutto”, in realtà non è così, ogni mestiere è arte e ha il suo know how specifico. Cosa significa essere un editore nel XXI secolo? «Essere un editore significa oggi districarsi tra mille difficoltà e in una realtà non facile. Gli indici di lettura sono tra i più bassi di tutta Europa. Questo è preoccupante soprattutto per un paese come il nostro, ritenuto fiore all’occhiello della cultura europea. Inoltre, il nostro governo non aiuta la piccola editoria e c’è grande preponderanza delle grandi case editrici. Essere un editore oggi, però, significa anche continuare a dare forma ai sogni e alle parole ed è questo che ci spinge ad andare avanti». Nel liquido contemporaneo scrivere è diventato quasi un bisogno primario, molti si cimentano nella scrittura e sono in cerca di editore, ma non tutti sono prodotti pubblicabili, quali sono gli elementi che vi fanno “scattare la molla” per trasformare un manoscritto in libro edito?

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«Le belle storie e gli autori interessanti. Questo è quello che ci stimola alla pubblicazione. Non ci sono segreti e regole. Noi leggiamo sempre i manoscritti che ci arrivano in casa editrice e le belle storie le pubblichiamo sempre». In Italia la collaborazione è, spesso, difficile da realizzare oltre l’intenzione sulla carta, voi l’avete fatto con Gli Occhi di Mia Figlia di Vittoria Coppola, co editandolo con Edizioni Anordest, e avete ottenuto un grande risultato: il libro è stato premiato da Billy il Vizio di Leggere come “Libro dell’anno 2011”. Com’è nata quest’idea e qual è il bilancio di questa vostra interessante scelta editoriale? «Gli occhi di mia figlia è stato pubblicato prima dalla nostra casa editrice. Grazie ad internet, è stato notato e letto da moltissimi lettori in tutta Italia, fino ad essere giudicato il miglior libro dell’anno. La collaborazione con Edizioni Anordest nasce successivamente poiché ci serviva poter diffondere il libro in maniera più capillare e, la casa editrice settentrionale, ha sposato completamente la nostra causa». La comunicazione e la promozione pubblicitaria stanno cambiando, orientandosi verso un rapporto più diretto con i consumatori, sempre più coinvolti e attivi sul Web, sui social network e sui nuovi supporti di lettura: strumenti imprescindibili ma che, se non sono usati nel modo corretto, possono diventare un’arma a doppio taglio. Quanto per voi il Web e i suoi strumenti sono importanti per far conoscere i vostri prodotti e in che modo vanno utilizzati per ottenere il massimo risultato con il minimo sforzo? «Per noi internet e i social network sono sicuramente amici, utili e positivi mezzi per far conoscere il nostro lavoro, la nostra attività e tutto quello che stiamo promuovendo».

Voi avete un catalogo molto vasto, che attraversa i gusti dei lettori in trasversale, a me hanno molto incuriosito InBox, cito “…sperimentazioni di scrittura e vocazioni nuove e insolite. Differenziandosi da ogni altra scatola.”e Mini, "libri da tasca", un concetto che mi ha notevolmente attratto. Volete raccontarci che tipo di letture si trovano in queste due collane? «Come scritto anche su internet, InBox è una scatola dove all’interno è possibile trovare scrittori emergenti e scritture nuove, di qualità. C’è anche tanta voglia di sperimentare. La collana, diretta da Antonio Miccoli, vede l’uscita adesso di tre romanzi nuovi: Tre noci moscate nella dote della sposa di Simona Cleopazzo, Tutto a posto tranne me di Cosimo Lopalco e Colpo d’oppio di Ugo Sette. I tre romanzi sono uno diverso dall’altro ma le storie potranno catturare tutti per la loro originalità e bellezza. Mentre in Mini ci sono più che altro racconti e sono libri che, per il loro formato, è possibile mettere in tasca e portarli con sé quando si ha voglia di abbandonarsi alla lettura». Lupo Editore ha anche una collana, In Fabula, dedicata all’infanzia, cosa interessa i piccoli lettori di oggi? E è quanto importante l’apparato illustrativo nei libri per bambini? «In Fabula è una collana per i più piccoli, per l’infanzia, ma anche per i grandi. I piccoli lettori sono i più esigenti ed è importante educarli subito alla buona lettura e alle belle storie. L’apparato grafico e le illustrazioni sono fondamentali e oggi ci sono tantissimi bravi giovani artisti che si dedicano alle illustrazioni per l’infanzia e per i ragazzi. Noi cerchiamo di collaborare con molti artisti per dargli anche una vetrina importante». La crisi ha investito tutti i settori, compreso l’editoria, quali sono, secondo voi, gli interventi che si dovrebbero intraprendere per dare slancio all’economia editoriale in Italia? «Sostenere le piccole case editrici indipendenti».

