il silenzio - scelta di brani di vari autori

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1 IL SILENZIO E IL SILENZIO INTERIORE VIVERE NEL SILENZIO VIVERE CON IL SILENZIO VIVERE PER IL SILENZIO

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Il Silenzio - autori vari

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Page 1: Il Silenzio - Scelta Di Brani Di Vari Autori

1

IL SILENZIO

E IL SILENZIO INTERIORE

VIVERE NEL SILENZIO

VIVERE CON IL SILENZIO

VIVERE PER IL SILENZIO

Page 2: Il Silenzio - Scelta Di Brani Di Vari Autori

2

ARTE CONTEMPLATIVA!

Perche' l'arte passa nel cuore, non nella mente.

Mentre lavoro mi sento guardato da Lui,

attraverso la luce in cui sono immerso e le stelle che mi sovrastano;

mi sento toccato da Lui attraverso la materia che plasmo.

la sua presenza è nella sostanza del cosmo, è dentro, nella materia, è immanente.

ecco l'esperienza della materia, l'inno alla materia:

"benedetta tu dura materia, terra arida, dura roccia..."

Giuseppe De Bartolo

L' Artista è un contemplativo, è un pensatore

che veglia nel deserto, nel grande deserto;

è uno spirito creatore con il cuore sempre di fanciullo.

Egli trasforma la materia in Anima con la luce della contemplazione

che dilata in un unico raggio l'interiore capacità di trasfigurazione

Giuseppe De Bartolo

Page 3: Il Silenzio - Scelta Di Brani Di Vari Autori

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La grande ricchezza del deserto

è la solitudine, la gioia della solitudine, il silenzio:

un silenzio vero che invade tutto l' essere,

che parla all'anima con una forza meravigliosa e nuova,

non certo conosciuta da tutti. Nel deserto s' impara a distinguere

il silenzio interiore, il silenzio dell'anima.

E’ un silenzio straordinario il silenzio del deserto. E’ il silenzio di Dio.

E’ una liberta' nuova, ampia, autentica, gioiosa ...

Giuseppe De Bartolo

La pittura é "un messaggio di fede che unisce cielo e terra;

é una preghiera fatta di segni ... e questo vale ancora di piu’

se si considera che l' Artista é un Sacerdote dell'arte,

proprio per le potenzialita' di cui l'arte dispone per portare a Dio.

Pertanto l' Arte é contemplazione e l'augurio non puo' essere che uno solo:

percepire la bellezza che ci porta all'autore stesso della bellezza: Dio,

nella solitudine nell' interiorita'

nel deserto nella contemplazione nell' habitare secum”

Giuseppe De Bartolo

Page 4: Il Silenzio - Scelta Di Brani Di Vari Autori

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Molto prima che una forma diventi visibile ed acquisti realtà,

essa esiste già come idea/immagine, quindi l'immagine originaria

di un'opera d'arte è spirituale. E' immagine che ha la sua dimora

nell'Anima dell'Artista: è immagine che esiste in nessun luogo,

altro che nello spirito creatore e può essere attuata

e resa visibile nella materia. Questo è il proprio mondo interiore; questo il mondo interiore dell'Artista:

SILENZIO IMMOBILE E INFINITO.

Giuseppe De Bartolo

Un uomo è se stesso quando può appartenere all' Arte; e l' arte è Arte solo se può contare

su un uomo che la sostiene. Isolare l' uomo

dalla sua espressione spirituale significa ridurlo alla condizione animale,

così come isolare l’ arte dall' uomo significa astrarla nel regno dello spirito, dimenticando il suo spessore materiale

in cui l' Arte, come l' Uomo, prende forma e figura.

L'uomo che sa trascendersi nell' Arte marca la sua differenza da ogni essere

e tende all' Eterno, com' è nell' aspirazione sua

e dell'opera d'arte. Ma non è abitare l' Eterno!

Giuseppe De Bartolo

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Nel silenzio della luce

Nell’intimo mio silenzio, Che io sappia cantare ogni bellezza

In un mondo limitato nei suoi orizzonti E dipingere interiormente il cuore

Di chi osserva le mie opere Della bellezza di dio,

Cristallo lucente della vita, Sorgente di luce, di luce vera.

… e la mia mente vaga nel suo abisso, Luce tangibile, intramontabile,

Che si dilata, si modifica e si trasforma, E che diventa interpretazione dell’anima. … e il mio cuore e’ pieno del suo silenzio,

Un silenzio che si cala nel rumore della vita; Il silenzio appartiene alla pittura e alla musica,

Fa parte dell’arte, permette di dipingere Con genialità traboccante

Ciò che non sempre si può vedere: Il mistero …

Senza silenzio e senza luce L’uomo non può tendere alla perfezione…

Giuseppe De Bartolo

L’artista interpreta l’Arte come percorso tra pensiero, creazione,

materia, spiritualità e amore, percorso “habitato” dalla presenza di Dio.

L’uso originale di materiale plasmabile e tangibile

(cera e sabbia) con i suoi rilievi aspri, dolci… dà al messaggio un’idea di concretezza.

La luce stessa diviene tangibile. Solo chi è assuefatto alle tenebre la potrà negare.

Page 6: Il Silenzio - Scelta Di Brani Di Vari Autori

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Tipi di silenzio di Pier Cesare Bori

Dicono i monaci che è questa una tradizione che risale ad Adamo e che

Adamo adorava l’albero perché la futura salvezza doveva venire attraverso il legno. Concordano dunque col versetto di Davide: ‘Dicite in gentibus quia Dominus regnabit a ligno’, benché per rendere più precisamente il concetto, bisognerebbe dire: ‘curabit a ligno’.

1. Sulla pratica del silenzio si possono proporre varie distinzioni. 1 Si potrebbero opporre, con Gustav Mensching, silenzio interiore e

esteriore , oppure silenzio sapienziale (o morale) e silenzio mistico (il primo è disciplina ed ascesi, il secondo è assimilazione con la divinità).

2 Ma vorrei cominciare distinguendo tra il silenzio come assenza o privazione della parola e il silenzio come comunicazione con un mondo altro, rispetto a quello della parola.

Mi rifaccio a un saggio di L. Heilmann, dedicato appunto alla distinzione tra "tacere" e silère" in latino, in cui si sostiene che la differenza che caratterizza sileo e taceo l’uno di fronte all’altro sia da vedere nell’opposizione (valore positivo-valore negativo) tra la coscienza del silenzio come realtà in atto o che si crea (sileo=positivo) e la constatazione del silenzio cioè assenza di qualcosa che da esso è negata (taceo=negativo).3

Potremmo dire così, avvicinandoci al tema nostro: "tacere", è zittire o

zittirsi, arrestarsi muti dinanzi alla realtà divina, mentre "silere" è entrare nella divinità divenendo partecipi della sua ineffabile realtà (aspetto positivo).

2. A questa distinzione un’altra può essere accostata, che oppone due tipi

di silenzio, quello che prepara l’avvenimento della rivelazione o della profezia, e quello mistico-filosofico (come in Plotino4 ), in cui il silenzio avvicina e assimila a Dio. Incrociando questa distinzione con quella precedente, ne deriva uno schema, cui avremo sia "tacere" e sia "silére", l’uno e l’altro sia di carattere profetico sia di carattere filosofico-religioso. E cioè il silenzio di fronte alla Realtà ultima, sia esso all’interno o sia all’infuori della rivelazione, contiene sia un aspetto negativo, il tacere, sia uno positivo, l’aver parte a questa indicibile Realtà.

3. La Bibbia ebraica e cristiana conosce l’aspetto sapienziale (Qo. 3, 7, "un

tempo per tacere e un tempo per parlare", uso la versione CEI), ascetico, disciplinare (il saggio tace! Prov. 17, 28: "Anche lo stolto, se tace, passa per saggio").

Ma evidentemente l’elemento più specifico nella rivelazione biblica è il

silenzio come tacere di fronte a Dio di ogni potenza umana.

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Sof. 1, 7. "Silenzio alla presenza del Signore Dio, perché il giorno del Signore è vicino". Ab. 2, 20: "Il Signore risiede nel suo santo tempio. Taccia davanti a lui tutta la terra", Zac. 2,27: "Taccia ogni carne dinanzi a Dio.

Il "tacere" come avvicinarsi alla realtà divina è soprattutto il silenzio

dell’ascolto, è una invocazione affinché Dio parli. Perché Dio parla, parla alla comunità nella rivelazione profetica, e parla al credente nella sua solitudine. "Parla Signore, il tuo servo ti ascolta" (1 Sam. 3, 10). "Non rimanere in silenzio" è l’invocazione del salmo:

A te grido Signore, non restare in silenzio, mio Dio, perché se tu non mi

parli, sarei come scende nella fossa" (S. 28, 1, cfr, anche 35, 22; 83, 1). Nella Bibbia dunque il silenzio è anzitutto un tacere. E tuttavia nella pietà

dei Salmi, nelle esperienze dei profeti, ancor più nella comunione con il Messia,5 nel dimorare in lui si intravvede una unione che va oltre ogni dire.

Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore

di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano (1 Cor. 2, 9).6 4. Il tema del silenzio mistico, preparato dal tacere come esercizio ascetico

assumerà grande importanza nella tradizione spirituale cristiana. Una sorta di sintesi tra silère e tacere si trova per esempio nella

Confessioni , con l’estasi a due di Agostino e Monica, Conf. IX, 10. Qui "silere" e "tacere" sono in stretta continuità: "si… ipsa sibi anima sileat… si iam taceant…et loquatur ipse", dove sembra suggerirsi un vero itinerario mistico.

Molto più tardi, questo vien ben delineato da Miguel de Molinos (1628-

1696): Tre modi vi sono di silenzio. Il primo è di parole, il secondo di desideri, e il terzo di pensieri. Il primo è perfetto, più perfetto è il secondo, e perfettissimo il terzo. Nel primo, di parole, si raggiunge la virtù. Nel secondo, di desideri, si ottiene la quiete. Nel terzo, di pensieri, il raccoglimento interiore. Non parlando, non desiderando e non pensando, si arriva al vero silenzio interiore. In esso Dio parla con l'anima, si comunica. Le insegna nel suo più intimo la più perfetta e alta sapienza.7 5. Non si può pensare che la pratica silenziosa quacchera sia priva di

precedenti storici. Essa tuttavia merita speciale attenzione sia perché con il silenzio collettivo rinnova in maniera originale8 un modello di comunità profetica quale si può intravvedere dalla descrizione di Paolo, 1 Cor 14; sia

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perché raccoglie con pari originalità impulsi appartenenti a quello che Rufus M. Jones, storico del quaccherismo, chiamava "riformatori spirituali"9.

Sullo sfondo c’è il silenzio dell'attesa profetica. "Ogni carne deve tacere

dinanzi a Dio " (Zac. 2, 13). Allora, come avvenne a Elia, egli si manifesterà come qol demamah, "voce del silenzio" (1 Re 19, 12).10 Nella comunità raccolta in silenzio, il Maestro viene, il risorto appare, la Luce si manifesta, i profeti prendono la parola (1 Cor 14).

Ma accanto a questo c’è il silenzio contemplativo, mistico: la "stillness" (S.

46, 10 di cui sopra), la "coolness", la quiete, il silenzio sono partecipazione e imitazione degli attributi divini, l'eternità, l'immutabilità, l'infinità.

Cari amici, dimorate nella quiete e nel silenzio della potenza

dell'Onnipotente, che mai varia, si altera, cambia, ma preserva su, fuori e al di sopra di tutti i mutevoli culti, religioni, ministeri, chiese, insegnamenti, principati,e potestà (1661).11

Sullo sfondo, un brano di sapore ellenistico-giudaico della Lettera di

Giacomo 1, 17: "Ogni dono perfetto ... discende dal Padre della luce, nel quale non c'è variazione né ombra di cambiamento". Questo silenzio ha anche risvolti morali e ascetici, il rifiuto del mondo, la stabilità, la "purezza".

Ciò vale anche per il singolo: Sii calma e fredda nella mente e nello spirito, distaccata dai tuoi stessi

pensieri, e sentirai il principio divino che volge la tua mente al Signore Dio, da cui riceverai quella forza e quel potere da cui la vita proviene, per calmare ogni tempesta e ogni vento [...] Perciò arresta un momento i tuoi pensieri il tuo cercare, desiderare, immaginare e dimora nel principio divino che è in te, così che la mente sia fissa in Dio, così da giungere a lui; e trovererai forza da lui e troverai che è un aiuto in tempi di travaglio, di bisogno e che è un Dio a tua portata (1658).12

Un famoso brano di William Penn riassume bene l’esigenza del silenzio

sotto un profilo che è tanto biblico, quanto filosofico e contemplativo: Ma quanto meno forme ci sono nella religione, tanto meglio è, perchè Dio è

Spirito; quanto più il nostro culto è nella mente, tanto più adeguato è alla natura di Dio; quanto più è silenzioso, tanto più è adeguato alla lingua dello Spirito (1693).13

6. Può essere interessante confrontare il silenzio meditativo dei quaccheri

con un altro silenzio, quella della meditazione buddhista. Non intendo inoltrarmi nel confronto tra buddhismo e cristianesimo. Non intendo sviluppare il confronto tra i due Maestri, quale per esempio si affaccia nello suggestivo brano citato in epigrafe: il confronto tra i due "Signori", dei quali il primo "regna dal Legno" (nuovo Adamo sulla Croce, antitipo dell’albero del Paradiso

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terrestre), il secondo "cura dal Legno" (l’albero sotto il quale il Buddha ricevette l’illuminazione).14 Non intendo seguire lo stesso Henri De Lubac, quando vede nella dottrina buddhista qualcosa di simile al Qohelet, "una immensa, drastica e sottile pars purificans, una preparazione negativa attraverso il vuoto...fino al Messaggio pasquale".15

Invece di una sorta di integrazione del buddhismo nel cristianesimo, come

praeparatio evangelica, o come "teologia negativa", vorrei suggerire un parallelo tra processi meditativi, basandomi sul confronto puntuale di due testi:16 un passo cruciale di George Fox,17 e un testo fondamentale per la pratica meditativa buddhista, che chi scrive conosce un poco soprattutto nella modalità vipassana (meditazione della consapevolezza). Anzitutto Fox.

Scrive nel 1653 (la traduzione è letterale): Dimorando nella luce, non vi sarà occasione di inciampo, perché tutte le

cose con la luce sono svelate. Tu che la ami, ecco chi ti insegna quando cammini fuori: è presente con te

nel tuo petto, non hai bisogno di dire: eccola qui, eccola là. E mentre stai nel letto è presente per insegnarti, e per giudicare la tua mente che vaga, che vorrebbe vagare fuori, e i tuoi alti pensieri e immaginazioni, e li assoggetta, giacché seguendo i tuoi pensieri ti perdi ben presto.

Ma dimorando in questa luce, ti svelerà il corpo del peccato, e le tue

corruzioni e lo stato di decadenza in cui sei, e la moltitudine del pensieri. Sta' in quella luce che ti mostra tutto questo, non andare né a destra né a

sinistra. Qui la pazienza si esercita, qui la volontà è sottomessa, qui vedrai la

misericordia di Dio manifestarsi nella morte. Qui vedrai (che cosa significa) bere alle acque di Siloe, che scorrono

dolcemente, vedrai compiersi le promesse di Dio, fatte al Seme, che è Cristo. Qui troverai un salvatore, e verrai a conoscere l’elezione, e la riprovazione di quanto è rigettato, e quanto è ammesso.

Colui che può capirmi, e ricevere la mia testimonanza nel suo cuore, il

seme immortale nasce (in lui) e la sua volontà rigettata, perché non è lui che vuole né lui che si sforza, ma è Dio che mostra misericordia.

Perché il primo passo verso la pace è di rimanere fermi nella luce che svela

le cose che le sono contrarie, per ricevere potere e forza per resistere a quanto di voi la luce svela. Qui la grazia cresce, qui Dio solo è glorificato ed esaltato e la verità sconosciuta al mondo è manifestata, essa che vi trae fuori della prigione e vi vivifica nel tempo, verso quel Dio che è fuori del tempo. 18

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7. Va notato anzitutto come Fox non si appelli a una divina autorità, ma alla sua esperienza, a qualcosa che ha scoperto da solo: il nuovo sé potrà crescere non appena il vecchio sé è espulso. Questa è la sua testimonianza (Ambler)

Poi va notato che qui "chiaramente viene descritto un processo meditativo"

(ancora Ambler).19 Non viene prescritto di pentirsi, ma semplicemente di fermarsi a guardare se stessi. In questo processo la Luce amata, la luce divina non è tanto l’oggetto, quanto il soggetto stesso dell’ atto contemplativo. Infatti la luce c’è già. Quando si cammina è "presente nel petto", non c’è bisogno ci cercarla: "eccola qui, eccola là". Quando si giace, essa invita a non "vagare fuori". Il fatto della presenza precede quindi e fonda l’invito a "dimorare" (dwell) nella luce, a "stare nella luce" (stand in the light), a "stare fermi nella luce" (stand still in the light). Questo è "il primo passo verso la pace".

In secondo luogo: la meditazione si propone di contemplare nella luce il

corpo del peccato ("the body of sin",), le immaginazioni ("imaginations"), la "moltitudine di pensieri" ("multitude of thoughts"). Si ricordi la lettera citata sopra: "Arresta un momento i tuoi pensieri, il tuo cercare, desiderare, immaginare". Si tratta di guardare a se stessi, nella "pazienza" stando fermi nella luce, scoprendo nella luce la propria "natura"

In terzo luogo, questo gesto come tale ha in se anche "la forza e il potere"

di "fronteggiare (stand against), la natura che la luce scopre" e come tale porta a svelarne " il contrario": una "verità sconosciuta al mondo", " che libera dalla prigione e vivifica. Qui (here, tre volte) e ora, nella prigione, in punto di morte, si manifestano la misericordia, la salvezza, l’elezione.

8. Tutto il testo è un forte e originale tessuto di riferimenti biblici.20 Sono

bibliche perfino le espressioni "il corpo del peccato, e le tue corruzioni... e la moltitudine del pensieri" che dipende, oltre che da Paolo, da una interessante remiscenza del testo più ellenistico della Bibbia (cattolica), la Sapienza di Salomone 9, 15 "Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molto pensieri"(cfr. Fedone 81 c).

"Dimorare"(in Dio, in Cristo, nella Parola...) è costante nel Vangelo di

Giovanni. Esporsi alla luce dipende di qui: la Luce è venuta al mondo (1, 9) a illuminare ognuno, e "chi fa il male, odia la luce e non viene alla luce perché non siano svelate le sue opere. Ma chi opera la verità viene alla luce, perché appaia chiaramente che le opere sono state fatte da Dio" (3. 20s.). Anche il riferimento alle"acque di Siloe" allude a Giovanni, e alla guarigione-illuminazione del cieco nato, che avviene "piscina di Siloe". "Testimonanza" è evidentemente un tema giovannico (e dell’Apocalisse) .

"Camminare, giacere..." allude a Deut. 6, 6 "Questi precetti che oggi ti do,

ti stiano fissi nel cuore... ne parlerai quando starai seduto in casa tuo, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai"(cfr. 11, 18-21).

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"Eccolo qui, eccolo là" si riferisce a Lc 17, 21: "Il regno di Dio non viene in modo da attirare l’attenzione, e nessuno dirà: ‘Eccolo qui, eccolo là’. Perché il regno di Dio è in mezzo a voi".

Il Seme è Cristo (Gal. 3, 16). Ma in Fox, che ricorda spesso la parabola del

seminatore (Mc 4, Mt 13), è un termine caratteristico, quasi quanto la Luce, per indicare la presenza divina nel credente, sottolineandone anzi ulteriormente il carattere di immanenza.

Al tempo stesso, un forte richiamo alla Lettera ai Romani, e al tema

delle’elezione (9, 16: "Non dipende dalla volontà né dagli sforzi dell’uomo, ma da Dio che usa misericordia") restituisce tutto il processo ad un contesto propriamente soprannaturale e monotestico, biblico insomma. E tuttavia c’è un forte connotato di escatologia realizzata, il messianismo attuale e universale ed oggettivo degli Amici. La presenza salvifica divina è già in atto in ogni operare umano, compreso il silenzio dell’attesa e della meditazione.

8. L’altro termine del confronto è costituito da una sezione di un sutra

molto rilevante nella meditazione di consapevolezza, o vipassana. Si tratta dell’Anâpânâsati sutta, che in forma più breve e più pratica espone la dottrina del Mâhasatipatthânasuttanta ("Il grande discorso sui fondamenti della presenza mentale" ), molto importante nella pratica meditativa theravada.

E in che modo, monaci, si pratica la consapevolezza dell'inspirare ed

espirare affinchè sia di gran frutto e di gran beneficio? In questo caso, o monaci, un monaco, recatesi nella foresta, ai piedi di un

albero o in un alloggio vuoto, si siede a gambe incrociate e con il corpo eretto, suscitando l'attenzione di fronte a sé. Consapevole inspira e consapevole espira.

1. Inspirando a lungo egli sa: sto inspirando lungo; espirando a lungo egli sa: sto espirando lungo Inspirando brevemente, egli sa: sto inspirando breve; espirando brevemente egli sa: sto espirando breve Si esercita così: pienamente sensibile a tutto il corpo inspiro; si esercita così: pienamente sensibile a tutto il corpo espiro. Si esercita così: calamdo il condizionante del corpo inspiro; si esercita così: calmando il condizionante del corpo espiro 2. Si esercita così: pienamente sensibile al godimento inspiro; si esercita così: pienamente sensibile al godimento espiro. Si esercita così: pienamente sensibile all'agio inspiro; si esercita così: pienamente sensibile all'agio espiro. Si esercita così: pienamente sensibile ai condizionanti della mente inspiro; si esercita così: pienamente sensibile ai condizionanti della mente espiro Si esercita così: calmando i condizionanti della mente inspiro; si esercita così: calmando i condizionanti della mente espiro

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3. Si esercita così: pienamente sensibile alla mente inspiro; si esercita così: pienamente sensibile alla mente espiro. Si esercita così: allietando la mente inspiro; si esercita così: allietando la mente espiro. Si esercita così: unificando la mente inspiro; si esercita così: unificando la mente espiro. Si esercita così: liberando la mente inspiro; si esercita così: liberando la mente espiro 4. Si esercita così: contemplando l'incertezza inspiro; si esercita cosi: contemplando l'incertezza espiro. Si esercita così: contemplando il non-attaccamento inspiro; si esercita così: contemplando il non-attaccamento espiro. Si esercita così: contemplando la cessazione inspiro; si esercita così: contemplando la cessazione espiro. Si esercita così: contemplando il lasciar andare inspiro; si esercita così: contemplando il lasciar andare espiro. Ecco, o monaci, in che modo la consapevolezza dell'inspirare ed espirare,

coltivata e perfezionata, è di gran frutto e di gran beneficio.21 C’è bisogno di sottolineare quanto distanza separa i due testi, dal punto di

vista linguistico, letterario, storico-religioso? È invece importante segnalare l’analogia del processo, che il sutra,

attraverso le quattro strofe (tetradi) in cui è strutturato, presenta.22 Premessa a tutto il discorso, è il carattere sperimentale, pragmatico

dell’approccio meditativo.23 Rispetto alla tradizione cristiana (tanto più non monastica, come quella di Fox) c’è qui evidentemente un supporto tecnico e psicologico più consistente: il respiro, la posizione del corpo, la concentrazione e la consapevolezza, l’"esercizio" (sikkhâ) insomma, che abbraccia doversi momenti.

In primo luogo, cominciando con l’assunzione di un atteggiamento stabilità

e di silenzio, tutta l’attenzione è volta alla presenza mentale (sati), scegliendo il respiro come oggetto primario.

Si passa quindi a un’osservazione consapevole del corpo (dalle sue diverse

movenze - camminare, stare, sedere giacere - alle sue parti, alla sua corruttibilità),24 delle sensazioni (piacevoli, spiacevoli neutre), della mente, con i suoi contenuti di attaccamento, avversione, illususione.

Si affaccia allora la consapevolezza della "incertezza" o impermanenza

(anicca ) e dell’inconsistenza dell’ l’io-mio" (anatta): la saggezza, la compassione e il risveglio sono il traguardo.

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Il traguardo può essere raggiunto, in sette anni, ma forse anche in un anno, ma forse anche in mezzo mese, ma forse anche in sette giorni: con questa incoraggiamento (allora chissà forse anche meno di una settimana?) si chiude il "Grande discorso sui fondamenti della presenza mentale" (§ 22).

9. Concentrarsi sull’isomorfismo dei due processi, dei due "metodi" non

significa affatto cercare di integrarli in un meta-linguaggio comune. Non è questo il risultato perseguito,

Possiamo invece sperare di aver gettato un poco di luce su un percorso

meditativo cristiano (quacchero) mediante il confronto con percorsi di tutt’altra ascendenza storica. Possiamo anche domandarci se quel percorso sia un unicum storico, o se invece le considerazioni comparative che abbiamo abbozzato possano estendersi ad altri contesti meditativi informati dal linguaggio biblico (penso sorattutto alla tradizione illuminativa agostiniana). Possiamo anche vedere come possa essere semplicante la distinzione che da cui siamo partiti, tra un "tacere" (negativo) un "silére" (positivo), mentre diviene più evidente che le tradizioni considerate abbracciano ambedue i due poli.

Potremmo soprattutto domandarci - ed è la domanda più importante e

urgente - se non si tratti di due linguaggi diversi - da una parte, una Luce, dall’altra, una consapevolezza, da una parte, un’attesa, dall’altra, un "esercizio", da una parte, lo Spirito, dall’altra il respiro - due linguaggi che si protendono verso qualcosa che è al di là di ogni parola. E se allora possano coesistere nella stessa persona.

1. Questo testo ha come nucleo l’intervento iniziale al seminario

"Condividere il silenzio a partire da diverse tradizioni spirituali: una indagine storica e una proposta" tenutosi venerdì 29 novembre 2002 a Bologna, presso la Facoltà di Scienze politiche, corso in Culture e diritti umani. Intervenivano poi Mohammed Haddad (Università di Tunisi) Valentina Colombo e Saverio Marchignoli (Università di Bologna).

Oggetto del’incontro era soprattutto il silenzio come elemento centrale di una pratica spirituale: non interessava tanto il silenzio come preludio o intervallo o conclusione o atteggiamento concomitante e strumentale rispetto a qualcos’altro che è più importante.

Interessava specialmente il silenzio condiviso, cioè praticato in comune – novità dei nostri tempi - da persone di cultura spirituale diversa.

L’incontro voleva essere anche una indagine storica, su queste diverse tradizioni, prestando attenzione al mondo cristiano, a quello islamico, a quello buddhista.

Alla base era un interesse storico, ma anche la proposta del silenzio in comune nel dialogo (oltre al dialogo!) islamocristiano e più concretamente, la proposta di praticare questo silenzio in carcere con detenuti di diversa provenienza culturale e religiosa, mostrando la coerenza di una pratica di silenzio con una parte almeno della propria tradizione, e indicando anche nella pratica vipasssana (di stampo buddhista) una interessante risorsa, laica e

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compatibile con convinzioni filosofiche o religiose diverse. Il testo è stato ripreso e sviluppato in vari incontri e circostanze.

2. G. Mensching, Das heilige Schweigen, Töpelmann, Giessen 1926. 3. Cfr. . L. Heilmann Silere-tacere. Nota lessicale, in "Quaderni dell’Istituto

di Glottologia" Bologna I (1955), pp. 3-14, citazione a p. 14. 4. "... basterà un semplice contatto interiore. Ma durante il contatto –

almeno finché avviene – non si avrà affatto né la possibilità, né il bisogno di parlare: solo più tardi si potrà ragionarci sopra. Ma in quell’istante bisogna credere di aver visto, quando l’anima coglie, improvvisamente, la luce. Poiché questa luce proviene da Lui, meglio è Lui stesso" (Enneadi V 3, 17, trad. it. G.Faggin).

Già nell’esperienza di Socrate i neoplatonici potevano intravvedere le tracce

di una mistica filosofica. Secondo quanto raccontato da Alcibiade nel Simposio, Socrate, "In tale occasione, essendosi concentrato a meditare su qualcosa, a partire dall'alba era rimasto in piedi nello stesso posto a riflettere, e siccome la cosa non gli riusciva, non si dava per vinto, ma restava fermo a indagare.

Si giunse a mezzogiorno, egli uomini lo notavano, e meravigliati dicevano, l'uno all'altro, che sin dall'alba Socrate stava là in piedi a ponderare qualcosa. Alla fine alcuni Joni, quando fu sera ed ebbero cenato, portarono fuori i loro lettucci - poiché allora era estate - per dormire al fresco, e al tempo stesso per sapere, tenendolo d’ occhio, se avrebbe passato là in piedi anche la notte.

Ed egli rimase fermo, in piedi, sinché giunse l'aurora e si levò il sole: allora si mosse e se ne andò, dopo di aver rivolto una preghiera al sole" (220 c-d, trad. it. G. Colli).

Per il silenzio tra i pitagorici, si può leggere la Vita pitagorica di Giamblico:

"... E dunque, nel corso della ‘prova’ cui erano sottoposti glii aspranti, egli anzitutto osservava se essi fossero in grado di tacere (echemythein, vale a dire trattenere le parole, era il vocabolo che usava) e di tenere per sé gli insegnamenti ricevuti" (XX, tr. M. Giangiulio).

5.. M. Borg definisce Gesù un mistico ebreo. Borg si stacca, sulla scia di W.

James, dalla tradizionale diffidenza protestante per la mistica; M. Borg-N.T. Wright, The Meaning of Jesus. Two Visions, Harper San Francisco, 1998, 59

6. Segnalo la presenza nell'Islâm di un hadîth (detto) corrispondente a 1

Cor. 2, 9 (cfr. Is. 64, 3). Lo hadîth si trova in Bukhâri (una delle raccolte canoniche di detti del profeta), ed è un hadîth qudsî cioè uno di quelli in cui Dio parla in prima persona al profeta.

Lo si trova, per esempio, in ibn Tufayl (m. 1185), Hayy ibn Yaqdhân, nel momento in cui il "vigilante" arriva da solo alla contemplazione delle cose supreme. Passi straordinari sul silenzio mistico si trovano nel Dîvân di Rûmî, ma questo esigerebbe una trattazione a parte. Mi limito a ricordare quanto A. Bausani cita nella prefazione a Poesie mistiche, BUR, Milano 1998, 33: "La

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prima origine del grido è dal cuore e l’eco ne rimbomba nelle motagne del corpo. O tu stordito dagli echi, dirigiti in silenzio verso l’origine della Voce che crea". Ringrazio Maura Avagliano per le segnalazioni.

7. "Triplex silentii genus est. Primum verborum, secundum desideriorum,

tertium cogitationum. Primum est perfectum, perfectius secundum, perfectissimum tertium. Primo quod est verborum acquiritur virtus, secundo quod est desideriorum obtinetur quies, tertio quod est cogitationum interior recollectio. Non loquendo non desiderando non cogitando pervenitur ad verum et perfectum silentium mysticum, in quo deus loquitur cum anima, ipsi se communicat eamque docet in maxime intimo fundo suo perfectissimam maximeque sublimem sapientiam.

Ad internam hanc solitudinem et silentium mysticum vocat eam ac perducit, quando dicit ad ipsam se velle loqui sola in secretissimo atque intimo cordis. Hoc silentium mysticum ingrediendum tibi est, si audire cupis suavem, interiorem ac divinam vocem. Non sufficit fugere mundum ut hoc thesaurum acquiras nec renunciare desideriis nec omni desiderio et cogitatione. Conquiesce in mystico hoc silentio et aperi portam, et Deus se tibi conmmunicet, tecum se uniat, teque in se transformet": Manducatio spiritualis 1687, 1, 17, Mensching, op. cit., 16.

8. Si veda lo spazio che Mensching appunto vi dedica, 89 ss. 9. R.M. Jones, Spiritual Reformers of the 16th and 17th Centuries. Beacon

Press, (1914), Boston 1959. 10. Cfr. D. Gwyn, Apocalypse of the Word, Friends U.P., Richmond 1984,

163. 11. G. Fox, Ep. 201, Works 7, 198 s. 12. "Be still and cool in thy own mind and spirit from thy own thoughts,

and then yhou will feel the principle of God to turn they mind to the Lord God, whereby thou will receive his strenght and power from whence life comes, to allay all tempests, against blusterings and storms [...]

Therefore be still a while from their own thoughts, searching, seeking, desires and imaginations, and be stayed in the principle of God in thee, to stay thy mind upon God, up to God; and thou wilt find strength from him and find him to be a present help in time of trouble, in need, and to be a God at hand", G. Fox, Lettera a Lady Claypole, in Journal, ed. Nickalls, Cambridge U.P., 1952, 346 s.

13. "This world is a form; our bodies are forms; and no visible acts of

devotion can be without forms. But yet the less form in religion the better, since God is a Spirit; for the more mental our worship, the more adequate to the nature of God; the more silent, the more suitable to the language of a spirit"Some Fruits of Solitude ,nn. 507 e 519, Richmond, Ind., 1978

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14. Il racconto viene da De Lubac, op. cit, 48. Il testo completo è il seguente. Secondo la relazione del francescano fiorentino Giovanni Marignolli, legato di Benedetto XII presso l’imperatore di Cina, questi, "partito nel 1338, era arrivato a Cambaluc il 15 agosto 1342... Compiuta la sua missione, era tornato passando per Ceylon. Come Marco Polo e come Odorico, aveva ammirato il picco di Adamo, senza tentarne peraltro la difficile ascensione.

Ceylon l’aveva trovato più curioso di ricordi del paradiso terrestre che della sua religione o piuttosto le due cose si mescolavano ai suoi occhi, se giudichiamo dalle strane cose che egli mette sulla bocca dei monaci singalesi: "Nei loro chiostri si notano certi alberi dal fogliame diverso dalle altre piante Questi alberi sono cinti da corone d'oro e di gioielli.

Davanti ad essi vi sono delle lampade e vengono adorati. Dicono i monaci che è questa una tradizione che risale ad Adamo e che Adamo adorava l’albero perché la futura salvezza doveva venire attraverso il legno.

Concordano dunque col versetto di Davide: ‘Dicite in gentibus quia Dominus regnabit a ligno’, benché per rendere più precisamente il concetto, bisognerebbe dire: ‘curabit a ligno’ ". Si riconosceranno in questi alberi i polloni .all’albero di Bddh-Gaya sotto cui Sakyamuni aveva ricevuto l’illuminazione. Tutti tempi e tutti conventi dell'isola ne venerano uno".

15. E’ la pagina finale del suo bel libro del 1952, Buddismo e occidente,

trad. it, Jaka Book, Milano 1987. 255. 16. Ho qui in mente il metodo seguito da T. Izutsu in un testo

straordinario, Sufism and taoism. A Comparative Study of Key Philophical Concepts, University of California Press, 1984.

17. Analizzato da Rex Ambler A Light to live by An exploration in Quaker

spirituality, Quaker Books, London 2002. 8 s. 18. "Dwelling in the light, there's no occasion at all of stumbling, for all

things are discovered with the light. Thou that lovest it, here's thy teacher when thou art walking abroad, 'tis present with thee in thy bosom, thou need'st not to say, lo here, or lo there. And as thou liest in thy bed 'tis present to teach thee, and judge thy wandering mind, which would wander abroad, and thy high thoughts and imaginations, and makes them subject; for following thy thoughts thou art quickly lost.

But dwelling in this light, it will discover to thee the body of sin, and thy corruptions, and fallen estate where thou art, and multitude of thoughts. In that light which shows thee all this, stand; neither go to the right hand, nor to the left. Here's patience exercised, here's thy will subjected, here thou wilt sec the mercies ot God made manifest in death. Here thou wilt see the drinking of the waters of Shiloah, which run softly, and the promises of God fulfilled, which are to the Seed, which Seed is Christ.

Here thou wilt find a saviour, and the election thou wilt come to know, and the reprobation, which is cast from God, and what enters. He that can own me here, and receive my testimony into his heart, the immortal Seed is born up, and his own will thrust forth; for it is not him that willeth, nor him that

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runneth, but the election obtaineth it, and God that shows mercy; for the first step to peace is to stand still in the light (which discovers things contrary to it) for power and strength to stand against that nature which the light discovers.

Here grace grows, here's God alone glorified and exalted, and the unknown truth, unknown to the world, made manifest, which draws up that which lies in prison, and refresheth it in time, up to God, out of time, through time" G. Fox, To all that would know the way to the kingdom, 1653, Works 4, 17.

19. Ambler, che non stabilisce alcun nesso con la meditazione buddhista, si

avvale molto, nella sua analisi del processo meditativo quacchero, del contributo di E.T. Gendlin, cfr. anche in italiano Focusing: interrogare il corpo per cambiare la psiche, Astrolabio, Roma 2001.

20. Per l’analisi dei testi di Fox un importante strumento è A Reader’s

Companion to George Fox’s Journal, di J. Pickvance. Quaker Home Service, London 1989.

21. E’ una sezione del Sutta 115 del Majjhima Nikâya, la traduzione (con il

testo pâli) è tratta dall’appendice dei due fascicoli: Ajahn Sucitto, Insegnamenti sulla pratica di ânâpanasati, A.Me.Co., s.d. "Il grande discorso sui fondamenti della presenza mentale" (Mâhasatipatthânasuttanta, Dhîga Nikâya, 22) si trova nella traduzione di C. Cicuzza in La rivelazione del Buddha. I. I testi antichi, Mondadori, Milano, 2001, 335 ss.

22. L. Rosenberg, Respiro per respiro. La pratica liberatoria della

consapevolezza, Ubaldini, Roma 1999 presenta un commento pratico, passo per passo, di questo testo.

23. "Monaci, non parlate forse di quello che voi stessi avete conosciuto, voi

stessi avete visto, voi stessi avete trovato?" (Majjhima Nikaya I 265) 24. "Inoltre, o monaci, quando cammina egli sa: ‘Sto camminando’,

quando è immobile in piedi sa ‘Sto immobile in piedi’, quando sta seduto sa ‘Sto seduto’, quando giace sa ‘Sto giacendo’" (Mâhasatipatthânasuttanta, ed. cit. 3).

Da: http://quaker.org/italia/lq/39.html

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Lunedì, 30 Luglio 2007 I monaci della foresta: il silenzio, l’ascolto, la parola

TORNARE NELLA FORESTA. Prova a fermarti e ascolta …

Racconto breve di Pippo Greco Ricordo quelle parole quasi fosse ieri: - “Oh, sei tornato qui con noi. Sono felice perché potrai godere di nuovo

della nostra casa e del silenzio prezioso della foresta. Continuerai a scrutare dentro te stesso in questo tempo che ha bisogno di silenzio, di ascolto e di parola. Ascolto di un mondo che non vediamo, quello interiore, e di un altro, che va cercato abbandonando le ansie, le distrazioni e i rumori che in genere ci accompagnano per avviarci verso l’incontro con gli altri. E’ il mondo della comunità, che vive anche attraverso il suo rapporto con l’ambiente”.

Parole semplici, cariche di una particolare intensità comunicativa, con pause e spazi pieni, alternati armonicamente in un messaggio che superava la barriera del tempo: “Prova a fermarti, caro amico, per condividere questo prezioso silenzio, che riesce a narrarci la storia della nostra vita. Useremo un linguaggio antico ma sempre attuale, quello dei nostri Padri, coinvolgente e appassionante. Ricordati che il silenzio della meditazione ha senso se rimane in te la condizione dell’ascolto: il silenzio ci parla. E le nostre parole prendono forma, da qui, suscitando emozioni e sentimenti, curiosità e stupore”.

Potevo udire, in quell’inizio tiepido dell’estate, lo scorrere giocoso e lieve del torrente, prima che riunisse i due rivoli per lasciarsi andare, deciso, lungo le cascatelle del mulino, tra i castagni secolari, la faggeta e l’intensa vegetazione del sottobosco.

Le foglie riuscivano a creare un manto soffice che copriva la terra, lasciando tuttavia intravedere le venature naturali tracciate dalle radice degli alberi, fino al ponticello. In quel punto si crea un’ansa, dove l’acqua cristallina lambisce il margine di un pianoro, ritrovo naturale di tanti animali della foresta; il luogo così assume così una condizione conviviale, quasi di ritrovo.

Arrivavano da sentieri diversi, come chiamandosi, per godere della frescura di quel luogo.

Non era raro scorgere tra il fogliame basso una famiglia di caprioli, mentre nel cielo volteggiava l’aquila reale e, sul tronco di un abete, il rumore del becco dava conto del metodico lavorio del picchio.

Arrampicandosi sul costone, in alto si notavano le cime appenniniche, che risalivano la dorsale fino a Prato alla Penna e al Monte Falterona. L’acqua scendeva da mille piccoli canali naturali, convogliati sapientemente dalla mano del bosco e aumentava lungo la sua discesa ingrossando il ruscello che sarebbe da lì a poco confluito, Archiano di dantesca memoria, nell’Arno, per raggiungere Bibbiena, le contrade di Poppi e il Castello dei Conti Guidi e poi ancora Firenze, Pisa e infine il mare.

A valle il movimento e la frenesia dei rumori, nella foresta il silenzio, così intenso e pieno della vita dei suoi abitanti.

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Benedetto Calati I suoi occhi, dolcissimi e rassicuranti ma anche fermi e vivaci, centravano

quelli dell’interlocutore, stabilendo un contatto di attenzione reciproca e un dialogo che aveva sempre quale obiettivo un deciso e sereno invito alla fiducia e all’incontro vivificante; accompagnavano efficacemente l’intensità del dire, mentre il tono della voce, caldo e autorevole a un tempo, rendeva la sua comunicazione piena di armonia ed equilibrio, che ben si univa alla quiete della foresta e di quel luogo di accoglienza.

La barba, candida, richiamava, attirandoli come d’incanto, i bambini, che lo cercavano per salutarlo e abbracciarlo e dirgli “tutto il bene del mondo”, mentre giocavano con le pieghe del suo largo saio bianco. Era facile accostare il suo nome, Benedetto, alle caratteristiche della sua parola nella dinamica della comunicazione che scaturiva dall’incontro.

Le parole Tutto sembrava “accompagnare” le parole, rendendole impreziosite di una essenzialità difficilmente definibile. Emozioni, gesti, espressioni e movimenti facevano pensare alla sacralità della vita. Attorno a noi lo spazio intimo del Monastero (Archicenobio), il chiostro, con le piante e i fiori fragranti e i viottoli segnati con detriti e ciottoli raccolti pazientemente, uno a uno, tra i costoni delle arenarie del Sasso Fratino, nel cuore delle foreste casentinese, cornice naturale della cittadella dei monaci di Camaldoli, impegnati nell’ora et labora a studiare la parola sine glossa, o in altre azioni della vita religiosa, quali la liturgia (il canto gregoriano, ad esempio) e la ricerca teologica.

I luoghi della comunità erano quelli di sempre, mura e ambienti che avevano accolto nei mille anni della loro storia l’esperienza della comunità monastica e innumerevoli gruppi di persone alla ricerca di una dimensione esistenziale attenta alla lettura dei segni dei tempi ed alla loro interpretazione. Tra questi, in soluzione di continuità col monastero, la Foresteria, un edificio costruito dai monaci per l’accoglienza e l’ospitalità dei viandanti che passavano per quelle contrade.

Ormai il viandante non aveva le sembianze del “viaggiatore”, ma si caratterizzava per la condizione di ricerca e di impegno costante a raggiungere una meta formativa aperta al rapporto tra la fede e la storia … Si udiva, di fondo, il movimento e il riservato “parlare” degli ospiti, giunti in quella casa provenienti da località diverse, spesso lontane.

Anche qui un chiostro, minore, le scale fregiate con ceramiche artistiche che rappresentavano le azioni della vita comunitaria, le sale, la biblioteca, i luoghi dell’incontro conviviale, la mensa, i cortili e la galleria per raggiungere il declivio verso la foresta.

Gli spazi del Monastero di Camaldoli Scarni e semplici, gli edifici di Camaldoli mostrano la solidità della pietra nuda e si ispirano al principio di una estrema linearità architettonica. Spazi, pitture e rilievi, ma anche i semplici oggetti decorativi, legni, ceramiche e terracotte, sono stati trasformati nel tempo dalla mano artigianale in oggetti d’arte, “povera” e ispirata, realizzati anche dagli stessi monaci.

Mi accadeva di provare forte la sensazione che quella povertà racchiudesse un tesoro grande, inestimabile, non per caratteristiche proprie di un bene

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economico o da valori corrispondenti a qualcosa di tangibile e visibile … Sotto l’arco di una delle porte antiche, chiusa ormai da tempo, stavano adagiati alcuni tini e delle botti di legno di varia grandezza, che contenevano essenze, foglie e radici; ed ancora i frutti essiccati della belladonna, della valeriana, dello stramonio e di altre piante officinali, raccolte per uso curativo e trasformate, seguendo antiche ricette, in tisane, unguenti e balsami per l’Antica Farmacia di Camaldoli.

Come potrò mai dimenticare quei profumi, quelle immagini, quei suoni armoniosi e naturalmente ispirati?

Prodotti della vita della foresta, amata e rispettata dai monaci che l’avevano, nel tempo, mantenuta nella sua natura primordiale e vissuta in un rapporto di profondo e silenzioso amore, sviluppando una esperienza di vita comunitaria di quasi nove secoli. In una dimensione che possiamo definire ecosistemica.

Una gelosa reciprocità Questo rapporto tra l’uomo e l’ambiente assume a Camaldoli, sin dalle

origini, una dimensione di vita comunitaria ed ecosistemica e rappresenta, sul piano della comunicazione e della parola, una realtà amcora viva, propria di ujn sistema integrato, aperto, accogliente, condiviso, creativo, operativo e spirituale, personale e comunitario a un tempo.

Far conoscere questa dimensione è possibile, essendo stata vissuta e

condivisa da tante persone. Penso che ci siano delle parole che possono rappresentarla meglio di altre. Come quelle di una persona che così si esprime a propostito della reciprocità del custodire, atto condiviso dai monaci della foresta:

“(…) Si arriva così ad una reciprocità sorprendente ed esistenzialmente

avvertita: i monaci custodivano una foresta che li custodiva e garantivano la vita alla foresta che garantiva ai monaci il silenzio. Quel silenzio di cui avevano vitale bisogno per poter ascoltare la voce di Dio e degli uomini, e della storia che andavano scrivendo insieme. Una gelosa reciprocità …”.

Già, proprio così amavano definirla: una “gelosa reciprocità.” Tutti i sentieri sembrano partire dal silenzio di questo monastero. Decenni come giorni, non han lasciato traccia sull’arenaria grigia del chiostro di Maldolo D’Arezzo. A sempre uguale il canto degli uccelli e lo svolare lieve di lucciole che accendono la sera. Nel maestoso silenzio il cielo moltiplica gli arcani e fa parere

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ogni ritorno ai boschi come il viaggio d’un astronauta contro il tempo. Nell’immobilità di tutto ogni vita svapora come un sogno e d’altre possibili vite la lusinga si fa toccare. Nostalgia smisurata d’esistenze diverse mai vissute.D’altri viaggi possibili, a partire dall’ombra immane dei castagni, delle pietre, dei coppi alla toscana, dei camini, degli archi e delle ogive, dei sai bianchi pronti pel salterio. Vite diverse con ognuno di voi dolci compagni, con Mansueto, il candido fratello con le mani nascoste nella veste, con Francesco di Poppi, con Rita ed Emilio l’ombroso e Gabriella dolce e sottile come un giunco. Ognuna delle vite mai vissute potrebbe ripartire per incanto da questo istante, da quest’ora nuova che mi porta la musica di un coro. Ogni monaco bianco ed il suo canto sono promessa che nulla muore. Ogni esistenza travasa dolcemente in altre vite uguali, per l’eterno. L’ambiente (la “natura”) da’ significato alla relazione umana A Camaldoli questa relazione si arricchisce di una prassi consolidata nel

tempo, sperimentata e vissuta fino a diventare modello di vita: “Sembra che la natura vi abbia profuse tutte le sue bellezze, dalla fragola di prato al lichene delle rocce, dagli abeti di cent’anni ai fiori d’un giorno…”.

Insieme ai monaci ed alle persone che qui giungono, alla ricerca di un

rapporto pieno con l’ambiente (la foresta), in una realtà di vita comunitaria.

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I monaci hanno da sempre avuto cura della foresta e delle piante: dovevano ogni anno provvedere a porre a dimora con la massima diligenza, da quattro a cinquemila piantine … (fino a quando, con il Regio Decreto del 1866, si determinerà il passaggio delle foreste casentinesi allo Stato italiano).

Mi trovavo nel vivo di una storia di formazione alla vita, che aveva visto passare da quel luogo intere generazioni di giovani, ma anche di famiglie, di uomini e donne, di gente appassionata e alla ricerca dell’incontro e del dialogo.

Partendo dal silenzio e dall’ascolto Posso affermare che l’incontro con il silenzio, su a Camaldoli, ha inciso

profondamente nella mia vita, trasformando il mio modo di comunicare. E’ nel silenzio, a partire dall’esperienza di quel rapporto e di quell’amicizia, che ho imparato ad ascoltare, a comprendere, a leggere … oltre le parole. Curare l’ascolto-

Caro amico mio, siamo chiamati, sopra ogni cosa, al rispetto del mondo interiore che vive in ciascuno di noi. Il nostro essere è fatto di mente, emozioni e sensibilità; dobbiamo riuscire a prendere coscienza della nostra persona per andare verso gli altri, con tutto noi stessi.

Non scordiamoci di riconoscere la bellezza della parola, l’espressione di

questa ricchezza che possediamo. Dedichiamoci umilmente alla cura degli altri anche attraverso l’ascolto, l’altra grande ricchezza della comunicazione. Non possiamo fermarci di fronte alla prima interpretazione della parola ascoltata, di un messaggio di cui riusciamo a cogliere solo la superficie.

Vivere è comunicare e le parole ci accompagnano come l’aria che respiriamo. L’incontro tra le persone è per via delle parole, nei modi più diversi … La musicalità della parola accompagnata dal gesto, dall’intensità dello sguardo, ci induce alla capacità di cogliere, nell’altro, quelle attenzioni che spesso sono attese e desiderate, a sapere ‘leggere’ ciò che sta oltre l’evidenza di una comunicazione semplice o di un’altra apparentemente o sicuramente più complessa. Spesso non ci rendiamo conto di ciò.

O forse, più semplicemente, non vi prestiamo attenzione, come se viaggiassimo col pensiero attraverso lunghezze d’onda differenti. Questo non ci consente di dialogare in pienezza. Dobbiamo fermarci. Ascoltare. Capire. Condividere e comunicare bene, fare comunità, con tutti. Il nostro mondo ha bisogno di fare comunità ….

Di questo parlavamo, spesso, e riuscivo a cogliere nell’espressione del suo

viso un entusiasmo sincero e coinvolgente. Non si poteva riuscire neanche a dargli un’età, avendo l’esperienza e la

saggezza della persona in là negli anni e l’entusiasmo, la curiosità e lo stupore del giovane.

A volte, anche di un bambino … Il suono della campana e il canto del magnificat Il suono della campana ci

ricordò l’ora del giorno e l’approssimarsi della recita dei vespri (1), secondo i tempi della vita religiosa e della Liturgia delle Ore. Lui monaco camaldolese ed

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io, laico, studente universitario della facoltà di psicologia, alla Sapienza di Roma. Di lì a poco, con l’armonia del canto gregoriano, le parole del Magnificat in polifonia si alzarono dal Coro della Chiesa, accompagnate da un suono d’organo.

