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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 5

Sommario

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La settimana

5/11 novembre 2010 • Numero 871 • Anno 18

Quel che è peggio è che ci ha colonizzato. Ha colonizzato la vita politica e il dibattito culturale, le chiacchiere nei bar e le pause pranzo, la

televisione, la radio, pagine e pagine di giornali e libri, ha colonizzato le barzellette e lo sport, il linguaggio di tutti i giorni e l’immaginario erotico di uomini e donne, i nostri comportamenti e le nostre paure, ha colonizzato telefonate e email, Facebook e YouTube, ha colonizzato anche la sinistra e il sindacato, l’economia, la religione, le aule dei tribunali, ha colonizzato anni della nostra vita, ore e ore delle nostre conversazioni, delle nostre attenzioni, dei nostri interessi. Ha colonizzato perino i sogni. Ha colonizzato la nostra vita privata e la nostra mente. I suoi guasti continueranno a farsi sentire a lungo, aioreranno nei tic, nei modi di dire, nei gesti. Anche per questo, prima ce ne liberiamo e meglio è.Giovanni De Mauro

[email protected]

Liberiamo

iN copertiNA16 Il prossimo

imperatore The Economist

Americhe22 I repubblicani

conquistano la camera dei rappresentanti

The New York Times24 Adesso tocca

a Dilma Roussef O Globo

europA26 L’Eta con le spalle

al muro El País

AfricA e medio orieNte28 Il caos yemenita

favorisce il terrorismo

Financial Times

AsiA e pAcifico30 La grande farsa

delle elezioni birmane

The Irrawaddy

visti dAgli Altri32 Un nuovo scandalo

per Silvio Berlusconi

The Economist

scieNzA 40 Il tempo di morire The New Yorker

puerto rico50 Sulle note

dei Calle 13 Gatopardo

ANgolA54 Sognando Luanda Libération

AustrAliA60 Quella terra

era nostra South China Morning

Post

portfolio64 Il Gange è l’anima

dell’India Le foto di Rishi Singhal

ritrAtti70 Rinat Akhmetov

L’Ucraina in pugno Transitions Online

viAggi74 Rivoluzione

islamica Grands Reportages

grAphic JourNAlism

78 Cartoline da New York

Yvetta Fedorova

Arte81 Collezionisti

si diventa The Guardian

pop98 La lettura vittima

dei Mondiali Nick Hornby101 I blog diventano

giornali e viceversa Farhad Manjoo

scieNzA e tecNologiA

104 Perché le chiacchiere tra sorelle rendono più felici

The New York Times106 Il diario della Terra

ecoNomiA e lAvoro

108 Febbre dell’oro in Africa occidentale

Frankfurter Allgemeine Zeitung

cultura84 Cinema, libri,

musica, tv, arte

Le opinioni

25 Yoani Sánchez

29 Amira Hass

36 Li Datong

38 Manuel Castells

86 Gofredo Foi

88 Giuliano Milani

92 Pier Andrea Canei

94 Christian Caujolle

103 Tullio De Mauro

105 Anahad O’Connor

109 Tito Boeri

le rubriche15 Editoriali

35 Italieni

112 Strisce

113 L’oroscopo

114 L’ultima

Gatopardo È un mensile messicano di attualità e reportage, difuso in molti paesi dell’America Latina. L’articolo a pagina 50 è uscito nel numero di ottobre 2010 con il titolo La fokin izquierda. Trece escenas con Calle 13. Libération Fondato nel 1973, è un quotidiano francese di sinistra. L’articolo a pagina 54 è uscito il 14 ottobre 2010 con il titolo Angola, un pari portugais. The New Yorker È un settimanale newyorchese di attualità e cultura, molto attento alla qualità della scrittura. L’articolo a pagina 40 è uscito il 2 agosto 2010 con il titolo Letting go. South China Morning Post È un quotidiano in inglese di

Hong Kong. L’articolo a pagina 60 è uscito il 3 ottobre 2010 con il titolo Beating about the bush. Transitions Online È un sito d’informazione dedicato alla politica e all’economia dei paesi dell’Europa dell’est e dell’Asia centrale. L’articolo a pagina 70 è uscito il 16 settembre 2010 con il titolo Ukraine’s gift horse. Internazionale pubblica in esclusiva per l’Italia gli articoli dell’Economist.

le principali fonti di questo numero

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“Essere il cantante di una band funziona anche per gli sigati di altre specie”

Nick horNby, pAgiNA

Nick horNby, pAgiNA

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Immagini

L’astro nascenteCoral Gables, Stati Uniti2 novembre 2010

Il giovane avvocato Marco Rubio, iglio di esuli cubani fuggiti a Miami, festeg-gia la vittoria in Florida alle elezioni di metà mandato. Rubio, considerato da molti la promessa dei repubblicani, ha ottenuto il seggio in senato grazie al so-stegno dei Tea party. Ha battuto l’ex go-vernatore Charlie Christ – che si è pre-sentato come indipendente dopo essere stato sconitto alle primarie dei repub-blicani – e il candidato democratico Kendrick Meek. Insieme al medico Rand Paul, che ha vinto in Kentucky, Rubio porta la voce dei Tea party in se-nato. Foto di Gary Rothstein (Epa/Ansa)

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Immagini

Riiuti iniammabiliTerzigno, Napoli26 ottobre 2010

Una strada di Terzigno dopo le rivolte delle ultime settimane contro la riaper-tura delle discariche sulle pendici del Vesuvio. Napoli è di nuovo sommersa dalla spazzatura: secondo il comune, nelle strade cittadine si sono accumula-te 2.300 tonnellate di riiuti. Il 2 novem-bre i camion hanno ricominciato a scari-care riiuti nella cava Sari, scatenando nuove proteste. Duri scontri tra manife-stanti e forze dell’ordine si sono veriica-ti anche a Giugliano. Foto di Nadia Shira

Cohen

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Immagini

Ceneri killerKinarrejo, Indonesia27 ottobre 2010

Volontari trasportano i corpi delle vitti-me dell’eruzione del vulcano Merapi, nella regione di Yogyakarta. Il 3 novem-bre le autorità indonesiane hanno ordi-nato a migliaia di abitanti di abbando-nare i loro villaggi in seguito a una nuo-va eruzione, ancora più violenta di quel-la del 26 ottobre. Nell’ultima settimana circa 70mila persone sono state trasfe-rite nei centri temporanei. L’eruzione del vulcano ha causato la morte di 36 persone. Foto di Beawiharta (Reuters/

Contrasto)

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12 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

[email protected]

Cara Milana, come spieghi gli ultimi atti di violenza degli estremisti serbi?

Non per niente li chiamano “montuosi Balcani”. Noi croati ci sottrarremmo volentieri alla loro ombra, ma non ci riuscia-mo molto bene. A dire la veri-tà, negli ultimi incidenti i serbi hanno fatto qualche passo in più rispetto a noi, ma mentirei se dicessi che da noi non suc-cedono cose del genere. Il pro-blema forse è nell’eccessiva tolleranza. Ogni volta che i no-stri ultras interrompono le par-tite di calcio con le loro azioni

selvagge, le anime candide di turno in tv cercano di spiegare il “fenomeno”, invece di dire semplicemente che i poliziotti dovrebbero sbattere i violenti in galera e dargli multe salate.

In questo momento in Ser-bia si parla molto di Šišanje, un ilm dedicato alla nuova gene-razione di violenti che secondo alcuni con il loro estremismo stanno avvicinando il paese all’oriente invece che all’occi-dente, alla Russia piuttosto che all’Unione europea. Ma siamo sicuri che la violenza non sia di casa anche nel resto d’Europa? Da noi quella contro gli omo-

sessuali è molto difusa, per-ché c’è un odio provinciale per il diverso. E di recente si è ca-pito che alla chiesa ortodossa danno meno fastidio gli ultras che hanno messo a ferro e fuo-co Belgrado che un pugno di gay paciisti.

Ma è una considerazione che forse vale anche per il re-sto del mondo. La storia uma-na in buona parte è una storia di violenza e forse per questo non esiste cura. ◆ it

Milana Runjic risponde alle domande dei lettori all’indirizzo [email protected]

Cara Milana

La furia serba

Sapere è potere ◆ Sono uno studente universita-rio di Lettere classiche. È con duplice disposizione d’animo che ho afrontato la lettura dell’articolo “Il potere del sape-re” (29 ottobre). Da una parte, estremo piacere mi ha procurato l’aver inalmente visto pubblica-to un articolo di denuncia della violenza agli studi umanistici in atto ormai da tempo. Dall’altra, pesante sconforto è sorto in me dalla constatazione che tale vio-lenza è ben lontana dal cessare in tempi brevi. Ofro ripetizioni di greco e latino a studenti licea-li. Ogni giorno noto sempre più come i programmi di studio ten-dano a spingere ai margini della formazione l’apprendimento delle humanae litterae. Potrà sembrare strano ai lettori, ma vi assicuro che termini come eru-dito, sarcasmo, coorte (parola che, pure, è presente nell’inno nazionale) sono ormai conside-rati dalle nuove generazioni co-me aulici, appartenenti a una lingua puramente letteraria inu-sitata. In quale modo questi ra-gazzi potranno comprendere le opere madri della nostra cultu-ra? Così come traduciamo dal

greco e dal latino Euripide e Orazio, lasciando inevitabil-mente cadere sfumature non trasferibili da una lingua all’al-tra, sarà a breve necessario tra-durre in italiano dall’italiano classici come Leopardi e Man-zoni? Si parla di studi classici: ma, proseguendo di questo pas-so, un classico resterà classico i-no a quando? Giacomo Fedeli

◆ Leggendo l’articolo “Il potere del sapere” mi sono apparse evi-denti alcune forzature delle tesi di Martha Nussbaum. Ogni per-plessità però è svanita quando mi sono ricordato le tre “i” che secondo il presidente del consi-glio dovrebbero concorrere a ri-formare la scuola italiana: im-presa, inglese, informatica. Roberto Lanza ◆ L’articolo “Il presente ha biso-gno delle parole del passato” (29 ottobre) mi ha fatto molto pen-sare. Il professor De Mauro so-stiene che “se si rilette, si capi-sce che la scelta di tagliare nelle scuole il rapporto con il latino e il greco non è paciicamente condivisibile”. Mi chiedo il per-ché. Speravo di trovare una ri-

sposta nell’articolo ma De Mau-ro si limita a citare casi di paesi stranieri in cui ancora oggi si studiano lingue antiche che so-no alla base della loro cultura. Non trovo che la giustiicazione dello studio di una lingua antica alla base di una cultura sia plau-sibile per il solo fatto che altri paesi lo fanno. Eliminare mi sembra drastico: un po’ di storia delle origini aiuta a comprende-re il mondo. Sono proprio per l’idea di tagliare da lui tanto osteggiata. Secondo voi, quanti ragazzi alla ine del liceo sanno cos’è una cambiale? Quanti rie-scono a districarsi tra la costitu-zione e i codici alla base del no-stro diritto? Quanti hanno co-scienza dell’importanza del loro voto? Edoardo

PER CONTATTARE LA REDAZIONE

Telefono 06 441 7301 Fax 06 4425 2718Posta viale Regina Margherita 294, 00198 RomaEmail [email protected] internazionale.it

INTERNAZIONALE È SU

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Mesi fa ho scoperto che mia moglie mi tradiva con il mio capo. Così ho perso mia moglie, il lavoro e anche il cane. Presto perderò la casa perché non riesco a pagare il mutuo. E se la facessi ini-ta? – A.W., Dulwich

Non agire d’impulso. Pensi al suicidio perché credi che se continui a vivere i costi supere-ranno i beneici. Pensi che non ti innamorerai più e che non troverai un lavoro. Sembra un approccio razionale, ma tra-scura i progressi fatti nel cam-po delle opzioni reali. Molte decisioni irreversibili possono essere rimandate in attesa di altre informazioni. Il caso tipi-co è l’esercizio dell’opzione di acquisto, a un prezzo determi-nato, su alcune azioni. Un in-vestitore inesperto crede di dover comprare appena il va-lore dell’azione supera quello di partenza. Ma sbaglia, per-ché il titolo può salire o scen-dere. Mentre l’opzione rimane aperta conviene aspettare e acquisire altre informazioni. La teoria delle opzioni reali di-ce che le decisioni apparente-mente razionali e irreversibili spesso possono essere riman-date per poter trarre vantaggio dai cambiamenti futuri. Per questo ti consiglio vivamente di rimandare a tempo indeter-minato il suicidio. Può sem-brare strano, ma hai molte possibilità di ritrovare l’amore e un lavoro.

Tim Harford risponde alle do-mande dei lettori del Financial Times.

Occasionispeciali

Caro economista

Page 13: Internazionale 871

Yes, and North. San Francisco.It’s back to the origins, California. And it’s meant to be a stopover, a rite of passage. Go West, be East. Hold the course. Steer North.northsails-sportswear.com

GO•UP COMMUNICATION

Page 14: Internazionale 871

Il trattamento fiscale dipende dalla situazione individuale di ciascun cliente e può essere soggetto a modifiche in futuro. In relazione alle ‘US Persons’ possono essere applicabili leggi USA. Tutte le suddette

informazioni devono essere necessariamente integrate con quelle messe a disposizione dall’intermediario in base alla normativa di volta in volta applicabile. PRIMA DELLA NEGOZIAZIONE LEGGERE

ATTENTAMENTE IL BASE PROSPECTUS relating to Notes approvato da AFM in data 01.07.2010, IN PARTICOLARE PER I FATTORI DI RISCHIO, ED I PERTINENTI FINAL TERMS, nonché le SCHEDE PRODOTTO in

particolare per i RENDIMENTI ANNUI GARANTITI. Al 25.10.2010 EUR/BRL 2,388. The Royal Bank of Scotland plc è un rappresentante autorizzato di The Royal Bank of Scotland N.V.

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 15

Editoriali

Il messaggio consegnato a Obama è chiaro: agli americani non piace come il presidente e i demo-cratici al congresso stanno lavorando e per que-sto hanno deciso di restituire la camera ai repub-blicani. La destra che alimenta da mesi la rabbia degli statunitensi per la crisi economica e la loro paura del “big government” ha fatto poche pro-poste concrete, ma è riuscita a mobilitare la base. Gli americani che sono andati a votare si sono deiniti più conservatori rispetto a quelli del 2006 e del 2008, e anche rispetto alla popolazione in generale. Più di un elettore su dieci, per esempio, ha dichiarato di sostenere i Tea party.

La domanda è: i due schieramenti saranno in grado di imparare la lezione di questo voto di me-tà mandato? Obama e i suoi dovranno riuscire a spiegare meglio la loro visione. Il presidente deve smettere di trascurare la sua base elettorale e non permettere ad altri di condurre il dibattito. Per gli avversari di Obama è stato troppo facile distorce-re quelli che gli americani dovrebbero riconosce-re come passi avanti importanti in tempi diicili: una storica riforma del sistema sanitario, uno sti-molo iscale che ha scongiurato una recessione più grave, una riforma inanziaria in grado di evi-tare un altro tracollo.

Obama ha molto lavoro duro davanti a sé. A

Washington lo scontro si farà più spietato. Ma c’è anche da chiedersi se i repubblicani siano pronti a lavorare sul serio. Quando non si ha il potere è facile fare ostruzionismo, ma ora gli elettori gli chiederanno quali sono i loro progetti. John Boehner, probabile futuro speaker della camera, non ha spiegato cosa vogliono fare per tagliare il deicit, la priorità assoluta dei repubblicani. Una delle poche promesse fatte da Boehner, proroga-re i tagli alle tasse dell’era Bush, farebbe sprofon-dare ulteriormente il paese nella crisi. Tempo fa Boehner ha detto, parlando del programma di Obama: “Faremo di tutto per distruggerlo, fer-marlo, rallentarlo. Tutto il possibile”. Una mag-gioranza conservatrice alla camera dovrebbe portare avanti le priorità dei repubblicani. Ma lo scenario di oggi somiglia in modo preoccupante a quello dopo le elezioni del 1994, quando lo speaker repubblicano Newt Gingrich dichiarò che non avrebbe fatto compromessi. Il risultato fu la paralisi. I repubblicani paralizzarono il go-verno, cosa che alla ine costò il posto a Gingrich e la maggioranza ai repubblicani.

Tutti i sondaggi e tutte le elezioni rivelano chiaramente un fatto: gli americani vengono co-stantemente e astutamente manipolati. Ed è un male per il paese. u as

Metà mandato di Obama

L’esodo dei cristiani d’Oriente

The New York Times, Stati Uniti

Le Monde, Francia

Diicile parlare di “terrorismo cieco” quando dei preti e dei fedeli che assistono alla messa so-no uccisi nella loro chiesa, alla vigilia di Ognis-santi. È accaduto a Baghdad, dove un tentativo di sequestro si è concluso con una strage, il 31 ot-tobre, dopo l’intervento dell’esercito iracheno. Bilancio: più di 50 morti, in maggioranza donne e bambini. Obiettivo dell’attentato era la comu-nità cristiana del paese, spesso presa di mira dal-le “milizie islamiste” che destabilizzano l’Iraq da quando è caduto Saddam Hussein. È l’ultimo atto di una lunga tragedia: l’esilio dei cristiani d’Oriente. Islamismo, conlitti vari – in partico-lare quello israelo-palestinese –, povertà: sono molte le cause che spiegano questo dramma. I cristiani fuggono dai luoghi che sono la culla del-la loro fede. Quasi la metà della popolazione cri-stiana irachena è fuggita dal paese negli ultimi vent’anni. Dall’invasione statunitense del 2003 e dopo anni di violenze l’esodo si è accelerato.

Il problema riguarda l’intera regione. Per il gesuita egiziano Samir Khalil Samir, la scompar-sa dei cristiani d’Oriente non è “una semplice ipotesi”: in un secolo, la popolazione cristiana della Turchia è passata dal 20 allo 0,2 per cento. Nello stesso periodo la percentuale dei cristiani nell’insieme dei paesi che hanno visto nascere e prosperare il cristianesimo è scesa dal 15 al 6 per cento.

Una serie di motivi economici, politici, de-mograici e religiosi spiega il fenomeno. Ma da qualche anno il clero e i fedeli mettono tra le cau-se la crescente islamizzazione delle società in cui vivono. Al di là dell’islam radicale, è ormai il confrontarsi quotidianamente con l’islam politi-co a rendere diicile la sopravvivenza della cul-tura cristiana.

Il Vaticano ha protestato. Non dovrebbe ri-manere solo: l’esodo dei cristiani d’Oriente è un dramma che riguarda tutti. u oda

“Vi sono più cose in cielo e in terra, Orazio,di quante se ne sognano nella vostra ilosoia”William Shakespeare, Amleto Direttore Giovanni De MauroVicedirettori Elena Boille, Chiara Nielsen, Alberto Notarbartolo, Jacopo ZanchiniComitato di direzione Giovanna Chioini (copy editor), Stefania Mascetti (Internazionale.it), Martina Recchiuti (Internazionale.it), Pierfrancesco Romano (copy editor)In redazione Liliana Cardile (Cina), Carlo Ciurlo (viaggi), Camilla Desideri (America Latina), Simon Dunaway (attualità), Mélissa Jollivet (photo editor), Alessandro Lubello (economia), Maysa Moroni, Andrea Pipino (Europa), Claudio Rossi Marcelli (Internazionale.it), Francesca Sibani (Africa e Medio oriente), Piero Zardo (cultura), Giulia Zoli (Stati Uniti) Impaginazione Pasquale Cavorsi, Valeria Quadri Segreteria Teresa Censini, Luisa Cifolilli Correzione di bozze Sara EspositoTraduzioni I traduttori sono indicati dalla sigla alla ine degli articoli. Marina Astrologo, Luca Bacchini, Sara Bani, Caterina Benincasa, Giuseppina Cavallo, Diana Corsini, Olga D’Amato, Stefania De Franco, Andrea De Ritis, Nazzareno Mataldi, Giusy Muzzopappa, Floriana Pagano, Andrea Sparacino, Francesca Spinelli, Ivana Telebak, Bruna Tortorella, Stefano Valenti, Nicola VincenzoniDisegni Anna Keen. I ritratti dei columnist sono di Scott Menchin Progetto graico Mark Porter Hanno collaborato Gian Paolo Accardo, Isabella Aguilar, Francesco Boille, Annalisa Camilli, Alessia Cerantola, Gabriele Crescente, Catherine Cornet, Giovanna D’Ascenzi, Sergio Fant, Andrea Ferrario, Antonio Frate, Francesca Gnetti, Anita Joshi, Alessio Marchionna, Jamila Mascat, Odaira Namihei, Lore Popper, Fabio Pusterla, Marta Russo, Andreana Saint Amour, Diana Santini, Junko Terao, Laura Tonon, Pierre Vanrie, Guido Vitiello, Abdelkader ZemouriEditore Internazionale srl Consiglio di amministrazione Brunetto Tini (presidente), Giuseppe Cornetto Bourlot (vicepresidente), Emanuele Bevilacqua (amministratore delegato), Alessandro Spaventa (amministratore delegato), Antonio Abete, Giovanni De Mauro, Giovanni Lo StortoSede legale via Prenestina 685, 00155 Roma Produzione e difusione Francisco Vilalta Amministrazione Tommasa Palumbo, Arianna CastelliConcessionaria esclusiva per la pubblicità Agenzia del marketing editorialeTel. 06 809 1271, 06 80660287 [email protected] Download Pubblicità S.r.l.Stampa Elcograf Industria Graica, via Nazionale 14, Beverate di Brivio (Lc) Distribuzione Press Di, Segrate (Mi)Copyright Tutto il materiale scritto dalla redazione è disponibile sotto la licenza Creative Common Attribuzione-Non commerciale-Condividi allo stesso modo 3.0. Signiica che può essere riprodotto a patto di citare Internazionale, di non usarlo per ini commerciali e di condividerlo con la stessa licenza. Per questioni di diritti non possiamo applicare questa licenza agli articoli che compriamo dai giornali stranieri. Info: [email protected]

Registrazione tribunale di Roma n. 433 del 4 ottobre 1993Direttore responsabile Giovanni De MauroChiuso in redazione alle 20 di mercoledì 3 novembre 2010

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Page 16: Internazionale 871

In copertina

Si racconta che un giorno, quando era ancora un diri-gente provinciale poco noto, Xi Jinping abbia detto che a volte, per farsi prendere sul serio, “battere i pugni sul ta-

volo è meglio che non farlo”. Il 18 ottobre l’attuale vicepresidente cinese ha ricevuto l’investitura di leader in pectore. Ma per guadagnarsi il rispetto del suo partito – per non dire quello dell’opinione pubblica, che è scettica – non basterà certo battere i pu-gni sul tavolo. Nel Partito comunista cine-se oggi ci sono molte divisioni e non è detto che Xi Jinping riuscirà mai ad avere una salda presa sul potere.

Da anni il partito medita sull’idea di permettere un minimo di competizione per la massima carica politica del paese. Ma il 18 ottobre il gruppo dirigente ha fatto capire che questa volta per la successione non avrebbe lasciato nulla al caso. E infat-ti, nel corso di una riunione a porte chiuse, ha assegnato al vicepresidente Xi Jinping un alto incarico militare. Nel linguaggio in codice tipico del Partito comunista cinese signiica che Xi ha cominciato il percorso che tra due anni lo porterà alla presiden-za.

Si sapeva da tempo che Xi Jinping, 57 anni, avrebbe ottenuto un giorno lo scran-no più alto del potere, e che l’avvicinarsi di quel momento sarebbe stato segnalato dalla nomina a vicecapo della commissio-ne militare centrale del partito. Questo incarico, infatti, era stato conferito anche all’attuale presidente Hu Jintao nel 1999,

tre anni prima che assumesse i poteri di segretario generale del partito. Tuttavia nel 2009, quando mancavano ancora tre anni alla data prevista per il ritiro di Hu, non era ancora stato fatto nessun annuncio su Xi Jinping, e qualcuno aveva cominciato a chiedersi se per caso il partito non inten-desse modiicare la procedura per la suc-cessione.

Così il 15 ottobre, quando in un albergo di Pechino, sotto rigide misure di sicurez-za, i 370 membri del comitato centrale hanno aperto la loro riunione plenaria di quattro giorni, non era afatto scontato che Xi stesse per ricevere la sua investitura. In-vece il partito ha scelto di restare nel solco della tradizione e ha laconicamente an-nunciato “l’ampliamento” della commis-sione militare centrale per includere Xi Jinping.

Questo non aumenta di molto il suo po-tere, visto che le forze armate restano sotto il comando di Hu Jintao e dei suoi generali: ma è un chiaro indizio che secondo il parti-to Xi dovrà sostituire Hu nella carica di se-gretario generale alla fine del 2012. Hu Jintao non è obbligato a farsi da parte in quella data, ma resta il fatto che, dal 1993 in poi, la carica di capo del partito è sempre coincisa con quella di presidente. E Hu do-vrà lasciare la presidenza nel marzo 2013: anche se nessuna norma gli impone di di-mettersi da capo delle forze armate, i pre-cedenti fanno prevedere che entro i primi mesi del 2014 lascerà anche questo incari-co a Xi Jinping.

Il vicepresidente, però, non può ancora

16 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Il prossimo imThe Economist, Gran Bretagna

Xi Jinping è il vicepresidente cinese e potrebbe prendere il posto di Hu Jintao alla guida dellaseconda potenza economica mondiale. Ma nessuno sa che leader sarà. L’inchiesta dell’Economist

Xi Jinping a Cartagena, Colombia, 2009

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l’impressione di aver avuto una carriera più comoda: è stato il massimo dirigente di due ricche regioni costiere, le province del Fujian e del Zhejiang, e nel 2007 è stato capo del partito a Shanghai per sette mesi.

Neanche il suo retroterra familiare rap-presenta un vantaggio indiscusso. Suo pa-dre, lo scomparso Xi Zhongxun, aveva fatto parte della prima generazione di lea-der del partito, ed era stato un alto funzio-nario nel governo Deng, anche se durante la rivoluzione culturale era rimasto vittima delle epurazioni. Questo fa di Xi un espo-nente di quello che a volte in Cina viene chiamato “il partito dei principini”, cioè di quel gruppo informale composto dai ram-polli dei padri fondatori del partito e da funzionari di alto rango. Ad alcuni leader comunisti cinesi i principini stanno simpa-tici perché spesso si danno da fare per mantenere il partito al potere, ma molti trovano scandalosa l’inluenza che eserci-tano.

Di certo, avere gli agganci giusti ha gio-vato alla carriera di Xi Jinping. Si è laureato in ingegneria (come gran parte dei dirigen-ti cinesi) all’università Tsinghua di Pechi-no nel 1979. A quel tempo, la Cina stava uscendo dalla prima crisi di successione del dopo Mao, e Deng Xiaoping era occu-pato a piantare chiodi nella bara politica dell’erede di Mao, Hua Guofeng. Xi otten-ne un posto di assistente del ministro della difesa, che era amico di suo padre. Nella sua biograia uiciale, però, quella fugace esperienza militare viene esaltata: c’è scritto infatti che è stato “uiciale in servi-zio attivo”. Ma a sentire Cheng Li, della Brookings Institution di Washington, le conoscenze della sua famiglia sono state un problema per Xi Jinping. Infatti, a un congresso del partito nel 1997, l’ostilità dei delegati nei confronti dei “principini” ha procurato a Xi il numero di voti più basso nell’elezione al comitato centrale.

Nel 2007 invece Xi Jinping ha avuto il maggior numero di preferenze in un son-daggio alla scuola centrale del partito –

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u Il 18 ottobre 2010, durante la quinta riunione plenaria del Partito comunista cinese, il vicepresidente Xi Jinping è stato nominato vicecapo della commissione militare centrale.u Il presidente Hu Jintao lascerà l’incarico di capo del Partito comunista cinese nel 2012. L’anno successivo terminerà il suo mandato di capo dello stato. u A marzo del 2011 verrà approvato il nuovo piano quinquennale, che stabilirà le linee di sviluppo dell’economia del paese.

Da sapere

o imperatore

cantare vittoria. È vero che il suo percorso ricorda quello compiuto da Hu Jintao pri-ma di arrivare finalmente al potere nel 2002. Ma ci sono alcune diferenze impor-tanti. Tanto per cominciare, la nomina di Hu non è stata decisa dal suo predecessore Jiang Zemin, ma dal gigante politico del dopo Mao, Deng Xiaoping, scomparso nel 1997. L’autorità di Deng era talmente forte che cinque anni dopo la sua morte, Hu Jin-tao era ancora saldamente in pista per prendere il posto di Jiang Zemin. La pro-mozione di Xi Jinping, invece, è stata deci-sa dal molto meno autorevole Hu Jintao con il contributo di Jiang Zemin, ormai in pensione e un po’ rimbambito. Nella storia della Cina comunista, il passaggio dei po-teri a Hu Jintao era stato il primo caso di successione senza intoppi. Ma quello che riguarda Xi Jinping forse non sarà il secon-do.

Una carriera comodaInoltre Hu aveva avuto più tempo per pre-pararsi a diventare presidente, perché era entrato nella commissione permanente dell’uicio politico – il gruppo di persone che regge le sorti della Cina – già dieci anni prima, mentre nel 2012 Xi Jinping avrà pas-sato nella commissione appena la metà del tempo. Negli anni ottanta, Hu Jintao aveva fatto colpo su Deng Xiaoping per la durez-za con cui, da capo del partito, aveva re-presso le ribellioni in Tibet. Invece Xi dà

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l’accademia per i quadri dirigenti – sui pos-sibili candidati all’uicio politico. Secondo Cheng Li, tuttavia, Xi non sarebbe andato così bene se agli oltre 400 alti dirigenti in-terpellati fosse stato chiesto chi doveva far parte della commissione permanente del partito, e meno ancora se gli avessero chie-sto chi doveva succedere a Hu Jintao.

La successione ai vertici del Partito co-munista cinese coincide oggi con un perio-do diicile. Tra i dirigenti ci sono segnali di gravi dissensi sull’opportunità che il parti-to modiichi almeno un po’ il suo regola-mento, per dare agli iscritti più voce in ca-pitolo sulla scelta dei leader. Da agosto il premier Wen Jiabao ha fatto varie dichia-razioni sull’importanza delle riforme poli-tiche. Sull’argomento, il silenzio di altri dirigenti cinesi è assordante, mentre le af-fermazioni di Wen sono state censurate dai giornali conservatori: di rado, dai primi an-ni novanta, la stampa controllata dal parti-to è apparsa così divisa. Mentre nella capi-tale i progressisti intensiicavano gli appel-

li per allentare la morsa del partito, le auto-rità hanno fermato alcuni dissidenti che avevano festeggiato l’assegnazione del Nobel per la pace a Liu Xiaobo, un attivista oggi in carcere.

Xi Jinping è tra quelli che tacciono. Però alcuni progressisti giudicano incoraggian-ti le credenziali riformiste di suo padre e mettono l’accento sui suoi precedenti: nel-le due province dove ha governato, Xi ha dato un forte impulso all’impresa privata. Quando amministrava lo Zhejiang ha an-

che commissionato a un gruppo di esperti di Pechino un’opera in sei volumi dal titolo L’esperienza dello Zhejiang e le sue implica-zioni per lo sviluppo della Cina. In quelle pagine si sottolinea l’importanza di fonda-re cellule del partito nelle imprese private, e si sostiene che, alla ine del 2004, lo ave-va già fatto quasi il 99 per cento delle aziende private con tre o più iscritti al par-tito. Gli autori danno inoltre molto spazio agli esperimenti di democrazia dal basso condotti nel partito e nelle amministrazio-ni locali. E sembra che Xi non abbia fatto sforzi particolari per incoraggiare queste novità. Questo mese la rivista Oriental Outlook scrive che il più noto di questi esperimenti condotti nello Zhejiang, quel-lo della città di Wenling, non è stato imita-to in altre aree per colpa dello scarso inte-resse dimostrato dai dirigenti locali.

Si dice che Xi Jinping sia un uomo afa-bile. Ma nel febbraio del 2009 ha lasciato trasparire la sua irascibilità dichiarando, davanti a un gruppo di cinesi in Messico, che “gli stranieri ricchi senza niente di me-glio da fare si divertono a criticare la Cina”. In un’intervista del novembre 2003 alla televisione di stato Cctv, Xi aveva già so-stenuto la necessità di battere i pugni sul tavolo quando si ha a che fare con funzio-nari che non rigano dritto: “Altrimenti non si spaventano”, aveva osservato. Più noto alla maggioranza dei cinesi è il sorriso ac-cattivante di sua moglie Peng Liyuan, un’interprete di canzoni popolari già famo-sa molto prima che si sentisse parlare di Xi. Insomma, secondo i pronostici uiciali Xi Jinping diventerà il capoila della “quinta generazione” di leader comunisti dopo Mao, Deng, Jiang e Hu (Hua Guofeng non conta perché la sua vita politica è stata troppo breve). Laureato in ingegneria chi-mica e autore di una tesi di dottorato sull’economia rurale in Cina, Xi Jinping non sembra molto diverso dal suo prede-cessore (che era ingegnere idraulico). La sua formazione tecnocratica manca ad al-tri esponenti della stessa generazione. Al-cuni, è vero, hanno studiato in occidente, ma questo non basta a garantire il consen-so popolare in una Cina dove sta crescendo rapidamente un ceto medio che ha aspira-zioni sempre più grandi.

Nel 2002, a un giornalista che gli chie-deva se fosse un dirigente da tenere d’oc-chio, Xi Jinping rispose: “Che fa, cerca di spaventarmi?”. Ha ottimi motivi per essere nervoso. u ma

In copertina

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Nozomu Hayashi, Asahi Shimbun, Giappone

Il reportage

Nella provincia centrale cinese dello Shaanxi, tutti gli abitanti del villaggio di Liangjiahe ricordano il giovane allampanato che arrivò lì decenni fa, un ra-gazzo taciturno ma deci-so e con la stofa del lea-der. Parlano con orgoglio di Xi Jinping, il probabile prossimo presidente della Cina. In questo villaggio di una settantina di fami-glie ormai spopolato, cir-condato da campi di mais e da montagne di roccia giallognola, Xi è conside-rato un lavoratore instan-cabile capace di superare ogni diicoltà. Nel 1969, a sedici anni, arrivò a Liangjiahe con il pro-gramma voluto da Mao che costringeva i ragazzi a fare esperienza di lavo-ro nelle zone rurali. Lu

Nengzhong, che oggi ha 80 anni e all’epoca ofrì alloggio a Xi e ad altri quattro ragazzi, lo ricorda intento a leggere alla luce dell’unica lampada che c’era nella stanza di due metri per dieci. Era piut-tosto tranquillo, racconta Lu, ma quando comincia-va a parlare dei suoi ideali era diicile farlo smette-re. Ben presto diventò un leader. A 21 anni entrò nel partito e fu scelto come capo della brigata di pro-

duzione del villaggio, la carica più alta della co-munità. Xi continuò co-munque a scavare pozzi con gli altri abitanti e usa-va le vacanze per andare nella provincia del Si-chuan a studiare come produrre e immagazzina-re il metano. Nel 1975 fu scelto fra tre giovani per frequentare l’università. Dopo aver lasciato Lian-gjiahe, non ha mai smes-so di far carriera nel parti-to. È tornato al villaggio solo una volta, nel 1992, e solo per tre ore. Mentre alcuni temono che il futu-ro presidente possa di-menticare Liangjiahe, Lu è più ottimista. “Non ha dimenticato il nostro dia-letto”, dice. “Come può dimenticarsi della vita trascorsa qui?”. u sdf

Tranquillo e carismatico

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MONGOLIA

BIRMANIA

Pechino

Shaanxi

Liangjiahe

TAIWAN

COREADEL NORD

600 km

Sull’importanza delle riforme politiche il silenzio di altri dirigenti cinesi è assordante. Xi Jinping è tra quelli che tacciono

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Nel corso della sua scalata ai ver-tici del Partito comunista, Xi Jinping è stato spesso deinito un “principino”, un rappresen-

tante di quel gruppo di stelle nascenti che devono almeno in parte il loro successo al fatto di essere igli di eroi della rivoluzione.

Xi, iglio di Xi Zhongxun, uno dei fonda-tori del Pcc, è il principino che presto sarà re. Già vicepresidente e membro importan-te dell’uicio politico del partito, il 18 otto-bre è stato nominato vicecapo della com-missione militare centrale, una promozione che secondo molti prelude al passaggio di consegne che avverrà, tra due anni, quando il presidente Hu Jintao si farà da parte. Ma Xi non va confuso con Kim Jong-un, desti-nato a ereditare il potere dal padre malato nella vicina Corea del Nord. A diferenza

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della famiglia Kim, essere il figlio di Xi Zhongxun non è sempre stato un vantaggio politico.

Xi aveva dieci anni quando suo padre, un ex compagno d’armi di Mao Zedong e un eroe della leggendaria lunga marcia diven-tato vicepremier, fu denunciato e incarce-rato come nemico della rivoluzione. Xi, al-lora adolescente, era considerato uno “stu-dente reazionario”, soprattutto a causa di suo padre, e fu mandato a lavorare come bracciante in una comune rurale nella pro-vincia dello Shaanxi. È stato incarcerato quattro volte. “Ho dovuto ingoiare molti bocconi amari” durante la rivoluzione cul-turale, ha dichiarato una volta. Dopo la morte di Mao e l’ascesa di Deng Xiaoping, Xi Zhongxun fu riabilitato e gli fu aidato il posto di governatore della provincia del Guangdong negli anni ottanta, un periodo in cui la regione era un laboratorio per i pri-mi esperimenti cinesi di riforme del merca-to e di rapporti economici con il resto del mondo.

Ma dieci anni dopo Xi Zhongxun tornò a essere emarginato politicamente dopo es-sersi espresso pubblicamente contro la de-cisione di Deng di usare l’esercito per repri-

Uno sconosciutoal potere

Figlio di un eroe della rivoluzione punito perché criticò la repressione di Tiananmen, Xi ha imparato presto l’arte della riservatezza. Che oggi è la sua carta vincente

Mark MacKinnon, The Globe and Mail, Canada

mere le manifestazioni di piazza Tianan-men nel 1989. Se Xi, 57 anni, abbia le stesse convinzioni di suo padre in campo econo-mico e politico non è chiaro, ma sembra che abbia imparato la lezione: è meglio tenere la bocca chiusa e non manifestare le proprie opinioni politiche.

È sorprendente che si sappia così poco delle convinzioni di un uomo che presto guiderà una superpotenza mondiale. Xi, che è nato a Pechino e ha studiato ingegne-ria chimica e diritto, è per molti versi una tabula rasa e piace a tutte le fazioni interne al partito, anche se formalmente non ap-partiene a nessuna. È uno dei pochi a essere accettato sia dai sostenitori di Hu Jintao sia dai fedelissimi del suo predecessore e rivale Jiang Zemin. “È il candidato di compro-messo, il principino in grado di difendere gli interessi del regime”, afferma Victor Shih, docente di politica cinese alla North-western university di Chicago. “Non ha an-cora annunciato il suo programma. Non sappiamo che proposte politiche farà”.

Nemico della corruzioneDa segretario del partito nella provincia dello Zhejiang, Xi si è fatto conoscere come integerrimo nemico della corruzione oltre che come sostenitore dell’impresa privata, ma è sempre stato lontano dalle polemiche che hanno danneggiato il padre. Questo pe-rò non spiega la sua rapidissima ascesa. Chiamato nel 2007 alla guida del partito a Shanghai, è entrato alcuni mesi dopo nell’uicio politico del partito. In pochi an-ni, da sconosciuto è diventato il probabile successore di Hu. Gli è stato assegnato il compito di vigilare sulle Olimpiadi di Pe-chino e ha ricevuto un corso accelerato di politica estera. È stato messo a capo di un’organizzazione interna al partito che ha aumentato i controlli sui dissidenti, oltre che sui contenuti di internet.

Ma tutto questo è dipeso soprattutto dalla volontà dei suoi superiori e non dice molto sulle cose in cui crede Xi. Prima della sua rapida carriera, Xi era conosciuto più che altro perché è il marito di Peng Liyuan, una delle cantanti più note del paese e un volto popolare dei galà televisivi che si ten-gono per il capodanno cinese. Sembra che la signora Peng all’inizio non fosse molto colpita da Xi. La prima volta che l’ha visto era delusa. “Poi ho capito che ha un cuore semplice, ma è tenace”, racconta. E, si po-trebbe aggiungere, è una persona che viene facilmente sottovalutata. u sv

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In visita a un villaggio nella provincia di Guizhou. Febbraio 2008

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In copertina

Addio alla speranzadi una svolta radicale

Con la nomina di Xi Jinping il partito conferma la linea prudente sulle riforme. E ribadisce il riiuto del modello occidentale di libertà e democrazia

Wu Zhong, Asia Times, Hong Kong

Uno sprazzo di vitalità ha anima-to l’austera sessione plenaria del Partito comunista cinese. Oltre alla deinizione dei prin-

cìpi della politica economica, ci sono stati almeno due eventi politicamente signii-cativi. Il primo è la conferma del vicepresi-dente Xi Jinping, 57 anni, come successore designato del presidente Hu Jintao nel 2012. Il secondo è l’afermazione di un ap-proccio graduale alle riforme politiche, che esclude la possibilità di quel cambiamento radicale di cui molti avevano avuto sento-re. Alla luce di questi sviluppi, è ragionevo-le concludere che Xi manterrà la linea del partito. Diicilmente, quindi, nel prossimo futuro assisteremo a un processo di demo-cratizzazione e liberalizzazione in Cina.

Per diventare capo del partito, Xi dovrà

prima conquistare la maggioranza dei voti al prossimo congresso, poi diventare mem-bro del nuovo comitato centrale e inine del nuovo uicio politico.

La conferma dell’approccio graduale alle riforme sembra rafreddare le speran-ze (alimentate soprattutto dai discorsi del premier Wen Jibao alla ine di agosto) che la leadership del partito, nella persona di Hu, stia preparando il terreno per una de-mocratizzazione prima del prossimo cam-bio al vertice, tra due anni. Quasi a ribadire la linea del partito, dopo la conclusione del plenum il Quotidiano del Popolo ha pub-blicato una serie di commenti che escludo-no inequivocabilmente la possibilità di un’apertura alla democrazia e alle libertà del modello occidentale.

Il 20 ottobre il quotidiano ha pubblicato in prima pagina un lungo editoriale in cui si aferma la necessità di costruire “una de-mocrazia socialista con caratteristiche ci-nesi”. “È necessario distinguere tra demo-crazia socialista in stile cinese e democra-zia capitalista occidentale”, sottolinea l’articolo, augurandosi un percorso auto-nomo per lo sviluppo politico della Cina. Questa distinzione è fondamentale per fa-

David Ignatius, Washington Post,Stati Uniti

L’opinione

Nella settimana in cui è stata svelata l’identità del proba-bile futuro presidente, a Pe-

chino ho incontrato studenti, im-prenditori, giornalisti e intellettuali. I cinesi non sembrano sapere gran-ché di Xi Jinping, a parte il fatto che è figlio di un uomo di potere e mari-to di una cantante famosa. Questo rende plausibile che Xi conservi lo status quo o che al limite riformi il si-stema e distribuisca un po’ di ric-chezza per tenere a bada eventuali dissensi. Per la maggior parte dei ci-nesi che ho incontrato queste sono doti più che sufficienti.

In Cina le proteste ci sono, ma ri-guardano soprattutto questioni eco-nomiche. Le manifestazioni per la democrazia di piazza Tiananmen, oggi incarnate dal vincitore del No-bel Liu Xiaobo, che si trova in carce-re, sono state represse. Qui uno dei temi ricorrenti è l’autocensura di un popolo che non vuole rischiare di ol-trepassare i limiti imposti alla liber-tà di espressione. Gli studenti fre-quentano le scuole di giornalismo anche per imparare quali sono gli ar-gomenti tabù. Il governo controlla internet e i cinesi stanno al gioco.

La minaccia all’élite urbana arri-va dalle province rurali. La rivoluzio-ne cinese partì proprio da lì e il timo-re è che la crescente disuguaglianza possa innescarne una nuova. Ecco uno dei motivi della diidenza verso la democrazia: l’emancipazione di quei contadini arrabbiati fa paura. Il funzionario del Pcc che ci riceve non nomina mai Xi, promosso quello stesso giorno. Un altro segno della diidenza per la politica. Forse solo un paese nato da una rivoluzione può temere così il cambiamento. u sdf

L’armoniaprima di tutto

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Pechino, 1 ottobre 2010. Hu Jintao, Wen Jiabao e, quinto nella ila, Xi Jinping

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Nei prossimi mesi il governo metterà a punto un piano quin-quennale di sviluppo economi-

co e sociale che sarà probabilmente ap-provato a marzo. Dal comunicato diffu-so a ottobre al termine della riunione plenaria del partito emerge che, per la prima volta dall’adozione dei piani quinquennali, al centro delle proposte ci sono lo sviluppo scientifico, le rifor-me e un processo di apertura che “mi-gliori e renda più sicura la vita delle persone”.

Apprezziamo quest’obiettivo e ci aspettiamo che il termine cinese min-sheng, che si riferisce a tutti gli aspetti della vita dei cittadini, diventi priorita-rio, insieme ai temi come la sicurezza sociale, la distribuzione della ricchezza e i servizi pubblici. Secondo il comuni-cato, le riforme daranno impulso a un’ulteriore trasformazione del model-lo di sviluppo economico cinese. Nel piano sono indicati alcuni settori da ri-formare rapidamente: la struttura poli-tica e amministrativa; il sistema fiscale; i prezzi delle risorse e la loro commer-cializzazione; i programmi sociali. La Cina dovrà affrontare molte sfide. La disponibilità di forza lavoro giovane toccherà il culmine e poi comincerà a calare gradualmente tra il 2011 e il 2015. Aumenterà il numero dei lavora-tori che diventano vecchi prima di di-ventare ricchi, e quindi cresceranno i costi del lavoro e delle pensioni.

Inoltre, molti degli obiettivi del pia-no quinquennale precedente, che sta arrivando alla fine, devono ancora es-sere raggiunti. Per esempio, la riforma delle pensioni dei dipendenti statali è ferma. In alcuni comparti industriali, le

imprese di stato si sono rafforzate mentre quelle private si sono indeboli-te. Nei monopoli di stato, salari e sti-pendi sono troppo alti e l’inefficienza è diffusa. Inoltre, finora non ci sono stati progressi verso l’introduzione di un’im-posta sulle proprietà immobiliari né verso una riforma del sistema di tassa-zione dei redditi. Ma quel che è peggio è che il ritardo nelle riforme politiche e la mancanza di controlli efficaci sulle autorità di partito e di governo deter-minano frequenti abusi dei diritti civili, individuali e di proprietà, acquisizioni illecite di terreni, demolizioni di case che lasciano molte persone senza un tetto, e degrado ambientale. Tutto que-sto suscita la rabbia dei cittadini, e que-sta a sua volta è una minaccia per l’ar-monia della società.