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Vittoria e Gli occhi di mia figlia Intervista a Vittoria Coppola Scrittrice

Con vero piacere accogliamo nel “salotto virtuale” di Wi-Mee la giovanissima scrittrice Vittoria Coppola, fenomeno editoriale del 2011. Per rompere il ghiaccio ti chiediamo di raccontarci la tua passione per la scrittura, cosa significa per te scrivere, quando hai capito che era il momento di fare il “grande salto” e pubblicare? « Scrivere per me é vita. Necessità. Scrivo perché voglio condividere emozioni, storie di vita reale che prendono forma

attraverso le pagine. Non potrei non scrivere, mi sentirei incompleta. Ho capito di voler pubblicare circa quattro anni fa, ci vuole: coraggio, giusta follia, determinazione. Io li ho trovati. Fortunatamente». Il tuo libro, Gli occhi di mia figlia, è un viaggio nell’universo umano fatto di solitudini, di rapporti complicati, d’amore e d’amicizia, dove hai attinto l’ispirazione per costruire la storia e quale percorso creativo hai seguito per arrivare alla parola “fine”? « Ogni singola parola del mio libro viene dal mio istinto, dalla mia anima. Quando ho cominciato a scrivere la storia non ho più smesso, fino a quando non ho detto, fra me e me: “Eccola qui, la storia che volevo. Eccole, le emozioni”». Da esordiente pura sei stata scoperta nel Web da Billy il vizio di leggere, rubrica del TG1, e sei riuscita a vincere il titolo di Miglior libro dell’anno 2011, sbaragliando concorrenti illustri, grazie alla partecipazione attiva dei lettori sul Web: vuoi raccontarci questa esperienza? Come l’hai vissuta, che interazioni ci sono state e cosa ha significato per te diventare l’autrice del libro dell’anno? «Quella del concorso di Billy il vizio di leggere è stata una vera e propria favola, cominciata per caso, con assoluta semplicità. Migliaia di persone hanno scelto di sostenere il mio libro, per mille semplici ragioni. Ora comincia il difficile ed anche il momento più bello: lavorare lungo la strada della scrittura, con serietà e passione. Gli occhi di mia figlia può restare nel cuore di chi lo accoglie». Il tuo libro è co-editato da Lupo Editore e da Edizioni Anordest e sei seguita da un efficiente ufficio stampa, quanto è importante, per un autore, avere alle spalle un team preparato e professionale per riuscire ad emergere? «La vicinanza costante del mio Editore,

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Cosimo Lupo, è fondamentale. Così come quella del mio, (dici bene!) efficiente ufficio stampa, è irrinunciabile. Stefano Donno, Luciano Pagano, Cosimo Lupo, sono persone che lavorano con professionalità. Mi sento sostenuta da loro, in tutti I momenti delle mie giornate. Non posso che ringraziarli, uno per uno. Quello della co-edizione è stato un passo importante, grazie al quale il mio romanzo è stato distribuito su tutto il territorio italiano in tempi veramente brevi. Lupo Editore ed Edizioni Anordest hanno fatto un lavoro eccezionale da questo punto di vista». Purtroppo, sovente, ci si dimentica del ruolo essenziale del lettore, colui che sceglie, premia e legge: tu hai vinto proprio grazie ai lettori, quanto è importante, oggi, avere un rapporto diretto, attraverso tutti i canali possibili, con i propri lettori? «Vedi, io credo fermamente che il mio romanzo prenda vita attraverso gli occhi di chi lo legge. È vero, questo accade con tutti I libri. Ma la storia che racconto, il linguaggio che uso, vogliono andare dritti al cuore, non hanno altre pretese: se il lettore non ci fosse, loro non avrebbero vita. Spero con tutto il cuore di mantenere vivo e costante il rapporto diretto con chi mi legge. Lo faccio sin da quando il libro è stato pubblicato. Ho una pagina ufficiale dedicata al libro su Facebook, in cui pubblico giornalmente. Utilizzo Twitter per aggiornare chi mi segue (anche se non ho molta famigliarità!). Mi do da fare, perché la scrittura è un bellissimo lavoro da coltivare». Tu sei giovane, laureata e lavori, un buon esempio in tempo di crisi, ma ora hai raggiunto la notorietà con il tuo libro, devi presentarlo ed essere partecipe, quanto e come la tua vita “di sempre” è cambiata? «La mia vita, con Gli occhi di mia figlia ed i miei prossimi libri, non può che essere ricca di emozione. Lavoro e continuerò a lavorare, questo è certo.

L'umiltà e l'impegno sono indispensabili. Potrò scrivere comunque continuando a condurre la mia vita, con i miei affetti e il mio lavoro». La crisi è un liet motiv costante, tu sei pugliese e, da quanto osservo, da esterna, vedo che nella tua regione c’è un denso fermento culturale in attivo, qual è il tuo punto di vista in merito da osservatrice privilegiata? «La Puglia è una magnifica regione che, effettivamente, negli anni ha prodotto molto nei campi artistico e culturale. Non posso che sperare che ci sia una crescita costante. Sogno che l'investire in cultura diventi un progetto da perseguire sempre con entusiasmo». Concordo pienamente con te e mi associo al tuo sogno, sperando si realizzi prima o poi. Tu sei bellissima, un volto da quadro e uno sguardo intenso, pensi che la bellezza sia un punto di forza per raggiungere nuovi target di lettori, un buon passaporto per dare luce in modo diverso ai contenuti? «Credo che un gradevole aspetto possa certamente aiutare. Questo però, va al di là della oggettiva bellezza fisica: la maniera di relazionarsi con le persone è determinante. Il buon carattere e l'umiltà fanno la reale bellezza di una donna o di un uomo. È una questione di empatia. Essere una bella ragazza non è una colpa: l'importante è esprimere con convinzione, determinazione e onestà, i propri contenuti. Io voglio che il mio libro vada avanti e si faccia amare. È bello vederlo crescere.». Quali sono i tuoi progetti per il futuro? «Voglio scrivere, scrivere e scrivere. Solo così potrò migliorare. Non si finisce mai di farlo».