Il gregoriano, in polifonia, il suono dell’organo, nella cornice di una natura

che partecipava integralmente di quell’evento. I Salmi cantati segnavano il tempo di una storia antica di mille anni, iniziata da Romualdo e dai primi monaci della Foresta per dare testimonianze di laboriosità e preghiera lungo l’Appennino centrale, vicino al Passo dei Mandrioli, sulla dorsale che riunisce tre regioni italiane, tra le più belle:

la Toscana, l’Emilia e, appena più a sud, l’Umbria. L’altra componente della parola, il canto (“cantare è pregare due volte”), che donava al giorno e alla notte, al sole e alla luna e ad ogni essere vivente note di suggestiva bellezza. Quei monaci conoscevano bene il silenzio della foresta, “riserva di alberi e di animali”, delle sue cime, dei suoi valichi e dei suoi crinali.

E capivano l’importanza di testimoniare questo rapporto formidabile con

l’ambiente, in una dimensione ascetica e contemplativa, caratterizzata tuttavia da un intenso lavoro e dagli studi, per la comprensione della storia e dei segni dei tempi.

Con le parole di Salvatore Frigerio, alla ricerca di un antico segreto Ancora una volta prenderò in prestito le parole di Salvatore Frigerio

(monaco camaldolese), per dare il senso pieno a questa condizione di “legame virtuoso”, parole che “rendono ancor più chiara la condizione di reciprocità e di armonia” che si sviluppa attorno alla esperienza e alla storia di Camaldoli e dei monaci della foresta.

Così scrive: “(…) Quel silenzio fu gelosamente custodito e difeso dai monaci che in esso

soltanto vedevano, e vedono ancora, lo strumento e la condizione indispensabile per porsi in una situazione di ascolto e di accoglienza.

Da questa gelosia è nato nei monaci l’amore per la loro foresta e il desiderio sempre più vivo di conservarla, di ampliarla, di arricchirla gestendola con cura competente.

Alla radice del loro rapporto con l’ambiente vi è dunque il silenzio della foresta, che garantisce il loro quotidiano ascolto della Parola (…) in un progetto di armonia universale. Un rapporto di comunione per il quale non esiste prevaricazione né dell’uomo sull’ambiente, né dell’ambiente sull’uomo”. (2)

Un ascolto che non è mai andato via dalla storia, dalla vita nel mondo.

Benedetto Calati, l’Abate dei monaci della foresta L’imbrunire di quel tardo pomeriggio proiettava colori delicati e teneri che

insieme al canto gregoriano suscitava la stessa emozione che si prova ad

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ammirare un’opera d’arte mistica, mentre si predispone l’animo alla meditazione.

Era il giorno di Sabato e alla fine di una giornata di “studio”, i partecipanti ad uno dei tanti convegni che segnavano la vita culturale della comunità monastica, si intrattenevano nel cortile esterno, in attesa di incontrare padre Benedetto, l’Abate di Camaldoli, il Priore Generale dei monaci che “custodivano una foresta che li custodiva”.

Lui amava questo momento che si creava nell’attesa della mensa ed entrava in questo spazio con le braccia aperte e il passo deciso. Erano, le sue, parole che rinsaldavano i ricordi, le storie, la vita di ciascuno. Era possibile osservarlo, mentre si intratteneva con le persone nella spianata, in quella naturale propensione al rapporto umano, all’incontro.

L’immagine evocava l’armonia della vita nella dinamica esistenziale di un rapporto con la natura attento all’incedere progressivo dei tempi, in una dimensione di mediazione tra fede e storia, di costante attenzione per la persona e la comunità, con l’esperienza di dieci secoli di spiritualità dell’oriente cristiano.

Era entusiasmante partecipare a questo “incontro”, da laici, attenti ai valori

del silenzio, dell’ascolto, del dialogo comunitario, per assumerli nel proprio modello di vita. Stavo lì e percepivo il tempo che procedeva lento, riconoscendo i sentimenti e le emozioni e accompagnando il pensiero con la dolcezza del canto e l’armonia della natura, sentendomene parte …

Ascoltavo padre Benedetto Calati e le sue parole, antiche e preziose. Parlavo con lui e mi accorgevo della ricchezza della dimensione del dire, dello spessore della comunicazione, del rapporto tra la persona, gli altri e l’ambiente.

I contenuti erano quelli della vita e gli interrogativi rappresentavano la paziente raccolta di mesi, da portare in quell’incontro per analizzarne l’essenza e provocarne le risposte. Riuscivo a cogliere il significato della scelta del perché quella parola e non un’altra, e la storia che ne accompagnava il significato e, ancora, come l’ascolto trovasse con facilità lo spazio e il modo per poterla prendere, quella parola. Provavo una sensazione di benessere.

Quella sera, lungo il sentiero della fonte della Duchessa. La sera prima avevamo fatto una lunga “scarpinata”. Il mormorio del vento

leggero soffiava sulle cime degli alberi: su fino alla radura dell’Eremo, lungo il sentiero della fontana della Duchessa con la sua faggeta e l’abete bianco. Un percorso “in salita”. che faceva pensare alla fatica del giungere alla méta ma, nonostante la discreta asperità del terreno, permetteva di affrontare tanti discorsi.

Mi diceva, Benedetto, che non si può non comunicare: “ … tutto è

comunicazione, anche il silenzio”. (3) Il suo modo di discorrere era ricco di riferimenti sociali e culturali, utili per una interpretazione attenta, analitica della storia, attraverso ed in costante riferimento alla lettura dei segni dei tempi ed alla personale capacità di discernimento. Così pure l’esegesi della

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Parola e la capacità di cogliere il valore del pensiero, frutto di un lungo e appassionato studio.

Era curioso di sapere “sui meccanismi della mente” e dei modi di

funzionamento del cervello, i processi e le componenti dell’atto cognitivo. Ero io a parlare, allora, e a raffigurare la complessità dell’uomo. Per i sentieri incontravamo altre persone, che si avvicinavano per un saluto. Alcune facevano con noi un pezzo di strada, aggiungendo parola alle parole, come in un discorso collettivo, comunitario.

Mi affascinavano le parole ed il racconto che continuamente si sviluppava in

modo sequenziale, adattandosi tuttavia ai tratti propri del dialogo. Vi trovavo una strettissima somiglianza con quanto studiavo di psicologia e di pragmatica della comunicazione umana.

Avevo modo, in quelle conversazioni con Benedetto, di dare corpo alle regole fondamentali della comunicazione, gli “assiomi” della scuola di Palo Alto, attraverso le parole di un “padre”, di un monaco, con la esperienza dei suoi anni, ma così giovane, fresco, nell’ardire dell’arte della parola e dell’ascolto.

L’arte della parola, lo stupore per le cose semplici … Della parola in particolare, che aveva studiato a partire dai libri, quelli

sacri, ma anche quelli di autori esperti in tanti ambiti dello studio e della ricerca, che era diventata una compagna, tra le più amate, della sua vita.

Benedetto, uomo di umili origini, era stato un “autodidatta” prima di

alimentare la sua sete di conoscenza con le letture religiose, umanistiche, socio-politiche e scientifiche. Era diventato un esperto di “patristica” ed uno studioso riconosciuto a livello mondiale di Gregorio Magno, padre della Chiesa. Quello del canto gregoriano, appunto …

Gli incontri, quelli che lui chiamava “i colloqui”, con la gente, anche la più “lontana”, avevano la stessa pregnanza delle sue “predicazioni” o degli incontri di comunità propri della vita monastica: la comunicazione come scelta esistenziale, prassi comunitaria, arte dell’espressione dell’uomo, cultura e vita.

Sono stato “amico”, fratello fedele e appassionato, di quest’uomo che amava la parola, amorevolmente immerso nella ricerca di nuovi cieli e nuove terre da far conoscere, dopo aver provato lo “stupore” per la semplicità delle cose e la magnificenza del silenzio e dell’ascolto.

Non era raro cogliere l’espressione della scoperta quando entrava in

contatto con qualcosa di nuovo; una parola o un sentimento, appunto, che accendesse quel suo “stupore”.

Ce lo comunicava, con quelle sue parole brevi e chiarissime, facendo permanere il messaggio in noi, per sempre. Come una sera, quando, citando Gregorio, ci disse: “(…)

L’ultimo dei credenti può interpretare la parola come me …”, suscitando per questo, addirittura, l’interesse e l’attenzione vera, persino di coloro che erano

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distanti dalla sua fede. Per molti era un’occasione unica, una dimensione ricca di speranza. Erano i tempi del Concilio Vaticano II …

La parola che sana La parola, una risorsa umana che va curata e alimentata, nel senso dell’I

care di don Lorenzo Milani e della sua scuola di Barbiana (a due passi da Camaldoli …), per sostenerla, contenerla, porgerla, offrirla, ascoltarla: “Bisogna dedicarsi all’ascolto. Pippo mio, tu sei una persona di ascolto. Oggi c’è bisogno di te. Anche qui, tra noi, in questo luogo. C’é bisogno di te … Ma ricordati della bellezza della parola data e ricevuta e ricordati del bene prezioso che rappresenta per sanare. La parola cura e sana”. (4)

Capii subito che non mi stava proponendo di entrare nell’ordine e di

accettare la regola monastica di Romualdo. Mi invitava semplicemente a stabilire un “contatto” vitale: un colloquio, appunto. Fatto di amicizia e di condivisione ma anche della possibilità di sperimentare e migliorare la comunicazione. Anche per altro e, chissà, forse, per altro ancora. Il sentimento della tenerezza

Mi raccontò tante cose sul bene della parola, che dà sollievo e aiuta nelle

diverse occasioni del vivere. La parola data e quella ricevuta nelle mille condizioni di esclusione e di emarginazione, nella sofferenza della malattia e nella incomprensione, nel lavoro e nella famiglia, nel gruppo, in politica. Anche nella chiesa.

Sentii che le sue parole erano solo apparentemente semplici. Percepivo la carica di una grande vitalità, mentre tutto in lui mi evocava il sentimento della tenerezza. Uomo della terra del Sud (era nato nella penisola salentina, in Puglia), suscitava buoni sentimenti e dava corpo a corde altrimenti silenti: capivo la responsabilità che ne veniva e quanto potesse incidere sulle mie scelte future.

Ci conoscevamo da poco, ma fin da allora, appena possibile, scappavo per

tornare a Camaldoli e salire la strada del Casentino, tra la piana dell’Arno e le colline di Bibbiena e avanti fino alla Mausolea, la storica cooperativa creata dai monaci e dai contadini del luogo, con gli armenti, i vigneti ed i campi coltivati o per il foraggio, fino al bivio di Serravalle e poi su, ancora, per l’ultimo tratto, dentro la Foresta che sulla carta geografica dell’Italia ne rappresenta il cuore.

Arrivavo fino all’Eremo, spesso, per riscoprire il silenzio puro, dell’ascolto e della preghiera, “che fa il giorno e la notte e poi ancora il giorno e le stagioni che portano i loro colori e i loro lievi rumori”.

La F.u.c.i. Tornavo così alla voglia di riprendere la parola, con Benedetto, e ascoltare

e dialogare: la mia scuola di formazione all’ascolto, tra la natura della riserva casentinese e le melodie gregoriane, lungo la strada dei viandanti che si fermavano alla Fonte bona, la fontana di un’acqua dissetante e pura. Coi gruppi che si alternavano, anche per pochi giorni, in quel villaggio dello spirito, ma così profondamente umano.

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Mi accingevo a laurearmi in psicologia alla Sapienza, di lì a poco, e a continuare la formazione nel settore della terapia sistemico-relazionale e umanistica; frequentavo la Fuci (ne diventai in quegli anni il segretario del Consiglio Centrale Nazionale) e organizzavo a Camaldoli le settimane teologiche, che vedevano quali relatori Carlo Maria Martini, Raniero La Valle, Marco Cé, Maria Iraci, Bartolomeo Sorge, Ernesto Balducci, Vittorio Bachelet, Emanuele Bargellini …

Una volta incontrai Giorgio La Pira e parlammo della profezia della speranza, del bisogno di abbattere i muri e costruire ponti per comunicare, dei suoi viaggi in Vietnam e nell’Est per tessere la pace, con le sue parole, fortemente disarmanti.

E Davide Turoldo, che con le parole aveva scritto nuovi Salmi di lode. E ancora Enzo Bianchi, che si accingeva a scrivere “Ricominciare …”. Questi e tanti altri: tutte persone del dialogo, cultori della parola e

dell’ascolto. Testimoni del tempo, mediatori tra la fede e la storia, cultori di quell’arte

antica che è rappresentata dalla capacità di ascolto e del dono della parola comunicata, segno di un tempo che si rinnova continuamente nell’oggi di ciascuno di noi.

Continuammo e continuiamo a salire a Camaldoli, con Enza Maria, mia

moglie, e coi miei figli, Daniele e Andrea, e con noi tanti amici: adulti, genitori, giovani, amici, persone variamente impegnate nella vita, per incontrare e ascoltare i monaci della foresta. Per vivere un po’ del tempo insieme.

Padre Benedetto non c’è più, da diversi anni. Ma sembra sia a Camaldoli, ancora … quando guardiamo ai luoghi della sua

testimonianza. E un po’ anche in ciascuno di noi. Ci rivediamo, spesso. Amiamo quei luoghi. Quelle parole, ancora così vive … Ho trovato altre parole che somigliano a quelle amorevoli e premurose di

Benedetto Calati. Ne propongo una parte, che trascrivo fedelmente, nel tentativo di riuscire a

rispettarle, nella loro fattura. Inizio con le “prime parole”, relative al tentativo di analisi di un mondo, alle quali faranno seguito altre parole, le seconde.

“L’argilla del mondo ha bisogno di un soffio. Il soffio delle parole. Quando l’argilla e il soffio si incontrano, sgorga la vita. Così è successo all’inizio, nella notte dei tempi, così accade ogni giorno. Da una parte la materia, un pezzo di terra, un po’ di carne.

Dall’altra parole. Parole che si insinuano nelle crepe della materia e la mettono in moto.

parole che penetrano la terra rendendola fertile. Parole che fanno l’amore con la carne così da far nascere i corpi delle donne e degli uomini”. (5)

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E quasi a segnare il tempo trascorso e l’incedere della storia, questo scritto così continua: “Oggi, al posto delle parole, bolle di sapone, leggere, libere, iridescenti ma vuote.

Ed è per questo che i nostri corpi non sussultano più e dormiamo senza sogni e ci svegliamo con l’idea di sapere già tutto a memoria, di conoscere ormai l’esistenza in ogni suo penoso ingranaggio e che nulla più ci possa stupire o insegnare qualcosa.

Siamo senza nome, persi in un dormiveglia. Ma basta il suono di una frase giusta e in un attimo siamo di nuovo noi: nome e cognome, fame e curiosità, desiderio di felicità e voglia di giustizia …”. (6)

Queste parole potrete trovarle nel prologo di un libro, a cura di Giovanni

Colombo, Presidente nazionale della Rosa Bianca. Parole pesanti, queste seconde, ma anche cariche di speranza per il

dialogo, per il “colloquio” che ci ha insegnato Benedetto. Mi hanno fatto pensare alla necessità di riprendere quel “dialogo” e

riproporlo così come voleva lui, con quella formidabile testimonianza che sapeva tanto di storia ma anche di attualità, di condivisione vera in una prospettiva di speranza, in una contagiosa voglia di vivere.

E’ passato esattamente un tempo lungo, trent’anni, dal primo incontro con

Benedetto a Camaldoli e l’essenza della parola rappresenta per me, ancora, la sua capacità curativa.

Le parole che allontanano la paura, che esprimono gioia e segnano il tempo del lavoro e del canto.

La parola che cura e sana, come nella poesia di una canzone di Franco

Battiato: “… e io avrò cura di te”. La risposta a quell’altra, parola anch’essa, che esprime una richiesta di aiuto, forse attraverso un grido estremo, un urlo: il bisogno naturale di essere ascoltato, nella dimensione della solidarietà, magari attraverso il “prendersi per mano”, per un tratto del cammino della vita.

Abbiamo già detto dell’I care … Anche con la psicologia e la sua attenzione per quel mondo interiore ancora

in gran parte da esplorare rappresenta un’ancora utile per fermarsi e osservare che la vita ci sta attorno e ci tocca, ci coinvolge in mille modi.

E’ ancora il tempo di Camaldoli Quello di Camaldoli è un tempo che non finisce, con le dimensioni del

vivere rappresentate dal silenzio, dall’ascolto, dal dialogo e da una dimensione ecosistemica “Io–altri–ambiente”.

Sono tutte condizioni fondanti di una visione integrale della vita, che sta anche alla base della psicologia e della dinamica della comunicazione umana.

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Da Benedetto, da quel suo parlare entusiastico e profondo, ho appreso il

metodo di lettura dei simboli e delle idee primordiali, gli archetipi, e l’ascolto attento.

Ho sentito l’empatia sottesa alla comprensione delle “storie” della vita,

condividendone il vissuto. Ho imparato ad amare le parole e a rispettarle nella persona che le porge. Ho apprezzato l’essenza della parola data e di quella ricevuta e il dono della

gratuità che a volte si realizza, proprio così, con semplici parole … Ho compreso il valore della comunità e della persona, l’identità plurale, la

metacomunicazione, gli stili personale dell’apprendere, i linguaggi. Ho iniziate ad amare la psicologia, che parte dall’osservazione della

persona e della sua azione nel rapporto con gli altri e con l’ambiente. Ancora in me l’effetto è presente. Pure il richiamo di quel luogo. Insieme all’affetto per il ricordo di quell’uomo … Note: 1. La lode che da più di un millennio sale ininterrottamente a Dio da questo

Monastero ad opera di generazioni e generazioni di Monaci che hanno fatto del Salterio il loro canto ufficiale sulle note immortali delle melodie gregoriane.

2. Salvatore Frigerio, monaco camaldolese, studioso della comunicazione,

pittore e scultore. 3. Con le stesse parole, Watzslawick e Bateson in quegli anni sviluppavano

i fondamenti della “Pragmatica della comunicazione umana” dove si analizzano tra l’altro gli Assiomi della comunicazione, il primo dei quali, appunto, afferma che “non si può non comunicare”.

4. Io ho cura di te. Oppure: “m’interessa”. Il maestro don Lorenzo Milani

utilizza questa frase, in inglese, per dare vita ad un concetto psicologico che si riferisce all’atteggiamento ed alla scelta solidale, condizione che favorisce il dialogo e la comprensione dell’altro e del suo mondo con una condizione di estrema apertura e condivisione umana.

5. Persona e comunità, Città Aperta Edizioni, Troina (En), 2003 6. Ibidem

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Carmelo S.Anna - Spiritualità

Silenzio e parola "Sia ognuno pronto ad ascoltare, lento a parlare" (Gc 1,19) Un essere in relazione L’uomo è creato per la relazione. Egli è un essere comunque in relazione: con se stesso, con la realtà che lo

circonda, con gli altri, con l’Altro. Per essere felice, deve imparare a vivere in modo costruttivo e positivo

questa sua insita e costitutiva relazionalità, dono del Creatore alla sua creatura "fatta a sua immagine e somiglianza".

Silenzio e parola sono strumenti / mezzi che, in ultima analisi, sono

finalizzati a questo scopo, a quella che è la grande vocazione dell’uomo: il dono di sé. Silenzio e parola: due strumenti che vanno conosciuti e usati

La famiglia, luogo dove si sperimentano le prime profonde relazioni umane Per poter essere usato adeguatamente, ogni strumento deve chiaramente

essere scoperto, conosciuto in tutte le sue potenzialità; a ciascuno, poi, compete la responsabilità personale di decidere come usarne. Silenzio e parola sono potenti mezzi di comunicazione; la parola è per la relazione, ma anche il silenzio è a servizio della relazione. Essi devono interagire con saggezza ed equilibrio. La "medaglia" della relazione-dono di sé ha due "facce": il silenzio e la parola.

Il silenzio e la parola: due realtà contrapposte? Questi due vocaboli e realtà dell’uomo possono sembrare antitetici e, in

effetti, è apparentemente così, perché chi fa silenzio non parla e, chi parla, non tace.

Fondamentalmente, però, sia il silenzio che la parola sottintendono una realtà più profonda e misteriosa – quella ontologica dell’uomo - né possono definirsi incompatibili, ma l’uno illumina e dà senso all’altra. Dal punto di vista di un atteggiamento interiore, profondo, essi sono - allora - complementari.

Silenzio e vita – parola e desiderio Mentre è più facile pensare al concetto di parola e affiancarla, con

naturalezza, all’idea di relazione, rimane più difficile concepire il silenzio come uno strumento che conduca o faciliti un rapporto interpersonale.

La domanda è: può il silenzio creare, stabilire, un rapporto, una relazione?

Se, come molti sperimentano, talvolta anche una sola parola può addirittura mettere fine ad un rapporto d’amore, d’amicizia, familiare, ecc… dobbiamo

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pensare che anche il silenzio possa servire a creare e mantenere un vero rapporto interpersonale. D’altronde, come forse tutti ne abbiamo l’esperienza, davanti a grandi drammi o a sofferenze inspiegabili e atroci (come una malattia terminale o una morte improvvisa), si preferisce non parlare o parlare tacendo. Il silenzio, in questo caso, diviene presenza espressiva e affettuosa.

Esiste, dunque, un silenzio che chiameremo "loquace" e una parola

"silente". Cioè un silenzio che parla, capace di dire qualcosa e una parola muta, che non dice nulla a chi ascolta. Un testo di psicologia afferma che "noi siamo quello che diciamo", ma parimenti siamo anche "quello che viviamo", che "facciamo", senza bisogno di tante parole.

Dire o fare? Si può dire e fare, ma si può anche fare senza dire nulla, è

possibile "costruire" in silenzio e "demolire" parlando. E’ la nostra vita che deve parlare a noi stessi e agli altri. Talvolta il nostro silenzio si rivela costruttivo, fattivo e loquace più di mille parole.

A volte ci sono silenzi che sono parole e parole che sono silenzio. Capita, a

volte, di dire tante parole, ma non ciò che dobbiamo dire e, quindi, si parla, ma è come se si tacesse. Ci sono, invece, silenzi carichi di parole.

Anche il silenzio è spesso un modo "eloquente" di comunicare Un silenzio può essere una risposta – naturalmente da interpretare – ma

pur sempre espressione di qualcosa che si vuole dire, comunicare all’altro. Tacendo, a volte, si evita di dire ciò che è meglio omettere e quindi, in realtà, si comunica, seppur con una "assenza" di parole.

Cosa insegna a riguardo la psicologia "Saper frenare la lingua" (Salmo 39, 2), "Porre una custodia alla proprio bocca" (Salmo 141, 3), preserva da tanta faciloneria, dalla superficialità, dall’avventatezza e

dall’imprudenza. Dovremmo educarci a frapporre – come anche la psicologia insegna – un

"intervallo" tra stimolo e risposta, tra azione e reazione, affinché la nostra parola – sia verbale che interiore – non scaturisca da impulsività o automatismi dell’inconscio, ma sia frutto di una scelta libera e consapevole.

Per parlare con libertà e coscienza, bisogna sapersi educare al silenzio, inteso come una predisposizione all’ascolto profondo di se stessi e dell’altro.

Il silenzio Il silenzio può dunque essere lo spazio che prepara la parola. Interpretato

come fine a se stesso, non avrebbe senso; o, meglio, agirebbe nella nostra vita con una valenza negativa di chiusura, fuga, ripiegamento su se stessi, visto che abbiamo affermato che l’uomo è un essere in relazione e la parola è un mezzo di relazione.

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Il silenzio, ancor prima di essere possibilità di riflessione (quindi vi è un silenzio prima e un silenzio dopo la parola), deve essere spazio per l’ascolto, capacità di accoglienza, recettività senza pregiudizi, disponibilità libera dalla presunzione di sé.

Il silenzio, così inteso, può paragonarsi a quel terreno buono di cui leggiamo nel Vangelo (Luca 8, 8) capace di ricevere il seme della parola: della Parola di Dio e della parola (a volte un po’ inquinata) dei propri simili.

Il silenzio, ancora, educa e rafforza nella vigilanza, che è attenzione al

vissuto fin nei dettagli, capaci di rivelare - ad uno sguardo penetrante - la novità che si nasconde persino nella monotonia, nel quotidiano banalizzato ma mai banale e che sfugge ai più.

Per il cristiano questo atteggiamento ha un nome: è l’atteggiamento contemplativo. L’uomo è reso capace di vedere l’invisibile (Ebrei 11, 27).

In una bellissima preghiera, Etty Hillesum scrive: "Tutto avviene secondo

un ritmo più profondo … che si dovrebbe insegnare ad ascoltare: è la cosa più importante che si può imparare in questa vita. Il silenzio può così essere strada che conduce alla profondità.

Ecco perché le grandi donne e i grandi uomini dello spirito hanno amato e vissuto il silenzio" (Diario di Etty Hillesum, Adepti Edizioni, Milano 1985).

Vari tipi di silenzio (positivo e negativo) Abbiamo visto come l’atteggiamento di silenzio sia capace di costruire una

relazione; anzi, ne ponga decisamente le fondamenta, tanto quanto la parola espressa, intesa come manifestazione esterna di se stessi all’altro.

Si vengono così a delineare vari tipi di silenzio, che possono avere una valenza più o meno negativa, tanti quanti sono i modi personali di interpretazione a cui va soggetto il termine medesimo.

- Il silenzio di ascolto è quello che ci permette di ascoltare l’altro fino in

fondo, per capire cosa vuole dire e accogliere il messaggio che ci sta trasmettendo. Permette all’altro di esprimere completamente se stesso e il suo pensiero, quando non viene interrotto nel suo parlare.

Anche per il mondo della natura si può parlare di "silenzio" eloquente..." - Il silenzio reciproco è quello di chi si comprende senza bisogno di troppe

parole e avviene quando c’è una conoscenza e comunione profonda fra le due persone che comunicano.

- Il silenzio di carità è quello che volutamente tace tutto ciò che può

nuocere all’altra persona, che non mette in evidenza il male, non mormora. - Il silenzio di indifferenza è quello in cui non si vuole comunicare all’altro,

non interessa ciò che l’altro ci dice.

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- C’è un silenzio offeso e risentito, proprio di chi non è in pace con se stesso e con gli altri e si isola.

- C’è un tipo di silenzio che è peccato, perché si omette ciò che si dovrebbe

dire, oppure che può esprimere indifferenza e lontananza da Dio: il silenzio di chi non prega e non comunica con il Creatore.

- C’è il silenzio del perdono, che si instaura quando si evita di sottolineare,

rinfacciare, ripetere continuamente gli sbagli e i difetti altrui. Il silenzio: dono o penitenza? Il silenzio può essere un dono o una sorta di penitenza, concepito quasi

come un’ammenda o come una limitazione, dipende da come lo si concepisce, lo si vive, dal contesto in cui si è chiamati a incarnarlo.

E’ un dono quando diventa lo spazio per incontrare Dio, per comunicare

con Lui e, in Lui, con gli altri. E’ più facile "incontrare" il Signore in questo contesto silente che in mezzo a tanti rumori.

Dio ci parla attraverso il suo silenzio. La contemplazione è l’incontro di due silenzi: quello di Dio e quello

dell’uomo. Chi impara a pregare veramente, impara ad ascoltare il Verbo silenzioso e

incontra il Silenzio che interpella, impara ad ascoltare e sa veramente relazionarsi anche con gli altri uomini.

A volte, però, il silenzio può essere una penitenza. Ci sono momenti in cui è difficile non parlare, perché ciò diventa un

bisogno. E’ difficile tacere quando non si è compresi, quando si è stati offesi, quando l’altro vuole avere sempre ragione e vuole sempre l’ultima parola sulle decisioni, quando vediamo comportamenti sbagliati negli altri, quando abbiamo una sofferenza, quando capiamo che l’altro ci giudica male.

Quando si riesce a vincere il bisogno di parlare e si sa tacere, il silenzio

diventa "penitenza" che ci insegna a dominare le nostre passioni e che, anche con dolore, ci apre la via ad una forma di ascesi che conduce ad una vera maturità umana e cristiana. Si sperimenta, allora, una grande pace e si riesce a dominare anche i propri pensieri rettificandoli e trasformandoli in positivi, ritrovando l’equilibrio interiore.

"Gesù tace anche con la sua morte, per tornare a parlare con la Resurrezione."

Importanza e rischi del silenzio Il silenzio, allora, diventa predisposizione all’ascolto, all’accoglienza e alla

comunicazione con gli altri e con l’Altro. Ci aiuta ad evitare il male che facilmente si potrebbe commettere parlando;

ma nasconde anche dei rischi. Un silenzio può essere una contro-

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testimonianza. Infatti, ci sono cose che vanno dette al momento opportuno e anche non opportuno.

Altro pericolo è quello dell’isolamento. Chi tace, non si confronta con gli

altri, rimane con le proprie idee e con il proprio modo di essere, non si apre all’alterità. Chi tace, non dona se stesso e, quindi, si impoverisce.

Il silenzio del Signore Innumerevoli sono gli esempi del silenzio nella Persona di Gesù e del suo

riferimento al silenzio. Gesù ha fatto silenzio pur parlando e ha parlato pur facendo silenzio.

Gesù "tace" quando manifesta al Padre il suo perdono per gli uomini. Negli anni della sua formazione umana e spirituale a Nazareth non

predicava ancora come fece in seguito, ma anche dopo il suo annuncio pubblico fu con il silenzio della sua stessa vita (Luca 2, 51) che si fece conoscere.

Gesù sceglie spesso luoghi solitari in cui andare a pregare (Luca 5, 16).

Gesù insegna a far tacere i sentimenti negativi amando i propri nemici (Luca 6, 27).

Ascoltando Gesù che parla, folle intere tacciono, non parlano, ma ascoltano (Luca 10, 39). Alla domanda che gli porrà Pilato, Gesù non risponderà nulla (Luca 23, 9) o, in altri frangenti, risponde senza dire ciò che gli altri avrebbero voluto sapere e sentire dire da Lui.

Gesù tace con la sua morte (Luca 23, 46) per tornare a parlare dopo la Resurrezione. Gesù ci mostra un esempio da imitare nell’equilibrio e discernimento con cui va usata la parola e il silenzio.

La Parola di Dio Nella Sacra Scrittura si trovano innumerevoli esempi che esprimono il

valore della Parola di Dio e le caratteristiche della parola dell’uomo. I Libri sapienziali sono quelli che più ampiamente trattano questo tema.

E’ qui, infatti, che troviamo l’invito ad ascoltare, accogliere, custodire, meditare, non dimenticare, non allontanarsi dalla Parola di Dio e chiaramente viene affermato che i vantaggi derivanti da questo atteggiamento di fede sono quelli di essere fin d’ora considerati beati, di vivere tranquilli e a lungo.

La parola dell’uomo Attraverso le parole, l’uomo esprime se stesso, i suoi pensieri, i sentimenti,

le sue opinioni. Nei Libri sapienziali viene descritto il parlare dell’uomo nei suoi aspetti

positivi e negativi. Come bisogna parlare? Con prudenza, sapienza, scienza, amabilità, calma, controllo di sé,

saggezza, rettitudine, sincerità, lealtà, gentilezza, pesando le parole, frenando la bocca.

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Come non si deve parlare? E’ consigliato non essere arroganti, non fabbricare menzogne e calunnie, non parlare troppo, non ingannare, non adulare, non usare parole dure e pungenti.

Similitudini La parola dell’uomo è positivamente paragonata ad un albero di vita, ad un

favo di miele; negativamente ad un pavimento su cui si scivola, ad un laccio, ad una spada, alla morte, a ghiotti bocconi, ad una ferita al cuore, ad acque profonde.

Pericoli e danni nel parlare Parlare porta delle conseguenze che bisogna attentamente valutare, le

parole possono aiutare gli altri, ma possono anche danneggiarli e lo stesso vale per se stessi.

Con molta facilità si sbaglia quando si parla, per questo è necessario riflettere prima di parlare.

Chi non usa rettamente delle sue parole va incontro alla rovina, danneggia se stesso, diventa vittima delle proprie labbra; si incorre nel pericolo di essere egoisti, gli altri possono ripetere quanto hanno udito da noi e c’è il rischio di rivelare segreti, di tradire, di perdere la fiducia.

Facilmente cade in colpa chi parla.

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MAUNA - Una sorgente di silenzio e di energia

I grandi pensatori sono stati anche grandi parlatori? L’essere spiritualmente evoluto si riconosce dal fiume di parole in cui

annega chiunque si avvicini a lui? Le parole crociate ci aiutano veramente a sviluppare l’intelligenza o

rappresentano uno dei più pericolosi “vampiri” di energia mentale? Sappiamo davvero come dovremmo utilizzare al meglio la nostra energia

mentale? Una volta, molto tempo fa, un discepolo di nome Bahashkali si avvicinò al

suo guru che si chiamava Bhava e gli chiese: dov’è l’Eterno e il Supremo Assoluto Brahman (Dio Padre) di cui parlano le Upanishad? Il maestro però non gli rispose e rimase in profondo silenzio.

Il discepolo continuò e glielo domandò nuovamente, ma, nonostante ciò, il

maestro non rispose in nessun modo e continuò a rimanere zitto e immobile. Solo alla fine disse: “Io ti ho già risposto ogni volta, ma tu non sei stato

capace di capire. Cosa posso fare? Brahman (Dio Padre), l’Assoluto o l’Eterno, non può

essere spiegato con le parole! Solo in un profondo silenzio pieno di aspirazione e di amore qualcuno può

conoscerLo. Non esiste luogo in cui Egli possa essere trovato al di fuori del profondo

piacere del Sé Supremo (Atman)! Questo Atman è, prima di tutto, eterno Silenzio”.

La pace oltre il suono è Dio Dio Padre o Brahman è, prima di tutto, eterno silenzio. L’anima, nel suo

profondo, è silenzio. La pace mentale è silenzio. Atman (il Sé Supremo) è silenzio. Il Silenzio è il linguaggio essenziale di Dio, l’Eterno Misterioso. Il Silenzio è il linguaggio profondo del cuore e il vero linguaggio del saggio,

poiché, in primo luogo, il silenzio rappresenta un potere immenso che costituisce una prova vivente della verità eloquente di Dio.

Il silenzio di cui si prende profondamente coscienza è Dio. Di conseguenza,

è il substrato ultimo o l’essenza di questo corpo, del prana e della mente. Il silenzio è il fondale su cui si proietta tutto l’universo dei sensi, è una misteriosa realtà.

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Quella pace profonda beatifica che trascende ogni comprensione razionale è il vero silenzio. L’essenza della vita, ma anche il fine dell’intera nostra esistenza, è il silenzio.

Oltre tutti i rumori e tutti i suoni si trova il silenzio. Esso è la caratteristica di quelle coscienze che percepiscono direttamente la

realtà, attraverso un’esperienza intuitiva estatica. È, in realtà, il tuo essere profondo.

Essere sprofondato nel silenzio significa, di fatto, aprirti completamente per essere tutt’uno con Dio.

Proprio per questo, lo scopo ultimo della vita può essere considerato (senza errori) la reintegrazione perfettamente cosciente nel silenzio misterioso ed intenso, beatifico di Dio.

In questo senso troviamo molti esempi: il messaggio del deserto del Sahara è silenzio; il messaggio dei monti Himalaya è silenzio; il messaggio del saggio Avadhota, che vive nudo sul lago ghiacciato Kangotri o Kailash, è silenzio.

Quando il tuo cuore è pieno di amore di Dio e quando sei circondato dall’estasi, allora sei nel silenzio.

Chi può descrivere con le parole la gloria del silenzio? Non esiste balsamo guaritore più buono del silenzio per quegli uomini che

hanno il cuore indurito a causa degli insuccessi, delle delusioni o delle perdite. Non esiste miglior rimedio del silenzio per coloro che hanno i nervi tesi al massimo, a causa delle loro vite tumultuose, dello stress e dei litigi di ogni tipo.

Ogni volta in cui raggiungiamo lo stato di sonno profondo e senza sogni

sperimentiamo il misterioso ed ineffabile stato di silenzio, ma il velo dell’ignoranza (avidya) nasconde quest’esperienza alle nostre coscienze.

Il silenzio che raggiungiamo durante il sonno profondo e senza sogni, come il silenzio che si diffonde naturalmente in tutta la natura quando cala la notte, sono prove dell’esistenza di quell’oceano misterioso ed infinito di silenzio o Brahman (Dio Padre).

Dal silenzio fisico, lo stato di riposo perfetto della mente Nel caso dell’uomo comune, la mente è quasi permanentemente turbata o

stuzzicata da almeno uno degli undici “organi” (indriya) ad essa subordinati [si tratta dei cinque organi della conoscenza: olfatto, gusto, vista, udito, tatto; dei cinque organi di azione: le corde vocali, le mani, le gambe, gli organi di escrezione e gli organi sessuali; e infine del mentale inferiore (manas), che agisce come un filtro sui generis frapposto tra i sensi e la coscienza dell’ego].

Per ottenere il pieno controllo sulla mente è necessario quindi calmare la volontà di attività di questi organi.

Solo allora in noi si rivelerà il silenzio. A livello della comprensione intellettuale comune, rimanere zitto per un

certo periodo di tempo senza parlare con nessuno significa ritirarti nel silenzio,

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ma, per estensione, quest’esperienza può essere applicata anche ad altri ambiti.

Ad esempio, se il tuo migliore amico non ti scrive per un lungo periodo penserai: “il mio amico manifesta un lungo periodo di silenzio e non so perché”; se durante una conferenza l’oratore si ferma per alcuni momenti durante una lettura appassionante, potremmo interpretare questo fatto nel seguente modo: “quella sera, durante la conferenza c’è stato un attimo di silenzio”; se fossi in India e incontrassi due uomini che hanno raggiunto lo stato di santità (sadhu), è possibile che uno di loro ti dica: “quest’uomo santo (sadhu) è costantemente nel silenzio (mauna).

È mio amico e rispetta rigorosamente questo tapas da sei anni”. Tutto ciò rappresenta il silenzio fisico. Se invece decidi di non vedere più, chiudendo gli occhi, e ti allontani

costantemente dagli oggetti con la pratica di pratyahara o dama (il perfetto controllo degli organi di senso), attirerai a te il silenzio di un indriya, la vista.

Se decidi di non sentire più suoni significa che hai ottenuto il silenzio di un altro indriya, l’udito.

In modo simile, il digiuno alimentare completo durante i giorni santi di festa presuppone un silenzio di un altro organo di azione (indriya), la lingua.

Se non farai nessun movimento e praticherai la postura del loto (padmasana) per tre ore, otterrai la calma dell’attività delle mani e dei piedi. Tutte queste cose sono utili, ma ciò che bisogna desiderare più di tutto è il silenzio dall’agitazione mentale.

Possiamo rispettare rigorosamente il tapas del silenzio fisico, e ciononostante la nostra mente può continuare a generare sempre nuove immagini.

In questo modo il pensiero (chitta) potrà portare nuovamente nel campo

della nostra coscienza ogni tipo di ricordo. L’immaginazione, la motivazione, il riflesso e altre varie funzioni della

mente non fermeranno necessariamente la loro attività solo se si rispetta rigorosamente il giuramento del silenzio fisico.

Dunque, dobbiamo capire che non possiamo avere la garanzia di raggiungere una reale pace e un perfetto stato di silenzio interiore soltanto attraverso questo tipo di silenzio!

In questo caso, l’unica soluzione è che l’intelletto rallenti a poco a poco il

suo funzionamento quando non abbiamo bisogno di lui. Questa funzione del corpo astrale dovrebbe essere quindi in uno stato di

riposo perfetto, per poterla trascendere più facilmente. È necessario far sì che tutte le fluttuazioni della mente siano

completamente bloccate. La nostra mente deve riposare quindi nell’oceano del misterioso Silenzio o Brahman (Dio Padre).

Solo allora possiamo percepire veramente la reale ed eterna calma misteriosa.

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I quattro giuramenti Il significato letterale della parola mauna è “giuramento del silenzio” ma, in

realtà, esistono molti tipi di mauna: 1. il controllo completo della parola è chiamato vak mauna. Di

conseguenza, se mantieni l’organo di azione della parola (vak indriya) perfettamente tacito, questo è il vak mauna;

2. il completo arresto di tutte le azioni fisiche volontarie è il coshta mauna.

Lo stato perfetto di coshta mauna è estremamente utile soprattutto per gli aspiranti che cercano la rivelazione del Sé Supremo (Atman).

Non devi muovere neanche la testa. Non devi far nessun segno. Non devi scrivere niente sulla carta né esprimere idee in alcun modo. Con

lo stato di vak mauna e di coshta mauna non sono ancora arrestate le azioni mentali;

3. un punto di vista perfettamente imparziale su tutte le cose, gli esseri e i

fenomeni e mantenere ferma in mente l'idea che, in fondo, tutto non è nient’altro che Dio Brahman (Dio Padre), rappresenta il susupti mauna (susupti significa, in realtà, il modo di funzionamento della coscienza umana in uno stato di sonno profondo senza sogni); allontanare quasi totalmente dalla mente tutti i problemi, dopo la realizzazione ferma del carattere illusorio di questo mondo, è il susupti mauna.

La conclusione giusta che l’intero macrocosmo non è nient’altro che il corpo di Brahman (Dio Padre) è quindi il susupti mauna;

4. Brahman (Dio Padre) è chiamato maha mauna perché è la

personificazione suprema del silenzio. Possiamo dire che il maha mauna è il vero mauna. Il vak mauna rappresenta solo una tappa sulla via per raggiungere il maha

mauna, poiché il mauna della mente è superiore al vak mauna o mauna della parola.

Parlando si mantiene l’anima nell’errore Il vak indriya, o l’organo di azione della parola è, di fatto, una grande arma

del mondo fenomenico illusorio (maya), che mantiene l’anima viva (jiva) nell’errore perturbando di continuo la mente.

La parola provoca così una continua esteriorizzazione della mente. Litigi, dispute, ecc. appaiono spesso a causa del turbolento gioco di questo vak indriya. In simili situazioni, la lingua può essere considerata come una spada e le parole come frecce.

In questo modo noi feriamo spesso i sentimenti degli altri e facciamo apparire i risentimenti.

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Lo studio approfondito dei domini scientifici, come ad esempio la letteratura, il diritto, la lingua sanscrita, ecc. rende alcuni uomini molto loquaci, al punto da sentirsi quasi forzati ad entrare in discussioni (molto spesso inutili), per mostrare, spinti dall’orgoglio, la conoscenza scolastica.

La pedanteria o la cattiva esposizione di ciò che si è imparato, è un attributo specifico degli studenti immaturi ed orgogliosi.

In questo senso è molto significativa una metafora dell’antica saggezza,

che paragona il comportamento di un giovane ed entusiasta aspirante sulla via spirituale con il rumore fatto dall’aria, che esce forzatamente per far entrare l’acqua in una bottiglia vuota immersa nell’acqua.

In questo specifico caso, il comportamento di un aspirante che ha quasi raggiunto la realizzazione del Sé Supremo (Atman) è, parlando per analogia, paragonato al rumore impercettibile che fa l’aria quando la bottiglia è quasi piena: una volta che questa è completamente piena (quando si raggiunge la realizzazione del Sé Supremo - Atman) si diffonde il silenzio...

Il vak indriya è molto spesso impetuoso e turbolento, e per questo è

considerato assai dannoso. Quando inizieremo a controllarlo cercherà di non sottomettersi. Dobbiamo invece cercare di essere convinti e coraggiosi. Attraverso il vak indriya, in queste situazioni non dobbiamo lasciare che ci

venga in mente niente, assolutamente niente. Proprio per questo è necessario che pratichiamo il mauna. Lo sforzo perseverante, costante e distaccato ci aiuterà. In caso di successo, sapremo di aver allontanato un’importante sorgente di

agitazione. A questo punto, le orecchie (o, in altre parole, il senso dell’udito) potranno

essere molto più facilmente controllate in quanto, se riusciamo a controllare il vak indriya, possiamo dire di controllare già metà della mente.

La forza che cura le malattie senza medicine Si perde molta energia psico-mentale con parole inutili e pettegolezzi. Gli

uomini comuni non si accorgono di questo in nessun caso. Il mauna ci permette di conservare le energie e di praticare in modo

efficiente; inoltre, resistendo sempre di più in ogni attività benefica, fisica o mentale, chi si trova sulla via spirituale potrà realizzare in questo modo molte meditazioni coronate dal successo.

Osservare il mauna per giorni interi ha una buona influenza sul cervello e sui nervi.

Con la pratica sistematica del mauna, l’energia sottile della parola viene gradualmente sublimata in ojas shakti o energia spirituale.

Inoltre, il mauna sviluppa considerevolmente il potere della volontà ed

aumenta il controllo sull’immaginazione (sankalpa), aiutando così a trasformarla in una forza creativa e, inibendo con il controllo l’impulso delle parole stupide e incontrollate, permette l’apparizione della pace mentale.

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Il mauna ci è di grande aiuto nel rispetto tenace della libertà, come anche nel controllo delle manie.

Le emozioni sono così facilmente controllabili, la suscettibilità sparisce come per incanto.

Con l’aiuto del mauna non mentiremo più, e sempre grazie ad esso potremo acquisire la capacità di sopportazione.

Quando qualcuno soffre, il mauna gli darà gradualmente la pace mentale; condizione in cui ogni sofferenza è più facilmente sopportabile.

Inoltre, l’essere umano in questione si potrà mobilitare molto più facilmente, per lottare contro la malattia o eliminare la causa della sua sofferenza.

Chi applica spesso il mauna attinge ad uno stato di pace, forza e felicità

che è completamente sconosciuto agli uomini comuni. Acquisterà un'infinita energia, perché il silenzio è la sorgente di grandi forze: saggezza, pace profonda, felicità, equilibrio e beatitudine. Sempre nel silenzio scopriamo la vera libertà ed affettività.

Se praticheremo, otterremo pace profonda e forza spirituale Gli uomini molto occupati in attività che necessitano di grandi sforzi di

comunicazione, dovrebbero praticare il mauna almeno 1 ora al giorno; meglio se riescono a farlo per 2 ore giornaliere.

Il sabato e la domenica possiamo praticare il mauna per 6 ore o per l’intera giornata.

Comunque, le persone ci disturberanno poco in questi momenti. Così come si abituano al fatto che alcuni vanno regolarmente ad uno spettacolo, inizieranno ad abituarsi anche al fatto che noi pratichiamo il mauna in alcune ore della giornata.

Poco a poco, gli amici e i membri della nostra famiglia non si offenderanno e non ci distrarranno più, se annunceremo prima le nostre intenzioni. All’inizio sarebbe l’ideale utilizzare questo periodo di mauna per la preghiera e poi, man mano che avanzeremo nella nostra pratica spirituale, per il laya yoga o per le meditazioni.

Se vogliamo praticare il mauna in un modo molto intenso, dobbiamo essere sufficientemente impegnati nella meditazione o nella pratica spirituale in genere. In un simile periodo, non ci sarà di alcun aiuto unirci ad altre persone con preoccupazioni esclusivamente materialiste.

Inoltre non dobbiamo abbandonare per molto tempo il luogo della pratica

spirituale. Così l'energia sottile della parola sarà sublimata ed utilizzata in modo elevato. Solo allora potremo gioire veramente di serenità, di pace profonda, di calma e di un grande potere spirituale.

Quando pratichiamo il mauna non dobbiamo leggere nessun giornale.

Leggere i giornali (o seguire le trasmissioni alla televisione) porta nella coscienza, insieme a nuove informazioni, anche la riattivazione di impressioni latenti di precisi pensieri dalla mente subconscia (samskara), e così la pace mentale sarà turbata.

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Anche se viviamo in pace e in serenità sul monte Himalaya, ma continuiamo allo stesso tempo a leggere i giornali, la nostra mente sarà praticamente sempre immersa nella società.

Procedendo così non otterremo grandi benefici dalla pratica del mauna, e la meditazione spirituale sarà seriamente turbata.

Per comprendere correttamente questo contesto, è importante riflettere profondamente sul contenuto dei versetti (sutra) 62-64 della Bhagavad Gita, capitolo 2: “Quando si orienta l’attenzione verso gli oggetti dei sensi nasce l’attaccamento.

Dall’attaccamento emerge il desiderio e dal desiderio insoddisfatto, l’irascibilità.

Dall’irascibilità procede lo smarrimento, dallo smarrimento, la perdita della memoria, dalla perdita della memoria, la diminuzione della ragione, e l’uomo privo di ragione corre verso la sua rovina.”

Il grande saggio e liberato Sri Balayogi (tradotto: il bambino yogi) nel

momento cruciale della sua esistenza terrena (il 27 marzo 1949 è entrato in uno stato d’estasi divina ininterrotta, samadhi, e vi è rimasto per decine d'anni,) ha pronunciato uno dei suoi aforismi più celebri: “Si può meditare su Dio onnipotente anche quando compi i tuoi doveri quotidiani o persino quelli di un re, ma come puoi allora raggiungere una perfetta stabilità mentale?

L’agitazione non sparirà mai completamente. Di quando in quando, l’essere dovrà far fronte a delle sofferenze, che gli

sembreranno senza fine. Non sarà mai pieno completamente della grazia infinita di Dio se non

trascendendo completamente questi problemi o pensieri”. Quando pratichiamo il mauna è necessario scrivere meno biglietti possibile,

e fare pochissimi gesti o azioni con cui cerchiamo di esprimere pensieri verso coloro che ci stanno intorno.

È consigliato anche trattenere il riso. Quando l’orientamento cosciente dell’essere inizia ad essere

prevalentemente diretto verso il Sé (Atman), anche il mauna verrà al Sé, naturalmente, in modo euforico. Quando arrivi a vivere nella Verità, il mauna proviene totalmente dal Sé (Atman); in quel momento saremo nella pace assoluta di Dio e vivremo pienamente lo stato di glorificazione.

Parlate poco e ascoltate molto! Dobbiamo cercare di essere delle persone che praticano il mauna solo per

un bisogno ed una convinzione interna, e non perché si tratta di una tecnica yoga nuova che adesso va di moda.

Con il mauna cerchiamo di diventare uomini che misurano con saggezza le parole. Il mauna insegna ad evitare facilmente lunghe discussioni inutili, accese, passionali, e in generale tutte le discussioni che non sono indispensabili o che si rivelano sterili fin dall’inizio.

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Il mauna ci permette di allontanarci facilmente dalla società di coloro che, essendo privi di discernimento, si perdono sempre in simili dibattiti. In questo modo potremo verificare l’utilità e la praticità di questa tecnica.

Nelle fasi superiori di pratica, il mauna ci permetterà di seguire con

attenzione ogni parola. Questa può diventare gradualmente un’alta disciplina mentale. Così avremo la rivelazione che, di fatto, le parole rappresentano una grande forza di cui ognuno dovrebbe diventare cosciente.

Il mauna ci insegna ad utilizzare con molta attenzione le parole, ci aiuta a

controllare il discorso e ci offre la possibilità di non lasciar parlare la lingua senza freno. Colui che ha praticato il mauna sufficientemente a lungo e come si deve, controlla le parole prima che arrivino alle labbra. Parla poco e ascolta molto. Ha imparato a tacere.

L’utilizzo prevalente di parole erudite e complicate provoca una preoccupazione per il linguaggio esaustivo, ed è molte volte sterile. Un simile modo di parlare è molto stancante.

Usando parole semplici e intensamente sentite riusciamo a conservare così la nostra energia.

È ammirevole conservare la nostra energia per amare di più Dio ed è essenziale consacrare, mano a mano, sempre maggior tempo alla vita interiore di meditazione, di introspezione e di contemplazione del nostro Sé Supremo (Atman).

È molto importante purificare la mente e meditare. Grazie al mauna

scopriamo la voce misteriosa del silenzio, e vediamo così come in ognuno di noi il Sé Supremo (Atman) è uno con Dio.

Praticando in modo corretto il mauna calmiamo la mente, i pensieri e sublimiamo facilmente le emozioni passeggere.

Il mauna ci aiuta ad addentrarci nelle profondità misteriose del nostro cuore e a rallegrarci pienamente della sua pace oceanica. Misteriosa ed euforica è questa quiete.