L’aumentare del divario economico tra le aree urbane e quelle rurali, tra i funzionari governativi e i comuni citta-dini e tra i dipendenti delle imprese monopolistiche e il resto dei lavoratori è preoccupante. Questo si deve princi-palmente a un sistema distorto e al fat-to che spesso le persone sbagliate svol-gono i lavori sbagliati. A mano a mano che in Cina si sviluppa l’economia di mercato, il governo deve trovare il mo-do di ridistribuire la ricchezza.

Quest’obiettivo si può raggiungere con vari mezzi: l’introduzione del sala-rio minimo, il miglioramento della si-curezza sociale, la tassazione e il soste-gno finanziario. Inoltre la Cina ha biso-gno di darsi un sistema di mercato mi-gliore, di mettere fine al sistema dell’hukou (che divide gli abitanti delle città da quelli delle campagne), di com-battere i monopoli e di sradicare la cor-ruzione. Il governo deve attuare subito riforme su vasta scala, non soltanto per superare i problemi della gente comu-ne, ma anche per costruire una società che offra a tutti la possibilità di una vita felice e dignitosa. u ma

Per la prima volta il piano quinquennale cerca di migliorare le condizioni di vita dei cittadini

Riforme subito

Caixin, Cina

Economia

re in modo che “le masse possano resistere al disegno di alcuni elementi ostili che vo-gliono occidentalizzare o dividere la Cina”, scrive il quotidiano.

Nell’editoriale si parla di “quattro ade-sioni” cruciali per la Cina: alla democrazia socialista in stile cinese; al sistema del con-gresso nazionale del popolo; al sistema multipartitico di cooperazione e consulta-zione sotto la guida del Pcc; alla combina-zione di democrazia consultiva e democra-zia elettorale. Nella terminologia del parti-to, dunque, “riforme politiche” è un’espressione con un significato e un obiettivo diversi da quanto s’intende di so-lito. Invece di introdurre un sistema demo-cratico che dia al popolo il diritto di sce-gliersi il governo e il leader, nell’ottica del partito le “riforme” servono unicamente a consolidare e a raforzare il suo dominio migliorando in modo graduale il sistema politico esistente. Molti, in Cina e all’este-ro, hanno sperato che le riforme fossero un preludio a una maggiore libertà d’espres-sione, di associazione e di stampa. Ma que-ste speranze sono destinate a rimanere vane.

Stato di diritto

Il 21 ottobre il Quotidiano del Popolo ha pubblicato un nuovo editoriale in cui si af-ferma la necessità di subordinare alla legge la libertà di parola e di stampa: “Queste li-bertà non possono essere separate dal ri-spetto della legge. Non vanno intese come il diritto di dire ciò che si vuole. Lo stato di diritto è una conquista importante della società moderna. In ogni paese in cui vige lo stato di diritto, non è ammissibile che la legge venga violata… Nell’esercizio della propria libertà di pensiero o di stampa, il cittadino è tenuto al rispetto della legge”, prosegue l’articolo, spiegando che perino negli Stati Uniti esistono norme restrittive di tali libertà.

Il commento è evidentemente la rispo-sta del partito alle richieste crescenti di li-bertà. Prima del plenum, ventitré veterani del partito, tra cui Li Rui, ex segretario di Mao, hanno scritto una lettera aperta invo-cando il ripristino del diritto costituzionale dei cittadini alla libertà di parola e di stam-pa. Ma l’articolo serve anche per giustiica-re la detenzione di Liu Xiaobo, il dissidente che ha ricevuto il Nobel per la pace. Secon-do il Quotidiano del Popolo, dunque, Liu merita di essere punito perché le sue paro-le hanno violato la legge. u fs

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Americhe

Il 2 novembre i repubblicani hanno conquistato la camera dei rappresen­tanti e raforzato la loro presenza in senato, cavalcando il malcontento

degli elettori e assestando un duro colpo al presidente Obama a due anni dalla sua trionfale vittoria. L’ondata repubblicana ha spazzato via decine di politici in tutto il pae­se, ribaltando gli equilibri nella seconda metà del mandato di Obama.

Il senatore Harry Reid del Nevada, lea­der dei democratici, ha vinto di stretta mi­sura. Il suo partito conserva il controllo del senato grazie a una serie di vittorie non scontate in California, Delaware, Connec­ticut e West Virginia. I repubblicani hanno strappato ai democratici il seggio un tempo occupato da Obama. Il partito accoglierà nei suoi ranghi alcuni candidati dei Tea party come Marco Rubio della Florida e Rand Paul del Kentucky. “Abbiamo molto lavoro da fare, non è il momento di festeg­giare”, ha detto il conservatore John A. Bo­ehner dell’Ohio, il nuovo presidente della camera.

La campagna elettorale per queste ele­zioni di metà mandato è stata la più costosa della storia americana. I candidati di en­trambi i partiti hanno ricevuto una valanga di contributi dalle lobby. L’ondata repubbli­cana ha travolto anche i governatori: il par­tito di Obama ha perso la maggioranza de­gli stati. Uno dopo l’altro, democratici un tempo imbattibili come il senatore Russ Feingold del Wisconsin sono caduti contro sidanti repubblicani poco noti. Per i repub­blicani, però, non è stata una vittoria com­pleta. Al senato infatti hanno perso in molti stati che speravano di conquistare, in parti­colare Delaware e Connecticut, dove i can­

didati sostenuti dai Tea party avevano bat­tuto alle primarie quelli scelti dal partito. Ora il partito repubblicano torna a dettare l’agenda politica. Una grande sfida per Obama, ma anche per gli stessi repubblica­ni, che all’improvviso si ritrovano in una posizione di responsabilità.

Un referendum su ObamaI democratici cercano di ridimensionare il trionfo repubblicano enfatizzando la vitto­ria di Reid e di altri candidati che hanno battuto rivali particolarmente forti. In De­laware Chris Coon ha battuto Christine O’Donnell, la candidata più rappresentati­va della nuova ondata di politici non orto­dossi saliti alla ribalta durante le primarie. In West Virginia il governatore Joe Man­chin ha trionfato sul repubblicano John Ra­ese conquistando il seggio occupato per mezzo secolo dal senatore Robert C. Byrd. E in California la senatrice Barbara Boxer ha vinto l’energica sida con la repubblica­na Carly Fiorina. I democratici hanno però ammesso che i loro piani per far aumentare l’aluenza alle urne non sono stati all’altez­za delle aspettative e che gli appelli di Oba­ma negli ultimi giorni della campagna elet­

La camera dei rappresentantitorna ai repubblicani

Due candidati sostenuti dai Tea party entrano in senato. I democratici perdono la maggioranza dei governatori. Il nuovo presidente della camera è il conservatore John Boehner

Jef Zeleny e David M. Herszenhorn, The New York Times, Stati Uniti

torale hanno dato pochi frutti.I repubblicani hanno guadagnato anche

molti governatori. Hanno mantenuto Te­xas, Nebraska e South Dakota e conquista­to le poltrone occupate in passato dai de­mocratici in Tennessee, Michigan e Kan­sas. In Kansas il senatore repubblicano Sam Brownback subentrerà a Mark Parkinson, l’ex collega di partito passato ai democrati­ci. La sconitta dei democratici, che prima delle elezioni avevano 26 governatori ri­spetto ai 24 dei repubblicani, era prevista, ma ci sono state delle buone notizie. Nello stato di New York, l’attorney general An­drew M. Cuomo ha sconitto il repubblica­no Carl P. Paladino.

Stando alle interviste con gli elettori condotte per il consorzio di emittenti tele­visive National Election Pool e per l’Asso­ciated Press, le elezioni sono state un refe­rendum sul presidente Obama e sull’agen­da democratica, e un’ampia maggioranza dell’elettorato pensa che il paese stia seria­mente deragliando. Quasi nove elettori su dieci sono preoccupati per l’economia e cir­ca quattro su dieci dichiarano che negli ul­timi due anni la loro situazione familiare è peggiorata. u sdf

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Il repubblicano Rand Paul ha ottenuto il seggio del Kentucky al senato

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24 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Americhe

Dopo Kirchner

Pablo Calvo, Clarín, Argentina

La vittoria di Dilma Roussef il 31 ottobre è speciale per vari motivi, e forse il meno importante è che il Brasile ha eletto per la prima volta

una donna alla presidenza della repubblica. Lula ha fatto il possibile per trasformare l’immagine della sua fedele ministra nella personificazione del suo terzo mandato consecutivo – una possibilità vietata dalla costituzione e riiutata dalla maggior parte dei brasiliani. Questa è la prima sida della nuova presidente. Amministrare un paese grande e complesso come il Brasile esige un governo attivo. Nel primo discorso dopo la vittoria, Roussef ha detto che busserà an-cora alla porta di Lula per chiedere consigli. Ma d’ora in avanti la responsabilità per quello che succederà sarà sua.

La campagna elettorale è stata aggressi-va e allo stesso tempo supericiale, esclu-dendo dal dibattito i problemi del paese. Ma ora il governo e l’opposizione dovranno tro-vare uno spazio di convivenza, fondamen-tale per afrontare questioni come il risana-mento del sistema previdenziale. Un altro tema prioritario è l’aumento degli investi-menti a favore dell’istruzione pubblica pri-maria, altrimenti i milioni di famiglie che

beneiciano di sussidi assistenziali non si libereranno dell’elemosina dello stato.

José Serra ha ottenuto 43,7 milioni di vo-ti. Sono stati eletti otto governatori dell’op-posizione, tre dei quali nella regione più sviluppata del paese (São Paulo, Minas Ge-rais e Paraná). Il governo Dilma, soprattutto grazie al bacino di voti di Lula, ha ottenuto un’ampia maggioranza alla camera e al se-nato. Ma non si può ignorare la nuova map-pa politica del Brasile, quasi diviso tra su-dest, sud e centro ovest prevalentemente socialdemocratici e nord e nordest ammi-nistrati dai partiti di governo.

La presidente ha anche difeso le libertà di stampa, di religione e di culto. È un passo per uniicare il paese intorno ai diritti fon-damentali sanciti dalla costituzione. u lb

Adesso tocca a Dilma Roussef

O Globo, Brasile

Per la presidente Cristina Fernán-dez si apre un periodo segnato dall’assenza del suo principale consigliere politico: il marito ed

ex presidente Néstor Kirchner, morto d’in-farto il 27 ottobre. Dovrà afrontare questi mesi con un partito senza una guida, un congresso nelle mani dell’opposizione e un sindacato operaio sempre più combattivo. La lotta tra Hugo Moyano, Daniel Scioli e i dissidenti per la guida del peronismo, e l’av-vicinarsi delle elezioni presidenziali carat-terizzano un’agenda politica orfana del suo scriba. C’è dell’altro: l’inlazione non appa-re nelle statistiche, ma è evidente alle casse dei supermercati, e il contributo universale per ogni iglio in vigore da un anno, per qua-si 3,7 milioni di bambini, non ha fermato le morti per denutrizione. L’ultima indigna-zione pubblica di Néstor Kirchner dovrebbe portare alla punizione dei responsabili dell’omicidio di Mariano Ferreyra, un ra-gazzo ucciso il 20 ottobre durante una ma-nifestazione per i diritti dei lavoratori pre-cari. Moyano lascerà che si risalga agli “au-tori intellettuali” del crimine, come hanno chiesto Néstor e Cristina? Resta da deinire la situazione dei tremila sindacati del paese – solo la metà ha personalità giuridica – e dei movimenti sociali che di solito avanzano le loro richieste verso Natale.

Politologi ed economisti concordano su una prima analisi della situazione: il dibat-tito sulla governabilità, le ambizioni della Cgt, il più grande sindacato argentino, e lo sviluppo del progetto politico guidato dalla presidente sono i primi nodi da afrontare. Poi ci sono le elezioni presidenziali del 2011 e la discussione su come restituire i diritti ai più poveri evitando di cadere nel clienteli-smo. Senza entrare nel merito dell’impatto emotivo della morte di Néstor Kirchner, si proila una stranezza nazionale, che sicura-mente Tomás Eloy Martínez avrebbe de-scritto bene: due dei potenziali candidati alla presidenza, Cristina Fernández e Ri-cardo Alfonsín, sono emersi dalla morte di due ex presidenti: Néstor Kirchner e Raúl Alfonsín. u sb

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Porto Alegre, Brasile. Dilma Roussef, il 31 ottobre 2010

Il secondo turno delle presidenziali in Brasile,in percentuale

Fonte: O Globo

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Dilma Roussef

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 25

CALIFORNIA

Democratici sìmarijuana no “I democratici perdono la ca-mera ma vincono in California”, titola il Los Angeles Times. La veterana Barbara Boxer si è ag-giudicata un quarto mandato al senato battendo Carly Fiorina, ex amministratrice delegata della Hewlett-Packard e consi-gliera economica di John Mc-Cain. Alla guida dello stato è tornato, dopo sette anni di go-verno repubblicano con Arnold Schwarzenegger, un democrati-co: Jerry Brown, attorney general della California e governatore dal 1975 al 1983, che ha battuto un altro pezzo grosso del mondo imprenditoriale, l’ex ammini-stratrice delegata di eBay Meg Whitman. I californiani hanno anche respinto due proposte sottoposte a referendum, ricor-da il San Francisco Chronicle: la sospensione della legge che li-mita le emissioni di gas serra e la liberalizzazione della mari-juana per uso ricreativo.

IN BREVE

Venezuela Il 2 novembre il pre-sidente colombiano Juan Ma-nuel Santos e quello venezuela-no Hugo Chávez (nella foto) han-no irmato a Caracas una serie di accordi economici e di sicu-rezza. Stati Uniti Il 31 ottobre il cana-dese Omar Khadr è stato con-dannato a 40 anni di prigione per terrorismo da un tribunale speciale di Guantanamo. Era stato arrestato in Afghanistan quando aveva 15 anni.

Il dialogo con i taliban può far inire la guerra in Afghanistan? The Nation apprezza il cambio di rotta dell’amministrazione Obama, che quest’estate ha espresso il suo sostegno alla riconciliazione nazionale promossa dal governo di Kabul. “Gli Stati Uniti e la Nato hanno capito che l’escalation

militare non servirà a niente, così hanno cominciato a scortare i capi taliban su e giù dal Pakistan all’Afghanistan per quelli che Karzai ha deinito colloqui preliminari”. Gli ostacoli sul cammino della riconciliazione non mancano. “Innanzitutto i raid delle forze speciali statunitensi e gli attacchi con i droni minacciano di far fallire le trattative”. Inoltre il governo afgano del presidente Karzai è corrotto e poco aidabile. Inine, i colloqui non potranno riuscire senza il sostegno del Pakistan, “l’unico in grado di portare tutti i taliban al tavolo delle trattative”. E senza l’appoggio dell’India, dove Barack Obama andrà in visita subito dopo le elezioni di metà mandato. “Il presidente non deve farsi sfuggire quest’opportunità”, aferma The Nation. “Ordinare un cessate il fuoco potrebbe essere un buon inizio”. ◆

Stati Uniti

Cessate il fuoco

The Nation, Stati Uniti

HONDURAS

Strage alla partita Quattordici persone sono morte il 30 ottobre nell’attacco di un commando armato, composto da nove persone, che ha aperto il fuoco contro gli spettatori di una partita di calcio a San Pedro Sula, nel nord dell’Honduras. Secondo la polizia, l’attacco è opera delle bande giovanili Los Tercereños e Mara 18, che vole-vano punire un gruppo rivale, scrive El Tiempo. L’Honduras ha il tasso di omicidi più alto del mondo: 78,8 ogni centomila abi-tanti. Dal 2000 le vittime di omicidi nel paese sono state 36.036.

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San Pedro Sula, 30 ottobre

La risata e lo sberlefo sono te-rapie di gruppo a Cuba. Qui la frustrazione è esorcizzata con l’umorismo. ridiamo di noi, ma anche di chi ci governa, nell’intimità della famiglia o nella cerchia ristretta degli amici. Inventiamo dei sopran-nomi, cerchiamo bufe analo-gie tra i personaggi pubblici e raccontiamo barzellette. In-somma, ci sganasciamo dalle risate anche se avremmo più motivi per piangere che per essere contenti.

Questa vocazione naziona-le alla battuta si manifesta an-

che in Pepito, un eterno scola-ro che pone domande scomo-de. Il bambino, dalla lingua af-ilata e le tasche bucate, è il personaggio principale di molti dei nostri racconti satiri-ci. Le sue storie circolano in clandestinità, passando di bocca in bocca. Sento parlare di questo bambino immagina-rio da quando ho l’uso della ragione. Pepito è andato sulla Luna quando l’Unione Sovie-tica e Cuba hanno lanciato la loro prima missione nello spa-zio, è stato a ianco di papa Giovanni Paolo II durante la

sua visita all’Avana ed è entra-to nel bunker segreto in cui Fi-del Castro ha passato la con-valescenza. È stato ovunque e in nessun luogo.

Ma proprio quando pensa-vamo che non ci avrebbe mai abbandonati, Pepito ha co-minciato a languire. Oggi è diicile sentire qualche nuova storia su di lui. Io mi sveglio ogni mattina sperando nel suo ritorno. Prima o poi le battute torneranno nelle nostre vite sotto forma di un bambino ri-belle che non ha rispetto di niente e di nessuno. ◆ sb

Dall’Avana Yoani Sánchez

Pepito

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26 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Europa

Il fallimento della tregua dichiarata dai separatisti baschi dell’Eta nel 2006 non è stato vano. Dopo l’ultimo cessate il fuoco, proclamato il 5 set-

tembre, il margine di manovra politico dell’organizzazione è diminuito invece di aumentare. Anche grazie all’atteggiamento del mondo politico spagnolo, che ha impa-rato la lezione del 2006. Il patto antiterrori-smo siglato da socialisti (Psoe) e popolari (Pp) ha avuto conseguenze positive anche nel Paese Basco, con l’accordo tra il lehen-

dakari del Psoe Patxi López e il leader del Pp locale, Antonio Basagoiti. Anche la com-plicità tra il capo del governo José Luis Ro-dríguez Zapatero e il leader dei nazionalisti moderati del Pnv, Iñigo Urkullu, ha avuto un ruolo importante.

Da questa rete di collaborazione è scatu-rita la richiesta fatta all’Eta e ai partiti poli-tici che le sono vicini. Il braccio politico dell’organizzazione, Batasuna, è di fronte a un bivio: convincere la banda a deporre le armi o rompere del tutto con i terroristi. Questo ultimatum ha spinto al pragmati-smo il nucleo dirigente di Batasuna, che ha chiesto esplicitamente all’Eta di accettare una tregua senza condizioni.

La ine del terrorismo basco, però, non è ancora dietro l’angolo, perché i mutamenti nel gruppo indipendentista procedono a un ritmo molto lento. All’interno dell’Eta la componente favorevole al cessate il fuoco

L’Eta con le spalle al muro

Il gruppo terrorista è sempre più isolato. Grazie all’accordo tra i socialisti e i popolari spagnoli, ma soprattutto alla fermezza dei moderati baschi del Pnv e alla nuova strategia di Batasuna

Luis R. Aizpeolea, El País, Spagna

ha guadagnato terreno su quella contraria, ma non è ancora pronta ad accogliere le ri-chieste arrivate dai partiti democratici e da Batasuna. Il massimo che ci si può aspettare dall’Eta nelle prossime settimane è che si attenga alle richieste dei irmatari della di-chiarazione di Guernica – i partiti Batasuna, Eusko Alkartasuna e Aralar – e dei mediato-ri internazionali e dichiari un cessate il fuo-co permanente e veriicabile.

Prudenza e pragmatismoTuttavia, tutti i partiti democratici, com-preso il Pnv, pur ammettendo che sarebbe un passo avanti verso la pace, la considera-no una soluzione insuiciente. E chiede-ranno all’Eta di rinunciare deinitivamente e senza condizioni alla violenza. Proprio la posizione del Pnv è uno dei fattori che fan-no la diferenza rispetto al passato: l’accor-do tra il suo leader Iñigo Urkullu e Zapatero ha radici “solide”, come piace dire al capo del governo. Il Pnv non è più disposto a of-frire all’Eta nessuna scappatoia, com’era successo nel 1998 con il patto di Lizarra o nel 2006 con le trattative di Loyola, volute anche dal Partito socialista basco.

L’unica cosa che Urkullu chiede in cam-bio al governo, come ha spiegato la scorsa settimana al vicepresidente Alfredo Pérez Rubalcaba, è una maggiore lessibilità nella politica carceraria, l’aumento dei beneici penitenziari e l’assistenza ai detenuti mala-ti: concessioni che puntano a isolare il nu-cleo irriducibile dell’Eta, che ha spesso usa-to la durezza del trattamento dei detenuti baschi per attaccare le istituzioni.

Il Pnv, però, non fa richieste solo ai ter-roristi: anche con Batasuna è molto severo. “Se l’Eta non si decide, Batasuna deve pren-derne le distanze”, afferma Urkullu, che non fa sconti alla sinistra abertzale. Nono-stante sia contrario alla ley de partidos, che ha messo fuori legge i partiti della sinistra nazionalista, il Pnv non ha chiesto la sua abrogazione né si è pronunciato a favore della legalizzazione di Batasuna. Ma l’aspetto più importante è il comportamen-to di Batasuna, che ha deciso di puntare sulla ine della violenza. Questo pragmati-smo ha spinto i suoi dirigenti a rimandare la richiesta di legalizzazione del partito ino a quando l’Eta non dichiarerà chiaramente che rinuncia alla violenza. Ma il gruppo ar-mato non sembra pronto a fare un passo si-mile. Questa divergenza fa pensare che la ine del terrorismo basco non arriverà così velocemente come credono in molti. u sb

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Hernani, Paese Basco, Spagna

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 27

UNIONE EUROPEA

Serve un nuovotrattato I capi di stato e di governo dell’Unione europea, riuniti a Bruxelles il 28 e 29 ottobre, han-no deciso di inasprire le sanzioni contro i paesi troppo indebitati e di creare un meccanismo di sal-vataggio per evitare altre crisi come quella greca. Durante il vertice la Gran Bretagna e altri dieci paesi hanno anche respin-to la richiesta della Commissio-ne europea di aumentare il bi-lancio dell’Unione, sostenendo che la decisione sarebbe fuori luogo visti i piani di austerità ap-provati a livello nazionale. Le nuove regole dovrebbero essere adottate entro la metà del 2011, ma prima sarà necessario rive-dere il Trattato di Lisbona, spie-ga la Frankfurter Allgemeine Zeitung. Il vertice è stato un successo per il presidente fran-cese Nicolas Sarkozy e soprat-tutto per Angela Merkel (nella foto con il presidente della Com-missione Barroso), anche se la cancelliera ha dovuto rinunciare alla proposta di privare del dirit-to di voto i paesi che non rispet-tano la disciplina di bilancio.

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L’attentato suicida che ha provocato decine di feriti nel centro di Istanbul il 31 ottobre potrebbe segnare il ritorno della violenza separatista curda, secondo il quotidiano Sabah. L’attacco è avvenuto lo stesso giorno in cui è scaduto il cessate il fuoco proclamato dagli indipendentisti del Pkk. I ribelli hanno smentito ogni coinvolgimento, ma la polizia ha identiicato l’attentatore come militante del Pkk. “La cosa certa”, scrive Milliyet, “è che l’attentato è arrivato mentre il governo era impegnato a negoziare con il Pkk per il prolungamento della tregua ino alle elezioni del 2011”. Anche le dichiarazioni rilasciate di recente al quotidiano Radikal da uno dei capi militari curdi facevano pensare a una possibile paciicazione. Secondo Milliyet, è probabile che l’attacco sia stato organizzato da alcune frange dell’organizzazione interessate a mantenere alto il livello della tensione e della violenza nel paese. u

Turchia

Strategia della tensione

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GRECIA

Le ambasciate nel mirino Tra il 1 e il 3 novembre la polizia greca ha intercettato e fatto bril-lare almeno 14 pacchi bomba in-dirizzati alle ambasciate di alcu-ni paesi europei, tra cui Germa-nia, Belgio e Francia, e alla sede della Corte europea di giustizia in Lussemburgo. Altri ordigni sono esplosi, senza provocare vittime, nelle sedi diplomatiche di Svizzera e Russia, mentre il plico diretto al governo italiano ha preso fuoco a bordo del cargo Tnt che lo trasportava. Come ri-ferisce Kathimerini, Atene ha bloccato per 48 ore l’invio dei pacchi per via aerea. La polizia ha fermato due sospetti, uno dei quali apparterrebbe alla Cospi-razione delle cellule di fuoco, un gruppo anarchico già responsa-bile di attacchi dimostrativi.

IN BREVE

Nagorno Karabakh Il 27 otto-bre il presidente russo Dmitrij Medvedev ha annunciato che i governi di Armenia e Azerbai-gian hanno raggiunto un accor-do per uno scambio di prigio-nieri catturati durante il conlit-to nella regione.Gran Bretagna-Francia Il 2 novembre il premier britannico David Cameron e il presidente francese Nicolas Sarkozy hanno irmato a Londra un accordo di cooperazione militare.Kosovo Il parlamento ha ap-provato il 2 novembre una mo-zione di siducia contro il gover-no di Hashim Thaci. Le elezioni legislative anticipate si svolge-ranno il 12 dicembre.

REPUBBLICA CECA

Una sentenzamodello Il tribunale di Ostrava, nella Re-pubblica Ceca, ha inlitto una pena esemplare ai quattro gio-vani neonazisti che nell’aprile del 2009 avevano lanciato delle bombe molotov contro la casa di una famiglia rom, ustionando gravemente una bambina. Co-me riferisce il quotidiano Lido-ve Noviny, tre di loro sono stati condannati a 22 anni di reclusio-ne, il quarto a 21 anni. Secondo molti commentatori, la senten-

za rappresenta un punto di svol-ta in un paese che in passato era stato piuttosto tollerante verso la violenza xenofoba degli estre-misti di destra. Ma questa svolta è ancora fragile, e lo dimostra il fatto che il presidente della re-pubblica, Vaclav Klaus, è inter-venuto deinendo le condanne “troppo severe”. Durante la campagna per le elezioni del 23 ottobre scorso, inoltre, una can-didata nota per la sua ostilità nei confronti dei rom aveva distri-buito dei volantini insieme a una scatola di iammiferi: un chiaro riferimento al rogo dell’aprile 2009.

L’attentato del 31 ottobre a Istanbul

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Deicit/pil, %I conti dell’Europa, 2010

Debito/pil, %

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28 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Africa e Medio OrienteL’Afghanistansul mar Rosso

Mahmoun Fahdy, Al Tagheer, Yemen

Mentre emergono nuovi det-tagli sui pacchi bomba im-barcati su voli commerciali in partenza dallo Yemen

verso gli Stati Uniti, a Washington s’intensi-ica il dibattito sull’opportunità di aumen-tare i fondi per le operazioni antiterrorismo nel paese arabo. I militari statunitensi vor-rebbero sconiggere sul campo Al Qaeda nella penisola arabica (Aqap), il gruppo che ritengono responsabile dei tentati attacchi. Ma se non si risolvono prima le crisi interne dello Yemen, la libertà di azione di Al Qae-da in questo paese sarà ancora maggiore.

Aqap è un’organizzazione opportunista e versatile. Dal gennaio del 2009, quando si è formata dalla fusione tra gli ailiati di Al Qae da in Arabia Saudita e nello Yemen, la rete agisce in modo indipendente da Osa-ma bin Laden. Il piano sventato negli ultimi giorni è un’ulteriore prova della pericolosità di Aqap, che nell’ultimo anno ha sferrato quaranta attacchi, prendendo di mira le in-frastrutture energetiche, gli stranieri e le forze dell’ordine yemenite. Inoltre, i suoi successi militari e la grande abilità nel dif-fondere i suoi messaggi attirano nello Ye-men un numero sempre più alto di terroristi stranieri. Aqap prospera nel caos yemenita. Da anni il governo di Sana’a è impegnato a

reprimere la rivolta dei ribelli sciiti nelle re-gioni del nord, mentre al sud deve afronta-re un movimento secessionista sempre più attivo. L’incapacità del governo di control-lare il territorio permette ad Al Qaeda di agire indisturbata e di conquistare consensi tra la popolazione facendo leva sullo scon-tento verso un regime oppressivo.

Lo Yemen è sull’orlo del disastro econo-mico, ha un governo ineiciente e rischia una grave crisi idrica. Eppure, non riceve molti aiuti dall’occidente. Nel 2011 gli Stati Uniti verseranno al Pakistan miliardi di dol-lari, mentre destineranno solo duecento milioni all’assistenza umanitaria nello Ye-men. In questo paese, invece di puntare solo sulla collaborazione militare (rischian-do di aggravare quelle tensioni interne che hanno attirato qui Al Qaeda), Washington dovrebbe occuparsi del sistema legale, del-la polizia, dell’economia, della riforma agraria, della scuola e della corruzione. L’Arabia Saudita potrebbe essere un partner importante: già oggi assegna allo Yemen due miliardi di dollari all’anno e sono stati proprio i servizi segreti sauditi a fornire in-formazioni sulle ultime bombe. u gim

Christopher Boucek è un esperto di Medio Oriente del centro Carnegie di Washington.

Il caos yemenita favorisce il terrorismo

Christopher Boucek, Financial Times, Gran Bretagna

I l ritrovamento di alcuni pacchi bom-ba, verosimilmente provenienti dallo Yemen, su aerei diretti negli Stati Uniti ci porta a pensare che il paese

sarà presto il bersaglio di un attacco milita-re statunitense, diventando un nuovo Af-ghanistan sul mar Rosso e una porta d’in-gresso per le potenze occidentali in Medio Oriente. Lo Yemen non aveva bisogno di questa sciagura: la situazione economica è disastrosa, i combattimenti nelle regioni del nord e del sud rendono il paese molto instabile e l’arrivo di forze armate straniere può solamente aggravare la situazione. Il problema dei governi occidentali è che non studiano in maniera approfondita la realtà mediorientale, hanno poca esperienza sul campo e basano le loro decisioni su pregiu-dizi. Nel 2003 l’amministrazione statuni-tense di Geor ge W. Bush era convinta – ed è riuscita a convincere altri paesi – che esi-stesse un legame tra Saddam Hussein e i terroristi di Al Qaeda, senza prendere in considerazione la lontananza di pensiero tra il potere militare e laico esercitato da Saddam e l’ideologia islamista estrema di Al Qaeda.

Un attacco militare sferrato dagli Stati Uniti contro Sana’a sarebbe l’ennesimo colpo al sogno dell’“arabismo”, cioè alla capacità degli arabi di gestire i loro proble-mi autonomamente. Ma signiicherebbe anche la ine di questo paese, già così de-bole. Dall’Iraq al Sudan, dalla Somalia al Libano, sappiamo quanto possono essere dannosi gli interventi non arabi nella re-gione, iraniani, turchi, statunitensi o euro-pei che siano. u cc

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Sana’a, Yemen

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IRAQ

Cristianisotto attacco Il 31 ottobre la polizia ha fatto ir-ruzione in una chiesa cattolica di Baghdad (nella foto) per libe-rare un centinaio di fedeli tenuti in ostaggio da terroristi di Al Qaeda. Nel blitz sono morte 58 persone, scrive Aswat al Iraq. Il 2 novembre 63 persone sono morte in una serie di 11 attentati nei quartieri sciiti di Baghdad.

SOMALIA

Giura il nuovoprimo ministro Il 1 novembre Mohamed Abdul-lahi Farmajo ha giurato come nuovo primo ministro del gover-no di transizione somalo, riferi-sce Garowe Online. Poche ore prima almeno 21 persone sono rimaste uccise negli scontri tra i miliziani estremisti islamici di Al Shabaab e le forze governati-ve, che stanno cercando di otte-nere il controllo della città. Il 27 ottobre a Beledweyne i ribelli islamici hanno eseguito la con-danna a morte di due giovani donne accusate di spionaggio.

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Alle due o alle tre di notte, sve-glia per il jet lag, ho scoperto di aver portato l’adattatore sbagliato: la spina non entrava nelle prese di corrente statuni-tensi. La batteria del portatile si stava scaricando, ed ero davvero arrabbiata. di tutte le cose che dovevo portare con me, questa era la seconda in ordine di importanza, dopo il passaporto.

Ero ospite di un mio cugino di 89 anni, nato a Sarajevo ed ex partigiano. oggi vive vicino a Princeton. Qui non ci sono negozi di quartiere, ma solo

centri commerciali, tutti ugua-li, costruiti su strade larghe co-me la Striscia di gaza. Quello in cui siamo entrati era più grande di un campo profughi, e ho impiegato quattro minuti per raggiungere gli scafali del materiale elettrico. c’erano centinaia di prodotti. Non im-maginavo che una spina potes-se avere tante forme né che ci potessero essere tante confe-zioni di pesticidi per le rose o di cornlakes. Mancava solo il mio adattatore. In un altro centro commerciale avevano un multiadattatore, ma a pola-

rità invertite, che costava 32 dollari. Stessa storia in un ne-gozio di Princeton. “come fanno gli studenti stranieri?”, ho chiesto a mio cugino. “For-se non si dimenticano di por-tarlo”, ha risposto.

L’ultimo venditore ha al-meno mostrato un po’ di com-prensione. I commessi dei centri commerciali si limitava-no a un’alzata di spalle. Forse dovrei imparare a fare la spesa come gli altri, quelli che spin-gono enormi carrelli da svuo-tare nelle loro enormi automo-bili. u nm

Da Princeton Amira Hass

La spesa impossibile

Le elezioni presidenziali del 31 ottobre saranno ricordate per la “responsabilità e il senso civico” degli ivoriani, che sono andati a votare in massa, scrive L’Intelligent d’Abidjan. Le elezioni, le prime dopo la guerra civile, avrebbero dovuto tenersi nel 2005 ma sono state rimandate sei volte. In base ai risultati parziali dovrebbero andare al ballottaggio l’attuale presidente Laurent gbagbo e l’ex premier Alassane ouattara. Secondo Fasozine, il momento più delicato sarà l’annuncio dei vincitori, perché si temono violenze tra i sostenitori dei vari candidati. u

Costa d’Avorio

Al voto dopo cinque anni

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A Zanzibarvince Shein Il 31 ottobre si sono tenute le ele-zioni presidenziali e legislative. Il voto si è svolto paciicamente, scrive The Citizen, ma ci sono state proteste violente per la lentezza dello spoglio. I risultati parziali vedono in testa l’attuale presidente Jakaya Kikwete. Nel territorio semiautonomo di zanzibar è stato eletto presiden-te Ali Mohammed Shein.

IN BREVE

Guinea Il secondo turno delle elezioni presidenziali si svolgerà il 7 novembre.Libano Il 28 ottobre Hezbollah ha invitato la popolazione a boi-cottare il tribunale dell’onu che indaga sull’omicidio dell’ex pre-mier Raiq Hariri.Niger Il 31 ottobre il referen-dum sulla nuova costituzione, un primo passo verso il ritorno della democrazia, è stato appro-vato da più del 90 per cento de-gli elettori.

Il presidente Laurent Gbagbo in un seggio ad Abidjan

Numero di vittime dall’inizio della guerra in Iraq (19 marzo 2003). Dati aggiornati alle 16 del 3 novembre 2010

Iracheni 98.585-107.594

Soldati statunitensi 4.427

Soldati di altre nazionalità 318

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30 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Asia e Paciico

Le discusse elezioni birmane, le prime in vent’anni, sono alle por-te. Quasi tutti i gruppi democrati-ci del paese le deiniscono “anti-

democratiche e inutili”. Per i 37 partiti che hanno presentato le loro liste, sono “l’unica alternativa politica”, mentre molti birmani sono convinti che “non produrranno nes-sun vero cambiamento”.

La leader democratica Aung San Suu Kyi è ancora agli arresti domiciliari, restano in carcere oltre 2.100 prigionieri politici e i partiti che rappresentano alcune etnie sono stati esclusi. Inoltre, la commissione eletto-rale nominata dalla giunta militare ha sta-bilito delle regole che limitano la libertà dei partiti democratici e favoriscono il partito che rappresenta la giunta, l’Unione solida-rietà e sviluppo (Usdp). Le regole, sostiene la commissione, colpiscono tutti i partiti

allo stesso modo. Ma l’Usdp le ignora, sa-pendo che non ci saranno ripercussioni.

La giunta non vuole la democrazia in Birmania. L’obiettivo di queste elezioni è legittimare l’egemonia militare nel paese dandole una parvenza di governo parla-mentare. Il voto è gestito dagli stessi gene-rali che hanno ignorato l’esito delle elezioni del 1990, che attribuiva alla Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi una maggioranza schiacciante.

I partiti di opposizione come la Forza democratica nazionale – nata da una scis-sione dalla Nld –, il Partito democratico e i partiti etnici non legati al governo militare hanno scelto di partecipare alle elezioni. Perché sperano, con qualche seggio in par-lamento, di avviare il processo di democra-tizzazione. Ma diicilmente la giunta gli darà spazio. A dominare il parlamento sa-ranno i candidati designati dall’esercito e gli ex uiciali, che non scenderanno a patti con l’opposizione.

Inoltre, i candidati democratici credono che la riconciliazione nazionale potrebbe risolvere i problemi del paese e che le ele-zioni siano l’unica alternativa. È diicile credere che queste elezioni possano contri-buire all’ampia riconciliazione nazionale

tra militari, organizzazioni democratiche e gruppi etnici necessaria per risolvere lo stallo politico del paese.

Anzi, nel preludio alle elezioni forse sta succedendo il contrario. Negli ultimi mesi le tensioni tra i militari e i gruppi etnici ar-mati sono aumentate. Il conlitto tra truppe governative e milizie etniche, che paralizza lo sviluppo del paese da decenni, potrebbe perino peggiorare. Nonostante questo, le elezioni si terranno il 7 novembre a qualun-que costo. E sarà bene osservarle alla ricer-ca di un segnale che testimoni almeno qual-che progresso. Innanzitutto bisognerà ve-dere se la maggioranza dei partiti democra-tici otterrà un’alta percentuale di seggi. E poi se Suu Kyi sarà davvero rilasciata il 13 novembre, dopo un anno e mezzo di arresti domiciliari. Inine, si vedrà se gli oltre 2.100 prigionieri politici saranno liberati.

Perino qui, però, la storia ci ha insegna-to a non sottovalutare l’abilità con cui i ge-nerali manipolano gli eventi a loro vantag-gio. Anche se i gruppi d’opposizione avran-no dei seggi in parlamento e Suu Kyi e gli altri prigionieri politici saranno rilasciati, è molto probabile che il nuovo governo userà tutti i mezzi in suo potere per imbavagliarli e ostacolarli. Di recente, il portavoce del dipartimento di stato americano P.J. Crow-ley ha detto: “Speriamo che il nuovo gover-no abbia un atteggiamento diverso rispetto al passato”. L’“atteggiamento diverso” a cui si riferisce Crowley significa permettere alle voci d’opposizione di farsi sentire in parlamento e consentire il rilascio di Suu Kyi e degli altri prigionieri politici. Se la co-munità internazionale riconoscerà la legit-timità del nuovo governo prima che tutto questo accada, tradirà i 55 milioni di perso-ne che vivono in Birmania. u sdf

La grande farsa delle elezioni birmane

Per la prima volta dopo vent’anni, il 7 novembre il paese asiatico andrà alle urne. Ma con la legge elettorale voluta dalla giunta militare il risultato è scontato e il voto inutile

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Kathmandu, Nepal. Petizione in favore della libertà in Birmania

Maggio 2008 Mentre una parte della popolazione è in ginocchio a causa del ciclone Nargis, viene approvata la nuova costituzione voluta dalla giunta. La carta esclude dalle elezioni gli ex detenuti (quindi buona parte degli oppositori politici) e prevede che un terzo dei seggi vada ai militari. Marzo 2010 La Lega nazionale per la democrazia (Nld) di Aung San Suu Kyi decide di boicottare il voto. Due mesi dopo, una fazione della Nld forma la Forza democratica nazionale e partecipa alle elezioni.Agosto 2010 Alcuni alti uiciali della giunta lasciano la divisa per candidarsi.

Da sapere

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due Coree

riunionedi famiglia Il 1 novembre, dopo mesi d’in-terruzione, sono riprese le riu-nioni delle famiglie separate in seguito alla divisione della peni-sola coreana. A Mount Geum-gang, in Corea del Nord, 430 sud coreani hanno potuto riab-bracciare 97 familiari che vivo-no nel Nord. Il Korea Herald scrive che alcuni di loro non si vedevano dai tempi della guer-ra, che ha separato milioni di persone. Di queste, solo 20mila hanno potuto partecipare alle ri-unioni che i due governi autoriz-zano periodicamente dal 2000.

diplomazia

Tensioni nel sudest Si è svolto ad Hanoi il diciasset-tesimo vertice dell’Asean (l’As-sociazione dei paesi del sudest asiatico), a cui ha partecipato anche il segretario di stato ame-ricano Hillary Clinton. L’incon-tro era sulle elezioni in Birma-nia, considerate da molti una farsa. “Ma a dominare la riunio-ne è stato il braccio di ferro tra Stati Uniti e Cina sull’accesso al mar Cinese Meridionale”, scri-ve Asia Times. È infatti in cor-so una disputa tra Pechino e vari paesi dell’Asean per il controllo di alcune isole della zona. Per li-mitare l’inluenza della Cina, i paesi membri hanno conferma-to che Stati Uniti e Russia parte-ciperanno al prossimo vertice dell’Asean.

giappone-russia

le isole della discordia Il presidente russo Dmitrij Med-vedev ha visitato le isole Kurili, provocando la reazione di Tokyo e riaccendendo uno scontro di-plomatico che dura da decenni. La Russia ha preso il controllo delle isole alla ine della seconda guerra mondiale, ma il Giappo-ne le considera parte integrante del suo territorio. La visita di Medvedev, la prima di un capo di stato russo dal 1945, è stata considerata un afronto a Tokyo: “Mosca sapeva che la visita avrebbe rovinato i rapporti tra i due paesi e ofeso i sentimenti dell’opinione pubblica, ma ha ignorato ogni avvertimento”, scrive il Manichi Shimbun. “La Russia”, conclude il quoti-diano, “pagherà le conseguenze della sua decisione nei prossimi appuntamenti internazionali”.

in breve

Afghanistan Il 30 ottobre le forze internazionali hanno ucci-so 80 ribelli taliban che avevano attaccato una postazione milita-re nella provincia di Paktika, nel sudest del paese.Cina Il 1 novembre il governo ha lanciato il censimento della popolazione, che viene efettua-to ogni dieci anni. Saranno im-piegati sei milioni di operatori. La Cina è il paese più popoloso del mondo, con circa 1,3 miliar-di di abitanti.Pakistan Quattro ribelli islami-ci sono morti il 3 novembre nell’attacco di un drone statuni-tense nel Nord Waziristan.

A più di un anno dall’arrivo al potere del partito democratico, il Giappone non prende ancora le distanze dall’educazione scolastica di stampo nazionalista voluta dai liberaldemocratici. Le nuove linee guida introdotte dal ministero dell’istruzione, infatti, prevedono una scuola basata sul patriottismo e

sulla cultura tradizionale, oltre che sull’etica del lavoro e della condivisione. Per favorire la comprensione dei testi classici e moderni saranno aumentate le ore d’insegnamento della lingua giapponese alle elementari e alle medie. La parte dei libri di testo che riguarda la storia del paese, spiega il settimanale Shukan Kinyobi, sottolinea con orgoglio alcuni episodi di successo come la vittoria contro la Russia nel 1905, che avrebbe avuto “un efetto positivo su tutti i popoli asiatici”. Sembra che il nuovo governo, commenta il settimanale, voglia completare il programma dell’ex premier Shinzo Abe, che nel 2007 parlava di voler costruire un “bel Giappone”, insegnando prima di tutto “l’amore per la patria”. ◆

giappone

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Shukan Kinyobi, Giappone

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la destra contro arundhati roy Il 31 ottobre un centinaio di sostenitori del Bjp, il partito nazionalista all’opposizione, ha fatto irruzione nel giardino dell’abitazione di Arundhati Roy (nella foto) a New Delhi, danneggiandone l’ingresso. La scrittrice indiana, pochi giorni prima, aveva provocato l’ira dei nazionalisti (che ne hanno chiesto l’arresto immediato) e del gover-no per le sue dichiarazioni a favore dell’indipendenza del Jammu e Kashmir, tanto che il ministero dell’interno ha disposto nei suoi con-fronti l’apertura di un’indagine per sedizione, chiusa subito dopo.

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Gipi

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Inemici di Silvio Berlusconi hanno tentato di tutto per liberarsene: han-no complottato contro di lui, criticato le sue scelte politiche e, come da tem-

po sostiene il capo del governo, incitato i magistrati di sinistra a processarlo per man-darlo in prigione.

Ma il 26 ottobre è emersa una nuova possibilità: che Berlusconi venga messo fuori combattimento a causa del ridicolo che circonda la sua persona. Alcuni dettagli dell’ultimo scandalo sono così gravi che perino i più fedeli sostenitori del governo dovranno ammettere che il presidente del

per quanto grottesco, questo scandalo po-trebbe avere gravi conseguenze per Berlu-sconi. Sulla base delle deposizioni di Kari-ma el Marough, tre persone molto vicine al premier – il manager Lele Mora, il giornali-sta Emilio Fede e la consigliera regionale Nicole Minetti – sono indagate presso la procura di Milano per favoreggiamento del-la prostituzione.

All’attaccoKarima nega di aver avuto rapporti sessuali con Berlusconi, ma gli inquirenti stanno indagando per capire se altre donne siano state pagate in cambio di prestazioni ses-suali. Minetti, che è un’ex showgirl, sarebbe andata a prendere El Marough subito dopo il suo rilascio dalla questura, nel maggio scorso. La giovane marocchina era stata fermata, e poco dopo rilasciata, perché so-spettata di aver rubato tremila euro.

Vincenzo Indoli, che all’epoca dei fatti era questore di Milano, ha detto in un’inter-

consiglio sta trasformando l’Italia in una barzelletta. La ragazza al centro della vicen-da è una giovane marocchina che era anco-ra minorenne quando si sono svolti i fatti. Il suo vero nome è Karima el Marough, ma si fa chiamare “Ruby Rubacuori”.

Non è ancora chiara la natura del rap-porto tra Berlusconi e la ragazza. Karima ha detto in un’intervista di essere andata a villa San Martino, la residenza di Berlusconi ad Arcore, una sola volta, il 14 febbraio scor-so.

Ha detto inoltre che Berlusconi, dopo averle raccontato le sue sventure, le avreb-be regalato settemila euro e alcuni gioielli. Ma secondo le indiscrezioni trapelate da un’inchiesta in corso a Milano, in preceden-za la ragazza aveva detto ai poliziotti e ai magistrati di essere stata tre volte ad Arco-re, e che una delle feste si era conclusa con un gioco erotico chiamato Bunga bunga. Non sorprende che tutto questo abbia pro-dotto una serie interminabile di battute. Ma

Un nuovo scandalo per Silvio Berlusconi

Il presidente del consiglio è coinvolto in un’altra storia poco chiara di prostituzione e abuso di potere. Secondo molti questa volta non ne uscirà indenne, scrive l’Economist

The Economist, Gran Bretagna

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vista che uno dei suoi collaboratori aveva ricevuto una telefonata dall’uicio del pre-mier che li informava (erroneamente) del fatto che la ragazza era la nipote del presi-dente egiziano Hosni Mubarak.

