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Il corpo e la sofferenza della malattia Il rapporto tra l’uomo e il proprio corpo è particolarmente significativo e complesso da definire poiché il corpo è da sempre lo strumento e il mezzo con cui ognuno di noi spe- rimenta la propria soggettività e il proprio rapporto con il mondo. La percezione di esso permette all’individuo di riconoscersi, di prendere coscienza di sé “sia perché ogni atto dell’Io ha una dimensione corporea, sia perché l’affer- mazione dell’Io trova nella resistenza somatica il suo cor- relato essenziale” (G. Zuanazzi, 1995, p. 99). La relazione con il corpo è complessa, poiché ognuno di noi è compo- sto da un corpo con il quale tende a identificarsi, ma al tempo stesso può toccarlo, usarlo, e quindi viverlo nella duplice veste soggettiva e oggettiva, cosicché “se il momento preriflessivo accentua il corpo-soggetto, la rifles- RI D’ 59 Il trauma dell’ospedalizzazione nell’infanzia e nell’adolescenza: il ruolo della scuola RAGIONAMENTI Analisi della complessità delle modalità relazionali e comunicative Il trauma dell’ospedalizzazione nell’infanzia e nell’adolescenza: il ruolo della scuola DI MARIA RITA MANCANIELLO

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Il corpo e la sofferenza della malattia

Il rapporto tra l’uomo e il proprio corpo è particolarmentesignificativo e complesso da definire poiché il corpo è dasempre lo strumento e il mezzo con cui ognuno di noi spe-rimenta la propria soggettività e il proprio rapporto con ilmondo. La percezione di esso permette all’individuo diriconoscersi, di prendere coscienza di sé “sia perché ogniatto dell’Io ha una dimensione corporea, sia perché l’affer-mazione dell’Io trova nella resistenza somatica il suo cor-relato essenziale” (G. Zuanazzi, 1995, p. 99). La relazionecon il corpo è complessa, poiché ognuno di noi è compo-sto da un corpo con il quale tende a identificarsi, ma altempo stesso può toccarlo, usarlo, e quindi viverlo nelladuplice veste soggettiva e oggettiva, cosicché “se ilmomento preriflessivo accentua il corpo-soggetto, la rifles-

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Il trauma dell’ospedalizzazione nell’infanzia e nell’adolescenza: il ruolo della scuola

RAGIONAMENTI

Analisi della complessità delle modalitàrelazionali e comunicative

Il traumadell’ospedalizzazionenell’infanzia e nell’adolescenza: il ruolo della scuolaDI MARIA RITA MANCANIELLO

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sione sul corpo o determinate circostanze possono obietti-varlo, ma si tratta in ogni caso di quel corpo unico che miappartiene”. (G. Zuanazzi, 1995, p. 100). Il corpo ha unasua dimensione e occupa uno spazio che demarca il confi-ne tra il mio Io e il mio non-Io, divenendo “l’involucro”,mediatore tra sé e il mondo, attraverso il quale ognunoprende consapevolezza del proprio-essere-nel-mondo. Ilriconoscimento di sé e dell’altro passa dall’interazione tracorpi, che nel tempo assumono un protagonismo sempremaggiore del proprio divenire e del proprio comunicare.Quando si entra nella dimensione della malattia, il corposofferente rimanda sensazioni, paure, visioni di sé spessoinedite per ognuno di noi. Vivere l’esordio di una patologiasignifica passare da una percezione del proprio corpoquale efficiente e sano ad una dimensione di corpo malatoe come tale fragile e caduco. In un brevissimo arco ditempo ci troviamo a convivere con un corpo che da unacontinua relazione con il mondo esterno a sé diventa sog-getto che chiede una totalizzante attenzione. Durante tuttala malattia, la relazione tra corpo vissuto come “soggetto”e come “oggetto” sarà ridefinita e la realtà corporea assu-merà una nuova visione, un nuovo senso che inciderà inmodo significativo sul modo di leggere il mondo dellasalute e il mondo della malattia (S. Benini, 2002).Il rapporto tra corpo e malattia che caratterizza la nostraepoca risente in modo inequivocabile della concezionedualistica che ha dominato nella storia della cultura occi-dentale e della medicina tradizionale, per la quale vi è unanetta separazione tra psiche e corpo. All’interno del pen-siero occidentale, infatti, l’uomo è concepito come costi-tuito da due entità distinte, una interna, definita comeanima o come mente o come psiche, e una esterna, ocorpo, considerato solo come l’involucro che ha il compitodi contenere qualcosa di più “sacro”.Il concepire, per lungo tempo, l’uomo in modo distinto eseparato nelle sue componenti essenziali ha portato ad unaconcezione della medicina che, per molti versi, ha dicoto-mizzato l’uomo, soprattutto nel momento della malattia.Nell’insorgere dell’evento morboso, spesso il soggetto si è

trovato al centro di cure e pratiche mediche, senza però unaspecifica attenzione ai suoi bisogni più profondi, emotivi,psicologici, affettivi. Un modello medico fortemente contra-rio all’idea che la mente possa influenzare il corpo in modosignificativo (D. Goleman, 1996) ha da sempre accompa-gnato la pratica medica e solo negli ultimi anni si è comin-ciato a comprendere la profonda e assoluta interdipendenzache vi è tra mondo interno e corpo esterno dell’uomo. Con-cepire l’uomo come unità psicofisica rimette al centro anchela visione della malattia, poiché si comprende bene come ildolore fisico divenga anche dolore psichico, in un nesso cir-colare che comporta che anche il dolore psichico si tramutiin dolore fisico, attraverso la somatizzazione e l’espulsionedel dolore interno sull’“involucro esterno”. La stretta rela-zione tra psiche e soma ci impone una specifica attenzioneper le modalità con cui accompagnare il soggetto nelmomento della malattia. Perdere lo stato di benessere, infat-ti, genera uno stato di forte insicurezza e diventa fonte diansie, paure, perdita temporanea, o anche rischiosamentepermanente, del proprio senso di integrità sotto il punto di

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Il corpo ha una sua dimensione e occupauno spazio che demarca il confine tra il mio Io e il mio non-Io, divenendo“l’involucro”, mediatore tra sé e il mondo,attraverso il quale ognuno prende consapevolezza del proprio-essere-nel-mondo

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vista funzionale e relazionale. Proprio per questo si com-prende l’alto valore che assume il sostegno delle persone chegravitano intorno al soggetto malato e la necessità che essecomprendano il profondo significato che assume la relazio-ne interpersonale – sia essa amicale, amorosa, filiale, diaiuto, ecc. – nelle sue componenti emotivo-affettive e empa-tiche (Galanti, 2001), per prendere realmente – e nella suacompletezza – in carico la sofferenza dell’altro.