Grazie ad essa si entra nel silenzio. Ogni uomo che aspira a conoscere veramente Dio Padre onnipotente deve

conoscere questo silenzio. Allora egli è così il silenzio stesso, e in questo modo diventa maha mauna,

realizzando Dio Padre qui ed ora. Articolo tratto dalla rivista "Yoga Magazine n° 18"

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Il dialogo che nasce dal silenzio Nel rombare di media e motori, nel frastuono di informazioni e di suoni,

emerge il bisogno di silenzio. Per comunicare durante i party più mondani. O per educare alla pace.

Mutus, silent o quiet party, modulazioni mondane di divertimento silenzioso

che spopolano in Europa e negli Usa, a dire che nell’era della comunicazione globale emerge la voglia di silenzio.

Moda passeggera o bisogno di ascoltare quello che non si può dire? A leggerlo sulla carta, un party dove non si parla, non si bevono alcolici né

si ascolta musica non sembra il massimo del divertimento, né il luogo ideale per la socializzazione.

Eppure stando alla diffusione che i silent party o i mutus party – la versione in cui si balla ascoltando musica in cuffia – si deve dedurre che nel silenzio ci sia qualcosa che funziona.

Si potrebbe cinicamente pensare al fattore mistero: meno si parla, meno ci si svela della propria comune banalità; ma c’è chi sostiene che nel silenzio, rotto in alcuni casi dalla parola scritta, è proprio la comunicazione ad avere la meglio.

L’idea di una party silenzioso è nata, neanche a dirlo, negli Stati Uniti, partorita da due giovani amici artisti, Paul Rebhan e Tony Noe che, stanchi dei chiassosi locali newyorkesi, hanno deciso di dare vita a spazi d’incontro più pacifici ed hanno così inventato le feste silenziose.

Un’intuizione ripresa a Venezia dove, per far incontrare le esigenze di divertimento dei più giovani con il rifiuto del rumore di tanti cittadini, è nato il mutus party o rave muto.

Qui in realtà musica e rumore ci sono, ma solo per chi sceglie di ascoltarli e ballarli in cuffia.

Insomma, c’è chi il silenzio lo sceglie per sé e chi si prende almeno la briga di non far subire ad altri i propri rumori.

Iniziative già lodevoli – tenendo presente la quantità di decibel che quotidianamente ci assordano, ma forse dettate più dalla voglia di novità che da quella di silenzio.

Ma torniamo alla comunicazione silenziosa. Secondo la giornalista Nicoletta Pollat-Mattiot, curatrice scientifica del

recente festival di Vicenza dedicato al silenzio (link) e autrice di Riscoprire il silenzio.

Arte, musica, poesia, natura fra ascolto e comunicazione, edito da Baldini Castoldi, il silenzio scelto è innanzitutto uno strumento di comunicazione.

Dalla psicanalisi alla musica, dall’arte alla letteratura l’autrice – con il contributo di esperti dei vari campi – cerca di mettere in luce l’eloquenza del silenzio, quando è scelto come atto comunicativo di cui si rispetta la corretta grammatica: “Tacere diventa significativo quando si è assolutamente in grado di parlare, ma si sceglie di non farlo. Non per negare la comunicazione, ma per espanderla.

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Non per sottostare a tabù o imposizioni esterne, semmai per aggirarli. Non parlo per dirti di più e meglio quello che penso o voglio farti credere di pensare.”

Nelle pause, nelle allusioni e sospensioni del discorso il silenzio invita dunque all’ascolto, sottolinea quanto lo segue o lo precede, sintonizza gli interlocutori e richiama una ricchezza di contenuto che altrimenti non si potrebbe dire. Analogo discorso vale per la musica, ma anche per le arti visive.

“Ogni qual volta il nostro senso della vista è messo fortemente in gioco, e l’arte è uno di questi momenti, il silenzio assume un significato di ascolto, poiché percepiamo un godimento straniante nel prestare attenzione a quelle risorse percettive che normalmente non utilizziamo”.

In un mondo violentato da un rumore frenetico di suoni, cose, parole e informazioni, emessi ad una velocità sempre maggiori, il silenzio acquisisce la forza della sorpresa, la capacità di stupire, richiamare l’attenzione e dunque favorire l’ascolto, trasportando le aspettative dei dialoganti, così come quelle dei partecipanti ad un silent party su un piano più esteso e ricco forse proprio perché non delimitato da parole, suoni e rumori.

L’impatto del silenzio sulla comunicazione genera dunque una nuova

capacità di ascolto. Una capacità che rischia forse di perdersi là dove non vi sia una volontà

precisa di muoversi in questa direzione, ma un casuale momento di estraniazione dal rumore quotidiano.

Diverse e molto più pregnanti sembrano in questo senso le pratiche del silenzio proposte ad adulti e bambini dalla Scuola di Pace del Quartiere Savena di Bologna che sta progettando un aula del silenzio.

Qui attraverso diversi tipi di silenzio – dalla meditazione buddhista al silenzio condiviso delle riunioni quacchere (tenute dalla Società degli Amici - Quaccheri) – emerge una dimensione comunitaria e solitaria al tempo stesso, in cui l’attenzione alla propria dimensione mentale e spirituale diviene strumento per l’accettazione piena della diversità.

Uno spazio in cui la diversità culturale trova nuovo fondamento di valore proprio nella possibile condivisione di un momento di confronto silenzioso.

Da qui il ruolo del silenzio nell’educazione alla pace. Ruolo messo particolarmente in luce dalla pratiche di silenzio che il gruppo

Una via, guidato dal prof. Pier Cesare Bori – già promotore di seminari e pratiche di silenzio all’interno della Scuola di Pace del Quartiere Savena di Bologna – propone dal 1998 in alcune carceri di Bologna e Reggio Emilia.

L’esperienza del silenzio proposta dal Prof. Bori ad alcuni gruppi di detenuti stranieri (per lo più maghrebini), fa parte di un corso di Filosofia morale d’Occidente e d’Oriente, basato su una sequenza di testi fondamentali per la storia delle religioni e dell’etica.

Un percorso didattico in cui la lettura di alcuni brani (da Seneca a Platone, da Mencio alla Bhagavadagita) alternata a momenti di meditazione intende recuperare l’obiettivo di rieducazione etica, in teoria, propria del carcere.

Come ci spiega il dott. Saverio Marchignoli, che sul silenzio ha collaborato con il Prof. Bori, “il successo di questi incontri è stato davvero enorme.

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La possibilità di mettersi insieme, ognuno con le proprie specifiche culturali, alla ricerca di una dimensione etica comune, evidenziata dalla condivisione del silenzio, ha funzionato più di altre proposte in teoria meno impegantive.

Quello che emerso è la dimensione pratica del silenzio come strumento di crescita personale e accettazione dell’altro.

Luogo in cui la relazione si pone in una dimensione in cui diversità e vicinanza non sono in contraddizione”.

Silenzio dunque non come semplice interiezione del discorso o come paura

ristoratrice dall’assordante rumore dei mass media, ma come dimensione propria dell’umanità in cui ritrovare un fondamento etico comune pur nella propria individualità culturale.

E forse è proprio la necessità di riscoprire altre possibilità di relazione che spinge anche il divertimento a tacere.

Il dubbio è che in questi si confonda il silenzio con la semplice interruzione del rumore.

Elisabetta D'Agostino 5/12/2005

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ELOGIO DEL SILENZIO 31 Jul, 2006 | miro

Avevo voglia di parlarvi dell'indulto, delle liberalizzazioni, dell'ennesima

strage di Sion... Avrei voluto... Ma l’estate mi affatica assai. Mi affatica corpo e mente. Il corpo può cercare

refrigerio sui lidi ventilati delle marine o sulle vette, se va bene, se va male: negli sbuffi dell’aria condizionata. La mente, invece, trova refrigerio nel silenzio. Dopo aver cantato l’elogio del ghiaccio per le membra schiacciate dalle temperature aride dell’anticiclone africano, voglio cantare, ora, quella del silenzio: oasi del cervello... Ma siccome, appunto, la mente (almeno la mia: a quella di altri auguro di continuare ad essere fertilissima: leggo cose talmente mirabili che schiatto d'invidia per tanto fiorire...); siccome la mia mente - dicevo - latita nei vapori dell’afa assolata di questo fine luglio, affido ai detti di saggi e poeti il mio ossequioso omaggio. La raccolta è necessariamente limitata.

Chi voglia aggiungere altre somme di saggezza, renderà utile servizio ai frequentatori del sito... A tempi più arieggiati...

(m.r) DELLE VIRTU' DEL SILENZIO Su ciò di cui non si può parlare è bene tacere. Ludwig Wittgenstein La parola è una chiave, ma il silenzio è un grimaldello. Gesualdo Bufalino Fai in modo che il tuo discorso sia migliore del tuo silenzio o taci. Dionigi il

Vecchio Alla fine ricorderemo non le parole dei nostri nemici, ma il silenzio dei

nostri amici. Martin Luther King Chi non comprende il tuo silenzio probabilmente non capirà nemmeno le

tue parole. Elbert Hubbard Nella vita, come nell'arte, è difficile dire qualche cosa che sia altrettanto

efficace del silenzio. Ludwig Wittgenstein La parola è un'ala del silenzio. Pablo Neruda

Una donna silenziosa è un dono di Dio. La Bibbia Dolore e silenzio sono orti, e la paziente sopportazione è divina. Henry Wadsworth Longfellow Ho spesso rimpianto le mie parole, mai il mio silenzio. Anonimo

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Oh, silenzio! Tu sei il mio midollo, la mia melodia dolce e profonda. Gialal ad-Din Rumi

Il silenzio è un dono che spesso si dona, ma raramente si riceve! Anonimo Solo il silenzio è grande; tutto il resto è debolezza. Alfred de Vigny C'è sempre un angolo di silenzio nelle più sincere confessioni delle donne.

Paul Bourget

Dall'albero del silenzio pende il suo frutto, la pace. Anonimo Di fronte agli sciocchi e agli imbecilli esiste un solo modo per rivelare la

propria intelligenza: quella di non parlare con loro. Arthur Schopenhauer In genere è consigliabile palesare la propria intelligenza con quello che si

tace piuttosto che con quello che si dice. La prima alternativa è saggezza, la seconda è vanità. Arthur Schopenhauer

Fuggi le chiacchiere, per non essere reputato un loro fomentatore: a

nessuno nuoce aver taciuto, nuoce aver parlato. Catone il Censore La più vera ragione è di chi tace. Eugenio Montale Il mio silenzio è un'eloquente affermazione. Marco Tullio Cicerone Nella bocca chiusa non entrano mosche. Miguel de Cervantes Il silenzio è ancor facondo, e talor si spiega assai chi risponde col tacer.

Pietro Metastasio Non ogni verità è bene che sveli sicura il suo volto; e spesso il silenzio è

per l'uomo il miglior proposito. Pindaro Talora non è meno eloquente il tacere del parlare. Plinio il Giovane Capita di dover tacere per essere ascoltati. Stanislaw Jerzy Lec Ci sono pensieri sordomuti. Chi ha la lingua troppo lunga, può inciamparci.

Stanislaw Jerzy Lec Il modo migliore per diventare noiosi è dire tutto. Voltaire In silenzio anche un idiota puo' sembrare una persona intelligente.

Sfortunatamente gli idioti vogliono sempre parlare. Eros Drusiani Signori, chi ha qualcosa da dire si faccia avanti, e taccia. Karl Kraus

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UN SILENZIO PIENO DI VITA Spesso basta seguire una rappresentazione delle Danze Sacre di Gurdjieff

per accorgersi chiaramente che in quel silenzio, punteggiato solo dal ritmico battere del tamburo, ai partecipanti sta succedendo qualcosa di molto importante; per venire coinvolti nel loro profondo spazio di centratura e consapevolezza. In una precedente intervista (Osho Times del marzo 2000)

Ma Prem Vasanti ci ha raccontato le lunghe e avventurose ricerche tra i discepoli di Gurdjieff alla riscoperta delle Danze Sacre, adesso le abbiamo chiesto di parlarci delle sue esperienze come insegnante di questa affascinante tecnica di meditazione.

"Anche un assoluto principiante può ricavare una profonda esperienza di

meditazione con le Danze Sacre di Gurdjieff, non c'è bisogno di averle praticate per lunghi anni," ci dice Vasanti, che insegna questa tecnica sia all'Osho Meditation Resort di Pune che in Italia (sarà anche presente al prossimo Festival di Varazze 2001).

Questi movimenti, che George Gurdjieff ha in parte creato ex-novo e in parte scoperto nei suoi viaggi 'in cerca del miracoloso', continuano a essere praticati da alcuni gruppi di 'ricercatori della verità' in varie parti del mondo.

Lo scopo principale delle Danze è la ricerca interiore, che può essere poi, nelle diverse situazioni, chiamata in vari modi: meditazione, aumento della consapevolezza, crescita interiore armoniosa, lavoro su di sé, osservazione di se stessi, servizio del creatore infinito…

Nel mondo di Osho la partecipazione a seminari e workshop di 'Danze Sacre' è aperta anche ai 'debuttanti', a differenza delle più classiche organizzazioni gurdjieffiane dove talvolta, ci informa Vasanti "ci vogliono due anni di 'lavoro su di sé' per poter 'forse' accedere alle Danze".

Questa totale apertura, nei suoi workshop, le sembra assolutamente corretta, e ci spiega: "È vero, siamo aperti anche ai debuttanti.

I nuovi meditatori, e i nuovi danzatori, sono la mia passione in questi giorni: innanzitutto mi sono accorta di come spesso una mente aperta - e un cuore aperto - possano costituire la cosiddetta 'fortuna del principiante'

È una specie di regalo di benvenuto: in seguito può darsi che occorra del tempo per ritrovare consapevolmente quella immediatezza e spontaneità…

E poi, ancora più importante, il contesto in cui poniamo i Movimenti è quello di Osho: la sua visione, la preparazione alla meditazione che lui ci insegna.

Chi si avvicina al mondo di Osho è già su un percorso di ricerca interiore, il contesto in cui sono nate originariamente le danze.

Quindi questo nostro metodo "improvviso" non è poi qualcosa di così strano, ma è la ricetta originaria; inoltre, perfino tra i gurdjieffiani ci sono insegnanti che optano per una trasmissione veloce dei movimenti.

Uno degli insegnanti con i quali ho avuto contatti (da 50 anni nel mondo di Gurdjieff) dice che proprio l'insegnamento graduale è il problema dei gurdjieffiani super-ufficiali, quelli della Gurdjieff Foundation.

Dice che se il 'Lavoro' di Gurdjieff ha come obbiettivo la trasformazione delle persone - e su questo nessuno ha dei dubbi - allora c'è qualcosa che non

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va nei metodi di insegnamento, perché queste persone in 20 anni non sono state trasformate affatto… e secondo lui questo succede perché apprendendo - per esempio le danze - in maniera 'ragionevolmente' lenta, la mente pian pianino può 'seguire', si adegua, interpreta… e continua a controllare tutto. E invece noi vogliamo andare oltre la mente".

Un insegnamento più veloce porta chi pratica le Danze a una specie di punto di arresto, la mente non riesce più a controllare tutto, "si crea una specie di sovraccarico mentale," spiega Vasanti "e siamo costretti a usare solo la nostra perseveranza e la nostra attenzione fino al punto in cui… la danza semplicemente accade; si riesce così a scoprire uno strato di se stessi col quale non si è solitamente, o facilmente, in contatto.

Queste danze ci fanno scoprire che siamo più di una semplice mente - in Occidente siamo convinti che al di sopra della mente non ci sia altro - ma usando la presenza e l'attenzione ci accorgiamo come la mente non sia il padrone ma uno strumento utilizzabile dalla consapevolezza.

Con le Danze cerchiamo di cambiare la nostra consapevolezza: aumentarla, dilatarla, approfondirla. Non siamo interessati ad aumentare il nostro bagaglio di conoscenze.

D'altra parte c'è anche un certo valore nella ripetizione sistematica e graduale.

Perciò noi ci serviamo di entrambi i sistemi: a volte entriamo bene nei dettagli, a volte ripetiamo per ore lo stesso movimento… e anche questo serve ad andare al di là della mente!

Un altro grande valore della ripetizione è che ci consente di trovare un maggiore contatto con il nostro corpo fisico e con l'energia che lo attraversa. Si può così pervenire a un'altra dimensione delle Danze, e cioè il loro aspetto sacro: attraverso i nostri corpi una legge universale, divina, può manifestarsi, discendere sulla terra, è un concetto espresso originariamente da Bennett (un discepolo di Gurdjieff molto amato e seguito).

Una simile terminologia può apparire forse strana, esoterica, tuttavia rispecchia esattamente un'esperienza conosciuta ai Danzatori Sacri."

Una delle indicazioni che Osho aveva dato per i primi gruppi di Danze Sacre, è di insegnare in silenzio.

A Pune gli istruttori delle Danze hanno sperimentato con diversi tipi di silenzio. "All'inizio, per evitare le parole, utilizzavamo la mimica," ci racconta Vasanti.

"Con la voce contavamo solo i numeri - che ci servono per indicare le varie posizioni nelle danze - e tutte le altre indicazioni venivano date con gesti delle mani. Io sono giunta alla conclusione (per ora: i lavori sono perennemente in corso!) che un modo più autentico di essere in silenzio è di essere quieta dentro, in uno spazio di non-mente, e lasciare veramente che solo quelle parole, quei gesti che sono ancora rilevanti - anzi, irrefrenabili a partire da questo spazio - si manifestino.

Se non ci sono informazioni o azioni che richiedano di essere espresse, non dico e non faccio altro che attenermi alla struttura (le Danze). Naturalmente non sempre questo spazio di silenzio 'illuminato' è lì, a mia disposizione, e può anche succedere che mi accorga che uno dei partecipanti sia in uno spazio di non-mente più profondo del mio… In realtà, nell'insegnamento delle Danze

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Sacre, chi conduce si trova nel duplice ruolo di timonare la nave e di esserne anche passeggero.

La mia preparazione nelle Danze è un aiuto tecnico che sono nella posizione di poter dare, ma al di là di questo l'intelligenza del gruppo prende il sopravvento, e l'insegnante si trova 'scavalcato': è quello che accade nel migliore dei casi e così anche l'esperienza delle altre persone diventa essenziale nello sviluppo di questo lavoro.

L'attenzione è verso il silenzio: come rendere le danze (e con loro i danzatori) più silenziose ed essenziali.

È un processo alchemico. Si torna all'importanza di manifestare la dimensione del divino che è

sempre presente, ma alla quale raramente, nella vita quotidiana, si riesce ad accedere… e qui mi viene in mente Osho quando ci guida nella meditazione serale del let-go portandoci dalla periferia al centro silenzioso del nostro essere".

"L'intero lavoro di Gurdjieff era scientifico. Stava davvero tentando di creare una meta-scienza dell'armonia spirituale

- scientifica quanto la fisica o la chimica o la matematica… ha lasciato tutti i piani per questo - hanno solo bisogno di essere sviluppati." OSHO

Pubblicato su Osho Times edizione Italiana dicembre 2000 www.oshoba.it

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Capire e ritrovare il silenzio Published by Blimundaat Mercoledì 19 Settembre 2007 in socialmente utile

and interviste. 4 Comments Sempre sul silenzio, riporto qualche interessante consiglio di Marcella

Danon, psicologa ed esperta di ecopsicologia. Secondo lei esistono fondamentalmente tre tipi di silenzio, da trattare diversamente:

1) Silenzio riflessivo, tipico di chi sta rielaborando le informazioni che gli

hai fornito e vuole pensare prima di darti una risposta. Positivo, denota una personalità profonda e matura. Assolutamente vietato interrompere questa pausa di riflessione con domande petulanti tipo “Allora cosa ne pensi?” “Allora quando mi rispondi?” (a meno che non duri una mezz’ora, ecco).

2) Silenzio comunicativo: stato di grazia che interviene tra due persone (di

più di due, è davvero difficile) che senza scambiarsi una parola sono in perfetta armonia e comunicano tramite sensazioni ed emozioni. Chi interrompe questo momento magico con una frase buttata lì tanto per dire, meriterebbe la gogna.

3) Silenzio imbarazzato: esiste ovviamente anche questo, quando fra due

interlocutori cala il gelo oppure non c’è proprio più nulla da dire. Strategie suggerite: Riformulazione, ossia agganciarsi all’ultima frase o parola densa di significato pronunciata dal nostro interlocutore prima di chiudersi nel mutismo e provare così a riaprire la conversazione; oppure Metacomunicazione: “Ne vuoi riparlare?” “C’è qualcosa che ho detto che ti ha offeso?” etc. Al secondo tentativo a vuoto, rinunciare.

Infine, un suggerimento per tornare ad assaporare il silenzio è la

meditazione camminata, da fare sfruttando i magnifici colori dei boschi autunnali. Spegnere iPod, cellulari e possibilmente anche il cervello che rimugina pensieri e problemi, lasciare a casa amici e partner logorroici e passeggiare in un prato o in un bosco (bastano 10, 15 minuti) ascoltando solo i rumori della natura.

Chi sa, tace; chi parla, non sa. Lau Tzu Esausta per gli squilli continui dei cellulari, la musica a palla nei locali e nei

negozi, la gente che urla anziché parlare, i cantieri, il traffico, gli aerei che mi passano sulla testa, sbotto:

“Perché non facciamo un pezzo sul silenzio“? Ok, facciamolo. E subito dopo mi dico: e cosa ci sarà da scrivere sul silenzio, oggi,

soprattutto per un periodico femminile? Sorpresa. C’è tantissimo. Evidentemente la gente è esausta quanto me.

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Per comprendere l’entità del problema, teniamo presente che un suono a 45 decibel impedisce il sonno e che il rumore del traffico, sentito da un passante sul marciapiede, raggiunge i 70 decibel.

In UK è appena uscito Manifesto for Silence. Secondo l’autore Stuart Sim, docente universitario, il rumore che subiamo

quotidianamente uccide il pensiero. Sto aspettando una copia, ma dalla casa editrice mi fanno sapere che verrà tradotto “soon” in Italia.

A New York i nottambuli dai timpani offesi si rifugiano ai Quiet Party: ci si parla a segni, con sussurri o tramite bigliettini di carta che scivolano di mano in mano.

A Treviso invece è tutto pronto per il Festival del Silenzio, una tre giorni dal 28 al 30 settembre dedicata alla sublime arte del tacere.

Ancora aperta la mostra collaterale Silenzio. Una mostra da ascoltare (alla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo di Torino, fino al 23 settembre).

Scopro anche che a Lajatico, nei dintorni di Pisa, esiste il Teatro del silenzio, splendido anfiteatro la cui quiete è turbata solo una volta all’anno, solitamente a fine luglio, per un concerto.

E per chi come me ha in odio le rumorosissime celebrazioni del capodanno, consiglio di attendere metà marzo e festeggiare l’anno nuovo a Bali.

A Bali l’anno nuovo, che per loro cade appunto a metà marzo, si celebra nel silenzio più assoluto.

Prima la festa con il rituale rogo delle effigi per simboleggiare la cacciata degli spiriti. Poi il silenzio, che per 24 ore scenderà sull’isola , con il divieto di circolare, lavorare o usare l’elettricità.

Infine, per viaggiare ed evitare l’hotel fracassone o la camera proprio sopra il locale notturno e tornare quindi più stanchi di prima, esistono i Relais du Silence in Italia e all’estero.

Stanze da letto silenziosissime e trattamenti rilassanti per ritrovare il sonno perduto.

Shhhhh. Tags: ascoltare, decibel, festival del silenzio, manifesto for silence, quiet

party, relais du silence, rumore, silenzio, teatro del silenzio Gli stereotipi del turista Published by Blimundaat Mercoledì 30 Maggio 2007 in viaggi e miraggi. 3

Comments Attenzione: post colmo di luoghi comuni Alle Canarie prendevo il sole attorno a una piscina gremita di tedeschi,

quando a un tratto ho avuto un’illuminazione. Il silenzio! Nonostante sui lettini ci fossero decine e decine di persone, anche in gruppi

numerosi, e svariati bambini, l’ambiente ricordava quello di un tranquillo lago di montagna una domenica d’inverno.

Nessuno parlava a voce alta; gridare, nemmeno a parlarne. Schiamazzi e schizzi d’acqua banditi.

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Cellulari inesistenti. Gli adulti leggevano o conversavano a bassa voce e i bambini (i bambini! Avete presente i decibel raggiunti dall’italica progenie vicino a una pozza

d’acqua, che sia dolce o salata?) giocavano a coppie o in piccoli gruppi, con secchielli e palette, guardandosi bene dal litigare, chiamare a squarciagola i genitori o tuffarsi a bomba.

Stessa cosa in spiaggia a Tenerife. La sabbia nera era coperta di persone ma quello che si sentiva era solo il rumore del mare.

Beata e colpita da cotanta calma, decido di interrogare in proposito le mie due guide, Maite francese, a Gran Canaria e Guillermo, canario, a Tenerife.

Conoscono rispettivamente 5 e 4 lingue per cui lavorano con gruppi eterogenei e mi offrono uno spaccato del turista medio decisamente interessante.

Niente come la vacanza di gruppo chiarisce le idiosincrasie e le preferenze di un popolo, credo.

Ne sono venuti fuori molti clichés, certamente. Però divertenti: ecco un mix di quello che mi hanno detto.

Gli italiani sono come gli spagnoli. Casinisti, mi parlano sopra quando tento

di spiegare cosa stiamo vedendo, non ascoltano, si distraggono. E sono fondalmentalmente anarchici: fissi un’ora per ritrovarsi al pullman e non arriva nessuno.

I primi si fanno vivi dopo 15 minuti minimo. Però con loro mi diverto: parlano, interagiscono, mi danno le loro opinioni e se un paesaggio piace, lo posso capire dalle loro espressioni.

Soprattutto gli italiani, però, sono fissati con il cibo: vogliono fermarsi a mangiare in un buon ristorante, si fermano a tavola per ore, oppure se hanno il pranzo pagato in hotel fanno solo escursioni di mezza giornata per non perderlo.

I tedeschi? Per me è come portare in giro un pullman di mummie. Non parlano, non commentano, se soffrono il pullman lo fanno in silenzio,

seguono tutto diligentemente ma non riesco mai a capire se l’escursione piace o meno.

Gli inglesi sono totalmente disinteressati: vengono solo perché trascinati dalle moglie e non vedono l’ora di tornare in hotel davanti a una birra.

Però ammetto: quando torno alla sera, se ho avuto un pullman di italiani la testa mi scoppia; se erano inglesi o tedeschi, va molto meglio!

Signora mia, tutto il mondo è paese. Tags: canarie, clichés, gran canaria, guide turistiche, silenzio, tenerife,

turisti, viaggiare Impariamo ad ascoltare gli altri Published by Blimundaat Venerdì 23 Marzo 2007 in socialmente utile and

interviste. 13 Comments Siccome si sprecano le lamentele sulla nostra società High-tech/Low touch

che di fatto ci riempie di mezzi per comunicare ma inibisce la vera comunicazione; siccome un gruppo di persone ha deciso addirittura di scendere

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in piazza per regalare due chiacchiere gratis a chi non ha nessuno con cui parlare; siccome infine il telefono amico sottolinea che il 67% delle chiamate che riceve non servono a risolvere problemi specifici ma sono “semplici” richieste di ascolto, ho pensato di pubblicare questa intervista alla psicologa Giuliana Proietti, che ho fatto recentemente per Donna Moderna.

Giuliana spiega in sintesi come e perché dovremmo imparare ad ascoltare

gli altri. Magari un po’ di ripasso serve a tutti. Abbiamo due orecchie ed una sola lingua, diceva Diogene, per ascoltare di

più e parlare di meno. E invece pochi sono quelli che esprimono giudizi dopo aver ascoltato ciò

che un’altra persona dice. Per riuscire ad ascoltare dunque bisogna in primo luogo fare uno sforzo di

modestia, riconoscendo che tutti hanno qualcosa da insegnarci. Poi bisogna concentrarsi su quanto viene detto, evitando di anticipare le

risposte prima ancora che chi parla abbia terminato. Occorre soffermarsi sullo stile del linguaggio, la postura, i gesti, le

espressioni del viso: le parole trasmettono i contenuti, ma per comprendere veramente l’altro è utile affidarsi anche al linguaggio del corpo, capace di veicolare i pensieri profondi più di tante parole.

Durante l’ascolto è consigliabile intervenire con domande mirate. In genere le interruzioni infastidiscono, ma se sono delle richieste di chiarimento per una maggiore comprensione, chi parla le apprezza molto.

Può essere utile anche riformulare le affermazioni che l’altro ha fatto, come:

‘Se non sbaglio quello che tu sostieni è…’. Ripetere le frasi con parole proprie serve a mandare un feedback all’altro facendogli capire che lo si sta ascoltando.

Alla fine di ogni conversazione si dovrebbe offrire una sintesi di quanto si è ascoltato, sottolineando i passaggi più significativi. Infine, un buon ascolto non è nemico del silenzio: quando l’altro tace, non si deve cedere al desiderio (o all’ansia) di riempire i vuoti con tante parole, spesso inutili, per uscire da incomprensibili imbarazzi.

Il silenzio è davvero d’oro, soprattutto quando non c’è nulla da dire.

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Un silenzio abitato da Dio

È un fatto da tutti constatabile che il bisogno di silenzio è ormai una esigenza imprescindibile di ogni uomo.

Le grandi città raggiungono momenti di parossistica eccitazione e si avverte un crescente bisogno di calma.

D'altra parte uno dei più gravi pericoli che corre il cristiano d'oggi è lo svuotamento e l'inaridimento dello spirito, la perdita della dimensione interiore e personale della fede, della vita cristiana, quindi l'annebbiamento delle realtà spirituali. Dio, la vita interiore, la preghiera, l'unione con Dio, rischiano oggi di perdere consistenza e spessore, di diventare evanescenti e marginali.

A ciò contribuisce enormemente il modo di pensare, di sentire e di vivere proprio del nostro tempo.

La civiltà industriale, della tecnica, dell'elettronica è ormai definita come la civiltà del rumore. È difficile ormai fare silenzio, trovare il silenzio, abituarsi alle pause di silenzio quando si riesce a trovarne.

I fine settimana diventano momenti di fatica e di rumore invece di salutari pause di riflessione.

Passando per le nostre affollate città si avverte un eccesso di suoni in disarmonia, ripetuti con insistenza e ossessione, che colpiscono l'orecchio e il sistema nervoso e come conseguenza danneggiano lo stesso equilibrio psichico.

Non solo, ma questo sistema di esistenza, spesso subìto inconsciamente, è venuto anche a rompere i ritmi biologici umani più profondi. Non fosse altro che per questo, il silenzio oggi, si pone come un bisogno all'interno delle situazioni di crisi che investono il pianeta a tutti i livelli, da quello umano a quello ecologico.

Dobbiamo ancora ripetere che questo frenetico sistema di vita non lascia spazio nemmeno a Dio e, come si accennava, alle realtà spirituali. L'uomo ha paura del silenzio perché, inconsciamente o no, ha eliminato la fonte del proprio silenzio, che è Dio.

Se so da dove proviene il silenzio, lo accetto. È possibile accettare il silenzio soltanto se si conosce la fonte da cui

proviene. Avendo eliminato Dio, il silenzio è diventato inaccettabile. Se Dio esiste, deve darsi da fare, altrimenti è un falso Dio. Anche noi, oggi,

percepiamo il silenzio come un'assenza, come un vuoto. Non riusciamo a concepire un silenzio «abitato» da Qualcuno.

Noi cerchiamo sempre di spiegare, mai di rispondere con il silenzio. Nel silenzio, l'uomo si sente solo.

Non accettiamo il silenzio e non riusciamo a fare silenzio perché abbiamo paura della solitudine. Per accettare il silenzio, bisogna essere in compagnia di qualcuno.

Per non essere costretto ad affrontare il silenzio, l'uomo cerca di riempire ogni angolo di tempo e di spazio: «Dove mi trovo?... a che punto sono?... che ora è... cosa sto facendo?».

È il terrore di non sapere dove si è, quale posto si occupa, quale ruolo si svolge.

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L'esperienza contemplativa insegna la disciplina del silenzio come esclusione di ogni essere rumoroso e di ogni chiacchiera inutile che ne violerebbe gli spazi.

Il vero saggio si esprime in poche parole, e nello stesso tempo la sua parola è silenzio, ciò che egli dice viene dal cuore e non soltanto dalla punta della lingua. Le sue parole scaturiscono da una profonda meditazione.

Solo chi è sceso in profondità nella propria solitudine e vi ha incontrato Dio è veramente capace di comunione anche con gli uomini, con tutti, senza discriminazioni.

È stata l'intuizione anche di Bonhoeffer: solo chi è capace di solitudine è capace di comunione e dunque può contribuire davvero a costruire la comunità, e solo chi è capace di comunione può vivere una solitudine che non uccida.

La ricerca della comunità e degli altri, se non si è arrivati a riconoscere e accettare la propria solitudine esistenziale, è fuga da se stessi; e la solitudine, magari per dedicarsi alla preghiera, che rifiuta gli altri e la comunità non porta ad alcun incontro, neanche con Dio: è una solitudine che uccide.

Il vero, profondo e vissuto silenzio rende possibile la presenza e la trasparenza di una persona; silenzio inteso e visto non solo e semplicemente come mezzo, strumento, ma come pienezza di vita. Il silenzio è il dono dell'eternità, è una profonda realtà, è sorgente di vita.

Il silenzio è una eredità che ci viene da Dio stesso. La vita esce da una realtà silenziosa; nel quieto silenzio che avvolgeva ogni cosa... «il tuo Verbo onnipotente, o Signore, è sceso dal cielo, dal trono regale» (Sap 18,14-15).

Un uomo come Lanza del Vasto proponeva questa massima: «Taci molto per avere qualcosa da dire che valga la pena di essere sentita. Ma ancora taci, per ascoltare te stesso».

La bontà di ogni parola detta è proporzionata alla maturazione avvenuta nel silenzio meditativo.

Le «ragioni» del silenzio L'uomo di natura espansiva, abituato alla più cordiale comunicativa con il

mondo esterno, aperto con i propri simili, si chiede: perché tacere? Non si deve essere comunicativi?

Come può effettuarsi il contatto con gli altri se non con le parole? Perché essere chiusi? Quando seguendo l'esperienza monastica si consiglia di parlare meno, di

parlare poco, o di tacere del tutto, di dominare la lingua, non si vuole affatto consigliare di diventare tipi chiusi, non comunicativi, solitari, o, peggio, complessati, contorti, complicati, pieni di sottintesi; no davvero! I grandi uomini furono e sono tutti silenziosi.

Anche quelli di cui si dice che parlarono molto, che furono sommi oratori; tutti maturarono in lunghi silenzi quello che poi dissero agli uomini.

La parola è grande cosa, ma non è ciò che vi è di più grande. «Se essa è argento, il silenzio è oro», afferma un antico proverbio. Quegli stessi che sanno meglio parlare sentono più degli altri che le parole

non esprimono mai le reali e speciali relazioni esistenti tra due esseri.

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Rimangono sempre delle verità che nessuno crede di poter esprimere con la parola. Sono verità che si percepiscono nel silenzio e restano inespresse.

Il silenzio è come l'aprirsi di altre porte, di altri canali, per i quali arriva all'uomo un'altra voce.

Chi tende a mete di vita più elevata dal punto di vista dello spirito, ha bisogno di silenzio, per ristoro e ripresa di energie, come ha bisogno di pane quotidiano e di riposo del corpo.

Nell'usura di ogni giorno, la mente si svuota, le energie si logorano e la vita si appesantisce di infinite scorie.

Chi voglia realizzare una vita interiore profonda, sappia circondarsi di silenzio, di quiete, di pace, per frapporre tra se e le cose esteriori una fascia in cui le onde turbolente del fragore umano vadano ad infrangersi e a spegnersi, prima di giungere a lui.

L'uomo cerca il silenzio per un bisogno di vita più alta. La ricerca si impone per una spinta che viene dal proprio intimo e alla quale non si può disobbedire.

È naturale allora constatare come in questi ultimi anni i monasteri siano

sempre più meta di ospiti, giovani soprattutto, alla ricerca di una dimensione di vita più autentica e più vera, attraverso il dialogo orante col Padre, con lunghi spazi di silenzio e nel confronto con la vita della comunità.

L'esperienza monastica aiuta l'ospite a ritrovare il senso della vita e a dare una risposta alla sua ricerca di significati: in quasi lutti gli ospiti si avverte il desiderio di sperimentare giornate in piena solitudine, per ascoltare in profondità la voce di Dio, per far sì che la sua Parola diventi ancora un annuncio di vita.

Una volta gustato il valore del silenzio, si riesce a cogliere in esso momenti di verità e sincerità con se stessi, con Dio e con i fratelli.

In definitiva, lo spazio di silenzio e di deserto che il monastero offre all'uomo di oggi, alle prese con le sue disperazioni e i suoi non sensi della vita, aiuta l'ospite a riscoprire nella sua storia il giusto posto, la sua responsabilità corrispondente a quel piano di amore che Dio ha su ciascun uomo.

Abitualmente sono molti i fratelli che frequentano i monasteri ritornando a ripetere la loro esperienza di silenzio; in questi spazi di «deserto» ritrovano la speranza che li spinge a superare momenti di stanchezza e di sfiducia; ritrovano in essi la forza dello Spirito che li ricolloca continuamente al loro giusto posto nel piano della salvezza.

Franco Mosconi – Eremo San Giorgio

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Preghiera di un anziano

Signore , Tu sai meglio di me che sto invecchiando ed un giorno sarò vecchio.

Fa che io non mi senta in dovere di dire qualche cosa su ogni argomento

e in qualsiasi occasione. Evitami la tentazione di intromettermi negli affari altrui.

Fa che il mio parlare non diventi penoso e che il mio aiuto non diventi imposizione. E' un peccato forse non mettere a frutto

il mio bagaglio di esperienze e Tu sai d'altronde come io voglia conservare alcuni amici.

Fa in modo che io eviti nei discorsi elencazioni di dettagli senza fine,

dammi la capacità di arrivare subito all'essenziale. Sigilla le mie labbra sulle mie sofferenze e sulle mie fatiche.

Queste stanno aumentando e il desiderio di manifestarle

diventa sempre più forte con il passare degli anni. Non oso chiederTi la grazia sufficiente per accettare serenamente

il successo delle altrui pene, ma aiutami almeno a sopportare le mie con pazienza.

Non oso chiederTi una migliore memoria, ma dammi una crescente uniltà ed una minore presunzione

quando i miei ricordi sembrano contrastare con quelli degli altri. Insegnami la grande lezione

secondo la quale anch'io possa ritenermi in errore. Mantienimi ragionevolmente dolce:

un vecchio arcigno è il supremo capolavoro del diavolo. D'altra parte non desidero essere un santo:

è molto arduo vivere insieme. Dammi la capacità di vedere belle cose in posti inusitati, e talenti in ogni persona.

E inoltre Signore, dammi la forza di poterglielo dire

[E' la preghiera di un monaco del XVII secolo Rinvenuta in un monastero di Gloucester (Gran Bretagna)]

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Il potere della meditazione: J. Krishnamurti Tra i tanti libri, veri e propri mattoni che costruiscono la biblioteca di un

bibliomane, ce n’è uno che per misura e grandezza non supera il formato di 11x8 cm, e le 90 pagine.

Edito nel 1991 dalle edizioni Shambala, Boston & London, il libretto è un gioiello del pensiero orientale.

Contiene una selezione di scritti di un grande filosofo di quella parte del mondo, ma occidentalizzato abbastanza per essere essere apprezzato anche da questa parte del pianeta.

Mi riferisco a J. Krishmurti. Le sue sono “Meditazioni” che in più di una occasione mi hanno aiutato a riflettere sulla condizione umana. Qui di seguito, tradotti dall’inglese, una serie di brani più significativi su questo tipo di esercizio che tutti dovremmo conoscere e praticare per migliorare la qualità della vita interiore di ognuno di noi.

Vita interiore che diventa vita comunitaria nella misura in cui ognuno da “isola” esistenziale è prescelto a diventare parte del “continente” della vita.

Introduzione. L’uomo, per sfuggire ai suoi conflitti, ha inventato diversi tipi di

meditazione. Molti la basano sul suo desiderio, sulla spinta e sulla necessità di conquistarla e sono destinati solamente a provare delusioni e sofferenze per un fallimento sicuro. Questa scelta consapevole e deliberata si muove sempre entro i limiti di una mente condizionata e senza libertà. Qualunque sforzo viene fatto per acquisire la corretta meditazione significa la fine stessa della meditazione. Questa ultima la si ottiene solo con la sospensione del pensiero e soltanto quando si raggiunge una diversa dimensione oltre il tempo.

Una mente che medita è una mente silenziosa. Non è il silenzio che genera

il pensiero, il silenzio di una serata tranquilla. E’ il silenzio pensato quando il pensiero, con tutte le sue immagini, parole e percezioni, è cessato completamente. La mente che medita è una mente religiosa, una religione che non è toccata dalla chiesa, dai canti o dalle preghiere. La mente che medita è un’esplosione di amore. E’ l’amore che non conosce separazione. Per esso, la lontananza significa vicinanza. Non è uno o molti, ma piuttosto quella condizione dell’amore nella quale ogni divisione non ha ragione d’esistere. Come la bellezza, non lo misura con le parole. E’ soltanto da questo tipo di silenzio che nasce una mente che medita.

La meditazione è una delle più grandi arti della vita, forse la più grande, e

non la si può apprendere da nessuno. Questa la sua bellezza. Non ha una tecnica e pertanto non possiede autorità. Quando si conosce se

stessi, si osserva se stessi, il modo in cui si cammina, si parla, si mangia, ciò che si dice, come si odia, come si diventa gelosi, si diventa consapevoli di tutto ciò che è dentro di noi, senza una scelta, allora quella è meditazione. Essa può avere luogo anche stando seduti in un bus o mentre si cammina nei boschi

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pieni di luce o mentre si ascolta il canto degli uccelli e si guarda in faccia la propria donna o il proprio figlio.

E’ strano come la meditazione diventa completa. Essa non ha un principio

né una fine. E’ come una goccia d’acqua. In quella goccia ci sono tutti i corsi d’acqua, i grandi fiumi, i mari e le cascate. Quella goccia nutre la terra e l’uomo, senza di essa la terra sarebbe un deserto. Senza la meditazione il cuore diventa una terra incognita.

Meditare significa scoprire se il proprio cervello, con tutte le sue attività,

può essere assolutamente tranquillo e silenzioso. Senza alcuna forzatura, perché se c’è forzatura c’è dualismo.

L’entità che dice “Desidero avere esperienze meravigliose, perciò devo costringere il mio cervello ad essere silenzioso” non potrà mai arrivare alla meditazione. Ma se si comincia ad indagare, osservare, ascoltare tutti i movimenti del pensiero, i suoi condizionamenti, i suoi scopi, le sue paure, i piaceri, osservare come si comporta il cervello, allora si comincerà a vedere come il cervello sa stare tranquillo e silenzioso. Un silenzio che non è sonno, ma grande attività e quindi tranquillità. Una grande dinamo che funziona alla perfezione non produce alcun rumore. Solamente quando c’è frizione c’è rumore. Silenzio e spazio vanno insieme. L’immensità del silenzio è l’immensità della mente in cui il centro non esiste.

La meditazione implica un duro lavoro per acquisirla. Richiede un’alta

forma di disciplina, che non è conformismo, imitazione, obbedienza, ma disciplina che deriva da una costante consapevolezza non solo delle cose interne, ma anche di quelle esterne.

La meditazione non è un’attività svolta in isolamento ma è azione quotidiana che richiede cooperazione, sensibilità e intelligenza. Senza gettare le basi di una corretta esistenza, la meditazione è solo una fuga e pertanto non ha alcun valore. Una vita giusta non la si ottiene seguendo una qualsiasi forma di moralità sociale, ma con la libertà dall’invidia, dall’inimicizia, dall’avidità. La libertà da questi sentimenti non la si ottiene con l’esercizio della mente bensì prendendo coscienza di essi tramite l’auto-conoscenza. Se non si conoscono le attività del proprio io, la meditazione diventa solo una specie di eccitazione sensuale e quindi di poca importanza.

La meditazione non è un mezzo per raggiungere un fine, è entrambi le

cose, un mezzo ed un fine. La percezione senza le parole, cioè senza il pensiero, è uno dei fenomeni

più strani. Essa è più acuta, non solo con il cervello, ma anche con tutti i sensi. Una percezione di questo tipo non è la frammentaria percezione dell’intelletto, né tanto meno delle emozioni. Essa può essere chiamata una percezione totale che è parte della meditazione. Una percezione acquisita senza che sia avvertita da chi fa meditazione, è simile ad una comunione con le vette e le profondità dell’immensità. Questo tipo di percezione è cosa del tutto diversa dal vedere

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un oggetto senza chi lo vede, perché nella percezione della meditazione non c’è nessun oggetto e quindi nessuna esperienza.

La meditazione può, pertanto, avere luogo quando gli occhi sono aperti e siamo circondati da oggetti di ogni tipo.

Ma questi non hanno alcuna importanza. Li vediamo ma non li riconosciamo perché non ne abbiamo esperienza. Che significato ha questo tipo di meditazione? Non ha nessun significato, perché non ha nessuna utilità. Ma in questo tipo di meditazione c’è un movimento di grande estasi che

non va confusa col piacere. E’ l’estasi che dà all’occhio, al cervello e al cuore la qualità dell’innocenza. Se non vediamo la vita come qualcosa di interamente nuovo, è sempre la

stessa routine, la stessa noia, una cosa senza senso. La meditazione ha una grande importanza, essa apre la porta a tutto ciò

che non può essere misurato e calcolato. Tratto da: Guide Supereva - Bibliofilia

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Il silenzio e la vita spirituale Swami Ritajananda IL SILENZIO E LA VITA SPIRITUALE Riedizione della conferenza di Swami Ritajananda, apparsa nel n° 61 di

Vedanta, del 1° trimestre 1981 Swami Ritajananda (1906-1994) è stato Presidente del Centro Vedantico Ramakrishna dal 1962 al 1994

In India esiste una preghiera molto nota, che viene indirizzata al Signore

Dakshinamurti. In essa si trova una descrizione del maestro e del suo modo di insegnare. Egli era giovane ed i suoi discepoli persone molto anziane. Il maestro non accennava ad una sola parola. Ma, tutti i dubbi dei suoi discepoli venivano dissipati.

Porgeva l'insegnamento senza pronunciare una sola parola. Quest'oggi, tuttavia, non sarà cosi. Trascorreremo assieme il pomeriggio, parlando. Personalmente, non mi considero un maestro capace di insegnare senza usare dei termini - come faceva lui - e, d'altra parte, voi stessi potreste non essere abbastanza evoluti per riuscire a comprendere solo attraverso il silenzio.

Viviamo in un mondo, nel quale un grande valore viene dato alla parola.

Amiamo parlare con i nostri amici. Molte persone, oggi, sono venute qui con il preciso scopo di incontrarne delle altre e per parlare. Il linguaggio rappresenta una grande utilità, per noi che abbiamo tante cose da dirci.

Chi possiede il dono del dire e, in più, riesce a pensare in modo giusto, ebbene, costui avrà molto maggior successo di coloro che non posseggono le sue capacità.

Io conosco un giovane che parla inglese, francese, spagnolo, portoghese e greco; ma, è senza appigli:

Quando si esprime, anche nella sua lingua, la gente riesce ad afferrare solo alcuni dei concetti che egli propone; il resto viene perso. Personalmente, gli ho consigliato di frequentare una scuola ove gli potessero insegnare a parlare; poichè, ne avrebbe tratto una grande utilità. Gli ho detto:" Avete avuto la possibilità di apprendere tante cose dai libri, ma siete incapace di esporre alla gente tutto ciò che sapete." Si deve essere capaci di pensare e di parlare; le due qualità sono necessarie.

La vita sarebbe sprovvista di senso se noi non potessimo esprimerci.

Dobbiamo essere bravi sia nel parlare, che nel riflettere. Le due cose vanno in parallelo.

Un uomo abile utilizza queste due facoltà per fare impressione su coloro che incontra. Il valore di un uomo dipende dal modo in cui egli gestisce le parole per farsi apprezzare. Ma, nello stesso tempo, ci sono degli individui cattivi che sanno esprimersi tanto bene da potere attrarre a sè tutti coloro che mancano di giudizio.

E coloro che li seguono divengono dei nemici della società. Non bisogna, di conseguenza, mai accettare senza riflettere le parole degli incantevoli dicitori.

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Non dobbiamo dimenticare che la nostra vita è una manifestazione dell'energia che possediamo. Questo concetto è sempre presente nel mio spirito; è divenuto, per me, come un'ossessione.

Tutto quanto ho appreso dalle parole di Vivekananda e di altri grandi maestri spirituali mi ha dato la certezza che ognuno di noi è capace di riuscita solo grazie alla forza che esiste in lui.

E noi dobbiamo essere abili nell' utilizzare quest'energia enorme - la Shakti, come dicono gli Hindù - per il nostro bene e quello del prossimo. La parola è uno dei mezzi per manifestare questa forza. Non dobbiamo sciuparla, ma utilizzarla a ragion veduta.

Potreste ribattere che il soggetto del nostro incontro è il silenzio, mentre io

affronto, invece, l'importanza della parola. E' vero; ma, perchè mai il silenzio è così importante?

Non ho, sinora, mai avuto il piacere di parlarne. Quando mi trovavo nella società, restavo quasi sempre silenzioso; e, quando vissi alcuni anni con uno Swami, anche in quell'occasione conservai sempre il mio mutismo. Ciò lo disturbava.

Si dice che vi sono tre tipi di persone che non aprono mai bocca: il muto, l'idiota ed il saggio. Il saggio possiede il controllo delle sue parole. Ed allora, quando vivevo nel bel mezzo della società, e non trovavo nulla da dire perchè quei soggetti mi sembravano senza interesse, me ne stavo tranquillo, lasciando i miei amici alle loro discussioni.

Il valore del silenzio viene insegnato da ogni religione nota. Possiamo

constatarlo nelle Upanishad, nelle parole del Budda, negli insegnamenti della Bhagavad Gita, nelle parole di San Giovanni della Croce ed in altri casi. Vi si constata che la pratica del silenzio è indispensabile al nostro sviluppo spirituale.

Usate, quindi, moderatamente, l'energia di cui trattiamo - e solo quando è cosa utile, non continuamente.

Osserviamo, in proposito, delle persone che parlano lungo l'intera giornata, senza sforzarsi di comprendere ciò che dicono. E succede, addirittura, che non se ne riesca più a sopportare le continue ciarle.

Se ci fermiamo a riflettere su ogni cosa che diciamo, potremo accorgerci

che le nostre parole non hanno, poi, un grande significato. Vediamo, in tal caso, manifestarsi una sorta di nervosismo; ci sforziamo

soprattutto di discutere su non importa cosa; su quanto abbiamo letto, su quanto abbiamo ascoltato, e, qui, si manifesta un fenomeno molto importante: l'"io".

Contate un pò il numero degli "io" che avete potuto pronunciare durante una conversazione; degli "io", "io", "io" senza fine. Ci si ritrova, sovente, così, in un circolo nel quale l'"io" vuole esprimersi, mentre non ha, in effetti, che poche cose da dire.

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I grandi maestri affermano che è male cercare di parlare tanto; che ciò arreca uno squilibrio nella nostra esistenza; che è un ostacolo alla nostra quiete spirituale. Sri Krishna dice nella Bhagavad Gita:" Io sono il Silenzio"

San Giovanni della Croce aggiunge: Il Padre ha detto una sola parola, e questa parola è suo figlio. E parlava sempre di lui in un silenzio senza fine. E, in questo silenzio, l'anima ascolta Dio parla; però, voi non siete preparati ad ascoltarlo. Fate troppo rumore.

Dovete cambiare. Dovete interrompere il flusso delle vostre parole, affinchè il silenzio possa scendere sino a voi. Solo in quel momento lì potrete comprendere.