Come ha fatto subito notare l’opposizio-ne, questo potrebbe voler dire che Berlu-sconi ha abusato della sua posizione, com-mettendo un reato. Il capo del governo non ha negato, dando l’impressione di voler passare all’attacco. Il 29 ottobre ha ammes-so di aver mandato Minetti a prendere Kari-ma in questura per evitare che la ragazza fosse portata in carcere o in comunità. Que-sta spregiudicatezza, nel 2009, gli ha per-messo di superare le polemiche dopo altri scandali sessuali. Ma ci sono motivi per du-bitare che possa funzionare anche stavolta. Oggi Berlusconi è molto più debole, mentre gli italiani sono sempre più scettici sulle sue allegre rassicurazioni circa lo stato dell’eco-nomia. E da luglio, quando Gianfranco Fini ha formato un gruppo parlamentare auto-nomo, il premier non ha una solida maggio-ranza in parlamento.

Durante gli scandali del 2009, la mag-gior parte dei sostenitori del governo è ri-masta al ianco di Berlusconi. Ma sperava-no che gli scandali fossero finiti, e che il premier si sarebbe comportato in modo più discreto. Berlusconi, però, ha vanificato questa speranza, mettendo in discussione non solo la sua vita privata ma anche il giu-dizio su di lui. u nm

In quali abissi Silvio Berlusconi è disposto a trascinare il suo ruolo istituzionale di presidente del

consiglio? Per quanto tempo i suoi al-leati continueranno a sostenerlo?

Dalla risposta a queste due doman-de dipende il destino del capo del go-verno italiano, di nuovo alle prese con uno scandalo sessuale che coinvolge una minorenne e al quale si aggiungo-no le pressioni sui magistrati incaricati dell’inchiesta.

Sulla prima domanda Berlusconi ha purtroppo già dato una risposta: non ha intenzione di imporsi alcun li-mite. Dai tempi della sua prima elezio-ne, nel 1994, e durante i suoi comples-sivi otto anni di mandato, Berlusconi ha sempre considerato il potere e le istituzioni come un’estensione della sua attività di imprenditore. Il senso dello stato e la rappresentanza politica non fanno parte delle sue preoccupa-zioni. Contano il suo piacere persona-le, gli afari e gli interessi della sua “corte”.

Eletto tre volte, si è convinto di es-sere il migliore interprete degli italiani e lo specchio dei loro vizi. La sua linea di difesa nell’ennesimo scandalo che lo coinvolge ne fornisce un’ulteriore dimostrazione: “Amo la vita e le donne e mi fa piacere aiutare gli altri”, ha det-to. Un modo per dire : “Sono come

voi”. Finora questa tattica gli ha ga-rantito l’indulgenza dei suoi elettori.

Ma il ripetersi degli scandali, giudi-ziari e sessuali, pone la questione della dignità del presidente del consiglio. Passi che non abbia capito la portata della crisi economica; passi che abbia realizzato solo una piccolissima parte del programma per il quale è stato eletto. Altri prima di lui non hanno fat-to meglio. Ma nessuno ha compro-messo l’immagine della sua carica in un tale carosello di piaceri e diverti-menti. Questa fuga in avanti ha un co-sto troppo spesso ignorato. Non è mi-nacciata solo l’immagine del presi-dente del consiglio ma quella dell’Ita-lia stessa. Facendo passare le sue scappatelle per un efetto collaterale della ricchezza, il suo gusto smodato per la lussuria per un aspetto dell’identità nazionale, Berlusconi pregiudica l’immagine dell’intero pae-se, che un po’ alla volta ha ridotto alla sua caricatura.

La reazione degli imprenditori, che chiedono un ritorno delle istituzioni al senso della “dignità”, non è un sempli-ce appello. Le imprese che esportano il made in Italy in tutto il mondo sono ormai stanche di dover spiegare e giu-stiicare le stravaganze del loro capo di governo.

Rimane la seconda domanda: ino a quando i suoi alleati – e gli italiani – riusciranno a sopportarlo? Gli avverti-menti della Conindustria e del Vatica-no, le critiche di Gianfranco Fini, il malumore della Lega nord riducono sensibilmente le prospettive politiche di Berlusconi. In assenza di un’opposi-zione forte e organizzata intorno a un leader e a un progetto, spetta a questi protagonisti della vita politica italiana dire basta. Sarebbe l’unico modo per salvare l’Italia e quel che rimane del ruolo istituzionale di un presidente del consiglio. u adr

Fino a che punto l’Italia è disposta a seguire Berlusconi nell’abisso? L’editoriale di Le Monde

Se questo è un premier

Le Monde, Francia

L’opinione

Eletto tre volte, il capo del governo si è convinto di essere il migliore interprete degli italiani e lo specchio dei loro vizi

u “Venderò cara la pelle”. Indebolito dalle rivelazioni sulla sua vita privata, dalle critiche dell’opposizione e dalle perplessità dei suoi alleati, Silvio Berlusconi non vuole mollare. Inaugurando il Salone del ciclo e motociclo a Milano, ha dichiarato che il suo governo “ha la maggioranza e andrà avanti ino alla ine della legislatura” nel 2013. Ma a 74 anni, l’onnipotente leader della destra italiana non è mai sembrato così debole. A settembre aveva appena il 34 per cento di consensi, e ora si ritrova invischiato nel Rubygate. Il premier cerca di disinnescare lo scandalo proclamando: “Sono una persona allegra, amo la vita e le donne, e nessuno mi farà cambiare stile di vita”. E ha aggiunto: “È meglio essere appassionati di belle ragazze che gay”. L’ultimo scandalo sembra però raforzare l’impressione di paralisi che circonda l’azione del governo, e rende sempre più evidente l’atmosfera da ine regno che sta avvolgendo il Cavaliere.Eric Jozsef, Le Temps, Svizzera

Gay e veline

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Scenari di una crisidi governo

All’interno della maggioranza molti cominciano a vedere Berlusconi come un peso. E si stanno preparando per la sua successione

Guy Dinmore, Financial Times, Gran Bretagna

Silvio Berlusconi è sopravvissuto a molti scandali, ma il caso Ruby po-trebbe essergli fatale. Nei giorni scorsi il capo del governo ha cerca-

to di sdrammatizzare con delle battute. È probabile, però, che le sue parole fossero rivolte, oltre che all’opinione pubblica, ai suoi alleati di centrodestra. Secondo fonti vicine al governo, molti all’interno della co-alizione si sono convinti che Berlusconi è diventato un peso e che dovrebbe dimetter-si. Il premier, che è stato eletto nel 2008, potrebbe passare il comando a Gianni Let-ta, sottosegretario alla presidenza del con-siglio e alleato di vecchia data, o a Giulio Tremonti, il ministro dell’economia, ap-prezzato da una comunità imprenditoriale sempre più disincantata.

Tuttavia, mentre i magistrati milanesi

indagano su quello che è successo la sera del 27 maggio, Berlusconi non dà segni di cedimento e continua a dire che, se dovesse dimettersi, l’Italia subirebbe un “grosso danno”.

Il suo futuro politico, però, sembra or-mai fuori controllo e la possibilità di mante-nere la maggioranza è tutta nelle mani di Umberto Bossi, leader della Lega nord, e di Gianfranco Fini, l’ex alleato che il 7 novem-bre farà un altro passo verso la costruzione di un nuovo partito. Le eventuali elezioni anticipate potrebbero avvantaggiare la for-mazione populista di Bossi, molto radicata nel nord del paese. Anche se Bossi, a dife-renza di quando fece cadere il primo gover-no di Berlusconi nel 1994, sostiene che sta-volta non toglierà il suo appoggio al pre-mier.

In questi giorni Gianfranco Fini si è limi-tato a dire che se le accuse contro Berlusco-ni dovessero essere provate, il premier do-vrebbe dimettersi. Questa moderazione si spiega con il fatto che Fini non è ancora pronto per le elezioni. Berlusconi, intanto, continua a dichiarare il suo “amore per la vita e per le donne”. u sdf

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Lluís Foix,La Vanguardia, Spagna

L’opinione

Secondo i sondaggi, gli italiani continuano ad avere iducia in Silvio Berlusconi nonostante

gli scandali giudiziari, politici e ses-suali. L’unica spiegazione possibile è che i cittadini considerano le alter-native all’attuale governo ancora meno aidabili dell’uomo più ricco d’Italia, che controlla buona parte dei mezzi d’informazione ed è il pre-mier più longevo del dopoguerra. Il caso italiano segnala una tendenza difusa ormai in tutta Europa. Dalla Svezia a Malta, passando per la Gran Bretagna e la Polonia, i conservatori governano con delle opposizioni fra-gili. E i sondaggi dicono che anche la Spagna potrebbe prendere presto la stessa strada.

Inoltre, il successo dei repubbli-cani statunitensi nelle elezioni di metà mandato ha spento deinitiva-mente l’euforia dei democratici per la vittoria di obama nel 2008. Men-tre le sinistre lottano per ritrovare la loro identità e superare la crisi di lea dership che accompagna ogni sconitta elettorale, i conservatori impongono drastiche politiche di aggiustamento senza creare i posti di lavoro necessari per ridurre le dif-ferenze sociali.

Nicolas Sarkozy e Angela Merkel hanno ricevuto il pieno sostegno dei loro colleghi europei per cambiare il trattato di Lisbona, mentre Came-ron ha annunciato dei tagli che cau-seranno inevitabilmente malessere sociale. La sinistra non ha un pro-gramma alternativo. Per questo dor-me all’opposizione, senza una linea chiara e senza leader, in cerca di un elettorato operaio che ormai non esiste più. È in pericolo l’equilibrio europeo, quello delle idee e quello della politica. u sb

Dov’è initala sinistra

Roma, febbraio 2009

Visti dagli altri

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Domingo Jr. Comia, 32 anni, è originario delle Filippine e vive a Milano con la moglie e i due igli. È arrivato nel 2001. Ora lavora come pizzaiolo. A Manila faceva l’impiegato. La co-sa che odia di più degli italiani è l’atteggiamento di superiorità verso gli stranieri. La politica non lo interessa, ma vorrebbe dal governo un sostegno maggiore per gli immigrati.

Volti nuovi

Bologna

Laila Wadia

Trieste

A Trieste è cambiata la musica. In base a un’ordinanza del sindaco Roberto Dipiazza, dal 14 ottobre è

vietato l’accesso al centro storico per gli artisti di strada. Multe salate e sequestro degli strumenti per chi sgarra. Ma il 23 ot-tobre tutti quelli in disaccordo con quello che il giornalista Paolo Rumiz ha deinito “un editto medioevale” si sono dati ap-puntamento in piazza Cavana per difen-dere i musicisti. L’ordinanza voluta dall’assessore alla sicurezza Enrico Sbri-glia colpisce tutti indistintamente, sia i musicisti veri sia quelli improvvisati e mo-lesti. Il provvedimento dice che agli artisti “particolarmente qualiicati” verrà rila-sciato un permesso. Alice, della Coroneo Salvation Army Band, si chiede però chi sarà a decidere nel merito e se conterà an-che l’etnia o l’aspetto isico.

Juraj Berky, violinista slovacco del Trio Berky, accusa i trombettisti e isarmonici-sti stranieri senza arte né parte, che secon-do lui hanno messo tutti nei guai. “Se an-dassi a chiedere il permesso non me lo da-rebbero. Il mio gruppo ha prodotto otto cd e suonato in centinaia di matrimoni, ma non ho fatto il conservatorio. E poi sono rom. Se uno nasce rom, resta uno zingaro, indipendentemente da quello che fa”. So-no le sette di sera e nonostante l’atmosfera allegra non gira neanche una goccia d’al-col. Quindi la tesi dell’assessore, secondo cui la musica di strada provoca “compor-tamenti che possono causare scadimento della qualità della vita”, fa acqua da tutte le parti. Il isarmonicista Fabio Zoratti tro-va più fastidiosa la musica ossessiva di certi bar. Ricorda una coppia di anziani che una mattina si fermò a sentirlo suona-re un valzer. “È la prima canzone che ab-biamo ballato quando è inita la guerra. Grazie per la poesia”, gli hanno detto. “La città perderà un po’ di poesia”, dice Fabio. “Ma forse non è tempo per la poesia.” u

Laila Wadia è nata a Mumbai e vive a Trie-ste, dove lavora all’università ([email protected]).

Il centro storico non balla più

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Prende piede un’iniziativa che aiuta i nomadi a tornare in patria grazie a progetti imprenditoriali

Un percorso per i rom

Francisca Rojas

Il progetto per il Rientro operativo im-prenditoriale (Roi) è un’iniziativa portata avanti dalla cooperativa so-

ciale Piccola carovana e sostenuto dal co-mune di Bologna. L’idea, nata dalla colla-borazione con alcune famiglie rom, ha come obiettivo la transizione dalla preca-rietà abitativa e lavorativa alla stabilità e all’inserimento sociale.

Per ognuno dei beneiciari del pro-gramma viene studiato un percorso indi-viduale per tornare nel paese di prove-nienza sfruttando le proprie competenze professionali.

Gli operatori sottolineano l’importan-za di non considerare il rientro come un fallimento ma come una scelta. Il proget-to prevede tappe precise: prima lo stan-

ziamento di un fondo, poi un prestito con accordi di collaborazione con imprese ed enti romeni e quindi l’avvio di attività im-prenditoriali, soprattutto agricole a ge-stione familiare. nel progetto sono coin-volte anche le associazioni dei paesi d’origine, come l’ong romena di ispirazio-ne cristiana vasiliada, che aiutano le fa-miglie nel loro percorso.

Rosmalin Gheorghe, insieme alla sua famiglia, ha colto questa opportunità. Da Targu-Jiu, in Romania, Gheorghe raccon-ta di aver già comprato, con un suo amico falegname, metà degli attrezzi per l’avvio di una falegnameria. E che, appena arri-veranno i prossimi contributi, comincerà l’attività. È convinto di farcela e dice che per lui la cosa più importante è essere tor-nato a casa. Per questo ha consigliato a molti suoi amici romeni di fare la stessa scelta. u

Francisca Rojas è una scrittrice nata a Santiago del Cile. Vive a Bologna da tredici anni ([email protected]).

Italieni

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Le opinioni

Il premier Wen Jiabao è diverso dagli altri leader cinesi. Quasi tutti i dirigenti comunisti manca-no di personalità e di stile e sembrano dei cloni prodotti in laboratorio. Invece Wen Jiabao, al-meno dal 2007, ha cominciato a distinguersi. Nel corso del suo primo mandato da premier si

è comportato come il tipico tecnocrate prudente e la-voratore. Ma all’inizio del secondo mandato il suo mo-do di presentarsi in pubblico e i suoi discorsi sono cam-biati. Il primo segno di questo cambia-mento c’è stato nel marzo del 2007: du-rante una conferenza stampa Wen ha dichiarato che “la scienza, la democra-zia, lo stato di diritto, la libertà e i diritti umani non sono sfere di esclusiva com-petenza del capitalismo, ma valori con-divisi che l’umanità persegue da sempre nella sua lunga storia, e prodotti di una civiltà comune”.

Per capire quanto siano innovative queste afermazioni basta pensare al fat-to che il primo riformatore della Cina, Deng Xiaoping – che lanciò una coraggiosa rivoluzione economica –, fu sempre contrario a qualsiasi apertura democratica. Wen invece, includendo la “democrazia” nel suo elenco di “valori condivisi”, è sembrato abban-donare le posizioni tradizionali dei massimi dirigenti cinesi. Ecco perché le sue parole, agli occhi degli intel-lettuali progressisti, sono sembrate perino sovversive rispetto all’ortodossia.

Wen Jiabao non si è fermato qui. Ha anche dichia-rato che “bisogna permettere alle persone di vivere dignitosamente”, e ha dato la seguente deinizione di dignità: “Primo, ogni cittadino deve godere dei diritti e delle libertà garantiti dalla costituzione: tutti sono uguali di fronte alla legge. Secondo, il ine unico e su-premo dello sviluppo è soddisfare le crescenti esigenze materiali e culturali del popolo. Terzo, lo sviluppo della società deve avere come presupposto lo sviluppo dell’individuo. Dobbiamo cioè aiutare le persone a svi-lupparsi liberamente e pienamente, lasciando che i loro talenti e le loro capacità entrino in competizione e ioriscano”. E ha detto con forza che la chiave di ogni riforma è limitare i poteri dello stato, che la Cina deve costruire una società equa e giusta, e che lo stato di di-ritto deve essere indipendente dal potere politico. Nel 2009, alla vigilia del trentesimo anniversario della “zo-na a economia speciale” di Shenzhen, ha detto che le riforme politiche sono indispensabili se la Cina vuole evitare che il suo sviluppo inisca in un “vicolo cieco”.

A questo punto vale la pena di sottolineare che in Cina ci sono due modi diversi di vedere le riforme po-

litiche. Le autorità tendono a interpretare quest’espres-sione in modo molto restrittivo, cioè come provvedi-menti per aumentare la “vitalità” del Partito comuni-sta e aiutarlo a “migliorarsi”. Se una riforma non tende a raforzare il partito signiica che “mette in discussio-ne il potere dello stato” e va quindi repressa senza pie-tà. Invece per gli intellettuali cinesi le riforme esigono che il partito restituisca il potere alla società: al popolo, a un potere giudiziario indipendente, alla libertà di pa-

rola. E se questo può provocare il rove-sciamento del partito, poco importa: è una naturale conseguenza del processo democratico. Fin dal 2007 Wen Jiabao cerca di conciliare queste due concezio-ni opposte, mostrando però una certa preferenza per la seconda. Perché ha scelto questa strada? E come può percor-rerla senza subirne le conseguenze? Wen sa che non ci saranno progressi politici reali prima della ine del suo mandato. Vuole solo che le generazioni future lo ricordino come un leader riformatore.

Quindi è probabile che prima della scadenza del suo mandato, nel 2012, gli sentiremo fare dichiarazioni an-cora più esplicite.

In realtà, il processo di selezione della classe politi-ca cinese ha fatto notevoli passi avanti rispetto all’epo-ca in cui gli anziani del partito si sceglievano i succes-sori. Oggi il politburo trae la sua legittimazione dalle elezioni del congresso nazionale del popolo, cioè il par-lamento cinese. Perciò i leader, anche quando perdono il favore dell’élite al potere, non possono essere desti-tuiti da un giorno all’altro. La riunione del comitato centrale del congresso nazionale del popolo a ottobre, in cui Xi Jinping è diventato uno dei vicepresidenti del-la commissione militare centrale (e quindi il probabile successore del presidente Hu Jintao) rispecchia il fatto che in Cina i processi politici decisivi sono ancora tutti interni al partito, ma sono ormai caratterizzati da una maggiore competizione e responsabilizzazione dei po-litici, e questo è un passo avanti importante, uno spira-glio di democrazia.

Oggi le ambizioni della Cina non dipendono più da un unico leader politico, che si chiami Hu Jintao o Xi Jingping. Per assicurare il progresso del paese, l’élite al potere deve comprendere che la strada in qui percorsa è ormai chiusa e che serve una svolta. Questa transizio-ne verso le riforme avrà bisogno non solo di princìpi guida, ma anche di un grande capitale sociale, e sarà lunga e diicile. Forse un giorno Wen Jiabao vedrà rico-nosciuto il suo ruolo di pioniere delle riforme. Sarà la storia a giudicarlo. u ma

Il coraggiodi Wen Jiabao

Li Datong

LI DATONG è un giornalista cinese. Ha scritto questo articolo per Open democracy. Vive a Pechino.

Nel suo primo mandato da premier cinese, Wen Jiabao si è comportato come il tipico tecnocrate prudente e lavoratore. Ma negli ultimi anni i suoi discorsi sono cambiati

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Le opinioni

Doveva succedere. Da tempo ormai i governi sono preoccupati perché non hanno il controllo dell’informa-zione su internet. Erano già infasti-diti dalla libertà di stampa, ma ave-vano imparato a convivere con i

mezzi di comunicazione tradizionali. Invece la rete, popolata da fonti d’informazione indipendenti, è una minaccia mortale alla possibilità su cui si è sempre fon-dato il potere: mettere a tacere le verità scomode. Forse non ve ne siete ancora accorti, ma chi ci governa ha mano libera per rubare e concedersi amnistie, come in Francia o in Italia, o per massacrare migliaia di civili e torturare, come gli Sta-ti Uniti in Iraq e in Afghanistan. Ecco perché le élite politiche e giornalistiche sono in allarme per le centinaia di mi-gliaia di documenti pubblicati da Wikile-aks che incriminano gli Stati Uniti e altri paesi. Wikileaks è un sito creato nel 2007 e gestito da una fondazione senza scopo di lucro con sede legale in Germania ma che opera dal-la Svezia. Ha cinque dipendenti issi, circa 800 collabo-ratori occasionali e centinaia di volontari in tutto il mondo, giornalisti, informatici, ingegneri e avvocati, per difendersi dai suoi molti nemici.

Il suo budget annuale è di circa 300 milioni di euro, provenienti da donazioni spesso riservate ma anche da mezzi d’informazione come l’Associated Press. Wiki-leaks è stato fondato da dissidenti cinesi con appoggi nelle aziende tecnologiche di Taiwan, a cui nel tempo si sono uniti gli attivisti di internet e i difensori della comunicazione libera, riuniti per una stessa causa glo-bale: ottenere e difondere le informazioni più segrete che governi, multinazionali e talvolta i mezzi di comu-nicazione stessi tengono nascoste ai cittadini.

La maggior parte delle informazioni arriva, di solito via internet, attraverso messaggi criptati con una tec-nologia molto avanzata messa a disposizione di chi vuole inviare dei documenti seguendo i consigli del sito.

Nonostante l’assedio a cui è stato sottoposto in da-gli inizi, Wikileaks ha continuato a denunciare corru-zione, abusi, torture e massacri in tutto il mondo, dai furti commessi dal presidente del Kenya al riciclaggio del denaro sporco in Svizzera alle atrocità nelle guerre degli Stati Uniti. Ha ricevuto vari premi internazionali per il suo lavoro, anche dall’Economist e da Amnesty international. Ed è proprio il suo crescente prestigio a preoccupare i piani alti del potere. Perché la linea di difesa contro i siti indipendenti è negare la loro credi-

bilità. Ma i 70mila documenti pubblicati a luglio sulla guerra in Afghanistan o i 400mila sull’Iraq appena dif-fusi sono originali e provengono per lo più da soldati statunitensi o da rapporti militari strettamente riserva-ti. Wikileaks ha un sistema di controllo delle informa-zioni che prevede anche l’invio di giornalisti in Iraq per intervistare i sopravvissuti e consultare i documenti. In efetti le principali critiche a Wikileaks non riguardano l’autenticità delle sue informazioni ma la difusione di

notizie che potrebbero mettere in peri-colo la sicurezza dei militari e dei civili. La risposta di Wikileaks è stata cancella-re nomi e altri segni di identiicazione e difondere lo stesso i documenti, ma in modo da non far correre rischi inutili a chi è coinvolto in operazioni ancora in corso. Hillary Clinton ha condannato la pubblicazione dei documenti, senza par-lare però del fatto che erano state nasco-ste le uccisioni di migliaia di civili e mol-ti episodi di tortura. Nick Clegg, il vice-primo ministro britannico, ha censurato

il metodo usato da Wikileaks, ma almeno ha chiesto di aprire un’inchiesta sui fatti denunciati.

La cosa più assurda è che alcuni mezzi d’informa-zione stanno partecipando all’aggressione dei servizi di intelligence contro Julian Assange, il direttore di Wi-kileaks. Fox News si è pronunciata a favore del suo as-sassinio. Senza spingersi così lontano anche John Burns, sul New York Times, ha attaccato Assange. È ironico che a farlo sia proprio Burns, collega e amico della giornalista Judith Miller, che scrisse un falso scoop sulla scoperta delle armi di distruzione di massa in Iraq (raccontato nel ilm Green zone). È la più antica tattica usata dai mezzi d’informazione: far dimenticare il messaggio attaccando il messaggero. Lo fece Nixon nel 1971 con Daniel Ellsberg, l’uomo che pubblicò i fa-mosi documenti del Pentagono sui crimini in Vietnam facendo cambiare idea all’opinione pubblica sulla guerra. Per questo Ellsberg accompagna Assange alle conferenze stampa. L’australiano Assange, un perso-naggio da romanzo, è stato un hacker militante, da sempre impegnato in politica. Ora è in semiclandesti-nità, viaggia da un paese all’altro, vive negli aeroporti ed evita i paesi in cui si cercano pretesti per arrestarlo.

Il dramma è appena all’inizio. Un’organizzazione per la libera informazione, basata sul lavoro volontario di giornalisti ed esperti di tecnologia, che riceve da fon-ti anonime i segreti di un mondo corrotto, facendo ar-rabbiare quelli che non si vergognano dei loro crimini ma temono che arrivino alle orecchie di chi li ha eletti e li paga. Questa storia non inisce qui. u sb

Wikileaks fa pauraai potenti

Manuel Castells

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CASTELLS è un sociologo spagnolo che insegna all’University of Southern California. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Comunicazione e

potere (Università Bocconi editore 2009).

La cosa più assurda è che alcuni mezzi d’informazione stanno partecipando all’attacco dei servizi di intelligence contro Julian Assange, il direttore di Wikileaks

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Scienza

Sara Thomas Monopoli aspet-tava il primo iglio quando i medici capirono che sarebbe morta. Tutto era cominciato con una brutta tosse e un do-lore alla schiena. Poi una ra-

diograia toracica evidenziò che il suo pol-mone sinistro era collassato e che aveva il petto pieno di liquido. Con un lungo ago ne prelevarono un campione e lo mandarono ad analizzare. Non era un’infezione, come tutti pensavano, ma un tumore ai polmoni, e si era esteso ino ai margini della parete toracica. Sara era alla trentanovesima set-timana di gravidanza, e l’ostetrica che ave-va richiesto il test le diede la notizia mentre era insieme al marito e ai genitori. Sara era impietrita. La madre, che aveva perso la sua migliore amica per un tumore al pol-mone, scoppiò a piangere.

I medici volevano cominciare subito la terapia, e questo signiicava indurre il tra-vaglio per far nascere il bambino. Sara e il marito, Rich, se ne stavano seduti da soli in una terrazza silenziosa davanti alla sala parto. Era un caldo lunedì del giugno 2007. Sara prese la mano di Rich e insieme cerca-rono di mettere a fuoco quello che avevano saputo. Sara aveva 34 anni. Non aveva mai fumato e non aveva mai vissuto con dei fu-matori. Faceva attività isica, aveva un’ali-mentazione sana. “Andrà tutto bene”, le disse Rich. “Ce la faremo. Sarà dura, certo, ma troveremo un sistema. Dobbiamo tro-vare la terapia giusta”. Ora bisognava pen-

Il tempo di morireAtul Gawande, The New Yorker, Stati Uniti

Che deve fare un medico quando non c’è più niente da fare? La medicina moderna dispone di cure molto eicaci per prolungare la vita delle persone. Ma non sa afrontare la loro morte, scrive Atul Gawande

sare al bambino. “Ci guardammo”, ricorda Rich, “e prendemmo una decisione: ‘Oggi non c’è nessun tumore. In questo giorno il cancro non esiste. Sta per nascere nostra iglia. È un’emozione grandissima. E vo-gliamo goderci il nostro bambino’”. Quel giorno, alle 20 e 55, nacque Vivian Mono-poli. Pesava quasi tre chili e mezzo, aveva i capelli castani e ondulati come la mamma ed era perfettamente sana.

Il giorno dopo Sara fece le analisi del sangue e la tac. Il dottor Paul Marcoux, un oncologo, analizzò i risultati con lei e la sua famiglia. Spiegò che aveva un tumore del polmone a piccole cellule che era partito dal polmone sinistro e non era stato provo-cato da nulla che lei avesse fatto. Era a uno stadio avanzato e aveva metastasi in vari linfonodi del torace. Il tumore non era ope-rabile, ma c’erano diverse chemioterapie possibili, in particolare un nuovo farmaco, il Tarceva, che agisce su una mutazione ge-

netica piuttosto frequente nel tumore al polmone delle donne non fumatrici. L’85 per cento dei pazienti risponde a questo farmaco e, aggiunse Marcoux, “alcune ri-sposte possono essere a lungo termine”.

Espressioni come “risposta” e “a lungo termine” servono a nascondere sotto una patina rassicurante una realtà atroce. Non esiste una cura per il tumore ai polmoni a quello stadio. Anche con la chemioterapia, i pazienti sopravvivono in media circa un anno. Ma in quel momento sembrava cru-dele e inutile mettere Sara e Rich di fronte a questa realtà. Vivian era in una culla di vimini accanto al letto. Si stavano sforzan-do di essere ottimisti.

Sara cominciò la terapia con il Tarceva, che le fece venire uno sfogo pruriginoso simile all’acne e una stanchezza mortale. Si sottopose anche a un intervento chirurgico per drenare il liquido intorno al polmone. Ma il liquido continuava a formarsi, così alla ine le inserirono nel torace un piccolo tubo permanente che drenava il luido ogni volta che si accumulava impedendole di respirare. Tre settimane dopo il parto, Sara fu ricoverata per una grave insuicienza respiratoria causata da un’embolia polmo-nare: un grumo di sangue in un’arteria che va ai polmoni, una complicanza piuttosto frequente nei malati di cancro. Cominciò una cura con un anticoagulante. Poi dalle analisi emerse che le sue cellule tumorali non avevano la mutazione su cui agisce il Tarceva. Quando Marcoux le disse che il

Sara adorava fare la madre. Tra un ciclo e l’altro di chemio, cercava di rimettere insieme la sua vita. Si sforzava di reagire con pazienza alle ricadute

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farmaco non avrebbe funzionato, Sara eb-be un improvviso attacco di diarrea e do-vette interrompere la conversazione per correre in bagno.

Il dottor Marcoux prescrisse una che-mioterapia più tradizionale, a base di due farmaci, il carboplatino e paclitaxel. Ma il paclitaxel scatenò una reazione allergica molto violenta, quasi letale, così Sara passò a un regime di carboplatino più gemcitabi-na. Le percentuali di risposta, spiegò il dot-tore, erano ancora ottime nei pazienti sot-toposti a questa terapia. Sara passò il resto dell’estate a casa, con Vivian, il marito e i genitori, che si erano trasferiti da lei per

aiutarla. Adorava fare la madre. Tra un ci-clo e l’altro di chemio, cercava di rimettere insieme la sua vita. Poi, a ottobre, una tac mostrò che le aree tumorali nel polmone sinistro, nel torace e nei linfonodi erano sensibilmente cresciute. La chemioterapia non aveva funzionato. Si passò a un altro farmaco, il pemetrexed, che secondo alcu-ni studi può assicurare una sopravvivenza anche più lunga in determinati casi. Ma in media questo farmaco allunga la vita di so-li due mesi, e solo nei pazienti che, a dife-renza di Sara, rispondono alla chemiotera-pia di prima linea.

Sara si sforzava di reagire con pazienza

alle ricadute e agli efetti collaterali. Era una persona positiva e riusciva a conserva-re l’ottimismo. Poco a poco, tuttavia, le sue condizioni si aggravarono: era sempre più afaticata e aveva diicoltà a respirare. A novembre non riusciva più ad andare a pie-di dal parcheggio allo studio di Marcoux. Rich doveva spingerla nella sedia a rotelle.

Qualche giorno prima della festa del Ringraziamento le fecero un’altra tac e fu chiaro che non funzionava neppure il pe-metrexed. Il tumore si era esteso dalla sini-stra alla destra del torace e aveva raggiunto il fegato, il peritoneo e la colonna vertebra-le. Il tempo si stava esaurendo. Questo è il

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momento della storia di Sara che pone un interrogativo fondamentale nell’era della medicina moderna: cosa devono fare ora Sara e i suoi medici? E se foste voi ad avere un tumore metastatico, cosa vorreste che facessero i vostri medici?

La questione è diventata pressante, ne-gli ultimi anni, per ragioni di spesa. Negli Stati Uniti l’aumento dei costi dell’assisten-za sanitaria è la minaccia più grave alla sol-vibilità a lungo termine del paese, e la cura dei malati terminali ne è in buona parte re-sponsabile. Il 25 per cento di tutta la spesa di Medicare è assorbita dal 5 per cento di pazienti che stanno vivendo il loro ultimo anno di vita, e una buona fetta di quei soldi è destinata agli ultimi due mesi, apparen-temente con scarsi beneici.

Lasciar andareNei casi di cancro, la spesa tende a seguire uno schema particolare. I costi sono alti all’inizio del trattamento e poi, se tutto va bene, si riducono. Nel 2003, per esempio, le cure per una donna guarita dal tumore al seno costavano in media 54mila dollari, spesi in gran parte per le analisi diagnosti-che iniziali, l’intervento chirurgico e, se necessario, le radiazioni e la chemiotera-pia. Ma se la malattia ha un esito fatale, la curva dei costi è a forma di U, perché sale di nuovo nell’ultimo periodo, per una media di 63mila dollari negli ultimi sei mesi di vita nel caso di un tumore al seno incurabile. Il sistema sanitario statunitense è eicientis-simo quando cerca di allontanare la morte con una chemioterapia da ottomila dollari al mese o una terapia intensiva da tremila dollari al giorno. Ma alla ine la morte arri-va comunque, e nessuno sa bene quando fermarsi.

L’argomento sta emergendo a livello nazionale soprattutto come una questione di chi dovrebbe “vincere” quando vengono prese le decisioni più costose: gli assicura-tori e i contribuenti che pagano il conto o il paziente che combatte per la sua vita? I fal-chi del bilancio fanno notare che non ci si può permettere tutto. I demagoghi agitano i fantasmi dei razionamenti e fanno para-goni con le commissioni della morte. I pu-risti del mercato danno la colpa alle assicu-razioni: se i pazienti pagassero di tasca loro, dicono, il prezzo delle terapie scenderebbe. Ma il punto è un altro. Per capire perché il sistema sanitario non è capace di gestire in modo eicace i malati terminali, dobbiamo osservare da vicino come vengono prese le decisioni terapeutiche.

Qualche settimana fa, visitando un pa-ziente ricoverato in una unità di terapia in-

tensiva del mio ospedale, mi sono fermato a parlare con la dottoressa di turno, che co-nosco dai tempi del college. “Dirigo un de-posito per i moribondi”, mi ha detto tetra. Dei dieci pazienti ricoverati nella sua unità, solo due avevano qualche probabilità di la-sciare l’ospedale per un periodo ragione-volmente lungo. Un esempio tipico era una donna di quasi ottant’anni afetta da scom-penso cardiaco congestizio, in terapia in-tensiva per la seconda volta in tre settima-ne, stordita dai farmaci e con tubi in gran parte degli oriizi naturali più alcuni artii-ciali. Oppure la settantenne con un tumore e metastasi ai polmoni e alle ossa, e una polmonite fungina che si manifesta solo nella fase terminale della malattia. Aveva deciso di rinunciare alla terapia, ma l’onco-logo le aveva fatto cambiare idea ed era stata attaccata a un ventilatore e messa sot-to antibiotici. Un’altra donna di più di ottant’anni, con un’insui-cienza respiratoria e renale in fase terminale, era ricoverata nell’unità da due settimane. Il marito era morto dopo una lunga malattia, con un tubo per l’alimentazione e una tracheotomia, e lei aveva detto di non voler morire in quel modo. Ma i igli non si decidevano a lasciarla andare, e avevano chiesto di tentare diverse procedure: una tracheotomia permanente, un tubo per l’alimentazione più un catetere venoso centrale per la dialisi. Ora giaceva incate-nata alle sue pompe, in uno stato di semi-coscienza.

Quasi tutti questi pazienti sapevano da tempo di essere malati terminali. Eppure non erano preparati alla fase inale, e non lo erano nemmeno le famiglie e i medici. “Oggi ci occupiamo molto di più di quello che i pazienti vogliono per la ine della loro vita”, mi ha detto la mia amica. “Ma lo fac-ciamo comunque troppo tardi”. Nel 2008 il progetto nazionale Coping with cancer ha pubblicato uno studio in cui dimostra che i pazienti in fase terminale che venivano messi sotto ventilazione meccanica, sotto-posti a deibrillazione elettrica e compres-

sioni toraciche o ricoverati nelle unità di terapia intensiva, nell’ultima settimana avevano una qualità di vita molto peggiore rispetto a chi non riceveva questi tratta-menti. E sei mesi dopo la morte, le persone che li avevano assistiti correvano un rischio tre volte maggiore di cadere in una grave depressione. Per molti malati terminali, passare gli ultimi giorni in un’unità di tera-pia intensiva è una sorta di fallimento. Se ne stanno lì attaccati a un ventilatore, men-tre gli organi cedono uno dopo l’altro e la mente vacilla sull’orlo del delirio, e non si rendono neanche conto che non lasceran-no mai quel luogo estraneo e luorescente. La ine arriva e non possono neppure salu-tare i propri cari, dire “Non importa”, “Mi dispiace” o “Ti voglio bene”.

Le persone hanno altre preoccupazioni oltre a quella di prolungare la loro vita. Gli studi sui malati terminali dimostrano che non vogliono solo evitare le soferenze, ma anche stare insieme alla famiglia, sentire il contatto degli altri, rimanere lucidi e non essere un peso per chi gli sta vicino. Il siste-ma sanitario statunitense è totalmente in-capace di soddisfare questi bisogni, e il prezzo di questa incapacità non può essere misurato solo in dollari. La cosa più diicile non è come rendere economicamente so-stenibile il sistema: è costruire un’assisten-za sanitaria che aiuti i pazienti moribondi a

ottenere ciò che è più importante per loro alla ine della vita.

Fino a non molto tempo fa, morire era un processo rapido. Che la causa fosse un’infezione, un parto diicile, un infarto o una

polmonite, spesso l’intervallo di tempo tra la diagnosi di una malattia mortale e la morte stessa era questione di giorni o setti-mane. Oggi, invece, le malattie brevi con esiti fatali sono l’eccezione. Per la maggior parte di noi, la morte arriva dopo un lungo corpo a corpo medico con una condizione incurabile: tumore avanzato, insuicienza progressiva di un organo o tutte le debilita-zioni della vecchiaia. In tutti questi casi, la morte è certa, ma i tempi no. E tutti lottano con questa incertezza: come e quando ac-cettare che la battaglia è persa.

Questione di prioritàUn venerdì mattina decido di andare a fare il giro dei pazienti insieme a Sarah Creed, un’infermiera specializzata dell’hospice ge-stito dal nostro ospedale. Non lo conosco bene, so solo che si occupa di fornire la te-rapia del dolore e cure palliative ai malati terminali, per lo più a casa loro. Il nome mi fa pensare a una lebo di morina, invece mi

Per la maggior parte di noi, la morte arriva dopo un lungo corpo a corpo medico con una condizione incurabile. La morte è certa, ma i tempi no

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ritrovo con un’infermiera dagli occhi az-zurri a bussare alla porta di Lee Cox in una stradina silenziosa del quartiere Mattapan, a Boston.

“Salve, Lee”, dice Creed entrando in casa. “Ciao, Sarah”, risponde la signora Cox. Ha 72 anni e la sua salute è peggiorata già da qualche anno per uno scompenso cardiaco congestizio provocato da un infar-to e dalla ibrosi polmonare, una malattia dei polmoni progressiva e irreversibile. I medici hanno cercato di rallentare il decor-so con gli steroidi, ma la cura non ha fun-zionato. Lei ha continuato a entrare e usci-re dall’ospedale in bicicletta, ogni volta in

condizioni peggiori. Alla ine ha accettato il ricovero in una struttura di assistenza esterna e si è trasferita lì insieme a una ni-pote. La sua vita dipende dall’ossigeno e non è in grado di svolgere le più semplici attività quotidiane.

Mentre andiamo a sederci in cucina, Sarah prende gentilmente Lee sotto un braccio e le chiede come si sente. Poi le fa una serie di domande sui problemi che in-sorgono più spesso nei malati terminali. Ha dolori? Come va con l’appetito, la sete e il sonno? Problemi di confusione, ansia o ir-requietezza? Le diicoltà respiratorie sono peggiorate? Ha dolore toracico o palpita-

zioni? Disturbi addominali, fastidi intesti-nali o problemi a urinare e camminare?

In efetti Lee ha dei nuovi problemi. Quando va dalla stanza da letto al bagno, ci mette almeno cinque minuti a riprendere iato. Le fa male il torace. Creed prende dalla borsa lo stetoscopio e l’apparecchio per misurare la pressione. La pressione è accettabile, ma la frequenza cardiaca è al-ta. Le ausculta il cuore, che ha un ritmo normale, e i polmoni, sentendo il sottile crepitio della ibrosi ma anche un sibilo che prima non c’era. Le caviglie sono gonie, e quando le chiede la scatola delle pillole si accorge che Lee ha inito le medicine per il

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cuore. Poi esamina l’apparecchio dell’ossi-geno. La bombola ai piedi del letto è piena e funziona, ma il nebulizzatore per le inala-zioni è rotto.

Considerando che non ha preso le me-dicine per il cuore e non ha fatto le inalazio-ni, è normale che sia peggiorata. Creed chiama la farmacia per confermare che oc-corre un altro rifornimento, e prende ac-cordi con la nipote di Lee perché passi a ri-tirare le medicine. Subito dopo chiama il fornitore del nebulizzatore perché venga in giornata. Poi si trattiene in cucina a chiac-chierare per qualche minuto con la pazien-te. Lee ha il morale a terra. Sarah la prende per mano. Le dice che andrà tutto bene. Le ricorda le belle giornate che ha vissuto: il ine settimana precedente, per esempio, quando è andata a fare spese con la nipote e si è fatta tingere i capelli.

Quando usciamo, le confesso che mi sento confuso. Ho l’impressione che Sarah si stia dando da fare per prolungare la vita di Creed. L’obiettivo dell’hospice non è la-sciare che la natura segua il suo corso? “No, l’obiettivo non è questo”, mi risponde. La diferenza tra l’assistenza medica tradizio-nale e l’hospice non è che una cura e l’altro no. La diferenza è nelle priorità. Nella me-dicina tradizionale l’obiettivo è prolungare la vita. Sacriichiamo la qualità della vita ora – con interventi chirurgici, chemiotera-pia e terapia intensiva – nella speranza di guadagnare tempo in seguito. L’hospice si avvale di infermieri, medici e assistenti so-ciali per aiutare i malati terminali a vivere un’esistenza più piena possibile subito: cer-ca di combattere il dolore, di mantenere la lucidità mentale dei pazienti, di farli uscire con la famiglia ogni tanto. L’hospice e gli specialisti di cure palliative non si chiedo-no se tutto questo può allungare la vita dei pazienti.

Come molti medici, anch’io credevo che l’hospice afrettasse la morte, perché i pazienti rinunciano ai trattamenti ospeda-lieri e assumono forti dosi di narcotici con-tro il dolore. Ma i dati smentiscono questa tesi. Uno studio ha seguito 4.493 pazienti con tumore terminale o uno scompenso cardiaco congestizio. E non ha rilevato dif-ferenze nella sopravvivenza dei pazienti con tumore alla mammella, alla prostata e al colon. Anzi, l’hospice sembra allungare la vita di alcuni pazienti: quelli con tumore al pancreas guadagnano una media di tre settimane, quelli con tumore al polmone sei e quelli con scompenso cardiaco conge-stizio tre mesi. La lezione che se ne ricava è quasi zen: si vive più a lungo quando si smette di cercare di vivere più a lungo.

Quando Cox è arrivata all’hospice, i medici pensavano che le restassero poche settima-ne di vita. Grazie alla terapia di sostegno ricevuta in questa struttura, è già vissuta un anno.

Impreparati all’inevitabilePoco prima della festa del Ringraziamento del 2007, Sara Monopoli, il marito Rich e la madre Dawn incontrarono il dottor Mar-coux per discutere le opzioni ancora per-corribili. Sara aveva già tentato tre chemio-terapie, praticamente senza risultati. Forse ora Marcoux avrebbe potuto parlare con lei di cosa desiderava di più, visto che la morte si avvicinava. Ma Sara e la sua famiglia vo-levano discutere solo delle prossime tera-pie possibili. Non volevano parlare della morte.

Qualche settimana fa ho incontrato il marito e i genitori di Sara. Non avevano dubbi: Sara sapeva che la sua malattia era incurabile. La settimana dopo aver partori-to aveva dato indicazioni chiare sull’educa-zione di Vivian dopo la sua morte. In più occasioni aveva ripetuto alla famiglia che non voleva morire in ospedale. Ma che po-tesse morire presto, che non ci fosse modo di rallentare la malattia, “non era un argo-mento che volessimo discutere”, ha detto sua madre.

Il padre Gary e la sorella gemella, Emily, si ostinavano a sperare nella guarigione. Secondo loro i medici non si davano abba-stanza da fare. “Non riuscivo a credere che non ci fossero altre cure”, mi ha detto Gary. Rich era disorientato: “Avevamo una bam-bina, eravamo giovani. Era tutto assurdo e sconvolgente. Non abbiamo mai conside-rato la possibilità di interrompere le cure”.

Marcoux si rese conto della situazione. In quasi vent’anni di esperienza, aveva af-frontato molte conversazioni come questa. È un uomo dall’aria calma e rassicurante che tende a evitare gli scontri o l’eccessiva intimità e si sforza di essere scientiico nel-le decisioni. “So che la maggior parte dei miei pazienti è destinata a morire”, mi ha detto. Ma anche lui ha le sue speranze.

A un certo punto della conversazione Marcoux disse che la “terapia di sostegno” era un’ipotesi da prendere in considerazio-ne. Ma, continuò, c’erano anche terapie sperimentali. La più promettente era un farmaco della Pizer che agiva su una certa mutazione delle cellule tumorali. Sara e la sua famiglia puntarono immediatamente le loro speranze su questa terapia. Il farma-co era così nuovo che non aveva neppure un nome, solo un numero – PF0231006 – e questo lo rendeva ancora più allettante. Ri-manevano alcune questioni da chiarire, in

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particolare il fatto che gli scienziati non avessero ancora messo a punto i dosaggi sicuri. Per di più, un test del farmaco sulle cellule tumorali di Sara non aveva dato nes-sun risultato. Ma Marcoux non li conside-rava ostacoli insormontabili: erano solo fattori negativi. Il punto cruciale era che, in base alle regole della sperimentazione, Sa-ra non poteva sottoporsi al trattamento a causa dell’embolia polmonare comparsa durante l’estate. Avrebbe dovuto aspettare almeno due mesi. Nel frattempo, il medico consigliò di provare un’altra chemioterapia tradizionale, il Navelbine. Sara cominciò la terapia il lunedì dopo la festa del Ringra-ziamento.