La paura e i meccanismi di difesa

L’uomo è tra tutti gli esseri viventi quello che possiede ilmaggior numero di meccanismi difensivi, primo fra tuttiquello della paura. Tale sensazione può essere suscitatadalla presenza diretta o indiretta di un oggetto pericoloso,ma può nascere anche solo dal ricordo e dalla rievocazio-ne di una circostanza rischiosa. Questi meccanismi sti-molano nell’uomo la capacità di sviluppare delle soluzioniche salvaguardano la sua sicurezza. La paura fa parte del

normale processo di sviluppo e rappresenta una reazionepositiva nell’uomo nel momento in cui lo rende vigile neiconfronti dei potenziali pericoli presenti nell’ambiente,ma può rivelarsi completamente negativa se si presentacon una eccessiva frequenza, perché questo diventerebbeun profondo disagio per la persona, paralizzata nel suobisogno naturale di esplorazione della realtà e di relazionecon i propri mondi, sia quello interno che quello esterno. Preservare la propria sicurezza costituisce uno dei bisogniprimari, fondamentali della vita dell’uomo, ma un eccessi-vo controllo di tutto ciò ci circonda può divenire patologico. La paura fa parte del corredo comportamentale umano eanimale, è un meccanismo innato, ma può anche derivaredalle conoscenze che l’individuo acquisisce durante la cre-scita, quando davanti a nuove circostanze il bambino sco-pre che è sottoposto a dei pericoli, come per esempio quel-lo di cadere dopo che ha appreso a camminare. La sensa-zione di panico può anche essere causata, però, da fattoriculturali. L’uomo è particolarmente sensibile all’ansia ealla paura provata e narrata da altri, poiché nel nostroimmaginario queste sensazioni si radicano molto facil-mente, e nel bambino sono ancor più favorite dal bisognocontinuo che ha di dipendere dagli altri. Questo mette inluce come i bambini tendano ad apprendere gli oggetti dipaura e i meccanismi di risposta messi un atto dagli adul-ti e li interiorizzano come modelli socializzati. In base all’intensità delle emozioni provate e delle reazio-ni conseguenti si parla di paura, ansia o angoscia. La pauraè un’emozione provocata da un oggetto reale che si trovaall’esterno del soggetto, provocando in esso delle reazioniorganiche immediate e visibili (impallidire, diventareimprovvisamente afono, sgranare gli occhi, ecc.). L’ansia,invece, è un’emozione che non segue una reale condizio-ne di pericolo, non è originata da cause precise, ed attivadei comportamenti che hanno una minore intensitàrispetto a quelli provocati dalla paura, ma che durano piùa lungo. Quando gli stati di ansia si prolungano nel tempo,sconfinano nell’angoscia, che si manifesta con comporta-menti somatici, condizionando la normale possibilità di

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La paura fa parte del normale processo di sviluppo e rappresenta una reazionepositiva nell’uomo nel momento in cui lo rende vigile nei confronti dei potenzialipericoli presenti nell’ambiente

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pensare e agire. La persona, per reagire agli stimoli cheprovocano paura non mette solamente in atto meccanismidi stimolo-risposta, poiché la funzione regolatrice dell’Io èsempre presente nel rapporto tra situazione pericolosa erisposta della persona. Il ruolo svolto dall’Io per reagirealle minacce è fondamentale poiché esso è il luogo dei vis-suti esperienziali dell’individuo, delle sue emozioni, maanche delle sue fobie. La paura, in termini psicoanalitici è,infatti, la manifestazione di un disagio interiore, che haluogo nel momento in cui l’individuo si riconosce solo eimpotente di fronte ad eventi imprevedibili e sconosciuti. I meccanismi che il bambino mette in atto per rispondereagli stimoli che provocano reazioni di paura hanno, ini-zialmente, la loro origine all’interno della relazione di

attaccamento tra madre e figlio, ma in seguito anche nelrapporto che il bambino ha con tutte le figure di riferi-mento. Questo legame affettivo, derivante dal rapporto dicura, influenza il modo di vivere le emozioni del bambino,così come quello di vivere le esperienze cognitive e la capa-cità di attribuire significati alla propria esistenza. Le teoriepsicoanalitiche, e soprattutto la teoria dell’attaccamento,attribuiscono molta importanza alle strategie di lotta allapaura, ritenendole più significative dell’eliminazione stes-sa della causa. Nel momento in cui il bambino prova pauracerca immediatamente la sua “base sicura”, ovvero la per-sona che si prende cura di lui e se trova una persona nondisponibile si sente profondamente solo ed entra in unostato emotivo problematico che gli impedisce di affrontarepositivamente la nuova situazione. Nel momento in cui ilbambino, al contrario, impara a modificare lo schemacognitivo, procedendo per tentativi ed errori, sviluppa unacapacità predittiva che lo aiuta di volta in volta a controlla-re meglio la paura e a viverla come una emozione perfinostimolante. Durante la degenza in ospedale, le paure sem-brano focalizzarsi su alcuni specifici aspetti (M. Capurso,M. A. Trappa, 2002).Una delle principali paure è data dagli oggetti con l’ago,seguita dall’intervento chirurgico. La paura della punturaha un’origine profonda, in quanto costituisce una brutaleintrusione fisica nel corpo, attraverso la superficie che abi-tualmente è integra, la pelle. La parte che impressiona dipiù il bambino è sicuramente la fuoriuscita di sangue, sti-molo di sensazioni dolorose, ma anche immediatamenteassociabile, per la sua stessa natura, al dottore e all’ospe-dale. A queste paure si affianca la paura della morte, che ibambini non riescono ad esprimere in modo chiaro e averbalizzarla in modo diretto, ma mostrano una percezio-ne di essa e un conseguente stato di panico quando laimmaginano. Un ulteriore senso di disagio è dato dai“camici bianchi” che agli occhi dei bambini appaionocome figure che “incutono timore”, ma che, allo stessotempo, sono visti come alleati poiché il bambino attribui-sce loro il merito della guarigione. Altra sensazione negativa che emerge delle ricerche corri-sponde alla paura dell’abbandono, di essere lasciati soli,sia fisicamente ma anche emotivamente e mentalmente,temendo di perdere il contatto con la propria famiglia e ipropri amici, dal momento che non possono più giocare evivere delle esperienze positive con queste due importantirealtà. Il bambino può reagire alla solitudine in diversimodi. Se si sente abbandonato, anche per cause che cono-sce, come il lavoro di uno dei genitori, comunque soffriràdi quella assenza. La reazione iniziale può essere manife-statamene ostile, con pianti, grida, proteste, mirando in

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Nel momento in cui il bambino provapaura cerca immediatamente la sua “basesicura”, ovvero la persona che si prendecura di lui e se trova una persona nondisponibile si sente profondamente solo ed entra in uno stato emotivo problematicoche gli impedisce di affrontare positivamente la nuova situazione