Ecco, la disciplina della yoga. Le parole sono importanti per la vita mondana; ma, per quella spirituale è,

invece, il silenzio che conta, a vantaggio di coloro che vogliono sprofondare in essi stessi, per scoprire quanto vi si cela, per scorgere un orizzonte diverso da quello che vede il sè immerso nel mondo.

Non è certamente un obbligo lanciarsi nella ricerca che stiamo indicando. Se vi soddisfa veramente quanto questo mondo vi offre, viveteci tanto a

lungo quanto vorrete, ed in rapporto all'amore che gli portate. Ma, un bel giorno, vi chiederete:"A che serve tutto ciò?" L'insoddisfazione che si trova nella vita, il desiderio di capire vi esortano a

proseguire più in avanti. I grandi santi, i grandi maestri insegnano che non troverete la felicità nella vita ordinaria; la felicità viene da un'altra direzione. Nasce da noi stessi.

Riceverete l'insegnamento quando lo richiederete. Coloro che hanno ricevuto tali consigli lasciano, sovente, il mondo e si

rifugiano in un eremo, per viverci in solitudine; così, infine, scoprono la pace di ogni gioia, scoprono il significato di Dio e quali sono le sue parole.

Vorrei, ora, raccontarvi una piccola storia, che risale a circa due, o trecento

anni fa. Un economo era impiegato in un palazzo, in India. Morì, ed il figlio, molto giovane, dovette subentrare al suo lavoro. Era un giovane intelligente, ben istruito, attratto dalla vita spirituale. Aveva studiato la lingua del proprio paese - il tamil - ed anche il sanscrito.

Si era ben preparato per la ricerca spirituale. Pur obbligato a lavorare nel palazzo, trascorreva ogni giorno al tempio, vi

pregava e, quindi, ritornava nella dimora. Erano nate, nei suoi riguardi, delle difficoltà nel palazzo perchè la regina si

era innamorata di lui. Egli non cercava attaccamenti di quel genere; ciò lo turbava e costituiva la

ragione per la quale egli trascorreva lunghe ore nel tempio.

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Un giorno, scorse, nell'angolo del tempio, assiso nella postura del padmasana, un maestro, assorbito nella meditazione. Era la prima volta che notava quella persona.

Si sentì pieno di curiosità, mentre, tra l'altro, provava un forte desiderio di ricevere un consiglio spirituale.

Si sedette, di conseguenza, davanti a quello. Le ore trascorsero: mezzanotte, l'una, le due, le tre. Dopo circa quattro ore, il santo aprì gli occhi. Vide un giovane seduto davanti a lui, e se ne stupì:

"Figlio mio, perchè ti trovi qui? - gli domandò. "Maestro, vorrei ricevere un vostro consiglio spirituale." Resta tranquillo" - fu la sola risposta. Non posso dirvi cosa il giovane comprese, ma, più tardi egli scriverà un

grande libro che, sfortunatamente, nessuno tradusse, nè in inglese, nè in francese.

Vi si legge questo consiglio dato dal maestro di cui parliamo:" Stai tranquillo."

Egli avrebbe potuto comprendere tutto attraverso tali semplici parole. Eppure, domandò al maestro di aiutarlo ancora.

Costui lo guardò e gli disse: "Non è il momento. Tu hai ancora qualche dovere da compiere. Devi

sposarti e dare un figlio alla tua famiglia. Ti verrò a cercare allora." Il maestro arriva sempre, quando il discepolo è pronto. E voi non chiedete da dove egli sia venuto, nè indagate le qualità che

possiede. Non ponete domande, e non cercate altro. Voi sentite che è il vostro maestro. Il giovane, di conseguenza, scelse il suo

maestro e costui lo accettò. Sua moglie morì qualche tempo dopo e i parenti vennero a cercare il

bambino per allevarlo. Di conseguenza, il maestro tornò a lui: "Vieni con me, figlio mio; hai finalmente assolto ogni tuo dovere nel

mondo." E partirono assieme. Non posso dirvi cosa gli accadde, nè quale fosse la natura

dell'insegnamento che egli ricevette; ma, posso assicurarvi che trascorse parecchi anni nel silenzio.

Nessuno scrisse la biografia di questo grande santo, chiamato Tayu Manava.

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Non conosciamo nulla della sua vita, ma ci rimane il suo grande libro, nel quale ci dona un insegnamento straordinario. Egli cita una spiritualità che trascende il mondo dei nomi e delle forme.

Si esprime come faceva Sri Ramakrishna: Brahman è saguna e nirguna; cioè, Brahman è Dio con forma e Dio senza forma: l'Assoluto.

Manava ha composto numerosi poemi ben noti nel sud dell'India. E tutto è provenuto da un semplice consiglio:" Sta tranquillo".

Avete sentito parlare di Trailinga Swami, che visse a Benares. Sri

Ramakrishna lo incontrò, come pure la Santa Madre, e come numerose altre persone. Era un grande yoghi; forse, unico.

Si diceva che avesse vissuto oltre i 250 anni. Era di una taglia fisica molto forte. Nessuno l'ha inteso parlare. Eppure, egli sapeva tutto, e la sua saggezza era grande. La sua spiritualità impressionava. Praticava il silenzio. Il silenzio può divenire un mezzo. Nel libro di Tayu Manava si impara che il suo maestro gli aveva detto

soltanto:" Sta tranquillo ". Ogni insegnamento è condensato in queste due parole.

Noi amiamo parlare, e la parola è la cosa più facile da frenare. Le Scritture ci richiedono la gestione di noi stessi; il controllo del mentale. La prima disciplina insegnata dai maestri come Tayu Manava per acquistare

la padronanza della mente è di controllare le parole. Spinti dall'ego, noi sentiamo il desiderio di parlare.

Parlare della nostra vita, parlare di ciò che oggi stiamo facendo, e di ciò che faremo domani.

Sempre "io", "io". Oppure, ci occupiamo dei difetti altrui. Il ciarlare, lo stabilire la propria superiorità: tutti questi pensieri sono nefasti per la vita spirituale.

Innanzitutto, bisogna apprendere a guidare le proprie parole. Ecco, la ragione per cui il silenzio viene considerato come una grande disciplina spirituale.

Sri Ramakrishna diceva spesso che i capi famiglia, coloro che vivono nel

mondo, era bene si discostassero da ciò, di tanto in tanto. Quando non potrete parlare con nessuno, il vostro cervello diverrà molto

attivo; voi riuscirete a pensare facilmente e troverete la soluzione dei vostri problemi.

Vorrei aggiungere questo. Il Buddismo ha assunto una grande influenza nel

Tibet. La vita di Milarepa mi ha fatto sempre una forte impressione. Era un individuo straordinario. Parlava del silenzio.

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Il maestro esamina accuratamente il ragazzo che ha scelto, gli fa subire diverse prove e lo accetta se ne resta soddisfatto.

Gli chiede di costruire una piccola caverna, interamente sigillata, da cui non può uscire. Il ragazzo non dispone che di una lampada.

E' una disciplina molto dura. Certuni ne muoiono; altri divengono folli, perchè non riescono a sopportare

la solitudine. Ma, coloro che sanno organizzare la propria vita, che riescono a

comprendere il proprio spirito, costoro possono riuscire. Milarepa è divenuto un grande maestro spirituale.

E parla della sua esperienza e del valore del silenzio, che viene ad aiutarci. Come dobbiamo comportarci, di conseguenza? Ecco, allora, un esempio ben noto della vita del Mahatma Gandhi. Egli non

era un maestro spirituale come possiamo comprenderlo. Era un maestro, a modo suo.

Ogni lunedì rappresentava, per lui, il giorno del silenzio. In quella giornata egli non parlava affatto. "Lo faccio per il mio bene" - diceva - " perchè, durante tutto il tempo che utilizzo a parlare, rifletto poco.

Quando smetto di parlare, mi è più facile riflettere a quanto dico, a ciò che intendo fare. E, quando prego, posso anche dimenticare il mondo".

Se peniamo a meditare, gli è perchè parliamo troppo. Se io parlo per l'intera giornata, con degli amici, su ogni sorta di

argomentazioni, quando mi siedo per meditare, tutto ciò che ho detto, tutto ciò che ho ascoltato ritorna a scorrere davanti a me come il film in un cinematografo.

Ecco la ragione per cui il ricercatore spirituale deve andare a vivere da solo, in una caverna, per ritrovarsi nel pieno silenzio.

All'inizio, sicuramente, incontrerà delle difficoltà; ma, poco a poco, tutto si

estingue, ed egli può cominciare a meditare. Il silenzio che, allora, scopre è indispensabile per la sua ricerca.

E' come per l'oceano, le cui tempeste sono prodotte dai venti. Chi ricerca la spiritualità si distacca sempre più dalla vita esteriore. Non giungo ad affermare che un simile individuo non parlerà più. Parlerà

ancora, come afferma Sri Aurobindo. Aurobindo ha trascorso l'intera vita in silenzio. Non disse mai di avere tagliato le sue relazioni con il mondo; diceva solo di

non esserne coinvolto. Se resto troppo identificato con il mondo, la mia ricerca spirituale

richiederà diversi anni - forse, diverse vite; difatti, devo essere completamente distaccato per entrare nella via.

Quando, però, la mente diviene tranquilla si manifesta un'altra dimensione. Non siamo più come eravamo prima.

Raggiungiamo un altro livello.

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Come diceva san Giovanni della Croce, noi giungiamo a sentire le parole di Dio.

Tutto diviene chiaro. Le nostre azioni assumono una dimensione differente; non sono più nostre,

le azioni. Io parlo, e voi mi ascoltate. Lì, non esistono degli "io" che parlano e degli "io" che ascoltano. I grandi maestri non affermano mai:"Io faccio qualcosa".

E noi ritroviamo il medesimo concetto nella Bhagavad Gita. Per i saggi le azioni sono compiute attraverso i sensi; il legame tra il sè ed i sensi viene tagliato.

Il saggio non si riconosce come un testimone di ciò che accade attorno a lui. E voi resterete sempre sorpresi di vederlo così felice, sempre contento, mentre si esprime con una facilità del tutto straordinaria. Nulla riesce a disturbarlo.

Si produce un radicale cambiamento quando un individuo raggiunge una diversa dimensione nella vita. Ecco, cosa noi intendiamo come vita spirituale.

Se noi conquistiamo questo silenzio, evitando le conversazioni inutili,

riflettendo molto, ricordandoci costantemente dell'ideale scelto, la nostra vita cambierà. E per questo scopo possiamo utilizzare tutto ciò che ci si presenta, qualunque sia il nostro modo di vivere.

A questo punto potrete domandarmi:" Debbo, dunque, abbandonare il mio

modo di vita attuale ed entrare in una caverna, divenendo un eremita?" No, non intendo dire questo, poichè bisogna subire una preparazione molto

lunga prima di sopportare la vita eremitica. dovete, semplicemente, praticare il silenzio nella vita ordinaria, nell'ambiente che rappresenta la vostra attuale quotidianità; tacere quando vi rendete conto che non avete nulla da dire.

Se vi viene il desiderio, prendetevi un attimo di riflessione. Domandatevi se è veramente necessario farlo. Non parlerete, allora, se non dopo avere riflettuto; ma, a quel punto, forse

tacerete. Ecco, un modo per cominciare a controllare la vostra mente. Il primo passo verso il dominio della mente è di evitare ogni conversazione

inutile. Con il controllo della parola giunge quello della mente. Quando una

persona comincia a vivere da sola in una caverna, non cerca di sapere ciò che succede fuori; non si incuriosce per i rumori della strada; non ha alcun desiderio di gustare alimenti vari.

Tutti i suoi sensi debbono venire dominati. Se riceve un'esperienza spirituale, può ben pensare di essere benedetta. Ed è benedetta perchè nulla può più attirarla. Vive già in un'altra dimensione; l'attuale vostra realtà le sembra poca cosa in paragone alla sua, ed essa può utilizzare l'intera propria energia senza dovere ricercare i divertimenti, i piaceri. Essa è felice senza essere costretta a seguire i piaceri del mondo.

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Con il controllo della parola giunge quello della mente. Tramite il controllo della mente si raggiunge lo scopo. Ci viene raccomandato di associarci a persone che vivono una vita spirituale.

Vedendole, parlando con esse, la nostra aspirazione si fa sempre più chiara; la vita spirituale ci attira di più in più, mentre diminuisce il nostro attaccamento per la vita materiale.

Quando un uomo si è completamente distaccato, non sarà mai più imprigionato da questa vita. Quando si è liberi dall'illusione la padronanza della verità diviene più stabile.

E quando si è ben saldi in essa, si raggiunge lo stato di jivan mukta: lo stato di liberazione in questa medesima vita.

E' l'ideale del silenzio, secondo Sri Aurobindo. Un mentale tranquillo non

significa che esso sia senza pensieri, che la sua attività risulti sospesa; ma, tutte queste funzioni resteranno alla superficie.

Percepirete sempre di essere lo spirito, e non un individuo umano. Vi trasformate in testimone; la vita ordinaria cessa di avere qualunque

presa su di voi. Potete osservare, giudicare e respingere quanto vi sembra senza valore, mentre conserverete quel che vi sembra buono. Ecco, la vera coscienza, e la vera esperienza spirituale.

Sri Aurobindo parla anche del grande valore del silenzio. Non si tratta di un

mezzo negativo, e neppure di un ostacolo. Anche se il più alto ideale spirituale è la comunione con Dio, il controllo

delle parole e quello della mente sono molto utili nella vita ordinaria. E se continuerete a persistere in questa pratica, raggiungendo una grande maestria in essa, sarete capaci di controllare il mentale e di ottenere lo scopo della vita.

Ramana Maharshi non ha mai tenuto conferenze; ma, restava sempre

silenzioso come il grande maestro Dakshinamurti. Le persone si sentivano sempre bene in sua presenza.

Vi trovavano la pace dello spirito. Ed egli non la faceva regnare con la parola, ma con la sua stessa tranquillità. Era come l'oceano, nel quale si disperde il rapido fiume. Questo, provavano tutti coloro che andavano a visitarlo.

CENTRO VEDANTICO RAMAKRISHNA - 1999 Ogni diritto di traduzione, di riproduzione e di adattamento riservati per

tutti i paesi. 22/02/05

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Pubblicato il 23-10-2006 Castaneda: la conoscenza silenziosa

La capacità di "domare la mente", coltivare il silenzio interiore e cogliere le

percezioni più sottili relative alla realtà interna ed esterna fa parte di tradizioni sciamaniche e mistiche di tutti i tempi. Castaneda propone una via.

Il silenzio interiore è uno stato di coscienza in cui tutti i pensieri della

mente si fermano, sono come congelati e inattivi. Nel silenzio è possibile sentire quello che proviene da spazi e tempi che

vanno oltre ciò che la mente in condizioni normali può percepire. È possibile accedere a conoscenze che hanno molto poco di "umano" ma

che nello stesso tempo appartengono profondamente all'umanità. Gli artisti nell'eseguire i loro lavori in modo consapevole o inconsapevole

sono in questo particolare stato. Gli sciamani di tutto il mondo per portare guarigione, conoscenza e

saggezza alla loro comunità hanno elaborato varie pratiche per giungere in modo tangibile ed affidabile al silenzio.

Carlos Castaneda addestrato da don Juan Matus, uno sciamano Yaqui nel

deserto di Sonora, ha descritto minuziosamente nei suoi ultimi libri come gli sciamani dell'Antico Messico entravano nella profondità del silenzio interiore attraverso i Passi Magici.

Questi sono movimenti e respirazioni sognate dai veggenti del suo lignaggio, in tempi molto remoti e che hanno riportato in questa realtà con scopi pratici.

Attraverso il silenzio interiore è possibile sconfiggere quello che in quasi

tutte le tradizioni spirituali, dall'Oriente fino all'Occidente, viene individuato come il più grande ostacolo all'evoluzione del genere umano.

La mente che interiormente continua a dire "io.., io…, io,…" con il suo rumore copre tutti gli altri segnali e le altre percezioni che sono disponibili all'uomo.

Carlos Castaneda, nel suo libro "Tensegrità" racconta l'episodio in cui,

avendo ottenuto il silenzio interiore, per la prima volta riuscì a "vedere", e la cosa che più lo sconvolse dell'episodio fu non tanto la visione di un paesaggio mai visto, di animali preistorici, di suoni ancestrali che riuscì a percepire in mezzo al traffico di Los Angeles, ma il fatto che in qualche modo queste cose le aveva percepite anche prima, da sempre.

Lo sciamanesimo è la pratica più facile e nello stesso momento più difficile

da vivere proprio per questo, perché spesso le cose arrivano in modo così semplice ed immediato che non ci rendiamo conto del loro intrinseco valore.

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La mente si mette d'ostacolo, complica ed offusca la percezione diretta, porta il giudizio, la mancanza di fiducia e svaluta ciò che invece avvertiamo con il cuore.

Ma come possiamo raggiungere il silenzio interiore? Gli sciamani hanno sviluppato moltissimi stratagemmi per mettere da parte

la mente. Il silenzio può durare qualche secondo oppure degli interi minuti, dipende

dalle capacità individuali ed anche dai mezzi che vengono utilizzati. Chi riesce a superare una certa soglia è poi in grado di raggiungere il

silenzio in modo spontaneo. Uno dei metodi più affascinante è quello che ha tramandato il lignaggio di

Carlos Castaneda attraverso i Passi Magici, che utilizza alcuni movimenti del corpo. Secondo i veggenti del suo lignaggio oltre al corpo fisico abbiamo un corpo energetico, e questo è al di fuori del controllo della mente.

I Passi Magici hanno la capacità di avvicinare i due corpi, fino ad unirli in una unità percettiva in grado di attingere alla conoscenza silenziosa, come venne definita dal suo maestro il nagual don Juan.

I Passi Magici stimolano opportuni punti di collegamento tra il corpo fisico

ed il corpo energetico ed attivano aree di energia che sono spesso inutilizzate. L'azione congiunta di questi due azioni porta ad una completa saturazione

della mente, che non è più in grado di interferire con gli stati elevati di coscienza, permettendo a coloro che li praticano in modo disciplinato e sobrio, di vedere l'energia così come fluisce nell'universo.

I Passi Magici tramandati per il silenzio interiore hanno nell'oscurità la loro

fonte principale, proprio perché l'oscurità, togliendo all'organo più vicino alla mente, l'occhio, la possibilità di essere attivo, facilita quell'assenza di pensiero-verbalizzazione caratteristico dell'attività mentale.

Sono movimenti molto elementari, come per esempio il tracciare con il

piede o con le mani delle figure semplici, oppure esercitare pressione in alcune parti del corpo in sincronia con il respiro, che alterano in modo sottile ma profondo lo stato di coscienza.

Questi movimenti permettono al corpo di assumere la consapevolezza che realmente gli appartiene, attivando aree che nella vita quotidiana sembrano non esistere, e conferiscono una carica di benessere facilmente percepibile.

Uno dei più potenti strumenti per raggiungere il silenzio interiore è il

tamburo. Con il battito monotono e continuato il cervello comincia a rallentare la sua

attività, i pensieri vengono rapidamente messi da parte per lasciare spazio alla conoscenza non-verbale.

In questo caso il passaggio dal dialogo interiore, cioè da quella serie di pensieri che continuamente sovraffollano la mente, ed il silenzio diventa graduale, la continuità del tamburo inoltre permette di ritornare al silenzio in ogni momento, anche se il dialogo è per qualche istante ritornato.

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Nel lignaggio di Carlos Castaneda il suono dei tamburi è utilizzato in

abbinamento con alcuni passi simili ad una danza, per rinforzare l'effetto e per conferire all'intero corpo la percezione del silenzio.

Quello che avviene tra due pensieri è silenzio interiore, ma quante volte succede questo a noi occidentali, completamente in balia degli stimoli esterni, come ad esempio radio, TV, cinema, computer?

Nello Ceccon

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L'ESPERIENZA DEL SILENZIO INTERIORE Si ritiene che l'esperienza piu' significativa che puo' essere vissuta

dall'individuo sia rappresentata dallo sviluppo delle potenzialità manifestate dalla dimensione del Silenzio interiore.

Essa rappresenta un momento particolare in cui l'individuo riesce a sottrarsi dalle influenze soggettive del suo visibile quotidiano per affacciarsi sul mistero dell'invisibile. Non piu' ingannato dalla rappresentazione sensoriale del mondo che conosce, non piu' accompagnato dalle aspettative della sua personalita', non piu' guidato dai percorsi culturali del mondo degli altri in cui vive.

Solo, con la compagnia di se stesso e nella sua purezza intangibile di creatura senziente che scopre l'eterno presente che l'accompagna e che e' parte integrante della sua vita.

E' quel silenzio tante volte inseguito nella solitudine, lontano dagli altri e dalle cose, cercato per sottrarsi ad una vita inutile e infeconda, per trovare forza di fronte alla disperazione delle vicende del quotidiano e per trovare energia per la propria creativita'.

Quel silenzio trovato quando ci si libera dal richiamo insistente del quotidiano per calarsi in quella situazione di solitudine aperta alla grandezza della natura e si entra in una condizione di silenzio interiore che ci apre una porta inaspettata sull'infinito.

E' il silenzio che gli antichi indicavano di cercare nel contatto con la grandezza e il silenzio delle cime delle montagne o, secondo la tradizione druidica, nel contatto con le grandi pietre erette degli "stone circle" che dava modo di realizzare l'esperienza intuitiva del "giardino di pietra".

Nella meditazione questa esperienza non avviene a caso. E' la meditazione stessa che conduce a questo silenzio interiore mostrandolo nella sua qualita' di una soglia che si apre sul mistero della vita.

Non e' una astrazione momentanea dal quotidiano, e' un contatto con il trascendente, lo Shan dell'antico druidismo, che entra nella nostra vita e che si trasmette ai valori del visibile per saldarli all'invisibile in una sola realta' completa e fonte di armonia e di benessere.

Nel silenzio interiore vissuto nell'esperienza della meditazione si entra in contatto con una dimensione reale che esiste al di la' delle nostre aspettative e delle nostre emozioni e sopratutto che non rappresenta una semplice astrazione dagli eventi della personalita' e del quotidiano.

Nel silenzio interiore c'e' la realta'. Si evidenzia l'immanenza del Mistero che da origine e significato all'uomo e

all'intero universo. Si incontra l'esperienza del Vuoto, la natura reale dell'esistenza per quella

che e', senza gli attributi fuorvianti dei concetti e delle aspettative del mondo dell'ovvio.

C'e' la conoscenza necessaria per modificare il proprio vissuto, per portarvi benessere e armonia in maniera concreta e significativa.

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Realizzare e vivere l'esperienza del silenzio significa infatti ritrovare se stessi e prendere consapevolezza dei propri bisogni reali a lungo persi di vista nell'esecuzione di ruoli e di morali sociali.

Significa uscire dai ricatti e dalle illusioni dell'ovvio prodotte e alimentate dalla mente per trovare preziose e reali intuizioni di vita e ottenere finalmente una immediata pace interiore, fuori dal turbinio dei propri pensieri e delle proprie preoccupazioni.

Il silenzio interiore consente di realizzare una esperienza personale di rapporto con la natura piu' intima e mistica dell'esistenza, ricucendo un rapporto che era stato vissuto nell'infanzia ma che era stato interrotto dalle esigenze del vissuto quotidiano, per affacciarsi sul Mistero che anima l'esistenza con antico entusiasmo aperti con curiosita' a nuove esperienze.

In questa esperienza interiore si può giungere a scorgere l'esistenza di un sentiero misterioso che porta alla conoscenza del significato della propria vita e dell'universo intero.

Un sentiero che si puo' intraprendere e percorrere, fatto di progressivi stati percettivi di coscienza che portano in un atto di risveglio alla conoscenza e alla partecipazione della natura più intima e segreta dell'esistenza, lo Shan.

Ed e' qui che ci si rende conto che in questo silenzio si puo' trovare una infinita energia spirituale che si puo' canalizzare in una creativita' personale da poter dedicare a se stessi e agli gli altri.

Ed in questa occasione che si scopre che il silenzio realizzato nella meditazione e' una esperienza di amore e di conoscenza di portata immensa.

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L'esychia ovvero la tranquillità interiore ed esteriore

I. I DIFFERENTI LIVELLI DELL'ESYCHIA

1. Esychia e solitudine

2. Esychia e la spiritualità della cella 3. Esychia e il "ritorno in sé stessi"

4. Esychia e povertà spirituale

II. ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU'

III. PREGHIERA E AZIONE I. I DIFFERENTI LIVELLI DELL'ESYCHIA Una delle storie dei "Detti dei Padri del deserto" descrive una visita di

Teofilo, arcivescovo di Alessandria. ai monaci di Scete. Ansiosi di fare una buona impressione al loro illustre ospite. i monaci riuniti

chiesero all'abate Pambo: "Di' qualcosa di edificante all'Arcivescovo". Ed il vecchio rispose: "Se non è edificato dal mio silenzio, tanto meno sarà edificato dalle mie parole".

Questa storia indica l'estrema importanza data dalla tradizione del deserto alla esychia, la qualità dell'immobilità e del silenzio. "Dio ha scelto l'esychia al di sopra di ogni altra virtù" è detto altrove nei "detti dei padri del deserto".

Come insiste S. Nilo di Ancira: "È impossibile che l'acqua infangata si possa chiarificare se si continua a rimestarla; ed è impossibile diventare monaco senza l'esychia".

Esychia, comunque, significa ben di più della semplice astenzione dal

parlare fisico. Il termine può essere invece interpretato a molti livelli differenti. Tentiamo di distinguere i vari significati, partendo dai più esteriori per arrivare ai più profondi ed interiori.

1. Esychia e solitudine Nelle fonti più antiche il termine "esicasta" e il relativo verbo "esichazo"

generalmente denota un monaco che vive in solitudine, da eremita, a differenza di quelli che sono membri di un cenobio. Questa accezione si ritrova già in Evagrio pontico ( + 399) e in Nilo e Palladio (inizi V secolo). Si ritrova pure nei "Detti dei Padri del deserto", in Cirillo di Scitopoli, in Giovanni Mosco, Barsanufio, e nella legislazione di Giustiniano.

Il termine esychia continua ad essere adoperato con questo significato anche in autori posteriori, come in S. Gregorio il Sinaita ( + 1346). A questo livello il termine si riferisce soprattutto alla relazione, nello spazio, di un uomo in rapporto ad altri. Questo è il significato più esteriore.

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2. Esychia e la spiritualità della cella "Esychia - dice l'abate Rufo nei "Detti" - è dimorare nella propria cella nel

timore e nella conoscenza di Dio, astenendosi completamente dal rancore e dalla vanagloria. Tale esychia è madre d'ogni virtù e protegge il monaco dalle frecce infuocate del nemico".

Rufo continua mettendo l'esychia in relazione col ricordo della morte e conclude dicendo: "Siate vigilanti sulla vostra anima". Esychia è qui associata con un altro termine chiave della tradizione del deserto, "nepsis", sobrietà spirituale o vigilanza.

Quando "esychia" è collegata con la cella, il termine si riferisce ancora alla situazione esterna, dell'esicasta nello spazio; ma questo significato è allo stesso tempo più interiorizzato e spirituale.

L'esicasta, nel senso di uno che rimane con attenta vigilanza nella sua cella, non è sempre essere un solitario, ma può essere anche un monaco vivente in comunità. L'esicasta è, allora, uno che obbedisce all'ingiunzione di Abba Mosè: "Vai a sederti nella tua cella e la tua cella ti insegnerà tutto". Egli tiene a mente il consiglio che Arsenio diede ad un monaco che desiderava fare opera di servizio caritatevole: - Qualcuno domandò ad Arsenio, "I miei pensieri mi tormentano dicendomi: - Non puoi digiunare, né lavorare: almeno vai a visitare gli infermi, che questo è pure una forma di amore".

L'anziano, riconoscendo i germi seminati dal demonio, gli disse: - "Vai, mangia, bevi e dormi senza fare alcun lavoro; solamente non lasciare la tua cella".

Perché egli sapeva che la permanenza paziente in cella, porta il monaco al compimento della sua vocazione.

La relazione tra esychia e la cella è chiaramente definita in un famoso detto

di S. Antonio d'Egitto: "I pesci muoiono se s'attardano in terra asciutta; similmente i monaci, quando ciondolano fuori della cella o passano il loro tempo con uomini del mondo, perdono il tono della loro esychia".

Il monaco che rimane nella cella è come la corda d'uno strumento

accordato. L'esychia lo mantiene in uno stato di alerte prontezza, ma non di tensione ansiosa nè di sovraffaticamento; ma se egli ciondola fuori della cella la sua anima diviene grassa e flaccida.

La cella, compresa come struttura esterna dell'esychia, è vista soprattutto

come un laboratorio di incessante preghiera. La principale attività del monaco, quando rimane immobile e in silenzio

nella sua cella, è il continuo ricordo di Dio, accompagnato da un senso di compunzione e di cordoglio. "Siedi nella tua cella", dice abba Ammonas a un vecchio che si propone d'adottare qualche ostentata forma d'ascetismo, "mangia un poco ogni giorno ed abbi sempre nel suo cuore le parole del pubblicano. Allora potrai essere salvato".

Le parole del pubblicano "Dio abbi compassione di me peccatore" sono

strettamente parallele alla formula della preghiera di Gesù, come si trova a partire dal VI secolo in Barsanufio, nella vita di abbà Filemon ed altre fonti.

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Ritorneremo a tempo debito all'argomento dell'esychia e della invocazione del nome. La clausura della cella monastica e il nome di Gesù sono esplicitamente connessi in una frase di Giovanni di Gaza a proposito del suo confratello eremita Barsanufio: "La cella in cui è rinchiuso vivo come in una tomba, per amore del nome di Gesù, è il suo luogo di riposo; nessun demone vi entra, neppure il principe dei demoni, il Diavolo. È un santuario perché contiene la dimora di Dio".

Per l'esicasta, dunque, la cella è casa di preghiera, santuario e luogo

d'incontro tra uomo e Dio. Tutto ciò è espresso con particolare efficacia nel detto "La cella dal monaco è la fornace di Babilonia, in cui i tre fanciulli trovarono il Figlio di Dio; è la colonna di nubi da cui Dio parlò a Mosè". Questa nozione della cella come punto focale della Presenza divina, si ritrova nelle parole d' un eremita copto contemporaneo, Abuna Matta al-Mesin.

Quando un visitatore gli chiese se avesse mai pensato di andare in

pellegrinaggio ai luoghi santi, egli rispose: "Gerusalemme. la santa, è qui, dentro e attorno queste caverne, perché che altro è la mia caverna se non il luogo in cui nacque il mio Salvatore, Cristo; che altro è la mia caverna se non il luogo in cui Cristo, mio Salvatore, fu condotto al riposo, che altro è la mia caverna se non il luogo da cui Egli al massimo della gloria risorse dai morti? Gerusalemme è qui, proprio qui, e tutte le ricchezze spirituali della città santa si possono trovare in questa radura".

A questo punto, ci stiamo muovendo velocemente dal significato esteriore a

quello più interiore del termine "esychia". Interpretato in termini di spiritualità della cella, la parola significa non solo

una condizione esteriore, fisica, ma anche uno stato dell'anima. Denota l'attitudine d'uno che sta nel suo cuore di fronte a Dio.

"La cosa principale" dice il vescovo Teofane il Recluso (1815-94) "è stare di

fronte a Dio con la mente nel cuore, e continuare a restare di fronte a Lui incessantemente, notte e giorno, fino al termine della vita".

E questo è, praticamente, ciò che la quiete ed il silenzio significano per

l'esicasta. 3. Esychia e il "ritorno in sé stessi" Questa comprensione più interiorizzata di "esychia" è perfettamente

espressa nella definizione classica dell'esicasta come la ritroviamo in S. Giovanni Climaco ( + ca. 649): "L'esicasta è uno che cerca di confinare il suo essere incorporeo nella sua casa corporea, per quanto ciò possa parere paradossale".

L'esicasta, nel vero senso del termine, non è qualcuno che ha viaggiato all'esterno verso il deserto, qualcuno che si separa fisicamente dagli altri, chiudendo la porta della sua cella, ma uno che "ritorna in sé stesso" chiudendo la porta della sua mente. "Ritornò in sé" è detto del figliuol prodigo e questo è

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ciò che anche l'esicasta fa. Egli risponde alle parole di Cristo "Il Regno di Dio è dentro di voi" e cerca di "guardare il cuore con tutta l'attenzione" (Pr. 4,23).

Reinterpretando la nostra definizione originale dell'esicasta come di un

solitario che vive nel deserto, possiamo dire che la solitudine è uno stato dell'anima, non un fatto di collocazione geografica, il deserto reale si trova dentro, nel cuore.

Il "ritorno in sé" è descritto con precisione da S. Basilio il Grande ( + 379)

e da S. Isacco di Siria (VII sec.). "Quando la mente non è più dispersa nelle cose esterne", scrive Basilio, "né sperduta nel mondo a causa dei sensi, allora essa ritorna in sé; e per mezzo di sé stessa ascende al pensiero di Dio".

"Siate in pace con la vostra anima" intima Isacco, "e allora cielo e terra

saranno in pace con voi. Entrate prontamente nel tesoro che è dentro di voi, e così vedrete le cose che sono in cielo; perché una sola è l'entrata che conduce ad entrambi. La scala che porta al Regno è nascosta nella vostra anima. Sfuggite il peccato, immergetevi in voi stessi, e nella vostra anima scoprirete la scala su cui ascendere".

A questo punto sarà utile fare una breve pausa e distinguere con maggior

precisione tra i significati interiore ed esteriore della parola "esychia". In un famoso detto di abba Arsenio si indicano tre livelli. Quando era

ancora tutore dei figli dell'imperatore nel palazzo, Arsenio pregò Dio: "Mostrami come posso essere salvato".

E una voce rispose: "Arsenio. sfuggi dagli uomini e sarai salvato". Egli si ritirò nel deserto e divenne un solitario; e poi pregò ancora, con le stesse parole. Questa volta la voce rispose: "Arsenio, sta' lontano, sta, in silenzio, sta' in quiete, perché queste sono le radici della libertà del peccato".

Fuggire gli uomini, restare in silenzio, rimanere in quiete: tali sono i tre gradi dell'esychia.

Il primo è spaziale, il "fuggire gli uomini", esternamente, fisicamente. Il secondo è ancora esterno, il "rimanere in silenzio", il desistere dal

parlare. Nessuna di queste cose può trasformare un uomo in un reale esicasta;

perché anche se vive in una solitudine esteriore e tiene la bocca chiusa, può essere interiormente pieno di irrequietezza e agitazione.

Per conseguire la vera quiete è necessario passare dal secondo livello al terzo, dall'esychia esterna a quella interiore, dalla mera privazione di parlare a quella che S. Ambrogio di Milano chiama "Negotiosum silentium", il silenzio attivo e creativo.

S. Giovanni Climaco distingue gli stessi tre livelli: "Chiudi la porta della tua

cella materialmente, la porta della lingua al parlare, e la porta interiore ai cattivi spiriti".

Questa distinzione tra i livelli di esychia, ha importanti implicazioni per i rapporti dell'esicasta con la società.

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Uno può fuggire nel deserto visibilmente e geograficamente, e pure nel

cuore rimanere ancora nel mezzo della città; inversamente un uomo può continuare a restare fisicamente nella città ed essere esicasta vero nel cuore.

Per un cristiano ciò che importa non è la posizione spaziale, ma il suo stato

spirituale. È vero che alcuni scrittori dell'oriente cristiano, e in particolare S. Isacco di Siria, sono giunti molto vicino all'affermazione che non ci può essere esychia interiore senza solitudine esteriore. Ma questo non è certo opinione comune.

Ci sono storie nei "Detti", in cui laici, completamente impegnati in una vita di servizio attivo nel mondo, sono paragonati ad eremiti e solitari; un dottore d'Alessandria è considerato, per esempio, spiritualmente pati a S. Antonio il grande stesso. S. Gregorio il Sinaita rifiutò la tonsura ad un suo discepolo chiamato Isidoro, e lo rimandò da Monte Athos a Tessalonica, per essete di esempio e guida ad un gruppo di laici.

Ben difficilmente Gregorio avrebbe potuto fate questo, se avesse considerato la vocazione di esicasta urbano come una contraddizione. S. Gregorio Palamas insiste, nella maniera più chiara, che il comando di S. Paolo "pregate incessantemente" si applica a tutti i cristiani senza eccezioni.

A questo proposito si dovrebbe ricordare che, quando scrittori ascetici greci. come Evagrio o Massimo il confessore, usano i termini "vita attiva" e "vita contemplativa" per essi "vita attiva" non significa la vita di servizio diretto al mondo, come la predicazione, l'insegnamento, il lavoro sociale ecc., ma la battaglia interiore per sottomettere le passioni ed acquistare le virtù.

Usando il termine in questa accezione, si può dire che molti eremiti e molti religiosi viventi in stretta clausura, sono ancora coinvolti nella "vita attiva".

E così ci sono uomini e donne completamente impegnati nella vita di

servizio al mondo che pure posseggono la preghiera del cuore; e di essi si può dire che vivono la "vita contemplativa". S. Simeone il nuovo teologo ( + 1022) affermava che la pienezza della visione di Dio è possibile "nel mezzo delle città" come "nelle montagne e nelle celle".

Egli credeva che persone sposate, con lavori secolari e bambini, e gravati delle ansietà di condurre una grande famiglia, potessero nondimeno ascendere le vette della contemplazione; S. Pietro aveva obblighi familiari eppure il Signore lo chiamò a salire il Tabor e ad assistere alla gloria della trasfigurazione. Il criterio non sta nella situazione esterna, ma nella realtà interna.

E così come è possibile vivere nella città ed essere esicasta, ci sono analogamente alcuni il cui dovere è di parlare sempre e che tuttavia sono interiormente in silenzio. Secondo le parole di abba Poen, "un uomo appare rimanere silenzioso e pure condanna gli altri in cuore: una tal persona sta parlando tutto il tempo.

Un altro parla da mattina a sera eppure resta in silenzio; cioè, egli non dice nulla all'infuori di ciò che è utile agli altri".

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Ciò concorda esattamente con la posizione degli startsi come S. Serafino di Sarov e i padri spirituali di Optimo della Russia del XIX secolo: costretti dalla loro vocazione a ricevere un flusso interminabile di visitatori - dozzine e anche centinaia in un sol giorno - non perciò tralasciavano la loro esychia interiore. Invero, era proprio a causa di questa esychia interiore che potevano agire da guida agli altri.

Le parole che dicevano a ciascun visitatore erano cariche di potere, perché erano parole che provenivano dal silenzio. In una delle sue risposte, Giovanni di Gaza fece una chiara distinzione tra silenzio interiore ed esteriore. Un fratello vivente in una comunità che trovava nei suoi doveri di lavoro come falegname una causa di disturbo e distrazione chiese, se non avesse dovuto divenire eremita e "praticare il silenzio di cui i padri parlano". Giovanni non fu d'accordo "come i più" rispose "tu non capisci cosa s'intende col silenzio di cui parlano i padri.

Silenzio non consiste nel tenere la bocca chiusa. Un uomo può dire diecimila parole utili, e ciò vale come silenzio; un altro dice una sola parola non necessaria, ed è rompere il comandamento del Signore: Nel giorno del giudizio renderete conto di ogni parola oziosa che esce dalla vostra bocca".

4. Esychia e povertà spirituale La quiete interiore, quando è intesa come custodia del cuore e ritorno in sé,

implica un passaggio dalla molteplicità all'unità, dalla diversità alla semplicità e alla povertà spirituale. Per usare la terminologia di Evagrio, la mente deve diventare "nuda".

Questo aspetto dell'esychia è reso esplicito in un'altra definizione di S. Giovanni Climaco: "Esychia è mettere da parte i pensieri". In ciò egli adatta una citazione di Evagrio "preghiera è mettere da parte i pensieri". La esychia implica un progressivo autosvuotamento, in cui la mente è spogliata di tutte le immagini visuali e di tutti i concetti umani, e così contempla in purezza il mondo di Dio. L'esicasta, da questo punto di vista, è uno che è avanzato dalla "praxis" alla "theoria". Dalla vita attiva alla contemplativa.

S. Gregorio dei Sinai contrappone l'esicasta al "praktikos" e continua a parlare "degli esicasti che son contenti di pregare a Dio solo nel loro cuore e di astenersi dai pensieri".

L'esicasta, quindi, non è tanto uno che s'astiene dall'incontrare e parlare con gli altri, quanto chi, nella sua vita di preghiera, rinuncia ad ogni immagine, ogni parola, e ragionamento discorsivo, e che è "sollevato al di sopra dei sensi nel puro silenzio".

Questo "puro silenzio", sebbene sia denominato "povertà spirituale", è

lontano dall'essere una semplice assenza o privazione. Se l'esicasta spoglia la propria mente da ogni concetto di provenienza

umana, per quanto sia possibile, il suo scopo in questo "autoannullamento" è del tutto costruttivo.

Che egli possa essere riempito dall'Onnicomprensivo senso della presenza Divina, è fatto notare bene da S. Gregorio il Sinaita: "Perché dilungarsi nel parlare? La preghiera è Dio, che fa ogni cosa in ogni uomo".

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"La preghiera è Dio"; "non è tanto qualcosa che io faccio, ma qualcosa che Dio sta facendo in me" ... "non io, ma Cristo in me" .

Il programma dell'esicasta è delineato esattamente nelle parole del Battista

riguardo al Messia: "Egli deve crescere ma io diminuire". L'esicasta cessa le sue attività, non per essere ozioso, ma per entrare nella

attività di Dio. Il suo silenzio non è assenza, non è negativo - una pausa vuota tra due parole, un breve riposo prima di riprendere il discorso - ma del tutto positivo; un'atteggiamento di attenzione alerte, di vigilanza, e soprattutto di ascolto.

L'esicasta è per eccellenza colui che ascolta, che è aperto alla presenza di un Altro: "Stai in quiete e sappi che io sono Dio" .

Nelle parole di S. Giovanni Climaco "L'esicasta è uno che dice dormo, ma il

mio cuore resta vigile" . Ritornando in sé stesso, l'esicasta entra nella camera segreta del suo cuore e può così, restando là di fronte a Dio, ascoltare il linguaggio senza parole del suo creatore. "Quando preghi" osserva uno scrittore ortodosso contemporaneo della Finlandia "devi tu stesso star in silenzio e lasciar parlare la preghiera". - o più esattamente - lasciar parlare Dio.

L'uomo dovrebbe sempre star zitto e lasciar Dio solo parlare". Questo è ciò che l'esicasta mira ad ottenere.

Esychia perciò denota la transizione della "Mia" preghiera alla preghiera di Dio che opera in me - o per usare una terminologia del vescovo Teofane - dalla preghiera strenua o laboriosa, alla preghiera 'che agisce da sé' o che 'muove da sé'.

Il vero silenzio interiore o esychia, nel senso più profondo, è identico

all'incessante preghiera dello Spirito Santo dentro di noi. Come dice S. Isacco di Siria "Quando lo Spirito prende dimora in un uomo

questi non cessa di pregare, perché lo Spirito continuerà a pregare costantemente in lui.

Allora né nel sonno, né nella veglia, la preghiera potrà essere separata dalla sua anima; ma quando mangia, quando beve, quando giace e quando fa qualsiasi lavoro, i profumi della preghiera saliranno spontaneamente dal suo cuore".

Altrove S. Isacco paragona questo entrare nella preghiera spontanea, ad

un uomo che varca una porta, dopo che la chiave è stata girata nella serratura, e al silenzio dei servi quando il padrone sopraggiunge fra loro. "Ciò che avviene in seguito è l'ingresso nel tesoro.

A questo punto ogni bocca ed ogni lingua tace. Il cuore, tesoriere dei pensieri, la mente, che governa i sensi, e lo spirito, quell'uccello veloce, tutti debbono stare quieti; perché è arrivato il padrone della casa". Compresa in questo senso, come ingresso nella vita e nell'attività di Dio, l'esychia è qualcosa che, durante l'età presente, gli uomini possono ottenere solo ad un

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grado limitato e imperfetto. È una realtà escatologica, che è riservata nella sua pienezza nell'età a venire. Nelle parole di Isacco "Il silenzio è un simbolo del mondo futuro".

II. ESYCHIA E PREGHIERA DI GESU' La "preghiera di Gesù" consiste nel ripetere incessantemente la seguente

invocazione: "Signore, Gesù Cristo, Figlio del Dio vivente, abbi pietà di me, peccatore". Ogni invocazione può essere ritmata con la respirazione e conteggiata con un apposito cordoncino composto di nodi (komboi) il cui nome è komboskini. La foto sottostante raffigura il venerato padre Giuseppe (+ 15 agosto 1959) gran praticante di questa preghiera.

In linea di principio esychia è un termine generico per la preghiera

interiore, ed abbraccia una varietà di più specifici modi di pregare. In pratica, comunque, la maggioranza degli scrittori ortodossi più recenti, usano la parola per designare un sentiero spirituale in particolare: l'invocazione del nome di Gesù.

Occasionalemnte, sebbene con minor giustificazione, il termine "esicasmo" è impiegato in un senso ancor più ristretto ad indicare la tecnica fisica e gli esercizi di respirazione che talvolta sono usati in connessione con la "preghiera di Gesù".

L'associazione dell'esychia col nome di Gesù e, come sembra, col respiro -

si ritrova già in S. Giovanni Climaco: "Esychia è restare di fronte a Dio in incessante adorazione.

Fate che il ricordo di Gesù sia unito al vostro respiro e allora conoscerete il valore dell'esychia". Qual'è la relazione tra preghiera di Gesù ed esychia? In che modo l'invocazione del Nome aiuta il raggiungimento del silenzio interiore, ora descritto?

La preghiera, è stato detto, è "metter da parte i pensieri", un ritorno dal

molteplice all'unità. Ora chiunque faccia un serio sforzo di pregare interiormente, stando di

fronte a Dio, con attenzione raccolta, diviene immediatamente conscio della sua disintegrazione interiore - della sua incapacità di concentrarsi nel momento presente, nel "Kairos".

I pensieri si muovono senza posa nella testa, come mosche ronzanti

(vescovo Teofane) o come il capriccioso saltare di ramo in ramo delle scimmie (Ramakrishna).

Questa mancanza di concentrazione, questa incapacità di essere qui ed ora con l'intero essere, è una delle più tragiche conseguenze della caduta. Che si deve fare?

La tradizione ascetica dell'Oriente ortodosso distingue due principali metodi per superare i "pensieri".

Il primo è diretto: contraddire i nostri "logismi", incontrarli faccia a faccia, tentando di espellerli per uno sforzo di volontà. Un tal metodo può, comunque, dimostrarsi controproducente. Quando sono represse con violenza, le nostre

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fantasie, tendono a tornare con forza accresciuta. A meno che si sia estremamente sicuri di sé; è più sicuro usare il secondo metodo che è indiretto. Invece di combattere direttamente i pensieri e cercare di scacciarli con uno sforzo di volontà, si può cercare di distogliere l'attenzione da essi e guardare altrove.

La strategia spirituale diviene così positiva invece che negativa: l'obiettivo immediato non è tanto svuotare la mente da ciò che è male, quanto di riempirla di ciò che è buono. E questo secondo metodo che è raccomandato da Barsanufio e Giovanni di Gaza. "Non contraddire i pensieri suggeriti dai tuoi nemici" consigliano "perché è esattamente ciò che vogliono, e non desisteranno.

Ma rivolgiti al Signore per ricevere aiuto contro di essi, ponendo di fronte a Lui la tua impotenza; perché Lui è capace di espellerli e di ridurli a niente".

È evidente che non è possibile fermare il flusso dei pensieri con un violento

sforzo della volontà. È di poco o di nessun valore il dire a noi stessi "smetti di pensare"; si potrebbe dire ugualmente "smetti di respirare". "La mente razionale non può restare oziosa" insiste S. Marco il monaco.

Come posso conseguire, la povertà spirituale ed il silenzio interiore? Anche se non è possibile far desistere completamente l'inquieta intelligenza dalla sua instabilità, ciò che si può fare è semplificare e unificare la sua attività ripetendo in continuazione una certa formula di preghiera. Il flusso di immagini e pensieri continuerà, ma si sarà gradualmente resi capaci di distaccarci da esso.

L'invocazione ripetuta ci aiuterà a "lasciare andare" i pensieri presentatici dal nostro io conscio o inconscio.

Questo "lasciar andare" sembra corrispondere a ciò che Evagrio aveva in animo quando parlava della preghiera come di un "mettere da parte" i pensieri. Non un selvaggio conflitto, non una campagna spietata di furiosa aggressione, ma un gentile eppur persistente atto di distacco.

Tale è la psicologia ascetica presupposta nell'uso della preghiera di Gesù.

L'invocazione del nome ci aiuta a focalizzare la nostra personalità disintegrata su un singolo punto.

"Attraverso il ricordo di Gesù Cristo" scrive Filoteo del Sinai (IX-X sec.) "raccogliete la vostra mente dispersa". La preghiera di Gesù è da considerarsi come un 'applicazione del secondo metodo: l'indiretto, di combattere i pensieri; invece di cercare di scordare le nostre corrotte e triviali immaginazioni attraverso un confronto diretto, ci distogliamo e guardiamo al Signore Gesù; invece di fare affidamento sulle nostre forze, prendiamo rifugio nella forza e nella grazia che agiscono tramite il Nome Divino.

L'invocazione ripetuta ci aiuta a "lasciar andare" e a distaccarci dal continuo chiacchierio dei nostri "logismi".

Concentriamo ed unifichiamo la nostra mente, continuamente attiva, nutrendola con una dieta spirituale che è ad un tempo ricca eppur estremamente semplice. "Per fermare il continuo ribollire dei nostri pensieri" dice il vescovo Teofane "dovete legare la mente con un pensiero, o con il pensiero di uno solo - il pensiero del Signore Gesù".

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S. Diadoco di Foticea (V sec.) afferma: "Quando abbiamo bloccato tutte le uscite della mente per mezzo del ricordo di Dio, allora essa ci richiede ad ogni costo qualche impegno che soddisfi il suo bisogno di attività. Diamole allora, come sola attività il Signore Gesù".

Tale in generale è il modo in cui la "preghiera di Gesù" può essere usata

per stabilire l'esychia all'interno del cuore. Ne derivano due importanti conseguenze. Prima, per conseguire il suo

proposito l'invocazione dovrebbe essere ritmica e regolare, e nel caso di un esicasta d'esperienza provata (ma non di un principiante che deve procedere con cautela) dovrebbe essere ininterrotta e continua per quanto è possibile.

Aiuti esterni, come l'uso del comvoschini (= una specie di "rosario" ortodosso) e il controllo del respiro, hanno come loro principale scopo precisamente di stabilire questo ritmo regolare. In secondo luogo, durante la recitazione della "preghiera di Gesù", la mente dovrebbe essere vuota d'immagini mentali, per quanto ciò è possibile.

Perciò è meglio praticare la preghiera in un luogo dove vi siano rari rumori o nessuno del tutto; dovrebbe essere recitata nell'oscurità o con gli occhi chiusi, piuttosto che di fronte ad un'icona illuminata da candele o da lampada votiva.

Lo starets Silvano del Monte Athos (1866-1938), quando diceva la

preghiera usava riporre l'orologio nell'armadio per non udire il ticchettio, e poi si tirava sugli occhi e le orecchie il suo spesso cappuccio monacale. Anche se immagini visive sorgeranno inevitabilmente quando preghiamo, non per questo debbono essere deliberatamente incoraggiate.

"La preghiera di Gesù" non è una forma di meditazione discorsiva sugli

eventi della vita di Cristo. Quelli che invocano il Signore Gesù dovrebbero avere in cuore un'intensa e

bruciante convinzione che essi stanno nella immediata presenza del Salvatore, che egli è di fronte e dentro di loro, che egli sta ascoltando la loro invocazione e rispondendo a sua volta.