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Il tempo è volato nel delineare uno splendido ritratto al femminile di una giovane autrice di successo, a cui auguriamo un lungo cammino nel mondo della scrittura. http://www.edizionianordest.com/catalogo/137-OCCHI-DI-MIA-FIGLIA

ArcheoAres snc, l’archeologia vista da un’altra angolazione. Intervista a Francesco Aliperti, Archeoares In Italia, nonostante tutto, è ancora vivo il clichè che definisce l’archeologia un hobby, divertente ma improduttivo, sebbene non sia così. Voi avete avviato un’ attività nel settore cultura con un’impostazione professionale aziendale, perché questa scelta e quali sono le difficoltà che incontrate, nel nostro paese, a fare impresa? «Nel momento in cui abbiamo scelto il nostro percorso universitario avevamo già evidentemente (anche se in parte inconsciamente) pensato all'archeologia, e più in generale ai BB.CC., come ad un possibile settore lavorativo. Coerentemente con questa impostazione, dopo aver scelto di operare come privati, non potevamo fare altro che costituirci in forma di impresa poiché il nostro fine dichiarato, come in tutti i lavori, è quello anche di trarre degli utili. È vero tuttavia che, come dicevi, l'archeologia è spesso vista come un divertente passatempo, numerose sono infatti le associazioni che stanno a dimostrarlo, ed

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infatti una delle maggiori difficoltà che abbiamo riscontrato a livello di comunicazione è stato il marcare la differenza tra professionisti e dilettanti, specie in presenza di riconoscimenti da parte di enti pubblici. Certo è che se lo stato, la provincia, i comuni continuano a spingere le associazioni sarà sempre una chimera il lavoro nel settore BB.CC. (a meno che per lavoro non si intenda un compitino pagato mediante rimborso spese)». Sono pienamente d’accordo, dare valore alla professionalità e al lavoro è l’unico modo per dare impulso ad un circuito economico reale nel settore dei Beni Culturali. In Italia la cultura è svalutata, gode di scarsa attenzione ed è considerata un fanalino di coda, seppure il nostro paese sia ricco di storia, arte, archeologia e creatività. L’arte e la cultura sono punti di forza che, al contrario di quanto si dica, producono un volano economico con ricadute nel micro e nel macro, a breve, medio e lungo periodo. Nonostante tutto i governi, oggi come in passato, paiono non accorgersene. Volete spiegare perché la cultura è ricchezza e fonte di buona economia che va valorizzata, sostenuta e spinta verso la crescita? «Ho in parte risposto a questa domanda con la precedente. Mi preme però chiarire una cosa : mi sembra che ad oggi un settore guadagni posizioni ed importanza sugli altri solo quando riesce a produrre ricchezza, posti di lavoro, benessere. Per raggiungere questi obiettivi mi sembra che sia utile in generale non tanto (o non solo) un investimento economico da parte dello stato, quanto la capacità di favorire la nascita di realtà private che abbiano come obiettivo il profitto (e conseguentemente liberare questo termine dalle connotazioni negative che spesso lo accompagnano quando si applica al nostro settore). Credo fermamente che pagare un privato in modo “salato” e spesso ingiustificato per rendere un servizio presso un museo ad esempio sia uno sperpero di denaro pubblico,

mentre metterlo in condizione di operare al fine di trarre vantaggio economico potrebbe addirittura far guadagnare lo stato sul medio-lungo periodo. In conclusione credo che serva una rivoluzione culturale più che un aumento di spesa». Concordo anche su questo punto e sul significato di “profitto”, che è il fine ultimo e giusto di ogni attività lavorativa umana. Archeoares offre una complessa gamma di servizi, che spazia dall’assistenza in fase di scavo all’editoria, quanto è importante diversificare l’offerta per conquistare il mercato e quanto contano, per essere competitivi in tempi di crisi, l’innovazione e il rischio imprenditoriale? «Naturalmente diversificare è sempre una buona cosa, serve ad essere “coperti” in tempi di crisi di qualche settore e con i guadagni derivati da quelli che “tirano” si riesce a restare competitivi. Noi abbiamo scelto di occuparci principalmente di gestione museale ed editoria ma operiamo anche nel settore dell'organizzazione eventi e della formazione. Per quanto riguarda la tecnologia mi sembra naturale sfruttare tutto quello che la scienza ci mette a disposizione adattandolo alle esigenze dei BB.CC. Il rischio infine è connaturato all'impresa, si cerca di guidarlo, studiarlo, limitarlo ma le decisioni vanno prese prima o poi. D'altronde fondare nel 2004 (a 24 anni e con due soci di 25) una ditta che operasse come realtà privata al 100% nel settore dei BB.CC. è stato un bel rischio, no?». Un bel rischio da “imprenditori” veri, secondo la definizione Keynesiana del termine, in un campo poco avvezzo al privato totale. Vi occupate anche di formazione in materia archeologica, andando anche nelle scuole. I giovani come rispondono alla materia, subiscono il fascino del passato e vedono ancora nei beni culturali un’opportunità concreta per il loro futuro?