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questo modo a far tornare il genitore in tempi brevi. Se ciònon avviene nei tempi desiderati, entra in una fase di ras-segnazione, in cui si mostra calmo e pacato, ma non per-ché sta superando lo stress dato dalla sensazione di abban-dono, ma perché sta perdendo la speranza dell’imminenteritorno. Dal momento che l’assenza si prolunga più deltempo mentalmente sopportabile, può cominciare a pro-vare sentimenti di distacco e a mostrare un atteggiamentodi indifferenza al ritorno. Lo stesso comportamento vieneriservato anche per l’équipe medica dai bambini soggetti alunghe degenze, con la quale il piccolo paziente non vuolepiù instaurare un rapporto affettivo, perché è costrettoogni volta a conoscere nuovo personale ospedaliero acausa di spostamenti di ospedali, reparti specialistici, ecc.Il bambino mette in atto questo atteggiamento, per distac-carsi in modo assoluto piuttosto che subire ogni volta iltrauma e il dolore della separazione. Rifiutando ognimanifestazione di affetto verso le persone, il bambinocomincia a riversare tutto il suo interesse sui beni mate-riali, come giocattoli, cibo, dolciumi, televisione, ecc. Nellacomplessità che caratterizza il comportamento, sta anchela modalità completamente opposta di una ipersocialitàche può comunque mascherare una reazione di distaccoaltrettanto profonda. Dietro ad una indiscriminata acco-glienza di tutto e tutti, si cela un senso di dolorosa solitu-dine che rende uguale ai propri occhi ogni persona, siafamiliare, parente o amico in visita. Ulteriore aspetto problematico è dato dagli incubi nottur-ni e dalle angosce apparentemente immotivate, sintomi diuna reazione alla passività imposta dalla malattia al bam-bino, poiché compromette temporaneamente gli sviluppiconseguiti fino a quel momento. Fino al momento dellascoperta della malattia il bambino aveva acquisito su di séuna certa padronanza, ma con l’avvento di essa riscopretutta la sua dipendenza dall’adulto.

Il bambino e la sofferenza: il trauma dell’ospedalizzazione

Il problema si complica ulteriormente quando a vivere lostato di malattia è un bambino. Il bambino ammalato ècostretto tra le mura domestiche e viene privato di tuttequelle occasioni di gioco e di socializzazione che vive quo-tidianamente, ma si trova anche a percepire sensazionidolorose, restrizioni alla sua espressione fisica (non timuovere troppo, non agitarti, non alzarti dal letto, ecc.),pratiche invadenti sul proprio corpo (punture, medicineper via orale, supposte, ecc.) che rimangono di difficilecomprensione e accettazione. In questi momenti può pro-

vare un forte dolore psichico e non sempre da parte degliadulti vi è un riconoscimento delle sensazioni da lui pro-vate; così il mancato contenimento di questa tensioneemotiva, angosciosa e destabilizzante, si ripercuote sulcorpo del bambino, creando una rigidità e una contrazio-ne che a sua volta si riflette sulle componenti malate,incrementandone la dolorosità (S. Pilleri, O. Ferraris,1989). Non è semplice comprendere gli stati emotivi vis-suti dal bambino, ma per attenuare le paure e le ansie, ine-vitabilmente provate durante la malattia, può essere utilefarlo sentire sempre circondato da persone e oggetti chesono di sicuro riferimento affettivo. Diventa estremamen-te importante in questa situazione che sia reso partecipe econsapevole – nella misura in cui lo può comprendere per

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Fino al momento della scoperta della malattia il bambino aveva acquisito su di sé una certa padronanza,ma con l’avvento di essa riscopre tutta la sua dipendenza dall’adulto

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la sua età – della cura e delle prescrizioni mediche, maanche che sia aiutato a verbalizzare gli stati d’animo pro-vati, evitando di trasmettergli la propria ansia e i propritimori, così da favorire la sua confidenza e accogliereanche le sue espressioni aggressive, per farlo sentire com-preso, accolto, accompagnato e, di conseguenza, rassicu-rato. Quando la malattia è così grave da richiedere il ricoveroospedaliero o si è verificato un incidente che comporta lanecessità dell’ospedalizzazione, l’ingresso nella strutturaospedaliera per il bambino assume i caratteri di un vero eproprio trauma. Una bambina di dieci anni, di nome Mar-tina, dice che “odia vestirsi di bianco, perché lei è buona”.All’età di cinque anni Martina è stata ricoverata presso unospedale pediatrico per una operazione di appendicite e diquei giorni le è rimasta poca memoria di ciò che le è acca-duto, ma ha chiaramente appreso emotivamente un fattoche non riesce a dimenticare: che quelli che si vestono dibianco sono signori “cattivi”.Il trauma dell’ospedalizzazione per un bambino è davveroindelebile, soprattutto perché l’ingresso in ospedale rap-presenta il primo incontro con le paure originarie piùprofonde, prima tra le quali la paura della propria morte.

Anche se il processo di sviluppo a cui è arrivato il bambi-no incide in modo significativo sul suo modo di com-prendere e di leggere ciò che sta accadendo intorno a luie ai più bambini più grandi possono essere megliodescritti e spiegati alcuni aspetti relativi all’esperienze incorso (come sarà l’operazione, che cosa dovrà fare, qualisono le pratiche che saranno eseguite durante il tratta-mento, ecc.), in realtà le componenti emotive in giocosono così alte per ogni bambino che diviene estrema-mente difficile, qualunque sia la sua età, rassicurarlonelle sue paure più profonde.Dal punto di vista psicologico, infatti, la malattia (sia essaendogena o dovuta a fattori traumatici) è in ogni fase dellavita una situazione di rottura con la propria “normalità”, laquale crea uno stato di crisi che si ripercuote non solo sulfisico della persona, ma anche sulle proprie capacità cogni-tive e relazionali, come ci insegnano gli studi degli ultimiventi anni, i quali mettono in rilievo il valore della reazionepsichica e intellettiva nel processo di guarigione del malato.Questa rottura – che risulta sempre dolorosa da accettaree da sostenere – per il bambino è estremamente proble-matica da affrontare per diversi fattori.In primo luogo le capacità di rielaborazione delle espe-rienze vissute sono ancora scarse; inoltre non comprendeciò che gli sta capitando e la mancanza di comprensionedell’evento in corso lo porta a vivere questo momento conun profondo senso di ansia e di angoscia. Il bambino,infatti, soprattutto se molto piccolo, di fronte alle nuovesensazioni e al dolore che prova, non riesce a dare unaspiegazione e a trovarne la causa, né tanto meno a com-prendere quanto a lungo potrà durare questa situazione,ma anche quando è cognitivamente in grado di compren-derli gli rimane sempre difficile dare un senso ai plurimiinterventi terapeutici che vengono praticati sul suo corpo,percependoli sempre come disturbanti e invadenti esoprattutto senza vederne quasi mai un immediato effetto.Già negli studi di Anna Freud troviamo come il bambinosia facilmente travolto dagli eventi che vive e quanto il suolivello di sicurezza e di fiducia fluttui ogni volta cheaumenta la paura, non essendo in grado di affrontare lefrustrazioni e, soprattutto, non avendo ancora un equili-brio stabile (A. Freud, 1974).L’angoscia provata nella malattia è una sensazione a cuinessuno riesce a sottrarsi, ma per il bambino piccolo, cheè ancora incapace di distinguere nitidamente la realtà dallafantasia e tende ad interpretare ciò che gli accade, le per-sone e gli oggetti che lo circondano in modo fantastico, lamalattia è vissuta come una colpa, un evento dovuto e con-seguente a qualcosa che ha fatto o ha detto o anche che èstato da lui solo immaginato. Tale senso di colpa può deri-