Tale consapevolezza della presenza di Dio non dovrebbe comunque essere accompagnata da alcuna immagine visiva, ma confinata a una semplice sensazione o convinzione; come dice S. Gregorio di Nissa ( + 395) "lo Sposo è presente, ma non è visibile".

III. PREGHIERA E AZIONE Nell'Ortodossia non esiste contraddizione o opposizione tra vita attiva e vita

contemplativa. Non esistono ordini di "vita attiva" e ordini di "vita contemplativa". Tutto è concepito in modo unitario! Il monaco è dunque dedito al rapporto con Dio e all'attenzione verso il

prossimo. D'altronde anche l'Occidente viveva in questa prospettiva. Si veda, ad

esempio, la vita di San Patrizio, monaco e missionario presso gli Irlandesi (V sec.). Un esempio moderno che mostra la medesima comprensione è dato pure

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dalla vita di San Cosma di Etolia (in figura), vissuto nel periodo della turcocrazia (XVIII sec.).

Esychia, dunque, implica una separazione dal mondo - separazione

esteriore oppure interiore, e talvolta entrambe: esteriore per mezzo della fuga nel deserto; interiore attraverso il "ritorno in sé" e il "mettere da parte i pensieri".

Per citare i "Detti dei Padri del deserto": "A meno che uno non dica nel suo cuore: io solo e Dio siamo nel mondo, non troverà riposo". "Da solo al Solo".

Ma non è forse ciò egoistico, un rifiutare il valore spirituale della creazione materiale ed un evadere le proprie responsabilità verso i propri simili?

Quando l'esicasta chiude gli occhi e le orecchie al mondo esterno, come faceva Silvano nella sua cella al monte Athos, quale servizio positivo e pratico sta egli rendendo al suo prossimo?

Consideriamo questo problema sotto due principali punti di vista. In primo

luogo: l'esicaismo è colpevole delle stesse distorsioni di cui fu colpevole il quietismo nell'occidente del XVII sec.?

Finora si è deliberatamente evitato di tradurre "esychia" con "quiete" a causa del significato sospetto connesso al termine "quietista".

L'esicasta non si trova in pratica a sostenete posizioni analoghe a quelle quietiste?

In secondo luogo, qual'è l'attitudine dell'esicasta rispetto al suo ambiente fisico e umano? Di che utilità è agli altri?

Il principio fondamentale del quietismo - è stato detto - è la condanna di

ogni sforzo umano. Secondo i quietisti, l'uomo per essere perfetto, deve ottenere una completa passività e annichilazione della volontà, abbandonandosi a Dio, a tal punto, da non curarsi né di cielo, né d'inferno, né della propria salvezza.

L'anima rifiuta coscientemente non solo tutte le meditazioni discorsive, ma anche ogni atto distinto quale il desiderio per la virtù, l'amore di Cristo, l'adorazione delle persone divine, per restare semplicemente nella presenza di Dio in pura fede.

Una volta che si sia conseguito l'apice della perfezione il peccato è impossibile.

Se questo è il quietismo, la tradizione esicasta è decisamente non quietista. Esychia significa non passività ma vigilanza, "non l'assenza di lotta ma l'assenza di incertezza e confusione".

Anche qualora un esicasta sia avanzato al livello della "Theoria" o contemplazione, egli non deve desistere dall'impegno della "praxis" o azione, cercando con sforzo positivo di acquistare virtù e rigettare il vizio. Praxis e theoria, la vita attiva e la contemplativa, nel senso definito più sopra, non dovrebbero essere considerate come alternative, né come due stadi, cronologicamente successivi, l'uno cessante quando l'altro inizia; ma piuttosto come due livelli d'esperienza spirituale interpenetrantesi e presenti simultaneamente nella vita di preghiera.

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Ciascuno deve lottare al livello della praxis fino al termine della vita. Questo è il chiaro insegnamento di S. Antonio d'Egitto: "Il compito principale dell'uomo è d'essere memore dei suoi peccati al cospetto di Dio, e di aspettarsi tentazioni fino all'ultimo respiro.

Chi siede nel deserto da esicasta ha sfuggito tre guerre: udire, parlare, vedere; ma c'è una cosa che deve continuamente combattere - la battaglia che è dentro il suo cuore".

È vero che l'esicasta come il quietista, non usa la meditazione discorsiva

nella sua preghiera, ma sebbene l'esychia comporti un "lasciare andare" o un "mettere da parte i pensieri e immagini", ciò non implica da parte dell'esicasta un atteggiamento di "completa passività", né l' assenza di "ogni atto distinto quale... l'amore di Cristo".

Il "lasciare andare" del male o dei logismi banali, durante la ripetizione della "preghiera di Gesù", e la loro sostituzione con l'unico pensiero del Nome, non è passività, ma un modo positivo in sé stesso per controllare i pensieri.

L'invocazione del nome è certamente una forma del "restare in presenza di Dio in pura fede", ma allo stesso tempo è contrassegnata da un attivo amore per il Salvatore e da un'acuta nostalgia di condividere ancora più pienamente la vita divina.

I lettori della Filocalia non possono non restare colpiti dall'ardore di devozione mostrato da autori esicasti, dal senso di immediata e personale amicizia per il "mio Gesù".

A differenza del quietista, l'esicasta non fa alcuna dichiarazione d'essere

senza peccato o immune da tentazioni. L'apatheia o "indifferenza", di cui parlano i testi ascetici Greci, non è uno stato di disinteresse passivo o di insensibilità, e ancor meno una condizione in cui sia impossibile peccare.

"Apatheia" dice S. Isacco di Siria: "Non consiste nel non sentire più le

passioni, ma nel non accettarlè". Come insiste S. Antonio, l'uomo deve "aspettarsi tentazioni fino all'ultimo

respiro" e con le tentazioni c'è sempre la genuina possibilità di cadere nel peccato. "Le passioni restano vive" dice abba Abraham "ma son legate dai santi".

Quando un anziano afferma: "Sono morto al mondo" il vicino replica gentilmente "Non essere così fiducioso, fratello, finché non hai lasciato il corpo.

Tu puoi dire: ' Sono morto ' ma Satana non è morto". Negli scrittori Greci a partire da Evagrio, apatheia è strettamente connessa

con l'amore, ciò indica il contenuto dinamico e positivo del termine. Nella sua essenza fondamentale è uno stato di libertà spirituale, in cui

l'uomo è capace di levarsi verso Dio con desiderio ardente. Non è una mera mortificazione delle passioni fisiche del corpo, ma la sua

nuova e rinnovata energia; è uno stato dell'anima in cui l'ardente amore per Dio e per l'uomo non lascia spazio per passioni egoistiche e animalesche.

A denotare il suo carattere dinamico, S. Diadoco usa la frase espressiva: "Il

fuoco dell'apatheia".

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Tutto ciò a dimostrare l'abisso tra esicasmo e quietismo. Per venire ora alla seconda questione: dato per scontato che la tradizione esicasta di preghiera non è "quietista", in un senso sospetto ed eretico, fino a che punto essa è negativa nei confronti del mondo materiale e antisociale nel suo rapporto con gli altri?

Questo dubbio può essere illustrato da una storia dei "Detti" su tre amici

che divennero monaci. Il primo adotta come lavoro ascetico il compito di rappacificatore, cercando

di riconciliare coloro che ricorrono alla legge l'uno contro l'altro. Il secondo cura gli ammalati ed il terzo va nel deserto. Dopo un certo

tempo, i primi due diventano completamente logorati e scoraggiati. Per quanto duramente combattano, essi sono fisicamente e spiritualmente incapaci di fronteggiare tutte le richieste a loro poste.

Prossimi alla disperazione, vanno dal terzo monaco, l'eremita, e gli dicono i loro affanni. Dapprima egli sta in silenzio; poi versa acqua in una ciotola e dice: "guardate".

L'acqua è torbida e turbolenta. Attendono alcuni minuti. L'eremita dice "guardate ancora". Il sedimento è affondato e l'acqua interamente chiara; essi possono vedere

i propri volti come in uno specchio. "Questo è ciò che avviene - dice l'eremita - a chi vive tra gli uomini: a causa della turbolenza non vede i suoi peccati, ma quando ha imparato la quiete, soprattutto nel deserto, riconosce le proprie colpe".

Così finisce la storia. Non ci è detto come i primi due monaci abbiano applicato la parabola

dell'eremita; forse saranno ritornati nel mondo portando dentro di sé qualcosa dell'esychia del deserto.

In questo caso, le parole del terzo monaco sarebbero interpretate nel significato che l'azione sociale, di per sé stessa, non è sufficiente, se non c'è un centro immobile nel mezzo della tempesta.

Se uno, pur nel mezzo delle sue attività, non preserva una stanza segreta nel cuore dove restare solo davanti a Dio, perde ogni senso di direzione spirituale e vien fatto a pezzi.

Senza dubbio questa è la morale che molti lettori del XX sec. sarebbero

propensi a trarre: tutti dobbiamo, in una certa misura, essere eremiti del cuore.

Ma era questa l'intenzione originale della storia? Probabilmente no. Molto più facilmente essa fu intesa come propaganda in favore della vita

eremitica nel senso più letterale e geografico. E ciò solleva subito l'intero problema dell'apparente egoismo e negatività di

questo tipo di preghiera contemplativa. Qual è, allora, la vera relazione dell'esicasta con la società?

Deve essere immediatamente ammesso che, similmente al movimento esicasta del XIV sec., nella rinascenza esicasta del XVIII sec., e nella

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Ortodossia contemporanea i centri principali di preghiera esicasta sono stati i piccoli sketes, gli eremitaggi che accolgono solo un minuscolo gruppo di fratelli, viventi come una piccola famiglia monastica strettamente integrata, nascosta dal mondo.

Molti autori esicasti esprimono una preferenza definita per lo "skete" nei confronti dei cenobi completamente organizzati, la vita in una grande comunità è considerata troppo distraente per la pratica intensiva della preghiera interiore.

Pure, anche se l'ambiente esterno dello "skete", considerato come ideale, pochi arriverebbero al punto di affermare che esso gode un monopolio esclusivo.

Sempre il criterio è quello non della condizione esteriore ma del suo stato interiore.

Certe condizioni esterne possono risultare più favorevoli di altre per il silenzio interiore; ma non c'è alcuna situazione di sorta che renda il silenzio interiore del tutto impossibile.

S. Gregorio del Sinai, come abbiamo visto rimanda il suo discepolo Isidoro

nel mondo; molti dei suoi compagni più vicini del monte Athos e del deserto di Paroria divennero patriarchi e vescovi, capi e amministratori della Chiesa.

S. Gregorio Palamas, insegnò che la preghiera continua è possibile per ogni

cristiano; concluse egli stesso la sua vita come arcivescovo. Il laico Nicola Cabasilas (XIV sec.) servitore civile e cortigiano, amico di molti celebri esicasti, afferma con grande enfasi: "Ciascuno dovrebbe mantenere la propria arte o professione.

Il generale dovrebbe continuare a comandare, il contadino a lavorare la terra, l'artigiano a praticare la sua arte. E vi dirò perché: non è necessario ritirarsi nel deserto, prendere cibo senza sapore, cambiare d'abito, compromettere la propria salute, o fare in genere cose non sagge, perché è del tutto possibile rimanere nella propria casa senza abbandonare tutto ciò che si ha, eppure praticare la meditazione continua".

Nello stesso spirito, Simeone il nuovo teologo insiste che la "vita più alta" è

lo stato a cui Dio chiama ciascuno personalmente: "Molti considerano la vita eremitica come la più beata, altri la vita in una comunità monastica, oppure il lavoro di governo, di istruzione o di educazione o d'amministrazione della chiesa...

Da parte mia, comunque, non porrei nessuno di questi modi di vita sopra gli altri, né loderei l'uno a scapito degli altri. Ma in ogni situazione è la vita per Dio ed in accordo a Dio che è veramente beata".

La via dell'esychia è dunque aperta a tutti: l'unica cosa necessaria è il silenzio interiore non esteriore.

E sebbene questo silenzio interiore presupponga il "mettere da parte" le immagini nella preghiera, l'effetto finale di questa negazione è l'asserzione vivida del valore ultimo di tutte le cose e di tutte le persone in Dio.

La via della negazione è contemporaneamente la via della superaffermazione. Ciò risulta molto dalla "Via del pellegrino".

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L'anonimo russo che è l'eroe del racconto trova che la costante ripetizione della "preghiera di Gesù" trasfigura la sua relazione con la creazione materiale, cambiando tutte le cose in un sacramento della presenza di Dio e rendendole trasparenti.

"Quando... pregavo con tutto il mio cuore" egli scrive "tutto attorno a me sembrava delizioso e meraviglioso. Gli alberi, l'erba, gli uccelli, la terra, l'aria, la luce sembravano volermi dire che esistevano per amore dell'uomo, che testimoniavano l'amore di Dio per l'uomo, che tutto provava l'amore di Dio per l'uomo, che tutto pregava a Dio e cantava la sua lode.

Così arrivai a capire quello che la Filocalia chiama: la conoscenza del linguaggio di ogni creatura ... sentii un ardente amore per Gesù Cristo e per tutte le creature di Dio".

Analogamente l'invocazione del Nome trasforma la relazione del pellegrino con i suoi simili "... ripartii per il mio pellegrinaggio. Ma ora non camminavo più come prima, pieno di preoccupazioni. L'invocazione del nome di Gesù rallegrava il mio cammino.

Tutti erano gentili con me era come se ciascuno mi amasse... se qualcuno mi fa del male, mi basta pensare 'come è dolce la preghiera di Gesù' e l'offesa e la rabbia svaniscono e dimentico tutto". Un 'ulteriore evidenza della natura affermativa dell'esychia rispetto al mondo, è da trovarsi nella posizione centrale data dagli esicasti al mistero della trasfigurazione.

Il metropolita Antony Bloom dà una impressionante descrizione delle due icone della trasfigurazione che vide a Mosca, una di Andrei Rublev e l'altra di Teofane il greco: "L'icona di Rublev mostra Cristo nello splendore delle sue abbaglianti vesti bianche che illuminano tutto ciò che è attorno.

Questa luce cade sui discepoli, sulle montagne e le pietre, su ogni filo d'erba. In questa luce, che è... la Gloria divina, la luce divina stessa inseparabile da Dio, tutte le cose acquistano una intensità di essere che non potrebbero altrimenti avere; in essa raggiungono una pienezza di realtà che è possibile avere solo in Dio".

Nell'altra icona "le vesti di Cristo sono argentate dai riflessi blu, e i raggi di luce che emanano attorno sono pure bianchi argento e blu.

Tutto dà un'impressione di minore intensità. Poi si scopre che tutti questi raggi di luce che cadono dalla presenza divina... non danno rilievo ma trasparenza alle cose. Si ha l'impressione che questi raggi di luce divina tocchino le cose o affondino in esse, le penetrino, tocchino qualcosa dentro di esse cosicché dal nucleo delle cose, di tutte le cose create, la stessa luce riflette e risplende come se la vita divina accrescesse le capacità e potenzialità di ogni cosa e le facesse tutte tendere verso se stessa.

A questo punto la situazione escatologica è realizzata nelle parole di S. Paolo "Dio è tutto in tutto".

Tale è il duplice effetto della "Gloria" della trasfigurazione: di far risaltare ogni cosa e ogni persona in perfetta distinzione, nella sua essenza, unica e irripetibile; e allo stesso tempo di rendere ogni cosa e ogni persona trasparenti, da rivelare la presenza divina al di là e dentro di loro.

Lo stesso duplice effetto è prodotto dall'esychia. La preghiera del silenzio

interiore non è negativa rispetto al mondo, ma anzi gli dà risalto. Permette

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all'esicasta di guardare al di là del mondo verso l'invisibile creatore; e in questo modo gli permette di ritornare al mondo e di vederlo con occhi nuovi.

Viaggiare, è stato spesso detto, è ritornare al punto di partenza e vedere di nuovo la nostra casa, come per la prima volta.

Ciò è vero del viaggio della preghiera come anche di altri viaggi. L'esicasta può apprezzare il valore di ogni cosa più del sensuale o del materialista, perché vede ciascuna in Dio e Dio in ciascuna.

Non è per caso che nella controversia Palamita del XIV sec., San Gregorio ed i suoi sostenitori esicasti erano impegnati a difendere precisamente le potenzialità spirituali della creazione materiale ed in particolare il corpo fisico dell'uomo.

Tale, in breve, è la risposta a quelli che vedono l'esicasmo come negativo e dualista nel suo atteggiamento verso il mondo. L'esicasta nega per riaffermare; si ritira per ritornare. Con una frase che riassume la relazione tra esicasta e società, tra preghiera interiore ed azione esteriore, Evagrio Pontico dice: "Monaco è chi è da tutto separato e a tutto unito".

L'esicasta opera un atto di separazione esternamente, ritirandosi in solitudine; interiormente "mettendo da parte i pensieri". Eppure l'effetto di questa fuga è di congiungerlo agli uomini più intimamente di prima, di farlo più profondamente sensibile ai bisogni altrui, più acutamente consapevole delle loro possibilità nascoste.

Ciò è visibile con maggior evidenza nel caso dei grandi "startsi". Uomini come S. Antonio d'Egitto e S. Serafino di Sarov vissero per decenni in silenzio totale ed isolamento fisico. Eppure l'effetto ultimo di tale isolamento fu di conferir loro chiarezza di visione ed eccezionale compassione.

Proprio perché avevano imparato ad essere soli, potevano identificarsi istintivamente con gli altri. Potevano discernere immediatamente le caratteristiche profonde di ogni uomo e forse parlare con due o tre sole frasi, ma quelle poche parole erano la sola cosa che, in quella particolare occasione, si doveva dire.

S. Isacco dice che è meglio acquistare purezza di cuore che convertire intere nazioni di pagani. Non è che egli disprezzi il lavoro di apostolato, ma vuol dire che finché non si sia ottenuta una certa misura di silenzio interiore, è improbabile che si converta qualcuno a qualsiasi cosa.

Questo è reso meno paradossalmente da Ammonas discepolo di Antonio (IV sec.): "Perché essi avevano prima praticato profonda esychia, essi possedettero il potere di Dio abitante in loro; e poi Dio li mandò in mezzo agli uomini".

E anche se molti solitari non sono mai, in pratica, rimandati al mondo come apostoli o startsi, ma continuano la pratica di silenzio interiore per tutta la vita, completamente sconosciuta agli altri, ciò non significa che la loro nascosta contemplazione sia inutile e la loro vita sprecata.

Essi servono la società non con lavori attivi, ma con la preghiera; non con ciò che fanno, ma con ciò che sono, non esternamente ma esistenzialmente. Essi possono dire con le parole di S. Macario di Alessandria: "Sto a guardia delle mura".

Archimandrita Kallistos da "Sobornost" N ° 3- 1975

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Un "oceano di silenzio": come raggiungerlo con le tecniche di meditazione

Giampiero Cara

"Quanta pace trova l'anima dentro / scorre lento il tempo di altre leggi / di un'altra dimensione / e scendo dentro un oceano di silenzio / sempre in calma". Ricordate il Franco Battiato di "Un oceano di silenzio"? Le sue parole ispirate evocano in chi la pratica lo stato interiore che si

raggiunge con la meditazione. In tale stato accade effettivamente qualcosa di meraviglioso, ci si sente

pervasi da una calma infinita, e più ci si cala nella profondità dell'essere, più si diviene padroni della propria pace interiore.

La mente si acquieta ed il corpo, che dalla mente viene sempre diretto, anche quando non ne siamo consapevoli, trae enormi benefici a livello di salute, perché vengono neutralizzate le attività mentali che provocano malattie fisiche, come le preoccupazioni o i sensi di colpa.

Si raggiunge, insomma, lo stato che il grande poeta inglese William Wordsworth definiva "Una felice tranquillità della mente".

Si tratta di un'esperienza emozionante, sempre più tale man mano che si

raggiungono livelli più profondi, in cui ci si sente canali aperti al fluire dell'energia dell'universo, e in cui ci si accorge che il silenzio, se sappiamo ascoltarlo, spesso contiene proprio le risposte che stavamo cercando.

E sono proprio queste risposte che, a volte, ci permettono di superare almeno a livello individuale (ma anche planetario, se tutti imparassero ad ascoltare il silenzio) momenti difficili come quelli che il mondo sta vivendo negli ultimi mesi.

Tuttavia, raggiungere uno stato di vero silenzio interiore può non essere

facile, soprattutto per chi non ha molta dimestichezza con le pratiche meditative. Ecco perché vi proponiamo alcune semplici ma efficacissime tecniche che, anche se non siete meditatori esperti, vi permetteranno di cominciare ad immergervi nell'"oceano di silenzio" dentro di voi, traendone subito notevoli benefici per il corpo, per la mente e per l'anima.

Queste tecniche sono state messo a punto dai celebri terapisti americani

Joel e Michelle Levey - i quali si sono a loro volta ispirati a tradizioni religiose sia orientali (soprattutto buddhiste zen) sia occidentali (come quelle ideate da San Francesco di Sales) - e sono tratte dal loro bellissimo libro "Simple Meditation and Relaxation" (Conari Press), disponibile purtroppo solo in lingua inglese.

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LA TECNICA DI BASE: CONTARE I RESPIRI PER ACQUIETARE LA MENTE Questo esercizio è ideale per cominciare, sia per la sua semplicità sia

perché prepara il terreno a quelli successivi. 1. Sedetevi comodi su un soffice tappeto con le gambe incrociate (in

posizione del loto, se ce la fate), le mani abbandonate in grembo e il viso rilassato in un lieve sorriso.

2. Portate l'attenzione sul vostro respiro e gustatevi la sensazione dell'aria

che fluisce dentro e fuori di voi attraverso le narici. 3. Quindi, cominciate a contare ogni volta che espirate, fino ad arrivare a

dieci. Se perdete il conto, ricominciate ogni volta da uno. Altrimenti, ripetete il conteggio per alcuni minuti, fino a raggiungere una condizione di silenzio mentale. Non cercate di concentrarvi troppo, lasciate la mente rilassata ma sveglia. Inevitabilmente, vi troverete a vagare con il pensiero, ma ogni volta che vi accorgete di farlo, non fate altro che riportare l'attenzione sul vostro respiro, magari ricominciando il conteggio.

Poiché spesso seguire un suono aiuta a rilassare la mente, potete eseguire

questo esercizio anche con una piccola variante: provate ad accompagnare ogni espirazione con la delicata emissione del suono "ahhh", permettendo alla vostra mente di aprirsi e di fluire con tale suono come in un'onda continua di consapevolezza.

LE MEDITAZIONI DEL CUORE Una volta raggiunto il silenzio, è possibile aggiungere alla meditazione delle

visualizzazioni, in modo da canalizzare la propria energia nella direzione desiderata. Per esempio, in seguito agli eventi che negli ultimi mesi hanno sconvolto il mondo, ci sembra opportuno suggerire due esercizi di meditazione-visualizzazione molto adatti a trasformare sentimenti negativi come la paura, il dolore, l'odio e il desiderio di vendetta in qualcosa di positivo e di benefico per noi stessi, ma anche per tutta l'umanità e l'intero Pianeta.

A) MEDITAZIONE SULLA GRATITUDINE Gli insegnamenti spirituali di tutte le epoche sono concordi nell'affermare

che il modo migliore per riequilibrare la nostra vita è quello di coltivare sentimenti di apprezzamento e di gratitudine per tutto ciò che entra a far parte della nostra vita.

1. State dunque seduti nella posizione già suggerita ed entrate in uno stato

di silenzio interiore eseguendo per qualche minuto la tecnica base esposta in precedenza.

2. Una volta acquietata la mente, indirizziamo la nostra energia-pensiero

su una persona verso la quale ci sentiamo profondamente grati, visualizzandola di fronte a noi.

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3. Mentre inspirate, immaginate di portare questa persona verso il vostro

cuore. Espirando, invece, visualizzate la vostra sincera e profonda gratitudine come una luce che risplende verso e attraverso la persona cui siete grati.

Continuate questa meditazione per quanto tempo volete, cambiando di

tanto in tanto la persona o la situazione per la quale provate gratitudine. Presto vi sentirete così bene che vi verrà naturale passare all'esercizio successivo, probabilmente più difficile, soprattutto in questo periodo in cui ci sentiamo tutti almeno un po' scossi dagli eventi che si stanno verificando nel mondo e cerchiamo magari qualcuno da incolpare e punire.

B) MEDITAZIONE SUL PERDONO Il perdono è il modo migliore per guarire vecchie o nuove ferite che

bloccano il nostro cuore e ci impediscono di aver fiducia e di amarci l'un l'altro. Come diceva infatti Gesù Cristo nel Vangelo secondo Matteo (6:14), "Se voi perdonerete agli uomini le loro colpe, il Padre vostro celeste perdonerà anche a voi".

1. Seduti nella solita posizione, dopo esservi rilassati con la tecnica base

per acquietare la mente, visualizzate di fronte a voi una persona verso la quale provate risentimento o altri sentimenti negativi (potrebbe essere anche Osama Bin Laden, George Bush o chiunque altro).

2. Continuate a visualizzare questa persona di fronte a voi, cercando di

abbandonare ogni risentimento nei suoi confronti. Per riuscire a farlo più facilmente, potete magari immaginarla come un bambino triste e bisognoso d'affetto.

Quando vi sentirete più disposti al perdono, pronunciate mentalmente frasi

tipo: "Ti perdono con tutto il cuore per qualsiasi cosa tu mi abbia fatto, tramite pensieri, parole o azioni, e che mi abbia provocato dolore".

Se è una persona che conoscete, e che pensate possa avercela con voi per

qualche motivo, aggiungete: "E ti chiedo di perdonarmi per qualsiasi cosa io possa averti fatto, intenzionalmente o no, e che possa averti ferito".

3. Mentre inspirate, immaginate di avvicinare questa persona al vostro

cuore. Espirando, invece, visualizzate il vostro perdono come una luce intensa che risplende su questa persona e, riflettendosi su di essa, torna a colpirvi, inondandovi di benefico e luminoso calore.

Copyright © 2001 Giampiero Cara

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Il Silenzio Interiore nello Sciamano

Di Nello Ceccon Il silenzio interiore è uno stato di coscienza in cui tutti i pensieri della

mente si fermano, sono come congelati ed inattivi. Nel silenzio è possibile sentire quello che proviene da spazi e tempi che

vanno oltre ciò che la mente in condizioni normali può percepire. È possibile accedere a conoscenze che hanno molto poco di “umano” ma

che nello stesso tempo appartengono profondamente all’umanità. Gli artisti nell’eseguire i loro lavori in modo consapevole o inconsapevole sono in questo particolare stato.

Gli sciamani di tutto il mondo per portare guarigione, conoscenza e saggezza alla loro comunità hanno elaborato varie pratiche per giungere in modo tangibile ed affidabile al silenzio. Carlos Castaneda addestrato da don Juan Matus, uno sciamano Yaqui nel deserto di Sonora, ha descritto minuziosamente nei suoi ultimi libri come gli sciamani dell’Antico Messico entravano nella profondità del silenzio interiore attraverso i Passi Magici.

Questi sono movimenti e respirazioni sognate dai veggenti del suo lignaggio, in tempi molto remoti e che hanno riportato in questa realtà con scopi pratici.

Attraverso il silenzio interiore è possibile sconfiggere quello che in quasi

tutte le tradizioni spirituali, dall’Oriente fino all’Occidente, viene individuato come il più grande ostacolo all’evoluzione del genere umano.

La mente che interiormente continua a dire “io.., io…, io,…” con il suo rumore copre tutti gli altri segnali e le altre percezioni che sono disponibili all’uomo.

Carlos Castaneda, nel suo libro”Tensegrità” racconta l’episodio in cui, avendo ottenuto il silenzio interiore, per la prima volta riuscì a “vedere”, e la cosa che più lo sconvolse dell’episodio fu non tanto la visione di un paesaggio mai visto, di animali preistorici, di suoni ancestrali che riuscì a percepire in mezzo al traffico di Los Angeles, ma il fatto che in qualche modo queste cose le aveva percepite anche prima, da sempre.

Lo sciamanesimo è la pratica più facile e nello stesso momento più difficile

da vivere proprio per questo, perché spesso le cose arrivano in modo così semplice ed immediato che non ci rendiamo conto del loro intrinseco valore.

La mente si mette d’ostacolo, complica ed offusca la percezione diretta, porta il giudizio, la mancanza di fiducia e svaluta ciò che invece avvertiamo con il cuore.

Ma come possiamo raggiungere il silenzio interiore? Gli sciamani hanno sviluppato moltissimi stratagemmi per mettere da parte

la mente. Il silenzio può durare qualche secondo oppure degli interi minuti, dipende dalle capacità individuali ed anche dai mezzi che vengono utilizzati. Chi riesce a superare una certa soglia è poi in grado di raggiungere il silenzio in

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modo spontaneo. Uno dei metodi più affascinante è quello che ha tramandato il lignaggio di Carlos Castaneda attraverso i Passi Magici, che utilizza alcuni movimenti del corpo.

Secondo i veggenti del suo lignaggio oltre al corpo fisico abbiamo un corpo energetico, e questo è al di fuori del controllo della mente. I Passi Magici hanno la capacità di avvicinare i due corpi, fino ad unirli in una unità percettiva in grado di attingere alla conoscenza silenziosa, come venne definita dal suo maestro il nagual don Juan.

I Passi Magici stimolano opportuni punti di collegamento tra il corpo fisico ed il corpo energetico ed attivano aree di energia che sono spesso inutilizzate. L’azione congiunta di questi due azioni porta ad una completa saturazione della mente, che non è più in grado di interferire con gli stati elevati di coscienza, permettendo a coloro che li praticano in modo disciplinato e sobrio, di vedere l’energia così come fluisce nell’universo.

I Passi Magici tramandati per il silenzio interiore hanno nell’oscurità la loro

fonte principale, proprio perché l’oscurità, togliendo all’organo più vicino alla mente, l’occhio, la possibilità di essere attivo, facilita quell’assenza di pensiero-verbalizzazione caratteristico dell’attività mentale.

Sono movimenti molto elementari, come per esempio il tracciare con il

piede o con le mani delle figure semplici, oppure esercitare pressione in alcune parti del corpo in sincronia con il respiro, che alterano in modo sottile ma profondo lo stato di coscienza.

Questi movimenti permettono al corpo di assumere la consapevolezza che realmente gli appartiene, attivando aree che nella vita quotidiana sembrano non esistere, e conferiscono una carica di benessere facilmente percepibile.

Uno dei più potenti strumenti per raggiungere il silenzio interiore è il

tamburo. Con il battito monotono e continuato il cervello comincia a rallentare la sua attività, i pensieri vengono rapidamente messi da parte per lasciare spazio alla conoscenza non-verbale.

In questo caso il passaggio dal dialogo interiore, cioè da quella serie di pensieri che continuamente sovraffollano la mente, ed il silenzio diventa graduale, la continuità del tamburo inoltre permette di ritornare al silenzio in ogni momento, anche se il dialogo è per qualche istante ritornato.

Nel lignaggio di Carlos Castaneda il suono dei tamburi è utilizzato in

abbinamento con alcuni passi simili ad una danza, per rinforzare l’effetto e per conferire all’intero corpo la percezione del silenzio.

Quello che avviene tra due pensieri è silenzio interiore, ma quante volte

succede questo a noi occidentali, completamente in balia degli stimoli esterni, come ad esempio radio, TV, cinema, computer?

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Per ritrovare il silenzio interiore l’esperienza del deserto nel mondo moderno

di Francesco Lamendola - 16/03/2008 Fonte: Arianna Editrice [scheda fonte] Non sappiamo a quante persone, in Italia, dica qualcosa il nome di

Catherine de Hueck Doherty, una mistica americana di origine russa che ha diffuso in Occidente la nozione e la pratica delle pustinia, ossia le comunità del «deserto» nel cuore delle società moderne: rumorose, caotiche, materialiste.

Il suo vero nome era Ekaterina Fiodorovna Kolshkine a Nizni Novgorod, in

Russia, il 15 agosto (festa dell’Assunta) del 1896. I suoi genitori erano molto religiosi; il padre, poi, era per metà polacco, quindi, oltre alle dominanti suggestioni del cristianesimo ortodosso, la bambina ricevette anche quelle del cattolicesimo.

Andata in sposa, a soli quindici anni, ad un parente, il barone Boris de Hueck, durante la prima guerra mondiale si arruolò come infermiera nella Croce Rossa, prodigandosi per i feriti e i malati. Poi, dopo lo scoppio delle rivoluzioni del 1917, prese - come tanti altri russi di estrazione sociale superiore -, la via dell’esilio, senza più un rublo in tasca.

Approdata in Gran Bretagna, nel 1919, insieme al marito, Ekaterina si convertì al cattolicesimo; indi, nel 1920, i due sposi passarono in America, prima in Canada e poi, per un periodo, negli Stati Uniti, a New York, dove trovarono entrambi un lavoro: lui come architetto, lei come domestica e cameriera di ristorante (i cui clienti la conoscevano come «la baronessa»).

Durante il soggiorno fra Stati Uniti e Canada andò sempre più delineandosi

la vocazione della giovane donna verso una spiritualità fatta di preghiera e di servizio ai poveri; mentre, sul piano della vita privata, naufragava il suo matrimonio, a causa delle numerose infedeltà e del vizio del bere di suo marito.

Ekaterina, intanto - divenuta Catherine - aveva scoperto di possedere il dono della parola eloquente, ed era stata assunta da un organismo di conferenze. Il suo tenore di vita era bruscamente mutato: adesso guadagnava bene e aveva una bella casa; tuttavia non era felice, perché sentiva il contrasto tra la sua vita agiata e la vocazione al servizio di devozione divino.

Nel 1930 l'arcivescovo di Toronto, Neil McNeil, vinse i suoi dubbi e la rassicurò sulla autenticità della sua vocazione; ed ella ruppe gli indugi: vendette tutti i suoi beni, ne distribuì il ricavato ai poveri, diede disposizioni per l'educazione dell'unico figlio e andò a vivere in mezzo ai poveri, in una Toronto stravolta dagli effetti della grande crisi del 1929.

Poiché alcuni uomini e donne erano rimasti fortemente colpiti dalla sua

scelta evangelica radicale e le avevano chiesto di essere loro guida spirituale,

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Catherine finì per ascoltarli e per dar vita all'esperienza della Casa dell'Amicizia, luogo di spiritualità, di preghiera, di aiuto reciproco; che però, a casa di incomprensioni, dopo qualche anno dovette essere chiusa.

Lottatrice nata, ella non si perse d'animo e, trasferitasi a New York, volle ripetere l'esperienza nel quartiere povero di Harlem, afflitto anche da gravi tensioni razziali. Anche lì fondò una Casa dell'Amicizia e, insieme all'amica Dorothy Day, si sforzò di tradurre in pratica la dottrina sociale della Chiesa cattolica, aprendo la porta ed il cuore alle esigenze delle persone più umili ed emarginate.

Delle strutture analoghe sorsero in altre città, tra le quali Washington e Chicago, ad opera di cristiani contagiati dall'esempio travolgente di quella donna, che il giovane Thomas Merton riconobbe subito come ispirata dallo Spirito santo.

Di nuovo, difficoltà e diffidenze posero fine all'esperienza di New York.

Catherine, frattanto, rimasta vedova da tempo, nel 1943 si era risposata con il giornalista Eddie Doherty, il quale l'aveva avvicinata per motivi professionali ed era rimasto lui pure trascinato dalla forza della sua fede religiosa.

Nel 1947 la coppia si trasferì a Combermere, un villaggio a nord-est di Toronto, dove il vescovo di Pembroke l'aveva invitata a riprendere una esperienza religiosa.

Fu così che nacque Madonna House, la casa della Madonna, una comunità che sarebbe notevolmente crescita nel corso degli anni, aprendo anche una dozzina di missioni.

Era - ed è - un luogo di amicizia, di preghiera e di condivisione, dove laici e

sacerdoti vivono una fede semplice, aprendo la porta a chiunque si presenti a bussare, per qualunque motivo.

Una delle caratteristiche più originali di Madonna House è la pratica della pustinia, ossia del raccoglimento e del silenzio in un luogo apposito, che può essere anche una semplice cameretta con una sedia, un tavolo, un giaciglio, una Bibbia, un po' di pane e acqua.

Il credente che voglia staccarsi temporaneamente dal mondo per digiunare, pregare e meditare, ha bisogno di un luogo che simboleggi l'esperienza del deserto, dove, abbandonando completamente il falso ego e affrontando le tentazioni del diavolo, possa realizzare l'incontro con il Cristo e fare la viva esperienza della fusione con lui.

Si tratta di una pratica di origine russa dove, un tempo, la figura del

pustinik era ben nota e relativamente frequente. Un giorno un uomo, o una donna, magari sposati e con figli, decidono di abbandonare ogni cosa e di partire, recando cibo per un solo giorno e niente denaro: lo hanno distribuito ai poveri, prima di mettersi in viaggio.

Quello che cercano è la solitudine, il silenzio, per poter ascoltare meglio la voce di Dio e per dedicarsi interamente alla devozione di lui.

Si stabiliscono in una capanna, in un eremo, in un qualsiasi luogo un po' solitario; vivono ritirati, schivi, in preghiera e digiuno: ma tengono la porta sempre aperta ai visitatori. Chiunque può bussare alla loro soglia, chiunque

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può chiedere un consiglio, una preghiera, un atto di solidarietà. Il pustinik spezzerà col visitatore il suo ultimo pezzo di pane e avrà sempre una parola di conforto per tutti.

Una cosa importante da chiarire è che il pustinik non cerca la solitudine per

separarsi dal mondo, ma per ritrovare il mondo. Egli si isola per portare con sé, sulle proprie spalle, i peccati e i dolori di tutti i suoi simili; nelle sue preghiere, egli prega per l'umanità intera; in ogni essere umano vede il Cristo che bussa alla porta: perché, come Cristo si è fatto uomo fra gli uomini, così il pustinik annulla se stesso per ritrovare, attraverso l'identificazione con tutti gli esseri umani e specialmente con i più bisognosi, la presenza del Cristo.

Pertanto il pustinik non è un personaggio malinconico e incline alla depressione, bensì un credente pieno di gioia e di amore, che rafforza la propria fede attraverso la prova del deserto, ossia della solitudine radicale e del distacco dal mondo.

Ecco come Catherine de Hueck Doherty descrive tale pratica nel suo

bellissimo libro Pustinia: le comunità del deserto oggi (titolo originale: Pustinia. Christian Spirituality of the East for Western Man, Ave Maria Press, Notre Dame, Indiana, 1975; traduzione italiana di Mimmi Cassola, Milano, Editoriale Jaca Book, 1978, 1981, pp. 126-139).

“Il deserto, quale è compreso nella spiritualità orientale, è anche la dimora

di Satana. Sappiamo dai Vangeli che vi abita e che lì ha tentato il Signore stesso.

Le tre grandi tentazioni del Cristo hanno avuto il deserto come ambiente. Così il deserto, nella spiritualità cristiana, ha un profondo significato. Gli ebrei furono guidati nel deserto per quarant’anni. Abramo era stato chiamato a fare nel deserto un pellegrinaggio di fede. Non ho bisogno di elencare di nuovo tutti i casi in cui si parla del deserto

nel Nuovo Testamento. “Quando parlo del deserto a proposito del pustinik, non parlo del deserto in

senso letterale, fatto di sabbia e di calore. Parlo di uno – il pustinik – che si reca in un luogo nascosto per essere solo col grande silenzio di Dio, per imparare a conoscere Dio come Dio stesso si rivela. Dio rivela se steso al pustinik in risposta al suo amore. Il pustinik attende, nella povertà, l’abbandono, e sapendo di essere un anawim, un vero povero nello spirito delle beatitudini.

Questo abitante del deserto sa di trovarvisi non solo per e steso, ma per il resto dell’umanità. Capisce che deve prendere l’umanità con sé nelle sue preghiere e lacrime e che nella sua capanna abita anche l’umanità. Comprende la sua vocazione di profeta: se ascolta, è solo per trasmettere quanto gli viene dato. Comprende che la sua porta no ha serrature: solo un paletto contro il vento, ma in nessun caso contro un essere umano.

Comprende che deve condividere con gli altri quello che gli è dato dal Cristo.

Tutto questo chiaro per lui.

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“Il pustinik prevede anche che dovrà incontrare Satana. All’inizio, non sa

quale sarà la frequenza di questi incontri. Questo gli è nascosto. Ma sa che inevitabilmente, prima o poi, il Maligno verrà a tentarlo.

“Nella tradizione orientale le tentazioni sono trampolini. Pare ridicolo

paragonarle alle diverse ‘classi’ di una scuola, ma Dio permette che gli uomini siano tentati perché possano crescere nella fede, nell’amore e nella speranza. È come se Dio ci facesse passare da una scuola d’amore.

Il nostro passaggio da una classe all’altra è la nostra reazione alla tentazione che egli permette al diavolo di esercitare su di noi, la nostra vittoria su queste tentazioni. Il Signore vuole che cresciamo nella fede e nell’amore di lui appoggiandoci su lui solo.

Vuole che tutto il nostro essere si compenetri nelle sue parole: «Non temete nulla – io ho vinto il mondo», «Il Principe di questo mondo non ha parte in me», e «Non temete, piccolo gregge, io sarò con voi fino alla fine dei tempi». Egli vuole che con san Paolo facciamo l’esperienza del fatto che «Ti basta la mia grazia».

Egli vuole insegnarci tutto questo, e per questo permette a Satana , che vaga nel suo deserto tenebroso e senz’acqua, di uscirne per penetrare nel deserto del pustinik.

“Quelli che vanno nel deserto per u tempo abbastanza lungo, o che hanno

la vocazione di restarvi per ani, saranno visitati dalle tentazioni. Queste possono essere sottili come il mormorio delle foglie sugli alberi, come il fruscio che fa la sabbia spostandosi sulle dune, come il brusio tutto fremiti di una foresta.

Possono venire con delle grida come l’abbaiare del coyote in lontananza. Possono venire senza rumore: ma verranno. E d colpo la pustinia diverrà spaventosa. Sarà come se la casa crollasse sul

pustinik. Del tutto all’improvviso, il Libro Santo non sarà più che un guazzabuglio di

lettere, solo parole e frasi che nessuna preghiera sarà in grado di collegare a qualcosa nello spirito e nel cuore di chi abita nel deserto.

“Di notte, la paura verrà ad abitare con chi abita nella pustinia. Nei giorni

più caldi, il luogo diventerà freddo. Nascerà un desiderio di fuggire dalla pustinia, di ritrovarsi in mezzo alla gente, di sfuggire a quella solitudine che s’impadronirà di colpo del cuore, che, un attimo primo, pareva unito a Dio.

All’improvviso, è come se Dio non fosse mai stato lì. Non c’è più che un capanno, una capanna di tronchi. La povertà sembra più spiacevole e più sinistra che mai. “Le notti saranno appena sopportabili. La preghiera diverrà impossibile. Il sonno è fuggito, e si direbbe che non

debba tornare mai più. Una paura quasi fisica, palpabile, sale come la febbre e s’impadronisce di

voi.

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L’inutilità di una simile vita appare di colpo perfettamente evidente, e uno comincia a chiedersi perché mai si trovi in quel luogo deserto. «Perché Dio ci ha condotti in questo luogo deserto?» (Es., 16, 3).

Quale follia ci ha portati qui? Lo spirito è continuamente riportato all’idea di fuggire, di sfuggire a tutto quello che adesso appare come totalmente privo di senso.

“Sì, Satana può venire sotto questo aspetto. Oppure può insinuarsi nell’intelletto provare al pustinik con una logica

chiara e irrefutabile che sta sprecando l sua vita, che potrebbe fare molto bene in mezzo ai suoi simili, e che bisogna abbandonare quella vocazione assolutamente stupida.

Talvolta Satana riceve il potere di tentare di convincere il pustinik che egli non ha affatto la vocazione, che tutto ciò è un’illusione.

Quest’agonia dello spirito è ancor peggiore del terrore e del panico. È come se l’edificio stesse crollando, come se stesse crollando la persona

stessa. Sì, Satana può venire anche in questo modo. “O ancora, egli può venire sotto l’apparenza dell’orgoglio. Il pustinik può

veramente pendersi per un saggio un saggio e la sua propria saggezza, e stimare che per lui è venuto l tempo di andare a predicare agli altri – ora che è «pronto». (…)

“In questa conoscenza – che senza Dio non posiamo far nulla – noi

arriviamo a un alto grado d’intelligenza. Si giunge al momento del vero credere, quando si fa l’esperienza, nell’oscurità, nella paura, nel terrore, nel panico, che la grazia ci basta realmente.

Arriviamo a percepire che, se Dio ha permesso al tentatore di avvicinarsi a noi, Dio ci darà allora la grazia di resistergli.

“Sì, questo sono i grandi momenti della crescita nella fede, nella speranza

e nella carità, che Dio manda al pustinik. Sono anche i momenti in cui il pustinik si batte realmente per il mondo,

perché viene attaccato per così dire i nome dell’umanità. Di modo che in quei momenti egli sa di essere estremamente umano lui

sesso, e intanto, nello stesso tempo, sa che Dio gli dà delle grazie speciali per combattere quelle tentazioni, non solo per se stesso ma per tutta l’umanità.

Il pustinik sa sempre di essere nella pustinia per gli altri, e che le sue preghiere, le sue mortificazioni, le tentazioni alle quali è esposto, i suoi incontri con Satana – tutto questo lo prova in quanto rappresentante dell’umanità. Perché il pustinik vive nel Cristo, e il Cristo ha preso l’umanità su di sé.

E anche lui, il pustinik, mediante la grazia di Dio, pende su di sé tutta l’umanità , e con l'aiuto di Dio diviene un olocausto per tutti gli uomini. (…)

“La pustinia è per Dio una scuola permanente d’amore. Quando sarete passati per questa scuola, delle esplosioni come quella della

bomba atomica saranno per voi come giochi di bambini.

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Probabilmente non vi renderete conto esattamente di ciò che siete e di quello che vi è caduto.

Ma la gente verrà a voi. Uscirete per portare il vostro contributo, perché ormai sapete che no siete voi ad agire, ma lui.

“È possibile che, in avvenire, vengano a Madonna House delle persone

cattive, realmente cattive. Dio vi farà sapere che sono cattive. Non avrete paura perché in un certo modo vedrete il Cristo anche in loro.

Può anche accadere che vi uccidano, chissà. In questo caso, dovete dire con l’ultimo respiro: «Signore mio e Dio mio, alleluia!».

Charles de Foucauld aveva capito questa specie di martirio privo di senso. Fu ucciso inutilmente nel Sahara da un gruppo di Tuareg ai quali non aveva

fatto nulla. Egli fu veramente un pustinik dalla porta sempre aperta; accettò questo

martirio e non fuggì. Non cercò neanche di difendersi. Esprimeva nella sua vita il suo martirio interiore. “C’è un’altra specie di martirio. La maggior parte di noi on conoscerà il martirio come Charles de Foucauld. Ma un pustinik sarà martire in un altro modo, e deve prepararvisi. Si tratta del martirio che consiste nell’affrontare se stessi, nel far fronte al

proprio io emozionale. Nessuno vuol riconoscere che gli capita di comportarsi come se avesse

dieci anni, di passare per mille umori mutevoli, di aver paura delle cose più ridicole.

Non ci piace affrontare questi fatti. È questo l’inizio del nostro martirio. “Allora entra il Cristo. Ricordatevi che la porta della pustinia non si chiude a

chiave. Questo vuol dire che anche il Cristo può entrarvi! (…) “Il martirio continua. Cominciamo a sapere chi siamo. Cominciamo a sentirci di casa con le nostre difficoltà, con i nostri peccati, a

vedere più chiaramente cosa essi siano. Si produce una strana chiarezza, una chiarezza dell’anima. Immagino che ci vorrà un bel po’ di tempo a degli occidentali per arrivare a

questa chiarezza dell’anima. “La chiarezza dell’anima non è la stessa cosa della chiarezza ella mente. Io

oso vedere chiaramente i miei peccati mentalmente. Per vincere i miei peccati, posso ricorrere ai metodi raccomandati dalla

teologia ascetica (che è fondata sulla ragione). Ma la chiarezza dell’anima si acquista con il dono delle lacrime. La mia

mente resta serena ed intatta perché so che la grazia delle lacrime non viene dalla mia mente ma procede dal cuore di Dio.

Essa mi tocca il cuore, e io piango.

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Adesso la mia mente è chiara, il mio cuore è chiaro – io sono chiara. Non dimenticate mai questo fatto (di cui la pustinia vi dà l’intelligenza):

quando io piango, il Cristo piange, perché il Cristo è in me. Quando il mio pianto si unisce a quello del Cristo, è la sua santità che mi

lava, e non la mia. “Le lacrime so anche un altra via per la quale arriviamo ad apprezzare il

grande dono di Dio: la nostra libertà. La nostra anima, lavata dalle lacrime, può vedere chiaramente che siamo

veramente liberi, che possiamo dire di sì o di no a Dio. Nella pustinia, questa lotta tra il sì e il no, questa lotta con Dio, è portata al

centuplo. A un certo momento, il vostro sì a Dio vi renderà non esistenti. Questo non

dura che un secondo. Grazie a queste lacrime e a queste lotte, avverrà qualcosa nella vostra

anima purificata. Sembrerete come morti. Ma questo non durerà a lungo. Ritornerete, e quel

giorno conoscerete un miracolo. Avrete scelto Dio. Vostra sarà la vera liberazione, che Dio riserva a coloro che l’amano. “Il Signore vi ha conosciuto da sempre. Ha permesso che il suo fuoco scendesse su di voi come una purpurea

colomba. Il suo fuoco è su di voi. Voi salite lentamente la sua montagna, la montagna del Signore. Per

arrivarvi, dovete passare attraverso il cuore di Dio. Passando dal suo cuore, voi divenite un fuoco di gioia, e, insieme, un

enorme fuoco di gioia. Divenite un fuoco di gioia sulla cima della montagna. Molte persone lo vedono e vengono per vedere cosa sia. Anche loro dunque

salgono sulla montagna: vengono alle vostre pustinia. Vedono che siete dei fuochi di gioia molto strani.

Trasparenti. Voi siete un fuoco di gioia che loro possono attraversare. Dall’altra parte li

attende il cuore di Cristo. Voi stessi siete stati raccolti alla mano di Dio, e con il vostro Sì gli avete

dato il vostro accordo; adesso siete divenuti un fuoco di gioia trasparente che guida altri uomini a Cristo.”

Catherine de Hueck Doherty e il marito Eddie hanno preso i voti di povertà,

castità e obbedienza nel 1954 e, nel 1960, hanno ottenuto un formale riconoscimento da parte del vescovo di Pembroke.

Comunità strutturate sul modello di Madonna House sono state fondate in Nord e Sud America, Indie Occidentali, Africa, Russia, diffondendo ovunque, tra le altre cose, la pratica della pustinia: una pratica ancor più necessaria, nel rumore del mondo moderno, per la riscoperta dell'anima.

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Catherine, infatti, soleva ripetere che nell'esperienza del 'deserto' l'anima ha la rivelazione della propria essenza, il riconoscimento del proprio io emozionale: ed è una cosa difficile, capace di mettere in crisi - almeno in un primo momento -, perché la società moderna sembra fare di tutto per renderci estranei alla nostra natura più autentica e profonda.

Catherine de Hueck Doherty è morta il 14 dicembre 1985, lasciando una

forte impressione in tutti coloro che hanno avuto occasione di avvicinarla. Era una donna decisa, a volte quasi burbera, ma semplice, schietta, generosissima: una vera forza della fede.

Certe sue intuizioni, ad esempio la valorizzazione del ruolo dei laici all'interno della Chiesa, hanno precorso significativi aspetti del Concilio Vaticano II.

Il papa Giovanni Paolo II ne ha avviato il processo di canonizzazione,

promuovendola al rango di "serva del Signore".