Vale la pena di fermarsi un momento per valutare cosa stava succedendo. Passo dopo passo, Sara era arrivata a un quarto regime di chemioterapia, che aveva una minuscola probabilità di alterare il decorso della malattia e un’altissima probabilità di provocare effetti collaterali debilitanti. L’opportunità di prepararsi all’inevitabile era andata perduta. E tutto per una circo-stanza assolutamente normale: una pa-ziente e una famiglia impreparati ad af-frontare la realtà della malattia.

Ho chiesto a Marcoux cosa spera di ot-tenere per i pazienti con un tumore ai pol-moni in fase terminale quando si rivolgono

a lui per la prima volta. “Cerco di capire se riuscirò a strappare uno o due anni di vita abbastanza buona”, mi ha risposto. “Que-ste sono le mie aspettative. Secondo me il massimo che si può ottenere, per una pa-ziente come lei, è da tre a quattro anni.” Ma non è quello che le persone vogliono sentir-si dire.

Il paziente ha sempre ragioneSi potrebbe pensare che i medici siano ben attrezzati per gestire questi casi, ma ci sono almeno due grossi ostacoli. In primo luogo, anche noi possiamo fare valutazioni poco realistiche. Un ricercatore di Harvard, Ni-cholas Christakis, ha chiesto ai medici di quasi 500 malati terminali di prevedere il tempo di sopravvivenza dei loro pazienti, e poi ha seguito l’andamento della malattia. Il 63 per cento dei medici ha sopravvalutato la speranza di vita dei malati. Solo il 17 per cento l’ha sottovalutata. In media le stime dei medici sono del 530 per cento troppo alte. E più i dottori conoscono i pazienti, maggiori sono le probabilità che sbaglino.

L’altro grande ostacolo è che spesso evi-tiamo di dare voce ai sentimenti. Lo dimo-strano diversi studi: anche quando dicono che un tumore è incurabile, i medici evita-no di formulare una prognosi precisa anche se gli viene chiesta. Oltre il 40 per cento

degli oncologi ammette di ofrire tratta-menti che considera poco eicaci. Sempre più spesso oggi il rapporto tra medico e pa-ziente viene deinito, impropriamente, in termini commerciali: “il paziente ha sem-pre ragione”. Perciò i medici cercano in tutti i modi di non deludere le aspettative dei malati. Temono di essere troppo pessi-misti invece che troppo ottimisti. Quando hai un paziente come Sara Monopoli, l’ulti-ma cosa che vuoi fare è afrontare la verità. Lo so perché Marcoux non fu il solo a evita-re questo discorso. Lo feci anch’io.

All’inizio dell’estate, una pet aveva rive-lato che, oltre al cancro ai polmoni, Sara aveva anche un tumore alla tiroide che si era esteso ino ai linfonodi del collo. Fui in-terpellato per decidere se era il caso di ten-tare un’operazione. In efetti questo secon-do tumore, non correlato al primo, era ope-rabile. Ma ci vogliono anni perché un tu-more della tiroide diventi letale. Sara sa-rebbe quasi sicuramente morta per il can-cro ai polmoni prima che quello alla tiroide causasse problemi. Considerando l’entità dell’intervento chirurgico e le possibili conseguenze, la cosa migliore era non fare niente. Spiegare a Sara il mio ragionamen-to, però, signiicava afrontare la gravità del suo tumore ai polmoni, e non mi sentivo pronto a farlo.

Seduta nel mio studio, Sara non sem-brava scoraggiata dalla scoperta di questo secondo cancro. Sembrava molto determi-nata. Aveva letto che il trattamento del tu-more alla tiroide dà buoni risultati ed era pronta a discutere la data dell’operazione. E io fui contagiato dal suo ottimismo. E se avessi torto, mi dissi, e lei si rivelasse il pa-ziente miracoloso che sopravvive a un tu-more del polmone metastatico?

Decisi di evitare completamente l’argo-mento. Dissi a Sara che il tumore alla tiroi-de era lento e curabile. Le spiegai che la priorità era il cancro al polmone e che era meglio non interrompere la terapia. Pote-vamo monitorare il tumore alla tiroide e programmare l’intervento di lì a qualche mese.

La vidi ogni sei settimane, e mi accorsi del suo declino isico da una visita all’altra. Cancro al polmone e chemio facevano a gara nell’aggravare le sue condizioni. Dor-miva gran parte del tempo e non metteva quasi piede fuori di casa. Le annotazioni cliniche di dicembre parlano di mancanza di respiro, conati di vomito, tosse con san-gue e forte afaticamento. Oltre al tubo di drenaggio toracico, ogni settimana o due doveva sottoporsi a un drenaggio dell’ad-dome per alleggerire la forte pressione P

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esercitata dai litri di liquido che si formava-no anche nella cavità addominale. A di-cembre una tac evidenziò che il tumore al polmone si stava estendendo alla colonna vertebrale e al fegato. Quando ci rivedem-mo a gennaio, poteva muoversi solo lenta-mente e con grande fatica. La parte inferio-re del corpo era gonia. Non riusciva a pro-nunciare più di una frase senza fermarsi a riprendere iato. Dalla prima settimana di febbraio ebbe bisogno di una bombola d’ossigeno a casa per respirare. Ma era pas-sato abbastanza tempo dall’embolia pol-monare, e poteva sottoporsi al trattamento con il farmaco sperimentale della Pizer. Aveva solo bisogno di un’altra serie di tac di controllo. E queste analisi rivelarono che il cancro si era esteso al cervello, con almeno nove metastasi in entrambi gli emisferi. Il farmaco sperimentale non era concepito per superare la barriera ematoencefalica. Il PF0231006 non avrebbe funzionato.

La dignità di lottareEppure Sara, i suoi familiari e l’équipe me-dica volevano continuare a combattere. Nel giro di 24 ore le fu issato un appunta-mento con un oncologo specializzato in radioterapia per un trattamento al cervello che avrebbe dovuto ridurre le metastasi. Il 12 febbraio, dopo cinque giorni di radiote-rapia, era totalmente spossata e quasi inca-pace di scendere dal letto. Mangiava poco e niente. Dall’autunno aveva perso 13 chili. Confessò a Rich che negli ultimi due mesi aveva avuto problemi di visione doppia e che non riusciva a sentirsi le mani.

“Perché non l’hai detto?”, le chiese il marito.

“Non volevo interrompere la terapia”, rispose Sara.

Dopo le radiazioni ebbe due settimane per recuperare le forze. Poi le avrebbero somministrato un altro farmaco sperimen-tale di una piccola società di biotecnologia. L’inizio della nuova terapia era previsto per il 25 febbraio. Le sue possibilità stavano ra-pidamente diminuendo. Ma chi poteva di-re che fossero zero?

Nel 1985 lo scrittore e paleontologo Ste-phen Jay Gould pubblicò un saggio straor-dinario intitolato The median isn’t the mes-sage. Tre anni prima gli era stato diagnosti-cato un mesotelioma peritoneale, un tu-more raro e letale che di solito è associato all’esposizione all’amianto. Quando lo sep-pe, Gould andò in una biblioteca medica e tirò fuori gli ultimi articoli scientifici su questa malattia. “La letteratura non poteva essere più brutalmente esplicita: il mesote-lioma è incurabile, con una sopravvivenza

media di soli otto mesi dalla diagnosi”, scrisse. Fu distrutto dalla notizia. Poi co-minciò a guardare i graici delle curve di sopravvivenza dei pazienti.

Gould era un naturalista e tendeva a os-servare le variazioni intorno al punto me-dio della curva piuttosto che il valore me-dio. E quello che vide fu una forte oscilla-zione. I pazienti non erano raggruppati in-torno alla sopravvivenza media, ma si dira-mavano in entrambe le direzioni. Per di più la curva virava a destra, con una coda piut-tosto estesa, anche se sottile, di pazienti che vivevano molto più a lungo della me-diana di otto mesi. Fu questo dato a confor-tarlo. Poteva immaginare di sopravvivere ino all’estremità di quella lunga coda. E andò proprio così. Dopo un intervento chi-rurgico e una chemioterapia sperimentale, visse altri vent’anni prima di morire, nel 2002, a sessant’anni, per un tu-more ai polmoni che non era cor-relato alla malattia originaria.

“È diventato un po’ troppo di moda considerare l’accettazione della morte come un fatto di di-gnità personale”, scrisse nel suo saggio del 1985. “Naturalmente sono d’accordo con l’Ecclesiaste quando dice che c’è un tempo per amare e un tempo per morire – e quan-do i miei giorni staranno per esaurirsi spero di afrontare la ine con calma e a modo mio. Ma nella maggior parte dei casi prefe-risco l’idea più marziale che la morte sia il nemico supremo, e non trovo nulla di ripro-vevole in chi lotta con determinazione per-ché la luce non si spenga”.

Penso a Gould e al suo saggio ogni volta che ho un paziente con una malattia termi-nale. Esiste quasi sempre una lunga coda di possibilità, per quanto sottile. Che c’è di male a cercarla? Nulla, credo, purché non smettiamo di preparare il paziente all’esito più probabile. Il problema è che abbiamo costruito il nostro sistema sanitario e la no-stra cultura intorno alla coda lunga. Abbia-mo creato un apparato multimiliardario per dispensare l’equivalente medico dei biglietti della lotteria, e abbiamo pochi, ru-

dimentali strumenti per preparare i pazien-ti alla probabilità che quei biglietti non sa-ranno vincenti. La speranza non è un pro-getto, eppure è il nostro progetto.

Per Sara non ci sarebbe stata una guari-gione miracolosa, e quando la ine fu più vicina, lei e la sua famiglia non erano pre-parati. “Ho sempre voluto rispettare la sua richiesta di morire in pace a casa”, mi ha raccontato Rich. “Ma non credevo che sa-remmo riusciti ad accontentarla. Non sa-pevo come fare”.

La mattina di venerdì 22 febbraio, tre giorni prima che cominciasse il nuovo ciclo di chemioterapia, Rich si svegliò e vide Sa-ra seduta dritta accanto a lui con le braccia puntate in avanti e gli occhi sbarrati nello sforzo disperato di respirare. Era grigia e ansimava, il corpo si scuoteva a ogni ranto-lo. Sembrava che stesse afogando. Rich cercò di aumentare il lusso di ossigeno, ma non ci furono segni di miglioramento.

“Non ce la faccio”, disse Sara facendo una pausa tra una parola e l’altra. “Ho pau-ra”.

Rich non aveva un kit d’emergenza in frigorifero e neppure un’infermiera a cui telefonare.

“Andiamo in ospedale”, le disse. Quan-do le propose di prendere la macchina, Sara scosse la testa, così chiamò il 911. Spiegò alla madre di Sara, che era nell’altra stanza,

cosa stava succedendo. Qualche minuto dopo l’ambulanza arrivò a sirene spiegate. Mentre carica-vano Sara, la madre si afacciò in lacrime.

“È tutto sotto controllo”, la rassicurò Rich. Era solo un altro viaggio in ospedale, si disse. I medici avrebbero fatto qualcosa.

In ospedale, i dottori diagnosticarono a Sara una polmonite. Le fecero una lebo di antibiotici e le somministrarono ossigeno ad alto lusso. La famiglia si riunì intorno al suo letto, sperando che gli antibiotici fun-zionassero. Poteva essere reversibile, ripe-tevano. Ma quella notte e la mattina se-guente la respirazione di Sara diventò sem-pre più afannosa.

“Non riesco a pensare a niente di bufo da dire”, le disse la sorella gemella, Emily, mentre i genitori le guardavano. “Neanche io”, mormorò Sara. Solo più tardi i familiari si resero conto che quelle erano state le sue ultime parole. Sara cominciò a perdere co-noscenza. L’équipe medica aveva un’unica opzione: attaccarla a un ventilatore. Sara era una combattente, giusto? E per i com-battenti il passo successivo è la terapia in-tensiva.

Crediamo di poter resistere inché i dottori ci diranno che non c’è nient’altro da fare. Ma è diicile che non possano fare proprio niente

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Questa è una tragedia moderna che si ripete milioni di volte. Quando non c’è mo-do di sapere esattamente quanto tempo ci resta – e crediamo di averne molto di più – il nostro impulso è combattere. Il fatto che forse stiamo abbreviando o peggiorando la vita che ci resta è del tutto irrilevante. Cre-diamo di poter resistere fino a quando i dottori ci diranno che non c’è nient’altro da fare. Ma è raro che i dottori non possano fare proprio niente. Possono darci dei far-maci tossici dall’eicacia sconosciuta, ope-rarci per cercare di rimuovere una parte del tumore, inserirci un tubo per l’alimentazio-ne se non riusciamo a mangiare: c’è sem-pre qualcosa. Vogliamo avere tutte queste possibilità. Non vogliamo che qualcuno abbia il potere di limitarle. Ma questo non signiica che siamo impazienti di prendere le decisioni da soli. Di fatto, la maggior par-te delle volte non prendiamo nessuna deci-sione. Ricadiamo nell’opzione di base: bi-sogna fare qualcosa. C’è un modo per usci-re da questa situazione?

Due terzi dei malati terminali di cancro nello studio di Coping with cancer non ave-vano mai parlato con i medici delle priorità per l’ultimo periodo della loro vita, anche se, in media, erano a soli quattro mesi dalla ine. Ma il 30 per cento dei pazienti che ave-va afrontato l’argomento era molto meno

propenso degli altri a sottoporsi a rianima-zione cardiopolmonare, a farsi attaccare a un respiratore o a inire in un reparto di te-rapia intensiva. I due terzi avevano scelto l’hospice. Questi pazienti hanno soferto meno, sono rimasti fisicamente più effi-cienti e hanno potuto interagire meglio e più a lungo con gli altri. Sei mesi dopo la lo-ro morte, inoltre, i familiari hanno avuto molte meno probabilità di cadere in una grave forma depressiva. In altri termini, i pazienti che avevano discusso con i medici curanti le loro preferenze per l’ultimo pe-riodo di vita avevano più speranze di mori-re in pace e di risparmiare angoscia alla lo-ro famiglia. Ma davvero basta un semplice colloquio per ottenere questi risultati?

Saper ascoltareUn sabato mattina dell’inverno scorso ho incontrato una donna che avevo operato la notte prima. Si era sottoposta a un inter-vento per la rimozione di una cisti ovarica, ma durante l’operazione il ginecologo si era accorto che aveva un tumore metasta-tico al colon. Mi avevano chiamato, come chirurgo generale, per vedere cosa si pote-va fare e io avevo rimosso un tratto di colon con una grossa massa cancerosa. Ma il tu-more si era già difuso parecchio. Non ave-vo potuto asportare tutto. Quella mattina

ero andato a conoscerla. Aveva saputo da un medico che le avevano trovato un tumo-re e asportato parte del colon.

Sì, le risposi. Ero riuscito ad asportare “buona parte dell’area interessata”. Le dis-si quanta parte dell’intestino era stata ri-mossa e come sarebbe stata la convale-scenza: tutto, tranne la vera entità del tu-more. Poi mi ricordai di Sara Monopoli, di come ero stato timido con lei e di tutti i me-dici che non parlano chiaro. Così, quando mi chiese di essere più esplicito, le spiegai che il tumore si era esteso non solo alle ova-ie, ma anche ai linfonodi. Le dissi che non era stato possibile rimuovere tutto. “Fare-mo intervenire un oncologo”, mi afrettai ad aggiungere. “La chemioterapia può es-sere molto eicace in questi casi”.

Lei accolse la notizia in silenzio, issan-do le coperte che coprivano il suo corpo ri-belle. Poi mi guardò: “Vuol dire che mori-rò?”. Sussultai: “No, no. Certo che no”.

Qualche giorno dopo ci riprovai. “Non abbiamo ancora una cura”, precisai. “Ma le terapie possono bloccare la malattia per molto tempo”. L’obiettivo, le dissi “è pro-lungare la sua vita” il più possibile.

L’ho rivista più volte nei mesi successi-vi, mentre faceva la chemioterapia. Se la cavava bene. Per il momento il tumore è sotto controllo. Una volta ho chiesto a lei e al marito cosa pensassero della nostra pri-ma conversazione. Non la ricordavano con particolare piacere. “Quella frase che ha usato, ‘prolungare la sua vita’, è un po’…”. Non voleva sembrare critica.

“È stato piuttosto brusco”, ha detto il marito.

“L’ho trovato crudele”, gli ha fatto eco lei. Aveva avuto la sensazione che la stessi gettando in un burrone.

Ho raccontato questo episodio alla dot-toressa Susan Block, una specialista di cure palliative del mio ospedale che ha avuto migliaia di queste conversazioni diicili ed è conosciuta in tutto il paese perché inse-gna ai medici e agli operatori sanitari come gestire i problemi della fase terminale in-sieme ai pazienti e alle famiglie. “Una riu-nione con la famiglia è una procedura vera e propria”, mi ha detto Susan. “E ci vuole la stessa preparazione che occorre per fare un intervento chirurgico”.

Uno degli errori di fondo dei medici è di tipo concettuale. Per loro, l’obiettivo pri-mario di una discussione sulla malattia terminale è stabilire cosa vuole il paziente: se vuole la chemio, se vuole essere riani-mato, se vuole l’hospice. Pensano soprat-tutto a esporre i fatti e le alternative. Ma questo è un errore, mi ha detto la dottores-

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Scienza

sa Block. “Il nostro compito è soprattutto aiutare i pazienti a gestire un’infinità di paure: paura della morte, paura di sofrire, paura per i propri cari, paura per i costi del-le terapie”, mi ha spiegato. “Ci sono molte preoccupazioni e tanti terrori concreti”. Nessuna conversazione può afrontarli tut-ti. Arrivare ad accettare la propria mortali-tà e capire chiaramente i limiti e le possibi-lità della medicina è un processo, non una folgorazione improvvisa.

Non esiste un sistema unico per accom-pagnare un malato terminale attraverso questo processo, ma Block pensa che ci siano delle regole. Bisogna mettersi seduti e prendersi il tempo necessario. Non si tratta di stabilire se preferiscono il tratta-mento X o il trattamento Y. Si tratta di capi-re cosa è più importante per loro in queste circostanze in modo da poter fornire infor-mazioni e consigli sull’approccio migliore per ottenere quello che vogliono. E per questo bisogna non solo parlare, ma anche ascoltare. Se parli per più della metà del tempo, vuol dire che stai parlando troppo.

La scelta delle parole conta. Secondo gli esperti, per esempio, non bisogna dire: “Mi dispiace che le cose siano andate co-sì”. Può sembrare commiserazione. È me-glio dire: “Vorrei che la situazione fosse diversa”. Non si deve chiedere: “Cosa vuo-le prima di morire?”, ma piuttosto: “Se non ci sarà tempo, qual è la cosa più importante per lei?”.

Block ha un elenco delle questioni che vuole afrontare con i malati terminali pri-ma che si prendano le decisioni inali: qua-le pensano che sia la loro prognosi, quali sono le loro preoccupazioni per il futuro, chi vogliono che prenda le decisioni quan-do non saranno in grado di farlo personal-mente, come vogliono vivere quando sa-ranno rimaste poche opzioni, che genere di compromessi sono disposti ad accetta-re.

I medici svedesi la chiamano “discus-sione sul punto limite”: una serie di con-versazioni sistematiche che gli servono per capire quando devono smettere di lottare per il tempo e cominciare a lottare per le altre cose che stanno a cuore ai pazienti.

Il trattamento intensivo, ripetiamo ai malati terminali, è un treno da cui si può scendere in qualunque momento: non do-vete fare altro che dirlo. Ma per la maggior parte dei pazienti e delle famiglie è chiede-re troppo. Restano lacerati dai dubbi, dalla paura e dalla disperazione. Spesso si fanno troppe illusioni sulle possibilità della scien-za medica. Ma la nostra responsabilità, in medicina, è trattare con gli esseri umani

così come sono. Le persone muoiono solo una volta. Non hanno un’esperienza da cui imparare. Hanno bisogno di medici e in-fermieri disposti ad afrontare le discus-sioni diicili e a raccontare quello che han-no visto. Hanno bisogno di qualcuno che li aiuti a prepararsi all’inevitabile evitando di inire in una sorta di fabbrica dell’oblio che pochi vogliono davvero.

Niente di male

Sara Monopoli aveva avuto abbastanza colloqui perché l’oncologo e la sua famiglia sapessero che non voleva morire in ospe-dale o in terapia intensiva, ma non abba-stanza da capire come raggiungere quell’obiettivo. Dal momento in cui arrivò al pronto soccorso, quel venerdì mattina di febbraio, tutto andò nella direzione con-traria a una ine paciica. Ma c’era una per-sona molto turbata da questa storia che alla ine decise di intervenire: Chuck Mor-ris, il suo medico di base. L’anno prima, con il progredire della malattia, aveva lasciato che a prendere le decisioni fossero soprattutto Sa-ra, la sua famiglia e l’équipe on-cologica. Però aveva continuato a vedere regolarmente Sara e il marito ascoltando le loro preoccupazioni. Quella mattina, Morris fu l’unica persona a cui Rich telefonò prima di salire in ambu-lanza. Lui andò dritto al pronto soccorso e accolse Sara e Rich quando arrivarono.

Morris disse che forse la polmonite era curabile. Ma poi aggiunse: “Temo che que-sta sia la ine. Sono davvero preoccupato per lei”. E chiese a Rich di riferire alla fa-miglia la sua opinione.

Poi Morris parlò con Sara e Rich e gli spiegò che il tumore l’aveva indebolita e che ora il suo corpo faticava a combattere l’infezione. Gli antibiotici potevano bloc-care la polmonite, disse, ma dovevano ri-cordarsi che non c’era nulla in grado di fermare il cancro.

Sara aveva un aspetto terribile, mi ha raccontato Morris. “Le mancava il iato. Faceva male a guardarla. Ricordo ancora il

medico di turno”, mi ha detto riferendosi all’oncologo che l’aveva ricoverata per cu-rare la polmonite. “Era nervoso e quasi spaventato. Ed è uno che ne ha viste tan-te”.

Quando arrivarono i genitori di Sara, Morris parlò anche con loro, e alla ine Sara e la sua famiglia concordarono un piano. L’équipe medica avrebbe continuato con gli antibiotici, ma se la situazione fosse peggiorata non l’avrebbero attaccata a un respiratore. Gli permisero anche di chia-mare l’équipe delle cure palliative per una visita. L’équipe prescrisse una piccola dose di morina che rese immediatamente più agevole la respirazione. I familiari videro come erano diminuite le soferenze di Sara e improvvisamente decisero che non vole-vano più farla soffrire. La mattina dopo furono loro a fermare i medici.

“Volevano metterle un catetere, farle una serie di altre cose”, mi ha detto la ma-dre. “Io dissi: ‘No. Non fatele niente’. Non m’importava se aveva bagnato il letto. Vo-levano fare delle analisi di laboratorio, mi-surarle la pressione, la glicemia. Non m’importava niente delle loro cartelle. An-dai a cercare la caposala e le dissi di smet-terla”.

Nei tre mesi precedenti, quasi nulla di quanto avevano fatto a Sara – la chemiote-rapia, le tac, le analisi e le radiazioni – era servito a qualcosa tranne a farla stare peg-gio. Forse sarebbe addirittura vissuta più a lungo senza tutti quei trattamenti. Almeno

alla ine è stata risparmiata.Quel giorno, mentre il suo

corpo continuava a cedere, Sara perse conoscenza. Per tutta la notte seguente, ricorda Rich, “ci fu quel lamento terribile”. Non si

può abbellire la morte. “Non so se fosse l’inspirazione o l’espirazione, ma era orri-bile, veramente orribile da ascoltare”.

Il padre e la sorella pensavano ancora che potesse riprendersi. Ma quando gli al-tri uscirono dalla stanza, Rich s’inginoc-chiò a piangere accanto a Sara e le bisbigliò all’orecchio. “Non c’è niente di male a la-sciarsi andare. Non devi più combattere. Ci rivedremo presto”.

Quella mattina la sua respirazione ral-lentò. Alle 9.45, racconta Rich, “Sara ebbe una specie di spasimo. Emise un profondo respiro e poi non si mosse più”. u gc

Le persone muoiono solo una volta. Non hanno un’esperienza da cui imparare. Hanno bisogno di medici e infermieri disposti a raccontare

L’AUTORE

Atul Gawande è professore di chirurgia alla Harvard medical school di Boston. Scrive per il New Yorker. Il suo ultimo libro è Con cura (Einaudi 2008).

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Puerto Rico

Il 1 giugno 2007 a Managua, il gior-no prima del concerto allo stadio Dennis Martínez, il cantante dei Calle 13 René Pérez Joglar ha in-contrato Daniel Ortega. Il presi-dente del Nicaragua era stato rie-

letto nel 2006, dopo essersi riciclato come politico moderato e timorato di Dio. Quel giorno il musicista e il presidente hanno parlato del passato, di quando Ortega era il leader della guerriglia sandinista e di quan-do a Managua arrivavano militanti da tutto il mondo per sostenere la causa dei ribelli e per lottare contro un regime corrotto soste-nuto dagli Stati Uniti. Tra quei turisti mili-tanti c’era l’avvocato Reinaldo Pérez, il pa-dre di René, membro di una brigata inter-nazionale che appoggiava i sandinisti del Nicaragua.

Il rapper e il presidente stavano chiac-chierando da un’ora quando René ha deciso di presentare sua madre a Ortega. Gli si è avvicinato e gli ha mostrato il volto gioviale e radioso di Flor Joglar, un’attrice di teatro, tatuato sulla spalla sinistra. Poi ha passato in rassegna i suoi sei fratelli, tutti tatuati sul braccio, ognuno con il proprio nome. Nella stanza è calato il silenzio. A quel punto René ha indicato il tatuaggio di un teschio: “E ora le presento mio padre”, ha detto. Ortega è scoppiato a ridere.

Quello stesso giorno, dopo aver visitato il palazzo presidenziale, René ha concesso un’intervista a Patricia Vargas, inviata spe-ciale del Nuevo Día di Puerto Rico, arrivata in Nicaragua per seguire il concerto della

band. René, che allora aveva 29 anni e in-dossava una maglietta da basket color mal-va dei Detroit Pistons, ha confessato alla giornalista: “È incredibile vedere come la musica ci unisce a questo paese e a Daniel Ortega, un uomo che ha fatto la rivoluzione. Sento che sto raggiungendo i miei obiettivi. Quando gli ho parlato del concerto, ha capi-to che siamo sulla stessa lunghezza d’onda. Ortega ha mandato i suoi saluti a mio padre, Reinaldo Pérez, che arrivò in Nicaragua ne-gli anni ottanta per sostenere i sandinisti. Per me è stato un momento importante”.

Mai più aria condizionataIl nome Calle 13 deriva da una via del quar-tiere El Conquistador, dove René Pérez vi-veva e dove, insieme a Eduardo, ha deciso

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che avrebbe formato una band. Per entrare in questa parte di Trujillo Alto, un comune dell’area metropolitana di San Juan, sulle umide colline di Puerto Rico, bisogna pas-sare un posto di blocco. Eduardo era il “visi-tatore”, René il “residente”. Da qui vengono i loro soprannomi: Residente e Visitante. Si conoscono dall’infanzia, quando il padre di Eduardo ha sposato in seconde nozze la madre di René. Il matrimonio non è durato molto, ma i ragazzi sono rimasti amici. An-zi, si considerano veri e propri fratelli e vo-gliono essere chiamati così.

Nell’estate del 2007, quando René ha incontrato il presidente del Nicaragua per discutere della realtà sociale dell’America Latina, i Calle 13 erano una delle band più popolari del continente. Con il primo disco il gruppo ha vinto tre Grammy e ha ricevuto proposte di collaborazione da Beyoncé e Nelly Furtado. Con il secondo album, usci-to nel 2007, i Calle 13 hanno superato peri-no Jennifer Lopez nelle classiiche di musi-ca latina. “Abbiamo un microfono in mano, e non ci limitiamo a muovere i ianchi”, ri-peteva sempre René in quel periodo.

I Calle 13 hanno inciso i loro primi brani nel 2004, nello studio di registrazione della

Sulle notedei Calle 13Diego Enrique Osorno, Gatopardo, Messico

Residente e Visitante sono due rapper portoricani, famosi in tutta l’America Latina. Militanti e sovversivi. Ma anche idoli del pubblico di Mtv. La loro musica è uno dei simboli della nuova identità del continente

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u Puerto Rico è un territorio non incorporato degli Stati Uniti. Ha un governo autonomo, ma non è indipendente né è uno stato federato degli Stati Uniti. I portoricani non possono votare per le elezioni presidenziali statunitensi, ma il capo dello stato è il presidente degli Stati Uniti, rappresentato sull’isola da un governatore eletto, che detiene il potere esecutivo. u Attualmente il governatore di Puerto Rico è Luis Fortuño. Anche il parlamento, eletto dagli abitanti dell’isola, è sottoposto alle decisioni del congresso di Washington. Puerto Rico, un tempo colonia spagnola, è passata sotto il controllo degli Stati Uniti dopo la guerra ispano-americana del 1898.

Da sapere

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Puerto Rico è “un territorio non incor­porato degli Stati Uniti”: appartiene agli Stati Uniti ma non fa parte del paese. In al­tre parole: Barack Obama è il presidente, anche se i portoricani non lo hanno potuto votare. René chiama “inginocchiati” quei portoricani favorevoli all’idea che il paese resti una colonia degli Stati Uniti. Ma sa an­che che la causa dell’indipendenza non de­colla per la paura e la disinformazione. “Se Puerto Rico diventerà indipendente, non avremo più l’aria condizionata”, gli disse una volta la maestra delle elementari.

Siamo vivi!

La voce di Ileana Joglar è così forte, calma e melodica che non sembra uscire dalla sua gola. Ileana sta cantando al bar Escénica di Monterrey, dove i Calle 13 suonano davanti a più di mille persone. Ileana è la sorella di René. Ha 18 anni, accompagna il gruppo in alcune canzoni e cerca di sfondare come solista con l’aiuto di Ángelo Medina, ex agente di Ricky Martin.

Il concerto comincia poco prima di mez­zanotte. È il 19 febbraio del 2010. René ed Eduardo sono arrivati il giorno stesso da Veracruz, dove hanno partecipato al carne­vale. Monterrey è teatro di una brutale

guerriglia urbana tra cartelli della droga. René sale sul palco, panta­loni Adidas verdi e una canottiera che lascia scoperte le braccia mu­scolose e tatuate, prende il micro­fono e si lancia in un’arringa: “Ci

divertiremo, stronzi. Voglio vedere tutta Monterrey che salta. Dobbiamo stare svegli perché stiamo respirando. C’è un sacco di gente che è morta, dobbiamo far vedere alla luna e alle stelle che siamo vivi. Monterrey, saltiamo”.

Molti testi delle canzoni dei Calle 13 so­no scritti da René. Il suo processo creativo è empirico: ama vivere più che leggere, anche se ha studiato per quasi quattro anni arte in Georgia, negli Stati Uniti, e ha vissuto a Bar­cellona. Quando è partito per la Spagna in valigia ha messo solo due libri: Diablo guar-dián di Xavier Velasco e L’anticristo di Nietz­

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Jiggiri Records, un’etichetta indipendente creata dal rapper Tego Calderón. A Puerto Rico Calderón è conosciuto come il precur­sore del “reggaeton alternativo”, una dei­nizione usata anche per la musica dei Calle 13, anche se Residente e Visitante preferi­scono deinirsi una band urbana. Eppure nelle loro canzoni si percepisce nettamente quel mix di reggae, salsa e hip hop da cui è nato il reggaeton.

Nel 2005, durante le registrazioni del primo album, René ha convinto Eduardo a mescolare i suoni alla moda del reggaeton con altri generi musicali, dall’elettronica al tango. L’obiettivo era dar vita a uno stile personale e, allo stesso tempo, fare breccia tra i ragazzi di Puerto Rico, allora appassio­nati di Daddy Yankee, re assoluto del pano­rama musicale locale. Almeno ino all’arri­vo dei Calle 13.

In Messico

Flor Joglar, la madre di René Pérez, è stata un’attrice. Da giovane, non riuscendo a tro­vare lavoro nei circuiti commerciali, entrò a far parte del Teatro del Sesenta, una com­pagnia con un programma molto coraggio­so. Il gruppo allestì il musical La verdadera

I Calle 13

historia de Pedro Navaja, con le canzoni del salsero panamense Rubén Blades e una chiara inluenza del teatro di Bertolt Brecht. L’opera ebbe un ottimo successo a San Juan e nel 1983 approdò al teatro musicale dell’Avana, a Cuba. Il padre di René, Rei­naldo Pérez, oltre a partecipare alle lotte rivoluzionarie latinoamericane, all’epoca era impegnato nella difesa dei di­ritti dei lavoratori portoricani. E ogni tanto scriveva articoli sulla musica pop.

Con questo background poli­tico, e sull’onda del successo del primo disco, René ed Eduardo hanno co­minciato a viaggiare per il continente. E in pochi mesi hanno sviluppato un forte spiri­to critico verso il loro paese, un’isola di tre milioni e mezzo di abitanti ancora coloniz­zata dagli Stati Uniti. Viaggiando hanno potuto confrontare la realtà portoricana con quella degli altri paesi latinoamericani. Città del Messico, con i suoi venti milioni di abitanti, li ha impressionati. Sembrava che lì succedesse di tutto e tutto nello stesso momento: mentre un attentato provocava otto morti, Los Fabulosos Cadillacs suona­vano davanti a 70mila persone.

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Puerto Rico

sche. Quando arriva in una città, René cerca di registrare tutto quello che vede o che gli raccontano e poi si siede a scriverlo. Le sue canzoni nascono così o dai suoi lunghi viag-gi su internet.

Una maglietta di troppoÈ il 15 ottobre 2009. Tutto è pronto per il grande show a Los Angeles. René Pérez scende da una limousine e, camminando sul tappeto rosso degli Mtv Latin America awards, si toglie la giacca per mostrare ai fotografi una maglietta con su scritto: “Chávez nominato miglior artista pop”. Quella sera René conduce la cerimonia, che si svolge in contemporanea a Città del Mes-sico, a Bogotá e a Buenos Aires, insieme a Nelly Furtado. Il cantante dei Calle 13 si presenta sul palco indossando magliette con vari messaggi: “Mercedes Sosa suonerà per sempre”, “Micheletti fa rima con Pino-chetti”, “Il Messico non dimentica il 2 otto-bre 1968”. Una, in particolare, ha provocato qualche polemica in Colombia: “Uribe para militar”. Il giorno dopo l’evento, trasmesso in quasi tutta l’America Latina, il ministero degli esteri colombiano ha protestato con gli organizzatori per la maglietta di René che faceva riferimento al presidente Álvaro Uribe. Mtv si è subito dissociata dalle afer-mazioni del cantante dei Calle 13.

mistica del subcomandante Marcos. Nel 2000 i Rage Against the Machine, accusati di essere dei terroristi del linguaggio, si so-no sciolti. Un paio di anni dopo sono tornati a suonare, e nel giugno scorso hanno parte-cipato alla mobilitazione contro la legge sull’immigrazione, chiaramente razzista, approvata in Arizona.

Odissea cubanaIl mio amico blogger con cui andrò al con-certo dei Calle 13 nella “tribuna antimpe-rialista” di Cuba, dove Fidel Castro ha pro-nunciato tutti i suoi discorsi storici, mi ha fatto ascoltare il disco di bolero registrato da Marc Anthony, un cantante portoricano molto famoso tra i cubani. Tra gli album più venduti nel bizzarro mercato nero di Cuba ci sono anche quelli di Daddy Yankee, l’esatto opposto dei Calle 13 per stile e ilo-soia musicale. Randy (chiamerò così il mio amico blogger, che non vuole far sapere il suo nome per paura di perdere il lavoro) non conosce i Calle 13: “A Cuba non si sentono. Ma ho saputo che sono stati vietati in Co-lombia e in altri paesi. È successo anche ai Maná in Messico”. “Non mi sembra che i Maná siano proibiti in Messico”, ribatto. “Ho sentito così. Ho ascoltato le loro canzo-ni e hanno testi molto forti”.

A Cuba la censura colpisce diversi grup-

Quattro giorni dopo René ha inviato una lettera al governo di Bogotá speciicando che la frase sulla maglietta era stata ispirata da alcune conversazioni con degli amici co-lombiani e che era un gioco di parole con “Uribe para bases militares” (Uribe ferma le basi militari). René è convinto che un pa-ese non dovrebbe accettare di ospitare basi straniere. In quei giorni su twitter ha parlato delle sue idee politiche. “Sono di sinistra, e ho le mie belle Adidas ai piedi. Mi contrad-dico. Se c’è qualcuno che non si contraddice mai, me lo venga a dire in faccia”.

René Pérez è nato il 23 febbraio 1978. Eduardo qualche mese dopo, il 10 settem-bre. Come tutti i trentenni di oggi, appar-tengono alla generazione del “doppio crol-lo” raccontata da Camille de Toledo in Su-

perpunk, arcimondano: i ragazzi che hanno visto il crollo del muro di Berlino e quello delle torri gemelle. “A diferenza delle ge-nerazioni precedenti, non facciamo teorie. Agiamo per intuizione, senza alterare trop-po questo grande caos in cui abbiamo impa-rato a creare la nostra libertà”.

Per questo spirito rivoluzionario, i Calle 13 sono spesso paragonati ai Rage Against the Machine, una band di rap metal nota per il suo romanticismo ribelle e militante e vicina alle posizioni dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale del Chiapas e alla

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I Calle 13 a una manifestazione contro il governo portoricano a San Juan

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pi, e organizzare concerti è un’odissea. Qualche giorno prima di quello dei Calle 13, Gorki Águila, il cantante di Porno para Ri-cardo, una band che sull’isola è fuorilegge, mi ha raccontato come aveva organizzato l’ultimo concerto, un anno prima, in una grotta alla periferia dell’Avana. C’erano so-lo quaranta spettatori. “Più si fa pubblicità a un concerto, più è probabile che sia cancel-lato. Dobbiamo trovare un equilibrio molto delicato. Si comincia a parlare con la gente quasi il giorno stesso dell’esibizione. Si fa girare la voce ma senza esagerare, perché se la notizia si difonde troppo è facile che arrivi la polizia a far saltare tutto”. La grotta in cui hanno suonato i Porno para Ricardo è conosciuta come La Cueva del Gato. “Ci è sembrato un posto ideale. Se ci passi accan-to non vedi niente, ma c’è un accesso all’al-tezza della strada”, spiega Gorki.

Ho cominciato a parlare con entusiasmo dei Calle 13 e del loro spirito ribelle inché non ho notato una certa diidenza sul volto di Gorki.

“Cosa signiica oggi essere ribelle a Cu-ba?”, gli ho chiesto.

“Comprare carne di manzo per strada, ecco cosa signiica essere ribelle qui”.

“Comprare cosa?”.“Carne di manzo. Essere ribelle in que-

sto paese signiica sopravvivere. Quando sopravvivi vai contro le leggi perché quasi tutto è illegale. Qui non si può fare niente. Per sopravvivere devi cercare di inventarti un qualche modo per far soldi, ovviamente illegale. Essere ribelle vuol dire anche esse-re creativo. Ma mi dispiace dirti che la mu-sica dei Calle 13 a Cuba non ha niente di ri-belle. Suonare nella tribuna antimperialista è la cosa più uiciale che ci sia”.

Il mistero di Castro

La perla è un candombe uruguaiano a più voci con un testo sulla vita in un quartiere popolare. Originariamente era stata incisa con Rubén Blades, ed è la canzone che in-iamma di più le duecentomila persone ar-rivate sul malecón dell’Avana per ballare. Il concerto comincia alle cinque del pomerig-gio con il cantante cubano Kelvis Ochoa. Alle sei di sera arrivano i Calle 13. La band è impressionante: ci sono quasi trenta musi-cisti sul palco. C’è più confusione che alla commemorazione annuale della rivoluzio-ne cubana. René indossa una maglietta su cui c’è la foto di un giovane con i capelli neri e ondulati e dei grandi bai. Sulla schiena c’è la frase: “Riceviamo iori e pallottole in uno stesso cuore”. L’uomo della foto è Car-los Muñiz Varela, un cubano ucciso il 28 aprile del 1979 a San Juan di Puerto Rico da

due pallottole calibro 45. Muñiz Varela ave-va 26 anni quando fu bloccato mentre era in macchina sull’avenida California, nel quar-tiere di Guaynabo. L’assassinio di Muñiz Varela, considerato il “martire degli emi-grati cubani”, è stato organizzato – in colla-borazione con i servizi di intelligence del governo di Fidel Castro – dal gruppo terro-ristico Omega-7, di cui hanno fatto parte diversi criminali cubanoamericani come Orlando Bosch e Luis Posada Carriles. Car-riles è stato il responsabile dell’attentato del 6 ottobre 1976 contro un aereo della Cuba-na de Aviación in volo dal Venezuela a Cuba con 73 passeggeri a bordo. L’omicidio di Muñiz Varela è rimasto impunito ino a og-gi. Secondo l’intelligence cubana, l’uomo è stato ucciso per il suo ruolo di mediatore tra

gli emigrati cubani e l’isola. Muñiz Varela era amico di Reinaldo Pérez, il padre di René. Tre anni fa uno dei suoi igli, anche lui chiamato Carlos, ha cominciato a batter-si per far arrestare gli assassini del padre, che – assicura – sono protetti dall’Fbi.

Il concerto dei Calle 13 inisce appena prima del tramonto. Ma sul malecón c’è an-cora movimento: alcuni gruppi di ragazzi si mettono a bere rum vicino al mare e si fan-no la corte tra l’odore del mare e l’ombra bluastra delle onde.

Paura e disinformazione

Eduardo Cabra ha prestato la sua chiavetta usb all’assistente di Calle 13 per copiare sul mio Mac Latinoamérica, una delle canzoni che faranno parte del nuovo disco della band. Il pezzo unisce suoni latinoamericani a un testo che inneggia alla libertà. Ho chie-sto a René se la nuova canzone è il prodotto dei cambiamenti politici che hanno attra-versato il continente negli ultimi dieci anni. “Vogliamo raforzare l’identità latinoame-ricana. È bufo, stavo parlando con un ar-gentino che lavora con noi. Mi ha detto: ‘Ma guarda, c’è voluto un portoricano per fare una canzone così sull’America Latina’. È una gran cosa. Non facciamo parte del fol-clore latinoamericano: ci sembra un genere troppo codiicato. Ma sì, credo che abbiamo fatto una canzone rappresentativa per tutto il continente. È da parecchio tempo che non si facevano pezzi simili. Il brano parla di un argomento che hanno affrontato anche

Mercedes Sosa e i musicisti della ‘nueva trova’ cubana, negli anni settanta e ottanta. Poi non c’è stato più niente. La nostra forza ora sono i mezzi di comunicazione: è straor-dinario che una canzone del genere sia can-tata da un gruppo che un anno fa era agli Mtv awards”.

Prima di cominciare a fare le domande per l’intervista con la band, ho raccontato a René che qualcuno su twitter mi ha chiesto se hanno intenzione di entrare in politica. “Non direi. È più probabile che io faccia del cinema o qualcosa di legato all’arte”, mi ha risposto René.

“Fino a che punto siete disposti a usare la vostra musica per la causa dell’indipen-denza di Puerto Rico?”, ho chiesto.

Mi ha risposto ancora René: “Il vero obiettivo è sensibilizzare le persone sull’im-portanza dell’istruzione. Non sto dicendo di essere il più istruito, perché non lo sono, ma ho avuto un’educazione e so come di-fendermi. A Puerto Rico i principali proble-mi sono la disinformazione e la paura. So che ci sono persone che hanno altre priorità e non se ne preoccupano. Io invece mi ver-gogno della situazione del mio paese”.

L’intervista vera e propria comincia qui. Qualcuno dell’entourage del gruppo ha ri-mediato una bottiglia di vodka alla fragola, la bevanda preferita di René, che però ne beve solo un sorso.

“Cosa pensate della sinistra che è al go-verno in Bolivia, in Venezuela e negli altri paesi dell’America Latina?”.

“Per alcuni aspetti ci convince, per altri no. Per quanto riguarda gli ideali siamo sul-la stessa lunghezza d’onda, ma in pratica ci sono molti problemi. Prendiamo Cuba: è un mistero. Ma ci siamo stati e abbiamo scoperto cose belle e brutte”.

“Quali presidenti avete conosciuto e co-me vi sono sembrati?”.

“Abbiamo visto l’ecuadoriano Rafael Correa una volta, ma è stato un incontro brevissimo. Abbiamo conosciuto anche Hugo Chávez, il leader venezuelano. Parla un sacco, ci è sembrato un tipo a posto. Mi piacerebbe conoscere l’ex presidente co-lombiano Álvaro Uribe. Mi interessa con-frontarmi con tutti, ma non sono amico di nessuno e non voterei per nessuno. Non so quanto durerà il nostro impegno, per ora suono questo genere di musica. È un ruolo in cui sono entrato a poco a poco e mi piace. Ma non era la nostra idea di partenza”.

“Quali erano, allora, i vostri obiettivi?”.“Suonare, far divertire la gente, cono-

scere ragazze: le cose che interessano a tut-ti i ragazzi. Ma poi le cose hanno preso una piega diversa”. u sb

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Il concerto inisce prima del tramonto. Ma sul malecón c’è ancora movimento

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54 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Angola

Sognando Luanda

François Musseau, Libération, Francia. Foto di Luiz Carvalho

Il Portogallo è in crisi, l’Angola ofre molte opportunità. Per questo negli ultimi anni 350mila portoghesi sono andati a vivere nell’ex colonia. Reportage di Libération

“Il Portogallo è un paese chiu-so, vecchio, senza prospet-tive. L’Angola ha un sacco di problemi, ma è il futuro. La terra delle side. E io non mi tiro indietro”. Paula Cardo-

so, circa trent’anni, di Lisbona, è ambizio-sa e, come molti altri giovani portoghesi, si sente “condannata” e senza speranze.

Secondo l’osservatorio dell’immigra-zione di Lisbona, negli ultimi cinque anni 350mila persone hanno lasciato il paese,

colpito duramente dalla crisi economica. Un esodo paragonabile a quello avvenuto negli anni sessanta. I portoghesi emigrano soprattutto in Gran Bretagna, in Spagna e in Svizzera, ma negli ultimi tre anni sem-brano aver scoperto un nuovo eldorado, più lontano: l’Angola.

Ex colonia portoghese, il paese è diven-tato indipendente nel 1975 dopo una lunga guerra ed è raggiungibile in sette ore di vo-lo da Lisbona. L’Angola ha un territorio dodici volte più esteso di quello del Porto-

gallo: è la “terra delle side” che attira Pau-la Cardoso e molti altri.