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vare da molte situazioni di conflittualità con i genitori, cosìcome avviene per tutti i bambini che, nei vari momentievolutivi attraversati, possono manifestare comportamentidisapprovati dall’adulto, come essere disubbidienti, direbugie, essere svogliati nello studio, ecc., oppure in quellesituazioni in cui provano invidia o gelosia per un fratello,ecc. Questi pensieri provocano un profondo e angosciososenso di colpa verso i genitori e, l’ospedalizzazione, l’allet-tamento, le restrizioni, vengono vissute come la giustapunizione per le proprie malefatte, così come le curemediche, le medicine, i vari accertamenti diagnostici, ven-gono percepiti come l’espiazione di una pena per il pro-prio comportamento o anche solo per quei desideri e quel-le azioni fantasticate (S. Kanisza, B. Dosso, 1998).Di fronte alla malattia i bambini reagiscono prevalente-mente con due differenti modalità e tale modo di reagireall’evento morboso dipende da una pluralità di fattori,quali l’età, la personalità del bambino e la reazione del-l’ambiente circostante. Non sempre è possibile prevedernela reazione e, anche bambini che hanno una buona inte-grazione con il proprio ambiente familiare e vivono sere-namente la propria infanzia, nel momento in cui insorgela malattia possono diventare chiusi in se stessi, apatici,privi di qualunque interesse precedentemente manifesta-to, ritraendosi “nel proprio guscio”. Quando la malattiaprende il sopravvento, in questi piccoli pazienti si ha un

abbandono totale agli eventi, con il rifiuto del cibo, delletenerezze, dei giocattoli, e un atteggiamento da malatograve anche quando si tratta di patologie molto lievi ecomuni (mal di stomaco, mal di gola, ecc.). Viceversa, cisono bambini che reagiscono chiedendo una grande atten-zione, manifestando l’esigenza di essere continuamentecoccolati e rassicurati, con un atteggiamento molto piùinfantile di quanto ci si aspetta dalla loro età. Spesso arri-vano a vivere forme di regressione a stadi di sviluppo pre-cedenti e mostrano stati di dipendenza quasi totale dallefigure di riferimento che si adoperano per loro durante lacura. Entrambe le reazioni creano nei genitori una grossadifficoltà relazionale, poiché non comprendendo che cosastia succedendo al proprio bambino, non riescono a gesti-re in modo sereno questo cambiamento. Proprio per que-sto tendono a utilizzare modalità relazionali più apprensi-

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L’angoscia provata nella malattia è una sensazione a cui nessuno riesce a sottrarsi, ma per il bambino piccolo,che è ancora incapace di distinguerenitidamente la realtà dalla fantasia la malattia è vissuta come una colpa

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ve e insicure di quanto non avvenisse precedentemente emostrano una maggiore accondiscendenza e indulgenzaverso le richieste espresse dal piccolo. Come avviene intutte le occasioni in cui si destabilizzano le modalità rela-zionali, per quella circolarità comunicativa che caratteriz-za la relazione, il nuovo modo di porsi da parte dei genito-ri comporta nel bambino un disorientamento e una certainsicurezza, non riuscendo, a sua volta, a spiegarsi il per-ché del loro diverso modo di fare. Quando questa situa-zione di stallo e di reciproca incomprensione dura per piùgiorni, vi è il rischio di mantenere attive situazioni diregressione e di dipendenza, anche dopo la guarigione.Nel bambino sotto i 5/6 anni, vi è un atteggiamento neiconfronti della cura molto ambivalente, che oscilla tra ildesiderio di non essere curato e di “essere lasciato stare”e la richiesta di una estrema attenzione e la voglia diguarire presto. Il motivo di tale oscillazione tra due posi-zioni è dato dall’accresciuto senso corporeo che peròegli deve ancora imparare a gestire e che nella malattiasente minacciato. Il processo di costruzione, infatti,della propria autonomia e le forme di controllo sul pro-prio corpo e sulle proprie profonde necessità, acquisitedurante la prima fase dello sviluppo, in questo momen-to vengono percepite come a rischio. Aver imparato amangiare da solo, essere in grado di vestirsi e lavarsisenza l’aiuto dell’adulto, potersi muovere con padronan-za dello spazio, ecc., sono stati traguardi difficili e fati-cosi da raggiungere, ma hanno avuto una valenza altret-tanto importante nel processo di individuazione/separa-zione dalle figure di riferimento primarie. Sentire dipoter regredire a stadi precedenti di sviluppo dell’Io epercepire che l’intervento terapeutico, le pratiche medi-che, l’eventuale immobilità o forzata permanenza nelletto, la debolezza e la mancanza di forze fisiche, potreb-bero comportare una perdita di molte competenze ecapacità precedentemente acquisite, sensazione cheattiva nel bambino una reazione difensiva affinché que-sto non avvenga. Di qui un’opposizione estrema allacura e all’intervento terapeutico e una contrapposizionea tutte le varie figure ospedaliere che lo circondano. Puòavvenire anche una reazione apparentemente, contraria– ma anche questa funge da meccanismo di difesa – di

tipo depressivo, con una passiva sottomissione a tutto ea tutti e la rinuncia alle conquiste già ottenute sul con-trollo del proprio corpo. In entrambe le modalità, però,si ha una profonda sofferenza del bambino che, nel farei conti con la durezza della malattia, il dolore del corpo,la frustrazione dei propri bisogni evolutivi, percepisceun possibile arresto al suo processo di sviluppo e un ral-lentamento nella sua faticosa strada verso l’autonomia.