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«Sicuramente i ragazzi hanno reazioni diverse a seconda degli interessi e delle scuole che frequentano. In generale però ritengo che siamo riusciti spesso a suscitare un interesse per la materia “storia”, oltre che per l'archeologia in particolare, che normalmente non viene apprezzata. Per quanto riguarda le loro scelte future è difficile dire cosa faranno, sull'onda dell'entusiasmo del corso diventerebbero tutti archeologi o storici dell'arte, ma emerge sempre una grande confusione riguardo i loro progetti per il futuro. La chiarezza degli obiettivi non è troppo di moda di questi tempi in questo paese». Archeoares è anche Editore nel campo degli e-book (narrativa, poesia, saggistica), perché avete deciso di inserirvi nel mercato editoriale? «La scelta dell'editoria è stata una vera scommessa. Avevamo idee a riguardo da molti anni che riaffioravano periodicamente, poi nel 2010 abbiamo deciso di partire. Naturalmente con il nostro modus operandi: niente fondi pubblici, ogni libro una scommessa fatta non solo di valutazione del testo ma di analisi del mercato potenziale etc. Ovviamente non potevamo tralasciare gli e-book oltre il cartaceo perché il nostro proposito è quello di lanciare il marchio e restare al passo con i tempi. A livello tecnologico ci stiamo sempre più attrezzando e fra poco ci saranno belle novità. Ne sarai prontamente informata ovviamente». Questa è una bella notizia, crescere e sviluppare nuovi prodotti e nuovi mercati sono segnali positivi che illuminano un po’ l’oscurità dalla crisi. Qual è la vostra opinione su questo settore produttivo in Italia, secondo la Vostra personale esperienza nel campo? «Nella prime domande ho in parte già affrontato il tema. Ma ne approfitto per ribadire un concetto che mi sta a cuore. Secondo me nell'editoria, nella gestione

museale ed altro i costi per lo stato dovrebbero essere ridotti al minimo. Lo stato dovrebbe limitare i suoi interventi come arbitro sopra le parti che si affrontano in un regime di libero mercato. Creare strutture pubbliche o semi-pubbliche, finanziare società, associazioni e cooperative che vivono solo con il contributo statale droga il mercato, impedisce la crescita di chi lavora sul serio e genera una finta occupazione che è in realtà un ammortizzatore sociale pagato dai settori produttivi in attivo. Conseguentemente si è portati a considerare come secondario il settore cultura. E non potrebbe essere altrimenti. Gli unici aiuti che vedo come importanti sono la semplificazione normativa (come credo in tutti i settori) e un aiuto economico dato in fase di start up ad imprese valutate grazie a business plan credibili. A tal riguardo voglio sottolineare che è importante modificare il modo in cui in generale i fondi vengono erogati, cioè dopo averli anticipati. Questo sistema rischia di finanziare non la migliore idea ma quella di chi ha qualcuno alle spalle che può sostenerlo. Si rischia paradossalmente di render più facile il reperimento di fondi ad una ditta di nuova costituzione con a capo il figlio del proprietario della società leader del mercato, rispetto ad una innovativa senza particolari garanzie. Anche questi fondi rischiano di essere dunque dispersi o confusi con gli ammortizzatori sociali». La penso come te, per dare davvero un valore economico reale alla cultura bisogna ragionare in termini business, perché si tratta sempre di costi, ricavi, benefici, prodotti e servizi concreti in risposta ad una domanda forte, tanto da poter essere definita “bisogno primario” per la società contemporanea. Gli e-book sono una straordinaria opportunità, a mio parere, per dare visibilità alle nicchie e più potere ai lettori, che possono scegliere senza condizionamenti letture oltre le logiche delle grandi case editrici.

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In campo artistico e archeologico, invece, c’è ancora una certa reticenza nei confronti del libro digitale, meno amato dell’edizione cartacea. L’e book, invece, è un’ottima via per arrivare in modo più diretto e veloce al pubblico e per la diffusione dei dati scientifici in tempo quasi reale, prima di giungere ad una pubblicazione finale e completa. Siete archeologi e pubblicate e book archeologici e d’arte, qual è il vostro punto di vista in merito? «L'e-book costituisce una grandissima opportunità per tutti i motivi che hai appena elencato. Questo vale per tutte le pubblicazioni ma in misura sicuramente maggiore per quelle finalizzate allo studio. Mi stupisce che nel settore dell'arte siano ancora relativamente poco diffusi perché credo che la possibilità di vedere ad alta risoluzione un'immagine potendo “zoomare” costituisca per gli interessati alla materia una opportunità incredibile. Tuttavia le nostre vendite vedono ancora preferito il libro cartaceo e la maggior parte degli e-book risulta acquistato da pubblico anglofono, il che testimonia un certo ritardo per l'Italia ma anche una speranza di diffusione futura». Quanto è importante, per la promozione e per l’ampliamento della propria rete di conoscenze e di opportunità, essere presenti sul Web? «Fondamentale. Per farti un esempio molti dei nostri autori ci hanno contattato via social network e sottoposto le opere via e-mail. E noi stessi sfruttiamo molto il web per promuovere sia le pubblicazioni sia in generale l'attività di ArcheoAres. Questa stessa intervista ha avuto luogo grazie alla grande attività svolta sul web dal nostro ufficio stampa».