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L'UNIVERSO OLTRE LA MENTE Il problema della conoscenza L'uomo vive immerso nel grande segreto dell'esistenza. Ne e' parte ed e'

stato generato proprio da questo stesso mistero. Le risposte ai suoi grandi interrogativi metafisici sulla natura e sul significato dell'universo sono quindi a portata di mano in una immediatezza evidente e non hanno bisogno di intermediari di nessuna natura per essere lette e comprese.

Tuttavia nonostante questa immediatezza l'uomo non ha facile accesso alla conoscenza del segreto dell'esistenza e in egual misura ha difficolta' a realizzare l'armonia e la partecipazione al mistero, di cui sente il bisogno.

Cio' accade perche' l'uomo parte da un presupposto esperienziale errato in quanto non e' consapevole della natura della sua identita' individuale che potrebbe consentirgli, invece, un accesso senza problemi alla conoscenza.

L'uomo e' stato abituato a prendere atto della propria esistenza e a rapportarsi alla vita partendo da una dimensione individuale basata sul concetto piuttosto confuso di un complesso antropomorfo, costituito da cose, ricordi e sentimenti accatastati gli uni sugli altri, che si chiude in una sorta di guscio identificabile nella forma, nel peso, nell'altezza e nel nome anagrafico.

Tutt'al piu', i piu' attenti giungono a una distinzione tra cio' che appartiene alla sfera fisica e cio' che appartiene a quella morale, in una dicotomia specifica di valori che sono posti tra materia e spirito, corpo e anima.

L'individuo conosce solo questa esperienza di se'. Gli e' stata insegnata in secoli di influenza culturale di varie religioni che hanno avuto motivo di impostare questa concezione restrittiva dell'uomo.

In realta' il rapporto che l'uomo sviluppa verso se stesso e l'esistenza e' ben diverso e comporta potenzialita' ancora inespresse che possono senza presunzione alcuna concedergli di giungere alla conoscenza del mistero in cui vive.

I tre piani esperienziali dell'uomo. Pur considerando la validita' di una globalita' individuale, in realta' l'uomo

vive il suo rapporto con l'esistenza attraverso tre distinti piani di esperienza che si trovano ad essere diversi e divisi tra di loro per specifiche competenze esperienziali.

Il primo di questi piani e' quello facilmente identificabile nel corpo. Ovvero la forma fisica che possiede l'individuo, l'insieme dei suoi processi meccanici e metabolici, la struttura scheletrica, quella muscolare, l'insieme degli organi.

Attraverso questo piano di esperienza l'individuo percepisce lo stato della propria qualita' funzionale interiore, dolore e benessere, e si rapporta a mezzo dei sensi sul mondo primario che vive e condivide con le altre creature viventi. Sensi percettivi che non sono a tutto campo e che gli consentono di accedere solamente ad una limitata finestra di percezione fenomenica, ristretta e incompleta.

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Il secondo piano esperienziale e' quello della mente. Se e' facile identificare il piano del corpo, l'identificazione di questo secondo piano diventa problematica.

Il piano della mente e' infatti di natura astratta, non visibile all'esterno ma percepibile dal solo individuo, costituita da un complesso virtuale in cui si manifestano pensiero, ricordi, emozioni e immaginazione che l'uomo percepisce come realta' vissuta a tutti gli effetti.

Se il corpo fornisce i canali sensoriali aperti e interfacciati sul mondo primario, all'esterno della dimensione individuale, la mente, invece, utilizza e elabora i dati che riceve attraverso i sensi e li trasforma in modelli virtuali di conoscenza dell'ambiente.

Su questa esperienza limitata, cosi' come lo sono le percezioni sensoriali, la mente costruisce i suoi valori morali come modalita' di partecipazione al mondo primario. Piu' i dati sono circoscritti o falsati dalle situazioni e piu' questi valori risultano soggettivi e incompleti.

La mente non e' lo specchio trasparente e pulito della realta' percepita. E' una virtualizzazione della realta' in cui intervengono diversi fattori devianti: dall'azione imperfetta dei sensi, all'azione ormonale che agisce sul cervello in base ai bisogni del corpo, all'incompletezza e all'ipoteca dei dati culturali acquisiti per obbligo di natalita' etnica e cosi' via.

La creazione e il mantenimento del mondo virtuale della mente e' supportata dall'attivita' dei neuroni. Il loro scambio continuo di informazioni, nella complessa struttura di collegamenti sinaptici all'interno del cervello, costituisce l'insieme della nostra percezione di esistere secondo il nome anagrafico che ci e' stato attribuito, secondo i nostri ricordi e secondo le emozioni che ci dominano sul momento.

Noi non percepiamo nulla di questa realta' biochimica, ne' sospettiamo che possa esistere, soggiogati dall'illusione virtuale che viviamo come realta' effettiva. Siamo la risultante innocente e ingenua di cio' che avviene a nostra insaputa alla radici della nostra virtualita'.

E cosi' ignoriamo che i nostri sentimenti, le nostre intuizioni e i nostri pensieri non sono altro che il prodotto degli scambi di dati chimici che sostengono la nostra impalcatura virtuale.

Ignoriamo che realta', giudicate reali e determinanti per la nostra vita come ad esempio l'innamoramento, non esistono per come le percepiamo. Anzi non esistono proprio nel loro valore reale, ma sono solamente la conseguenza di una risposta biochimica. Nel caso dell'innamoramento, una azione biochimica dei nostri organi riproduttivi che bombardano il cervello di molecole messaggere perche' costruisca la virtualita' dell'innamoramento. E cosi' via per tutti i nostri sentimenti, qualunque essi siano.

E il nostro senso di esistenza si riduce ad una condizione di virtualita' che e' l'equivalente di un sogno, inutile e che ci priva di cio' che puo' esistere nella dimensione di veglia.

Infine, abbiamo il terzo ed ultimo piano della struttura esperienziale ternaria dell'individuo che e' rappresentato dalla coscienza o, secondo la terminologia della filosofia della meditazione, dallo spirito.

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Questo piano esperienziale e' identificabile nella proprieta' cosciente e consapevole dell'individuo. Una capacita' che non usa il pensiero o le sensazioni fisiche.

Essa rappresenta un atto di consapevolezza pura che assume una identita' specifica e autonoma nei confronti dei processi psico-fisici e sul piano esperienziale del mondo primario.

E' la facolta' volitiva e cosciente con cui l'uomo e' in grado di sottrarsi ai bisogni impellenti del corpo e alle emozioni violente della mente per decidere in proprio sull'ottimizzazione del suo operato, senza cedere ai meccanismi di un qualsiasi riflesso condizionato. Lo spirito, o coscienza, rappresenta lo stato percettivo dell'individuo, consapevole di se' e dell'ambiente in cui vive.

Una qualita' esperienziale che, a differenza delle limitazioni soggettive del corpo e della mente, e' in grado di partecipare in maniera effettiva alla natura reale dell'esistenza, allo Shan, per la sua capacita' di percepire e di vivere la condizione reale della stessa esistenza.

Oggi, la cultura storica corrente insiste sul semplificato dualismo di corpo e anima, ma la realta' della ternarieta' esperienziale dell'uomo e' una realta' evidente al di la' di qualsiasi forzatura ideologica.

C'e' una ben precisa e naturale realta' manifesta dei tre piani esperienziali. Ad esempio il corpo non pensa e non prova emozioni, pertanto si rivela di non essere ne' la mente ne' lo spirito. Cosi' come la mente vive le emozioni e i ricordi, ma non puo' metabolizzare i cibi come il corpo nell'esercizio delle sue competenze, ne' puo' sottrarsi al turbinio delle emozioni o dominarle come puo' invece fare lo spirito.

E per quanto riguarda lo spirito esso non e' quella parte che cammina, anche se puo' percepire le sensazioni corporee, e puo' fare una cosa che il corpo non e' in grado di fare, cioe' decidere se camminare o stare fermo. Non e' quella parte dell'individuo che produce emozioni, anche se puo' percepire le stesse emozioni, e puo' fare una cosa che la mente non puo' fare, cioe' decidere di sottrarsi all'incomebenza delle emozioni.

Si potrebbe aggiungere, con una riflessione propria della filosofia della meditazione, che "io voglio e posso camminare, ma non sono il mio corpo, io sono colui che lo dirige; io penso e provo emozioni, ma non sono i miei pensieri e le mie emozioni, io sono colui che li ascolta; io sono".

L'universo visto con gli occhi della mente. Purtroppo l'uomo non vive la coerenza esperienziale della sua dimensione

ternaria. La cultura a cui e' soggetto lo ha abituato a vivere essenzialmente la dicotomia di corpo e anima, di corpo e psiche.

In questa condizione l'uomo non identifica e quindi non puo' vivere le sue competenze esperienziali secondo le facolta' specifiche attraverso cui si distinguono, ma spesso le confonde in una globalita' individuale senza precise possibilita' esperienziali.

Soprattutto confonde spesso il piano della condizione spirituale con quello della mente.

Il fatto non e' di poco conto, non si tratta di definire il sesso degli angeli, poiche' il risultato di questa confusione e dell'incapacita' di vivere il piano della

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coscienza per le sue effettive possibilita' creative e' devastante per l'esperienza dello stesso individuo.

Possiamo fare un rapido esempio del problema. E' facile, infatti, dire che si ha male ad una caviglia, ma non si dira' mai, dopo una degratificazione qualsiasi, che si ha la mente triste o inadeguata. Se nel primo caso si dira' che fa male la caviglia, ovvero distinguendo che e' una parte del corpo, nel secondo caso si dira' che ci si sente tristi o inadeguati, rivelando cosi' di identificarsi con l'istanza mentale.

Confondere una reazione emotiva della mente per uno stato di effettiva realta' e' assolutamente fuorviante.

Porta a dare una attenzione primaria a quell'emozione dimenticandosi di partecipare alle vicende del mondo primario che invece se ne vanno per conto loro.

E nella vita una dimenticanza di questo genere puo' essere del tutto controproducente.

Sovrapporre il proprio sogno alla realta' significa guidare un auto da ubriachi, significa agire pensando erroneamente di essere nel giusto. Con conseguenze imprevedibili e tutte a proprio danno.

E la cosa diviene problematica poiche' l'individuo, in questa condizione di sovrapposizione delle due diverse competenze, prende a riferimento i valori della virtualita' mentale come se si trattasse di una vera e propria realta' concreta. Tutto cio' che sara' stato acquisito dalla mente, anche attraverso il suggerimento occulto di chi ha interesse a farlo, diventera' la realta' per cui vivere e per cui costruire.

E' cosi' che prendono forma i ruoli sociali e morali che sono alla base della sofferenza dell'individuo e della conflittualita' della societa' umana.

Ma la cosa ben piu' grave e' che l'individuo che vive la sovrapposizione di mente e spirito si allontana inevitabilmente dalla concreta possibilita' di sviluppare una reale conoscenza di se' e dell'esistenza, condizionato dalle filosofie che sono riuscite a fare presa sulla sua mente, incapace di valutare in maniera distaccata e razionale i suoi reali bisogni e le conseguenti reali scelte.

E non e' una cosa di poco conto. Da quando siamo nati la nostra mente e' stata nutrita e subissata di dati

che giungono dal mondo degli altri e non da una esperienza diretta. Quando poi siamo cresciuti, e avremmo potuto sviluppare questa

esperienza diretta, ci siamo trovati nell'incapacita' materiale di farlo in maniera adeguata, sia perche' avevamo intanto accettato specifiche modalita' di pensiero e sia perche' non avremmo potuto in ogni caso trovare vie disponibili.

Cosi' chi e' nato sotto una certa latitudine geografica si e' trovato ad acquisire i ruoli impostati dal gruppo etnico del caso. Ci si e' trovati ad essere cristiani, islamici o buddisti senza possibilita' di effettiva scelta, ma pur tuttavia convinti della realta' virtuale vissuta tanto da difenderla ad ogni costo.

Ma i problemi non sono solo riferibili all'osservanza di un ruolo sociale. La mente, come il corpo, e' soggetta ad una serie di patologie comportamentali che, vissute sul piano di una virtualizzazione scambiata per realta', diventano una galleria degli orrori.

Orrori che vanno dalle problematiche impostate dalla timidezza all'impotenza, dall'abulia allo stress.

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Orrori che vanno dal problema dell'ansia esistenziale, alla sofferenza della solitudine, alla frustrazione delle aspettative disattese, al dolore prodotto dalle emozioni ingigantite al ruolo di realta'.

Ma l'uomo, per fortuna, non e' condannato a questi orrori che portano solamente sofferenza e conflittualita' in tutta l'umanita'.

La proposta operativa della meditazione. La filosofia della meditazione propone una soluzione di per se' ovvia e del

tutto naturale per risolvere il problema dell'interferenza mentale. Se il problema dello stato di sofferenza e di incapacita' creativa dell'uomo

e' rappresentato dall'utilizzo inadeguato del piano della mente, la sola cosa necessaria da fare e' quella di superare l'ostacolo evolutivo che essa rappresenta.

E cioe' occorre andare oltre la dimensione della mente per ripristinare l'esperienza evolutiva dell'individuo dando la possibilita' alla dimensione spirituale di emergere dalla mente in cui si identificava per accedere alle sue specifiche facolta' esperienziali.

Indubbiamente per fare questo occorre molto coraggio. Non e' certamente facile abbandonare il mondo delle abitudini impostato dalla mente sin dalla nostra nascita. Eppure quasta azione rappresenta il solo modo per uscire dall'interpretazione del sogno virtuale e sofferente del senso della nostra esistenza che e' prodotto e dominato dalla mente.

Solo attraverso questo atto di coraggio e di lucidita' esperienziale possiamo avere la possibilita' di uscire dai nostri problemi piu' profondi e in apparenza irrisolvibili.

Solo attraverso questo atto evolutivo, possiamo accedere alle nostre reali capacita' esperienziali e creative.

Solo cosi' possiamo giungere a capire i nostri reali bisogni, a comprendere e a vivere in armonia con gli altri e a rispondere in maniera effettiva al richiamo del trascendente.

Del resto la sperimentazione del piano dello spirito rappresenta comunque una sfida esperienziale interessante che puo' aprire a nuove prospettive esistenziali.

Come si e' detto, la maggior parte delle persone sono abituate a vivere e a comprendere le necessita' della dualita' di corpo e psiche.

Si da' molta cura all'aspetto fisico, attraverso le varie forme dell'applicazione ginnica, e si controlla l'aspetto alimentare per ottenere rendimento e assetto idoneo al buon funzionamento fisiologico, cosi' come si da' altrettanta attenzione ai problemi funzionali della mente attraverso pratiche interiorizzanti.

Ed e' cosi' che scopriamo nuove energie sopite nell'aspetto fisico e nuovi orizzonti applicativi sul piano mentale.

Ma se diamo attenzione alle possibilita' offerte dalla struttura esperienziale ternaria dell'individuo, ci si puo' chiedere quale spazio esperienziale potremmo aprire e sviluppare dedicando la stessa attenzione al piano dello spirito.

La dimensione spirituale non deve essere vista solamente come un atto di capacita' volitiva o coscienziale dell'individuo. Anch'essa, come i due precedenti

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piani esperienziali del corpo e della mente, possiede un suo spazio creativo specifico.

Uno spazio creativo che e' immenso e va oltre l'immaginabile, rivelandosi una dimensione tutta da scoprire.

Vivere oltre la limitazione esperienziale della mente. Superare la dimensione virtuale della mente per accedere a quella reale

dello spirito significa abbandonare il riferimento ad una realta' a cui ci si era comunque abituati.

E questo puo' rappresentare per qualcuno una fonte di timore nell'andare verso cio' che si considera ignoto. Forse e' l'equivalente della paura di morire, di affrontare un aspetto dell'esistenza che evoca i suoi dominii metafisici mal appresi dalle filosofie e dalle religioni storiche.

In effetti la qualita' dell'esperienza spirituale che e' possibile vivere al di la' della mente e' completamente diversa da quella interpretata nei ruoli storici e soggettivi del proprio quotidiano proposto e dominato dal sogno mentale. Anche se andavano stretti, questi ruoli rappresentavano comunque qualche cosa di conosciuto di cui, anche se segnati dalla sofferenza e dall'insoddisfazione, si conoscevano le modalita' di interazione.

Ma l'esperienza possibile sul piano dello spirito non e' un evento alieno alle necessita' e alla natura dell'uomo, ne' tantomeno e' stato tracciato da altri uomini per un loro disegno idealistico. Sul piano spirituale non ci sono regole a cui doversi adeguare, non ci sono condizioni che possono censurare le piu' immediate aspettative interiori dell'uomo.

L'esperienza spirituale si identifica nella natura reale delle cose. E' la realta' stessa che viene vissuta in tutta la sua possibilita' partecipativa. Quali limiti ci possono mai essere in natura? Noi stessi ne siamo parte...

Sono i mondi degli uomini che creano steccati e sofferenza. In natura si puo' solo trovare un immenso spazio creativo in cui poter esprimere se stessi e dove poter sviluppare conoscenza e creativita'. Senza limiti, in una dimensione di armonia, di autentica liberta' e di conoscenza.

Del resto l'intrinseco significato dell'esistenza e' gia' qui adesso. Anche se non lo viviamo nelle sue reali potenzialita' partecipative, chiusi nel ghetto soggettivo della mente, esso c'e', esiste e ci coinvolge malgrado la nostra disattenzione nel suo grande mistero. Tanto vale vivere l'esistenza per cio' che e' e che essa stessa consente di vivere sul piano dell'esperienza spirituale.

Uscire dalla dimensione mentale non significa, quindi, necessariamente attuare un passaggio traumatico. L'esperienza avviene gradualmente attraverso piu' fasi di scoperta in una dimensione di completezza e di amore che non puo' che soddisfare ogni necessita' di esperienza mano a mano che la si sviluppa.

L'esperienza del silenzio interiore. Nel liberarsi dai parametri virtuali del mondo creato e dominato dalla

mente, per accedere alla condizione aperta sul piano della natura, l'individuo esce inevitabilmente dal turbinio e dal frastuono virtuale della mente e accede a una condizione di silenzio interiore dove trova se stesso di fronte al mistero

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dell'esistenza. Questa esperienza di silenzio e' fondamentale poiche' distingue la facolta' spirituale dalle soggettivita' e dalle emotivita' della mente.

Vivere questa condizione di silenzio non significa ovviamente chiudersi in se stessi, ne' isolarsi dal mondo. Significa invece uscire dalla soggettivita' della mente per entrare nella purezza luminosa dello Shan.

Significa ritrovare se stessi e dare tante risposte a tante domande. Ed e' anche un modo per rapportarsi reciprocamente con altri che, come noi, stanno realizzando una esperienza al di fuori della soggettivita' della mente.

L'esperienza del silenzio contiene in se' molte potenzialita' esperienziali che si articolano in una sequenza di esperienze realizzabili secondo l'interesse dettato dalle necessita' dell'individuo.

Il primo evento immediato e utile che si verifica in questo silenzio e' l'esperienza che la filosofia della meditazione identifica nel concetto di pacificazione della mente.

Nel tacitare la mente per dar modo alla condizione spirituale di identificarsi e di emergere alla sua reale natura, accade che le ansie, i problemi della personalita' e le turbe della psiche perdono automaticamente di mordente. Si affievoliscono per lasciar posto alla capacita' di godere della propria vita, consentendo di uscire dai sensi di colpa causati dal giudizio ipercritico delle necessita' del proprio ego per giungere a una felicita' fino a quel punto negata nella dimensione della mente.

Il fatto stesso di realizzare un processo di tacitazione della mente, quale puo' offrire l'esperienza della meditazione, rende implicito di imparare a relativizzare i valori che la mente stessa propone, e quindi di prenderne le distanze senza piu' crederci. Il che pone, di fatto, l'individuo nel pieno della dimensione dell'esperienza spirituale, fuori dal plagio della mente. Libero e pronto ad intraprendere la piu' grande avventura della propria vita.

Ecco quindi che l'esperienza del silenzio si rivela in grado di poter offrire altre esperienze.

Ma le potenzialita' esperienziali possibili nell'esperienza del silenzio non finiscono qui. Questa condizione consente di giungere al nucleo della propria identita' reale, aiutando a ritrovare se stessi, nella propria identita' piu' intima e vera. Come se si riprendesse quel filo interrotto di una esperienza di vita incominciata nella propria infanzia e poi impedita e ipotecata dai richiami del mondo degli altri nel momento del proprio inserimento nel sociale. Allora, si era indifesi e si aveva creduto alla realta' dell'ovvio che ci era stata imposta.

L'esperienza del silenzio consente anche di percepire la presenza del Vuoto, la realta' misteriosa in cui viviamo e in cui partecipiamo al suo disegno nostro malgrado, inconsapevolmente.

E in questa prospettiva possiamo sviluppare una importante esperienza mistica, quella che ci consente di scorgere l'esistenza del sentiero misterioso che manifesta la natura segreta dell'esistenza su cui potersi incamminare ed evolvere verso il risveglio. Un cammino da percorrere attraverso progressivi stati percettivi di coscienza che portano alla percezione della propria reale identita' e alla conoscenza e alla partecipazione dello Shan, la natura reale dell'esistenza.

L'esperienza del silenzio consente inoltre di realizzare una energia spirituale immensa, canalizzabile in una capacita' creativa da poter dedicare a se stessi e

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agli altri in un atto di amore che ricambia e completa quello ricevuto nella stessa esperienza del silenzio.

E' nell'esperienza del silenzio che si puo' giungere, infine, a realizzare la completezza della propria partecipazione al mistero dell'esistenza, attuando la saldatura del visibile quotidiano con quella dell'invisibile per realizzare un atto partecipativo nella globalita' fenomenica dello Shan, il mistero che e' la nostra vita e il significato stesso della nostra esistenza.

Ed e' nell'esperienza del silenzio che diveniamo ricercatori dell'infinito per trovare conferma alle nostre esperienze di realta'.

(Da "La meditazione e l'esperienza del Vuoto", di Giancarlo Barbadoro,

Edizioni Triskel - Torino 98)

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Centro Yoga Satya

www.centroyogasatya.it Via Q. Sella 27\b – 20052 Monza

Tel: 329 0070070

Maggio 2007 Il pensare positivamente.

Il ‘pensiero’ positivo è fondamentale nello yoga. L’uomo si ritiene ‘elevato’ in confronto alla condizione puramente animale,

proprio per il suo stato ‘cosciente’ dal quale nasce la capacità intellettuale di discernere le proprie azioni, comprendendo la propria sofferenza e quella altrui.

Lo yoga è una profonda ricerca interiore della ‘coscienza’ allo stato puro,

della beatitudine e dell’amore. Perciò il corpo e la psiche vengono ‘purificati’ attraverso gli asana o posizioni ed il pranayama, fino ad ottenere il silenzio del corpo, del respiro e della mente e rimanere nello stato esistenziale di pura coscienza.

Il movimento dello psiche che si esprime attraverso il corpo, sostenuto

anche nel suo movimento, e il respiro viene calmato e direzionato verso il positivo. Per positivo si intende quello che non crea accumulo, per esempio, un amore sincero e incondizionato non crea accumulo, inizia e finisce in se stesso, è e basta.

Un amore condizionato dal quale nasce attaccamento, desiderio di possesso ecc è negativo perché produce accumulo condizionante e non ci sarà fine alle azioni condizionate che nasceranno da questi ‘accumuli’ che non permetteranno di vivere nel ‘ qui ed ora ’ e strangoleranno la propria potenzialità creativa.

La direzione dello yoga è data ed illuminata dagli yama e niyama. Quindi

per chi inizia lo yoga notare le proprie azioni e il proprio movimento psichico è limitato soltanto alla pratica, ma nel tempo si accorgerà che queste osservazioni interiori fanno strada all’interno di sé fino a trasformare profondamente e permanentemente il movimento psichico al ‘positivo’.

Dalle azioni di asana e pranayama, illuminati dagli yama e niyama, nasce

uno stato di profonda concentrazione permanente nel ‘ qui ed ora ’, la mente smette la sua corsa avanti e indietro nel tempo condizionando continuamente il vissuto. Nasce il pragmatismo e le azioni compiute e necessarie per partecipare alla vita e rispondere alla vita stessa non ruotano più attorno ad un’ immagine di sé stessi, ma si apre una visione estesa, ampia e non egoica.

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Qui di seguito è l’articolo scritto dal grande ed amatissimo insegnante Antonio Nuzzo pubblicato recentemente, che tratta l’insegnamento della pratica dello yoga. Quanto segue è la versione integrale in originale.

‘Lo stress, l’agitazione, il nervosismo, l’ansietà, l’insonnia sono il risultato

della goffa abitudine di voler nascondere le nostre debolezze ostentando l’esatto opposto.

È necessario scoprire un delicato senso di abbandono alla vita, essere consapevoli dell’incertezza e permettere alla ricerca yoga di visitare quella parte del cuore dove si nasconde l’amore, la tenerezza, l’umiltà, la vulnerabilità, la fiducia, il silenzio.

Coltivare con dedizione quella capacità che permette ad ogni praticante di vivere l’istante con una consapevolezza che non può essere turbato da preconcetti sul passato o dalle proiezioni sul futuro che il pensiero porta con sé.

L’insegnamento e la pratica dello yoga sono un’arte raffinatissima che richiede la conoscenza e lo studio accurato di alcuni testi tradizionali.

Il termine teoria adottato per definire il tema dei Kleśa non dovrebbe trarre

in inganno e far pensare che tratteremo un aspetto solo teorico o quantomeno poco inerente alla pratica quotidiana.

Siamo abituati a separare gli ambiti: a praticare le famosissime posizioni, āsana, e le respirazioni energetiche, prānayāma, senza mai occuparci di quella che potremmo definire “educazione al pensare”, utile proprio durante l’azione e non in separata sede come mera conoscenza teorica.

Questo concetto è esposto in forma chiara e sintetica nel testo “yoga-sūtrā” di cui Patanjali (secondo alcuni studiosi, attivo nel II secolo a.C. e secondo altri, nel IV o nel V secolo d. C.) è ritenuto l’autore, fondatore e codificatore del Raja-yoga che rappresenta il riferimento più autorevole per tutte le altre vie o sentieri dello yoga.

Considerando il carattere estremamente ermetico del testo, consultarlo e analizzarlo solo da un punto di vista filosofico e\o teoretico potrebbe portare ad una incomprensione; al contrario, se la lettura del testo è sostenuta da una pratica di yoga sincera e intensa, si scopre, considerando la grande abilità pedagogica e didattica dell’autore, l’armonia e l’essenzialità dei dettami indicati.

Essa diventa uno strumento oltremodo indispensabile per comprendere la priorità, l’orientamento da imprimere al proprio pensiero, che a volte è anche autarchico, competitivo, violento, comparativo e tende a esprimere valutazioni e giudizi anche durante la pratica di hatha-yoga e di qualsiasi altra mārga (sentiero dello yoga): bhakti-yoga, karma-yoga, jnāna-yoga, laya-yoga.

Ogni azione, scrive Patanjali, è affetta da cinque “matrici” produttrici di fenomeni “psico-coscienziali” chiamate kleśa, che alimentano le vrtti.

Come le acque agitate e tormentose di un torrente, cariche di vortici e interrotte da grossi massi che ne accentuano il decorso turbolento, così le vrtti affliggono la coscienza, in particolare quando questa è assoggettata a forti emozioni, sensazioni e paure.

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L’obiettivo dello yoga è di offrire un metodo che permetta al praticante di riuscire a mantenere l’orientamento, la propria stabilità e la propria direzione anche quando è investito da tempeste interiori.

Il metodo che viene adottato non è repressivo e tanto meno diversivo; si basa sulla necessità di acquisire una conoscenza metafisica per preparare il terreno interiore, utilizzando alcune tecniche ascetiche abbinate al metodo della contemplazione.

Questo porterebbe all’evoluzione della coscienza abituale in una coscienza qualitativamente diversa in grado di sperimentare la verità metafisica. Si impara quindi a conoscere tutti gli stati che turbano la coscienza dell’uomo, che sono illimitati, ma possono essere ricondotti a tre categorie principali:

1- errori e allucinazioni, 2- la totalità delle esperienze psicologiche, 3- le esperienze parapsicologiche. La ricerca di una coscienza superiore permette di cambiare le priorità e i

valori che sono all’origine degli attaccamenti, dei processi emotivi e anche sensoriali.

Da bambini avevamo effettivamente interessi diversi da quelli sviluppati in età adolescenziale o in età matura, e di conseguenza le motivazioni di allora alimentavano emozioni, sensazioni, ansie e agitazioni che oggi possono solo suscitare un simpatico ricordo.

E’ proprio questo l’insegnamento che si vuole tramandare a chi ha intenzione di percorrere la via che lo porterà al di là della mente stessa e permettere un’efficace preparazione al conseguente accesso alla dimensione meditativa.

Nessuna via dello yoga è esente da questa modalità neppure quella tanto usata da noi occidentali: lo Hatha-Yoga.

Nel secondo verso di uno dei più antichi testi di riferimento dello Hatha-Yoga, Hatha-yoga-pradīpikā, letteralmente “la piccola lampada dello hatha-yoga”, Svatmarama, afferma di voler esporre la scienza dello hatha unicamente e con il solo scopo di permettere l’accesso al Raja-yoga (Yoga regale di Patanjali).

Con il termine “unicamente” l’autore esclude perentoriamente qualsiasi altro scopo alle tecniche di hatha-yoga che si appresta a descrivere.

Se è condiviso questo progetto, non è sufficiente abbracciare una delle varie mārga o sentieri dello yoga, ma andrebbe adottata la priorità richiesta dal maestro al discepolo, dallo yoga al seguace.

Viene quindi esclusa dalla pratica qualsiasi modalità di agire e di praticare “meccanicamente o automaticamente” senza la partecipazione di una presenza permanente che orienta, indirizza il corpo e la mente verso la meta prefissata e l’accortezza di indirizzare e di coltivare il proprio interesse verso la priorità prescelta.

Praticare yoga significa quindi essere partecipativo, consapevole non solo ai processi fisici, e con questo si intende l’azione sul corpo e sul respiro, ma anche ai contenuti della mente spontanea.

Questi contenuti sono tanti: l’immaginazione, la fantasia, le proiezioni mentali derivanti da dinamiche psicologiche interiori, l’abitudine al confronto, al giudizio e alla valutazione, l’interpretazione, il dubbio, la prevaricazione, la

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violenza. Riuscire progressivamente ad attribuire ad essi meno importanza e valore e ridurne così nel tempo la crescita e la “virulenza”. Il libero movimento della mente porta con sé contenuti destabilizzanti che creano non solo ulteriori processi mentali, ma anche emozioni, attività bio-chimiche spontanee, stimoli del sistema nervoso dal quale possono derivare anche contratture muscolari e vari altri disagi fisici.

L’elemento focale più importante è capire che la pratica di hatha-yoga è solo un’eccellente occasione per imparare con tanta pazienza ad osservare, con una coscienza elevata, e comprendere lentamente col tempo, nel rigoroso silenzio della mente, quale testimone, la totalità del processo della vita.

All’inizio del secondo capitolo, dedicato alla sādhanā (pratica), il testo di Patanjali rivela, che all’origine delle vrtti, i vortici della mente, ci sono delle matrici che ne condizionano l’orientamento. Queste matrici si chiamano kleśa, sono le cinque matrici che inducono sofferenza e condizionano le azioni, le scelte di vita e l’orientamento degli stessi processi mentali.

1- Avidyā è la prima delle cinque; è una parola sanscrita composta, che significa condizione interiore di non conoscenza, comunemente tradotta con la parola “ignoranza”.

A questo termine non va attribuito il significato che oggi riveste nel linguaggio comune, quello di mancanza d’istruzione, di cultura, o ancora, di mancata acquisizione di una perfetta conoscenza delle supreme e più alte verità filosofiche e religiose.

In questo contesto, il termine “ignoranza” indica la diffusa abitudine di non saper collocare gli aspetti prioritari, dal punto di vista della ricerca yoga, rispetto alle priorità derivanti da una visione comune che tende a soddisfare prevalentemente l’ego.

Tanto è vero che in sanscrito esiste il termine “bhoga”, utilizzato dallo stesso Patanjali, che designa esattamente l’azione che ha come priorità quella di soddisfare soltanto il proprio ego, il proprio piacere concreto, materiale, affettivo e psichico.

Con questa affermazione non si vuole indicare che il praticante non dovrà effettuare più nessuna azione che porti al piacere o al proprio vantaggio, ma che dovrà imparare ad attribuire il giusto valore a questo genere di piacere, coltivando parallelamente la priorità assoluta di colui che si sente un vero seguace dello yoga.

Applicare questo principio nello hatha-yoga, significa in pratica imparare a individuare, con l’aiuto del proprio istruttore, tutor o maestro, nel procedere della ricerca, tutte le motivazioni che emergeranno in funzione delle varie pratiche sostenute, il vantaggio personale, che sia esso fisico, salutistico o di altro genere. Controllare il livello di interesse che parallelamente si coltiva in funzione della elevata finalità, in modo tale da ridurre il peso di avidyā.

Avidyā è rappresentata da Patanjali come un campo dove nascono piante spontanee. In questo campo vivono gli altri quattro kleśa che rispondono ai nomi di: asmitā, rāga, dveşa, abhinivesha.

Essi si espandono, talvolta, al punto tale da sviluppare ossessioni, paure, timori, incertezze, ansie, da un lato, e effimere gioie, piaceri, soddisfazioni e gratificazioni, dall’altro.

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Si può imparare a coltivare in maniera equilibrata e a contenere la loro espansione e la loro crescita. La scelta del modo in cui coltivarle solitamente non è consapevole, ma in chi pratica correttamente lo yoga lo diventa. A titolo informativo, voglio avvertire coloro che intendono insegnare lo yoga o praticarlo con sincera dedizione che la pratica che non tiene conto di queste considerazioni incrementa e accelera la proliferazione sia delle vrtti sia dei kleśa e, non solo, alimenta la caparbia convinzione e l’ostinazione di trovarsi nel vero e in linea con la tradizione.

2- Asmitā è uno dei figli di avidyā, il primogenito, è quella matrice che nasce dalla profonda confusione, dal guardare, con la mente condizionata da avidyā, all’io cosciente come a un’identità soprannaturale. Questa credenza porta alla sopravalutazione di se stessi, all’egocentrismo, all’egoismo, condizione che preclude una visione equilibrata, serena e chiara. Il percorso dello yoga che, ricordo, si basa sullo sviluppo della consapevolezza e della chiara visione, viene notevolmente inficiato e spesso si entra in un tunnel scuro senza sbocco.

3 – 4 Rāga e dveşa sono le matrici che fanno emergere le vrtti che affondano le loro profonde e ramificate radici nelle aree più nascoste dell’inconscio, da dove emerge quel desiderio pressante di voler raggiungere a tutti i costi il piacere, la gioia il divertimento, il benessere, la passione, l’amore e nel contempo di evitare con repulsione, disgusto, ripugnanza tutto ciò che porta dolore, sofferenza, malattia. Ricercare e preferire solo alcuni aspetti della vita e cercare di allontanare illusoriamente gli aspetti che giudichiamo dolorosi e negativi, di cui abbiamo paura e terrore.

5- Abhinivesha, l’ultimo dei cinque kleśa, significa letteralmente “gusto che si ha di se stessi”. Potremmo definirlo anche “istinto di conservazione” oppure ancora “testardo attaccamento alla vita” come forza radicata in ogni essere vivente. Abitualmente alla parola abhinivesha si attribuisce il significato più comune: paura della morte.

Da qui potete capire quanto sia inopportuno praticare lo yoga con meccanicità e con false finalità oppure applicare tecniche, anche le più raffinate, con dovizia di particolari tratti dalla fisiologia articolare e dall’anatomia, con informazioni accurate sui benefici e vantaggi, per poterli coltivare nel tempo, come se si volesse, direbbero gli Yogi, sostenere e nutrire i kleśa e le vrtti.

Questa potrebbe essere l’ennesima errata strategia messa a punto per distrarre, illudere o velare a noi stessi la paura ed esibire invece l’esatto opposto: il senso di onnipotenza, di forza, di vitalità, di immortalità. Forse tutto ciò rende l’uomo capace di inibire la paura e di vivere eludendola, come se non l’avesse ma, al tempo stesso, lo rende più debole e impreparato, non più nei confronti della paura, ma sicuramente di fronte alla tangibile esperienza della vita.

Lo stress, l’agitazione, il nervosismo, l’ansietà, l’insonnia sono il risultato di questa goffa abitudine di voler nascondere le nostre debolezze racchiuse in queste matrici ostentando l’esatto opposto. E lo yoga per noi occidentali è stato confezionato in linea con le nostre tendenze e abitudini e tutto ciò fa crescere il senso di falsità e di illusorietà.

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E’ necessario scoprire un delicato senso di abbandono alla vita, essere consapevoli dell’incertezza e permettere alla ricerca yoga di visitare quella parte del cuore dove si nasconde l’amore, la tenerezza, l’umiltà, la vulnerabilità, la fiducia, il silenzio.

Coltivare con dedizione quella capacità che permette ad ogni praticante di vivere l’istante con una consapevolezza che non può essere turbata dai preconcetti sul passato o dalle proiezioni sul futuro che il pensiero porta con sé.

L’insegnamento e la pratica dello yoga sono veramente un’arte raffinatissima che richiede la conoscenza e lo studio accurato di alcuni testi tradizionali che non debbono essere considerati mere conoscenze intellettuali da sfoggiare nei salotti, dove si fa bella figura a esibire nozioni, conoscenze, dottrine e studi, ma devono servire a individuare la modalità giusta per incidere in modo profondo sulla propria e personale pratica quotidiana di yoga e più specificatamente di hatha-yoga.

L’introduzione della pratica di yoga in Occidente, e in particolare in Italia, è ancora troppo recente e la comunità di yoga non può ancora abbracciare l’immensa dottrina tramandataci dagli antichi Maestri: è come un bambino di pochi mesi che si appresta a camminare.

Inevitabilmente, i suoi primi passi saranno incerti, ma la cosa interessante da osservare è che i primi passi sono sempre affrettati poiché non si è ancora acquisito equilibrio e stabilità. Così, noi occidentali ci affrettiamo ad apprendere le tecniche fisiche, cercando di esibire movimenti perfetti, come se si trattasse di danza o di ginnastica, per essere giudicati bravi dagli altri, senza aver appreso e applicato l’insegnamento in tutta la sua profondità.

Lo yoga innesca un processo di purificazione che non si limita alla mera pulizia interna ed esterna del corpo attraverso le pratiche fisiche, ma queste assumono il valore di un gesto, di un messaggio simbolico che incita l’individuo a procedere verso una purificazione ben più vasta, verso uno stato di consapevolezza non reattiva, per raggiungere una vera apertura e un fiducioso e totale abbandono alla vita.’

Antonio Nuzzo

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Il potere della Mente di Flavio Daniele Tutte le arti marziali e in particolare il Taiji Quan, si basano sullo sviluppo

armonico di quello che i maestri chiamano il principio dei “ Tre Poteri ” o delle “Tre armonie ”, e cioè: il potere della mente, il potere dell’energia e il potere del corpo. Nel mio precedente articolo, comparso nel numero di giugno 99, intitolato “Rapporto tra corpo, mente ed energia ”, abbiamo cominciato ad esaminare il potere della mente (Yi ) inteso come idea, attenzione, intenzione e volontà cosciente ( Yi Nian ),

nel presente esamineremo lo Yi come coscienza, consapevolezza, intuizione ( Yi Shi ).

Ciò non rappresenta un inutile esercizio intellettuale, ma è invece un passaggio obbligato, perché il Taiji è un arte estremamente raffinata ed i suoi confini non sono limitati al campo marziale, ma lo trascendono. Il significato che i maestri cinesi danno al termine Yi è molto complesso e coinvolge in maniera interattiva la mente, nei suoi molteplici aspetti; il corpo, con le sue potenzialità; e lo spirito.

Yi è l’alfa e l’omega, è il principio e la fine, è la luce che illumina la mente. Con Yi Shi il praticante incomincia un vero e proprio processo di evoluzione

interiore che lo coinvolge in maniera profonda . Infatti, mentre Yi Nian, nei suoi vari aspetti di volontà, attenzione, concentrazione, molto utili nella vita quotidiana, può essere priva di valenze spirituali; Yi Shi al contrario, coinvolgendo aspetti metafisici dell’esistenza umana, ne è ricca.

Così come le tre qualità di Yi Nian, che sono comuni a tutti gli esseri umani, sono in base al loro livello di sviluppo quelle che fanno la differenza tra un uomo di successo, in grado di orientare la sua vita vivendola da protagonista e l’uomo velleitario e inconcludente che, invece, la subisce.

Alla stessa maniera lo sviluppo di Yi Shi (coscienza, consapevolezza, intuizione), fa la differenza tra l’uomo di successo mondano, che non si pone obiettivi di carattere spirituale ( un grande campione sportivo, un imprenditore affermato o un famoso scienziato sono tutti esempi di personalità che hanno sviluppato ad un buon livello volontà, attenzione e concentrazione ) e l’uomo che, invece, fa della trasformazione interiore e del miglioramento di sé lo scopo della sua vita, espandendo la sua coscienza oltre i confini della realtà fittizia dell’Io.

Coscienza Quello che differenzia l'essere umano dagli altri esseri viventi é la coscienza

di sé, egli non solo sa e sente di esistere, ma é conscio di ciò. Sostanzialmente si può parlare di due fondamentali stati di coscienza: una

di tipo biologico, bagaglio comune di tutti gli esseri umani; ed una che possiamo chiamare metafisica.

La prima, relata alla mente ordinaria, nasce dai sensi e dall'attività di pensiero, il suo motto é il "cogito ergo sum" di cartesiana memoria; la seconda, relata alla Mente Universale, é metafisica e va oltre la comune attività di pensiero.

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La coscienza biologica o ordinaria, legata all'Io, é dualistica: Io e inconscio, psiche e soma, soggetto e oggetto, ragione ed istinto, cuore e cervello. La coscienza metafisica, al contrario, frutto di una intensa fase introspettiva, scevra da ogni analisi intellettuale, da ogni pensiero discorsivo e conclusioni logiche é senza ‘ Io ’.

La coscienza metafisica si sviluppa attraverso la pratica della meditazione e della pacificazione del pensiero cosciente, armonizzando i nostri pensieri fino al punto di fermare il dialogo interiore ed operare il rovesciamento dell'orientamento della nostra visione interiore dalla molteplicità all'unità, dall'Io al non Io, dall'individualità all'universalità.

Le grandi tradizioni orientali, perfettamente consce di ciò, hanno elaborato tecniche sofisticatissime per raggiungere lo scopo di bloccare il "dialogo interiore" e rompere il "circolo vizioso" che mantiene in vita la falsa "percezione" del mondo e sviluppare la vera consapevolezza., che si manifesta quando la mente entra in uno stato di assoluto silenzio e non genera più pensieri: -

Si è consapevoli di "essere", senza bisogno di pensare, per esserne consapevoli - .

Far tacere i pensieri, bloccare il dialogo interiore è uno dei punti chiave per accedere ad una retta visione di noi stessi e della realtà circostante.

Il silenzio interiore ed il vuoto mentale che ne consegue, di cui parlano le tradizioni, sembrano per l'uomo ordinario un'opera titanica difficilmente realizzabile che solo pochi individui particolarmente dotati possono raggiungere. Infatti è così, sono veramente pochi coloro che riescono, ma non tanto per una difficoltà intrinseca all’opera, ma piuttosto per un approccio errato.

Così è, molto spesso, quando si approcciano le dimensioni interiori, siamo noi stessi che con i nostri preconcetti mentali vanifichiamo i nostri sforzi. L'ipotesi, che nel nostro caso rende impossibile la soluzione, è che per sua "forma mentis" l'uomo occidentale è portato a pensare che tutto passa attraverso un’attività di pensiero.

Ma pensare di non pensare non produce il "vuoto", bensì un altro pensiero: si cerca di smettere di pensare pensando allo smettere di pensare. E' una situazione assurda e paradossale, che genera solo frustrazione e dolore, senza apparente via d'uscita.

Ma come spesso accade la soluzione è più semplice del previsto, basta operare un cambiamento passando a un livello logico superiore:

Il silenzio è semplicemente al di fuori della sfera di attività del pensiero. Il processo del pensiero è una delle attività umane più alte e più nobili, ma

per quanto grande è limitato, il problema è di comprendere quindi che esso è solo una delle infinite forme di percezione e che restare ancorati alla sua sfera di azione ci taglia fuori da tutte le altre realtà dimensionali.

Vediamo quindi come praticamente possiamo procedere per rendere possibile il raggiungimento di alcuni traguardi che ci permettono di rendere più stabile e forte la nostra mente. Per farlo dobbiamo tracciare una specie di percorso definendo in maniera chiara i passi fondamentali.

Il silenzio interiore e il vuoto mentale si generano l'uno l'altro in un flusso circolare che si autoalimenta, però mentre il vuoto mentale è silenzio interiore

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assoluto, in quanto vi é un’assenza totale di pensieri, il raggiungimento dello stato di silenzio interiore non presuppone automaticamente il vuoto mentale, né rappresenta solo la condizione indispensabile ma non sufficiente . Per capire meglio dobbiamo chiarire la differenza tra il “ semplice silenzio ” interiore, che consegue alla cessazione del dialogo interno, e quello “ assoluto ” che consegue al blocco dell’attività pensante della mente.

Il primo non presuppone un’assenza totale di pensieri, ma solo la cessazione del loro fluire disordinato, caotico e rumoroso , il secondo richiede non solo la realizzazione di determinate condizioni tecniche( cessazione del dialogo, silenzio, blocco dell’attività pensante etc. ), ma anche lo sviluppo di determinate caratteristiche di ordine spirituale, senza le quali qualsiasi tecnica risulta completamente inutile.

In una prima fase, quindi, non si cerca di fare il vuoto mentale, ma solo di armonizzare l’attività della mente spegnendo gradualmente il dialogo interno: si pensa non in maniera discorsiva con parole, ma per immagini, un po’ come se sullo schermo della mente si proiettasse un film senza sonoro. Nella mente c’è silenzio, ma non assenza di pensieri: è come in una valle di alta montagna, ed i nostri pensieri sono come uccelli che volteggiano silenziosi nell’aria.

Consapevolezza La consapevolezza viene comunemente intesa come "essere coscienti di

...", ma in realtà é qualcosa di più complesso che presuppone anche un vero e proprio processo di conoscenza.

Quindi: Consapevolezza come processo dinamico di conoscenza che permette di prendere coscienza di.... . Una conoscenza, ovviamente, che non scaturisce da un sapere esclusivamente mentale, intellettuale e astratto; ma da un sapere di ordine diverso, diretto e immediato che nasce dall'esperienza di tutto il corpo e la mente, un sapere che é pratica attiva con tutto il proprio essere.

Dopo questa definizione di carattere generale, possiamo parlare per meglio precisare i contenuti di diversi tipi di consapevolezza che, pur avendo identica funzionalità, sono però differenti nel centro focale agendo a diversi livelli di sviluppo. Abbiamo così la consapevolezza della forma corporea ( Xing ), dell'energia e della mente-cuore ( Xin ). La suddivisione, data la loro naturale interdipendenza, é solo formale non sostanziale, ogni problema inerente ad ognuna di esse ha ripercussione sulle altre, come pure ogni cosciente miglioramento.

La consapevolezza corporea, che é il punto di partenza che apre la strada alle altre due, possiamo definirla come'la conoscenza di se stessi attraverso il corpo'.

Differenziazione ed Integrazione Operativamente il praticante deve essere attento ad ogni movimento e

posizione del corpo, deve affinare sempre di più la sua capacità di percezione delle variazioni toniche dei muscoli raffinando ulteriormente la sensibilità cinestetica per sentire quali parti del corpo troppo tese devono essere rilassate, e quali troppo deboli, invece, devono essere rinforzate, deve rendere il suo corpo intelligente e vivo, deve essere in grado di differenziare la parte destra

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dalla sinistra, l'alta dalla bassa, l'anteriore da quella posteriore, il centro dalla periferia. Dalla differenziazione delle varie parti strutturali deve essere in grado di passare all'integrazione, armonizzando la destra con la sinistra, l'alta con la bassa..... e così di seguito in processo di apprendimento sempre più sottile e raffinato in grado di ristabilire l'equilibrio dinamico di tutta la struttura corporea in maniera efficace ed economica.

Senza sviluppo cosciente della consapevolezza corporea non c'é progresso nella pratica perché non creandosi la fusione armonica tra Yi ( pensiero cosciente), Xing ( forma corporea) e Qi (energia interna) manca il giusto modo di agire.

Infine, la consapevolezza della mente-cuore (Xin ), é la presa di coscienza dei propri processi mentali e delle proprie emozioni; é una attenzione continua ai propri stati interiori, che sviluppa la capacità introspettiva della mente di osservare se stessa, la sua esperienza e le sue emozioni.

Intuizione "Il Pensiero di una Mente Pura é Pura Intuizione" Quando la mente é libera dai pensieri che la distraggono, i sensi funzionano

in maniera chiara e finalizzata. Quando la mente é chiara e trasparente come le limpide acque di un lago di montagna, allora riflette tutto quello che le sta attorno.

Questa capacità di una mente pacificata di entrare in risonanza con l'ambiente circostante cogliendone le sottili sfumature costituisce la base per lo sviluppo di un'altra caratteristica fondamentale: l'intuizione.

L'intuizione appartiene al regno dello spirito é come questo non può essere allenata direttamente, é un frutto che sorge spontaneamente quando tutte le condizioni coincidono.

Come un contadino non lavora direttamente sul frutto, ma sul terreno e sulla pianta, così per sviluppare l'intuizione bisogna lavorare sul rilassamento e sulla pace interiore.

Il contadino sa per esperienza che per ottenere dei buoni frutti non deve forzare la natura, ma deve seguirla e aiutarla nel suo compito. Non può tirare il grano per farlo crescere più in fretta, ma deve avere una infinita pazienza per farlo giungere a maturazione.

Sa che non é lui a far maturare i frutti, ma é perfettamente conscio degli sforzi quotidiani che deve compiere affinché la natura svolga la meglio la sua azione. Analogamente si deve comportare il praticante.

Ogni tensione fisica o emotiva allontana l'obiettivo; andare oltre per eccesso di tensione é lo stesso che rimanere indietro, in ambedue i casi non lo si coglie. Bisogna liberarsi di ogni tensione e portare l'attenzione sui giusti mezzi e sul giusto modo di fare; solo allora si svilupperà quella tranquillità che assicura l'efficacia dello sforzo, un bel giorno l'obiettivo sarà raggiunto in modo del tutto spontaneo.

Sarà come cogliere un frutto maturo, un premio naturale prodotto dall'unione armonica delle cinque qualità della mente ( Volontà, Attenzione, Concentrazione, Coscienza, Consapevolezza ), che sono, metaforicamente, come le dita di una mano che agendo assieme staccano il frutto maturo dall'albero.

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Dalla volontà si sviluppa l’attenzione, e quando si é “ volontariamente attenti “ si sviluppa la concentrazione.

Quando si è in grado di “ concentrarsi volontariamente “ senza interruzioni per il tempo che si desidera, allora si sviluppa una introspezione così costante da fare emergere uno stato di coscienza più profondo, che produce una nuova dimensione di esperienza personale in perfetta armonia con la nostra fonte più vera.

Quando questo avviene la mente si apre ad una conoscenza d’ordine superiore che sviluppa la vera consapevolezza. La fusione armonica di queste cinque qualità della mente aprono le porte della pura intuizione e lo Yi evolve nello Shen.

"Il Pensiero di una Mente Pura é Pura Intuizione" "La Pura Intuizione é Pura Percezione" "La Pura Percezione é Pura Sensibilità" Sviluppare la sensibilità richiede un particolare lavoro sia sul corpo che

sulla mente, come una sensibilissima bilancia dobbiamo essere in grado di percepire le differenze e le variazioni toniche dei nostri muscoli e dei nostri stati emotivi, senza questa abilità non c'é apprendimento, ne evoluzione nella capacità di apprendere.