La degenza in ospedale e le difficoltà vissute dal bambino

I cambiamenti che il bambino subisce nel momento incui vi è l’ingresso nella struttura ospedaliera non sonosolo limitati al suo processo di sviluppo, che può subireuna battuta di arresto, se non una vera e propria regres-sione a stadi evolutivi precedenti, ma si ripercuotono sulsuo intero sistema di riferimento. Mutano tutti i cardiniche offrono sicurezza e protezione: dai principali punti diriferimento, quali parenti, amici, compagni, animalidomestici, al proprio bisogno di privacy e di intimità – cheviene sopraffatto dalle necessità ospedaliere –, dalle abitualiattività di gioco alla riduzione – in maniera drastica – deglispazi di movimento e di permanenza. Ma non solo. Dallerassicuranti e conosciute mura domestiche il bambinoviene inserito nella comune stanza di degenza e nellafreddezza della struttura ospedaliera; dagli spazi dellascuola materna o della ludoteca passa a giocare in corri-doi e stanze allestite con i giocattoli del reparto pediatri-co; dai compagni e amici di gioco abituali sani e allegri sitrova a giocare con bambini mai visti che mostrano tuttii segni della sofferenza, dai colori vivaci dei luoghi di vitaquotidiana si ritrova circondato del bianco anonimo dellecorsie, dalle immagini diversificate e variopinte dellacittà e della strada agli strumenti diagnostici e terapici,dai dolci e rassicuranti odori familiari ai pungenti e nau-seanti odori dei disinfettanti e dei medicinali, ecc. Parti-colarmente difficile è abituarsi a muoversi nella ristret-tezza della struttura ospedaliera, nel limitato spazio cheè concesso di percorrere. In questo momento, in cui vi èla scoperta del mondo e un incremento della capacità delbambino di vivere la propria autonomia, doversi muove-re in uno “spazio chiuso”, non flessibile, privo di colori edi forme a “misura di bambino” è un ulteriore trauma dasuperare. Di conseguenza, la mancanza di una libertà dimovimento, il non riuscire ad soddisfare la propria cen-tralità egoica attirando l’attenzione degli altri attraverso ilgioco o le attività ludiche, il non avere uno spazio pro-prio, lo portano a chiedere maggiore affetto e considera-

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I cambiamenti che il bambino subiscenel momento in cui vi è l’ingresso nella struttura ospedaliera si ripercuotonosul suo intero sistema di riferimento

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zione intorno a sé, con modalità che vanno dalla lamen-tela continua al pianto per la paura di rimanere solo, dalpretendere di stare sempre “in collo alla mamma” allarichiesta di aiuto anche per le cose più banali. Nell’ospe-dale non è possibile neppure pensare di fargli esprimerequelle componenti aggressive che permettono al bambi-no di espellere i vari stati di ansia e di angoscia che vive,e ciò si ripercuote sull’intero sistema nervoso, con la con-seguente comparsa di tic nervosi e manie, stati di profon-da irrequietezza e ipercinesia, movimenti e azioni ste-reotipate, ecc.L’esperienza del dolore non comporta solo la paura versociò che sta accadendo, ma può sviluppare anche senti-menti di rabbia e di vendetta verso le persone di riferi-mento dalle quali il bambino si sente tradito e abbandona-to. La sensibilità e la reazione del bambino al dolore fisicosono influenzate dal grado di significato che è loro attri-buito e quanto è caricato di una intensità elevata può suc-cedere che la propria sofferenza corporea venga vissutacome una forma di maltrattamento, di danneggiamento,di minaccia, se non persino di persecuzione. In taluni casi,se non viene aiutato a mantenere una obiettività su ciò chegli sta accadendo e a non distorcere la realtà con interpre-

tazioni fallaci, può arrivare a strutturare, nel tempo, unatteggiamento masochistico e rinunciatario nei confrontidelle richieste esterne (A. Freud, A. Bergmann, 1974).L’atteggiamento verso la malattia da parte del bambino ècomunque, significativamente, influenzato dal modo incui viene affrontato dai genitori e dalle persone che sioccupano di lui. Le insicurezze, le paure, i timori cheassalgono i genitori di fronte alla malattia non aiutano ilpiccolo nel contenimento delle difficoltà che già l’eventoin sé comporta, ma, al contrario, gli trasmettono unprofondo senso di insicurezza che può sfociare in un verostato di angoscia difficilmente superabile (R. Spitz, 1962).In questo momento il ruolo dei genitori assume un signi-ficato ancora più importante di quanto non lo sia già nelregolare sviluppo del bambino, ma i cambiamenti di vitaa cui spesso la malattia del figlio costringe la famiglia nonaiutano i genitori in questo loro delicato ruolo. L’ospeda-lizzazione, infatti, è causa di scompiglio e di sconvolgi-mento nella quotidianità del nucleo familiare a livello diorari, impegni, ritmi di vita, ecc., che devono modellarsisu esigenza, possibilità e tempi della struttura sanitaria;inoltre vi sono delle specifiche difficoltà e di meccanismipsicologici complessi nel modo di affrontare la malattia

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del proprio figlio. La nuova situazione, infatti, spessoriporta a galla del genitore insicurezze e mancanze diautostima verso il proprio ruolo, facendolo sentire colpe-vole in prima persona e portandolo a percepirsi comeincompetente ed incapace. Nel caso in cui, poi, la patolo-gia del bambino sia particolarmente grave, soprattutto lamadre, vive l’evento come un attacco alla propria personae alla capacità di generare figli sani. Le reazioni psichichea queste percezioni variano da individuo a individuo e sipossono avere genitori che riversano sul figlio le proprieresponsabilità e la propria aggressività, così come genito-ri che si sentono continuamente accusati da tutto e datutti in forma persecutoria e vittimistica, o anche cheentrano in uno stato depressivo con una totale incapacità

di reagire alla situazione. In questa fase entra in giocoanche l’immagine idealizzata che i genitori hanno deipropri figli e, poiché nel momento della malattia divieneil parametro di riferimento e di confronto sempre per-dente, il rischio è di non supportare in modo sereno eequilibrato il bambino reale che sta soffrendo.Un’ulteriore fonte di disagio nella relazione genitori-figlidurante la malattia è data anche dalla comune tendenzadegli adulti di voler tenere celata agli occhi dei bambini lavera entità del loro stato di salute. Nell’idea di proteggerlida informazioni che non possono capire e nella speranzache non si accorgano di niente, continuano a svolgere unavita normale, come se non fosse successo niente. In realtàquesta è una speranza mendace, in quanto il bambino sirende perfettamente conto che la sua vita è stata ampia-mente sconvolta dalla malattia e il fatto di percepire “unnon detto” gli genera ancora più ansia e angoscia. Percepi-sce, però, anche che, chiedendo informazioni su ciò chegli sta succedendo o facendo domande specifiche riguardoalla sua malattia, metterebbe in difficoltà le persone che locircondano, e perciò tace, proteggendo così i genitori dallasofferenza di sapere che lui sa del suo stato, con il risulta-to che nel momento in cui egli avrebbe più bisogno diessere sostenuto e rassicurato, si ritrova solo con le sueangosce (S. Kanisza, B. Dosso, 1998).