Gli emigranti sono sempre di più. Nel 2006 sono stati rilasciati 156 visti a cittadi-ni portoghesi in partenza verso l’ex colo-nia. Nel 2009 sono diventati 23.787. Si sti-ma che negli ultimi anni si siano trasferiti in Angola centomila portoghesi, un nume-ro quattro volte più alto di quello degli an-golani che vivono in Portogallo. Qui, dopo la crisi gli immigrati arrivano con il conta-gocce. “Tutto questo mi fa pensare all’epo-

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Huambo, nell’Angola centrale

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 55

ca delle grandi scoperte, quando i nostri antenati partivano per l’Africa, anche loro per sfuggire alla crisi economica”, com-menta Mario Bandeira dell’Istituto supe-riore di scienze del lavoro e dell’impresa.

Il Portogallo è malato, l’Angola è in otti-ma forma. Con le sue miniere di diamanti e i suoi giacimenti di petrolio – che nell’Afri-ca subsahariana sono secondi solo a quelli della Nigeria – dal 2003 il paese ha registra-to una crescita media del pil pari al 14 per cento. Gli angolani hanno trovato la pace solo nel 2002, dopo circa quarant’anni di guerre, e tutto dev’essere ricostruito. Per questo c’è bisogno di ingegneri edili, esperti di telecomunicazioni, consulenti inanziari e altre igure professionali, pos-sibilmente in grado di parlare il portoghe-se. Per i portoghesi è una grande opportu-nità: quarantenni e giovani laureati, disoc-cupati e avventurieri, tutti si mettono in viaggio verso l’Africa.

“Per ogni naufragio in Portogallo, c’è un salvagente in Angola. Qui è il deserto lavorativo, là una rigogliosa oasi professio-nale”, scriveva alcuni mesi fa il settimana-le portoghese Visão. Ad attirare i candidati sono soprattutto i buoni stipendi e la facili-tà con cui ci si arricchisce. In Portogallo un ingegnere appena laureato o un giornalista con tre anni di esperienza guadagnano al massimo mille euro, mentre in Angola pos-sono ricevere ino a tremila euro di stipen-dio, con vitto e alloggio a carico del datore di lavoro.

Carlos Cardim vive a Luanda, la capita-le angolana, dal 2005 e dirige un’agenzia pubblicitaria. “Mi sembra di sta-re nel Portogallo degli anni ot-tanta, quando cominciarono ad arrivare i primi fondi della Co-munità economica europea”, confessa. Gli stranieri privilegia-ti possono permettersi una vita comoda: grandi ville, macchine con autista, scorta, feste. “In un certo senso mi ricorda il far west. È così eccitante”, ammette João, un consulente di marketing che vive nel sud dell’Angola dal 2007. “Il Portogallo, inve-ce, è un paese dove ora non vale la pena di vivere”.

Ma l’Angola è veramente la terra delle side? L’eldorado del lavoro? Certamente.

Ma non è il paese della cuccagna, fa notare Paula Cardoso, che di mestiere fa la gior-nalista. Seduta al tavolo di un bar del cen-tro di Lisbona, Cardoso (che ha un genitore portoghese e l’altro mozambicano) parla anche dell’altro lato della medaglia.

Un’esperienza negativaAlla ine del 2009 è partita per andare a vi-vere sei mesi a Luanda. Il settimanale per cui lavora, Sol, si era salvato dalla banca-rotta grazie a un ricco investitore angolano. Cardoso non era andata in Angola per de-naro – lo stipendio era quasi identico a quello che guadagnava in Portogallo – ma per fare un’esperienza, con la garanzia che al ritorno avrebbe riavuto il suo posto a Li-sbona.

A diferenza degli altri espatriati, Car-doso non godeva di nessun vantaggio eco-nomico. “Sono partita con dei pregiudizi negativi sull’Angola e dopo il mio arrivo a Luanda ne ho un’opinione anche peggiore. Atterrata all’aeroporto, un funzionario è riuscito a spillarmi cinquanta dollari. L’ap-partamento dove vivevo era in pessime condizioni e costava un occhio della testa. La vita quotidiana era una specie di via crucis. Se a Luanda non hai l’aria condizio-nata, un generatore di corrente e un serba-toio per l’acqua, sei condannato a sofrire”. In una città progettata per meno di un mi-lione di persone, vivono a stretto contatto gli uni con gli altri ben sette milioni di abi-tanti.

Cardoso ha altri brutti ricordi del suo soggiorno. “Gli unici piaceri sono la spiag-gia, i bar, le discoteche. Altrimenti ci sono dei concerti che costano più di cento dolla-ri, una vita culturale quasi inesistente e un orribile centro commerciale dove si gela perché l’aria condizionata è troppo forte. Che shock rispetto a Lisbona!”.

In redazione l’atmosfera era molto tesa per la rivalità tra i giornalisti locali e quelli

venuti dal Portogallo. “Sarà l’ef-fetto del nepotismo e della cor-ruzione ma in Angola chi ha un buon incarico è spesso una per-sona incompetente, senza una vera cultura del lavoro. Molti col-

leghi erano diffidenti nei confronti dei bianchi e provavano un misto di senso di superiorità, legato agli stipendi molto alti che percepivano, e di senso d’inferiorità, legato alla storia coloniale”.

Nonostante questo, Cardoso ha deciso di tornare in Angola per lanciare un nuovo settimanale, Mambo’s. “La proprietà del giornale sarà angolana, ma il mio capo sarà portoghese. Inoltre in quel paese ci sono

Faisalabad A N G O L ABrazzaville

Frontiere delNord-ovest

COREADEL NORD

MarCaspio

300 km

Luanda

Huambo

Cabinda

Benguela

ZAMBIA

NAMIBIA

REPUBBLICADEMOCRATICA

DEL CONGO

OceanoAtlantico

u L’Angola è una repubblica presidenziale, che ha ottenuto l’indipendenza dal Portogallo nel 1975. Il presidente José Eduardo dos Santos è in carica dal 1979. Le diseguaglianze economiche e sociali del paese sono molto forti. Due terzi degli abitanti sono estremamente poveri (il paese è al 162° posto su 177 nell’indice di sviluppo umano dell’Onu). Eppure, secondo Mercer Consulting, la capitale Luanda è la città più cara al mondo per i residenti stranieri.

Da sapere

“In un certo senso l’Angola mi ricorda il far west. È così eccitante”, dice João

Paesi a confronto

Spese militari, % del pil

2,3 5,7

4,85

Tasso di mortalità infantile ogni mille nascite

182,31

Numero di medici ogni mille abitanti

342 8

Spesa pubblica per l’istruzione, % del pil

5,7 2,6

Spesa pubblica per la salute,% del pil

7,0 1,5

Aspettativa media di vita, anni

77,7 41,7

Popolazione

10.676.910 12.531.357

Area, chilometri quadrati 92.391

1.246.700

PORTOGALLO ANGOLA

Distribuzione della popolazione per età

0-1415-64+65

43,616,4 %

53,666,2

2,716,4

Anni%

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, 200

9

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Angola

56 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

molte cose da raccontare. Il Portogallo mi va troppo stretto”.

Un vecchio paese europeo in un mo-mento diicile guarda con invidia una na-zione africana in pieno sviluppo. “A Luan-da”, dice un ex emigrato, “si sente spesso dire che il Portogallo è diventato una colo-nia angolana”. E questo anche se l’Angola ha molti problemi: i due terzi dei suoi abi-tanti vivono in condizioni di estrema po-vertà, l’aspettativa di vita media è di circa quarant’anni, il costo della vita è molto alto e il livello di corruzione è da record. “Un amico mi ha proposto di trasferirmi lag-giù”, conida Cristina, professoressa a Por-to. “Ma gli ho detto di no perché non voglio vivere in un regime molto corrotto”.

I leader portoghesi non hanno questo genere di scrupoli. A luglio, nel corso di una visita di cinque giorni in Angola, il pre-sidente portoghese Aníbal António Cava-co Silva ha elogiato il capo dello stato an-golano José Eduardo dos Santos. Vista da

Lisbona, l’ex colonia è una manna provvi-denziale. L’Angola è il principale cliente del Portogallo fuori dall’Unione europea. Lisbona investe in modo cospicuo (557 mi-lioni di euro nel 2009) nel paese africano, dove ci sono ottocento aziende portoghe-si.

Ma succede anche il contrario: i milio-nari angolani investono in Portogallo, so-prattutto nei settori dei beni di lusso, delle automobili, degli al-berghi esclusivi, della moda e della chirurgia plastica. I capitali angolani, come quelli del gruppo petrolifero Sonangol, sono servi-ti a comprare partecipazioni azionarie in importanti imprese portoghesi come la so-cietà elettrica Galp, e le banche Millen-nium bcp e Bpi.

Sono passati 35 anni dall’indipendenza dell’Angola e i giovani portoghesi non pro-vano lo stesso senso di colpa dei loro geni-tori nei confronti di un paese dove la guer-ra coloniale è stata accompagnata da terri-bili atrocità. I più ricchi – i dipendenti delle multinazionali o delle grandi aziende por-toghesi – investono nei quartieri eleganti della parte sud di Luanda. Altri cercano uno stile di vita completamente diverso e si trasferiscono nelle campagne angolane.

La maggior parte, comunque, va in An-gola per tentare la fortuna. Le delusioni, però, sono così frequenti che l’ambasciata e i mezzi d’informazione portoghesi molti-plicano gli avvertimenti sull’estrema com-plessità della burocrazia, sulla diicoltà di ottenere un visto per motivi di lavoro, sull’ineicienza dei servizi e sulle precau-zioni da prendere prima di acquistare dei terreni.

L’occasione e la pauraFino a dove arriverà quest’ondata migrato-ria? “Un numero sempre più grande di por-toghesi si trasferisce qui con la famiglia. Ma la maggior parte delle persone viene a vivere in Angola perché mandata dall’azienda per cui lavora”, fa sapere l’am-basciata del Portogallo a Luanda.

“Non mi sarei mai candidato per un tra-sferimento se la mia azienda non mi avesse oferto tutta una serie di garanzie. Il caos, la malaria e la povertà mi spaventano”, ammette Samuel Filipe, 26 anni, pronto a partire per l’Angola per conto di una multi-nazionale. Filipe elenca i vantaggi del nuo-vo incarico: “Qui guadagno mille euro, il lavoro è monotono, divido il mio apparta-mento con due amici. A Luanda avrò tutto pagato, mi daranno 85 euro di indennità giornaliere e mi saranno oferti tre viaggi di ritorno a casa all’anno. E poi laggiù mi occuperò di creare una banca. Farò un’esperienza di due anni, poi vedrò”.

Rui Gameiro, un ingegnere civile di 28 anni, credeva di aver trovato l’occasione della sua vita. Nell’inverno del 2009 è sta-to mandato dalla sua azienda a partecipare alla costruzione di un ponte sul fiume Kwanza. “Era il mio primo vero cantiere.

Un progetto da cento milioni di dollari, il più grande dell’Ango-la”. Tutto era all’altezza delle sue aspettative: una bella casa sorve-gliata a Benguela, un garage, cinquemila euro al mese. “Pen-

savo di rimanere cinque anni per mettere da parte dei soldi e comprarmi una casa a Lisbona”. Ma la delusione è arrivata pre-sto. Al ritorno dalle vacanze di Natale, che aveva trascorso a Lisbona, “mi hanno tolto il progetto e trasferito in un uicio a non fare nulla. Mi sono trovato invischiato tra incompetenza e corruzione. Così mi sono dimesso”, racconta.

Da febbraio Gameiro vive di nuovo a casa dei genitori a Lisbona e ha ripreso il suo “triste lavoro”. Ma ha sempre le valige pronte. “Se si presenta un altro progetto, riparto per l’Angola senza pensarci due volte”. u adr

Gameiro è tornato dai genitori a Lisbona ma ha sempre le sue valige pronte

Richard Lapper, Financial Times,Gran Bretagna

Economia

Teresa Antônio è molto arrab-biata. Negli ultimi due anni ha cercato di convincere i vi-

cini a vaccinare i igli e a usare le zanzariere. Queste misure rientra-no in un programma del governo per combattere quelle malattie per cui l’Angola, uno dei più ricchi paesi africani, registra uno dei tassi di mortalità infantile più alti del mon-do. Ma gli operatori sanitari e i bu-rocrati di Cacuaco, a est di Luanda, sono così pigri che Antônio comin-cia a considerare inutili i suoi sforzi. “Gli infermieri arrivano sempre tar-di e accumuliamo un sacco di lavo-ro”, dice. “Se non migliora il servi-zio è inutile impegnarci tanto”.

La sua esperienza mette in luce alcune contraddizioni dell’Angola di oggi. La grande disponibilità di petrolio e sei anni consecutivi di crescita a ritmi sostenuti hanno reso l’Angola uno dei mercati più dina-mici del mondo. Grazie ai inanzia-menti cinesi, il governo ha investito miliardi di dollari nelle infrastruttu-re, creando un mercato che attira aziende brasiliane, portoghesi e su-dafricane. Tuttavia il governo fatica a scrollarsi di dosso la reputazione di essere corrotto e autoritario. José Eduardo dos Santos è presidente dal 1979 e in tutti questi anni la sua famiglia si è arricchita molto.

Oltre alle strade e ai ponti, molti dei quali appaltati a società cinesi e brasiliane, l’Angola sta costruendo ospedali, scuole e sta estendendo la rete idrica. Secondo Koen Vanor-melingen, rappresentante dell’Uni-cef in Angola, “il governo fa la parte più facile: costruire le infrastrutture. Ma la vera sida è migliorare la qua-lità dei servizi”. Per farlo, come di-mostra l’esperienza di Teresa Antô-nio, dovrà combattere contro la bu-rocrazia e l’incompetenza. u

La ricchezza non è per tutti

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60 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Australia

George Manantan ha un’espressione soffe-rente. Si è ferito andan-do a piedi nudi nel bush

a caccia di maiali, e ora cammina con le stam-

pelle. “E come se non bastasse”, dice que-sto proprietario terriero aborigeno, “proba-bilmente un coccodrillo ha mangiato uno dei miei cani”. I coccodrilli del iume Wen-lock, che scorre attraverso la contea abori-gena di Mapoon, nel Queensland australia-no, sono “enormi”. Poi Manantan alza le spalle: “Se più tardi si fa vivo, vuol dire che non lo hanno mangiato”.

Ma i coccodrilli che mangiano i cani non sono certo il problema principale di questa piccola comunità di trecento persone, un avamposto nel deserto a 3.200 chilometri da Sydney. I suoi abitanti sono coinvolti in una disputa territoriale tra la Cape Alumi-na, un’azienda mineraria controllata dalla Chiping Xinfa Huayu, uno dei maggiori produttori di alluminio cinesi, e gli ecologi-sti guidati da Terri Irwin, vedova del famo-so ambientalista Steve Irwin, il fondatore dell’Australia Zoo conosciuto come “The crocodile hunter”, il cacciatore di cocco-drilli. “Vogliono scavare sulla terra che ci dà da mangiare”, dice Manantan a proposi-to della miniera di bauxite che da sei anni la Cape Alumina cerca di aprire nella zona. “Ci sono bovini selvatici, maiali, oche, e sappiamo già che sarà un disastro”.

In questa parte dell’Australia c’è una diidenza difusa nei confronti delle mi-niere. L’avversione nasce dal legame con una terra che da migliaia di anni permette alle persone di nutrirsi, curarsi e trovare ri-fugio. Ma questa non è la solita disputa tra una grande impresa e una minoranza indi-gena oppressa sostenuta dagli ecologisti. Innanzitutto, la Cape Alumina si è guada-gnata la fama di azienda trasparente e ha sempre consultato le comunità locali, chie-dendo la loro collaborazione. Chi viene da queste parti e ascolta l’opinione degli abi-tanti sull’azienda scoprirà che c’è una certa tolleranza. È un atteggiamento che fa di necessità virtù. Come molte zone rurali au-straliane, Mapoon non ofre molte oppor-tunità di sviluppo economico e sociale agli aborigeni. L’azienda mineraria ha promes-so 1.700 posti di lavoro e un investimento di 1,2 miliardi di dollari australiani (840 mi-lioni di euro) nell’economia locale. Ma ba-sta entrare nell’unico negozio del villaggio per capire qual è la realtà dei fatti: un uomo con un neonato in braccio chiede di com-prare a credito latte in polvere e sigarette, ma il commesso gli dice di no.

Nel Queensland australiano un’azienda mineraria e gli ecologisti si contendono le terre di una comunità aborigena. Ma senza tener conto dei diritti dei nativi

Quella terraera nostraIvan Broadhead, South China Morning Post, Hong Kong

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Steve e Terri Irwin con la iglia Bindi Sue nel 2002

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 61

Peter Guivarra, il sindaco di Mapoon, ci spiega qual è il problema dei suoi concitta-dini: la lotta ideologica a favore della mi-niera e contro la difesa dell’ambiente. Nel 2004, dice Guivarra, la Cape Alumina ha chiesto l’autorizzazione a esplorare una parte del territorio della contea alla ricerca di bauxite, il minerale d’alluminio che dà a questa zona il suo caratteristico colore arancione bruciato. Le autorizzazioni sono state concesse per una porzione di territo-rio che fa parte di Bertiehaugh, un grande ranch per l’allevamento di bovini fondato nel 1887 da Frank Jardine, uno dei primi europei che s’insediarono a Cape York. Jar-dine è una igura leggendaria nel Queen-sland: è ammirato o disprezzato a seconda di chi racconta le sue imprese. La cultura indigena è ambivalente nei suoi confronti. Alcuni, per esempio, raccontano che una domenica pomeriggio, mentre si rilassava nel suo patio, Jardine sparò a un aborigeno per puro divertimento.

Gli abitanti di Mapoon attribuiscono una grande importanza simbolica e cultu-rale a Bertiehaugh, un territorio che consi-deravano loro ino all’arrivo di Jardine. Il colono s’insediò in un periodo in cui l’Au-stralia era considerata “terra di nessuno”, negando la storia degli aborigeni. Nel 2006, dice Guivarra, la comunità stava pensando di comprare alcuni grandi ranch, compreso Bertiehaugh. Così tutti sono ri-masti sorpresi leggendo sui giornali che la società d’investimento di Terri Irwin, la Sil-verback Properties, aveva comprato per sei milioni di dollari australiani i diritti d’uso di quella azienda agricola grande 1.300 chi-lometri quadrati.

A complicare le cose si è aggiunto il fat-to che l’afare è stato concluso con i soldi pubblici messi a disposizione dal primo mi-nistro, all’epoca il conservatore John Ho-ward: il governo aveva ottenuto i diritti e li aveva girati a Irwin. La concessione, che non annullava il diritto preesistente della Cape Alumina a fare ricerche ed eventual-mente ad aprire una miniera in una parte del ranch, era stata considerata un tentati-vo da parte di Howard di sottrarre voti ai verdi alle elezioni del 2007, che poi sono state un disastro per il suo Partito liberale. “I proprietari aborigeni non sono stati ne-anche consultati”, dice Guivarra. “Quella terra è nostra. È territorio teapithiggi, e il governo deve capire che se qualcuno com-pra la tua terra e la regala a qualcun altro, che tu sia nero, bianco o mulatto, ti senti defraudato”.

I teapithiggi sono una delle sei tribù che vivono a Mapoon. Come quasi tutti i gruppi

indigeni, i teapithiggi sono riusciti a otte-nere la restituzione delle loro terre tradi-zionali grazie alle leggi approvate per ripa-rare all’espropriazione dei territori austra-liani dopo l’arrivo degli europei nel 1788. Questi provvedimenti sono stati resi possi-bili grazie a un processo del 1992 (il caso Mabo contro lo stato del Queensland), che molti considerano una pietra miliare per-ché ha sancito per la prima volta il ricono-scimento dei diritti degli indigeni.

Il ranch di Steve

“Non fatevi ingannare”, dice Noel Pearson, avvocato e attivista per i diritti civili degli aborigeni. “Siamo in un periodo in cui gli esponenti più estremisti del movimento ambientalista stanno facendo tutto il pos-sibile per difendere i propri interessi, anche a costo di appropriarsi dei territori indigeni. Esercitano il controllo economico su que-ste zone, dichiarandole riserve naturali e aree protette per impedire che siano sfrut-tate dalle società minerarie. Ma stanno fa-cendo pagare i costi della loro politica ai più

deboli, cioè ai gruppi indigeni che nella vecchia economia erano poveri ed emargi-nati e continuano a esserlo anche in quella nuova”.

In efetti, dopo aver comprato Bertie-haugh, Irwin ha subito ribattezzato il ranch conteso The Steve Irwin wildlife reserve. Poi ha lanciato in tutto il mondo una peti-zione per “salvare la fattoria di Steve” e ha bloccato il progetto della Cape Alumina prima ancora che lo studio sull’impatto ambientale dei lavori, costato cinque mi-lioni di dollari australiani, fosse completato e quindi esaminato dal governo. “Steve Ir-win è stato un grande ambasciatore dell’Au-stralia”, dice Guivarra. “Non posso dire niente contro di lui. Ma questo è un insulto, perché quella terra ha già un nome, un no-me tradizionale. Ci sono luoghi storici e lagune che per noi hanno un signiicato cul-turale. Non sono la laguna di Steve, il ru-scello di Steve o il iume di Steve”.

E come se non bastasse, oltre al cambia-mento di nome gli abitanti della zona han-no assistito sconcertati alla costruzione di un nuovo recinto intorno al ranch, che gli impedisce di accedere ai terreni comuni dall’altra parte di Bertiehaugh.

Secondo Guivarra, Bertiehaugh non è un habitat naturale unico, come Irwin con-tinua a sostenere nella sua campagna con-tro la Cape Alumina. Anche se la regione ospita molte specie rare, tra cui gli squali dai denti a sciabola, lo stesso tipo di lora e fauna si trova in tutta la zona di Cape York, non solo in quello che ora si chiama “casa di Steve”. L’Australia Zoo di Irwin non ha voluto rilasciare dichiarazioni per questo articolo nonostante le numerose telefonate e le email che abbiamo mandato.

Guivarra, tuttavia, è convinto che la

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Australia

preoccupazione principale di Irwin sia l’ambiente e capisce i suoi timori per i dan-ni che potrebbe causare una miniera a cielo aperto. La Cape Alumina promette di ri-mettere tutto a posto, dice il sindaco, ma nella vicina città di Weipa quarant’anni di scavi per estrarre la bauxite hanno lasciato il segno. “Non va bene. Hanno portato via due o tre metri di strato supericiale del ter-reno”, dice Guivarra. “Lì gli alberi non cre-sceranno mai più come prima”. Secondo Glenn Walker, portavoce dell’associazione ambientalista Wilderness society, “anche a Weipa sono state fatte promesse di svi-luppo economico e sociale, ma il livello di vita non è migliorato molto”.

Il Sudafrica dei tempi peggioriGrace John è seduta sotto un albero di gom-ma. Mangia qualcosa prima di addentrarsi nel bush a raccogliere patate dolci. In ses-sant’anni di vita, dice, ha già visto tante volte un’élite di bianchi che vive in città im-porre alla comunità le sue idee sociali, po-litiche e ora anche ambientali. Nel 1963, quando era ragazza, Grace ha visto la poli-zia cacciare gli abitanti di Mapoon dalle loro terre dopo la decisione del governo di Robert Menzies di ridurre i sussidi sociali alle comunità aborigene. Con metodi simi-li a quelli del Sudafrica dei tempi peggiori, le comunità aborigene furono trasferite in riserve sparse in tutto il territorio di Cape York. “Ho visto le iamme salire e bruciare tutte le cose che dovevamo lasciare”, rac-conta. “Perino i cani si sono messi a nuota-re verso le barche quando la polizia ha cari-cato il primo gruppo. Quella ferita è ancora aperta”.

L’avvocato Pearson dice che le ultime amministrazioni, inluenzate dalla lobby ambientalista, hanno approvato leggi che ricordano molto l’apartheid. Una delle peg-giori è il Wild rivers act che, come dice lui, “piscia sui diritti degli indigeni”, impeden-dogli di sfruttare le opportunità economi-che oferte dalle loro terre. Tre mesi fa Ste-phen Robertson, il ministro per le risorse naturali del Queensland, ha usato il Wild rivers act per emettere un’ordinanza di tu-tela del iume Wenlock, che scorre nelle vicinanze di Bertiehaugh e dell’eventuale miniera. Il provvedimento vieta qualsiasi attività dannosa per il terreno in una zona che si estende per un chilometro dalle rive del iume e dei suoi aluenti, e per cinque-cento metri intorno alle sue sorgenti e alle sue gole.

“Stiamo operando molto lontano dal iume in un’area a bassa biodiversità”, dice Paul Messenger, l’amministratore delegato

della Cape Alumina. “Ma stabilendo che dobbiamo tenerci a mezzo chilometro dal-le gole hanno praticamente bloccato il no-stro progetto. Ce ne sono centinaia in quel-la zona. Il nostro partner cinese, la Chiping Xinfa, non vuole fermarsi e ha scritto al mi-nistro. Ma non sappiamo più se il progetto si può realizzare davvero”.

Come fa notare Walker, la legge doveva impedire che i fiumi incontaminati del Queensland facessero la stessa ine degli aluenti del bacino del Murray-Darling. “Negli anni novanta”, spiega Walker, “sono stati spesi milioni di dollari per ripulire le acque del bacino. Il Wild rivers act garanti-sce una tutela preventiva, e la legge è stata rivista tre volte per ridurre al minimo i dan-ni economici per le comunità indigene. Anzi, i proprietari terrieri tradizionali del golfo di Carpentaria l’hanno accolta con soddisfazione proprio a causa dell’impatto delle attività minerarie”.

Alcuni, però, sostengono che la legge è così generica che paralizza lo sviluppo eco-nomico e impedisce agli aborigeni addirit-tura di coltivare orti nei fertili terreni vicino alle rive del iume. Un provvedimento simi-le rischia di provocare una frattura nella nuova coalizione di governo guidata dalla laburista Julia Gillard. Tra i dibattiti in ca-lendario al parlamento di Canberra, infatti, c’è la richiesta del leader dell’opposizione, il conservatore Tony Abbott, di abrogare la

legge. Perino la chiesa anglicana, che di solito non interferisce, è scesa sul sentiero di guerra. Secondo Peter Pearce, che dirige l’ufficio giustizia sociale della diocesi di Brisbane, “mettere un limite ai beneici che le popolazioni indigene potrebbero trarre dalla terra e farlo senza chiedere il loro con-senso è un comportamento da coloniali-sta”. Pearce sottolinea che è paradossale imporre dei provvedimenti a difesa di terre che appartengono ai nativi e che hanno mantenuto la loro grande bellezza non solo per la mancanza di sviluppo ma proprio grazie alle cure dei loro antichi abitanti.

Forse l’ofesa più grave rappresentata dal recinto di Bertiehaugh è quella di voler far credere che l’Australia Zoo sia l’unico depositario dell’intelligenza ecologica e commerciale necessaria per gestire queste terre o un qualsiasi progetto ambientale decente. Per rendersi conto che non è così, basta andare a Camp Chivaree, una riserva di tartarughe alla foce del Janie Creek, a mezz’ora di macchina da Mapoon, sulle sponde del golfo di Carpentaria. I depliant turistici esaltano i suoi bungalow, la cucina all’aperto e i trenta chilometri di spiaggia deserta. Lo descrivono come un “luogo di vacanza ecologico” e fanno pagare un prez-zo adeguato a questo status. Ma chi visita Chivaree, che appartiene alla comunità di Mapoon, resta afascinato proprio dalla sua semplicità. Mentre gettiamo l’amo nel Ja-nie Creek per assicurarci la cena, Dick Fo-ster, il direttore del campo, mi racconta che nei primi anni il tasso di sopravvivenza dei piccoli di tartaruga era sceso nettamente a causa dei maiali selvatici e delle reti da pe-sca abbandonate. “Negli ultimi cinque an-ni, invece, il tasso di sopravvivenza di alcu-ne specie, come le Olive Ridley e le Hawk-sbill, è salito all’85 per cento”. È diicile non farsi trascinare dall’entusiasmo di Fo-ster.

Al tramonto, mentre torniamo al campo trasportando enormi barramundi e tenen-do gli occhi aperti per evitare i coccodrilli, mi spiega qual è il suo prossimo obiettivo: istituire una borsa di studio per gli studenti di Mapoon e aprire un piccolo centro di ri-cerca.

Terri Irwin, invece, ha prodotto diversi ilmati in cui parla del fondo per la difesa dell’ambiente di Bertiehaugh, mentre sua iglia Bindi sembra parodiare i gesti esage-rati e le cadenze del padre. Questi ilmati preoccupano gli abitanti di Mapoon, che a tre anni dalla donazione della terra a Terri Irwin ancora non sanno quali sono i proget-ti per il ranch. A dodici anni Bindi ha una casa di moda, conduce un programma tele-

u Steve Irwin era diventato uno degli australiani più famosi nel mondo grazie alla fortunata serie televisiva di documentari sugli animali, The crocodile

hunter (Il cacciatore di coccodrilli). Accanto all’attività televisiva Irwin aveva sviluppato, insieme alla moglie Terri, l’Australia Zoo, un parco dedicato agli animali selvatici ereditato dai genitori. Oggi la struttura, che si trova nello stato del Queensland, è una delle maggiori attrazioni turistiche dell’Australia: ospita più di mille animali su una supericie di 31 ettari ed è visitata ogni anno da 700mila persone. L’Australia Zoo è sostenuto anche da molti personaggi famosi, tra cui il Dalai Lama e il cantante Justin Timberlake. u Steve Irwin è morto nel 2006, a 44 anni, in un incidente subacqueo. La moglie Terri continua a gestire l’Australia Zoo e numerose iniziative ambientaliste. Bindi Sue, la prima dei due igli di Steve e Terri (l’altro è Robert, sei anni), è già una celebrità: a dodici anni ha pubblicato un disco di musica hip hop, un dvd di itness per bambini e conduce dei programmi televisivi.

Chi era Steve Irwin

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visivo e pubblica dischi e dvd di fitness. Molti pensano che i proventi delle sue atti-vità potrebbero essere usati per la conser-vazione del paesaggio, ma Guivarra dice con enfasi: “Non vogliamo che la nostra terra sia trasformata in una specie di eco-Disneyland”.

Il modesto successo di una piccola ini-ziativa come Camp Chivaree è in netto contrasto con la messinscena pubblicitaria e la commercializzazione dell’Australia Zoo, che secondo alcuni esperti esiste solo per creare proitti all’impero dell’ecointrat-tenimento di Irwin. Quando gli abitanti di Mapoon incontrano Terri, di solito è perché è arrivata lì in aereo con i suoi igli, Bindi e Robert, e una troupe televisiva.

Imprenditoria socialeOra, a quanto pare, il ruolo che dovrà svol-gere la comunità indigena nella futura ge-stione della proprietà è stato inalmente preso in considerazione. In un video appar-so sul sito dell’Australia Zoo, Terri Irwin parla di imprenditoria sociale e della colla-borazione con un’università per la ricerca sulle medicine naturali. Accanto a lei, il proprietario terriero teapithiggi Cecil Ar-thur spiega che grazie allo zoo spera di tor-nare nella sua terra, mentre Irwin lo guarda con aria benevola. Questi discorsi rattrista-

no Pearce: “È come in passato, quando il regime coloniale usava poliziotti indigeni per sofocare le manifestazioni di protesta per i diritti civili. Gli davano un’uniforme e un cavallo e li usavano per sfruttare e repri-mere la loro gente”. Nel ilmato Irwin ac-cenna anche alla sua ultima iniziativa com-merciale, l’Australia Zoo Las Vegas, un progetto da trecento milioni di dollari. “Of-frirà possibilità di lavoro ai teapithiggi, che potranno eseguire le loro danze e mostrare la loro arte per far conoscere a chi visita Las Vegas la vera essenza della cultura aborige-na australiana”.

Sulla veranda di Manantan, Sydney sembra distante anni luce, iguriamoci Las

Vegas. Parliamo dei danni che i maiali sel-vatici fanno alla terra e del modo migliore per ucciderli. L’idea che quest’uomo abi-tuato a rischiare la vita cacciando nel bush a piedi nudi si metta a ballare a Las Vegas sembra assurda. Ma se in futuro il Wild ri-vers act non sarà cambiato, a questa comu-nità così povera sarà negata anche l’ancora di salvezza oferta dalla Cape Alumina.

Manantan mi invita ad andare a caccia con lui quando il piede sarà guarito. “Ve-dremo i coccodrilli”, dice. E, intuendo la mia preoccupazione, aggiunge: “Tranquil-lo, non mangio nessun animale che mangia gli uomini. E dovresti sapere che qui i coc-codrilli non sono l’unico pericolo”. u bt

u Alcune incoerenze nell’accordo per l’acquisizione del ranch di Bertiehaugh sollevano dubbi sul fatto che l’allevamento possa essere ribattezzato Steve Irwin wildlife reserve. Il governo del Queensland sostiene che “anche se alcuni lo chiamano così, in realtà il ranch di Bertiehaugh è stato concesso in aitto per inalità agricole,

come prevede il Queensland land act del 1994. La società che ha ottenuto la concessione è la Silverback Properties, in qualità di amministratrice iduciaria del Terri Irwin family fund”. Andrew Buckley, che dirige i servizi regionali del governo del Queensland, ha confermato che la terra “deve essere usata solo a ini agricoli”, e in particolare per

le coltivazioni e i pascoli. “Se chi ha ottenuto la concessione intende usarla per scopi diversi, l’accordo non è più valido. In questo caso Terri Irwin dovrebbe chiedere una nuova concessione, e la sua domanda sarà esaminata a norma di legge, tenendo conto anche dei diritti delle popolazioni indigene”.South China Morning Post

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Cape York, Australia. Al festival della danza aborigena

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Il Gangeanimadell’IndiaIl iume sacro è uno dei più inquinati del mondo. Lungo le sue rive modernità e tradizione convivono a fatica. Le foto di Rishi Singhal

Il fiume Gange scorre per 2.500 chilometri dalle sorgenti nell’Hi-malaya ino al golfo del Bengala, passando per

le pianure del nord dell’India. Attraversa una delle zone più popolate del pianeta, dove vivo-no circa quattrocento milioni di persone. Il Gange è il iume sa-cro degli indù. Secondo la tradi-zione, fare il bagno nelle sue acque permette di puriicarsi. A Varanasi, lungo il iume, si svol-gono alcuni dei più importanti raduni religiosi.

Oggi il Gange è uno dei iu-mi più inquinati del mondo a

causa dello sfruttamento com-merciale dell’area e dell’au-mento della popolazione. Il iume è minacciato anche dalla riduzione dei ghiacciai dell’Hi-malaya che lo alimentano do-vuta al riscaldamento globale.

Il fotografo indiano Rishi Singhal percorre il Gange dal 2007 per studiare il rapporto tra il iume e la popolazione, sofer-mandosi sulla convivenza non sempre facile tra le antiche tra-dizioni culturali e la moderna società dei consumi. u

Rishi Singhal è nato a New

Delhi nel 1975.

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A pagina 64-65, foto grande: Allahabad, 2007. A pagina 65, foto piccola: Varanasi, 2007. Qui sopra, dall’alto: Varanasi, 2008; Deoprayag, 2009; Tapovan, 2007. A destra: Allahabad, 2007.

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A sinistra: Allahabad, 2007. Sopra, dall’alto: Batanagar, 2009; Ghatiaghat, 2007; Rudraprayag, 2009.

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Alcuni ucraini lo adorano. Per altri è un criminale. Molti non sanno nean­che chi sia. Ma secondo la rivista Forbes Rinat Akhmetov, 44 anni, è

l’uomo più ricco d’Ucraina e uno dei più ricchi del mondo, con un patrimonio sti­mato di circa 13 miliardi di euro. Tanti as­sociano il suo nome al Partito delle regioni del presidente Viktor Janukovich, al quale Akhmetov è iscritto e di cui si dice sia un generoso sostenitore.

Come altri oligarchi in Ucraina, Akh­metov è un parlamentare, rappresentante della città di Donetsk, nella parte orientale del paese. Il suo sostegno ha contribuito al trionfo di Janukovich nelle elezioni presi­denziali di febbraio. Il 24 agosto, mentre il paese festeggiava l’indipendenza, Akhme­tov, che è iglio di un minatore, ha ricevuto la prestigiosa medaglia Principe Jaroslav il saggio per i suoi contributi allo sviluppo dell’Ucraina.

Anche se è noto per essere un astuto uomo d’afari, i generosi contributi di Akh­metov a varie associazioni beneiche gli hanno fatto guadagnare la fama di ilantro­po, una figura relativamente nuova in Ucraina. Negli ultimi due anni, la sua Fon­dazione per lo sviluppo dell’Ucraina ha donato più di trenta milioni di dollari per sostenere ospedali, programmi antituber­colosi, malati di cancro, scuole, università, biblioteche, case famiglia, orfanotrofi, musei, senzatetto, veterani di guerra e vari

progetti culturali. “Le associazioni benei­che devono porsi obiettivi specifici. Noi afrontiamo i problemi in modo sistemati­co”, ha scritto Akhmetov in una intervista concessa via email. “Mi piace l’espressione ‘la carità ha una voce tenera’. Purtroppo, però, non si può risolvere tutto con la tene­rezza. Bisognerebbe parlare a voce alta dei problemi, magari gridare per farsi senti­re”.

Un’altra creatura di Akhmetov, la Fon­dazione per un governo eicace, inaugura­ta nel 2007, usa le competenze di esperti stranieri e ucraini per capire come stimola­re il progresso del paese. “Questa fonda­zione può essere considerata il mio perso­nale contributo allo sviluppo dell’econo­mia ucraina”, ha detto Akhmetov. “Il pro­cesso delle riforme è doloroso. Per portarlo a termine dovremo usare le conoscenze

degli esperti, imparare dal successo in altri paesi. Non possiamo aspettare che i pro­blemi si risolvano da soli. Le persone van­no aiutate adesso”. Tra i temi che interes­sano Akhmetov c’è la qualità del giornali­smo. Nel 2007 ha inanziato un program­ma triennale dal titolo “Giornalismo e fu­turo digitale” presso la prestigiosa univer­sità nazionale Ukma di Kiev. Nello stesso ateneo ha anche sostenuto un nuovo pro­gramma di dottorato pensato per soddisfa­re gli standard europei sull’istruzione.

Anche se aiuta regolarmente gli ucraini più poveri – ha stanziato un fondo di nove­centomila dollari per le famiglie delle vitti­me di un’esplosione di gas a Dneprope­trovsk, nel 2007, e un contributo di trecen­tomila dollari alle vittime di un incidente aereo nel distretto di Donestk – la vera pas­sione di Akhmetov è la squadra di calcio dello Shakhtar Donetsk. Nel 1996 ne è di­ventato presidente, poi principale inan­ziatore e inine proprietario. Nel 2009 lo Shakhtar ha vinto la coppa Uefa ed è diven­tato un’agguerrito rivale della Dinamo Kiev, la più importante squadra del paese. Per lo Shakhtar, Akhmetov sta anche co­struendo il nuovo stadio, che sarà pronto per gli Europei del 2012, che l’Ucraina ospi­terà insieme alla Polonia.

Il primo milioneMolti ucraini non esitano a riconoscere i meriti di Akhmetov, mentre altri mettono in discussione la provenienza dei suoi sol­di. C’è chi dice che abbia cominciato come baro. Secondo altri ha fatto parte di orga­nizzazioni criminali coinvolte nel riciclo di denaro sporco. Molti articoli usciti sui giornali e in rete afermano che la svolta è arrivata quando Akhmetov ha ereditato una piccola fortuna da un collega e ha co­minciato a investire in acciaio, miniere, telecomunicazioni, energia e nella lavora­

Rinat Akhmetov L’Ucraina in pugno

Per alcuni è un personaggio losco. Altri lo considerano un grande benefattore. Di sicuro è uno degli uomini più ricchi e potenti dell’Europa dell’est

Christine Demkowych, Transitions Online, Repubblica Ceca Foto di Davide Monteleone

◆ 21 settembre 1966 Nasce a Donetsk, in Ucraina, da una famiglia di minatori.◆ anni novanta Si laurea in economia all’università di Donetsk. Arriva ai vertici del settore bancario. Nel 1996 diventa presidente della squadra di calcio dello Shakhtar, che vince la coppa Uefa nel 2009.◆ 1999 Un rapporto del ministero dell’interno mette in luce i suoi legami con la criminalità organizzata.◆ 2000 Fonda il System capital management group, una holding con interessi nella inanza, nell’industria energetica e mineraria e nelle telecomunicazioni. ◆ 2004 Svolge un ruolo importante nella vittoria di Viktor Janukovich. Il risultato elettorale viene poi ribaltato dalla rivoluzione arancione.◆ 2006 È eletto in parlamento con il Partito delle regioni.◆ 2010 Secondo la rivista Forbes è tra le 150 persone più ricche del mondo.

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zione di prodotti alimentari. Akhmetov ha detto più volte di non aver

mai ricevuto denaro o beni da nessuno. “Ho guadagnato il mio primo milione commerciando in carbone, poi ho usato quei soldi per comprare beni relativamen-te a buon mercato che nessun voleva. Era rischioso ma ne è valsa la pena”. Secondo Olexij Haran, professore di scienze politi-che alla Ukma, Akhmetov riceve lo stesso trattamento che di solito viene riservato ai politici ucraini, soprattutto quelli ricchi, considerati dei criminali. Haran crede che il paese abbia bisogno degli oligarchi per trovare stabilità. “Bisogna riconoscere che sono fondamentali per la crescita dell’Ucraina. Hanno obiettivi personali ma i loro interessi vanno di pari passo con quelli del paese”.

Per Olha Taukach, direttrice di Foreign Afair Journal, l’idea che in Ucraina si arric-chiscano solo i corrotti sta perdendo soste-nitori. “Gli ucraini si stanno rendendo con-to che i ricchi non sono per forza assassini o ladri. E che ci si può arricchire aidando-si alle proprie capacità intellettuali e al du-ro lavoro”.

L’Ucraina non è mai stata terreno ferti-le per la beneicenza. “Dopo il 1991 gran parte dei inanziamenti a scopo beneico veniva da governi stranieri”, spiega Timo-thy Pylate, della fondazione Eurasia, una organizzazione inanziata da Usaid (l’agen-zia statunitense per lo sviluppo internazio-nale) che contribuisce alla nascita di istitu-zioni civiche nella regione. Nei primi anni dopo la caduta dell’Unione Sovietica gli oligarchi non hanno fatto altro che accu-mulare ricchezza. Ma con l’intensiicarsi dei contatti con organizzazioni occidenta-li, leader mondiali e ilantropi stranieri, anche loro hanno cominciato a mettere mano al portafoglio.

Di recente Tetiana Boiko, dell’ong Opo-ra, ha detto che l’immagine della benei-cenza in Ucraina è stata ofuscata da episo-di controversi, come il caso di Katerina Ju-shenko, moglie dell’ex presidente, che sembra essersi intascata i fondi destinati a un ospedale.

Una recente indagine condotta dal fo-rum dei ilantropi ucraini ha rivelato che le imprese scelgono di destinare le loro dona-zioni soprattutto alla sanità, al welfare e all’istruzione. Secondo Anna Gulevska-Chernysh, direttrice del forum, prima che la crisi inanziaria colpisse l’Ucraina, le do-nazioni private e aziendali erano elevate. Gulevska-Chernysh spiega che i donatori stanno cominciando ad adottare un ap-proccio più sistematico. “Ora sanno stabi-

lire meglio le priorità dei problemi. Così, invece di regalare le caramelle agli orfani, cercano delle famiglie a cui darli in adozio-ne”. Gulevska-Chernysh spiega che in Ucraina le aziende sono spesso costrette a fare donazioni alle agenzie governative. “Ricevono telefonate o lettere uiciali in cui gli viene chiesto di aiutare un’organiz-zazione con inanziamenti o strumenti e macchinari di vario tipo. Se non lo fanno, i loro afari ne risentono”.

Ad aggravare il ricatto c’è un sistema iscale quasi punitivo per i donatori. Visto che la maggior parte dei beneiciari non può permettersi di pagare le tasse sulle do-nazioni ricevute, i donatori devono coprire questi costi. Inoltre i contributi non sono deducibili dalle tasse. Il forum chiede una svolta nella legislazione iscale che inco-raggi le donazioni beneiche.

L’angelo custodeCome succede in Russia, le ragioni di Akh-metov e di altri filantropi ucraini sono spesso messe in discussione. “Non lo fa per il bene del paese. Lo fa per se stesso”, dice l’analista politico Volodia Khodakiv-skij. “Senza l’Ucraina, Rinat Akhmetov non esisterebbe”.

“È vero che la beneicenza aziendale è spesso dettata dalla volontà di crearsi un’immagine positiva agli occhi dell’opi-nione pubblica”, dice Pylate. “Succede an-che negli Stati Uniti. La speranza è che a spingere gli oligarchi ucraini sia soprattut-to l’amore nei confronti del loro paese. E anche se questo li aiuta a rifarsi un’imma-gine, ben vengano le donazioni”. Tetiana Boiko crede che, indipendentemente dalle sue motivazioni, “Akhmetov sta facendo del bene al paese. Le imprese ucraine non traggono nessun vantaggio fiscale dalla beneicenza. Spero che altri seguano il suo esempio”.

Le opere di carità e il suo ruolo in parla-mento hanno portato Akhmetov alla ribal-ta, ma a Kiev la sua igura è ancora secon-daria rispetto a quella di Viktor Pinchuk, il

genero dell’ex presidente Leonid Kuchma. Due anni fa Pinchuk ha organizzato un grande concerto con Paul McCartney in piazza dell’Indipendenza. Finanzia inoltre il Pinchuk art center, dove sono esposte numerose opere d’avanguardia.

Ma tanti hanno ottime ragioni per di-fendere Akhmetov. Un commerciante di frutta e verdura di Kiev che ho intervistato (e che ha chiesto di restare anonimo), l’ha riempito di elogi. Ha detto che la generosi-tà del magnate ha profondamente inciso sulla vita della sua famiglia. “Ha aiutato i igli di alcuni miei parenti mandandoli gra-tuitamente in campeggio e ha regalato del-le divise sportive ai bambini. Non m’inte-ressa quello che dicono. Rinat Akhmetov fa del bene al nostro popolo”.

Le tracce della presenza di Akhmetov nel centro di Donetsk sono ovunque, nei tanti ediici che ha fatto costruire, nel cine-ma che ha fatto restaurare, nel centro cul-turale o nella biblioteca che ha inanzia-to. E la sua generosità va oltre la sua regio-ne d’origine. Nella parte opposta del paese, nella città occidentale di Uzhgorod, Vira Hotra è grata ad Akhmetov per avere dato una casa alla sua famiglia di undici igli: prima vivevano in due stanze a casa della nuora. “Quando ci siamo sposati, mio ma-rito mi ha detto che avremmo avuto più di tre igli. Ma non mi sarei mai aspettata di averne undici. Le due camere non bastava-no per tutti e non avevamo abbastanza sol-di per trasferirci in una casa più grande”, ha detto Vira. “Andavo dai funzionari loca-li a lamentarmi e a chiedere che ci dessero un posto dove vivere. Così, quando un giorno mi hanno chiamata dicendomi che grazie ad Akhmetov avrei avuto un grande appartamento, ho pensato che fosse uno scherzo. Invece era tutto vero. Akhmetov ha cambiato la nostra vita”.