Rigidità ed eccessivo uso della forza tolgono sensibilità , al contrario la sensibilità e la leggerezza affinano la percezione così che anche una piuma che sfiora il corpo può essere avvertita.

Tutto il corpo e in particolare braccia e gambe debbono diventare come degli acuti sensori che tengono sotto controllo l'ambiente circostante e l'avversario, avvertendone ogni minima variazione così da adeguare perfettamente ogni azione alla sua.

Se non si sviluppa la sensibilità allora bisogna imparare ad essere veloci per essere in grado di parare o schivare un eventuale attacco, se invece si ha la perfetta percezione dei suoi movimenti lo si può precedere anche con un movimento relativamente lento.

Molto spesso le tecniche più spettacolari nascondono, nella rapidità del gesto, una scarsa percezione. I veri maestri non sono mai spettacolari, la loro azione é sempre perfettamente calibrata, poco o niente traspare all'esterno, fuori sembra lento, dentro é veloce come il fulmine.

"Chi é lento nello spirito deve essere veloce con il corpo" Notizie sull'autore: Flavio Daniele, laureato in ingegneria, vive a Bologna dove insegna arti

marziali interne (Taiji stile Chen e Yang, Xing-Yi), Qi Gong e Shaolin kung-fu. Dirige la Scuola Italiana di Arti Marziali Interne NEI DAN per la formazione di istruttori - Tel. 051 - 239578. Ha cominciato la pratica alla fine degli anni sessanta con il Karate Shotokan ( 3° dan J.K.A.) e con lo Yoga. E' autore del libro "Le Tre Vie del Tao" - Meb Ediz. e di un video sul Taiji di stile Yang (distribuito in libreria ) edito dalla Red. Chi fosse interessato ad approfondire le arti marziali interne può contattarlo allo 051 239578 oppure 0347 8701436

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Brani tratti dalla Guida Spirituale di Miguel de Molinos

MEDITAZIONE E CONTEMPLAZIONE: Due modi vi sono per andare verso Dio: l’uno per riflessione e ragionamento, l’altro per purezza di fede, conoscenza indistinta, generale e confusa. Il primo si chiama meditazione, il secondo raccoglimento interiore o contemplazione acquisita. Il primo è dei principianti, il secondo dei colti; il primo è sensibile e materiale, il secondo più nudo, puro e interiore. Quando l’anima è già abituata a ragionare di misteri, accompagnandosi con

la fantasia e servendosi di immagini corporali, essendo tratta da creatura a creatura e da conoscenza a conoscenza (avendone assai scarsa di quella che desidera) e da queste al Creatore, allora suole Dio prenderla per mano – se non avviene che la richiami ai principi e l’avvii senza discussione per il cammino della pura fede – e facendo che l’intelletto si lasci dietro tutte le considerazioni e i ragionamenti, la tira innanzi e toglie da quello stato sensibile e materiale, e fa che, sotto una semplice e oscura notizia di fede, aspiri solo con le ali dell’amore al suo Sposo, senza che abbia bisogno per amarlo di persuasioni e informazioni dell’intelletto, perché in tal modo sarebbe molto costoso il suo amore, molto dipendente dalle creature, molto a gocce, e codeste cadute a intervalli, lente.

Quanto meno dipenderà dalle creature e più si appoggerà solo a Dio e al

suo segreto insegnamento, mediante la fede pura, più saldo, duraturo e forte sarà l’amore.

Dopo che l’anima ha acquistato la conoscenza che le possono dare tutte le meditazioni e le immagini corporali delle creature, se ora il Signore la trae da quello stato, privandola del ragionamento, lasciandola nella divina tenebra, perché avanzi per il cammino diritto e per la fede pura, si lasci guidare e non domandi amore con la scarsezza e povertà che esse le insegnano, ma supponga che è niente quanto tutto il mondo e i più fini concetti degli intelletti più savi le possano dire, e che la bontà e la bellezza del suo amato trascende infinitamente tutto il suo sapere, persuadendosi che tutte le creature sono troppo ignoranti per informarla e trarla alla verace conoscenza del suo Dio.

AMARE SENZA CONOSCERE: Deve, quindi, avanzare col suo amore lasciandosi dietro tutte le sue

conoscenze. Ami Dio come è in sé e non come glielo presenta e forma la sua

immaginazione; e se non lo può conoscere come è in sé, lo ami senza conoscerlo, sotto i velami oscuri della fede, alla guisa di un figlio che mai vide suo padre, per quel che di lui gli hanno riferito, e a cui profondamente crede, lo ama come se già lo avesse veduto.

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L’anima cui si è tolto il ragionamento, non deve violentarsi, né cercare per forza notizia più chiara e particolare, ma senza gioghi né aiuti di conforto o notizie sensibili, con povertà di spirito e vuotezza di tutto quanto il suo naturale appetito le chiede, restar quieta, ferma e costante, lasciando operare il Signore, anche se si veda sola, arida e piena di tenebra, perché sebbene le sembrerà oziosità, essa è solo della sua semplicità e materiale attività, non di quella di Dio, il quale sta suscitando in essa la scienza vera.

Diranno che la volontà non amerà, ma se ne starà oziosa se l’intelletto non

capisce con precisione e chiaramente; perché è accertato principio che non si può amare se non ciò che si conosce.

A ciò si risponde che anche se l’intelletto non conosca distintamente, mercè ragionamento, immagini e considerazioni, intende e conosce in virtù della oscura fede, generale e confusa, la cui conoscenza, sebbene così oscura, indistinta e generale, poiché è soprannaturale, è più chiara e perfetta conoscenza di Dio di qualunque nozione sensibile e particolare che in questa vita si possa formare, perché ogni immagine corporale e sensibile dista da Dio infinitamente.

LA VERA CONOSCENZA DI DIO: «Più perfettamente – dice san Dionisio – conosciamo Dio per negazioni che

per affermazioni». «Più altamente sentiamo Dio sapendo che è incomprensibile, e al di sopra di ogni nostra intelligenza, che conoscendolo sotto qualche immagine e bellezza creata, e intendendolo a nostro grossolano modo» (Mistica Theolog., cap. I, § 2).

È perciò che maggiore stima e amore si genera da questo modo confuso, oscuro e negativo, che da qualunque altro sensibile e distinto; perché quello è più proprio di Dio e nudo di creature, e questo, al contrario, quanto più dipende dalle creature, tanto meno tiene di Dio.

Quando già l’anima conosce la verità, sia per l’abitudine che ha acquistata

nei ragionamenti o perché il Signore le ha data particolare luce, e quando ha fissi gli occhi dell’intelletto in codesta verità, guardandola semplicemente, con quietudine, calma e silenzio, senza bisogno di considerazioni, né di discorsi, né d’altre prove per convincersi; e la volontà sta amando, meravigliandosi e godendo di essa; questa si chiama propriamente orazione di fede, di quiete, raccoglimento interiore o contemplazione.

La quale, dicono san Tommaso e tutti i maestri mistici, «è una visione

ingenua, soave e quieta della eterna verità, senza ragionamento, né riflessione».

Ma se si rallegra o guarda gli effetti di Dio nelle creature, e tra quelle, nell’umanità di Cristo, come più perfetta di tutte, questa non è perfetta contemplazione, secondo prova San Tommaso, poiché tutte quelle sono mezzi per conoscere Dio come è in sé; e sebbene l’umanità di Cristo sia il mezzo più santo e più perfetto per giungere fino a Dio, e il supremo strumento della nostra salvezza, e il canale attraverso il quale riceviamo tutto il bene che speriamo, con tutto ciò, l’umanità non è il sommo bene, il quale consiste nel

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vedere Dio. Ora, poiché Gesù Cristo è tale più per la sua divinità che per la sua umanità, così chi pensa e guarda sempre a Dio, – come la divinità è congiunta alla umanità – sempre guarda e pensa a Gesù Cristo; e maggiormente il contemplativo nel quale la fede è più ingenua, pura ed esercitata.

IL RAGGIUNGIMENTO DELLA QUIETE: Sempre che si raggiunge il fine cessano i mezzi e, giungendo in porto, la

navigazione. Così l’anima, se, dopo essersi affaticata nella meditazione, giunge alla quiete, alla calma e al riposo della contemplazione, deve allora ridurre i ragionamenti e riposare quieta con sollecitudine amorosa e ingenua visione di Dio, guardandolo e amandolo, respingendo con soavità tutte le immaginazioni che gli si offrono, acquietando l’intelletto in quella divina presenza, raccogliendo la memoria, fissandola tutta in Dio, appagandosi della conoscenza generale e confusa che di Lui possiede in virtù della fede, applicando tutta la sua volontà nell’amarlo, dove ha fondamento tutto il frutto.

Dice San Dionisio (Mistics Theol.): «In quanto a voi, carissimo Timoteo,

applicandovi seriamente alle mistiche speculazioni, lasciate i sentimenti e le operazioni dell’intelletto, tutti gli oggetti sensibili e intelligibili e universalmente tutte le cose che esistono e quelle che non esistono, e in un modo conosciuto e ineffabile, per quanto all’uomo è possibile, sollevatevi verso la unione con Colui che è al di sopra di tutta la natura e la conoscenza». Fin qui il Santo.

Dunque occorre abbandonare ogni essere creato, tutto ciò che è sensibile,

tutto ciò che è intelligibile, affettivo, e finalmente tutto quel che è e quel che non è, per sommergersi nell’amoroso seno di Dio, perché egli ci restituirà tutto ciò che avremo lasciato, insieme a nuova forza ed efficacia per amarlo più ardentemente; il cui amore ci manterrà in questo santo e felice silenzio, che vale più di tutti gli atti insieme. Dice San Tommaso: «È molto poco quel che l'intelletto può attingere di Dio in questa vita; ma è molto quel che la volontà può amarne».

Quando l'anima giunge a tale stato, deve raccogliersi dentro se stessa, nel

suo puro e profondo foro, dove si trova l'immagine di Dio. Là sono l'attenzione amorosa, il silenzio, l'oblio di tutte le cose, l'applicazione della volontà con perfetta rassegnazione, ascoltando e conversando con Lui così da soli, come se in tutto il mondo non esistessero altri che loro due.

Giustamente dicono i Santi che la meditazione opera con travaglio e con

frutto; la contemplazione senza fatica, con serenità, pace, diletto e molto maggior frutto. La meditazione semina e la contemplazione raccoglie; la meditazione cerca e la contemplazione trova; la meditazione rumina il cibo, la contemplazione lo gusta e se ne nutrisce.

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IL SILENZIO INTERIORE E MISTICO: Tre sono le modalità per il silenzio interiore: la prima è di parole, la

seconda di desideri e la terza di pensieri. Nella prima, di parole, si raggiunge la virtù; nella secondasi consegue la quiete e nella terza l'interiore raccoglimento. Non parlando, non desiderando, non pensando si giunge al vero e perfetto silenzio mistico, nel quale Dio parla all'anima, si comunica e le indica nel suo più intimo fondo la più perfetta e alta sapienza.

A questa interiore solitudine e silenzio mistico chiama e conduce l'anima

quando le dice che le vuole parlare da sola, nel più segreto e intimo del cuore. In questo silenzio mistico devi entrare se vuoi udire la soave, interiore e divina voce. Non ti basta fuggire dal mondo per raggiungere questo tesoro, né rinunciare ai suoi desideri, né distaccarti da tutto il creato, se non ti distacchi da ogni desiderio e pensiero. Riposa in questo mistico silenzio e aprirai la porta perché Dio ti si comunichi, ti unisca a sé e ti trasformi.

La perfezione dell'anima non consiste nel parlare, né nel pensare molto a

Dio, ma nell'amarlo molto. Si raggiunge questo amore per mezzo della rassegnazione perfetta e del silenzio interiore. Tutto è opera; l'amore di Dio ha poche parole.

L'UOMO ESTERIORE E L'UOMO INTERIORE: Vi sono due tipi di persone spirituali: le une interiori, esteriori le altre. Queste cercano Dio da fuori, per mezzo del discorso, immaginazione e

considerazione; procurano con grande sforzo, per raggiungere le virtù, molte astinenze, macerazione del corpo e mortificazione dei sensi; si abbandonano alla rigorosa penitenza, si vestono di cilici, castigano la carne con discipline, procurano il silenzio e portano la presenza di Dio, formandoselo presente nella loro idea o immaginazione, ora come pastore, ora come medico, ora come amoroso padre e signore; si deliziano a parlare continuamente di Dio, facendo molto spesso ferventi atti di amore, e tutto ciò è arte e meditazione.

Per questa via desiderano d'essere grandi a forza di volontarie ed esteriori

mortificazioni; vanno in cerca dei sensibili affetti e fervorosi sentimenti, sembrando loro che solo quando li posseggono risiede Dio in essi.

Questo è cammino esteriore e da principianti, e quantunque sia buono, non

si arriverà mai per esso alla perfezione, né vi si darà un passo, come dimostra l'esperienza in molti, che dopo cinquant'anni di questo esteriore esercizio si trovano vuoti di Dio e pieni di se stessi e di spirituali hanno soltanto il nome.

Vi sono altri veri spirituali che sono passati per i principi dell'interiore

cammino che quello che conduce alla perfezione ed unione con Dio, al quale li chiamò il Signore per la sua infinita misericordia da quel cammino esteriore nel quale si esercitarono dapprima. Costoro, raccolti nell'interno delle proprie anime con vero abbandono nelle mani divine, con oblio e totale nudità anche di

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se stessi, vanno sempre con spirito sollevato alla presenza del Signore, per fede pura e senza immagine, forma, né figura, ma con grande sicurezza fondata sulla tranquillità interiore e sulla quiete, nel cui infuso raccoglimento attira lo spirito con tanta forza da far rifugiare là dentro l'anima, il cuore, il corpo e tutte le corporali forze.

Da: http://www.mistica.info/prima.htm

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- Verso l'uomo integrale di Pier Angelo Piai

La paura del silenzio.

Oggi qualsiasi evento è oggetto di discussione, dibattito, polemiche,

confronto. Pare proprio che il silenzio non venga preso molto in considerazione. Ma cosa significa realmente fare silenzio? La mentalità comune pensa che silenzio sia semplicemente la mancanza di

parola. Ma ogni parola espressa è il nostro pensiero mediato dalla voce. Essa è estremamente importante per la nostra società ma ha anche dei

limiti: non arriverà mai ad esprimere perfettamente ciò che vorremmo perché ogni fonema, per quanto sia molto utile, è sempre una cristallizzazione del nostro retaggio culturale.

Ecco perché il vero silenzio interiore può contribuire a farci percepire meglio la ricchezza e la povertà di ogni parola.

Nel comunicare usiamo molti luoghi comuni che riecheggiano dall’ambiente esterno, dalle persone che frequentiamo e dai mass-media. Essi non sono in realtà il frutto del nostro pensiero più genuino, ma riflessi condizionati che si ripercuotono nei muscoli della lingua.

Siamo costantemente immersi nei luoghi comuni e per chi se ne accorge la frequentazione sociale è spesso pesante e monotona proprio per questo.

Bisogna considerare, allora, un altro tipo di silenzio che è molto più interiore di quello che si pensa.

Se nel silenzio siamo realmente attenti a come funziona la nostra mente ci accorgiamo di non saper osservare senza associare all’oggetto della nostra osservazione parole già pre-confezionate. Questo snatura la nostra coscienza originale perché ci serviamo di concetti già filtrati dalla mentalità comune e quindi la nostra riflessione non è realmente creativa e perde la sua originalità.

E’ nel silenzio che noi riusciamo a trascendere ogni forma di linguaggio stereotipato. In esso entriamo nella dimensione del meta-linguaggio, il quale ci aiuta a padroneggiare meglio la situazione per non scadere nei luoghi comuni e lasciarci condizionare dalla mentalità corrente.

Ciò naturalmente richiede grande attenzione e spirito di osservazione. Il vero silenzio interiore, quindi, consiste nel porre tra parentesi concetti,

immagini, e persino fonemi acquisiti sin dall’infanzia. Ci vuole sagacia, avvedutezza e coraggio perché la nostra mente è avida di contenuti e teme il vuoto.

Anticamente andare nel deserto significava rientrare in se stessi per fronteggiare meglio le situazioni sociali. I monasteri di clausura usano ancora l’espressione “fare deserto”.

La mentalità comune naviga perfettamente al contrario e teme il silenzio. Si aderisce a ideologie, partiti, istituzioni ecc. anche perché si vuole delegare il pensiero ad altri. Scaltri oratori parlano molto per dire nulla in molti campi.

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L’umanità oggi è ancora in pericolo perché non sa cosa significhi fare il vero silenzio interiore, il quale è il motore del vero progresso civile ed etico.

In esso si eviterebbero guerre e conflitti vari, ingiustizie sociali ed economiche, plagi e mistificazioni, errori madornali.

E qui calza a proposito un aforisma del grande poeta e scrittore francese Alfred de Vigny:

“Solo il silenzio è grande; il resto è debolezza”. Pier Angelo Piai Cividale del Friuli (UD) - luglio 2006

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San Romualdo: l’«esicasta d’occidente»

Centro Studi Avellaniti: San Romualdo: Storia, agiografia e spiritualità La «solitudine aurea» e l'hesychia nella tradizione dei Padri del deserto Nella sua attività di riforma monastica, Romualdo riformò e fondò sia eremi

che monasteri; ma è innegabile che le sue preferenze furono rivolte agli eremi. Tuttavia, egli non fu l'innovatore dell'ideale eremitico, giacché da secoli tale vita era praticata in misura notevole anche in Occidente.

La sua specifica funzione fu quella di dare una regola ai vari eremiti isolati, i quali, vivendo senza controllo, quasi sempre finivano per giungere a degli eccessi nelle loro forme di ascesi. Perciò Romualdo venne chiamato «il padre degli eremiti razionali che vivono secondo una regola».

La regola che egli proponeva ai suoi discepoli era prima di tutto la Regola di

S. Benedetto. Ma, per fortuna, Bruno ci ha anche lasciato una «piccola regola» che Giovanni ha ricevuto dal maestro Romualdo come guida della sua vita. Trovo una condensazione dell'ideale della solitudine aurea», ossia il secondo bene del carisma romualdino, in tale «piccola regola»:

Siedi nella tua cella come nel paradiso. Scordati del mondo e gettatelo dietro le spalle. Fa' attenzione ai tuoi pensieri come un buon pescatore ai pesci. L'unica via per te si trova nei Salmi, non lasciarla mai. Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare

come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente.

Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l'intelligenza.

Anzitutto mettiti alla presenza di Dio come un uomo che sta davanti all’imperatore.

Svuotati di te stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; se come una madre Dio non te la donerà, non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare.

La «piccola regola» di Romualdo è da studiare insieme al capitolo della

Vita del Beato Romualdo, dove S. Pier Damiano racconta l'episodio nel quale Romualdo ricevette il dono delle lacrime, della scienza spirituale, e della preghiera mistica. La “piccola regola” e il capitolo 31 della sua vita, io credo, situano saldamente Romualdo e i suoi discepoli nell’antica tradizione della “spiritualità esicasta”.

Il termine «esicasmo» è da comprendere nel senso primitivo, che trova la

sua origine presso i Padri del deserto ed è giunto al vertice nella spiritualità del monte Sinai, specialmente negli scritti di Giovanni Climaco e di Esichio Sinaitico.

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È mia intenzione commentare la «piccola regola» e il capitolo 31, collocandoli nel contesto della spiritualità del deserto, specialmente attraverso gli scritti di Giovanni Climaco e di Cassiano.

Mentre sappiamo che Romualdo leggeva il libro delle Vite dei Padri e seguiva gli insegnamenti delle loro Conferenze trasmesse da Cassiano, non voglio affermare che Romualdo avesse letto gli scritti di Giovanni Climaco.

Tuttavia, essendo La Scala del paradiso di Giovanni Climaco un manuale di noviziato per i monaci orientali, è molto probabile che Romualdo avesse conosciuto indirettamente gli insegnamenti del maestro sinaitico grazie a contatti con monaci della tradizione greca.

Il termine greco hesychia significa lo stato di silenzio, di quiete, e di

tranquillità, che è il risultato della cessazione del disturbo e dell'agitazione, esterni e interni. L'espressione «purità di cuore» di Cassiano contiene l'aspetto di «tranquillità dell'anima» (tranquillitas mentis), e, perciò, l'idea di hesychia. Inoltre, il termine indica anche solitudine e ritiro. In quanto valore essenziale della vita monastica, l'hesychia è cercata sia dagli anacoreti che dai monaci cenobitici. Tuttavia, nelle fonti più antiche, il termine «esicasta» normalmente significa un monaco che vive nella solitudine, ossia un eremita, diversamente da un monaco cenobita, come osserva Kallistos Ware, uno studioso monaco ortodosso.

La frase iniziale della «piccola regola» di Romualdo, «siedi nella tua cella»,

è un'indicazione fondamentale per gli esicasti che abitano nelle celle. Così il padre Mosè disse ad un fratello che si recò a Scete per chiedergli una parola: «Va', rimani nella tua cella, e la tua cella ti insegnerà ogni cosa». Il padre Rufo diede la seguente spiegazione del senso dell’hesychia: «L’hesychia è il rimanere in cella con timore e conoscenza di Dio, tenendosi lontano dal ricordo delle offese e dalla superbia».

Il legame stretto fra l’hesychia e la cella si trova anche in un detto famoso di Antonio il Grande:

Come i pesci muoiono se restano all’asciutto, così i monaci che si attardano

fuori della cella o si trattengono fra i mondani, snervano il vigore dell'unione con Dio. Come dunque il pesce al mare, così noi dobbiamo correre alla cella; perché non accada che, attardandoci fuori, dimentichiamo di custodire il di dentro.

L'idea della cella come paradiso può ritrovarsi in Girolamo, che disse al monaco Rustico: «Fin quando rimani nel tuo paese, prendi la tua cella come paradiso». Nella tradizione del deserto, la cella è considerata luogo di riposo, casa di preghiera, e abitazione di Dio.

Prosegue la «piccola regola»: «Scordati del mondo e gettatelo dietro le

spalle». La spiritualità esicasta distingue tra hesychia esteriore e interiore. Mentre l'hesychia esteriore si riferisce a un luogo remoto e quieto, in particolare la cella di un eremita, l'hesychia interiore indica la calma interiore di un esicasta. L'hesychia esteriore serve come condizione favorevole per

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coltivare il silenzio interiore che è l’obiettivo cercato. Perciò non basta rimanere nella propria cella; occorre coltivare la cella del cuore. A questo riguardo, Giovanni Climaco esorta gli esicasti a chiudere tre porte una dopo l'altra: «Chiudi fisicamente la porta della cella per il tuo corpo, ferma la porta alla lingua perché non parli, sbarra la porta dal di dentro contro gli spiriti».

L'hesychia interiore può essere disturbata dall'attaccamento agli uomini o

alle cose di questo mondo, o dalle preoccupazioni per gli affari terreni. Nella tradizione del deserto, l'amerimnia, che significa libertà dalle preoccupazioni, è intimamente connessa all'hesychia interiore.

Sulla scia di tale tradizione Giovanni Climaco dichiara: «E’ proprio dell'hesychia il dono dell'amerimnia che guida tutte le nostre azioni in qualunque affare spirituale o materiale: poiché la preoccupazione per il primo conduce a quella per il secondo».

L'ingiunzione categorica della «piccola regola» a dimenticare il mondo appartiene chiaramente a tale tradizione. Il motivo è che, mentre sta nella cella fisicamente, il monaco deve evitare di vagare per il mondo con la mente. Questo è anche il significato della descrizione classica che Giovanni Climaco fa di un esicasta:

«L'esicasta è colui che lotta per circoscrivere dentro il corporeo l'incorporeo, cosa veramente straordinaria»,

ossia l'esicasta è colui che conserva lo spirito dentro il proprio corpo. La «piccola regola» continua: «Fà attenzione ai tuoi pensieri come un buon

pescatore ai pesci». Per raggiungere e mantenere 1'hesychia e l'amerimnia, altri due termini sono usati dalla tradizione del deserto: nepsis (la vigilanza) e prosoche (l'attenzione).

Secondo Giovanni Climaco, l'hesychia e la vigilanza si trovano sempre insieme: «Ama l'hesychia il pensiero vigoroso e conciso, sempre vigile alla porta del cuore per eliminare o respingere quelli che dall'esterno vorrebbero in esso irrompere».

E’ interessante notare che, prima di Romualdo, Giovanni Climaco aveva già usato l'immagine del pescatore a proposito della vigilanza:

«Il monaco che veglia è come un buon pescatore che ripesca i pensieri della mente perché nella tranquillità della notte li può più facilmente recuperare».

L'oggetto della vigilanza, per Romualdo come per Giovanni Climaco, sono i «pensieri» (logismoi), che sono le passioni viziose. A questo riguardo, Giovanni Climaco dimostra una dipendenza creativa dalla trattazione classica di Evagrio riguardo agli Otto «pensieri».

L'hesychia non è un fine in sé, bensì è coltivata come un mezzo per

ottenere un obiettivo nobile: la contemplazione o la preghiera incessante. Nella tradizione monastica, la preghiera e la contemplazione nascono come risposta alla parola di Dio.

Perciò, dopo l'esortazione a vigilare sui pensieri, la «piccola regola» spiega qual'è il lavoro principale del monaco quando dimora nella propria cella: «L'unica via per te si trova nei Salmi - non lasciarla mai». L'unica via indicata

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dalla «piccola regola» è nei Salmi. Poiché i Padri, Atanasio e Cassiano in particolare, vedono i Salmi come la condensazione di tutta la Bibbia, la via dei Salmi si riferisce alla Bibbia tutta intera, e, in modo particolare, al Salterio come compendio della Bibbia.

La «piccola regola» continua a dare istruzioni sulla via dei Salmi: Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare

come vorresti, cerca, ora qua ora là, di cantare i Salmi nel cuore e di capirli con la mente. Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l'intelligenza.

Qui la “piccola regola” ci presenta una visione integrale di come leggere e

pregare i Salmi. Lectio, meditatio, oratio sono i diversi momenti di un'unica continua attività spirituale nella quale uno può passare liberamente da un momento all’altro senza seguire un ordine fisso.

Anche se la parola non si trova, l'idea di «meditazione» (melete), nel senso antico di recitare un testo ripetutamente per capirne meglio il significato e per memorizzarlo, è sicuramente contenuta in questo brano.

Esiste un intimo legame fra l'hesychia, o il silenzio interiore, e l'assidua

meditazione della parola di Dio. Secondo la «piccola regola», per poter seguire la via dei Salmi il monaco deve dimenticare il mondo e vigilare costantemente sui propri pensieri, cioè coltivare il silenzio interiore.

A loro volta, la lettura e la meditazione assidua della Parola di Dio servono come strumenti che aiutano a mantenere ferma l'attenzione di una mente vagante: «Quando ti viene qualche distrazione, non smettere di leggere; torna in fretta al testo e applica di nuovo l'intelligenza.»

Quindi il silenzio interiore e l'assidua meditazione della Parola di Dio sono due elementi essenziali della spiritualità della cella, reciprocamente indispensabili.

Un simile approccio già si trova in Cassiano, secondo il quale è impossibile

dedicarsi alla lettura spirituale senza conservare il silenzio interiore o la purezza di cuore:

Pertanto, se volete innalzare nel vostro cuore il tabernacolo santo della scienza spirituale, purificatevi dalla bruttura di tutti i vizi, spogliatevi di tutte le preoccupazioni di questo mondo.

E’ impossibile che un'anima, anche moderatamente occupata nelle faccende del mondo, meriti il dono della scienza, o sia feconda nell'intelligenza spirituale, o ritenga fermamente le sante letture che ha fatto.

D’altra parte, secondo Cassiano, la lettura e la meditazione sono i mezzi più efficaci per custodire la mente dai pensieri dannosi, nutrendo le sante memorie e i pii sentimenti.

La necessità di coniugare i due aspetti, silenzio e meditazione, è stata splendidamente formulata nelle Eremiticae Regulae del Beato Rodolfo, quarto Priore del sacro Eremo di Camaldoli:

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Seguono per ultimo il silenzio e la meditazione. Queste due cose, la regola

del tacere e la vigile occupazione dei meditare, sono così unite indissolubilmente che nessuna senza l'altra è valevole a salute; poichè il silenzio senza la meditazione è morte e quasi tomba di un sepolto vivo; la meditazione senza il silenzio non viene a capo di nulla ed è come lo smaniare di un infelice chiuso in un sepolcro. Uniti in spirituale connubio, sono gran quiete dell'anima e culmine di contemplazione.

Se seguiamo la suddivisione delle due tappe della vita spirituale: praktike e theorìa, ossia ascesi e contemplazione, la via dei Salmi si trova in tutte e due le tappe, in quanto la lettura e la meditazione assidua conducono all’hesychia e aprono la porta alla contemplazione. Per questa ragione Cassiano colloca la lettura e la meditazione fra le pratiche ascetiche che conducono alla purezza di cuore. Allo stesso tempo la lettura e la meditazione portano Il frutto della «scienza spirituale». ossia la contemplazione:

Poi, dopo aver allontanato da voi stessi tutte le preoccupazioni e le ansietà terrestri, sforzatevi con tutte le forze di applicarvi assiduamente, anzi continuamente, alla lettura sacra, cosicché questa meditazione continua pervada la vostra anima e la formi, poi così dire, a sua immagine... La lettura allora farà dell'anima vostra una nuova arca dell'alleanza, che conserva in sè le due tavole di pietra, vale a dire l'eterna fermezza dell'uno e dell'altro Testamento. Farà di voi una nuova urna d'oro, simbolo d'una memoria pura e sincera, che conserva per sempre il tesoro nascosto dalla manna, vale a dire l'eterna e celeste dolcezza del senso spirituale e del pane degli angeli.

Cassiano insiste sull'intima connessione fra ascesi, meditazione e scienza

spirituale, ossia contemplazione. Questi elementi sono così inseparabili tra loro che il monaco li deve coltivare lungo l’intero cammino spirituale.

La «piccola regola» di Romualdo contiene una breve sintesi di questi

elementi. La via dei Salmi presuppone l'ascesi attraverso la vigilanza sui pensieri e allo stesso tempo prepara la strada alla contemplazione.

Poiché la «piccola regola» è scritta per i principianti nel cammino monastico, parla poco della contemplazione, ma giustamente esorta i discepoli ad aspettare pazientemente la grazia di Dio. Per avere un'idea della grazia promessa nella «piccola regola», bisognerebbe rivolgersi alla Vita del Beato Romualdo.

Nel capitolo 31, S. Pier Damiano racconta l'episodio nel quale Romualdo ricevette per la prima volta il dono delle lacrime della compunzione. Qui la compunctio va oltre il significato usuale di dolore penitenziale ed indica ogni esperienza estatica di gioia e di esultanza che si ha durante la preghiera. Insieme al dono delle lacrime fu concesso a Romualdo un altro dono importante, cioè la conoscenza spirituale, o la comprensione del senso nascosto delle Sacre Scritture. Così scrive Pier Damiano:

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Un giorno, mentre stava in cella a salmodiare, si imbatté in questo versetto: 'Ti farò saggio, t'indicherò la via da seguire; con gli occhi su dite, ti darò consiglio (Sal 31, 8).

Gli sopraggiunse improvvisamente una così larga effusione di lacrime, e la sua mente fu talmente illuminata nella comprensione delle Scritture divine, che da quel giorno in poi, finché visse, ogni volta che lo voleva, poteva versare con facilità lacrime abbondanti e il senso spirituale delle Scritture non gli era più nascosto.

Secondo l'agiografo, in questa occasione Dio innalzò Romualdo al culmine

della perfezione, tanto che, sotto l'ispirazione dello Spirito santo, Romualdo poté prevedere alcuni eventi futuri e penetrare con intelligenza molti misteri nascosti delle Scritture.

Nello stesso capitolo leggiamo che tale esperienza mistica non restò un caso isolato nella vita di Romualdo, ma ebbe un effetto permanente su di lui. Da quel momento in poi le lacrime quasi sempre accompagnavano la sua preghiera estatica:

Sovente, rimaneva così rapito nella contemplazione di Dio che si scioglieva

quasi interamente in lacrime e bruciando di fervore indicibile per l'amore divino, usciva in esclamazioni come queste: 'Caro Gesù, caro! Mio dolce miele, desiderio inesprimibile, dol-cezza dei santi, soavità degli angeli!' Parole che, sotto il dettato dello Spirito santo, gli si tramutavano in canti di giubilo e che noi non sapremmo rendere compiutamente mediante concetti umani. Era come dice l'Apostolo: 'Noi non sappiamo neppure come dobbiamo pregare, ma lo Spirito stesso intercede per noi con gemiti inesprimibili (Rm 8, 26).

Le descrizioni di lacrime, di fervore ardente, e di giubilo che accompagnavano le preghiere estatiche di Romualdo ricordano la oratio ignita spesso menzionata da Cassiano. Nelle preghiere estatiche di Romualdo, che andavano oltre le immagini e le parole per sfociare in gemiti inesprimibili, si trova quasi un'eco dell' «orazione infuocata» descritta da Cassiano:

La preghiera di cui stiamo parlando non si fissa su qualche immagine, anzi

non s'esprime neppure attraverso parole: nasce di balzo, da una mente infuocata, da un rapimento indicibile, da una insaziabile alacrità di spirito. L'anima, trasportata fuori dei sensi e delle cose visibili, si offre a Dio tra sospiri e gemiti inenarrabili.

Cassiano adopera varie espressioni per descrivere la preghiera estatica: essa è infuocata, ardente, pura, ineffabile, esprimibile solo attraverso i gemiti e non con le parole... ecc.

Anche le lacrime sono segno della preghiera estatica. Mentre sia Evagrio

che Cassiano parlano dell' «orazione pura» che va oltre le immagini e le parole, è la presenza delle lacrime, del fuoco, e dei gemiti che distingue la descrizione di Cassiano da quella di Evagrio. Come Diadoco di Foticea, secondo Columba Stewart, Cassiano ha effettuato una sintesi fra l'approccio intellettuale di

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Evagrio e il misticismo affettuoso dello Pseudo-Macario nella sua presentazione dell’orazione pura.

In modo simile, le lacrime di compunzione costituiscono un tema

importante per Giovanni Climaco, anche se questi accentua di più la compunzione intesa come dolore e pentimento.

Nel capitolo sulla preghiera, Climaco raccomanda la semplicità della “preghiera con una sola espressione” (preghiera monologistos) per evitare le distrazioni.

Inoltre, insegna che, quando uno è arrivato a possedere la presenza del Signore nel suo cuore, non deve più preoccuparsi di intessere la sua orazione con parole, perché allora lo Spirito intercederà per lui e in lui con gemiti inenarrabili.

Ugualmente Giovanni Climaco esorta a tener lontana dalla mente ogni immagine sensibile che potrebbe turbare il nostro raccoglimento.

In modo particolare dà grande importanza alla presenza del fuoco dello Spirito che «inabitante nel cuore del monaco orante, innalzando l'anima nella preghiera, ne sollecita lo slancio fino al cielo, rinnovando la sua discesa nel cenacolo dell’anima».

In tutti questi aspetti si percepisce una chiara consonanza con le esperienze delle preghiere estatiche di Romualdo così come sono presentate nel capitolo 31 della sua Vita.

E’ molto significativo che Romualdo abbia ottenuto il dono delle lacrime, la

scienza spirituale e l'esperienza della preghiera estatica, mentre stava recitando un Salmo.

È quasi una conferma alla validità della «via dei Salmi» indicata dalla «piccola regola» come l’unica via da seguire. Se ci volgiamo alla «piccola regola» e leggiamo le parole: «Se da poco sei venuto, e malgrado il tuo primo fervore non riesci a pregare come vorresti...», dobbiamo ricordare il capitolo più bello della Vita di S. Romualdo e possiamo consolarci con la convinzione che la grazia promessa dalla «piccola regola» sarà concessa a coloro che perseverano sulla via dei Salmi.

Continuiamo la nostra riflessione sulla «piccola regola»: «Anzitutto mettiti

alla presenza di Dio come un uomo che sta davanti all'imperatore». L'esortazione ad avere la consapevolezza della presenza di Dio è presente nella Regola di S. Benedetto.

Il primo gradino dell'umiltà si basa sulla consapevolezza di essere sempre e ovunque sotto lo sguardo di Dio (RB 7, 10-30). Inoltre, la memoria della presenza di Dio deve ispirare il nostro comportamento soprattutto durante la preghiera comunitaria (RB 19, I 2.).

La vigilanza (nepsis) e l'attenzione (prosoche) sono due aspetti

indispensabili per l’hesychia: la vigilanza ci libera dall’agitazione dei pensieri perché possiamo conservare l’attenzione continua alla presenza di Dio. Nel capitolo sulla vigilanza Giovanni Climaco parla di stare costantemente in

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preghiera davanti a Dio nostro Re. Nel capitolo sull'hesychia si trova il famoso testo che invita ad unire il ricordo continuo di Gesù al proprio respiro:

L’esichia consiste nello stare in continua adorazione del Signore, sempre

alla sua presenza, con il ricordo di Gesù aderente al proprio respiro, allora potrai toccare con mano i vantaggi dell’hesychia.

Finalmente, giungiamo all'ultimo paragrafo della «piccola regola»:

«Svuotati di te stesso e siedi come una piccola creatura, contenta della grazia di Dio; se come una madre Dio non te la donerà, non gusterai nulla, non avrai nulla da mangiare».

Per potersi sedere pazientemente in attesa della visita della grazia di Dio,

senza agire di propria iniziativa, è necessario svuotarsi completamente. L'intero paragrafo ci ricorda il Salmo 131 che, con soli tre versetti, è uno dei più bei salmi di fiducia nel Signore. L'immagine di un pulcino in attesa di essere nutrito dalla mamma richiama il bimbo in braccio a sua madre del secondo versetto del Salmo: «Io sono tranquillo e sereno come bimbo svezzato in braccio a sua madre, come un bimbo svezzato è l'anima mia».

L'ingiunzione a svuotarsi completamente, invece, corrisponde al primo

versetto del Salmo: «Signore, non si inorgoglisce il mio cuore e non si leva con superbia il mio sguardo; non vado in cerca di cose grandi, superiori alle mie forze».

Tutti e due i versetti sono citati nel capitolo sull'umiltà della Regola di S.

Benedetto, come introduzione ai vari gradini dell'umiltà (RB 7, 3-4).

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SAT NAM RASAYAN L’arte della guarigione

Sat Nam Rasayan Imparare ad avere relazioni felici, ad incontrare le persone senza pregiudizi

e ad essere presente a te stesso ed al tuo ambiente. Questo è possibile attraverso il Sat Nam Rasayan, una tecnica di

meditazione centenaria, tecnica curativa del Kundalini Yoga. Tradizionalmente questa arte è stata insegnata per curare gli altri. Aiuta a

rilasciare le tendenze e le limitazioni nel corpo, nella mente e nelle emozioni – le quali sono le cause più frequenti delle malattie. Il potere auto-curativo del corpo si attiva, e siamo quindi in grado di incontrare la vita in modo più chiaro e bilanciato. Il Sat Nam Rasayan è libero da dogmi, religioni e sistemi di credenze.

E’ in grado di aiutare non solo i praticanti di yoga e i terapisti, ma ogni persona interessata, ad affinare i sensi e ad imparare la meditazione ed una tecnica meditativa di guarigione.

Meditazione La meditazione porta due cose: la saggezza e la libertà. Questi due fiori nascono dalla meditazione. Quando diventi silenzioso,

totalmente silenzioso, al di là della mente, due fiori sbocciano in te. Uno è la saggezza: tu sai cos’è e cosa non è. L’altro è la libertà: tu sai adesso che non esistono più limiti in te, né di

tempo né di spazio. Tu sei liberato. Il Sat Nam Rasayan e i suoi effetti. Ogni essere umano possiede la vitalità, che è necessaria per condurre una

vita sana e felice. La vitalità ha origine quando il corpo, la mente e l’anima lavorano bene insieme. Noi sentiamo questa energia quando ci sentiamo vivi, abbiamo fiducia nella nostra capacità di essere maestri della nostra esistenza e di raggiungere i nostri obiettivi e siamo connessi con la nostra consapevolezza.

La maggior parte di noi perde occasionalmente questa qualità di vita. Il tempo in cui viviamo è pieno di caos e di stress, e questo ci rende difficile

rimanere equilibrati. Il Sat Nam Rasayan e il Kundalini Yoga offrono degli strumenti potenti. Il KY è una pratica attiva che stabilizza la nostra energia vitale. Il SNR è passivamente benefico sia per i pazienti che per i guaritori.

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IL Sat Nam Rasayan ti insegna a: • Guarire gli altri con strumenti efficaci • Integrare il silenzio e la calma nella tua vita • Rilasciare comportamenti poco sani • Sperimentare ogni momento con chiarezza mentale e presenza • Trovare un facile accesso all’arte eccelsa della meditazione • Gestire le tue sensazioni, pensieri ed emozioni, senza attaccamento ad

essi • Sviluppare e stabilire il silenzio interiore nella tua mente • Affinare la tua intuizione “Quando diventi calmo ed immobile, l’Universo comincia a muoversi al tuo

posto” Guru Dev Singh

La Tradizione Per migliaia di anni il Sat Nam Rasayan è stato una tradizione yogica

segreta. Era insegnato in silenzio da un maestro al suo discepolo, e solo pochi

studenti molto avanzati avevano questo privilegio. Il processo di training durava parecchi anni, fino a quando lo studente era

in grado di riconoscere e mantenere uno stato di silenzio e di neutralità.I praticanti di questa arte erano ammirati come guaritori eccezionali e gli insegnamenti erano riconosciuti come i più alti gradini della conoscenza logica.

Guru Dev Singh Ph.D. è il maestro vivente di questa tradizione. Yogi Bhajan, il Maestro di Kundalini Yoga ( ben noto attraverso il suo famoso Yogi Tea) ha donato a Guru Dev Singh un training tradizionale di Sat Nam Rasayan.

Guru Dev Singh è venuto in Eropa nel 1989 ed ha cominciato ad insegnare il SNR apertamente, assecondando i desideri del suo maestro.

L’Università di Colombo ha riconosciuto a Guru Dev Singh una laurea ad honoris per i suoi risultati nel campo della medicina complementare.

Yogi Bhajan era convinto che, in tempi di grandi cambiamenti, il mondo avesse bisogno di un forte gruppo di guaritori.

Lui desiderava fare in modo che le antiche conoscenze logiche fossero accessibili a tutti gli esseri umani.

Consapevolezza e presenza nel Lavoro Terapeutico. L’arte di guarigione meditativa del Sat Nam rasayan insegna al terapista

come sperimentare la relazione con i suoi pazienti in uno stato di profonda presenza.

In questa consapevolezza meditativa il praticante scopre un’area della sua consapevolezza che permette la cura e l’attenzione per l’altro.

Come terapisti sperimentiamo ogni volta di più che entrare in relazione con i pazienti causa in noi una reazione. Il Sat Nam Rasayan utilizza queste impressioni sensorie come una fonte di informazioni. Il focus non è sulla conoscenza ma sullo sviluppare una connessione ed una percezione meditative in relazione con il paziente.

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Tu impari: • Ad essere presente durante i trattamenti con tutti i tuoi sensi • Ad usare le tue sensazioni come fonti di percezione ed anche scoprire le

sensazioni come risorse della terapia • Un semplice accesso alla meditazione • A risolvere i blocchi del paziente, semplicemente attraverso la tua

attenzione • Una cammino che porta dalla conoscenza alla pura esperienza • Ad applicare il tuo proprio metodo terapeutico in un profondo spazio

curativo “Quando cresci nel Sat Nam Rasayan ogni esperienza nella tua vita

apparirà come una possibilità infinita. Questa è la caratteristica della mente neutrale” Guru Dev Singh Insegnamento. In tempi recenti Guru Dev Singh ha abilitato un gruppo di insegnanti a

livello mondiale. Questo gruppo lo sostiene nel diffondere gli insegnamenti.L’educazione di

un guaritore di Sat Nam Rasayan consiste in tre anni ed è suddivisa nel livello 1 (un anno) e nel livello 2 (due anni).

Ogni livello può essere completato con un esame ed un certificato. Nel livello 1 impari a rimanere stabile nello spazio del Sat Nam rasayan e a

risolvere semplici tensioni nel paziente. Il livello 2 offre ai partecipanti molte opportunità per uno sviluppo

personale, professionale e spirituale. Molti strumenti per condurre dei profondi trattamenti curativi si

apprendono in questo livello.Per imparare il Sat Nam Rasayan non sono richieste abilità particolari né precedenti esperienze. La bellezza di questo sistema è quella di essere aperto a tutti.

Guarire dal punto di vista del Sat Nam Rasayan.Nel Sat Nam Rasayan lo stato di malattia è descritto come “una tendenza del corpo a reagire”. La reazione può essere un dolore, un problema di tipo emozionale o una malattia più seria.

Nel corso del percorso di apprendimento, il guaritore di Sat Nam Rasayan sviluppa l’abilità di trovare e dissolvere questi blocchi, in modo da far sì che i poteri di auto-guarigione del corpo possano di nuovo diventare efficaci.

“Semplicemente siediti nella calma assoluta e medita sull’amore assoluto,

poi vivi per condividere” Yogi Bhajan “Nell’immobilità risiede il suono, che è l’esistenza creativa di Dio. Chiunque

diventi maestro di questa e del silenzio, e possa leggerli, ottiene tutta la conoscenza che esiste” Yogi Bhajan

Per gli insegnanti di Yoga Come insegnante di yoga hai il desiderio profondo di sostenere la crescita

degli studenti nel modo migliore possibile. Ma come si possono scegliere gli esercizi più adatti per questo preciso momento?

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E come è possibile sostenere la crescita degli studenti solo attraverso la tua presenza? Nel Sat Nam Rasayan trattiamo il gruppo come se fosse una sola persona.

Con il SNR impari a muovere la tua consapevolezza per trovare e risolvere i blocchi del gruppo ed utilizzare esercizi di yoga mirati allo scopo. Utilizziamo le stesse regole di un lavoro terapeutico.

“Prima di tutto ama te stesso e poi lascia che le persone si crogiolino nella tua radianza e splendore” Yogi Bhajan

Shuniya: il Silenzio In tutte le tradizioni yogiche e di meditazione il silenzio interiore è

rispettato come il raggiungimento più elevato. Nella nostra vita quotidiana questo sembra molto difficile e appare raggiungibile solo da Yogi molto elevati.

Il Sat Nam Rasayan insegna un approccio sorprendentemente semplice al silenzio interiore. Ti aiuta a rimanere in silenzio nella fretta e nello stress della vita quotidiana. E’ fantastico vedere come i tuoi conflitti si risolvono attraverso questo stato interiore.

Nel Sat Nam Rasayan noi semplifichiamo l’idea della consapevolezza.

Possiamo comprendere e conoscere l’universo solo attraverso la nostra esperienza, per questo chiamiamo la capacità di essere svegli “ consapevolezza”. Più tipologie di esperienza riconosciamo, più grande sarà il nostro grado di consapevolezza” Guru Dev Singh

Un piccolo pensiero fra le righe: sei maestro delle tue sensazioni, o le tue sensazioni sono le tue maestre?

Le sensazioni dolorose spesso occupano un’area così grande nella nostra vita che difficilmente rimane spazio libero per altre esperienze.

Se non impariamo a trasformare le emozioni, atterriamo in un vicolo cieco di dolore, sofferenza, paura o rabbia.

Ma come possiamo uscire da questo vicolo cieco? Dal punto di vista dello Yoga l’esperienza di Shuniya, il silenzio interiore, è

un prerequisito fondamentale per questo. Questa esperienza da sola permette al praticante di osservare con

chiarezza le onde delle sensazioni, delle percezioni e dei pensieri, e di riconoscere il momento in cui sei trascinato nel dramma.Se riconosci questo momento, hai poi la scelta di lasciarti attraversare dalle tue emozioni senza rimanervi attaccato.

“Ci sono due modi per vivere nel mondo: la via della preoccupazione e la

via del rilassamento. Se ti preoccupi devi concentrarti ad immaginare, e questo diventa un

lavoro fisico. Ma se rivolgi la tua mente verso la Mente Universale, allora poi le cose

verranno a te” Yogi Bhajan

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Vito Mancuso Il silenzio interiore e l’esperienza dello spirito

L’importanza del tema Attribuisco un’importanza decisiva al tema del silenzio. Esso è legato alla

vita interiore, alla dimensione contemplativa della vita, e se ha un senso la religione è esattamente quello di educare alla vita interiore: “Una sola è la cosa di cui c’è bisogno” (Luca 10, 42).

La via privilegiata per giungere alla vita interiore è il silenzio, come mostrano unanimi tutte le scuole spirituali, induismo (yoga come disciplina del silenzio), buddhismo, sapienza greca (Pitagora imponeva 5 anni di silenzio a chi voleva essere accolto come suo discepolo), il deserto nella tradizione cristiana.

Quindi parlando del silenzio, non parliamo di qualcosa di secondario, ma di

essenziale. La grande concorrenza che si è sviluppata tra le religioni e le spiritualità,

che è appena agli inizi e che prenderà dimensioni sempre più ampie in questo mondo sempre più piccolo villaggio dal punto di vista delle idee, si gioca per la gran parte su questo, sulla capacità di nutrire le anime.La tesi

La mia tesi consiste nel sostenere che fare silenzio è la condizione necessaria per accedere all’esperienza dello spirito, la quale è lo scopo essenziale della religione.

Dico subito che qui si colloca la divisione fondamentale tra le religioni, le spiritualità e le filosofie dell’umanità, le quali sono segnate dalla divisione fondamentale tra chi identifica il silenzio con l’esperienza spirituale più alta facendo del silenzio il messaggio ultimo, il senso del mondo; e chi invece vede nel silenzio il più nobile degli strumenti per cogliere la realtà assoluta, ma non l’identifica con la realtà assoluta stessa.

La situazione È indubbio che oggi vi sia una consapevolezza abbastanza scarsa nella

coscienza cristiana media riguardo al silenzio e alla sua importanza. Ricordo la reazione a metà tra delusione e scetticismo del clero milanese alla prima lettera pastorale di Carlo Maria Martini, intitolata appunto La dimensione contemplativa della vita.

Non vi sono dubbi che l’educazione cristiana tradizionale sia molto più improntata sul fare. Questo emerge anche dalla qualità della nostra preghiera, non sempre tale da rispettare l’indicazione di Gesù: “quando pregate non sprecate parole” (Matteo 6, 7), ed emerge dalla qualità delle nostre liturgie, così poco ricolme di autentica preghiera e di momenti di silenzio.

Anche a livello di teologia spirituale si hanno le idee poco chiare sulla realtà alla quale spetta il primato, se debba essere la vita contemplativa come appare dalle parole di Gesù a Marta e a Maria, oppure la vita attiva, come appare dall’unico comandamento che è quello dell’amore.

Il problema non è per nulla risolto: conta di più la fede o le opere della carità?

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Forse anche per questo qui in occidente molti spiriti inquieti alla ricerca di Dio sentono che il cristianesimo non è la risposta alla loro sete di spiritualità, e anche non pochi cristiani avvertono l’esigenza di una “riforma” (si crede che il problema sia orizzontale, mentre in realtà è verticale).

Anche da parte del cosiddetto “mondo” (come se noi non fossimo mondo, l’unico mondo creato da Dio) vi è una duplice e contraddittoria disposizione di fronte al silenzio.

Da un lato, visto che l’anima occidentale si ritrova così assediata dal rumore e dal nervosismo e per questo così bisognosa di quiete, esso è sentito come un’esigenza profonda dell’anima. Dall’altro lato però negli esseri umani c’è anche un indubbio timore di fronte all’esperienza del silenzio, il quale ricorda così da vicino la morte.