La vostra ricetta per sfruttare la crisi a proprio vantaggio, facendola diventare un’opportunità vincente. «Le crisi sono momenti di cambiamento, a livello mondiale e locale, ma possono anche essere momenti di grandi opportunità. L'Italia è in questo momento al centro della crisi e l'Europa ci sta obbligando a fare ciò che per comodità non siamo riusciti a fare da soli. Liberalizzare, e non solo privatizzare che è cosa ben diversa, e spendere meglio i soldi pubblici. Noi non aspettiamo altro che veder aprire finalmente il mercato e giocarcela con le altre ditte. Non è detto che il risultato ci favorisca ma come dicevo prima il rischio fa l'impresa».

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Intervista a Diana Sganappa Diana Sganappa, Curatrice editoriale e scrittrice Diana Sganappa è la curatrice del libro Sotto il velo del tempo scritto dal padre, Fernando, che racconta quadri di vita semplice di tempi non troppo lontani ma che, oggi, sembrano distanti anni luce dalle nostre vite. Cosa ci raccontano le pagine di Sotto il velo del tempo? «Le pagine di questo libro raccontano momenti buffi, ridicoli ed a volte teneri di vita contadina, alternati ad altri di vita paesana. Sono ambientati nel periodo che va dagli ultimi decenni dell’ottocento fino a poco dopo la seconda guerra mondiale. Fanno eccezione pochi tra gli ultimi racconti del libro, più recenti». Qual è il fil rouge che unisce le profacole, come sono definite nella Premessa, in un progetto editoriale compiuto e definito quale Sotto il velo del tempo? «Il fil rouge che unisce i racconti e li amalgama nel contesto di un libro è una sorta

di nostalgia che ho avvertito in mio padre quando, con la famiglia riunita per le feste, richiamava la nostra attenzione e raccontava queste storie di cui a volte ridevamo ed a volte dicevamo: Uffa! Non se ne può più!». Curare la pubblicazione di un libro scritto dal padre è un grande atto d’amore, unito alla volontà di perpetuare il ricordo di una vita oltre il tempo, cosa rappresenta per lei questo libro? «Lasciando da parte lo sbuffare delle le mille serate in cui ho sentito raccontare queste “profacole”, adesso che mio padre non c’è più, questo libro ne rappresenta la memoria. Ogni volta che lo apro e rileggo qualche pagina, mi ricorda chi sono, da dove vengo e quanto poco può bastare per essere contenti ; inoltre, queste storie, prima a mio nonno e poi a mio padre, hanno fornito la scusa per parlare di parenti e amici persi lungo il cammino della vita. A noi, figli e nipoti, ascoltare è servito perché, oltre a divertirci, in ogni storia una piccola morale, magari nascosta, l’abbiamo trovata». Il libro è arricchito da illustrazioni, disegni dal taglio grafico contemporaneo, quanto, o/e se, pensa che siano un valore aggiunto importante per dare maggior respiro e peso alle parole? Era già nell’idea originale di suo padre o è stata una sua scelta editoriale? «Sì, penso che le illustrazioni valorizzino le storie alle quali si riferiscono. Il disegno, secondo me, è un respiro tra le parole e serve a fissare meglio nella mente un ricordo. Mio padre di disegni non ha mai parlato, descriveva così bene personaggi e situazioni che a noi sembrava di avere davanti la scena che veniva descritta. È stata una mia scelta editoriale». Nella Nota alla Premessa specifica che nel libro ci sono parti in dialetto, però non quello effettivamente parlato a Bagnoregio ma un “meta-vernacolo”, se mi concede il termine non convenzionale, un misto fra gerghi dialettali diversi.

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Questa scelta, che appare singolare, riflette un po’ le realtà famigliari italiane, dove spostamenti e membri appartenenti a comunità differenti creavano un meta linguaggio personale, fondendo termini e modi di dire diversi; qui perché ha adottato questa particolare scelta linguistica? «Ho consultato diverse persone di Lubriano e di Bagnoregio, ho chiesto “a destra e a manca” quale fosse la forma dialettale giusta di diverse parole e, come risultato, ho potuto constatare che ognuno usava termini propri. Per non fare un torto a qualcuno, ho chiuso gli occhi, ho immaginato di riascoltare mio padre e mio nonno mentre raccontavano le storielle e ho deciso di far parlare i vari personaggi come facevano loro». Raccontare il nostro passato recente, dove affondiamo le radici più superficiali della nostra storia, micro storie locali a costruire la Storia con la “S maiuscola” è, secondo il mio punto di vista, fondamentale per capire e per ritrovare la logica razionale della semplicità. Quanto è importante, secondo lei, diffondere e far conoscere queste piccole storie di sana e vera normalità alle giovani generazioni? «Oggi tutto scorre veloce, gli impegni non ci danno tregua e, in questa vita convulsa, perdiamo noi stessi e la memoria socio-familiare. I genitori non hanno tempo per raccontare qualcosa ai figli e questi , da parte loro, si annoiano ad ascoltare. Ritengo che quello che manca ai figli di questa generazione sia l’ascolto, il capire che si può essere felici e divertirsi anche con poco. Visti i tempi…». Oggi si sente spesso dire che il mercato editoriale tradizionale è in crisi, che l’e book soppianterà il libro cartaceo, sebbene, a conti fatti, i libri continuino ad essere acquistati, comunque, come mai lei ha scelto proprio di pubblicare un libro stampato e non puntare in esclusiva al formato digitale?