A Leopoli, l’oncologo Jurij Milian è gra-to alla fondazione di Akhmetov per aver fornito al suo ospedale una macchina per la tomograia computerizzata. Liudmilla Vasilega, direttrice delle risorse umane nella Dneprospetsstal, un’azienda che pro-duce acciaio nella città meridionale di Za-porizhia, parlando di Akhmetov ha detto che la cosa che colpisce di più è la sua evo-luzione personale. “È cresciuto nella po-vertà, e qualsiasi percorso lavorativo abbia intrapreso, quel che conta è come è cam-biato e il modo in cui ha deciso di usare i suoi soldi. Ofre sostegno a numerose or-ganizzazioni”, e si dice che abbia trovato lavoro a 160mila persone nella sola regio-ne del Donbass. “E, grazie allo Shaktar, tiene alta la bandiera del paese”. u sv

C’è chi dice che ha cominciato come baro. Secondo altri ha fatto parte di gruppi criminali coinvolti nel riciclaggio di denaro sporco

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MYmovies.it/TheSocialNetwork

SCENEGGIATURA DIAARON SORKIN

UN FILM DIDAVID FINCHER

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Viaggi

camente dallo scià Abbas I nel 1612, questa piazza decorata da palazzi, moschee e ba-zar incarna il sogno del Luigi XIV persiano: la riproduzione di una delle città del para-diso evocate nel Corano e nei testi dei mi-stici persiani. Dall’alto del palazzo Ali Gha-pu, lo scià poteva godersi la silata delle sue truppe, assistere alle esecuzioni, sorveglia-re i movimenti dei commercianti e dei ven-ditori ambulanti o incitare i giocatori dei tornei di polo, di cui rimangono i pali delle porte in pietra.

Arabeschi bianchi e oroOggi la piazza somiglia a uno studio cine-matograico. Ci sono famiglie sedute per un déjeuner sur l’herbe alla Renoir, con in più un fornelletto a gas, oppure gruppi d’amici che sembrano usciti da Abbey Road, con in più un qanun (una cetra di for-ma trapezoidale); coppie impegnate a reci-tare Love story, ma senza il bacio, e mullah che sembrano tutti andare di fretta. Tutti tranne Moshtaba. Perennemente a zonzo per la piazza con le orecchie ben aperte, fa la posta a francesi, belgi o canadesi, che gli permetteranno di perfezionare la sua quar-ta lingua. Poco distante alcuni bambini af-gani, per pochi rial, vendono versi di celebri poeti persiani. Su tutto regna il verso dei vetturini, che fanno trottare i loro cavalli intorno alla piazza. A bordo ci sono alcune ragazze iraniane che scherzano con un gruppo di ragazzi di Teheran con un look alla Cure. Ora non sono più gli scià a sorve-gliare queste scenette, ma le pattuglie dei basij, le famigerate milizie locali.

L’antica città sulla via della Seta ospita-va un andirivieni di carovane: mercanti di tutte le origini venivano a far riposare i loro gambali e la loro stanchezza. Oggi, nella nuova città sulla via del turismo, sono i pull man delle scuole ad aver sostituito i cammelli: gli occidentali si perdono tra frotte di giovani iraniane contente di sco-prire il passato del loro paese. Alle schiere di ragazze avvolte nel chador si mescolano

quelle bardate con ponchi e pantaloni mi-metici, senza dimenticare il fazzoletto ob-bligatorio in testa, coperto da un berretto al contrario. Quelle più alla moda si coprono con disinvoltura i capelli tinti e passeggiano sfoggiando il loro naso ingessato: in Iran impazza la chirurgia estetica e il naso si cambia spesso come una camicia.

Prossima tappa: la moschea dello scià, detta anche moschea dell’Imam. Ancora una volta non ci si è accordati sul nome del monumento principale della città. Il più grande capolavoro dell’epoca safavide è circondato da due minareti turchesi. Il por-tale è fregiato e la cupola è coperta di calli-graie innovatrici, arabeschi bianchi e oro su sfondo azzurro, maioliche con motivi loreali. Nel cortile, scrisse Bouvier, “ci en-trerebbero facilmente un centinaio di auto-

“Il viaggiatore che s’avvicina a Isfahan s’accorge subito di trovarsi di fronte a una grande e bella città”, osser-vava l’architetto Pascal Co-ste nel 1867. Meno di mez-

zo secolo dopo, lo scrittore Pierre Loti mol-tiplicava gli elogi: “Come un sipario alzato a teatro, due colline brulle si presentano davanti ai nostri occhi; e il paradiso nasco-sto dietro si rivela lentamente”. Anche lo scrittore e fotografo Nicolas Bouvier, ses-sant’anni fa, assaporò quell’istante: “Bufa-li, asini, cavalli neri, contadini dalle cami-cie sgargianti erano tutti impegnati a inire la mietitura. Le cupole delle moschee lut-tuavano sulla distesa della città”.

Impazienza, desiderio, meraviglia: il fascino d’Isfahan non lascia indiferenti. Con il cuore palpitante e gli occhi stregati, i viaggiatori si abbandonavano alla candida dolcezza della città, ornata dei colori dello zairo. Una pietra preziosa che secondo gli orientali è il più potente dei talismani. Fon-te di ricchezza, pace e fedeltà. Oggi Isfahan continua a far sognare, ma il primo impatto è traumatico. Autobus e auto che sfreccia-no sulle poche strade risparmiate dal can-tiere della futura metropolitana. Niente cupole all’orizzonte: ormai sono coperte dagli ediici grigi. Il mio sguardo s’intristi-sce quando vedo i vecchi fabbricati, in gran parte sigurati dai cartelloni pubblicitari.

La città rivela la sua bellezza in piazza dell’Imam – il nome in onore della guida spirituale della rivoluzione islamica, Ruhol-lah Khomeini – o piazza dello Scià, per i pu-risti e gli avversari del regime. Il centro è proprio qui. Voluta e pensata architettoni-

RivoluzioneislamicaEve Gandossi, Grands Reportages, Francia

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Nelle moschee e nei bazar di Isfahan. La città iraniana rischia di perdere la sua identità: alberghi e ristoranti al posto degli hammam

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◆ Documenti. Il visto turistico per l’Iran costa 50 euro. Bisogna chiedere l’autorizzazione al ministero degli esteri iraniano (attraverso qualcuno che è residente in Iran o tramite un’agenzia). Il passaporto deve avere due pagine libere consecutive e non deve avere visti di Israele. Ottenuta l’autorizzazione si ritira il visto al consolato di competenza (Roma o Milano). Per maggiori informazioni contattare lo 06 8621 4478, oppure lo 02 8621 4478-80.◆ Arrivare Il prezzo di un

volo dall’Italia (Turkish Airlines, Austrian Airlines, Emirates) per Teheran parte da 533 euro a/r. Isfahan si trova a 400 chilometri dalla capitale. È raggiungibile con voli interni, pullman o treni.

◆ Dormire L’hotel Piroozy (Down Chahar Bagh St., 0098 311 22 14354) è a dieci minuti a piedi da piazza dell’Imam. Ha un buon rapporto qualità prezzo: una doppia costa 52 euro a notte, colazione compresa.◆ Leggere Gilbert Sinoué, La via per Isfahan, Neri Pozza 2009, 13,50 euro.◆ La prossima settimana Viaggio all’isola Dominica, nei Caraibi. Ci siete stati e avete suggerimenti su tarife, posti dove mangiare o dormire, libri? Scrivete a [email protected].

Informazioni pratichebus e forse anche la cattedrale di Notre-Dame”. Grazie alla sua immensità, il luogo di raccoglimento si trasforma in pista per pattinare. Accanto c’è la moschea dello sheikh Lotfollah. La chiamano “moschea delle donne” perché sotto i sei piani della residenza preferita dello scià Abbas c’era un sotterraneo segreto che attraversava la piazza: le donne potevano raggiungere la moschea senza essere viste. Lasciandosi alle spalle le stanze del palazzo delicata-mente afrescate, si calavano nel cuore di un’enorme sala ricca di motivi loreali, con una cupola di maiolica smaltata. Passavano dalle note che riempivano la sfarzosa sala di musica, con le nicchie scolpite, alle lodi dell’imam.

Sopra il portale principale veglia un cer-bero a mosaico: è un sagittario, ascendente

Isfahan, Iran. La moschea dell’imam

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Viaggi

astrologico della città e simbolo della du­plicità dell’uomo, fatto di materia e spirito. Il messaggio è chiaro: questo posto traboc­ca di ricchezze. Anche dal punto di vista umano. Resto a bocca aperta di fronte all’inserviente appassionato di filosofia, che vorrebbe dissertare su Derrida, Deleu­ze e Onfray. Oppure davanti al venditore di tessuti che passa il tempo a leggere libri di sociologia urbana. Poi ci sono i due artigia­ni che parlano del futuro del paese. Il primo iloamericano, il secondo ilogovernativo, eppure sono amici da anni. Un tempo, que­sta mescolanza era alimentata dall’arrivo di armeni, ebrei, afgani, beluci, britannici, olandesi, francesi, riuniti in centinaia di ca­ravanserragli. Lo scià Abbas aveva trasfor­mato la sua nuova capitale in un crocevia commerciale tra la Cina e l’impero ottoma­no, tra la Russia e il golfo Persico.

Oggi, oltre alle cianfrusaglie orientaleg­gianti, si possono ancora scovare i fabbri­canti di qalamkar, le stofe di cotone con motivi realizzati usando dei tamponi scol­piti. Sotto le basse volte secolari, Ali e suo

padre Mohamed lavorano alacremente. I gesti sono meticolosi, il tampone è applica­to con precisione millimetrica, motivi e colori si susseguono senza sosta. La fabbri­ca Fakhuri esiste da trecento anni e una delle sue ultime opere riempie ancora d’or­goglio padre e iglio. “Abbiamo partecipato alla creazione del tappeto della moschea del sultano Qabus a Masqat”, si vanta Ali. “Quattro anni di lavoro, tutto a mano, per fare il tappeto più grande del mondo”. Per­ché qui, a diferenza di Damasco, dove gli artigiani non sanno quasi più lavorare la seta, si fabbricano ancora tappeti persiani. Da quarant’anni, chiuso nel suo bugigatto­lo, Mehdi pesta pigmenti per tingere i ili. Poco lontano, Jafar, Hussein e i loro operai immergono i ili di seta e di lana in grandi vasche per colorarli. Da Timshe Misraeli, gli artigiani riparano con cura i nodi rovina­ti, mentre i venditori dormicchiano in cima alle pile di tappeti. Altri tesori sparsi si na­scondono nel verde rigoglioso: i palazzi Chehel Sotun e Hasht Behesht, con i loro afreschi, la moschea della Madre del re, vicina a un antico caravanserraglio ma­scherato da albergo di lusso e a case d’epo­ca qajar o safavide. Alcune sono riservate

agli studenti di belle arti, altre sono diven­tate musei. Gli ediici sono anche usati co­me magazzini, alberghi o studi di architetti (è il caso della splendida casa Polsheer). Oppure lasciati in uno stato di triste abban­dono. “Al proprietario costa meno aspetta­re che crolli tutto per poi costruire un palaz­zo o un parcheggio”, dice con un sospiro Amir, che abita nel quartiere. Non è facile amministrare una città diventata sei volte più grande negli ultimi sessant’anni.

L’acqua della digaAnche gli hammam hanno soferto di que­sto sviluppo. L’avvento di quelli privati ha segnato l’inizio della discesa agli inferi. La rivoluzione islamica ha fatto il resto. Sono luoghi di libertà che disturbano, e per puni­zione vengono demoliti o, nella migliore delle ipotesi, riconvertiti in cafè, musei o ristoranti. Solo due hammam sopravvivo­no, “e pensare che erano 150 appena mezzo secolo fa”, ricorda Hassan, 75 anni, che si porterà nella tomba l’hammam che gesti­sce. Sua moglie si vergogna di quel lavoro e i tre igli non hanno nessuna intenzione di proseguire l’attività del padre. E poi gli hammam sono accusati di prosciugare la falda freatica: l’alibi ecologico fornisce un ottimo motivo per condannarli.

Il comune, intanto, ha deciso di razio­nare l’acqua della diga, che si trova a mon­te: la scarsità delle piogge non lascia scelta. Lo Zayandeh Rud, il “iume che dà la vita”, non ha mai smentito così tanto il suo nome. I ponti s’inarcano su un letto di terra spac­cata. La sera gli archi Khaju e Sio Seh pol, entrambi del seicento, si trasformano in palcoscenici musicali. Sull’altra sponda, l’atmosfera è altrettanto animata e rumo­rosa. Chi frequenta Jolfa, il quartiere arme­no e cristiano, si sente alla moda. Nei bar servono bevande simili a quelle di Star­bucks. In sottofondo passa la versione tec­no delle Quattro stagioni.

Isfahan, tante volte descritta come una meraviglia emersa dalle sabbie, oggi fa par­lare di sé per motivi poco lusinghieri, come l’ostinazione del governo a voler arricchire l’uranio (una delle fabbriche si trova nella periferia della città). L’Iran non rinuncia all’antico spirito autarchico: tutto, o quasi, è made in Iran, dalle prese della corrente elettrica alle scarpe da ginnastica, passan­do per petrolio, caviale, automobili e riso. Una produzione degna di un paese che pro­va a recuperare la sua grandezza. Sette se­coli fa il grande poeta persiano Hafez scri­veva: “Vuoi la ricetta della felicità? Vivi lontano dalle cattive compagnie”. È la stra­da scelta dall’Iran. u fs

Oggi Isfahan continua a far sognare, ma il primo impatto è traumatico

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A tavola

u Frutta secca e fresca, uvette, prugne, melograni, noci, albicoc­che. E poi spezie, soprattutto zaf­ferano e cannella, erbe aroma­tiche e tanta carne d’agnello, grigliata o stufata: il khoresht, per esempio, o il kebab koobideh, fat­to con carne macinata e avvolta attorno a uno spiedo. Il tutto ac­compagnato da riso basmati pi­laf, polo in persiano, o kateh, più colloso, e da pane non lievitato di diverse fogge. La cucina persiana cambia da regione a regione, e con la sua tradizione millenaria ha inluenzato la gastronomia di tutti i paesi vicini, dal Medio Orien te all’Asia centrale.

Per assaggiare la grande cuci­na locale, il Guardian consiglia Nayeb of Vozara, uno dei più ce­lebri ristoranti di Teheran. Non certo economico per gli standard locali – una cena per due persone costa circa 50 euro – ofre però una cucina molto varia e curata in uno dei locali più opulenti del­la capitale. Nelle città più piccole il pasto principale – scrive il New York Times – è solitamente composto da kebab di agnello e riso al vapore. A Isfahan, tutta­via, il ristorante Bastani ofre an­che piatti più complessi: per esem pio uno stufato a base di zucca e mele cotogne. Per bere un tè e provare il qalyan, il narg­hilè persiano, l’indirizzo giusto, sempre a Isfahan, è la chaikha-nah Qeysarieh. Per i dolci, conti­nua il Guardian, una vera istituzi­one è la pasticceria Haj Kalifeh Ali Rahbar, che ha la sede princi­pale nella città di Yazd, nel centro del paese. Propone mignon colo­ratissimi, a base di pistacchi, mandorle o cocco, come il qottab, arricchito dall’aroma del carda­momo, e il loze, con essenza di rose e acqua profumata ricavata da un particolare tipo di salice originario dell’Egitto.

Duemila annidi tradizione

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Graphic journalism Cartoline da New York

Questa è Brighton Beach, anche chiamata Little Russia. I russi adorano il mare e, quando hanno cominciato a im-migrare a New York negli anni settanta e ottanta, si sono stabiliti qui. All’epoca, Brighton Beach era un quartiere fati-scente e pericoloso. Ora un monolocale costa almeno 400mila dollari.

Io e mia madre ci siamo trasferite qui dalla Russia nei primi anni novanta. All’inizio ho odiato questo posto. Sbarcavo direttamente dall’accademia di arte drammatica di San Pietroburgo, immersa nel mondo di Čechov e Dostoevskij: le donne appariscenti e impellicciate a caccia di kolbasa erano l’ultima cosa a cui volevo essere associata. Quell’immagine confermava la visione distorta che molti americani avevano dei russi.

Gli anziani che discutevano di pensioni, i ragazzi che si sforzavano troppo di sembrare e sentirsi americani, le signore vestite Gucci dalla testa ai piedi, i teppisti ammorbiditi dall闇eccesso di cibo, tutti avevano un闇aria vagamente familiare, come l闇immagine rilessa in uno specchio curvo. Perino la maestosa lingua russa si era trasformata in un miscu-glio di russo e americano.

Il mio atteggiamento è cambiato quando è nata Karina. Anche se mio marito – america-no – non sa una parola di russo, mia iglia lo parla correntemente. Karina adora venire qui. Per lei è un parco giochi ispirato alla Russia. Anche mia madre lo ama: il misto di aria marina e odori della cucina russa è come un balsamo per la sua anima. Ora vedo Brighton attraverso gli occhi di una bimba di cinque anni e di sua nonna nostalgica.

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Yvetta Fedorova è un’illustratrice nata in Russia che vive a New York. Ha 41 anni.

Veniamo qui per visitare l’acquario, comprare giochi e ilm russi, vedere spettacoli al Millennium Theatre e, soprat-tutto, per compraree mangiare cibo russo.

Il pesce affumicato migliore è quello dell闇International Food Emporium. Schiacciati tra i banchi pieni di prelibatezze, i clienti trafelati comprano scorte come se dovessero affrontare una carestia. Per mantenere l闇ordine, le venditrici danno istruzioni: “Signora, si decida. Cosa sta issando? Non siamo mica all闇Ermitage”. “Signora, rispetti la ila. Chi crede di essere, Caterina la Grande?”.

Quando il tempo è bello andiamo sul lungomare. Gli anziani che riempiono le panchine come tartarughe al sole mi ricordano mia nonna, che è venuta in America alla ine della sua vita. Vivevamo tutti nel Bronx e lei, una volta a settimana, faceva un lungo tragitto in metro-politana solo per stare in compagnia di altri russi.

Prima di tornare a casa ci fermiamo al Cafe Kashkar, il nostro ristorante preferito. Mentre par-liamo della mia infanzia in Russia, i piatti familiari si accumulano sul tavolo: borsch rosso san-gue, teneri spiedini di agnello e vitello, carote e melanzane sottaceto e altre delizie. Quando respiro quei profumi del passato non posso fare a meno di pensare: “Amo Brighton Beach”.

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Cultura

Arte

I n uno studio sopra gli spazi pubblici della galleria Whitechapel di Lon-dra dieci studenti si scrutano furti-vamente attraverso dei calici di vino bianco. È la prima lezione del corso

di collezionismo d’arte contemporanea or-ganizzato dalla galleria: il programma pre-vede cinque incontri e culmina con una vi-sita alla Frieze art fair, che si è svolta a metà ottobre. Invece di rilasciare un certiicato, il corso autorizza a fare acquisti nella più im-portante iera britannica d’arte contempo-ranea.

L’idea di fare un corso (al costo di 685 euro) su un’attività che, ridotta ai minimi

termini, consiste nel irmare assegni, può sembrare pretenziosa. Ma comprare opere d’arte contemporanea, anche per chi in tempi di ristrettezze se lo può permettere, non è facile. Le gallerie possono intimorire ed è diicile orientarsi in un panorama di opere sempre più indeinibili. Soprattutto per chi parte da zero.

Nel primo incontro la direttrice della Whitechapel, Iwona Blazwick, fa una lezio-ne di storia dell’arte. Ha una cascata di ca-pelli biondi e una voce profonda estrema-mente sexy. “Le opere contemporanee so-no parte di una lunga, ricca e complessa storia”, dice facendo una carrellata dall’arte degli anni sessanta a oggi.

Tutto è possibileIl messaggio è che per farsi una collezione privata d’arte contemporanea è importante conoscerne la storia e il signiicato. In realtà la delicata questione del mercato dell’arte è

appena siorata. Ma scopriamo che (in certi casi) si può possedere un pezzo di perfor-mance art o si possono avere in casa opere di artisti come Janet Cardif e George Bures Miller, che creano installazioni enormi, ma realizzano anche opere in scala ridotta. Non si può comprare una coreograia o una pièce teatrale, ma nel campo dell’arte visiva tutto è possibile.

Più tardi andiamo al piano di sotto a ve-dere una mostra realizzata con pezzi della collezione di Dimitris Daskalopoulos, un imprenditore greco dei latticini. Daniel Hermann, un curatore con testa rasata e occhialetti severi, ci accompagna commen-tando la mostra con un accento tedesco-americano: “È una collezione che vuole a sovvertire l’idea di bellezza”, spiega. Uno dei pezzi, la Grosse Landschaft (Il grande pae saggio) di Diether Roth, è fatto di “for-maggio pressato su uno strato di feltro”. Il formaggio si è disintegrato e decomposto in pura astrazione. Dopo tutto nessuno aveva detto che il corso sarebbe stato facile.

Nella seconda lezione incontriamo al-cuni artisti nei loro studi dell’East End. La prima fermata è da Bob e Roberta Smith (che in realtà è una persona sola). Smith fa dei quadri che somigliano a cartelli o segna-li stradali. Uno di quelli appesi alla parete dice: “I like buying art from artists that are still alive”. Suona provocatoriamente ap-propriato. Rachel Cass della Whitechapel, che guida la visita, chiede se gli interessa che ine fanno le sue opere. “Per me i soldi

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La galleria Whitechapel di Londra organizza un corso in cinque lezioni per imparare ad acquistare opere d’arte

Collezionisti si diventa

Charlotte Higgins, The Guardian, Gran Bretagna

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Una mostra alla Tate Britain. Nella pagina accanto la Frieze art fair al Regent’s Park di Londra

sono più importanti”, dice Smith. “Manda-no avanti la mia famiglia”.

Gli scultori Doug White e Owen Bullett dividono uno studio. Bullet, che è un tipo piuttosto chic, fa bellissime sculture in le-gno. White, più alla mano e trasandato, sembra quasi capitato lì per riparare le tuba-ture. Costruisce fantastici alberi con pezzi di pneumatici esplosi. Bullet parla dei rap-porti con i collezionisti: “Sei molto grato a chiunque ti sostenga. E poi sono sempre relazioni da coltivare”.

È arrivato il momento di incontrare chi fa gli afari: i mercanti d’arte. Saliamo cin-que piani di scale di una vecchia fabbrica dell’Est End per arrivare alla galleria Mot International, un posto veramente cool. Chris Hammond, il direttore, mostra una scultura di Stian Ådlandsvik e Lutz-Rainer Müller, si chiama Daisy. È il cofano di una Mercedes che gli artisti hanno fatto calpe-stare da una mandria di mucche. Per la pri-ma volta salta fuori un prezzo: 5.200 euro. “Per quella cifra si può comprare una Mer-cedes usata”, dice scherzando un ragazzo del corso. “Ma non sarebbe arte”, risponde serissimo Hammond.

Dalla conversazione emerge che non puoi semplicemente entrare in una galleria, dire che vuoi comprare il cofano calpestato della Mercedes e irmare un assegno. “Vo-

gliamo vedere altre opere e capire se l’arti-sta e i galleristi sono disponibili a prestare le opere per una mostra”, spiega Hammond. “Quando un artista raggiunge un certo li-vello, le sue opere possono essere rivendute a un prezzo sette volte maggiore, per questo è importante contestualizzarle”.

Può sembrare scoraggiante, ma per co-minciare una nuova collezione la strada migliore, assicura Hammond, è quella di passare in rassegna le iere d’arte e parlare molto con i galleristi. Al Frieze i rivenditori sono interessati a creare relazioni oltre che a vendere direttamente. E i prezzi, anche se a volte sconvolgenti, non sono sempre esa-gerati. Rispetto agli euforici giorni del 2006, il mercato si è molto calmato.

L’ultimo incontro del corso è a casa di un vero collezionista: l’ex banchiere Dominic Palfreyman. Per l’occasione sono venuti altri collezionisti: Kate Jones, John e Stuart Evans, che sono padre e iglio. Siamo auto-rizzati a curiosare in casa di Palfreyman. La sua collezione include opere di Wolfgang Tillmans e Sarah Lucas, ma anche pezzi di artisti meno noti. La casa è meravigliosa, ma organizzata con il rigore di una galleria.

Data l’assenza di segni di vita quotidia-na ci si chiede se la lezione di oggi sia “Sba-razzarsi dei igli e occuparsi della casa”. Ma Jones ci assicura che la sua collezione con-vive felicemente con il disordine di un bam-bino di tre anni. I collezionisti sono diversi tra loro: Palfreyman è lucido e rilessivo e compra a intermittenza, gli Evans sono in-

quieti e amano il brivido della caccia. Più tardi si discute di questioni tecniche: non bisogna impazzire per trovare l’illumina-zione più creativa, dice John. “La buona arte sa venire a patti con la luce che trova”. La massima di commiato dei dottori in col-lezionismo? “Non pensare mai a quale po-trebbe essere il valore futuro di un’opera”, dice Palfreyman. “L’arte che ho a casa è quella che mi fa felice quando la guardo, sempre, giorno dopo giorno”.

Cinque regole d’oroNon comprare per fare soldi. Il mercato è volatile e devi convivere con le opere che compri. Ti faranno felice solo se ti piaccio-no davvero.

“Fai i tuoi compiti”, dice Louisa Buck, autrice di Owning art. “Guarda quanta più arte possibile, antica e moderna. Ogni arti-sta valido si confronta con la storia dell’arte, e devi essere in grado di distinguere se lo fa copiando o con intelligenza”.

“Non temere di fare domande stupide ai galleristi”, dice. È giusto pretendere che un’opera sia spiegata. “Ma non chiedere se ce l’hanno anche in blu”.

“Non mercanteggiare”, dice Buck. “Va bene contrattare il prezzo di un’opera e bi-sogna considerare gli eventuali prezzi di installazione. Ma mercanteggiare eccessi-vamente è solo fastidioso”.

Kate Jones aggiunge: “Metti in conto il costo della cornice”. È caro, e lei lo sa bene: la sua famiglia produce cornici. u nv

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ArteCultura

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Cultura

Cinema

Dieci ilm nelle sale italiane giudicati dai critici di tutto il mondo

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Italieni I ilm italiani visti da un corrispondente straniero. Questa settimana eric Jozsef, del quotidiano francese Libération e dello svizzero Le Temps.

UNA SCONFINATA GIOVINEZZA

Di Pupi Avati. Con Fabrizio Bentivoglio, Francesca Neri, Serena Grandi. Italia 2010, 98’ ●●●●●

Malgrado i limiti di una regia molto classica, l’ultimo ilm di Pupi Avati riesce nel suo in-tento: raccontare la delicata storia di una coppia che entra in crisi a causa di una malat-tia. Lino (Fabrizio Bentivo-glio), giornalista di successo, è malato di Alzheimer e perde poco a poco il senso del pre-sente richiudendosi nei ricor-di della sua infanzia in Emilia Romagna. Alcuni dialoghi ri-sultano troppo artiiciosi e fanno perdere autenticità ad alcune scene. I pranzi della fa-miglia borghese di Chicca (Francesca Neri), come la vita di Lino nella redazione del giornale, avrebbero sicura-mente guadagnato da una maggiore semplicità. Ma Pupi Avati, con un notevole lavoro sulla luce che mette distanza rispetto al soggetto del ilm, evita facili sentimentalismi. I dolori procurati dall’anneb-biarsi della mente e il cambia-mento dei ruoli all’interno della coppia sono sostenuti da una sceneggiatura nell’insie-me convincente.

il festival di cinema digita-le di seoul è uno di quegli eventi unici che fanno la gioia del cineilo Di solito i festival sono valutati a partire dai ilm in program-ma e quasi mai, giustamente, per l’atmosfera che ofrono. Ma ci sono nel mondo alcuni eventi che meritano di essere segnalati solo perché fanno la gioia del cineilo. Il Cinema di-gital festival di Seoul (CinDi, per comodità) è uno di questi.

Si svolge solo da quattro anni, nel mese di agosto, in una multisala del quartiere Apgujeong e negli immediati dintorni del cinema. Il suo me-

rito è di abbattere completa-mente le barriere tra il pubbli-co e gli autori dei ilm in pro-gramma, che si incontrano in maniera totalmente informale nei bar vicino alla multisala.

I ilm in competizione, una quindicina (rigorosamente realizzati su supporto digita-

le), sono giudicati da quattro giurie distinte (professionisti, giornalisti coreani, giornalisti stranieri e pubblico). Questo fa sì che i premi siano equa-mente distribuiti e spesso la cerimonia conclusiva è una vera festa.

La Cina è stata la protago-nista assoluta del festival. Tra i ilm più interessanti Tangle, il debutto alla regia di Liu Yon-ghong, già afermato direttore della fotograia per diversi re-gisti cinesi. È la storia di un po-liziotto che lentamente impaz-zisce in una città del sudovest della Cina. tony rayns,

sight & sound

Dalla Corea del Sud

Abbattere le barriere

liu Yonghong

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In uscita KILLER INSIDE ME

Di Michael Winterbottom. Con Casey Aleck, Jessica Alba. Stati Uniti/Gran Bretagna 2010, 108’●●●●● Il romanzo noir scritto nel 1952 da Jim Thompson, un monolo-go interiore di un killer psicoti-co, è stato disastrosamente adattato dallo scrittore John Curran e dal regista Michael Winterbottom. Casey Aleck è il giovane vicescerifo di una piccola città del Texas negli an-ni cinquanta. La sua è un’ottima interpretazione e riesce a tra-smettere il lieve senso di follia che monta lentamente dentro il personaggio. Lui maltratta le donne e loro lo adorano. Presa alla larga la storia potrebbe sembrare una fantasia sadoma-sochista con un protagonista che è semplicemente più intelli-gente e più sfuggente (e più af-fascinante) di chiunque sia in-torno a lui. La regia di Winter-bottom è volutamente e rigida-mente inespressiva, sembra quasi scollegata dall’azione, ec-cessivamente protettiva nei confronti del protagonista. E il ilm è in vario modo, inevitabil-mente fastidioso. David Denby, The New Yorker

LAST NIGHT

Di Massy Tadjedin. Con Keira Knightley, Sam Worthington. Francia/Stati Uniti 2010, 92’●●●●● Il ilm segue le vicende di una coppia giovane e bella, Michael (Sam Worthington) e Joanna

(Keira Knigthley), durante un’unica (e veramente ininita) notte in cui la loro fedeltà è mes-sa alla prova. Michael è in viag-gio d’afari insieme a un’attraen-te collega (Eva Mendes) mentre Joanna incontra una sua vecchia iamma (Guillaume Canet) per le strade di Manhattan. Massy Tadjedin, al suo debutto come regista, fa inizialmente un buon lavoro nella deinizione dei per-sonaggi principali e della debo-lezza della loro relazione. E rie-sce a mantenere un tono di fa-miliare autenticità dall’inizio al-la ine. Peccato che non riesca mai a farci afezionare ai prota-gonisti. La cosa peggiora man mano che si va avanti. A un cer-to punto dovremmo attendere con trepidazione le decisioni dei due coniugi. Si metteranno le corna? Ma ci si rende conto che, quale che siano le loro scelte, a noi non importa poi così tanto. Alla ine non si può negare che il ilm sia quasi piacevole da vede-re, ma veramente troppo legge-ro e impalpabile. Dalla regista nata a Teheran e cresciuta in California ci si aspettava qual-cosa di più coinvolgente. David Nusair, Reel Film Review

DUE CUORI E UNA PROVETTA

Di Josh Gordon. Con Jennifer Aniston, Jason Bateman, Juliette Lewis. Stati Uniti 2010, 101’●●●●●

Nonostante delle nobili origini letterarie, Due cuori e una pro-vetta (terzo ilm hollywoodiano di quest’anno sull’inseminazio-ne artiiciale) si colloca tra il quasi inguardabile Piacere, sono un po’ incinta e il decente (ma sopravvalutato) The kids are all right. Anche se Jennifer Aniston ha il nome principale in cartel-lone, il vero protagonista è Ja-son Bateman, un attore che di-mostra, una volta di più, di esse-re capace di funzionare in qual-siasi ilm. Bateman interpreta il nevrotico Wally, il miglior ami-co (ed ex idanzato) di Kassie (Jennifer Aniston). Ritrovando-

si misteriosamente single, Kas-sie decide di ricorrere all’inse-minazione assistita. Durante un party in cui ha bevuto troppo, Wally rovina il seme donato a Kassie da Roland (un uomo spo-sato) e provvede a una rapida sostituzione. Il racconto di Jef-frey Eugenides pubblicato sul New Yorker, a cui il ilm è vaga-mente ispirato, si conclude con la nascita del iglio di Kassie e Wally. Per il ilm, invece, questo è solo l’inizio. Dopo il parto Kas-sie si trasferisce in Minnesota e torna a New York dopo sei anni (ma niente nel ilm ci suggerisce che sia passato tutto questo tempo, tranne ovviamente il i-glio cresciuto di Kassie). Quello che segue, in sostanza, è Un ra-gazzo per persone un po’ ottuse.Lou Lumenick, New York Post

L’IMMORTALE

Di e con Richard Berry. Con Jean Reno, Kad Merad, Marina Fois. Francia 2010, 115’●●●●●

Più o meno un quarto di secolo fa, l’attore Richard Berry era il pilastro del cinema poliziesco francese. Poi il genere è caduto in disgrazia per risorgere negli ultimi anni. Il pilastro, allora, è passato dietro la macchina da presa per avere un ruolo in que-sto revival. L’immortale, quindi, non è una creatura sovrannatu-rale tipo Highlander, ma Charly Matteï (Jean Reno), pensionato della maia marsigliese soprav-vissuto a un attentato, nono-stante i 22 proiettili che i suoi as-sassini gli avevano piantato in corpo. La fascinazione per le

nefandezze dei criminali e per il loro assurdo codice d’onore so-no intatti. A essere cambiato molto è lo scenario, che deve molto alle serie televisive statu-nitensi. Charly si è allontanato dalla vita criminale per allevare un iglio avuto da una prostituta che ha tolto dalla strada. Invece di essere preso in esame per un processo di canonizzazione, Charly deve subire un tentativo di omicidio messo in piedi dal suo ex migliore amico (un Kad Merad irrimediabilmente fuori ruolo). Dopo aver tentato una chiariicazione paciica (cosa che avrebbe azzerato ogni pos-sibilità di successo del ilm al botteghino), Charly è costretto a mettere i panni dell’angelo sterminatore, che uccide i suoi nemici uno a uno, senza pietà. Il piacere della vendetta non arri-va, perché dei nemici di Charly non sappiamo niente. Quello che rimane è lo spettacolo de-primente della violenza come forza moralizzatrice. Thomas Sotinel, Le Monde

POTICHE

Di François Ozon. Con Catherine Deneuve, Gérard Depardieu. Francia 2010, 100’

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François Ozon ritrova Catherine Deneuve in un nuovo adatta-mento di una pièce teatrale, pro-prio com’era 8 donne e un miste-ro. E l’attrice, in stato di grazia, dimostra che l’universo di Ozon le va a pennello. Siamo di fronte a una farsa soisticata. Suzanne è la moglie di un industriale di-spotico. Costretta a prendere il posto del marito alla guida dell’azienda di famiglia, Suzan-ne rivela doti insospettabili. Il ilm deve quasi tutto all’univer-so che gli interpreti riescono a creare. Il sottotesto politico e i riferimenti a fatti e personaggi reali non sono gli elementi più riusciti di un ilm leggero che poggia sulle spalle della sua pro-tagonista.Laurent Pécha, Ecranlarge

FAIR GAME

Di Doug Liman (Stati Uniti, 104’)

UOMINI DI DIO

Di Xavier Beauvois (Francia, 120’)

ANIMAL KINGDOM

Di David Michôd (Australia, 113’)

L’immortale

I consigli della

redazione

Last night

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Cultura

LibriItalieni I libri italiani letti da un corrispondente straniero. Questa settimana Michael Braun, del quotidiano tede-sco Die Tageszeitung.

IGIABA SCEGO

La mia casa è dove sono Rizzoli, 162 pagine, 16,50 euro

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A suo modo, quello che ci pro-pone Igiaba Scego è un Bil-dungsroman, un romanzo di formazione. Lei, di famiglia somala, cresce nella Roma de-gli anni ottanta e novanta. At-traverso alcuni luoghi della città (il teatro Sistina, piazza Santa Maria sopra Minerva, la stazione Termini, Trastevere) racconta le mille diicoltà che una ragazza di origini africane, nata in Italia, con la pelle nera, deve afrontare per fare i conti con il difuso razzismo di una società bianca e per dare ri-sposte a domande apparente-mente semplicissime: chi so-no? Dov’è la mia casa? A quale comunità appartengo? Il libro è particolarmente felice per-ché Igiaba Scego sceglie un approccio soggettivo. Parla di sé senza tacere nulla, né delle sue sconitte adolescenziali né del senso di bruttezza né della bulimia che l’ha tormentata per anni. Ma non ci propone un testo intimistico né un’au-toanalisi. Fa molto di più: at-traverso la sua storia analizza, in tono mai lagnoso ma spesso pieno di ironia, una società che ancora oggi non vuole fare i conti con l’immigrazione. E ci racconta anche in che modo due personaggi così diversi co-me Nat King Cole e la sua maestra elementare possano esercitare un’inluenza enor-me sulla vita di una ragazza somala, italiana, cittadina del mondo.

ANDREA BAJANI

Ogni promessa Einaudi, 256 pagine, 19,50 euro

Dopo Se consideri le colpe, Andrea Bajani torna a narrare vicende italiane con le loro risonanze in un altrove geograico e temporale, e lo fa con un grande ainamento dei propri mezzi, con una scrittura minuziosa e oggettiva su psicologie e su ambienti. Non rinuncia a lash quasi espressionistici e richiama modi letterari e cinematograici da anni sessanta, intorno al nodo morale e attuale dell’italica

smemoratezza. Il protagonista narratore Pietro – un insegnante piantato dalla moglie Sara con la quale ha soferto l’impossibilità di avere un iglio (il tema dell’infanzia, nel suo dolore e mistero, torna sempre in Bajani) – evoca la igura di un nonno morto in casa di cura ossessionato dall’esperienza della sciagurata campagna del Don, di cui in casa si taceva come di un cadavere nell’armadio. È la morte del nonno a scatenare in Pietro il bisogno di sapere e perino di vedere i luoghi, di andare sul

Don, sollecitato dall’incontro con un altro reduce, Olmo, e con i suoi sensi di colpa, che si mescolano a quelli aini e diversi della madre di Pietro.

La misura del romanzo sta nel bisogno di evocare, non nascondere, ricostruire e capire, e nel suo mescolarsi con le presenti nostre insuicienze, cresciute anche sulle rimozioni del passato, ma avrebbe forse giovato a questo romanzo insolito – e così immerso nel nostro tempo anche se ne sembra fuori – una maggior concisione. u

Il libro Gofredo Foi

Evocare per capire

Dal Medio Oriente

Odio in pillole

Una scuola religiosa di Ge-rusalemme pubblica un fu-metto ispirato al pensiero radicale di Meir Kahane

Gli insegnamenti di un rabbi-no ultranazionalista, il cui messaggio antiarabo ha ali-mentato la violenza contro i palestinesi e anche contro gli israeliani moderati, sono stati trasformati in un libro a fumet-ti pensato per bambini.

Miracle man è ispirato alla vita di Meir Kahane, un ebreo nato negli Stati Uniti, che ha fatto parte anche del parla-mento di Israele e nel 1988 ha fondato il gruppo militare Kach, messo al bando in Israe-le e considerato un gruppo ter-rorista dal governo degli Stati Uniti. Il fumetto è stato pubbli-cato nel ventesimo anniversa-

rio dalla morte di Kahane, uc-ciso a New York da un cittadi-no di origini egiziane. La pre-occupazione di alcuni gruppi di attivisti per i diritti umani è che il messaggio di estrema destra lanciato da Kahane, sot-to forma di fumetto, possa rag-

giungere un ampio pubblico e contribuire quindi a radicaliz-zare un clima tutt’altro che tranquillo. Il libro è stato pub-blicato da Haraayon Hayehu-di, una scuola religiosa di Ge-rusalemme. The National

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Meir Kahane nel 1984

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FRANCISCO JOSÉ VIEGASIl mare di CasablancaLa Nuova Frontiera, 240 pagine, 17,00 euro ●●●●●

C’è sempre più di un cadavere nelle storie di Jaime Ramos, l’ispettore di polizia di Porto creato da Francisco José Vie-gas: il poeta e autore di gialli è solito dire che il lettore, per il prezzo del libro, ha diritto a va-rie morti. Il primo cadavere del Mare di Casablanca compare al Vidago Palace Hotel: è quello di Joaquim de Sousa Seabra, gior-nalista economico ucciso du-rante una festa, il quale – detta-glio curioso – ha le scarpe spaia-te. Poi è la volta di un cittadino angolano, Benigno Mendonça, anche lui assassinato. Ovvia-mente tra i due delitti esiste una connessione, e in mezzo a tutta questa vicenda spunta fuori anche una donna, Maria-na. Jaime Ramos, come sem-pre, arriverà con la sua squadra alla soluzione del caso. Ma per mettere insieme i pezzi del puz-zle, stavolta, dovrà fare i conti con il passato: Il mare di Casa-blanca ci riporta così all’Africa, territorio ricorrente nei roman-zi di Viegas, al tempo delle guerre coloniali e delle speran-ze rivoluzionarie. I libri di Vie-gas non sono polizieschi classi-ci: ci sono sempre divagazioni dei personaggi, monologhi, de-scrizioni dettagliate di luoghi all’altro capo del mondo, ricette di cucina, episodi della storia nazionale. Isabel Coutinho, Público

LUIS ALBERTO URREA

La iglia della curanderaXl, 510 pagine, 16,00 euro●●●●●

In questo romanzo dal respiro epico Luis Alberto Urrea sposa la sua tenacia giornalistica (per scriverlo ci sono voluti vent’an-ni di ricerca) a un lirismo poeti-co dai colori vivi per raccontare la storia di una sua antenata, Teresa Urrea, “santa” popolare il cui nome diventò un grido di

battaglia della rivoluzione mes-sicana. Teresita nasce nel 1873, iglia illegittima di una serva in-digena quattordicenne e del pa-drone di un grande ranch nello stato di Sinaloa. I doni speciali di Teresa sono presto notati da Huila, la curandera (guaritrice) del ranch, che insegna alla bambina i poteri curativi delle piante. Mentre intorno la civiltà si muove inesorabilmente verso l’era moderna, la vita dei conta-dini poveri messicani è ferma al medioevo. Il paese è in preda alla paura: mentre gli indigeni temono le altre tribù, il dittato-re, il generale Poririo Díaz, te-me insurrezioni. Il padre di Te-resita è accusato di aver fomen-tato una rivolta, e lei – ormai adolescente e rispettata curan-dera – inisce uccisa in un attac-co brutale. L’ultima parte del li-bro si colora di realismo magi-co: Teresita torna in vita con poteri di guarigione ancora più grandi, e gli indigeni arrivano a migliaia da tutto il paese per farsi curare dalla loro santa, mentre lei predica che la terra appartiene agli indigeni, un’eresia che raggiunge presto Città del Messico. La storia è molto sentita e raccontata splendidamente, i personaggi sono vigorosi e pieni di umori-smo malgrado la loro soferen-za.Stephanie Merritt, The Guardian

CÉLIA HOUDART

Le meraviglie del mondoBarbès, 91 pagine, 14,00 euro ●●●●●

Le meraviglie del mondo, primo romanzo di Célia Houdart, si apre con un temporale svizzero: una grandinata ha spezzato tut-ti i vetri di un immobile a Vevey. La bella immagine, evocata con la delicatezza di una scrittura che non cerca trovate a efetto, dà subito il tono di questo pic-colo libro: comincia con l’incu-riosire il lettore e inisce per in-cantarlo. È una storia d’amore e di fantasmi, il suo eroe è una

FRANCESCO PICCOLO

Momenti di trascurabile felicità (Einaudi)

LEV TOLSTOIJ

Che cos’è l’arte (Donzelli)

ALESSANDRO LEOGRANDE

Le male vite (Fandano libri)

JOHN UPDIKE

Le lacrime di mio padre Guanda, 312 pagine, 18,50 euro

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Le frasi conclusive dell’ultimo racconto di questo libro di John Updike, Le lacrime di mio padre, descrivono un uomo, di quasi ottant’anni, che solleva il bic-chiere d’acqua con cui prende le sue medicine della sera in un brindisi al mondo visibile, ma-ledicendo la sua imminente scomparsa. È un’immagine che riassume perfettamente la posi-zione di Updike, allo stesso tempo malinconica e celebrati-va, in questa stupenda raccolta che esce pochi mesi dopo la sua morte, avvenuta a gennaio, a 76 anni.

I diciotto racconti, ricchi di pennellate magistrali che ri-traggono sottigliezze sociali, psicologiche e sentimentali, mettono in mostra un impareg-giabile documentarista narra-tore della vita delle piccole cit-tadine e del ceto medio statuni-tensi. Nella storia che apre la raccolta, una giovane coppia va in vacanza con i igli in Maroc-co, per sfuggire al grigiore dell’aprile in Inghilterra, dove la famiglia si è temporanea-mente trasferita. Ma presto si ritrovano ancora più impazienti di lasciare il Nordafrica in cui si muovono in modo maldestro.

I tracolli sono in grande evi-denza anche negli altri raccon-ti: dispacci dal fronte della vec-chiaia, romanzati con tono leg-gero. Assiduo frequentatore delle rimpatriate di vecchi stu-denti delle superiori, come ri-velò una volta, in questa raccol-ta Updike torna su due di que-ste riunioni. Fa vedere come si riannodino legami generazio-nali e locali, a suo tempo allen-tatisi per i matrimoni e le scelte lavorative, ripristinando una

Racconti

L’ultima raccolta

sorta di cameratismo contro le ingiurie del tempo. Quella che era la più bella della classe ora va in giro con un deambulatore. Gli ex atleti hanno protesi alle ginocchia e pacemaker. Altro-ve, i coetanei esibiscono “un’espressione sempre più fre-quente, quella di una persona un po’ sorda che ti dice di parla-re più forte”. Vengono raccon-tati smarrimenti di vario tipo: dai rischi di percorrere una strada sconosciuta con i rilessi lenti e la vista annebbiata, al dover fare i conti con seccature contemporanee come la dii-coltà di trovare “un cartoncino d’auguri di compleanno gioco-so al punto giusto, ma non osceno né aggressivo”. Su que-ste storie grava l’ombra della morte, ma risplendono di vitali-tà immaginativa.