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Un’ulteriore fonte di disagio nella relazione genitori-figli durante la malattia è data anche dalla comunetendenza degli adulti di voler tenere celataagli occhi dei bambini la vera entità del loro stato di salute

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Il rapporto tra operatori sanitari,personale medico, famiglia e bambino:una relazione complessa

Una relazione altrettanto complessa è quella che si instau-ra tra il bambino, gli operatori sanitari, il personale medi-co e i genitori. Il processo di umanizzazione dell’ospedale, cominciato apartire dagli anni Cinquanta del secolo scorso, con leriflessioni del dottor J. Robertson (1953), oggi ha portato aprofonde trasformazioni nel modo di leggere la cura e l’in-tervento sanitario nei confronti dell’infanzia. L’atteggia-mento dei medici e dell’équipe curante verso il bambinoospedalizzato è fortemente caratterizzato da modalità rela-zionali e comunicative centrate sulla comprensione empa-tica, il sorriso, la pazienza, la dolcezza. Non si deve sotto-valutare, però, la difficoltà emotiva vissuta da medici e ope-ratori sanitari che si trovano a lottare quotidianamente conmalattie croniche, degenerative, terminali. Non è assoluta-mente semplice la relazione che si viene a creare, poiché imeccanismi difensivi, messi in atto dal personale medico-sanitario per superare il distacco e la guarigione o la mortee la sofferenza cronica dei bambini, sono molto profondi.Modalità comunicative e forme difensive sono strettamen-te correlate e spesso, dietro a problematiche di reciprocaincomprensione tra medici e genitori, si annidano dolorimolto più complessi da individuare. Non è sempre diimmediata e facile lettura, ma spesso nel medico, il con-trollo dei propri stati emotivi di fronte alla sofferenza e aldolore provato dai piccoli pazienti, nonché nel momentoin cui si trova a dover comunicare diagnosi di malattie cro-niche o mortali, viene ottenuto attraverso atteggiamenti didistacco o freddezza (S. Kanizsa, 1994). Questo porta a unplurimo modo di vivere il rapporto tra gli attori in gioco,che può tradursi in una fattiva e efficace collaborazione traéquipe medica e genitori, con una ricaduta positiva, sia intermini psicologici che clinici, sul bambino, che in unamodalità conflittuale e problematica. In quest’ultimo casosi può avere una forma collaborativa solo perché costrettidalle circostanze, ma senza una vera opera di interventocondivisa, oppure si può avere un vero e proprio conflittotra ruolo genitoriale e ruolo medico, che comporta, daparte dell’équipe curante un atteggiamento strettamentetecnico e medicalizzante, e, da parte della famiglia, la sen-sazione di essere in ambiente ostile e, come tale, privo diattenzioni alle esigenze di informazione e di spiegazione.In questi casi i medici rilevano un atteggiamento aggres-sivo e critico dei genitori nei loro confronti e i genitoriritengono che i medici siano infastiditi dalla loro presen-za, percependoli come un peso nel processo terapeutico.

Soprattutto per quanto riguarda il medico, i propri vissuti,gli eventuali fallimenti terapeutici, la minaccia emotivache prova come padre/madre (quando ha figli), sono tuttifattori che intervengono sul suo modo di porsi nei con-fronti del bambino-paziente e dei suoi genitori. Non dirado il medico si chiude in un linguaggio tecnico-scientifi-co, specialistico, incomprensibile per la maggior partedelle persone, oppure – concentrando tutta sua attenzionesulla malattia – tende a considerare il bambino solo nellasua veste di paziente e di caso clinico, spogliandolo dellasua già fragile identità e omologandolo a tutti gli altridegenti. Così facendo, inconsciamente, attua un discono-scimento del soggetto che gli permette di generalizzarel’intervento, senza far nascere sentimenti di compassionee tenerezza verso il proprio paziente. Alla base di tutto ciònon possiamo scordare che vi è una professionalità che si

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Modalità comunicative e forme difensivesono strettamente correlate e spesso, dietro a problematiche di reciproca incomprensione tra medici e genitori, si annidano dolori molto più complessi da individuare

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deve continuamente confrontare con il rischio di soccom-bere sotto l’ansia dell’errore, dell’incertezza dell’esito, dellapaura dell’incomprensione. Progetti come quelli chehanno portato a nuovi modi di porsi del medico in corsia(come il medico-clown, sulla scia del famoso medico ame-ricano Pacht Adams, fautore di una assistenza sanitariabasata sui reali bisogni dei pazienti e per il quale la comi-cità è lo strumento per creare familiarità con i malati eridurre il disagio e l’estraniazione del paziente) (P. Adams,1993), sono sicuramente indicatori di un nuovo modo dileggere anche la malattia e il recupero della salute del sog-getto, ma non sempre sono percorsi brevi. Il rapporto tramedici e bambini, ma soprattutto tra medici e genitori, èdifficilmente sintetizzabile in una specifica modalità per-ché in questa triangolazione entrano in gioco davvero tantimeccanismi di difesa, ruoli e funzioni e intervengono variaspetti di personalità, di carattere, di opinioni estrema-mente soggettive, ma la tensione a un migliore interventoe un più rispettoso rapporto tra medici, bambino e genito-ri non può essere mai abbandonata.

Le attività ludico-ricreative: dalla biblioteca dei ragazzi alla ludoteca

Per il bambino sofferente il gioco assume un valore inesti-mabile. Anche in ambito terapeutico si è ormai appreso ilruolo e la funzione del gioco nella vita e nello sviluppo delbambino, soprattutto nelle situazioni di deprivazione affetti-va, così come avviene nel ricovero in ospedale. Oltre a riem-pire le ore vuote, il gioco permette un armonico sviluppopsicofisico della parte sana del bambino e introduce unsenso di normalità ad un ambiente estremamente estraneo,mantenendo attivi stimoli sensoriali e relazioni interperso-nali positive per il suo globale sviluppo. Nel momento dellamalattia il gioco può assolvere a più funzioni. In primoluogo è uno strumento privilegiato per poter preparare ilbambino ad un eventuale futuro ricovero, perché attraversouna modalità ludica si può spiegare al piccolo quali sarannole azioni e le cure a cui dovrà essere sottoposto, permetten-dogli di superare almeno la paura data dalla mancanza diconoscenza di ciò che lo aspetta. Inoltre il gioco può essere– attraverso l’osservazione – un importante indicatore dicome il bambino sta vivendo l’esperienza dell’ospedalizza-zione, per eventualmente agire di conseguenza, così da ras-sicurarlo, contenerlo nelle sue angosce, aiutarlo psicologica-mente, ecc., qualora se ne veda il caso. Può servirgli anchecome importante aiuto e supporto per sviluppare strategiedi difesa nel momento dell’incontro con un mondo così