«Sfogliare un libro ha un fascino che, almeno per me, va oltre il tempo. Quando ero molto piccola, non c’erano soldi in casa per comprare libri e io ne ho sofferto molto. Adesso che posso, libri…libri…libri. L’e book è una strada nuova ed è bene percorrerla, ma resto comunque affezionata al libro, magari sporco di caffè o di nutella». C’è un racconto, fra tutti quelli contenuti nel libro, a cui è più legata? Se si perché? «Natale e vecchie tradizioni. È un racconto che porta davvero indietro nel tempo, in una dimensione di misticismo, magia e fiducia nella Divina Provvidenza. Ripenso a come doveva essere lo zio Meco, descritto dal babbo come modesto e silenzioso, che, anno dopo anno, sfidava la logica, appoggiando un tizzone acceso sulla tovaglia, con la fiducia cieca e incrollabile che la tovaglia non si sarebbe bruciata. Nello stesso racconto, la particolarità delle previsioni del tempo fatte per tutto l’anno a venire con una cipolla e dei granelli di sale, beh, mi affascina».

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Intervista a Vladimiro D’Acunto Archeologo, Scrittore Vladimiro D’Acunto è l’autore del libro Interviste Impossibili, una raccolta di interviste ipotetiche e verosimili con grandi personaggi del passato, antico e “contemporaneo”. Nella prefazione al tuo libro racconti come è nata la tua passione per un genere letterario particolare ed interessante: le interviste verosimili con personaggi che hanno fatto la Storia. Quali sono gli ingredienti che ti hanno fatto innamorare a tal punto di questo genere letterario sino ad esserne parte? «Principalmente due ingredienti: la fantasia e l’aneddotica. La miscela di questi due ingredienti principali (in quanto ve ne sono altri) ha dato origine al mio Interviste impossibili, ovviamente ponendomi nel solco di una tradizione ben nota...principalmente Umberto Eco e Giorgio Manganelli». Una miscela complessa non facile da calibrare, come sei riuscito a trovare il giusto equilibrio?

«L'approccio è innanzitutto molto “fumettistico”: si parte da situazioni paradossali tipiche di quelle vecchie storie a fumetti della Disney dove, ad esempio, si immaginava il Prof Zapotec e Topolino che con la loro macchina del tempo portavano nel futuro personaggi del passato. Da queste prime letture infantili scaturirono in me delle eterne domande con cui assillavo i miei genitori, tipo: “cosa penserebbe Dante Alighieri oggi?”, ”Cosa direbbe oggi Leonardo?”, e così via, fino ad arrivare a quella che fu per me la rivelazione totale Le interviste impossibili di Umberto Eco. L’equilibrio è dato, comunque, da un 60% di cose che avrebbero potuto dire i personaggi famosi intervistati e da un 40% di aforismi, citazioni reali; le percentuali, però, si mescolano fino a nascondersi ed invitare il lettore a scoprirle». Nel tuo libro si può percorrere il cammino della Storia attraverso i racconti degli intervistati, quale criterio hai seguito per selezionare i personaggi che sono diventati parte del libro? «Il criterio dei personaggi che “meglio conosco” (perché studiati al liceo e all'università) e che più mi incuriosiscono e mi interessano. Ammetto che troppi sono stati, purtroppo, lasciati fuori, ad esempio Albert Einstein, Marilyn Monroe, Maria Callas, Josif Stalin, Wolfgang A. Mozart e così via, ma sono solo in riserva per un sequel magari...chissà». Fra tutti i tuoi illustri intervistati a quale sei più legato, chi hai amato, o ami, di più e perché? «Salvador Dalì, Socrate e Pitagora: il primo perché è provocatore geniale, dissacratore, contestatore e onirico. Il secondo perché rappresenta per me la quintessenza della filosofia universale, il Maestro umano per eccellenza che, paradossalmente, non ha lasciato scritti. Pitagora in quanto, credo che tecnicamente sia l’intervista più riuscita, più difficile e dal tono alto».