Ed è soprattutto l’esistenza quotidiana che Updike fa ri-splendere di fascino. Una poe-sia nel racconto Fine esprime la gratitudine di Updike per la mano con cui scrive, quella “fe-dele vecchia bestia da soma a cinque dita”. Non ne ha mai fat-to un uso migliore come in Le lacrime di mio padre. Peter Kemp, The Times

I consigli della

redazione

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John Updike

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Cultura

Librisilhouette che si staglia appena su una natura onnipresente: è Igor, un fotografo che, dopo la tempesta, deve lasciare la Bre-tagna per tornare a Vevey. La frontiera tra il sogno e la realtà sembra svanire, ma anche quel-la tra i ricordi e il presente inde-inito di un racconto che non si capisce bene verso quale desti-nazione voglia imbarcarci. È in-fatti anche un libro di viaggi: il romanzo scivola dalla quotidia-nità del giovane fotografo al racconto di un soggiorno in Messico. Nell’apparente di-scontinuità della scrittura, Célia Houdart riesce a dare l’impressione di un universo dove l’inimo comunica con l’immenso.Fabrice Gabriel, Les Inrockuptibles

eLeanor Catton

La provaFandango libri, 380 pagine, 18,00 euro●●●●●

È il primo romanzo di Eleanor Catton, canadese di 25 anni cre-sciuta in Nuova Zelanda, ed è quasi impossibile da classiica-

re. C’è uno scandalo sessuale in una scuola privata per ragazze, tra un professore e una studen-tessa. Il teatro della scuola deci-de di mettere in scena uno spet-tacolo sullo scandalo. E un in-segnante di sassofono dà consi-gli alle allieve quando vengono da lui per le lezioni. Potrebbe sembrare una trama semplice, ma Catton confonde le carte in tavola al lettore non rivelando chiaramente in che cosa consi-ste lo scandalo, come si svolge la lezione di sassofono e qual è lo spettacolo. La prova ha a che fare con il guardare e l’esser guardati, le nostre impressioni sugli altri e tutte le volte che ca-piamo le cose nel modo sbaglia-to. Lo scandalo era forse uno stupro? Il professore e la stu-dentessa sono innamorati? O è stata lei a tentarlo? Nessuno lo sa, ma tutti hanno un’opinione. Catton scrive meravigliosa-mente, e in modo unico. L’uni-co rischio che corre è quello di siancare il lettore, e di portare la sua mente a vagare. Ma non è per forza un male. Michelle Berry, Globe and Mail

GabrieLa adameşteanu

L’incontroNottetempo, 360 pagine, 18,00 euro ●●●●●Negli ultimi anni di Ceauşescu, Traian Manu, un professore di biologia, torna in Romania dopo quarant’anni di esilio per tenere un ciclo di conferenze. Ma l’invito si rive-lerà un pretesto del regime per spiarlo e controllarlo. Si po-trebbe pensare che L’incontro sia un romanzo sulla mitologia dell’esilio e del ritorno; al con-trario, rappresenta la dissolu-zione drammatica e, in deini-tiva, tragica dei miti dell’esilio: tornare a casa è un’illusione. Per questo il titolo suona ironi-co. Non di un vero incontro si tratta, di un ritorno a casa, ma di un incontro mancato. I passi dell’Odissea citati nel romanzo sono una trappola: quello di Gabriela Adameşteanu è un ro-manzo sull’alienazione, sulla perdita del contatto con la pro-pria comunità, sull’impossibi-lità di tornare a casa. Paul Cernat, Revista 22

KarL PoLany

La grande trasformazione Einaudi, 384 pagine, 26,00 euro

Alcuni grandi libri di storia na-scono dalla domanda: “Come abbiamo fatto a inire in que-sto abisso?”. Spesso non sono nemmeno scritti da storici di professione, ma l’urgenza di trovare una risposta porta i lo-ro autori a fare scoperte sul passato destinate a durare, an-che quando la domanda ini-ziale non se la pone più nessu-no. È il caso di La grande tra-sformazione, che Karl Polany, allora cinquantottenne studio-

so di economia, pubblicò nel 1944 negli Stati Uniti, dove era arrivato fuggendo prima da Budapest presa dai comu-nisti, poi da Vienna occupata dai tedeschi. Perché, si chie-deva, il mondo in cui era nato e cresciuto stava crollando?

A Londra, dove aveva tra-scorso qualche anno di studio, Polany si era convinto che la ine dell’Europa ottocentesca era legata allo stesso elemento che l’aveva resa grande, il fatto di essere una società fondata sul mercato autoregolato. So-prattutto aveva capito che un

mercato così libero come quello nato a ine settecento era stato qualcosa di inedito nella storia umana, qualcosa di rischioso che paradossal-mente per sopravvivere aveva avuto bisogno della politica. Nel libro il ragionamento è portato oltre: la società di mercato non è l’unica possibi-le, l’economia, infatti, cambia con la società e il mercato selvaggio non è che una delle possibilità che l’uomo ha escogitato nel corso della sua storia. Di certo non la più sicura. u

non iction Giuliano Milani

non è l’unico mondo possibile

Lingue

autori vari

L’aventure des mots de la ville Robert LafontRaccolta di 260 articoli su un te-ma originale: le parole che si usano comunemente per parla-re della propria città e le conse-guenze che hanno. A questa ri-cerca hanno partecipato studio-si di campi diversi (architetti, urbanisti, linguisti, geograi, storici e letterati). Le aree lin-guistiche prese in considerazio-ne sono otto: tedesco, inglese, arabo, spagnolo, francese, ita-liano, portoghese e russo.

aLbert doiLLon

Dictionnaire de l’argot Robert LafontCon il tempo “il linguaggio in codice creato da borseggiatori, ladri, banditi” è diventato una lingua parallela, autentica e po-polare, piena di verve e fantasia, che ha continuato a evolversi e crescere. Il dizionario di Albert Doillon (1918-2004) elenca i termini più suggestivi, raggrup-pandoli in cinque sezioni: soldi, salute, sesso, sport e violenza.

david Harrison

The last speakers National Geographic Harrison, professore di lingui-stica allo Swarthmore college, in Pennsylvania, racconta un viaggio intorno al mondo com-piuto alla ricerca delle lingue destinate a scomparire.

seamus Heaney

Oxford chinese dictionary Faber & FaberMonumentale e recente dizio-nario cinese/inglese, inglese/ci-nese. Ha 2.064 pagine, 300mila voci e costa 75 sterline.Maria Sepa

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Faye Kellerman

SSAACCRROO EE PPRROOFFAANNOO

Dall’autrice de Il bagno rituale

il nuovo caso di Peter Decker

e Rina Lazarus. Un giallo appassionante,

ma anche una grande storia d’amore

avvolta nella cultura e nelle tradizioni

della comunità ebraica di Los Angeles.

«I romanzi di Faye Kellerman sono incisivi,

indimenticabili». James Ellroy

IN LIBRERIA www.coopereditore.it

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Fumetti

Limbo anestetico

DANIEL CLOWES

WilsonCoconino Press, 88 pagine,

17,50 euro

Il metafumetto concettuale nordamericano (Chris Ware, Paul Hornschemeier e altri), basato troppo spesso sul freddo del postmoderno, ha un po’ stancato. Meglio alcuni autori europei che lavorano meno con l’asettico, come Giacomo Nanni per fare un esempio. Se non sono allo stesso livello per delicatezza, profondità e originalità di quelle di Nanni, nondimeno queste cronachette di una pagina che, a sorpresa, snodandosi divengono via via un romanzo a fumetti unitario, e alla ine rivelano una loro prospettiva originale di lettura della contemporaneità.

Anche Daniel Clowes si aggiunge alla schiera degli autori inconsolabili per la perdita di Schulz e dei suoi Peanuts (a cominciare dal canadese Seth, autore delle

copertine della splendida edizione internazionale cronologica delle strisce), tra le opere più esistenzialiste della storia del fumetto, nel suo racconto della solitudine e della vita mediocre nell’eterno nulla della provincia statunitense, appunto così asettica. Ma quanto resta dell’inquietudine piena di delicatezza, tenerezza (mai melassa) e umanità di Schulz verso quelle “noccioline”, quegli esserini votati in dal principio al fallimento della vita adulta? Apparentemente nulla. Clowes, tuttavia, tra le righe e i disegni di questo ritratto di uomo perduto in una vasta mediocrità e un illusorio senso di rivalsa compensatorio verso tutti e tutto, riesce a far emergere una fragile tenerezza, in un inale di quiete contemplativa. Serenità riconquistata o limbo anestetico per non riprecipitare nel dolore?Francesco Boille

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Cultura

Libri

Ricevuti

COSIMO ARGENTINA

Vicolo dell’acciaioFandango libri, 216 pagine, 15,00 euro Un caleidoscopio di vite vere, che sembrano opporsi con ingenua e sincera vitalità al loro destino segnato. Tutte ruotano intorno all’Ilva, il più grande impianto siderurgico d’Europa. Quasi tutte sono toccate da un lutto o una malattia dovuta alla grande fabbrica.

AUTORI VARI

Le italianeCastelvecchi, 248 pagine, 16,50 euroDal risorgimento ai nostri giorni, centocinquant’anni di storia nazionale raccontati attraverso le biograie delle protagoniste della politica, della cultura, della scienza, dell’economia e dello sport.

VEIT HEINICHEN

E AMI SCABAR

Trieste e/o, 160 pagine, 16,00 euroTrieste è la città dei venti. Che si tratti di bora, libeccio, scirocco o maestrale, tutti hanno contribuito a portare da ogni punto cardinale le più diverse tradizioni culinarie e culturali nella città.

FRANCESCO MATTEUZZI

ED ELISABETTA BENFATTO

Anna PolitkovskajaBecco Giallo, 128 pagine, 15,00 euro La dittatura del governo Putin, la strage di Beslan, le minoranze violate, l’informazione deviata e manipolata dagli interessi delle grandi potenze politiche ed economiche. Un omaggio a fumetti ad Anna Politkovskaja.

ISADORA D’AIMMO

Palestinesi in IsraeleCarocci, 322 pagine, 32,30 euroLa storia dei palestinesi con cittadinanza israeliana, la condizione giuridica, e

un’introduzione alla loro letteratura. Una collettività protesa verso la modernità ebraica e al tempo stesso ancorata al bisogno di preservare se stessa e la propria cultura originaria.

DOMENICO VERDOSCIA

Maghreb-ItaliaSinnos, 158 pagine, 16,00 euroChi sono gli immigrati presenti nel nostro paese? Che rapporti mantengono con la loro cultura? In che modo entrano in relazione con la realtà italiana? Dieci anni di ricerche sul campo.

ALAIN EHRENBERG

La società del disagioEinaudi, 409 pagine, 28,00 euroL’autore esamina i due più importanti modelli d’interpretazione della soferenza mentale, quello statunitense e quello francese, focalizzando su ricerca sociale e psicoanalisi.

GUILLAUME GUÉRAUD

Senza tvTopiPittori, 98 pagine, 10,00 euroGuillaume vive a Bordeaux in un quartiere dove la vita è dura. Non ha il papà e ancora peggio non ha la tv. Però ha una mamma cinoila e uno zio sindacalista. Per ragazzi.

STEFANO BARTEZZAGHI

Non se ne può piùMondadori, 257 pagine, 17,00 euro Censimento dei “tormentoni”. Parole e altre espressioni allergogene e urticanti che usiamo meccanicamente, perché sono state di moda.

ROBERT GHATTAS

BricologiaSironi editori, 160 pagine, 20,00 euro Manuale pratico per costruire con le mani e con la testa trenta oggetti “matematici”.

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Cultura

1Le luci della centrale elettrica Le ragazze kamikaze

Alberghi appena costruiti che coprono i tramonti, bici rubate dipinte di verde militare, fuori-strada che s’incastrano nei vi-coli. E ovviamente, ragazze kamikaze. Nessun “generatore automatico di frasi di Vasco Brondi” può creare questo ge-nere di cronache da una civiltà del sottoscala. Le derive della realtà cantate dal ferrarese nel suo ultimo lavoro sono più plausibili a ogni nuovo ascolto. È un mondo immaginario di umore color antracite, musi-calmente monocorde, metico-losamente squallido; ma alme-no, è un mondo poetico.

2 Svetlanas Siberian Girl Vodka sciacquata giù

con spratti afumicati di Kiel (o Kiev?) consumati su uno strapuntino della transiberia-na; brevi epifanie punk rock con accento sovietico/nostal-gico; una cantante col pancio-ne al sesto mese e più energia di una centrale idroelettrica sul Volga. Sono le Svetlanas, con il loro album di 22 minuti e una grezza simpatia che in questo pezzo fa sognare un’in-surrezione di girl power con-tro i vecchi “pathetic impotent pederasky” che imbottiti di Viagra vagano nottetempo al-la ricerca di escort, festini e minorenni da plagiare.

3 Fabio Barovero Requiem in sambaFu il fondatore dei Mau

Mau, intesi non come insurre-zionalisti keniani ma come band da patchanka piemonte-se/camerunese dei primi anni novanta; ora gira per cinema e teatri collaborando a vari pro-getti come scenografo delle sonorità. Ma chi si trova bene in ambienti di elettronica rare-fazione farebbe bene a fre-quentare Sweet limbo, il nuovo album in cui raccoglie fram-menti del suo lavorìo recente. Cose da ipnosi, e una vaga “sensazione di procedere ver-so la morte ineluttabile, sì, ma almeno gioiosamente”. Un bunga bunga più concettuale.

MusicaDal vivoCrystal Castles

+ Male Bonding, Bologna, 9 novembre, estragon.it

sCOtt MattHeW

feat. sPeNCer COBrIN

PreseNtINg elVa sNOW

Milano, 11 novembre, dalverme.org; Cesenatico (Fc), 12 novembre, retropopclub.com; Roma, 13 novembre, circoloartisti.it

frIgHteNeD raBBIt

Milano, 12 novembre, lasalumeriadellamusica.com; Bologna, 13 novembre, covoclub.it

steVe WyNN

aND tHe MIraCle 3

Cavriago (Re), 8 novembre, calamita.net; Roma, 9 novembre, bigmama.it; Trieste, 10 novembre, miela.it

BrOkeN sOCIal sCeNe

+ Picastro, Milano, 11 novembre, magazzinigenerali.it

Carl Barât

+Swimming, Milano, 10 novembre, tunnel-milano.it; Bologna, 11 novembre, covoclub.it

tIMe zONes

Tortoise, René Aubry Ensemble, Murcof, Chicago Underground duo, Bari, 12-27 novembre, timezones.it

le luCI Della CeNtrale

elettrICa

Ferrara, 11 novembre, locusta.net

Se in Cile il neofolk sta vi-vendo un buon momento, il merito è soprattutto suo

Mauricio Castillo in arte Chi-noy è l’ultimo, in ordine di tempo, dei cantautori emer-genti cileni. Originario di San Antonio ma residente a Val-paraíso, questo musicista ha migliaia di fan, anche se ha fatto poca promozione e non ha ancora pubblicato album. Il suo nome si è difuso grazie al passaparola e a internet. “Ma io non c’entro niente”, dice Chinoy. “Non ho messo io i miei brani online. Non sa-rei capace”. In ogni caso, gra-zie a questa popolarità, è riu-scito a passare dai bar malfa-

mati dove si è esibito per anni accompagnato dalla sua chi-tarra acustica, ai grandi teatri di Santiago.

Il segreto di Chinoy, che si dice appassionato d’arte e fa-natico di Rimbaud, è una vo-ce poco tradizionale. Ascol-tandolo, sembra di sentire un Gabo Ferro cileno con qual-

che eco di Silvio Rodríguez, Bob Dylan e Violeta Parra. Il successo inaspettato ha av-vicinato questo cantautore ad artisti afermati come Ma-nuel García e Camila More-no. Inoltre, ha aperto la stra-da al fratello minore di Chi-noy, Kaskivano, e a Demián Rodríguez, altro musicista emergente di San Antonio. Lo scorso mese Chinoy si è esibito per la prima volta a Buenos Aires, all’interno di una rassegna dedicata alla nuova musica cilena. Adesso il suo obiettivo è tornare nella città dov’è cresciuto, San An-tonio, e incidere un disco lì, a casa di amici. Martín Pérez, Página12

Dal Cile

efetto Chinoy

Playlist Pier Andrea Canei

gioiose impotenze

My

SPA

CE

Crystal Castles

Chinoy

My

SPA

CE

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Rock

waRpaint

The fool(Rough Trade)●●●●● Mentre troppi gruppi femminili indipendenti sembrano accon-tentarsi di provare a ricreare, mattone su mattone, il wall of sound di Phil Spector, questo quartetto di Los Angeles trae ispirazione per le sue ipnotiche armonie vocali dalla musica di Ian Curtis. The fool è costruito intorno agli accordi malinconi-ci, ai testi cupi e alla voce mono-tona dei Joy Divison. Ma è più di un semplice tributo. Set your arms down e Warpaint mostrano la stessa delicata spigolosità dei Blonde Redhead, e la voce di Emily Kokal, intima e triste, si sposa perfettamente con il suo-no immediato ed estroverso del-la band. Chris Martins, Spin

n.E.R.D

Nothing(Polydor/Star Trak)●●●●● Se pensavate che Pharrell Wil-liams e Chad Hugo avessero co-minciato la loro parabola di-scendente, questo disco sarà per voi un vero e proprio shock. Dal sensuale funk di Party people, che apre l’album, ino alla trac-cia di chiusura The man, che in-cita apertamente alla rivoluzio-ne, si avverte che il duo N.E.R.D è tornato in gran forma. Nothing s’ispira ai successi radiofonici degli anni settanta e al soul psi-chedelico degli anni sessanta,

glioramento rispetto al deluden-te Secret, profane & sugarcane: i brani sono più memorabili ed eseguiti con più convinzione. La leggenda new wave declina il suo tipico ghigno in una serie di precipitosi stornelli sui tipacci delle multinazionali, ma dà il meglio di sé nelle struggenti ballate come All these strangers e You hung the moon, che potrebbe dare ai vostri nonni l’impressio-ne di averla già sentita da qual-che parte quando erano giovani.Neil Spencer, The Observer

Folk

SanDy DEnny & thE StRawbS

All our own work(Witchwood)●●●●● Gli Strawbs erano una band folk composta da ragazzi di Straw-berry Hill, un vecchio quartiere di Twickenham. Il loro cantan-te, Dave Lambert, rimase folgo-rato da un’esibizione di Sandy Denny al Troubadour di Londra nel 1967 e, in un momento di follia, chiese alla futura cantan-te dei Fairport Convention di unirsi alla band. A sorpresa, la risposta fu afermativa. Subito dopo il gruppo fu messo sotto contratto dall’etichetta danese Sonet e pubblicò All our own work: un piccolo, grande disco, che mescola il folk acerbo della band con la voce soprannaturale di Sandy Denny, che allora ave-va solo 19 anni, e con la sua stra-ordinaria scrittura. L’album con-tiene anche la prima versione di uno dei classici del folk inglese, Who knows where the time goes, e diversi brani inediti registrati dal vivo. Jim Irvin, Mojo

pop

aşa

Beautiful imperfection (Naïve)●●●●●

Da una parte violenza, fame, miseria, bambini denutriti.

Dall’altra tamburi, danze, miti, bambini raggianti. Spesso il mondo ricco descrive l’Africa senza vie di mezzo. Invece Aşa, nata a Parigi e cresciuta a Lagos, cerca di creare uno spazio tra la ricca Francia e la Nigeria, i due paesi tra cui divide il suo tempo. Cerca di creare uno spazio tra le immagini stereotipate e i cliché che i mezzi d’informazione af-ibbiano all’Africa. La musica, scritta in Nigeria e registrata a Parigi, parla d’Africa ma si adat-ta al linguaggio globale della musica pop. Aşa canta in inglese ma anche in yoruba. Parla dei problemi del continente, ma an-che di una quotidianità che vive sentimenti e situazioni simili al resto del mondo. Il risultato so-no vivaci canzoni pop e ballate sostenute da pianoforte, iati e chitarre, ma quasi mai da stru-menti tradizionali. Aşa dimostra che dai club e dalle spiagge di Lagos possono arrivare hit inter-nazionali. Basta ascoltare il sin-golo Be My Man.Thomas Winkler, Die Zeit

Classica

FRiEDER bERniuS

Burgmüller: sinfonie n. 1 e 2Hokapelle Stuttgart, direttore: Frieder Bernius (Carus)●●●●● Nel 1810 non sono nati solo Chopin e Schumann. È anche l’anno di nascita di Norbert Burgmüller, e il suo bicentena-rio è un’occasione per riscoprire questo musicista che morì ad appena 26 anni. Il breve catalo-go delle sue opere conta solo due sinfonie. La seconda fu completata nel 1834 con l’aiuto di Mendelssohn, e Schumann la salutò come “la più nobile e si-gniicativa opera sinfonica re-cente”. Frieder Bernius e i suoi musicisti della Hokapelle di Stoccarda, che suonano su stru-menti d’epoca, colpiscono per precisione, energia e un’elo-quenza che mette in rilievo ogni dettaglio della scrittura. Nicolas Southon, Diapason

riproposti con un po’ di rabbia politica, lussuria e qualche ri-lessione ilosoica. Contro ogni aspettativa ne viene fuori il mi-glior disco dei N.E.R.D dai tem-pi di In search of, l’esordio del 2001.Simon Price, The Independent

SouaD MaSSi

O houria (Liberty)(Wrasse)●●●●● Da quando Souad Massi ha scel-to l’esilio, ormai circa dieci anni fa, ha messo insieme una soisti-cata tavolozza musicale. Canta in arabo, inglese, francese e si muove agilmente tra canzone folk, jazz e pop francese degli anni sessanta. Con un titolo ap-propriato come Liberty, si può dire che anche la sua scrittura abbia trovato una certa libertà. La title track è una sincera cele-brazione, Une lettre à Si H’med una protesta contro l’assogget-tamento alla sua terra d’origine, l’Algeria, e Nacera è il lamento di una donna picchiata. Questa commovente atmosfera è man-tenuta con Tout reste à faire, mentre il risonante melodram-ma di Let me be in peace svela un inaspettato duetto con Paul Weller.Mikael Wood, Spin

ElviS CoStEllo

National ransom(Hear Music)●●●●● La seconda collaborazione di Elvis Costello con il produttore T-Bone Burnett è un netto mi-

Souad Massi

N.E.R.D

MY

SPA

CE

MY

SPA

CE

pop/rockScelti da

Luca Sofri

bRyan FERRy

Olympia (Emi)

bEllE anD SEbaStian

Write about love(Rough Trade)

non voglio ChE ClaRa

Dei cani(Sleeping Star)

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Cultura

ted ConferenCe

Sabato 6 novembre, ore 23.00 Music Box

Il canale musicale (Sky 703) pro-pone per tutto novembre, ogni sera alla stessa ora, alcuni inter-venti dalle Ted conference, in cui le menti più brillanti nel campo della tecnologia, dell’en-tertainment e del design, pre-sentano le loro proposte per un mondo migliore e più eiciente.

soCCer’s lost boy

Martedì 9 novembre, ore 21.10 Current

Negli ultimi anni è aumentata la domanda di giovani giocatori dell’Africa nei campionati di cal-cio europei, così come il numero di agenti abusivi, di scuole di calcio illegali e di loschi inter-mediari.

MosChee d’ItalIa

Mercoledì 10 novembre, ore 21.10 Current

Secondo i dati del Viminale in Italia vivono un milione e mez-zo di musulmani, con 781 luoghi di incontro, tra moschee, centri culturali, scuole e associazioni. Quattro tappe alla scoperta di un mondo poco conosciuto e troppo temuto.

restrepo

Mercoledì 10 novembre, ore 22.10 Nat Geo

Il fotoreporter Tim Hethering-ton e il giornalista Sebastian Junger, autori di questo docu-mentario premiato al Sundance 2010, si sono installati in uno degli avamposti più a rischio per i marines in Afghanistan.

Un CadeaU dU CIel

Venerdì 12 novembre, ore 22.55 Arte

Nelle opere dell’artista danese Simone Aaberg Kaern sono spesso presenti il tema del volo e igure di aviatrici. Il ilm docu-menta il suo avventuroso viag-gio da Copenaghen verso l’Af-ghanistan a bordo di un piccolo aereo, alla ricerca di una bambi-na di cui ha letto in un articolo.

tv

snagilms.com Con i risultati delle elezioni di metà mandato sotto gli occhi, vale la pena di ricordare il momento storico in cui Barak Obama è stato eletto presidente degli Stati Uniti. Un paio di settimane prima di quel 4 novembre 2008, sicuro che si sarebbe trattato di una data da ricordare, il regista newyorchese Jef Deutchman aveva chiesto di documentare quella giornata a una serie di amici e colleghi sparsi negli Stati Uniti e nel mondo. Ne è uscita questa microstoria ilmata a più mani di uno dei momenti politici più esaltanti degli ultimi decenni.

Ma il progetto non si è esaurito: il sito web del progetto continua a raccogliere ilmati inviati da chiunque, per creare il più ampio archivio di immagini dedicato a quello storico giorno.

In rete

11/4/08

Del ilm di Pietro Marcello, del suo originale ritratto della cit-tà di Genova, dei suoi due fol-goranti protagonisti, è stato detto tutto il bene possibile. Al successo nelle sale italiane hanno fatto eco gli inviti in de-cine di festival in tutto il mon-do, prova che lo sguardo di Marcello e i racconti di Vin-cenzo Motta e Mary Monaco

sanno parlare per immagini e sentimenti ben oltre i conini (culturali) del paese. Nell’edi-zione appena uscita, il dvd è accompagnato dal libro Geno-va di tutta una vita, che si apre con una lettera inedita di Edoardo Sanguineti su La boc-ca del lupo e raccoglie altre te-stimonianze d’autore sulla cit-tà e sul ilm.

dvd

la bocca del lupo

Il 28 ottobre Libération, come tutti i giornali francesi, ha de-dicato la prima pagina alla “minaccia” lanciata da Osama bin Laden che, per la prima volta, ha dedicato integral-mente una delle sue invettive a un solo paese, la Francia, al momento dell’entrata in vigo-re della legge sul velo integra-le. La foto in prima pagina, senza data, distribuita dall’As-sociated press, mostra un gio-vane uomo barbuto, con il tur-bante bianco, gli occhi brillan-ti, leggermente di proilo. Una

igura molto familiare, diven-tata una specie di icona del ventunesimo secolo. Sicura-mente una delle prime.

A pagina tre ci troviamo di fronte a un altro ritratto di Bin Laden. Stavolta è frontale. Sfogliando rapidamente le pa-gine si ha l’impressione di as-sistere alla trasformazione della foto in un disegno. La di-dascalia spiega che “grazie a un software di invecchiamen-to, il Dipartimento di stato americano ha stabilito che questo potrebbe essere oggi

l’aspetto di Bin Laden”. La barba è più grigia (il che è ve-rosimile anche se non c’è nien-te di scientiico che lo provi), l’espressione più contrita, e i suoi occhi sono due buchi ne-ri, spenti, senza brillantezza.

Diicilmente una simile immagine potrà essere di qualche utilità per scovare il terrorista più ricercato al mon-do. Ma, in modo un po’ sini-stro, è perfetta da un punto di vista ideologico. Anche se è, e resta, solo un’immagine, sen-za alcuna vita.u

fotograia Christian Caujolle

la minaccia fantasma

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bienal de são paulo

Brasile, ino al 12 dicembre, 29bienal.org.br

La biennale di São Paulo ha aperto prima delle elezioni pre-sidenziali brasiliane scegliendo come tema la politica. Sono at-tesi tre milioni di visitatori in tre mesi, che si riverseranno in un ediicio tutto curve disegnato da Oscar Niemeyer. Il percorso, concepito da sette commissari di tutto il mondo, è caotico, ma permette a chiunque di inven-tarsi il proprio, di scegliere tra un video di Godard o le gabbie di avvoltoi di Numo Ramos. Im-possibile non vederci un’allusio-ne al fantasma della dittatura che incombe sul continente.Le Monde

Houdini. art and magic

Jewish Museum, New York, ino al 27 marzo 2011, thejewishmuseum.org

Nessuna folle impresa è stata all’altezza di quelle compiute dal iglio di un rabbino, che scappò di casa, si unì a un circo e diventò il più grande mago di tutti i tempi. Un’esposizione al museo ebraico mostra l’ultima trasigurazione di Houdini. Nessuna magia, solo spiegazio-ni razionali dei suoi trucchi, al-cuni video e fotograie. The New York Times

camuflajes

Espai Cultural Caja Madrid, Barcellona, ino al 9 gennaio

“Se un uomo va in spiaggia con il costume è se stesso, ma se va al teatro con lo smoking si sta camufando”, sostiene Méndez Baige, curatrice della mostra. L’esposizione pone la questione dell’identità e di quest’arte dell’inganno che ci aiuta a so-pravvivere. Francesca Wood-man si fotografa confondendosi con elementi vegetali, Desirée Palmen si mimetizza per le stra-de di Gerusalemme, Liu Bolin si tatua sul corpo e sui vestiti i co-lori e le linee dello sfondo su cui svanisce. El País

britisH art sHoW 7

Nottingham, Londra, Glasgow,

Plymouth, ino al 4 dicembre,

britishartshow.co.uk

La British art show è la più am-biziosa esposizione di arte con-temporanea britannica, che ogni cinque anni si sposta attra-verso quattro sedi. La settima edizione apre a Nottingham, passa alla Hayward Gallery e si conclude a Glasgow e Ply-mouth. I pezzi più belli sono ir-mati da Christian Marclay, Wolf gang Tillmans, Charles Avery e Sarah Lucas. Marclay con The clock usa un secolo di

pellicole in bianco e nero e a co-lori assemblate in un video-col-lage che dura 24 ore, fatto di tanti momenti in cui si manife-sta il tempo e il rapporto tra uo-mo e orologio. I frammenti conluiscono nel presente di-storcendo la cronologia e facen-do collassare le diferenze tra tempo vissuto e cinematograi-co. Mentre l’amore, la morte, l’attesa per un treno sono scan-diti sullo schermo dal tic-tac della lancetta dei secondi, Markley analizza in che modo ognuno di noi valuta il tempo. Tillmans espone una fotograia

monumentale astratta accosta-ta a documenti sulla povertà, l’ingiustizia, gli abusi. Avery mette in scena un bacio assurdo e allucinato tra un uomo nero in abiti da lavoro e una donna ete-rea vestita di bianco sullo sfon-do di un paesaggio chiuso in una teca di vetro. Sarah Lucas assembla tessuti vari trasfor-mandoli in forme biomoriche che ricordano le sculture di Louise Bourgeois. Purtroppo l’alta qualità di questi lavori sot-tolinea la mediocrità delle ope-re degli altri artisti in mostra. Financial Times

nottingham

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cultura

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Esattamente quattro anni fa, come certa-mente ricorderete, questa rubrica aveva audacemente introdotto un premio per lo scienziato del mese. Il primo vincitore era stato Matthias Wittlinger, dell’uni-versità di Ulm, in Germa-

nia, che ha fatto cose mirabili con e alle formiche. Per riuscire a scoprire come facessero a ritrovare la strada di casa, Wittlinger aveva accorciato le zampe a un gruppo e messo i trampoli a un altro, per modificarne il passo. Nel lontano 2006, accorciare le zampe delle formi-che ci era sembrato un modo assoluta-mente ammirevole di passare il proprio tempo, ma eravamo più giovani e vive-vamo in un’epoca più innocente. Nono-stante l’enorme interesse suscitato da questo premio inaugurale, Wittlinger non ha ricevuto un bel niente e probabilmente, se non era abbonato a questa rivista, non sa neppure di aver vinto. Come se non bastasse, dopo di lui non c’è stato nessun altro vin-citore, perché il mese dopo ci eravamo già dimenticati tutta questa storia.

Comunque: torna il premio! Sono strafelice di an-nunciare che il vincitore di questo mese, Rolando Ro-dríguez-Muñoz, lavora proprio qui in Inghilterra, all’università di Exeter. Insieme al suo collega Tom Tregenza, Rodríguez-Muñoz ha studiato le strategie di accoppiamento dei grilli. Secondo l’Economist, i due ricercatori hanno scoperto che “i grilli più piccoli riescono a compensare la scarsa statura con un prodi-gioso frinire”. In altre parole, essere il cantante di una band funziona anche per gli sigati di altre specie.

Rodríguez-Muñoz ha soiato il premio a Tregenza perché, dopo aver “catturato, marcato, liberato e mo-nitorato centinaia di grilli” con i suoi collaboratori, ilmando 64 tane diverse, Rodríguez-Muñoz è quello che ha visionato e analizzato i risultati: 250mila ore di riprese! Un quarto di milione di ore! Poco meno di tre anni di porno di grilli. Presumo che i grilli, come noi, passino più tempo a cercare di fare sesso che a farlo, ma deve comunque averne viste delle belle. I più seve-ri tra i membri della giuria hanno cercato di obiettare che Rodríguez aveva barato vedendo i filmati in fast forward e su sedici monitor contemporaneamen-te, ma io non ci sto: secondo me, guardare grilli che si accoppiano a velocità doppia è anche più diicile che guardarli a velocità normale. No, Rolando Rodríguez-

Muñoz è un eroe, e si merita tutto il meglio.Quattro anni fa, qualcuno aveva malignamente in-

sinuato che il premio per lo scienziato del mese fosse in qualche modo collegato ai Mondiali di calcio. “Non ha letto abbastanza per scrivere la rubrica”, era questa

la tesi, “e appena ha trovato un articolo interessante su una rivista, tra una parti-ta e l’altra, si è inventato questa fesseria per tirarsi fuori dai guai”. Questo mi of-fende profondamente, prima di tutto perché svaluta il brillante lavoro di que-sti straordinari studiosi. E anche se è ve-ro che mentre scrivo questa rubrica ci stiamo avvicinando alla inale di un altro campionato mondiale di calcio e il tem-po per la lettura si è molto ridotto, posso assicurarvi che la ricomparsa di questo prestigioso riconoscimento è una pura,

anche se sorprendente, coincidenza.L’efetto che i Mondiali hanno avuto sulle mie let-

ture è stato ancora più negativo che nel 2006. Allora mi ero limitato a non aprirne neanche uno. E anche se ero rimasto turbato dalla facilità con cui una partita tra la Turchia e la Croazia poteva cancellare la mia fame di lettura, almeno la letteratura ne era uscita indenne. Questa volta, come potete vedere dalla lista qui accan-to, ho saziato il mio appetito divorando i primi capitoli di diversi libri, e il risultato è che ci sono romanzi man-giucchiati sparsi dappertutto. Almeno credo che ci siano, perché li ho temporaneamente persi di vista quasi tutti.

Recentemente, ho parlato dei romanzi di Muriel Spark, della loro genialità e della loro piacevole strin-gatezza. Ma la stringatezza dell’autrice ha un evidente svantaggio: i suoi libri tendono a restare sepolti sotto le cose. Il romanzo storico di Dennis Lehane, Quello era l’anno, ce l’ho sempre a portata di mano solo per-ché è un tomo di settecento pagine. Questo non l’ha aiutato a farsi leggere, è vero, ma almeno è visibile. Non ho perso, invece, Le ragazze di pochi mezzi, che ho trovato eccentrico e divertente e triste come gli altri romanzi di Spark che ho letto il mese scorso.

Alla ine dell’ultima rubrica avevo promesso di leg-gere Il nostro comune amico su un e-reader, e non ho fatto neanche quello. Un po’ per il calcio e un po’ per-ché leggere Dickens in quel modo era frustrante. Oltre al fatto che un romanzo vittoriano non è adatto a un sofisticato marchingegno del ventunesimo secolo, ho voluto risparmiare scaricando il testo da un sito

Pop

La lettura vittimadei Mondiali

Nick Hornby

Quest’estate ho saziato il mio appetito di lettore divorando i primi capitoli di diversi libri, e il risultato è che ora ci sono romanzi mangiucchiati sparsi dappertutto

NICK HORNBY

è uno scrittore britannico. Il suo ultimo libro è È nata una star? (Guanda 2010). Questa rubrica esce su The Believer con il titolo Stuf I’ve been reading.

LIBRI LETTI

Live from New YorkTom Shales e James Andrew Miller

BrooklynColm Tóibín

Le ragazze di pochi mezziMuriel Spark

Quello era l’annoDennis Lehane (metà)

Atteggiamento sospettoMuriel Spark (metà)

InvidiaMuriel Spark (metà)

TinkersPaul Harding (metà)

LIBRI COMPRATI

Il nostro comune amicoCharles Dickens

BrooklynJohn B. Manbeck

LIBRI SCARICATI

GRATIS

Il nostro comune amicoCharles Dickens

Le avventure di Huckleberry FinnMark Twain

BabbittSinclair Lewis

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che ofre il download gratuito di romanzi senza copy-right. Mi sono regalato Babbitt e Le avventure di Huc-kleberry Finn in una volta sola. L’edizione scaricata è arrivata senza note, però, e a me le note piacciono pa-recchio. Per l’esattezza, ogni tanto ho bisogno delle note (alla ine ci arrivate anche da soli a capire che la “polvere”, che è un elemento chiave della trama, è sporcizia domestica e non granelli di terra, ma se lo trovate spiegato chiaro e semplice all’inizio del roman-zo risparmiate un sacco di tempo e di dubbi). Non mi ero mai reso conto di come le leggi sul diritto d’autore favoriscano il mercato dell’e-reading e, naturalmente, danneggino l’editoria. Penguin e soci fanno un sacco di soldi vendendo libri di gente morta da un pezzo e se tutti scegliessimo la via del download gratuito, allora

ci sarebbero meno soldi per gli scrittori vivi. Preso da un impulso autopunitivo, ho comprato immediata-mente una copia di Il nostro comune amico, anche se da qualche parte devo averne già una. Non servirà a nien-te, alla lunga, perché libri, editori e lettori sono chiara-mente spacciati. Ma forse dovremmo tutti fare il pos-sibile per allontanare il disastro incombente, almeno di un po’.

Mi ero messo a leggere Il nostro comune amico per ragioni professionali: devo scriverne l’introduzione per una nuova edizione. E ho letto per lavoro anche Brooklyn di Colm Tóibín: mi era stato chiesto di valuta-re la possibilità di adattarlo per il cinema, e siccome almeno un milione di critici e molti esseri umani veri mi avevano detto quanto era bello, ho preso sul serio la

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Pop

proposta. Non sono le circostanze migliori in cui leg-gere un romanzo: invece di ammirare la scrittura, con-centrarti sui personaggi e voltare le pagine per scopri-re che cosa succederà, sei lì che pensi “Mah, non so”, “Sì, questo potrei tagliarlo”, “Miley Cyrus sarebbe perfetta per questa parte” e “Ma voglio davvero passa-re i prossimi anni della mia vita a rovinare la prosa di questo tizio?”. È merito del romanzo di Tóibín – con la sua prosa misurata e attenta, l’empatia quasi strazian-te con cui racconta i personaggi, la forza del suo reali-smo – se ben presto ho dimenticato il motivo per cui lo stavo leggendo, e l’ho letto e basta. Poi, dopo averlo inito, ho deciso che volevo adattarlo per il cinema, non solo perché mi è piaciuto, ma perché sono riuscito a “vederlo”. Non il ilm, certo, ma il mondo del roman-zo: la cabina di terza classe in cui la sua protagonista viaggia da Liverpool a New York nei primi anni cin-quanta, il grande magazzino in cui lavora, i balli a cui partecipa. Sono tutti rappresentati con il gusto di un direttore della fotograia per la profondità, la luce e i dettagli.

La critica più oziosa e irritante che può essere rivol-ta a un romanzo è quella del lettore della domenica che dichiara di essere rimasto “completamente insen-sibile” ai personaggi e alle loro traversie: una lamente-la generalmente espressa con il tono di chi considera questa banalità il prodotto di un pensiero profondo e originale (evidentemente a questi critici non viene mai in mente che il difetto possa essere in loro e non nelle pagine del libro. Forse gli capita la stessa cosa con amici, genitori, igli: “Il problema di mia iglia è che non riesce a farsi amare abbastanza da me”. Di fronte a questo, dovremmo annuire soddisfatti?).

Non vuol essere un complimento a doppio taglio se dico che Tóibín se ne inischia di quello che provate per Eilis, la sua eroina. Questo non signiica che il libro sia freddo e neutrale, o che Tóibín sia uno scrittore di-simpegnato. Non lo è. Ma è paziente, pacato e non sen-timentale, e si aida alla storia più che alla prosa per coinvolgere emotivamente. E ci riesce. Brooklyn sce-glie la forma narrativa di un tipo di libro molto dozzi-nale – “una donna, due paesi, due uomini” – ma non è di questo che si tratta. Di cosa si tratti esattamente non lo saprete inché non arrivate alle ultime pagine, e al-lora capirete con quanta astuzia è stata tesa la trappo-la. L’ho adorato. Lo rovinerò? È possibile, certo. È un’opera molto delicata, di cui Eilis è il centro atten-to e immobile. Se non altro non dovrò smantellare la sua complessa architettura, perché non ce l’ha, quindi potrei anche cavarmela. Quando leggerete questa ru-brica avrò già cominciato a lavorarci, e se avete una iglia di dieci anni con ambizioni di attrice, le conviene cominciare a fare pratica dell’accento irlandese. Stan-do alla mia esperienza di cinema, le riprese comince-ranno intorno al 2020, se nel frattempo non sarà anda-to tutto a monte.

In un certo senso, ho letto per lavoro anche Live from New York, una storia orale del Saturday night live. Da qualche mese ho un’agente americana, una signora deliziosa e intelligente di cui ho ignorato ogni idea, suggerimento e richiesta dal momento in cui ha accet-

Storie vere

Randi Pliska, 28 anni, era al lavoro in un negozio di Edmonton, nell’Alberta, in Canada, quando un borsaiolo le ha rubato il portafoglio. Dentro c’era il bancomat, ma non il pin per farlo funzionare. Così il ladro ha scelto la strada più rapida: ha telefonato al negozio, si è fatto passare Randi e le ha chiesto il codice. Lei glielo ha detto. Qualche minuto dopo i soldi erano spariti dal suo conto. “Mi hanno detto che chiamavano dalla banca, era credibile”, ha spiegato la donna dopo il furto. “Ora mi sento violentata”.

tato di rappresentarmi. Comunque, mi ha consigliato il libro di Tom Shales e James Andrew Miller, e dal mo-mento che non le faccio guadagnare un centesimo ho pensato che potevo almeno seguire i suoi consigli di lettura. Tra l’altro, sono sicurissimo che anche lei se dovesse scegliere tra l’una e l’altra cosa, fare soldi o azzeccare i consigli, preferirebbe i consigli. È questo che la rende speciale.

Ho letto il libro anche se non avevo mai visto un so-lo minuto del Saturday night live, almeno prima dell’imitazione di Sarah Palin fatta da Tina Fey nel 2008. Il programma non è mai andato in onda in Gran Bretagna , quindi non avevo idea di chi fossero quelle persone. Will Ferrell? Bill Murray? Adam Sandler? Ed-die Murphy? John Belushi? Chris Rock? Dan Aykroyd? Ma che carini, allora anche voi americani avete i vostri divi della tivù. E magari non avete mai sentito nomi-nare Pat Phoenix.

Quando è fatta bene, come in questo caso, la storia orale è decisamente imbattibile come forma di saggistica: appassionan-te, leggera, con il continuo alternarsi delle voci che salva dalla monotonia. Please kill me di Legs McNeil, il libro di

George Plimpton su Edie Sedgwick o Working di Studs Terkel sono libri a cui spero di tornare, un giorno, quan-do avrò letto tutto il resto. Live from New York probabil-mente è appena un po’ troppo lungo per chi non cono-sce il programma televisivo, ma se volete imparare qualcosa sul mestiere dello sceneggiatore e dell’attore, qui avrete da scegliere. Mi tornano sempre in mente le parole di Lorne Michaels, il padre del Saturday night live: “La quantità di cose che devono combinarsi per-ché venga fuori qualcosa di buono è sconvolgente. Ed è un miracolo che ogni tanto spunti qualcosa di buono. Quando sei giovane, pensi che basta conoscere la dif-ferenza tra bello e brutto: ‘Il mio sarà un lavoro fatto bene, perché lo preferisco a uno fatto male’”.

L’osservazione di Michaels contiene una terribile verità: a un certo punto della vita, pensi che il tuo gusto impeccabile ti salverà. Con il passare degli anni, capi-sci che le cose sono un po’ più complicate.

Mentre leggevo Live from New York, mi sono reso conto che G.E. Smith, il direttore musicale del pro-gramma, era lo stesso G.E. Smith che era seduto ac-canto a me su un volo da New York a Londra, nel 1976 o 1977. Io tornavo al college dopo essere andato a tro-vare mio padre e Smith era in tournée con Daryl Hall e John Oates, che sedevano in prima classe. Era il primo musicista che conoscevo, e con me fu simpatico e ge-neroso nel dedicarmi il suo tempo. Mi parlò in termini entusiastici di Abandoned luncheonette di Hall & Oates, un album folk-soul di una bellezza struggente registra-to molto prima del loro periodo disco (anche quello piuttosto interessante, in realtà) . Lui se la sarà dimen-ticata, ma quella conversazione contribuì ad alimen-tare in me l’idea, allora appena nata, che non volevo trovarmi un vero lavoro. Fu un volo che diede il via a molte cose, ora che ci penso. Mi piace ancora molto, Abandoned luncheonette. u dic

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Gawker, il blog che pubblica gossip e notizie sulle celebrità di New York, molto presto non sarà più un blog. Lo stesso succederà agli altri siti che ap-partengono al network di Gawker Media, come Gizmodo, Deadspin,

Jezebel e Lifehacker.Non ci sarà nessun cambiamento per quanto ri-

guarda la linea editoriale: Gawker non abbandonerà il suo tono pettegolo, Gizmodo non esiterà a raccontarci del misterioso iPhone trovato in un bar, e Lifehacker continuerà a dispensare consigli su come trasformare il nostro pc in un mac.

La diferenza sta nel fatto che quando pubbliche-ranno i loro scoop, questi siti non lo faranno più usan-do la struttura di un blog, cioè come un elenco di post che appaiono in ordine di pubblicazione. Si trasforme-ranno invece in qualcosa di più simile alle classiche riviste online.

Per vedere come diventeranno basta scrivere beta al posto di www: per esempio, beta.gawker.com.

In homepage ci sarà un’immagine piuttosto grande e il titolo del post più letto, e sulla destra una lista di altri articoli. Sarà possibile farsi un’idea di tutto il sito a colpo d’occhio, senza bisogno di scorrere la pagina.

Potrebbe sembrare un piccolo cambiamento, ma non lo è: a Gawker viene spesso attribuito il merito di aver dato legittimità giornalistica ai blog, quindi se non è più un blog cos’è? A quanto pare anche Nick Denton, il fondatore di Gawker, si sta facendo la stessa domanda: in un articolo pubblicato di recente sul New Yorker, ha afermato che “probabilmente questo rede-sign sarà considerato la ine dei blog”.

Vacci piano, Nick! Mentre Gawker abbandona la struttura del blog, altre riviste come Wired e l’Atlantic la stanno adottando (entrambe pubblicano tutti gli ar-ticoli, tranne quelli già usciti su carta, sotto forma di post). Oppure date un’occhiata al sito di Newsweek, che pubblica i suoi articoli in homepage a partire dai più recenti, proprio come un blog.