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estraneo e ostile come quello dell’ospedale. Un’altra funzio-ne del gioco è che può essere un mezzo attraverso il qualeimparare a convivere con una malattia o con un trauma ouna menomazione permanente. Sotto questo aspetto ilgioco deve essere un catalizzatore di attenzione sulla malat-tia, o sulla struttura ospedaliera, in modo da aiutare il picco-lo a comprendere e accettare la nuova realtà (D. Winnicott,1971; J. S. Bruner, A. Jolly, K. Sylva, 1976). Un fattore importante nel gioco in ospedale è che, oltrea momenti di gioco con altri bambini e in modo “libe-ro”, vi sia un adulto che sappia ascoltare le sue paure,correggere i suoi fantasticati timori, infondergli un sensodi sicurezza e di tranquillità per recuperare fiducia nelleproprie capacità e attuare strategie individuali per supera-re le difficoltà. Ormai negli ospedali sono presenti – anchese non da molti anni a dire il vero – figure specificheche si occupano della progettazione dei momenti ludiciin modo professionale, scegliendo attività e organizzan-do giochi che possano essere il più possibile adatti al sin-golo bambino o alla specifica situazione e portando l’atti-vità ludica all’interno dei percorsi terapeutici. Questanuova figura professionale, l’animatore di gioco – nata inInghilterra intorno al 1960 con il nome di play worker – an-cora non è molto diffusa nei nostri ospedali, anche se iprogetti di sviluppo in corso portano ad ipotizzare che,nell’arco del prossimo decennio, si avrà un forte incre-mento della presenza dell’animatore di gioco in tutte lerealtà ospedaliere.

La figura dell’insegnante e il ruolo della scuola

La presenza della scuola all’interno dell’ospedale favori-sce quel processo di umanizzazione della realtà ospeda-liera, ormai in atto da diversi anni, e rappresenta una viaper garantire ai fanciulli che sono costretti alla degenzain ospedale il mantenimento della loro integrità di sog-getti in evoluzione e di godere dei diritti rivolti all’infan-zia. La percezione che, nonostante i cambiamenti avve-nuti con l’ospedalizzazione, ha comunque la possibilitàdi giocare, comunicare in allegria con gli altri bambini,divertirsi e godere di spazi colorati e adeguati ai suo biso-gni, lo aiutano a non disperdere l’immagine di sé e fram-mentare la sua fragile identità. Nella complessità dei fattori e nella pluralità delle figureche intervengono nel percorso terapeutico, si inserisceanche il ruolo che può assumere l’insegnante. L’inse-gnamento all’interno della struttura ospedaliera è moltoparticolare, a partire dal rapporto di tipo didattico che

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non avviene esclusivamente tra bambino e insegnante,ma vede coinvolto in maniera più significativa anche ilgenitore. Nella maggior parte dei casi, i genitori sonomolto favorevoli al fatto che il bambino possa beneficia-re di un percorso didattico all’interno della strutturamedica e giudicano positivamente questa possibilità, mal’insegnante si trova a dover gestire una relazione alun-no-genitore-insegnante molto più complessa che nelnormale ambito scolastico. Sia l’insegnante che il bam-

bino si trovano a convivere, durante le attività didattiche,con la costante presenza di almeno uno dei due genitori– figure che nella scuola rimangono maggiormenteesterne – e l’insegnante deve strutturare percorsi emodalità di insegnamento che tengano conto di unarelazione con i bambini, con i genitori e con bambini egenitori insieme. Risulta evidente come questo non siacosì semplice da fare, soprattutto perché sono modalitànon convenzionali e non supportate da strumenti didat-tici e riflessioni nate nella ricerca pedagogica, la cui riso-luzione è lasciata prevalentemente alla capacità e allacreativa dell’insegnante. L’intervento dell’insegnante sicolloca, inoltre, in un contesto che non sempre è cosìfavorevole alla sua presenza. Il personale medico vedequesta figura come un soggetto di difficile collocazionenel percorso terapeutico e, come emerge da diverse ricer-che, accetta la presenza solo fino a quando non è troppoinvadente e non pone domande, cerca chiarimenti o chie-de informazioni (S. Kanisza, B. Dosso, 1998). È già statosottolineato come lo sviluppo della medicina in questi

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L’insegnamento all’interno della strutturaospedaliera è molto particolare, a partiredal rapporto di tipo didattico che non avviene esclusivamente tra bambino e insegnante, ma vede coinvolto in maniera più significativa anche il genitore

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ultimi anni e le conoscenze sul trattamento dei bambiniospedalizzati, abbiano trasformato il concetto di cura,mettendo in rilievo il valore dell’attività nel processo direcupero del paziente, ma ancora certe acquisizioni econoscenze psicopedagogiche devono consolidarsi nellaprassi medico-clinica. Il potenziamento degli interventie delle occasioni ludico-ricreative all’interno dell’ospeda-le è già patrimonio degli Ospedali Pediatrici e di moltireparti di grandi ospedali (come il Gaslini di Genova, ilMayer di Firenze o i reparti pediatrici del San Raffaele diMilano e del Bambin Gesù di Roma), anche se rimaneancora una cultura meno diffusa nelle corsie pediatrichenei piccoli centri. Certamente negli ultimi anni si sonomoltiplicate le iniziative miranti alla diffusione dell’im-portanza delle attività dentro le corsie ospedaliere, edoggi anche la scuola ha assunto un ruolo importantenon solo nell’ottica di supporto e ausilio al percorsodidattico dell’“alunno-paziente” (per non perdere l’annoscolastico), ma anche di sostegno psicologico e emotivo,offrendo al bambino una sensazione di continuità attra-verso la quale vedere lo studio come una necessità per ilsuo futuro e permettendogli di pensare che a breve potràtornare alla vita di prima.Una sfida che la scuola trova nell’ospedale è quella di riu-scire a essere letta non più in modo tradizionale, macome un reale ausilio al processo terapeutico. Il periododi trasformazione della scuola – ancora in atto – ha per-messo di rivedere molti degli aspetti dell’insegnamento,andando proprio nella direzione di una valorizzazione ditutte le attività culturali, ludiche e creative e prevedendola presenza di esse all’interno del piano dell’offerta for-mativa. Tale impostazione permette di dare un ampiorespiro all’espressione di nuove modalità didattiche, aforme più creative di insegnamento, nonché a strumen-ti didattici innovativi. Per chi vive l’insegnamento in unambito chiuso come quello ospedaliero, poter arricchireil proprio bagaglio didattico-formativo è sicuramenteuna occasione per sentire più utile il proprio operato,anche perché in tal modo si viene a creare un circolo vir-tuoso, tra esperienze didattiche in ambito scolastico eesperienze didattiche nel contesto ospedaliero, di note-vole importanza. Un incentivo a porre attenzione al pro-cesso di sviluppo del bambino, e non solo per quelli inetà scolare, ma anche per i bambini della scuola mater-na, ci viene dal riconoscimento di una specifica profes-sionalità per l’insegnamento anche nelle scuole dell’in-fanzia, che ha portato ad una concezione maggiormentediffusa e a una riflessione più approfondita sull’impor-tanza del gioco e dell’attività ludica nell’ambito del pro-cesso di apprendimento.