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L’edizione di Interviste Impossibili è corredata da un apparato iconografico di caricature che anticipano il testo. Secondo il mio punto di vista le immagini si fondono con le parole arricchendo il contenuto, non solo a livello estetico. Quanto, e se, pensi che siano un valore aggiunto al tuo libro? «È la vera novità e, a mio avviso, genialità del libro. È stata mia forte intenzione unire l’immagine con la parola. Interviste impossibili è un treno che scorre veloce (da un punto di vista della lettura ovviamente, pur fondendo didattica, saggistica e fantasia comica) su due binari: il testo e il disegno. Si tratta di caricature/disegni, o forse, come amerebbe dire l'autore, mio fratello Danilo, "disegni" veri e propri, non tanto caricature, che si fondono incredibilmente e rispondono in maniera aderente alla scrittura. La cosa straordinaria è che sia i disegni che i testi sono avvenuti in luoghi distanti (il libro è nato a Valencia) e in separata sede: per cui l'autore dei disegni, non ha interagito con l'autore del testo...miracoli del DNA». Questo processo di creazione parallelo e in distanza è davvero molto interessante, si potrebbe definire un dialogo metafisico e creativo ben riuscito e poco usuale. Tu sei un archeologo, abituato a lavorare con la storia in modo scientifico, quando hai deciso di diventare scrittore e narrare la storia sotto un diverso punto di vista? «È un discorso lungo. Diciamo che nella vita ho avuto due grandi fortune: una, di aver studiato Conservazione dei Beni Culturali a Viterbo ed essermi laureato in archeologia, area classica; la seconda di aver “mandato a quel paese”, perdonami l’espressione, il mondo dei Beni culturali. In Italia chi studia, chi si laurea in discipline umanistiche e in particolare in beni culturali e/o lettere è condannato a scontare una sorta di contrappasso dantesco, una pena di dantesca memoria, che consiste nel vivere

nel “Paese dell'Arte e della Cultura” (cit. di Goethe, n.d.i.), conoscerne profondamente la maggior parte degli aspetti, senza mai mettervi mano, lavorare, operare in tale patrimonio secondo i criteri di un paese civile. L'Italia è distante anni luce da questo». Condivido appieno la tua visione e, come archeologa, riconosco, con dolore, lo scempio che ogni giorno il nostro paese fa a danno, e in totale mancanza di rispetto, del suo immenso patrimonio artistico e culturale. È stato facile passare da un sistema di scrittura divulgativo e scientifico, proprio della tua professione, ad uno, seppur in parte lo sia, più narrativo, oppure segui sempre lo stesso percorso mentale? «Ellenikà (primo libro pubblicato dall’autore, http://www.edizioniarcheoares.it/ellenika, n.d.s.) ha il sapore del saggio scientifico tout court, è di livello abbastanza alto ed accademico, seppure molto semplice. Interviste Impossibili, invece, è una sorta di comico che indossa i panni del saggista. Eppure, a ben vedere, i due libri hanno molto in comune: l'amore per la Grecia, l'archeologia, inteso in entrambi i casi come recupero, studio, analisi del “passato”, ma soprattutto c'è un elemento che si ripropone e che ho voluto chiarire meglio, un personaggio: Medea. Tra l’altro è l’unico personaggio mitologico intervistato». E una delle sole due donne presenti in Interviste Impossibili, come mai sono così poco protagoniste? «È vero sono solo due. Avrei voluto inserire Marilyn Monroe, Maria Callas e Jacqueline Kennedy, ma mi interessavano altri personaggi maschili in realtà. Medea e Frida Khalo, l’altra illustre intervistata, rappresentano due giganti dell'universo femminile, due exempla». Due “donne” di grande carattere, dalla vita intensa e drammatica.

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Nel contemporaneo anche il ruolo dell’autore sta cambiando, deve essere più coinvolto anche nella fase di comunicazione del libro, attraverso la moltiplicazione dei messaggi su tutti i canali possibili, primo fra tutti il Web: veloce, economico e capace di raggiungere un numero enorme di persone in un attimo. Quanto pensi sia importante sapere e sapersi comunicare in modo diretto con il popolo dei lettori? «È fondamentale. Attualmente si viene spesso travisati, non compresi, o compresi a livello superficiale, proprio a causa, anche, della velocità e dell’immediatezza del Web, che è sempre un’arma a doppio taglio, da usare con estrema intelligenza ed abilità. Il rapporto diretto, mi riferisco alle presentazioni dal vivo, è di estrema importanza per me». Si parla di crisi del mercato editoriale, di calo delle vendite dei libri, della concorrenza serrata degli ebook, etc, tu sei uno scrittore, vivi la situazione contingente dall’altra parte della barricata, qual è il tuo personale pensiero in merito al mondo dei libri? «Il libro è insostituibile. Ho un rapporto viscerale con esso, sia come veicolo di cultura, di informazione e di comunicazione, sia come oggetto materiale, fisico. La prima cosa che faccio di fronte ad un libro, sia vecchio che nuovo, prima ancora di leggerlo è odorarne la carta, solo in seguito passo ad aprirlo, a sfogliarlo.». Chi ama i libri, in maniera viscerale, non può, in ogni caso, fare a meno del rapporto fisico e diretto con essi; l’amore reclama sempre in campo tutti i 5 sensi. Siamo giunti all’ultima domanda. Dacci tre buoni motivi per i quali un lettore deve assolutamente leggere il tuo libro. «È semplice. È ironico. È didattico.

Interviste Impossibili è un libro scorrevole, in cui l'intervista con il personaggio famoso attrae e cattura il lettore nell'attimo stesso in cui sta già per finire e, proprio per questo, ne si ha ancora voglia. Incontro fugace e intenso, come la vita di una chitarra di Jimi Hendrix». Questo ipotetico viaggio interspaziotemporale Italia –Spagna, con destinazione Valencia è giunto all’arrivo. Un’intervista possibile per raccontare quelle impossibili, direttamente dalla voce del suo creatore. And so, thanks for have flown with us.