Questi cambiamenti – che rendono i blog più simili alle riviste e le riviste più simili ai blog – non sono su-periciali, e stanno facendo crollare ogni distinzione tra post e articoli.

Negli ultimi giorni ho contattato diversi blogger e redattori di siti importanti per chiedere la loro opinio-ne. Ho ricevuto risposte molto diverse: anche se ogni redazione ha le sue regole per quello che chiama un “post” e un “articolo”, le regole cambiano molto da una redazione all’altra. Inoltre i conini non sono mol-to chiari: i post sembrano articoli e gli articoli sembra-no dei post.

Allora qual è la diferenza tra un post e un articolo,

I blog diventano giornali e viceversa

Farhad Manjoo

FARHAD MANJOO

è un columnist di Slate esperto di tecnologia. Ha scritto True enough: learning

to live in a post-fact

society (Wiley 2008). Questo articolo è uscito con il titolo This is not a blog post.

e soprattutto, cambia qualcosa per noi che leggiamo?“Lo dico con tutto il dovuto rispetto: chi se ne fre-

ga?”. Così mi ha risposto Joel Johnson, blogger di Giz-modo, quando gli ho fatto questa domanda.

Il giornalista Scott Rosenberg, autore di Say eve-rything. A history of blogging, la pensa allo stesso modo: “I giornalisti credono che i lettori conoscano perfetta-mente la diferenza tra un pezzo di politica, uno di eco-nomia, un reportage e un approfondimento. Allo stes-so modo, credono che ai lettori importi qualcosa del-la diferenza tra articolo e post. Secondo me, invece, i lettori leggono semplicemente quello che scriviamo e reagiscono di conseguenza. Queste issazioni sono nostre, non loro”.

Ma per i reporter e i redattori che producono gli ar-ticoli di cui parliamo, queste etichette sono spesso molto importanti. Quelli che scrivono per il web sono particolarmente sensibili ai vecchi stereotipi sulla pro-fessionalità: ultimamente l’ex direttore politico della

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102 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Pop

Bbc, Andrew Marr, li ha deiniti dei “ragazzini che se ne stanno seduti a farneticare nel seminterrato di casa loro”.

Oggi i blog non sono trattati con disprezzo, ma un uso scorretto dei termini “post” e “articolo” può anco-ra iniammare la coscienza di classe dei giornalisti.

Tempo fa, David Brooks del New York Times ha citato con ammirazione un articolo di Nathan Heller che parlava del ilm The social network.

Brooks, però, non ha detto che il pezzo di Heller era un articolo: lo ha deinito “un post intelligente”. È pos-sibile che il giornalista del New York Times abbia usa-to la parola post con un sottile senso denigratorio, co-me per far sembrare poco rilevante il fatto che Heller abbia avuto la parola prima di lui? Voglio dare a Brooks il beneicio del dubbio e dico che probabilmente non è così (non sono riuscito a contattarlo per avere un com-mento a proposito).

Spesso questa confusione non ha grande impor-tanza. Spesso i lettori prendono i miei post per degli articoli e viceversa: “Farhad Manjoo è il blogger peg-giore di Slate!”, non è un commento insolito nelle pa-gine in cui scrivo (lo so, sono il peggior columnist che ci sia, grazie).

Eppure ho sentito dire da persone che lavorano nel mondo dell’informazione che in alcune circostanze il termine post può essere considerato ofensivo. Anna Holmes, che ha fondato il blog Jezebel dirigendolo i-

no allo scorso giugno, classiica i post del sito in due categorie mentali. I pezzi che sono principalmente delle reazioni a qualcosa che già esiste sui giornali o su internet sono dei post. Ma Jezebel pubblica anche molti pezzi che non sono semplici richiami al materia-le esterno. Nel sito, questi pezzi originali e più seri non si distinguono graicamente dagli altri, ma Holmes li considera degli articoli.

Spesso, dice Holmes, i lettori si riferiscono a questi pezzi chiamandoli post, un termine che non le va a ge-nio. Holmes cita un pezzo molto letto lo scorso giugno, scritto da Irin Carmon, sulle donne che lavorano come corrispondenti per il Daily Show e sul motivo per cui si sentono emarginate.

“Se qualcuno avesse detto che quello era un post mi avrebbe dato molto fastidio”, dice. “Non a tal punto da farmi protestare pubblicamente, ma mi sarebbe di-spiaciuto e l’avrei detto a l’autrice Irin Carmon, perché l’avrei vissuto come il tentativo di sminuire il suo lavo-ro”. Holmes aggiunge che non dovrebbe essere così: “Di solito i post di un blog sono sottovalutati. Il termi-ne blog non dovrebbe suonare peggiorativo, eppure è da sempre oggetto di una scarsa considerazione, so-prattutto tra gli addetti ai lavori della vecchia scuola”.

L’ansia su cosa chiamare “scrittura per il web” na-sce in parte dai cambiamenti tecnologici nel mondo dell’editoria. Negli ultimi anni molte riviste e giornali online hanno abbandonato i loro pesanti e costosi si-

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 103

Il governo britannico ha varato un bilancio che contrae severamente la spesa pubblica. Anche l’istruzio­ne è colpita, pur se molto meno di altri settori. Questo rende partico­larmente interessante la decisione, annunciata dal ministro dell’istru­zione Michael Gove, di dar corso a un impegno elettorale di Nick Clegg e dell’ala liberale del gover­no: istituire un pupil premium per sostenere la scolarità degli alunni di famiglie più povere e inanziarlo per 2,5 miliardi di sterline, cifra ri­levante su un pil di 1.290 miliardi.

All’inizio l’annuncio era poco chia­ro e, incalzato dal ministro ombra laburista Andy Burnham, Gove ha ammesso che la cifra non è ag­giuntiva, ma interna agli stanzia­menti per l’istruzione (5,6 per cen­to del pil nel 2009). La scelta resta comunque signiicativa.

Da un capo all’altro del mondo la mancata frequenza scolastica è avvertita come un problema di equità, di funzionalità sostanziale della democrazia e, inine, di eco­nomia. I costi dell’ignoranza e del­la marginalità sociale superano le

spese di investimento in istruzio­ne. Conservatori come Sarkozy o Angela Merkel lo sanno, nel mon­do e in Europa, non meno dei pro­gressisti, e cercano di agire di con­seguenza, come qui abbiamo ri­cordato spesso. Del resto mostrò di saperlo anche Margaret Thatcher quando, pur contraendo gli investimenti indiferenziati per le università, potenziò tuttavia gli investimenti per la scuola preele­mentare ed elementare dove, di­ceva, si decide il destino sociale delle persone. u

Scuole Tullio De Mauro

La scuola paga

stemi per la gestione dei contenuti scegliendo softwa­re più lessibili, creati per scrivere i blog. Usare questi software, però, non vuol dire per forza fare un blog. Bob Cohn, il direttore editoriale dell’Atlantic Digital, dice che lui considera post tutto quello che pubblica sul sito.

Al contrario, Evan Hansen di Wired.com non usa la parola “post” quando si riferisce agli articoli pubblica­ti nelle sezioni Danger room, Epicenter e Threat level, tutte sezioni che invece in homepage sono etichettate come blog. Siccome sono pezzi scritti dagli inviati e vengono rivisti dalla redazione, Hansen li considera articoli, anche se a tutti noi sembrano dei post.

Se i post si stanno lentamente trasformando in ar­ticoli e gli articoli in post, verrebbe da chiedersi qual è la forma che prenderà il sopravvento. La domanda è particolarmente interessante visto che presto la carta stampata non ci sarà più.

In futuro, in una data ancora da stabilire, il New York Times smetterà di stampare il quotidiano di car­ta. Come lo chiameremo allora? Le storie che leggere­mo nel suo sito saranno dei post? Non credo.

Sono pronto a scommettere che il nuovo progetto di Gawker anticipa un cambiamento imminente. An­che se gruppi più tradizionali come l’Atlantic hanno adottato la struttura del blog, i loro siti non hanno niente a che vedere con quel genere d’impresa fatta in casa che si poteva vedere ino a cinque anni fa. Quasi tutti i blog giornalistici, compreso Gawker, sono molto professionali. Pubblicano notizie, hanno delle vere redazioni, soddisfano le aspettative del pubblico e in cambio sul loro sito c’è un grande traico di visitato­ri. Si chiamano blog, ma sono dei veri traicanti di ar­ticoli.

Scott Rosenberg sottolinea che tutto questo ha po­co a che vedere con la popolarità dei blog in re­te. Un sacco di gente lontana dal mondo dell’informa­zione continuerà a scrivere blog per passione. Sia­

mo comunque nel mezzo di un cambiamento impor­tante.

Quando ho chiesto a Glenn Reynolds di Insta­pundit cos’è secondo lui un blog, ha risposto che la cosa più importante è “l’assenza di una voce istituzio­nale”. “Qualsiasi software usi”, ha aggiunto, “non cre­do che il New York Times sarà mai un blog”. u cab

Sono un oste, disse l’uomo alla porta,

conosci questa ragazza?

L’ho trovata per terra per strada.

Sì, la conosco, dissi. Grazie,

molto gentile. Ripetendo tutto due volte.

Era giovane ma di vecchio stampo, direi,

perché ti chiamò ragazza

e suppongo che disse d’essere un oste

perché ne aveva viste un bel po’ come te

cucite alla brezza del quartiere

e sapeva che quel tipo di strada

a quest’ora di notte

non era luogo in cui farsi vedere o trovare

coi locali chiusi e quando lo fece

non c’era nient’altro da fare

che portarti tutta brontolante a casa

trovando la casa giusta se possibile.

Brian Lynch

Poesia

Rientro a tarda ora

BRIAN LYNCH

è un poeta e sceneggiatore irlandese, nato a Dublino nel 1945. Questa poesia è tratta da Poesie scelte

(puntoacapo 2008), traduzione e cura di Alberto Bretoni e Mauro Ferrari.

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Scienza e tecnologia

104 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Perché le chiacchiere tra sorelle rendono più felici

Secondo un recente studio, gli ado-lescenti che hanno una sorella so-no meno propensi a sentirsi “infe-lici, tristi o depressi” e a pensare

“nessuno mi vuole bene”. Anche altri studi sono giunti a conclusioni simili. Ma perché avere una sorella dovrebbe rendere più feli-ci? La risposta classica – che le ragazze e le donne parlano delle emozioni più facilmen-te dei ragazzi e degli uomini – non è soddi-sfacente. Gran parte del lavoro che ho svol-to nel corso degli anni mi ha portato a pen-sare che l’amicizia e le chiacchiere femmi-nili non sono di per sé migliori di quelle maschili, ma semplicemente diverse.

Una volta un uomo mi ha raccontato di aver trascorso una giornata con un amico che stava divorziando. Quando è tornato a casa, la moglie gli ha chiesto come stesse l’amico. Lui ha risposto: “Non lo so, non ne abbiamo parlato”. La moglie lo ha rimpro-verato. Per lei l’amico aveva senz’altro biso-gno di parlare di ciò che stava passando. Il marito si è sentito in colpa, perciò ha prova-to un certo sollievo quando ha letto nel mio libro Ma perché non mi capisci? che anche fare delle cose insieme può essere di con-forto e una dimostrazione d’afetto. Parlare del divorzio poteva far stare peggio l’amico ed esprimere preoccupazione poteva suo-nare paternalistico.

Se parlare dei problemi non è necessario per trovare conforto, avere una sorella inve-ce di un fratello non dovrebbe rendere gli uomini più felici. Eppure lo studio di Laura Padilla-Walker e dei suoi colleghi della Brigham young university è stato confer-mato anche da altri studi. In una mia recen-te ricerca, ho intervistato più di cento donne sulle loro sorelle, e se avevano anche fratel-

li gli ho chiesto di fare un confronto. La maggior parte ha detto di parlare con le so-relle più spesso, più a lungo e di argomenti più personali. Non sempre questo voleva dire che si sentivano più vicine alle sorelle. Una donna, per esempio, ha raccontato di parlare per ore al telefono sia con i due fra-telli sia con le due sorelle. Gli argomenti delle loro chiacchierate, però, sono diversi. Con le sorelle parla della vita privata, con i fratelli di storia, geograia e libri. Ma parlare a lungo raforza il legame sia con i fratelli sia con le sorelle, a prescindere da quello che si dice.

Il potere della parolaIl punto centrale del perché avere le sorelle rende felici – sia gli uomini sia le donne – po-trebbe non dipendere dal tipo di conversa-zione, ma dal solo fatto di conversare. Se gli uomini, come le donne, parlano più spesso con le sorelle, questo potrebbe spiegare perché le sorelle rendono più felici. Le in-terviste che ho condotto hanno confermato questa deduzione. Molte mi hanno detto di non parlare dei loro problemi personali ne-anche con le sorelle. Un esempio è Colleen, una vedova ottantenne che era sempre sta-ta molto vicina alla sorella non sposata, ma

Secondo la linguista Deborah Tannen parlare fa bene all’umore, indipendentemente dal contenuto delle conversazioni. E con le sorelle si parla più spesso

Deborah Tannen, The New York Times, Stati Uniti

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non aveva mai parlato con lei di problemi personali. A un certo punto la sorella è an-data a vivere con lei e il marito. Colleen ha ricordato che ogni mattina, quando lui si alzava per fare il cafè, la sorella si fermava in camera sua per darle il buongiorno. Col-leen la invitava a sedersi sul letto. E mentre se ne stavano lì, mano nella mano, “parla-vano del più e del meno”. È questo un altro tipo di conversazione a cui si dedicano mol-te donne e che stupisce molti uomini: parla-re dei dettagli della vita quotidiana, come il maglione comprato in saldo. Per alcune donne queste conversazioni sono confor-tanti come per altre lo sono le conversazioni “sui problemi”.

Quindi forse è vero che parlare è il mo-tivo per cui avere una sorella rende più fe-lici, ma non è necessario che si parli di emozioni. Quando le donne mi hanno det-to di parlare con le sorelle più spesso, più a lungo e di argomenti più personali, sospet-to che l’elemento fondamentale sia il pri-mo – “più spesso” – e non l’ultimo. u sdf

Deborah Tannen insegna linguistica alla Georgetown university ed è autrice, tra l’altro, di You were always mom’s favorite! (Random House 2009)

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 105

IN BREVE

Neuroscienze Le dita sanno quando sbagliano, scrive Scien-ce. Studiando dei volontari bat-tere un testo al computer, si è scoperto che il cervello ha due sistemi di controllo degli errori, uno visivo e uno tattile. Le dita si accorgono dell’errore e rallen-tano anche se gli occhi non ve-dono lo sbaglio.Spazio È stata individuata una stella di neutroni con una massa che è quasi il doppio di quella del Sole e il 20 per cento più grande della stella di neutroni più massiccia conosciuta. J1614-2230 si trova a tremila anni luce dalla Terra e ruota su se stessa 317 volte al secondo. Secondo Nature, le stelle di neutroni sono un laboratorio eccezionale per studiare le proprietà della mate-ria superdensa.

Ognuno di noi ha in media 250-300 geni difettosi, non funzionanti a causa di una mutazione, e tra le 50 e le 100 varianti genetiche associate a malattie ereditarie. Ma tradurre queste scoperte in progressi per la medicina non sarà immediato, spiega Nature, come è successo con i dati raccolti dal progetto Genoma

umano. I nuovi risultati sono i primi frutti del progetto di collaborazione internazionale chiamato 1.000 genomi, che produrrà un ampio catalogo pubblico delle variazioni genetiche nel dna. Il suo obiettivo è determinare la sequenza di circa duemila persone appartenenti a venti popolazioni e individuare le variazioni responsabili di malattie ereditarie e di altre caratteristiche genetiche importanti a scopi medici. Si potrebbe approfondire così il legame tra alcune malattie – come obesità, diabete e patologie cardiovascolari – e le variazioni genetiche. Il problema è che alcune di queste varianti sono molto rare. I ricercatori afermano però di essere già riusciti a trovare 15 milioni di varianti, il 95 per cento di quelle esistenti, dopo aver ottenuto una bozza della sequenza di dna di 179 persone, quella del dna di due famiglie e la sequenza del dna codiicante le proteine di 697 individui. u

Genetica

Nessuno è perfetto

Nature, Gran Bretagna

Il mal di testa da gelato vie-ne solo quando fa caldo?

Il fenomeno del mal di testa da gelato, noto anche come “cer-vello ghiacciato”, si veriica quando una sostanza molto fredda tocca la parte posterio-re del palato causando la rapi-da contrazione e dilatazione dei vasi sanguigni della testa. Secondo alcuni studi, i recet-tori del dolore stimolano il nervo trigemino, che veicola le informazioni sensoriali dalla

faccia al cervello, causando un dolore lancinante al viso o alla testa. Ma non tutti ne sono col-piti. Solo un terzo delle perso-ne lo sperimenta e non capita solo nei giorni caldi. In uno studio pubblicato sul British Medical Journal, condotto nei mesi invernali, è stato chiesto a 145 alunni della scuola me-dia di mangiare un gelato. Ad alcuni è stato detto di man-giarlo piano, ad altri di ingur-gitarlo in cinque secondi o me-no. Circa il 30 per cento degli

studenti “veloci” ha avuto mal di testa, contro il 13 dei “lenti”. “I nostri risultati indicano che il mal di testa da gelato può es-sere indotto in un clima freddo anche in soggetti che mangia-no lentamente”. Secondo al-cuni studi, chi sofre di emi-crania può essere più incline ai mal di testa da freddo, ma al-tre ricerche dicono di no.Conclusioni Il mal di testa da gelato può veriicarsi sia se fa caldo sia se fa freddo.The New York Times

Davvero? Anahad O’Connor

Il freddo che dà alla testa

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SALUTE

Epidemia d’autismo In alcune zone della contea di Los Angeles il numero di bambi-ni afetti da autismo è quattro volte superiore alla media. Co-me spiegarlo? Le ipotesi sono diverse, spiega The Lancet. Una è quella dell’inluenza so-ciale: vivere vicino a un bambi-no con autismo aumenta la co-noscenza del problema e quindi la probabilità di riconoscere i sintomi e arrivare a una diagno-si. L’inluenza sociale spieghe-rebbe il 16 per cento dell’au-mento dei casi censiti. Un’altra ipotesi chiama in causa il livello d’istruzione dei genitori: più è elevato, migliore è l’accesso ai servizi sanitari. Per alcuni ricer-catori, ha un peso importante anche la nuova deinizione di autismo nei manuali di medici-na: un quarto dei bambini oggi deiniti autistici non avrebbero avuto la stessa diagnosi prima del 1993. Resta da capire se ci sia anche un aumento reale dei casi.

NEUROSCIENZE

Emozionicolorate Il colore della luce sembra avere un efetto immediato, e non solo a lungo termine, sul modo in cui il cervello elabora gli stimoli emotivi, spiega Pnas. Regi-strando l’attività cerebrale in ri-sposta a voci arrabbiate e voci neutre è stato visto che la luce blu aumentava la risposta nella “regione vocale” del cervello e l’interazione tra questa e il cen-tro delle emozioni.

Prima degli anni novanta

1 su 2.000 bambini Oggi 1 su 110 bambini

Fonte: Cdc 2010

L’aumento dei casi di autismo negli Stati Uniti

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106 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Il diario della Terra

43,9°CLa Mecca,

Arabia Saudita

Thailandia

-67,8°CVostok,

Antartide

Australia4,4 M

AfghanistanPakistan5,2 M

Cina4,7 MIran 4,2 M

Benin Indonesia Indonesia

Stati Uniti

Argentina

Tomas

Shary

Serbia5,6 M

Turchia5,3 M

Burundi

Ucraina

Si sa che telefoni cellulari, bat-terie, televisori, orologi digita-li, console di videogiochi e computer non dovrebbero fi-nire nella raccolta indifferen-ziata, perché contengono composti chimici e metalli pe-santi inquinanti. Ma anche se sulle confezioni ci sono inviti a riciclare e a smaltire corretta-mente i rifiuti elettronici, di fatto liberarsene nel modo giusto non è facile. Negli Stati Uniti, a differenza delle cam-pane per riciclare le lattine, i sistemi per i rifiuti elettronici variano da città a città e a se-conda del tipo di prodotto. Molti regolamenti sono diffici-li da far rispettare e sono spes-so disattesi. Il New York Ti-mes dà alcune indicazioni, raccolte con una lunga e diffi-cile ricerca.

Cartucce per stampanti: al-cuni negozi di forniture per uf-ficio le accettano e in qualche caso riconoscono anche un bo-nus per un acquisto successi-vo. Cellulari, caricatori e bat-terie: molti negozi di elettroni-ca li accettano, anche se non pubblicizzano il servizio. In qualche caso il contenitore per la raccolta può essere in un an-golo dimenticato del negozio. Computer: questo è un punto dolente. Alcuni gruppi am-bientalisti organizzano giorna-te di raccolta, in cui bisogna presentarsi nel luogo stabilito con l’oggetto da smaltire. Se non si ha l’auto, può diventare impossibile presentarsi all’ap-puntamento. Alcuni produtto-ri pubblicizzano un servizio di ritiro della merce usata per ogni nuovo acquisto, ma biso-gna verificare bene in antici-po, perché il servizio non è at-tivo in tutte le aree.

Riiutielettronici

Ethical living

Alluvioni Le inondazioni che hanno colpito il Benin dall’inizio di settembre hanno distrutto 55mila case e ucciso decine di migliaia di capi di be-stiame. Le Nazioni Unite han-no lanciato l’allarme per una possibile epidemia di colera. u Il bilancio delle alluvioni in Thailandia è salito a cento vit-time.

Terremoti Un sisma di ma-gnitudo 5,6 sulla scala Richter ha colpito la Serbia, causando la morte di due persone. Scos-se più lievi sono state registrate in Turchia, in Cina, al conine tra Afghanistan e Pakistan, in Australia e in Iran. Tsunami Il bilancio dello tsunami che ha colpito le isole Mentawai, nell’ovest dell’In-donesia, è salito a 431 vittime e 88 dispersi.

Tempeste Una tempesta, accompagnata da alcuni torna-

do, ha colpito il centro degli Stati Uniti, costringendo le au-torità a cancellare centinaia di voli. u Tre persone sono morte durante una tempesta a Ru-monge, nel sud del Burundi.

Cicloni Almeno 14 persone sono morte nel passaggio dell’uragano Tomas sull’isola di Santa Lucia. u La tempesta tropicale Shary ha siorato le isole Bermude.

Tornado Sei persone sono morte nel passaggio di un tornado su Pozo del Tigre, nel nord dell’Argentina. Più di ottocento case sono state danneggiate.

Vulcani Il bilancio dell’eru-zione del vulcano Merapi, nell’isola indonesiana di Java, è salito a 36 vittime.

Uccelli Migliaia di cor-morani e di gabbiani sono stati ritrovati morti, uccisi dall’aspergillosi, su un’isola nel mare di Azov, in Ucraina.

Biodiversità è stato rag-giunto un accordo storico alla conferenza sulla biodiversità di Nagoya, in Giappone, scrive Nature. I rappresentanti di quasi duecento paesi hanno adottato un piano strategico

per il 2020 che issa venti obiettivi per proteggere la natura e rallentare il ritmo dell’estinzione delle specie. Il prossimo passo sarà trovare i fondi necessari.

Colera Continua a salire il numero di casi di colera ad Haiti. Secondo il ministero della sanità, il 2 novembre erano 4.700, e 337 i morti. Si teme che l’imminente passag-gio dell’uragano Tomas possa aggravare la situazione.

Malaria La malaria potrebbe essere eliminata in America Latina, mentre è più dii-cile sradicarla in Africa. Lo sostiene un nuovo studio di The Lancet che ha valutato il peso di alcuni fattori tecnici (intensità dell’epidemia, tasso di immigrazione da zone ma-lariche) e operativi (stabilità politica, sistema sanitario, quantità di popolazione a rischio).

Cotonou, Benin

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2010

Eliminazione della malaria

RepubblicaDominicana

Arabia Saudita

Brasile

Iran

Honduras

Gibuti

Repubblica Democratica del Congo

Repubblica Centrafricana

Somalia

Ciad

Yemen

Sudan

Più facile Più diicile

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 107

u La diga di Merowe si trova nel nord del Sudan, vicino alla quarta cateratta del Nilo (tratti di iume dove l’acqua non è ab-bastanza profonda da permet-tere la navigazione). Inaugurata nel marzo del 2009, è stata co-struita per generare energia e promuovere lo sviluppo indu-striale e agricolo del paese.

Questa foto mostra l’attuale estensione del lago artiiciale, che ha cominciato a riempirsi nel 2008, quando è stata chiusa l’ultima paratoia. La diga si tro-va a circa 350 chilometri a nor-dovest di Khartoum, la capitale del Sudan. L’insediamento più vicino a valle è Karima. Il pro-

getto di un lago lungo 170 chilo-metri ha costretto, e costringe-rà, varie tribù locali a lasciare la zona, che ospitava più di 60mi-la persone. La regione com-prende anche diversi siti archeo logici importanti, ancora poco studiati. Il governo suda-nese ha un programma di rein-sediamento per le popolazioni e dal 1999 vari organismi inter-nazionali conducono rileva-menti archeologici di “salvatag-gio” o “recupero”. Queste ricer-che tentano di raccogliere quante più informazioni possi-bili, prima che i siti vengano di-strutti o comunque resi inacces-sibili dall’allagamento.

Dopo l’indipendenza del pae se dall’Egitto e dalla Gran Bretagna, nel 1956, la distribu-zione e la gestione dell’acqua del Nilo sono state divise tra Egitto e Sudan con un trattato irmato nel 1959.

Oggi gli altri paesi del baci-no del Nilo –Etiopia, Eritrea, Uganda, Tanzania, Kenya, Re-pubblica Democratica del Con-go, Burundi e Ruanda – cercano di ottenere una distribuzione e un uso più equi dell’acqua. Nel maggio del 2010 alcuni di que-sti paesi hanno irmato un nuo-vo patto per lo sfruttamento idrico che contesta il trattato del 1959.– William L. Stefanov

Questa foto della diga di Merowe, sul Nilo, è stata scattata il 5 ottobre 2010 da un astronauta della Spedi-zione 25, a bordo della sta-zione spaziale internazio-nale.

Il pianeta visto dallo spazio

La diga di Merowe, in Sudan

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108 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

Economia e lavoro

Quando Mark Bristow pensa all’Africa occidentale, gli si scalda il cuore. L’amministratore dele-gato del gruppo aurifero britanni-

co Randgold parla con entusiasmo delle immense riserve d’oro della zona che si estende dal Ghana ino al Senegal. Nel 2011 la Randgold dovrebbe raggiungere un volu-me estrattivo di circa 424mila once troy (circa tredici tonnellate) nelle sue miniere dell’Africa occidentale. Il gruppo sfrutta i giacimenti di Loulo e Morila, nel Mali. Lou-lo, in particolare, ha una produzione annua di 400mila once e una riserva di quasi dodi-ci milioni di once. Dopo la pubblica ammi-nistrazione, la Randgold è ormai il secondo datore di lavoro del Mali. Entro la fine dell’anno il gruppo inaugurerà un terzo gia-cimento: la miniera di Tongon, in Costa d’Avorio, che secondo le stime ha riserve

estraibili per tre milioni di once. La produ-zione annua prevista è di 250mila once. Nel 2013 entrerà in attività anche la miniera se-negalese di Massawa.

L’Africa occidentale è il nuovo Eldorado delle compagnie aurifere. Oltre al gruppo canadese Barrick Gold, il più grande pro-duttore d’oro del mondo, nella regione ci sono ormai tutte le principali aziende auri-fere del pianeta. Le miniere più ricche sono per ora quelle del gruppo sudafricano Anglo Gold Ashanti, che gestisce il più antico gia-cimento aurifero dell’Africa occidentale: la miniera ghanese di Obuasi, aperta nel 1897. Il gruppo produce nella regione più di un milione di once d’oro all’anno.

Il tesoro del GhanaIl territorio estrattivo più importante si tro-va in Ghana, che è l’ottavo paese produttore d’oro al mondo. Negli ultimi anni l’estrazio-ne aurifera ghanese è arrivata a 2,6 milioni di once all’anno, ma la Costa d’Avorio, il Burkina Faso, la Guinea, il Senegal e il Mali stanno recuperando terreno. Nel comples-so, l’anno scorso la produzione d’oro dell’Africa occidentale è stata di sei milioni di once. E intanto si continuano a scoprire nuovi giacimenti.

Ma l’estrazione d’oro nella regione non è un’attività senza rischi: le infrastrutture sono carenti e quindi per i grandi gruppi è molto diicile far arrivare sul posto quello che gli serve, dal gasolio ino all’acqua pota-bile e agli impianti di comunicazione satel-litare. Spesso sono le stesse compagnie minerarie a costruire strade e ambulatori. Il gioco, però, vale la candela solo se il prezzo dell’oro si mantiene ragionevolmente ele-vato. Gestire una miniera in Mali, per esem-pio, costa il doppio rispetto al Sudafrica. Ma i gruppi auriferi occidentali non hanno mol-ta scelta se vogliono tener testa alla concor-renza cinese: da tempo Pechino compra materie prime in Africa in cambio di infra-strutture, e così per la prima volta i paesi africani ricevono un compenso per i tesori del loro sottosuolo.

Instabilità politicaAlcuni paesi produttori, inoltre, sono politi-camente instabili. La Guinea ha appena ri-mandato il secondo turno delle elezioni presidenziali dopo gli scontri sanguinosi tra fazioni diverse. Il paese è stato governato a lungo dai militari, e le aziende russe da anni impegnate nell’estrazione della bauxite in Guinea potrebbero parlare per ore del man-cato rispetto dei contratti da parte dei regi-mi che si sono succeduti al potere. La Costa d’Avorio si è lasciata alle spalle la guerra ci-vile e ha votato per scegliere il nuovo presi-dente, dopo aver rimandato per sei anni le elezioni, ma non si può essere certi che d’ora in poi nel paese regnerà la pace. Il Ma-li è considerato stabile, ma nelle zone più remote deve difendersi da una fazione di Al Qaeda, che spinge i manager delle miniere a investire cifre ingenti nelle misure di sicu-rezza. Il Niger e la Mauritania si trovano in una situazione simile.

I produttori d’oro, comunque, non si fanno impressionare. Di recente la sudafri-cana Gold Fields ha detto di voler aumenta-re la sua produzione nella regione a più di un milione di once. Attualmente il gruppo gestisce insieme alla canadese Iamgold la miniera ghanese di Tarkwa, che ha un volu-me estrattivo di 650mila once all’anno. L’aumento sarà possibile solo attraverso l’acquisizione di altre compagnie minera-rie. Come ha fatto l’australiana Newcrest Mining, che di recente ha rilevato la Lihir Gold, una compagnia che estrae circa 155mila once all’anno in Costa d’Avorio. La gara per accaparrarsi l’oro africano procede senza sosta. u fp

Febbre dell’oroin Africa occidentale

I gruppi minerari investono sempre di più nella regione.Pur di assicurarsi le riserveaurifere, costruiscono strade e ospedali, e non temono l’instabilità politica

Thomas ScheenFrankfurter Allgemeine Zeitung, Germania

OceanoAtlantico

NIGERIA

BURKINA FASO

REPUBBLICA CENTRAFRICANA

CAMERUN

CIAD

NIGER

COSTA D’AVORIO GHANA

MAROCCO

MAURITANIA

MALI

BENIN

TOGOGUINEA

GUINEA EQUAT.

LIBIA

LIBERIA

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Yamoussoukro

OuagadougouBamako

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Tombouctou

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Le grandi miniere d’oro dell’Africa occidentale e i proprietariObuasi

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Anglo Gold Ashanti

Gold Fields

Newmont Mining

Golden Star

Randgold

Iamgold

Endeavour Mining

Newmont Gold

Resolute moning

Randgold /Anglo gold

Anglo goldFonte: Frankfurter Allgemeine Zeitung

Riserve stimate, milioni di once troy

(1 oncia troy è paria 31,1035 grammi)

60

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Internazionale 871 | 5 novembre 2010 109

sudafrica

Esportazioni svalutate Il rand, la moneta sudafricana, si è rivalutato nei confronti del dollaro statunitense raggiun-gendo quota 6,76, il livello più alto degli ultimi tre anni. Come spiega il Financial Times, la situazione favorisce la grande distribuzione e le aziende mani-fatturiere che importano com-ponenti. Hanno la peggio, inve-ce, i settori che dipendono dalle esportazioni, come quello estrattivo. Le vendite di prodotti all’estero sono stabili, ma il loro valore in dollari si è ridotto in media del 20 per cento.

in brEvE

Aziende La British Petroleum è tornata a registrare utili dopo le spese sostenute per rimediare alle perdite di greggio dei suoi pozzi nel golfo del Messico. Nel terzo trimestre 2010 il gruppo ha guadagnato 1,85 miliardi di dollari. Il merito è la recente im-pennata del prezzo del petrolio.

Secondo l’indice statunitense Henry Hub, un punto di riferimento per il mercato mondiale del gas, tra il giugno 2008 e il settembre 2010 il prezzo del gas naturale è sceso da 12,7 a 3,90 dollari per milione di Btu (British thermal unit). La crisi, spiega Le Figaro, ha fatto scendere i consumi, mentre il gas oferto sul mercato è aumentato. I motivi sono due. In alcuni paesi, come gli Stati Uniti, aumentano le estrazioni di gas da fonti non convenzionali. Inoltre si raforza il commercio di gas in forma liquida, che può essere trasportato per mare. u

Energia

La bolla del gas si sgonia

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aiuticondizionati Il fondo monetario internazio-nale (Fmi) e l’Unione europea aiuteranno la romania a patto che continui con la sua politica di austerità, scrive Der Stan-dard. Nel 2009 il Fondo, l’Unione e la Banca mondiale hanno accordato a Bucarest un pacchetto d’aiuti per 20 miliardi di euro. Finora la romania ha ricevuto 15 miliardi e in cambio ha già approvato misure come il taglio degli stipendi pubblici e l’aumento dell’iva. ora, conclu-de il quotidiano austriaco, rice-verà il resto del inanziamento, ma nel 2011 deve ridurre il rap-porto tra deicit pubblico e pil dall’attuale 6,8 al 4,4 per cento.

corEa dEL sud

chi approitta del sessismo In Corea del Sud le donne han-no un’ottima formazione, ma guadagnano un terzo di meno rispetto agli uomini. Inoltre, non occupano posizioni di verti-ce e subiscono pressioni per di-mettersi se restano incinte. La discriminazione delle donne nelle aziende sudcoreane, scri-ve l’Economist, favorisce le multinazionali straniere, che possono assumere personale qualiicato a costi contenuti. al-cuni studi, tra l’altro, dimostra-no che se un’azienda aumenta la quota di donne manager del 10 per cento, il valore delle sue azioni cresce dell’1 per cento.

Produzione di gas a Rembelszczyzna, Polonia

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Deicit pubblicorispetto al pil

Variazione del pil

Fonte: Eurostat

il numero Tito Boeri

800 euro al mese

Un operaio della Fiat automo-veis di Betim, in Brasile, gua-dagna in media 800 euro al mese. a parità di potere d’ac-quisto con l’Italia fanno circa 1.050 euro. Non molto meno dei quasi 1.200 che porta a ca-sa un operaio italiano. anche il cuneo iscale in Brasile è di po-co più basso del nostro, e lo stesso vale per le tasse sugli utili e per i costi di licenzia-mento. Perché quindi la Fiat realizza circa la metà dei suoi proitti globali in Brasile e ha i conti in rosso da noi?

Le ragioni sono tre. a Be-tim si producono 78 auto per

dipendente contro le 53 di Meli, le 30 di Miraiori e le 7 di Pomigliano. Sono vetture di qualità diversa, ma in Brasile la produttività è aumentata proprio mentre migliorava la qualità delle auto prodotte: grazie ai forti incentivi alla produttività, il 20 per cento del salario di un operaio brasiliano è legato al risultato, contro il 5 per cento in Italia. ed è una componente variabile del sala-rio nel vero senso del termine, cioè può essere anche sottratta alla retribuzione di base quan-do non si raggiungono i risul-tati prestabiliti. La seconda ra-

gione è che la Fiat è stata la prima grande casa automobili-stica a investire in Brasile ed è ancora la leader del mercato. terzo, il mercato italiano è sa-turo, quello brasiliano no. Da noi ci sono due vetture ogni tre abitanti, in Brasile una ogni sei.

Sul secondo e sul terzo fat-tore è impensabile, oltre che indesiderabile, cambiare le co-se, ma sul primo la Fiat e il sin-dacato dovrebbero concentra-re gli sforzi: rinnovare gli im-pianti e legare il salario alla produttività per ottenere salari più alti. u

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Buongiorno, umano conosciuto come “Ted”.Il grande Papa Moai ha bisogno del tuo aiuto.

Per farla breve, ogni settant’anni i miei simili devono sposarsi con un essere umano, per poi trasformare i loro corpi

in una sacca nutrienteper la gestazionedel loro cucciolo.

Non è necessario. Tu andrai benissimo.

Sai che ti dico? Baciami il cu…

Ah ah! Sto scherzando. Ho solo bisogno che qualcuno mi aiuti a

spostare il divano.

È disgustoso. Dubito che riuscirò a trovarti una donna che voglia farlo.

Non c’è problema, ragazzotto. Dimmi.

EHI, POSSO UNIRMI ALLA VOSTRA NAVE PIRATA? NAVE PIRATA? MA CHE DICI? QUESTA È UNA NAVE AVVELENATA!

NON HAI VISTO IL TESCHIO CON LE QUATTRO OSSA? SCAPPA O MORIRAI

AVVELENATO!

AH AH! GENTE DI CITTÀ, IDIOTI!

guarda sempre dritto davanti a te.

parla piano. segui le regole igieniche.

è uno scherzo?

...il dottore ha detto che il prurito passerà se smetto di grattarmi...

non spingere un tasto che già lampeggia. tieni le mani a posto.

se necessario, fatti da parte.

cos’è che...?

miscusi!

si può? ehi!

per-mes-so!

ma che fa, crede che siamo rimbambiti?

COSA? NONè CHIARO? SONODENTRO A UNA

CASSA.FIGUEROA,IL MIMO

COSì SCARSODA DOVERSPIEGARELE COSE A

VOCE.

La guida di Mr.

Wiggles a:

Buona educazione

inascensore

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Rob Brezsny

L’oroscopo

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per qualche giorno. Il gesso ha da-to esattamente i risultati che ave-vo letto sulla confezione: ha fun-zionato “come milioni di piccole zappe” ammorbidendo il terreno argilloso. Una settimana dopo ho potuto cominciare a interrare le piante. Nei prossimi giorni, Leo-ne, penso che ti farebbe comodo l’equivalente metaforico di un mi-lione di piccole zappe. Devi am-morbidire una supericie impene-trabile per creare un soice letto per i tuoi semi.

VERGINE

Secondo alcuni studi con-dotti di recente, sbadiglia-

re aumenta l’attenzione e la con-sapevolezza cognitiva, riduce lo stress e raforza quella parte del cervello che prova empatia. Il dot-tor Andrew Newburg arriva a con-sigliare di provocare regolarmen-te gli sbadigli. Secondo lui, aiuta-no a risolvere i problemi, aumen-tano l’eicienza e intensiicano le esperienze spirituali. Perciò, Ver-gine, in questa fase del tuo ciclo astrale, particolarmente propizia all’automiglioramento, ti consi-glio di sperimentare lo sbadiglio ricreativo.

BILANCIA

Leggi questo haiku di Mi-zuhara Shuoshi: “Costretta

in un vaso / la magnolia di alta montagna / sboccia e si apre”. Ti ricorda qualcuno? Penso che rias-suma bene la tua situazione attua-le. Anzi, individua perfettamente la scelta migliore che potresti fare, date le circostanze. In questo mo-mento devi tenere conto di certi limiti, dato che sei in un vaso, ma non hai motivo per non iorire, co-me la magnolia di montagna.

SAGITTARIO

Penso che tu sia in grado di sopportare la confusione

più di quanto credi. Ho anche il sospetto che tu possa assorbire più novità, e più rapidamente, dei nati sotto qualsiasi altro segno. Perciò dovresti interpretare quel-lo che sta succedendo nella tua vi-ta come “un’avventura interes-sante” piuttosto che come “un caos disorientante”. L’intero uni-verso ti aiuterà a godere di quello

che i nonSagittari potrebbero con-siderare stressante.

CAPRICORNO

“Caro Rob, le intenzioni del mio ragazzo sono buone.

Adora regalarmi iori. L’unico pro-blema è che i mazzi che mi porta sono scombinati. L’ultimo era un’accozzaglia di delphinium az-zurri, garofani bianchi e gerani rossi. Secondo te, c’è un sistema per migliorare il suo senso esteti-co senza ofenderlo?”.–Insoddi-sfatta

Cara Insoddisfatta, a mio pa-rere di astrologo, in questo mo-mento uno dei compiti di voi Ca-pricorni dovrebbe essere impara-re ad apprezzare i doni che gli altri vogliono farvi. Forse in seguito potrete cominciare a insegnargli a regalarvi quello che volete. Ma per ora non morirete di certo se li ac-cetterete di buon grado ringra-ziandoli per la loro generosità.

ACQUARIO

La tua parola nuova della settimana è skookum, un

termine della lingua degli indiani chinook ancora usato in alcune zone della Columbia Britannica e del Paciico nordoccidentale. Se-condo la mia collega astrologa Ca-roline Casey, signiica “in com-butta con gli spiriti buoni” e “fatto proprio per un certo lavoro”. Wiki-pedia dice che quando sei skoo-kum hai un proposito chiaro e il potere di realizzarlo. Secondo la mia lettura dei presagi, Acquario, tutte queste deinizioni sono per-fette per te.

PESCI

Nei prossimi giorni, è fon-damentale che tu sia spon-

taneo ma non avventato. Riesci a capire la diferenza? Se non ne sei sicuro, leggi le parole dello psico-logo Abraham Maslow: “La spon-taneità (gli impulsi che vengono dalla parte migliore di noi) spesso si confonde con l’impulsività (gli impulsi che vengono dalla nostra parte malata) e a quel punto non vediamo più la diferenza”. Cerca di seguire i suggerimenti che ven-gono dal tuo genio interiore, Pe-sci, non le pulsioni distorte che ar-rivano dal tuo maniaco interiore.

SCORPIONE

Secondo il motore di ricerca Technorati, su internet esi-stono più di cento milioni di blog. Questo farebbe pen-sare che l’autoespressione stia andando forte in tutto il

mondo. Invece no: il 94 per cento dei blog non viene aggiornato da almeno quattro mesi. In sintonia con gli indicatori astrali del momento, Scorpione, mi aspetto che tu faccia qualcosa per risol-vere questo problema. La prossima settimana aggiorna il tuo blog. Se non ce l’hai ancora, considera la possibilità di aprirne uno. Ma non fermarti lì. Usa tutti i metodi che riesci a immagina-re per dimostrare al mondo chi sei. Esprimiti con chiarezza e rive-la tutto quello che puoi.

COMPITI PER TUTTI

Immagina che grazie ai progressi della scienza e alla buona sorte sarai ancora vivo nel 2090.

Come sarà la tua vita?

ARIETE

Nel romanzo di Marcel Proust Alla ricerca del tem-

po perduto, uno dei personaggi fa un’osservazione volgare sulle strane cose che a volte attraggono gli esseri umani. “Chiunque si in-namori del sedere di un cane lo scambierà per una rosa”. È mio dovere farti notare che succede anche il contrario: ci sono persone che ignorano o disprezzano cose meravigliose convinte che siano senza valore. La prossima setti-mana, Ariete, ti consiglio di evita-re entrambi questi errori.

TORO

Il poeta Paul Éluard fanta-sticava e scriveva continua-

mente della sua donna ideale, ma non la trovò mai. Perciò si accon-tentò di essere innamorato dell’amore. Penso che la sua deci-sione sia stata saggia e che molti di noi dovrebbero imitarlo. È inu-tile aspettare, sperando d’incon-trare la donna o l’uomo dei nostri sogni, perché nessuno o nessuna sarà mai all’altezza del nostro ide-ale. E anche se esistesse l’amante perfetto, probabilmente non lo ri-conosceremmo, perché sarebbe diverso da come l’abbiamo imma-ginato. Detto questo, Toro, sono lieto di informarti che nei prossi-mi due mesi farai bene a coltivare il tuo rapporto con una bellezza imperfetta, che però è perfetta per te.

GEMELLI

Quando ci rivolgiamo a un medico omeopatico, il suo

primo compito è quello di stabilire qual è il nostro tipo costituzionale, cioè il rimedio fondamentale per

mantenere in funzione e in equili-bro il nostro sistema. Un tempo il mio era aurum, l’oro, ma a causa delle trasformazioni che ha subìto la mia energia, ultimamente il mio dottore ha deciso che per me è meglio il lac lupinum, latte di lu-pa. Dopo aver studiato i tuoi pre-sagi astrali, penso che anche tu avresti bisogno di un aggiusta-mento simile nel regime che ti mantiene in salute. Sembra che le necessità del tuo corpo si stiano evolvendo. Considera la possibili-tà di modiicare la tua dieta, il tipo di movimento che fai, quanto dor-mi e quanto amore dai.

CANCRO

“La libertà è l’ignoto”, scris-se il ilosofo John C. Lilly.

“Se pensi che ci sia ovunque qual-cosa di ignoto, nel tuo corpo, nel tuo rapporto con gli altri, nelle istituzioni politiche, nell’universo, allora godi della massima libertà”. Penso che questo sia il concetto più importante sul quale dovresti meditare, Cancerino. Stai per evocare la magia che ti permette-rà di godere di tutto quello che c’è di ignoto nelle cose e nelle perso-ne che ami. E questo raforzerà enormemente il tuo istinto di li-bertà.

LEONE

L’estate scorsa ho creato il mio primo giardino. Non è

stato facile. Il terreno dietro casa era duro e argilloso e riuscivo a malapena a smuoverlo con la zap-pa. Per fortuna, il commesso del vivaio mi ha consigliato di usare il gesso. Non dovevo fare altro che spargere la polvere bianca su quel suolo impenetrabile e bagnarlo

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114 Internazionale 871 | 5 novembre 2010

L’ultima

Elezioni in Tanzania. “Proprio nessuna notizia interessante: niente proteste di massa né violenze né morti”.

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“Vedi, non è meglio che essere felici?”.

“non se ne può più di Berlusconi: sono anni che ci fotte”. “Senza mai invitarci nella sua villa!”.

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l’ultima scelta del polpo Paul: inferno o paradiso?

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Le regole Starbucks1 l’espresso lascia a desiderare, ma nessuno fa il caramel dolce crème Frappuccino come loro. 2 non farti abbagliare dalle poltrone di pelle: Starbucks è una catena di fast food. 3 Ma in asia è un’àncora di salvezza. 4 Il cafè in edizione limitata è il capolinea della civiltà. 5 E comunque è più buono se lo bevi con un amico e non con un laptop. [email protected]

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