Fino ad oggi la scuola nell’ospedale è stata caratterizzata daelementi propri della scuola esterna sia nell’organizzazio-ne che nella didattica (un’aula, dei banchi, un orario difunzionamento) ed è stata frequentata quasi esclusiva-mente da quei bambini che si potevano alzare dal loro lettoper accedervi. Una scuola che si è inserita all’interno dellestrutture, senza necessariamente stabilire con esse dellerelazioni significative. La tendenza attuale è invece quelladi vedere la scuola come uno spazio in cui offrire al bam-bino malato la possibilità di esprimere la propria identità,nel quale fornirgli delle occasioni di crescita e maturazio-

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Una sfida che la scuola trova nell’ospedale è quella di riuscire a essereletta non più in modo tradizionale, ma come un reale ausilio al processo terapeutico

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ne anche all’interno di un ambiente potenzialmente “osti-le” come quello della istituzione ospedaliera.Per realizzare una scuola che tenga conto di queste fina-lità c’è bisogno di una integrazione maggiore con lastruttura dove opera, una scuola che incontri il persona-le dell’ospedale, che ponga delle domande, si faccia pro-motrice delle esigenze dei bambini. Questo tipo di scuo-la riconosce naturalmente a tutti i bambini il diritto acrescere ed evolversi, qualunque sia la loro malattia,qualunque sia la loro diagnosi.

Uno specifico supporto a questo nuovo modo di leggerela scuola ci viene offerto dalle nuove tecnologie che pos-sono essere un valido strumento per aiutare i bambini inqueste condizioni. Attraverso le nuove tecnologie i bambini ospedalizzatihanno strumenti per comunicare con l’esterno e tra di loroin modo divertente e continuo, con software specificamen-te predisposti che gli permettono di sentirsi protagonistidel proprio processo di apprendimento e di ampliare lapropria conoscenza.Non dobbiamo sottovalutare l’importanza che assume, perun bambino, il mondo della scuola, la quale diventa pro-babilmente l’ambiente di vita e di relazione più importan-te (M. Capurso, 2001). Con l’ingresso nella scuola comin-cia e si rende visibile il lungo percorso di emancipazionedalle figure familiari, motivo che fa assumere alla scuolasia un alto valore simbolico e affettivo, che un reale pro-cesso di autonomia, andando ben oltre il semplice appren-dimento di nozioni o concetti. L’amicizia, le relazionisociali, lo spirito di cooperazione e di competizione sonotutte complesse dinamiche relazionali che si attivano nelgruppo classe e che vanno ad incidere in modo significati-

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C’è bisogno di una scuola che incontriil personale dell’ospedale, che pongadelle domande, si faccia promotricedelle esigenze dei bambini. Questo tipodi scuola riconosce a tutti i bambini il diritto a crescere ed evolversi, qualunque sia la loro malattia

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vo, e spesso indelebile, sulla personalità del fanciullo.L’importanza di queste componenti è stata a lungo sotto-valutata nella scuola tradizionale e solo da pochi anni si ècominciato a riconoscere e valorizzare le componenti emo-tivo-affettive nel processo di insegnamento-apprendimen-to (I. Salzberger-Wittenberg, E. L. Osborne, G. WilliamsPolacco, 1987), ma quando ci troviamo di fronte ad unbambino che ha dovuto interrompere il suo percorso sco-lastico per una malattia, ci si accorge immediatamente delsignificato che il gruppo dei compagni ha nel suo sviluppoe nel suo processo di socializzazione.L’insegnante per riattivare i vissuti può partire da per-corsi didattici che permettano un recupero della memo-ria delle esperienze fatte, dalle loro storie e, con lei, rie-laborarle anche in forma simbolica, ma anche lavoraresulla propria visione del mondo ed usare l’attività didat-tica non tanto come fine, quanto come mediatore di unacomunicazione che è molto più ampia ed importantedella singola attività. Con i bambini più grandi è possi-bile realizzare anche percorsi di comunicazione a distan-za, che nello specifico significa creare le condizioni permettere in contatto un bambino con la propria classemediante il collegamento telematico. È importanterimettere in moto le relazioni preesistenti alla malattia,creando un contatto che permetta di riattivare i vissuti ei legami propri del gruppo. Attraverso l’allestimento dipostazioni multimediali composte da strumenti ormaidi uso comune, come la telecamera e il personal com-puter, si possono mettere in collegamento in video e invoce i bambini nel reparto pediatrico con quelli dellescuole di riferimento e trasmettersi testi, disegni, foto-grafie, ecc. I progetti in tal senso in Italia sono già moltie si stanno sempre più organizzando momenti di for-mazione specifica per gli insegnanti (come quelli pro-posti dall’Associazione “A.C. Capelli – Gioco e Studio inOspedale”, organizzati dal Dott. Michele Capurso o dal-l’ABIO, Associazione Bambini in Ospedale). L’auspicioè che nel giro di pochi anni si possa sempre più rende-re le strutture ospedaliere aperte al dialogo ed alla colla-borazione con tutte quelle realtà e istituzioni che lavo-rano per ricordare al mondo che “i bambini non sonopazienti”1 e che non hanno più voglia di aspettare che i“grandi” gli riconoscano, oltre il diritto alla salute, anchetutti gli altri bisogni propri del processo evolutivo.

1 Convegno Nazionale “I bambini non sono pazienti”, promosso dallaRegione Toscana in collaborazione con la Fondazione Michelacci, Firen-ze, dicembre 1997.

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Scuola e ospedale

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L’educazione nel contesto ospedaliero

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Il trauma dell’ospedalizzazione nell’infanzia e nell’adolescenza: il ruolo della scuola

RAGIONAMENTI

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Psicologia e psicoanalisi in ospedale

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Esperienze e ricerche sul bambino in ospedale

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Accompagnare il bambino con malattia terminale

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La preparazione al ricovero

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