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Intervista a Fulvio Mazza Fulvio Mazza Amministratore La Bottega Editoriale La Bottega Editoriale è un’agenzia di servizi per l’editoria, la comunicazione e il giornalismo, vuole raccontarci in breve di cosa vi occupate e qual è il vostro core business? «Il nostro punto focale è mettere in contatto gli autori con gli editori e viceversa. Talvolta gli autori hanno difficoltà a farsi "sentire" dagli editori. Noi siamo la loro "forza". Ovviamente ci sono implicazioni economiche. Noi siamo un'azienda trasparente e mettiamo tutto su internet, il nostro sito è www.bottegaeditoriale.it/bottega/p2.asp». Il self publishing, oggi, offre a tutti la possibilità di editare autonomamente i propri lavori. Quanto, e se, è importante per gli autori rivolgersi a professionisti del settore anche quando scelgono la via dell’auto pubblicazione? « Autopubblicarsi è deleterio per un autore. È come dire al mondo intero che "nessun

editore ha voluto il mio libro e me lo sono dovuto fare da solo". Inoltre: un libro autopubblicato ben difficilmente sarà in libreria, alle fiere del libro ecc. Alcuni pseudo editori hanno fatto un accordo con alcune librerie per far stampare lo pseudo libro in tali librerie. Ma, chiaramente, si tratta di una stampa a richiesta e non di un vero libro in libreria». Quali consigli, quindi, da a chi vorrebbe pubblicare un libro inedito? Quali step dovrebbe seguire per ottenere buoni risultati? «Rivolgersi ad un'agenzia letteraria che, se il dattiloscritto è buono, lo porterà a pubblicazione presso un adeguato editore. E, se il libro è buono ma da perfezionare, consiglierà all'autore come migliorarlo. Bisogna diffidare, però, delle agenzie che veicolano solo presso uno o pochi editori. Le agenzie serie devono avere un "portafoglio editori" di almeno una ventina di case editrici». I lettori hanno una vastissima scelta, seppure spesso si tratta di prodotti simili, con una distribuzione frammentaria fra Web e mercato tradizionale. La concorrenza è grande, secondo lei quanto contano, per un autore, la promozione e la comunicazione del proprio libro per catturare il pubblico? «Moltissimo. Quindi bisogna rivolgersi solo ad agenzie serie che lavorano con editori seri». L’editoria è sempre più “digitale”, ovviamente anche il ruolo del redattore cambia, deve conoscere in maniera più profonda la semantica del Web, i linguaggi e le strumentazioni digitali per valorizzare in maniera ottimale un prodotto editoriale che segue logiche diverse dal cartaceo. La Bottega Editoriale si occupa anche di formazione in campo editoriale, operando nel settore da tempo; lei pensa che, in Italia, la preparazione professionale di

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questa nuova figura di redattore sia in linea con le esigenze del mercato degli e book, oppure ci sia, come sempre, un ritardo rispetto al resto d’Europa? «L'editoria italiana è in ritardo sugli e book. È anche per tale ragione che nei nostri corsi di Redattore di casa editrice inseriamo la problematica dell'editoria digitale». Si parla da tempo di crisi dell’editoria, delle trasformazioni che hanno portato gli e book, della decrescita del numero di lettori, della pirateria digitale, della drastica riduzione di finanziamenti pubblici per l’editoria e la carta stampata, molte ombre su un settore che, nonostante, tutto è sempre vivo e vitale. Quale è la fotografia, in base alla sua esperienza diretta nel campo, del mondo del libro in Italia? «Non è vero. Sono in crisi le aziende che non sanno stare sul mercato. La gente continua a leggere, semmai cambia gusti. Ma i libri si vendono sempre. Quando andiamo al Salone del Libro di Torino o alla Fiera del Libro di Roma notiamo che c'è tanta gente che non si riesce a camminare. E non solo davanti ai nostri stand, ovviamente, dico in generale». La Bottega Editoriale pubblica anche due riviste mensili sul Web, dedicate alla cultura e al mondo dei libri, perché questa scelta? «Per diffondere e divulgare i nostri autori e i nostri editori (anche se spesso recensiamo anche libri di autori e di editori al di fuori della nostra "scuderia editoriale")». Quanto è importante, per un’impresa che opera, come voi, nel campo culturale l’uso del Web e dei suoi strumenti per dare valore aggiunto al proprio lavoro e per arrivare in maniera più diretta a lettori e clienti?

«È importantissimo. Noi lavoriamo molto sul Web». Voi offrite anche servizi di gosth writing, quanto è diffuso il fenomeno in Italia e qual è il target tipo dei Vostri clienti che richiedono questa particolare tipologia di servizio? «È più diffuso di quanto si possa pensare. A noi capitano spesso docenti universitari che vogliono integrare i propri saggi e scrittori che vogliono perfezionare i propri romanzi». Quali sono i vostri obiettivi e progetti futuri, a medio e lungo termine? «Continuare a crescere e ad essere sempre più punto di riferimento degli autori e degli editori italiani». Come è possibile far crescere la propria attività imprenditoriale in Italia, in campo culturale, anche in congiunzioni socio-finanziare poco rosee? «Basta essere seri e chiari con gli autori e gli editori con i quali si lavora».