Pascal assegna all’incapacità degli uomini di stare racchiusi per più di mezz’ora da soli in silenzio in una stanza l’origine dei loro problemi: “Tutta l’infelicità degli uomini viene da una sola cosa, non sapersene stare in pace in una camera… ecco perché gli uomini amano tanto il rumore e il trambusto… Obbediscono a un segreto istinto che li spinge a cercare fuori di sé il divertimento e l’occupazione…

La noia, con la consueta autorità, non smetterebbe di uscire dal fondo del cuore, dove ha radici naturali, colmando lo spirito di veleno”. Ai nostri giorni vi sono sempre più persone che non possono vivere senza la tv costantemente accesa.

L’horror vacui, un concetto della fisica antica non più attuale nelle moderne scienze della natura, rimane un validissimo principio nella sfera psicologica, dice la paura di fronte alla noia, e il continuo ricorrere al divertissement come uscita da sé, come dispersione, per vincerla.

La nostra energia interiore è sempre proiettata verso l’esterno, di modo che se non c’è più un punto esterno a cui appoggiarsi, cade, sente il vuoto, e le sembra di morire. Per questo c’è una difficoltà immensa nel fare silenzio.

Lo si può fare solo a patto di saper vincere la paura del vuoto, così vicino al senso del nulla e della morte, e soprattutto solo di avere un punto fisso dentro di sé a cui legare saldamente il bisogno di relazione che noi ospitiamo, che noi radicalmente siamo.

Il silenzio immette al cospetto del sacro e della morte Il silenzio attrae e insieme respinge, esattamente come il sacro, mysterium

fascinans e mysterium tremendum, secondo la nota tesi di Rudolf Otto esposta in Das Heilige del 1917.

Se il silenzio ricorda la morte alla coscienza comune, è perché effettivamente vi è uno stretto legame tra esso e il grande silenzio che è la morte. Imparare a fare silenzio significa quindi imparare a morire, e non a caso imparare a morire è lo scopo della filosofia e della vita spirituale.

I Veda e le Upanishad, il Buddha, il Tao Te Ching, Platone, Epicuro, i filosofi stoici, Qoelet, e poi Montaigne e Spinoza, fino a Wittgenstein e Simone Weil, insegnano unanimi che il vertice della sapienza umana consiste nell’imparare a morire, cioè nel non avere più paura della morte.

Si potrebbe obbiettare da parte cristiana che non si tratta di autori cristiani, o non del tutto cristiani. Ma esattamente le stesse cose sono affermate anche

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da alcuni tra i più grandi cristiani. Ireneo di Lione scrive nell’Adversus haereses che “l’opera del cristianesimo non è nient’altro che imparare a morire”, mostrando come il fine del cristianesimo sia del tutto identico a quello del platonismo.

Nel Cantico delle creature Francesco d’Assisi parla della morte come sorella e per essa loda il Signore: “Laudato si, mio Signore, per sora nostra Morte corporale, da la quale nullo omo vivente po’ scampare”.

Giovanni della Croce insegna nel Cantico spirituale che “all’anima che ama la morte non può essere amara…

La tiene per amica e sposa e si rallegra al ricordo come se si trattasse del giorno delle nozze…

Infatti la morte le darà il compimento dell’amore che desidera”. L’elenco potrebbe essere molto più lungo, pressoché sterminato,

comprendendo la maggioranza dei padri della Chiesa e degli scolastici. Tra gli autori moderni è doveroso almeno menzionare Francesco di Sales, Pascal, Alfonso Maria de Liguori, Teresa di Lisieux.

E poi che altro dice il Maestro quando invita a rinnegare se stessi e a morire come il seme per dare frutto?

Imparare a morire non significa fare di ogni giorno un funerale, ma, proprio al contrario significa sconfiggere ogni paura e quindi fare ogni giorno l’esperienza più pura della gioia, ben diversa dalla felicità del mondo.

Gioia come semplicità, distacco, leggerezza del cuore. Il silenzio e la conoscenza Le grandi tradizioni spirituali dell’umanità collegano la saggezza in modo

inversamente proporzionale alla quantità di parole usate: meno si parla, più si è saggi. Pitagora esigeva addirittura cinque anni di silenzio per gli aspiranti filosofi. Il libro dei Proverbi dice: “Chi è parco di parole possiede la scienza, uno spirito silenzioso è un uomo intelligente” (17, 27).

Il saggio è colui che parla poco. Perché? Perché ha una cosa più importante da fare: ascoltare. La dimensione

spirituale matura è legata alla capacità di ascoltare, in silenzio, ben più che alle parole che si dicono.

Simone Weil individua la più alta virtù spirituale nell’attenzione, la prosoché di cui già parlavano gli Stoici.

E per essere attenti, occorre saper fare silenzio. Innanzitutto dentro se stessi.

Il silenzio e le parole descrivono due tipologie di vita interiore: quella nella quale il lavorio della psiche è disciplinato (il silenzio), e quella nella quale è continuamente all’opera (le parole).

Molto spesso le conversazioni tra gli uomini sono monologhi dove l’altro è solo l’occasione per parlare di sé perché in realtà non lo si ascolta, e non lo si ascolta perché non si è capaci di farlo, e non si è capaci perché manca la condizione essenziale, cioè il silenzio interiore.

Per tutte le grandi tradizioni spirituali il saggio è colui che parla poco e che, di conseguenza, è in grado di ascoltare molto. L’ascolto lo rende in grado di ricordare, ripensare, riflettere, cioè di collegare tra loro i molteplici e

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contraddittori messaggi della vita. Questo lavoro di elaborazione delle informazioni per trovarne il senso complessivo è il più alto lavoro del pensiero. Si tratta di una cosa che non dipende dall’erudizione, ma dal silenzio interiore: per questo si può incontrare un contadino saggio e un professore di teologia stupido.

Questo vale anche per la lettura. La vera lettura non è quella veloce di chi vuole consumare, andare a

vedere come va a finire, per poi passare subito ad altro. La vera lettura è quella lenta, attenta, che sa scendere sotto la superficie

delle parole. È quasi sempre la seconda o la terza lettura, quasi mai la prima. Rileggere

è molto più importante che leggere. La lettura vera non si può fare senza silenzio interiore. Il silenzio è

necessario per capire. Perché il silenzio è così fondamentale per capire? Perché mette a tacere

dentro di noi l’immaginazione, ciò che Marco Aurelio chiamava phantasia, cioè il pensiero legato ai desideri, alle attese, ai bisogni e agli impulsi dell’io.

Il più delle volte il pensiero degli uomini è guidato dalle passioni, non si cerca la verità ma solo la convenienza. Anche in teologia talora è così: non si cerca la verità, la nuda verità quale appare libera, sconvolgente e sovrana; si cerca l’accordo con la dottrina, la difesa del dogma, si fa apologetica già da subito a livello mentale inconscio.

Ma così non si incontra la verità e la sua rivelazione. Per ascoltare la verità occorre mettere a tacere dentro di noi le passioni (di

ogni tipo, comprese quelle devote), e iniziare a vedere la realtà per quello che è in se stessa.

Per questo il grado di maturità di una persona è legata alla capacità di silenzio e di ascolto: perché è solo tacendo e ascoltando che si vede quello che è e lo si capisce, ed è solo capendo che si cresce.

Lo stadio immaturo della mente invece legge il mondo a partire da sé e così vede in ogni evento qualcosa di bene o qualcosa di male, in ogni persona un amico o un nemico: non è libero da sé e interpreta tutto a partire dal proprio interesse.

Il grado di sapienza raggiunta da un uomo si misura sulla sua capacità di silenzio. Se si fa silenzio, si vede il mondo non in termini moralistici, ma in termini fisici. Si osservano le cose degli uomini come se fossero fenomeni naturali.

Il contenuto della conoscenza Che cosa si capisce del mondo quando si legge il mondo così? Che cosa succede all’anima che fa silenzio dentro di sé? Io penso che vi sia un percorso interiore a tre livelli, disposti

gerarchicamente quanto a valore spirituale e che ora descrivo brevemente, solo per tratti essenziali.

Il primo livello coincide con la percezione della vanità del mondo. La mente che inizia a essere liberata dal silenzio vede il mondo e le cose per cui la maggioranza si affanna come del tutto prive di valore, come inganni, come trappole. È il momento del massimo distacco dal mondo: la liberazione dai suoi

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idoli coincide con la distanza dal mondo in quanto tale, è il contemptus mundi della tradizione ascetica.

Il secondo livello, che nasce quando l’anima va acquisendo maturità, inizia il cammino di riconciliazione verso il mondo, il quale viene a essere compreso non più come pura negatività, ma tale da contenere anche molte cose buone. Il mondo quindi emerge come contraddizione, anzi come antinomia.

Il terzo e conclusivo livello del cammino dell’anima si ha quando, facendo silenzio ancora di più, lavorando su se stessi, appare un livello ancora più profondo della realtà, cioè che tutto è uno, che l’essere è unificato e che tutto è bene.

È ciò che la fisica contemporanea insegna dicendo che ogni fenomeno materiale è riducibile all’energia che lo costituisce: tutto è energia. Gli atomi che formano le mie molecole provengono dalle stelle e chissà da quanti altri esseri viventi: pensiamo al cibo che assumiamo e che costituisce il nostro corpo.

Si comprende che tutto è uno (Brahman, essere), che i fenomeni materiali sono solo apparenze dietro cui c’è la vera realtà, che sempre permane, che non si crea né si distrugge, che è eterna.

I tre livelli spirituali hanno ovviamente una traduzione in termini teologici: il primo genera lo gnosticismo, il secondo il politeismo, il terzo il monoteismo.

Chi conosce la storia della teologia e della spiritualità cristiane è in grado di

comprendere che si ha, anche da parte di chi si ritiene e vuole essere del tutto ortodosso nel senso del più fedele cattolico-romano, un cristianesimo gnostico, un cristianesimo politeista e un cristianesimo monoteista.

L’esperienza spirituale Ora forse comprendiamo che cos’è un’esperienza spirituale: non è uscire

dalla vita, ma comprendere la logica profonda e vera della vita. La più alta esperienza spirituale coincide col comprendere che tutto è energia, cioè che tutto è spirito, perché il termine greco per spirito, cioè pneuma, indica precisamente il soffio igneo che costituisce il fuoco ed è la perfetta intuizione dell’energia e del suo calore vitale. Fare un’esperienza spirituale è toccare il cuore della vita.

La divisione fondamentale Il terzo livello dell’esperienza spirituale non è univoco. Esso è attraversato da una differenza fondamentale nella percezione della

realtà ultima come energia: il vuoto oppure l’essere. Il vuoto esprime una visione negativa della realtà, in Grecia rappresentata

dagli atomisti e da Epicuro, a Roma dall’epicureo Lucrezio, in India dal Vedanta secondo la scuola di Shankara e dal Buddhismo della scuola hinayana; nella filosofia occidentale da Schopenhauer.

L’essere esprime una visione positiva della realtà, in Grecia con Platone, Aristotele e gli Stoici; in India col tantrismo (matrimonio di Shatki e di Shiva); nel Buddhismo con la scuola mahayana; nella filosofia occidentale con la metafisica classica e con l’idealismo.

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Il cristianesimo, per quanto contenga anche elementi della via negativa con la theologia crucis, si colloca fondamentalmente (almeno secondo la versione cattolica e dell’ortodossia) nella via che privilegia l’essere.

Il criterio Non esiste un criterio per stabilire in modo incontrovertibile quale delle due

vie sia quella più aderente alla realtà. Per questo la divisione tra gli uomini tra chi privilegia la filosofia negativa del vuoto e chi quella positiva dell’essere è destinata a permanere.

Come ultimo punto di questo mio intervento, io offro le motivazioni che mi portano a sostenere la via positiva, per quanto riconosca tutta la nobiltà e anche la necessità della via negativa. Le parole decisive sono due: bene e ordine.

Io sono partito dalla via negativa nella via del pensiero, con il mio libro sull’handicap.

Guardavo alla storia e alla natura e vedevo imperare la forza, niente altro che la forza e l’interesse.

Poi però, sempre grazie all’handicap, ho capito l’unico vero miracolo al quale credo incondizionatamente, cioè il bene.

Nel mondo interessato della forza, c’è chi fa il bene. Ma poi mi sono chiesto che cos’è il bene. E ho compreso che non è solo un evento che dipende dalla volontà (questo

vale per l’aspetto soggettivo del bene) ma in sé è un ristabilimento dell’ordine primordiale, è equilibrio, simmetria dei rapporti, è giustizia ed equità.

Ho compreso che il bene si fonda sull’essere, è servizio della natura dell’essere.

Non sono io che creo il bene, ma io mi metto al servizio della natura già inscritta nelle cose, in un corpo che devo curare o nutrire o educare. Il bene è prima della bontà e coincide con l’essere, con l’essere quale ordine.

Conclusione Desidero concludere richiamando il concetto centrale che ho cercato di

trasmettere, quello di esperienza spirituale. Ho detto che per avere una reale esperienza spirituale non è indispensabile superare la materia, uscire dal mondo, andare necessariamente in chiesa o isolarsi in un monastero. Può avvenire in mille altri modi questa commozione per lo spirito santo della vita che si chiama esperienza spirituale. L’unica cosa veramente indispensabile è la solitudine, il silenzio interiore.

19 Responses to “Il silenzio secondo Vito Mancuso” vbinaghi Says: June 26, 2007 at 9:36 am A conferma di questo: “In solitudine la nostra storia non può continuare ad essere una raccolta

casuale di incidenti e accidenti sconnessi, ma deve diventare un appello costante a cambiare cuore e mente. Laggiù potremo infrangere la catena fatalistica di causa ed effetto per ascoltare con i sensi interiori il significato più

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profondo degli avvenimenti della vita quotidiana. Laggiù, il mondo non sarà più diabolico, non ci dividerà più in pro e contro, ma diventerà simbolico, ci chiederà di riunire gli eventi esterni con quelli interni” (Henri J.M. Nouwen)

Fabio Brotto Says: June 26, 2007 at 9:59 am Due note su queste parole di Mancuso, come sempre stimolanti Primo. “Meno si parla, più si è saggi”. Condivido. E nel mondo letterario e

nei blog si scrive/parla moltissimo: quindi vi trionfa la non-saggezza. Secondo. Mancuso afferma che il bene “in sé è un ristabilimento dell’ordine

primordiale, è equilibrio, simmetria dei rapporti, è giustizia ed equità”. Lo poteva pensare anche Akhenaton. L’ordine primordiale rimanda al religioso arcaico, che è un religioso violento, che accetta e riproduce il mondo segnato dalla forza. Rimanda ad un pensiero metafisico che riprende il religioso arcaico (distogliendo però lo sguardo dall’altare sacrificale, come fa Platone). La giustizia e l’equità sorgono con l’uomo, e sono pensiero dell’uomo. In quello di Mancuso vedo un salto metafisico tra l’ordine della natura, cui appartiene la predazione fin dall’inizio dell’era terziaria, e quello umano. Ma a questo punto la tensione escatologica del NOVUM cristiano mi sembra sempre più labile ed evanescente…

Io Says: June 26, 2007 at 10:36 am sarebbe interessante capire come tutto questo si coniughi con il mistero di

Cristo e dell’Incarnazione, con l’esperienza Trinitaria e con la vita nello Spirito, in parole povere sembra più lo scritto di un novello sincretista che di un teologo cristiano (ma questa non è una novità).

dico questo pur condividendo la consapevolezza di un necessario ritorno ad una vita che nasca dal silenzio.

condividere le premesse però non significa condividere poi lo sviluppo di un pensiero.

saluti carla Says: June 26, 2007 at 12:36 pm molto bello questo che scrivi: “Non sono io che creo il bene, ma io mi metto al servizio della natura già

inscritta nelle cose, in un corpo che devo curare o nutrire o educare. Il bene è prima della bontà e coincide con l’essere, con l’essere quale ordine.”

Posso sapere dove si trova la statua di quella bambina che invita al silenzio

con grande umiltà? grazie carla

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fauras Says: June 26, 2007 at 12:42 pm “Pensiero” interessantissimo! Grazie massimo s. Says: June 26, 2007 at 5:51 pm condivido ogni iota di queste pagine. e questo è bellissimo: […] in teologia talora è così: non si cerca la verità, la nuda verità quale

appare libera, sconvolgente e sovrana; si cerca l’accordo con la dottrina, la difesa del dogma, si fa apologetica già da subito a livello mentale inconscio. Ma così non si incontra la verità e la sua rivelazione.

grazie, di cuore (perché tutto questo riguarda moltissimo la poesia e/o la

sua critica…) massimo enrico de lea Says: June 27, 2007 at 12:41 pm or è qualche tempo, ho scritto dei versi su un motivo non lontano dal tema

affrontato davvero acutamente in quetso saggio da Mancuso (con un grazie a lui ed a Fabrizio)- li propongo

(e siate feroci) (lasciti dell’anacoreta) I. ci siamo – abbandono la stele, lascio alla vita dei ragni la virtù, sospingo tutta la memoria dietro il masso muscoso: non c’è mondo, c’è il rantolo dello sconosciuto, dell’ignota presenza che non nomino - seppi: nominare è morte e polvere, ché in questo annullarmi alla congrega vivo, amandola di pura assenza, come una vitale persuasione, una resa completa… poi, vederli dall’alto, lumini in moto perenne nel vallone, sapere di questo amore che senza abbraccio vede ogni istante, egoista del trascendere del legno, offre una specie di ragione che si piega, un’elezione di qualcosa che sorregge e spegne, accende e polverizza - ora impasto il fango, fratello, vanamente erigo muri a secco… II. capro sul crinale delle contrade, sino al Sant’Elia che il sole nascose nella preghiera, ho vituperato i sentieri ed ho mutato il passo - c’era il respiro della neve e le anime dei morti che s’addensavano, uccelli che non svernano… qui, cavavano pietre per le case umane, e oltre l’umano, che non fu pensato - attraverso il vino dei posteri, nella sembianza della ricchezza agraria… ma come la stretta nella lacrima del padre che non possiede, ma apre alla vallata, alla marina…

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Luminamenti Says: June 27, 2007 at 9:57 pm Va bene come semplice introduzione all’esperienza del silenzio. La vita contemplativa sembra una cosa sconosciuta nel mondo

contemporaneo. Questo richiamo però non si confronta dialetticamente con la logica della

realtà contemporanea, temo così che la sua dimensione di liberazione rimanga nostalgia di una mistica che non c’è più o sempre più rara.

Come recuperarla? Descriverla così non sposterà di una virgola i più. A me interessa ciò che si pone come episteme rispetto alla modernità. Inoltre, se il bene coincide con l’essere (tesi, così come posta, vagamente

spinoziana), il male con che cosa coincide? con il non-essere? mi sembrerebbe una tesi insostenibile. Il male è reale e concreto, appartiene all’essere.

Se lo sviluppo o il disvelamento dell’essere coincide con il bene, il male da dove proviene? In più, se seguendo la teologia cristiana, diamo credito a un Dio come creatore dell’uomo, uomo a immagine di Dio, Dio contiene in sé anche il male. Se Dio è l’ente che ha creato il Tutto, contiene in sé anche il Male. Problema filosofico e teologico per eccellenza e raramente affrontato.

Un tempo, i teologi erano anche capaci di sezionare in maniera empia il concetto di Dio, ora la teologia contemporanea sembra addomesticata, nasce il taedium Dei, la sazietà di Dio. E di fronte al male degli uomini Dio dov’è? dov’è il suo essere coincidente con il bene?

Filosoficamente e teologicamente mi sembrano deboli le articolazioni di Mancuso ( di cui ricordo interessanti spunti in Per Amore)

Non ci sono più teologi come Cano che esibisce i dieci luoghi e si può discutere se sia o no una exhibitio derivativa o originaria, ma cmq mette Dio sul tavolo e lo tratta comme un insecte. Il divino abita certamente l’uomo, ma il modo come la maggior parte dei cattolici si rappresenta Dio, aiutato dal catechismo settario e antropologicamente delirante, fantasmatico e ingenuo (basato sulla credenza fideistica che non è fede e nemmeno storia ma superstizione) è il modo migliore per continuare a tenere lontano Dio dagli uomini. Ridotto a simulacro. Pensare o per Concetti o per Figure è un’altra cosa. Da Vito Mancuso mi aspetto di più.

Fabio Brotto Says: June 28, 2007 at 8:43 am Le questioni poste da Luminamenti sono molto serie. Come quelle poste da

Mancuso, del resto, con cui si confrontano. E’ chiaro, tuttavia, che se in un blog manca quel botta e risposta che è una

traduzione virtuale della disputa reale, poiché nei singoli post l’argomentazione non può che essere limitata, il tutto può risultare scarsamente dotato di senso…

Nonostante ciò, vorrei aggiungere che quel che mi ha più colpito nel testo

di Mancuso è la conclusione: “Ma poi mi sono chiesto che cos’è il bene. E ho compreso che non è solo un evento che dipende dalla volontà (questo vale per l’aspetto soggettivo del bene) ma in sé è un ristabilimento dell’ordine

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primordiale, è equilibrio, simmetria dei rapporti, è giustizia ed equità. Ho compreso che il bene si fonda sull’essere, è servizio della natura dell’essere. Non sono io che creo il bene, ma io mi metto al servizio della natura già inscritta nelle cose, in un corpo che devo curare o nutrire o educare.

Il bene è prima della bontà e coincide con l’essere, con l’essere quale ordine.” Qui si postula un “bene in sé”, afferrabile dalla ragione umana, che sarebbe il ristabilimento di un ordine, quindi giustizia (ripeto, vi è molto di arcaico in questa visione, ma avendo spazio potrei riportarla alla “scena originaria” ipotizzata dall’antropologia generativa, conferendole un significato non metafisico ma puramente antropologico).

Ora il problema risulta spostato all’indietro: se il bene è nel ristabilimento di un ordine, ciò significa che sussisteva un ordine che è stato almeno in parte distrutto.

Da chi? E qual ordine era? E, in più: un ordine viene instaurato, creato da una forza, e contro le forze

del disordine. In sostanza, ogni ordine è un ordine sacrificale, come mostrano tutti i miti delle origini, nei quali vi sono sempre creature mostruose e caotiche che vengono uccise.

Dunque, se l’ordine è buono sono buoni anche i suoi presupposti. Credo che la posizione metafisica di Mancuso vada necessariamente incontro a contraddizioni insostenibili.

Aggiungo infine che un ordine è sempre ordine tra parti, evidentemente tra parti che potenzialmente potrebbero essere in conflitto, poiché se le parti per essenza fossero armoniche, non si produrrebbe mai un disordine…

Vito Mancuso Says: June 29, 2007 at 12:00 am Ho scritto del silenzio ma evidentemente l’attenzione è finita sul bene e sul

male. Come si dice? La lingua batte dove il dente duole, e la ferita della nostra anima è data dal conflitto del bene e del male, di questi falsi gemelli, perché in realtà il primo è un essere reale mentre il secondo solo un fantasma. Ma vedo di spiegarmi.

Io chiedo: con che cosa può coincidere il bene, se non coincide con l’essere?

Mi sembra ci siano solo due risposte: - con il nulla: è la posizione che più logicamente è rappresentata dalle

religioni orientali e dalla posizione del nirvana; - con la volontà del soggetto o di qualcuno sopra di lui in quanto sovra-

essere. Per accorciare un intervento che già sento profilarsi troppo lungo, non

prendo in considerazione la prima posizione e affronto la seconda, che mi sembra essere sottesa agli interventi dei miei interlocutori, in particolare di Luminamenti e di Fabio Brotto. Questa seconda posizione consiste nel pensare che l’essere è imperfetto e che quindi il bene è al di là dell’essere, come per primo in questa prospettiva ha stabilito Platone.

Prendiamo il caso di una malattia. Dato che essa accade, i sostenitori di questa seconda posizione ritengono che essa dimostri che l’essere naturale è

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imperfetto, corruttibile, mentre il bene, il quale scaturisce dall’intelligenza e dalla volontà umane, è ciò che cura e innalza l’essere. Ne viene per loro che il bene è maggiore dell’essere, è ciò che consente all’essere di non essere ambiguo, ovvero: Bene > Essere. Ne viene ancora che l’essere non è né bene né male, è miscuglio sia di bene sia di male, e la visione del mondo che ne consegue è la seguente:

- male = nulla (morte); - bene + male = essere, vita concreta - bene = al di là dell’essere, trascendenza. Non ho fatto fatica a riassumere questa posizione perché era la mia,

presente sia in Il dolore innocente sia in Per amore. Per mostrare perché io ritengo superata questa impostazione (come

apparirà meglio dal mio prossimo libro che esce ai primi di settembre) torno al caso della malattia.

O meglio del malato. Che cosa ottengo quando lo curo? Non ottengo una sua uscita dall’essere, ma un suo ritorno alla pienezza

dell’essere naturale prima della malattia; ottengo una sconfitta non dell’essere ma della deficienza o della privazione dell’essere provocata dalla malattia in quanto mancanza di ordine e di equilibrio tra le diverse componenti del suo essere naturale.

La terapia giusta lo ristabilisce nel suo essere, e il suo bene viene a coincidere con la perfezione del suo essere naturale. Non si tratta di inventare nulla, si tratta di servire il logos inscritto nella physis, la fisiologia. La medicina deve prima capire e poi adeguare la sua azione a ciò che ha capito.

Lo stesso si ha con la cura delle piante e con gli animali. Lo stesso si ha nei rapporti umani.

Le piante di mia moglie, la gattina dei miei figli, i miei stessi figli, hanno una loro natura che, se io voglio fare loro del bene, devo seguire.

Il bene maturo coincide con il servizio dell’essere. Fare il bene è servire l’essere, l’essere concreto qui e ora, la natura

inscritta nelle cose. E il male cos’è?, mi si chiede. Io condivido la posizione classica secondo cui

il male è privazione dell’essere, Plotino (e prima di lui Aristotele e gli Stoici, senza i quali Plotino non sarebbe tale) aveva ragione, e ha fatto bene Agostino a riprenderne tale e quale la posizione – salvo poi tradirla completamente con la mostruosa contraddizione del peccato originale e dell’umanità quale massa dannata, posizione che equivale a identificare il male nell’essere concreto e naturale, e dalla quale si svela il fondo manicheo di Agostino che lo colloca esattamente all’opposto della posizione classica bene = essere.

Non a caso è da Agostino che sorge l’impostazione che nega bene = natura per porre bene = grazia.

Io sono convinto che l’anima di noi occidentali postmoderni sia malata di un male che definisco sindrome gnostica, e che consiste nella mancanza di fiducia nella vita, nell’incapacità di sentire la positività dell’essere naturale. Ci manca la maternità della natura, della materia-mater.

Mi si dice che affermare che il bene coincide con l’essere è una tesi vagamente spinoziana. Per quanto io conosca Spinoza (che ritengo uno dei

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pochi filosofi dai quali si attinge luce in ogni sua pagina) si tratta di una tesi pienamente spinoziana.

Ma si tratta anche di una tesi pienamente cristiana. Che cosa significa infatti affermare, come fa la tradizione metafisica del

cristianesimo almeno da 1000 anni, che Dio è l’Ipsum Esse Subsistens? Affermare questa tesi significa affermare che l’essere è divino, che la vita è

divina, che siamo immersi nella grazia perché la grazia non è quella misteriosa e impalpabile e arbitraria azione di cui parla Agostino, ma è la stessa natura ordinata che ci ha portato e che ci mantiene all’essere.

Se ha ragione Tommaso d’Aquino a dire che Dio è l’Ipsum Esse Subsistens, allora ogni ente, nella misura in cui è, partecipa della divinità, è tale in quanto partecipe della divinità, e quindi: Esse = Bonum.

Chi pensa che Dio è al di sopra dell’Essere (bene sovrannaturale), pone la trascendenza in un luogo necessariamente misterioso, e il suo grande problema è spiegare dov’è Dio, soprattutto ora che l’astrofisica impedisce di alzare il dito verso le stelle.

Chi invece pensa che Dio è l’Essere (l’Ipsum Esse Subsistens, lo stesso essere in quanto sussistente, cioè eterno, cioè senza divenire), lo pensa dentro l’essere, lo pensa come il Logos che ordina l’energia che forma gli enti, coma la luce della nostra immanenza, e sa benissimo dov’è Dio.

È qui. È nell’eterno presente che è l’atto d’essere, che (in quanto logos interiore)

tiene in piedi l’ordine del mondo e me stesso in quanto fenomeno del mondo. L’importante è capire che quando in filosofia e in teologia si dice essere non

si designa la realtà quotidiana, l’esperienza di tutti i giorni, la quale non è l’essere ma è il divenire, è essere + non essere, essere + nulla, vita + morte.

Noi non siamo reali in senso assoluto, noi siamo parzialmente reali e parzialmente irreali: siamo reali, cioè del tutto conformi all’essere, quando seguiamo la logica che ci ha portato all’essere (che è la relazione ordinata) e siamo irreali quando l’abbandoniamo. Dio, che è sommamente reale, è proprio per questo bene, lo stesso bene; è amore, dice la mia religione, quell’amore che muove il sole e le altre stelle, che è all’origine della vita, e che coincide con l’ordine e con la giustizia.

Capisco benissimo di trattare problemi che meriterebbero ben altra

trattazione. In parte ho tentato di farlo nel nuovo libro, ma spero comunque di aver contribuito anche così al dibattito e a questo bellissimo scambio di opinioni.

Ora ringrazio chi ha trovato qualcosa di buono in quello che ho scritto e rispondo più concretamente ad alcune questioni che mi sono state poste:

1) A Carla vorrei dire che non so dove si trovi la statua della bambina: occorre chiederlo a Fabrizio, penso sia lui che l’ha scelta.

2) Due cose a Luminamenti. La prima è che si può dire, come scrive, che “se Dio è l’ente che ha creato

il Tutto, contiene in sé anche il Male”, solo se si sostiene che il male è una forma di essere. Ma io sostengo che il male è non essere, è mancanza di equilibrio; non dico che non esiste, certo che esiste, ma esiste in quanto corruzione di un bene, in quanto disordine che corrompe un ordine. Il male

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esiste solo qui, in questa nostra dimensione imperfetta e diveniente che è condizione indispensabile per la nascita della libertà, la quale è l’unico vero scopo della creazione. Ma in Dio, nella dimensione dell’eterno, il male non esiste affatto. La mia posizione esclude del tutto, e del tutto logicamente, la presenza del male in Dio. Dio è la luce perfetta quale bene e quale essere (attenzione inoltre a parlare di Dio quale “ente”…).

La seconda è che io sono del tutto d’accordo con quanto Lei afferma quando dice che il modo con cui solitamente si parla di Dio contribuisce a tenere lontano gli uomini da Lui (se ne parla appunto come di un ente separato). L’unica via però che intravedo per uscire da questa aporia è servire la divinità della vita, cioè appunto l’essere, e l’apice dell’essere che è la personalità.

Occorre conciliare l’Oriente (l’essere) con l’Occidente (la persona). Solo così si potrà resistere al drago del nichilismo che sta divorando le anime. Sincretismo, come mi accusa chi si firma Io nel commento n° 3? Il primo a usare il termine sincretismo è stato Plutarco facendolo derivare dall’usanza dei cretesi di mettersi insieme per fronteggiare il nemico comune. Basta guardarsi attorno per rendersi conto delle devastazioni del drago e dell’insufficienza delle formule tradizionali.

3) Risposta a Brotto. L’ordine di cui parlo non è qualcosa di statico ma di dinamico, è quello

inerente all’evoluzione dell’energia e che ha fatto sì che dal caos iniziale sia potuta scaturire questa meraviglia che è la bellezza del mondo (cf. il Timeo).

Il disordine c’è, lo so bene, non sono Panglos, tu sai anche che ne ho scritto qualcosa.

Ma esso è il prezzo necessario che si paga per la libertà dell’essere, e inoltre ci può apparire tale solo perché siamo orientati all’ordine.

Certo, è la forza che muove l’essere, l’energia è mossa e ordinata dalle quattro forze fisiche fondamentali. Ma la forza non è negativa, è un principio di ordine, e quindi è positiva. Negativo è il caos, è l’entropia.

E poi c’è questa storia del sacrificio che a mio avviso va chiarita. Io ci sento sotto qualcosa di ideologico. Ma tu Fabio quanti sacrifici (nel senso girardiano) hai fatto o visto fare? Quante vittime innocenti hai scannato o visto scannare? Il mondo degli uomini è colmo di conflitti, ma non pensi che la gran parte di essi si risolva tramite accordi, patti, mediazioni, convenzioni, compromessi, alleanze, mentre i sacrifici cruenti siano una cosa rara? Io penso che a mandare avanti le cose del mondo sia più la relazione ordinata che non la lotta, meno che mai il sacrificio. Anche la scoperta relativamente recente dei neuroni specchio lo conferma, è l’altruismo alla base della vita.

lo so, il link è un po’ lungo! ringrazio Vito per la risposta che viene a costituire un altro testo: prezioso,

perché ci spiega l’ultima evoluzione del suo pensiero. fabrizio carla Says: June 29, 2007 at 9:40 am Grazie! è un angelo.

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Fabio Brotto Says: June 29, 2007 at 9:47 am Caro Vito, hai ragione sul fatto che c’è molta, troppa carne al fuoco. Il tuo

post chiarifica la tua posizione, ponendo altre questioni. Mi verrebbe da chiederti anzitutto come in questa tua visione di Dio si ponga la resurrezione di Cristo: potrebbe sembrare non necessaria, o puramente simbolica, visto il tuo concetto di trascendenza…

Neuroni specchio = altruismo. Qui mi pare che emerga una tua scelta apriori. Quello dei neuroni-specchio

è, in realtà, un puro meccanismo, per cui certi neuroni, quelli che si attivano quando un uomo (o una scimmia) compiono un gesto, si attivano anche quando un uomo (o una scimmia) vedono compiere quello stesso gesto da un altro uomo o scimmia.

Meccanismo spontaneo dell’imitazione. Ma è esattamente il meccanismo che sta alla base del conflitto mimetico,

per cui prima vedo lui prendere la mela, sono portato a imitarlo, e, se a disposizione non c’è che quella mela là, a dirigere la mia mano su quella stessa mela, e quindi a strappargliela.

A mio parere, se osserviamo spassionatamente il comportamento delle

specie animali, possiamo dire che l’altruismo e l’egoismo siano entrambi presenti.

Pensa ad un branco di leoni. I maschi quando conquistano la leadership di un gruppo (lottando con i maschi che vi risiedono e allontanandoli o uccidendoli) per prima cosa eliminano tutti i cuccioli dei maschi che hanno soppiantato.

O pensa alle aquile: depongono sempre due uova, a qualche giorno di distanza l’una dall’altra, in modo che il primogenito sia più grosso del fratello, e ad un certo punto possa ucciderlo e mangiarselo. Potrei citare infiniti esempi di comportamento “egoistico” degli animali. “Mors tua vita mea”, la legge della giungla.

E anche delle piante, tra gli alberi e gli alberelli di un bosco c’è competizione per la sopravvivenza.

Come si fa a vedere nell’”altruismo” la legge fondamentale della natura? Mi pare una posizione del tutto idealizzante e lontana dalla realtà. I gesti

alla Salvo d’Acquisto sono rari anche tra gli umani. Il nostro ordine è legato al conflitto. C’è anche l’ordine degli eserciti. Ed è vero che le società umane sono forme

di ordine basate su convenzioni e accordi, ma i 100 milioni di morti ammazzati del Novecento mostrano quale sia il substrato violento di questi ordinamenti. E l’ordine sorge proprio come rimedio al conflitto.

Il prius non è l’ordine, ma il conflitto. E se tu dici che dando l’acqua alla piantina fai il suo bene, che dire se una

farfalla depone le sue uova su quella stessa piantina, e ne nascono bruchi che la divorano?

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Li ucciderai per il bene della piantina, ovviamente. E il bene dei bruchi? Sacrificio. Certo, il sacrificio nella sua forma arcaica (all’azteca, per

intenderci) non c’è più, ma vi sono i suoi sostituti. Basta guardarsi intorno. Il meccanismo del capro espiatorio è all’opera

ovunque. Intere popolazioni possono esserne coinvolte (ed elencare i massacri

sarebbe lungo, l’Africa gronda sangue, basti ricordare il Rwanda o il Darfur). Quante vittime innocenti ho visto scannare?

Moltissime, in verità, anche se non direttamente (mio zio, ad esempio, fu scannato dai partigiani a guerra finita). In ogni caso, la procedura sacrificale moderna e deformata, ma ancor più micidiale, è stata attuata in modo visibilissimo nell’Unione Sovietica con la liquidazione degli antirivoluzionari, nella Germania nazista, e in infiniti altri luoghi.

E anche oggi l’ordine sembra doversi fondare sull’eliminazione violenta di ciò che lo minaccia (Saddam, ecc.). Forse è un caso che le feste nazionali vedano sempre sfilate in armi?

Io Says: June 29, 2007 at 11:27 am @fabio anch’io avevo posto la questione del mistero dell’incarnazione(intesa come

evento in tutta la sua portata, compresa, ovviamente, la risurrezione) e del mistero Trinitario. ma il signor mancuso rispondendo ad IO(evidentemete infastidito dal nomignolo) ha solo confermato la sua posizione sincretistica senza affrontare neppure di striscio le domande su cui effettivamente era stato pro-vocato.

Io Says: June 29, 2007 at 11:34 am aggiungo, senza dilungarmi troppo, che le nuove posizioni del nostro

teologo lo inducono sulla via del rifiuto della trascendenza e della riduzione di Dio ad un puro fatto energetico e immanente(Deus sive natura spinoziano, dunque nessuna novità). Insomma nel silenzio dei mistici il nostro non ha raggiunto altra conoscenza che quella che uno scienziato può acquisire in laboratorio, e un filosofo post-moderno senza più alcuna metafisica ,riesce a cogliere nel limite della sua, per quanto acuta, pur limitata ratio.

Luminamenti Says: June 29, 2007 at 1:17 pm Ringrazio il Prof. Mancuso per il tempo che ha dedicato alla risposta.

Commentare richiederebbe una lunga analisi. Preferisco per adesso riflettere su quanto da Lei scritto.

Leggerò con piacere e stima i suoi prossimi libri. Tornando al silenzio ricordo che J. Hauscher ha fatto rilevare come il termine hesychìa in greco significhi quiete. Si allude così a una quiete come silenzio.

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Inoltre, mi fa piacere constatare il rilievo che Lei dà alla persona. Penso in questo momento al lavoro che conduce da alcuni anni Roberta de Monticelli, riprendendo una certa fenomenologia.

C’è ancora molto lavoro da fare perché si riduca o evolva il disordine a ordine. Proporre oggi, nella nostra società contemporanea, la dimensione del silenzio e della quiete, di un abbandonarsi fiducioso alla vita, è un’impresa molto ardua.

Ma ritengo necessaria! Concordo quindi. Bisognerà pensare a nuove forme di partecipazione e di coinvolgimento che

spostino la soglia d’attenzione. L’Uomo sente già una Mancanza ma è difficile che si metta a cercare. Un

certo modo di vivere e pensare sembra averlo ormai catturato. Vive nel mondo dell’opinione e della merce. La mistica sembra ormai scomparsa, a causa dell’apparire dell’illuminismo, diceva Zolla.

Vedremo dove ci porterà la tecnica e la scienza. Forse ci aiuteranno a comprendere ciò che è già stato compreso da tempo e non sappiamo perché - dimenticato? e che dobbiamo ricomprendere?

Emanuele Giordano Vito Mancuso Says: June 29, 2007 at 7:01 pm A Emanuele Giordano: io penso proprio di sì, che la scienza e la tecnica (se si saprà parlare loro, senza vederle come minacce, ma destandole alla logica - figlia del Logos - che le anima) ci aiuteranno a comprendere ciò che è stato compreso da tempo dalla sapienza spirituale di tutti i popoli, e cioè che siamo figli di Dio, dell’Ipsum Esse Subsistens, della divinità dell’essere. La scienza non è mai stata contraria alla spiritualità presso i popoli antichi, anzi era esercitata proprio con questo spirito, si ricordi Ippocrate per esempio. Se dovessi dire come mai si è prodotta poi la frattura scatenerei un bel po’ di polemiche, e ora non mi sembra il caso. Vorrei solo aggiungere che il mediatore della figliolanza che gli uomini percepiscono verso il Padre Creatore e Reggitore dell’essere è il Logos, l’identico Logos che presiede la scienza, la filosofia, l’etica, la teologia (quando è veramente teo-logia) e che trova la più alta realizzazione nella luce della coscienza umana personale che si desta alla consapevolezza di questa figliolanza, e di cui Cristo è la grammatica fondamentale, la sussistenza del Logos in cui siamo stati pensati da sempre. A Io: desidero cortesemente segnalare che non ero e non sono per nulla infastidito dal Suo pseudonimo, perché dovrei esserlo? Quanto alle questioni sollevate, sono così ampie che non posso rispondervi esaurientemente. Sappia solo che per me le caratteristiche essenziali della verità (cioè di Dio) sono tre: semplicità, integralità e soprattutto universalità. Io Says: June 29, 2007 at 10:06 pm al dott. Mancuso grazie

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La meditazione nello Yoga e nello Zen Il silenzio fisiologico diventa valore filosofico: Asana-

Zazen (postura seduta), Dhyana-Zen (meditazione)

"Io urlo la mia domanda all'universo, ma l'universo continua a tacere"

scrive Albert Camus. L'occidentale vive nelle parole, arriva a dire che è mondo solo ciò che

diviene linguaggio. Dopo la prova della propria esistenza attraverso il dubbio (atto di

pensiero), Cartesio si chiede: "Cosa sono?". Si risponde: "Sono una cosa che pensa".

Chi ha esperienza di meditazione sa che la realtà si avvicina piuttosto ad un "sum ergo cogito": sono qualcosa che può anche pensare.

La meditazione è uno stato di silenzio interiore: "Tenebre luminosissime, silenzio eloquentissimo".

Si fa esperienza di "Ciò che è", "Ciò" che non ha bisogno di parole per dire di sé, non di luce per mostrarsi: dice tutto di sé nel silenzio e nelle tenebre.

Il silenzio dell'universo è, per il mistico, un urlo insopportabile perché troppo significante.

Non è questione d'opinioni, ma d'esperienza: "Si ha lo stato di yoga allorché s'acquieta il turbinio mentale. Allora lo

spirito ritorna alla propria natura originaria". Così ci ha tramandato Patanjali, il grande sapiente dello Yogasutra. Asana, Za-zen, posture per il silenzio, vie per l'esperienza dello Spirito. Se il corpo prova disagio, la mente si agita; se la mente si agita, non è

possibile il silenzio interiore. Il silenzio si fonda sulla quiete del corpo, la quiete sull'equilibrio. Luogo dell'equilibrio è la colonna vertebrale. Il silenzio si fonda sull'equilibrio della colonna vertebrale: Asana. Il silenzio

è il luogo della lucida, silenziosa, a-verbale, intro-versione della coscienza: Dhyana.

Quando la coscienza si ripiega, in un muto domandare, su se stessa, può eventuarsi l'intuizione che cambia la vita: la Grande comprensione - Satori.

Puoi scoprire ciò che dà alla vita un indubitabile, sacro, senso.

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Il valore del silenzio Tre volte al giorno, sulla collina di Taizé si ferma tutto: il lavoro, gli studi

biblici, le discussioni. Le campane chiamano tutti in chiesa per pregare. Centinaia, a volte migliaia di persone, per lo più giovani, da tutto il mondo pregano e cantano insieme ai fratelli della Comunità. Un brano dalle Scritture è letto in diverse lingue. Al centro di ogni preghiera comune c’è un lungo periodo di silenzio, un momento unico per incontrare Dio.

Silenzio e preghiera Se prendiamo come nostra guida il più antico libro di preghiera, il libro dei

Salmi, notiamo due principali forme di preghiera. Uno è un lamento, un grido di aiuto. L’altro è di ringraziamento e lode a Dio. Ad un livello più nascosto c’è un terzo tipo di preghiera, senza domande o più esplicite espressioni di lode. Nel Salmo 131, ad esempio, non c’è altro che tranquillità e fiducia: “Io sono tranquillo e sereno …. spera nel Signore, ora e sempre.”

A volte la preghiera diventa silenziosa. Una tranquilla comunione con Dio si

può trovare senza parole. “Io sono tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre” Come un bambino soddisfatto che ha smesso di piangere ed è nelle braccia della madre, così può “stare la mia anima” in presenza di Dio. La preghiera allora non ha bisogno di parole, forse neppure di pensieri.

Come è possibile raggiungere un silenzio interiore? Qualche volta siamo apparentemente in silenzio, e tuttavia abbiamo grandi

discussioni dentro di noi, lotte con compagni immaginari o con noi stessi. Calmare la nostra anima richiede una specie di semplicità.

“Non mi tengo occupato con cose troppo grandi o troppo meravigliose per me” Silenzio significa riconoscere che le mie preoccupazioni non possono fare molto. Silenzio significa lasciare a Dio ciò che è oltre la mia portata e le mie capacità. Un momento di silenzio, anche molto breve, è come una sosta santa, un riposo sabbatico, una tregua dalle preoccupazioni.

Il tumulto dei nostri pensieri può essere paragonato alla tempesta che

colpisce la barca dei discepoli sul mare di Galilea, mentre Gesù stava dormendo. Come loro possiamo sentirci senza aiuto, pieni di ansietà ed incapaci di calmarci. Ma Cristo è abile nel venire in nostro aiuto. Come rimprovera il vento e il mare e “ci fu una grande calma”, egli può anche donare calma al nostro cuore quando è agitato dalla paura e dalle preoccupazioni. (Marco 4)

Rimanendo nel silenzio, confidiamo e speriamo in Dio. Un salmo ci

suggerisce che il silenzio è perfino una forma di lode. Siamo soliti leggere all’inizio del Salmo 65: “A te si deve lode, o Dio”. Questa traduzione segue il testo greco, ma effettivamente il testo ebraico dice: “Il silenzio è lode a te, o Dio”. Quando le parole ed i pensieri si fermano, Dio è lodato in un silenzio di stupore e ammirazione.

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La parola di Dio: tuono e silenzio Sul Sinai, Dio parlò a Mosè e agli Israeliti. La parola di Dio fu preceduta ed

accompagnata da tuoni e lampi ed un sempre più forte suono di tromba (Esodo 19). Secoli dopo, il profeta

Elia tornò sulla montagna di Dio. Lì sperimentò tempesta,terremoto e fuoco, come era successo ai suoi antenati, ed fu pronto ad ascoltare Dio che parlava nel tuono. Ma il Signore non era in nessuno di quei potenti fenomeni familiari. Quando tutto il rumore terminò, Elia udì “il mormorio di un vento leggero” e Dio gli parlò.(1 Re 19)

Dio parla con voce forte o in un mormorio silenzioso? Dobbiamo prendere come esempio le persone riunite sul Sinai o il profeta

Elia? Potrebbe essere un’alternativa sbagliata. I terribili fenomeni connessi con il dono dei Dieci Comandamenti servono a

mettere in evidenza quanto questi ultimi siano seri. Accoglierli o rigettarli è una questione di vita o di morte. Vedendo un bambino correre sotto una macchina è bene gridare il più forte

possibile. In situazioni analoghe i profeti riferiscono le parole di Dio per far vibrare le

nostre orecchie. Le parole dette ad alta voce sono certamente ascoltate: sono di effetto. Ma

sappiamo anche che difficilmente toccano i cuori. Sono rigettate piuttosto che accolte.

L’esperienza di Elia mostra che Dio non vuole impressionare, ma vuole essere capito ed accettato.

Dio sceglie “il mormorio di un vento leggero” per parlare. Questo è un paradosso: Dio è silenzioso e tuttavia parla. Quando la parola di Dio diventa “il mormorio di un vento leggero” è più

efficiente di altre cose per cambiare i nostri cuori. La tempesta sul Monte Sinai spaccava le rocce, ma le parole silenziose di

Dio sono capaci di fare breccia nei cuori di pietra degli uomini. Per lo stesso Elia il silenzio improvviso era probabilmente più spaventoso

della tempesta e dei tuoni. In qualche modo le manifestazioni potenti di Dio gli erano familiari. Il silenzio di Dio lo disorienta, una cosa così diversa da quella che aveva

sperimentato in passato. Il silenzio ci rende pronti ad un nuovo incontro con Dio. Nel silenzio la parola di Dio può raggiungere gli angoli più nascosti dei

nostri cuori. Nel silenzio, la parola di Dio dimostra di essere “efficace e più tagliente di

ogni spada a doppio taglio; essa penetra fino al punto di divisione dell’anima e dello spirito” (Ebrei 4,12).

Nel silenzio smettiamo di nasconderci di fronte a Dio, e la luce di Cristo ci può raggiungere e guarire e trasformare anche quello di cui ci vergogniamo.

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Silenzio e amore Cristo dice: “Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri,

come io vi ho amati” (Giovanni 15,12). Abbiamo bisogno di silenzio per accogliere queste parole e metterle in

pratica. Quando siamo agitati e irrequieti , abbiamo così tanti argomenti e ragioni

per non perdonare e per non amare. Ma quando “abbiamo calmato e reso quieta la nostra anima”, queste

ragioni ci paiono insignificanti. Forse qualche volta rifuggiamo il silenzio, preferendo qualunque rumore,

parola o distrazione, perché la pace interiore è una cosa rischiosa: ci rende vuoti e poveri, disintegra le amarezze e ci conduce al dono di noi stessi.

Silenziosi e poveri i nostri cuori sono ricolmati dello Spirito Santo, riempiti con un amore incondizionato.

Il silenzio è un umile ma sicuro cammino verso l’amore.

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Il Silenzio di Chissotti, Riccardo

In Massoneria abbiamo appreso che il silenzio sia e vada imposto

all'Apprendista, per agevolare la sua assimilazione dei principi e dei costumi che ci distinguono.

Un apprendimento lento e graduale attuato nell'osservazione e nell'ascolto di Tavole e scambio di opinioni dei Fratelli più anziani.

Per ogni Libero Muratore il silenzio consiste nell'astenersi dal parlare

inutilmente, per il semplice piacere narcisistico di sentire la propria voce o di manifestare la propria presenza, anche quando si è coscienti di non essere in grado di aggiungere alcunché di rilevante alla trattazione corrente.

Occorre però aggiungere che si tratta del silenzio del cuore, consistente nel far tacere le passioni ed i giochi esasperati dell'immaginazione, nonché il pensiero foriero di utilità o costruttività nei confronti degli eventi, delle cose e degli esseri.

Anche questo è un aspetto compreso nell'esclusione dei metalli dal Tempio, requisito indispensabile per l'instaurazione della sacralità rituale, ovvero per la consacrazione dello stesso Tempio.

Cos'è dunque il silenzio? Una semplice condizione ambientale che possiamo creare e mantenere? Oppure si tratta di una condizione surreale, simile a quella descritta da

certi professionisti subacquei arrivati a descrivere stati d'animo sperimentati nel silenzio assoluto degli abissi?

Quegli stati d'animo particolari definiti in successione con termini come timore, paura, sgomento, quiete, calma, distensione, contemplazione, riflessione e meditazione, per culminare in esaltazione, una condizione simile alla beatitudine se non addirittura alla felicità?

Un antico proverbio cita che "A forza di tenere aperta la bocca, si sono

chiuse le orecchie", un detto che nasconde una profonda verità. La parola è il mezzo ordinario di comunicazione fra gli esseri umani, è il

veicolo d'ogni affetto che sottintende la relazione analitica. Proprio perché esprime e provoca questi affetti la parola, certe parole,

acquistano in particolari circostanze significati particolari. Un valido psicanalista, Nacht, ammonisce che "come la parola unisce

accomunando gli uomini, per l'inconscio dell'individuo può diventare quanto separa più profondamente".

Nell'analisi psicoanalitica si è constatato che il silenzio non implica assenza

di comunicazione, in quanto può originare un tipo primordiale, preverbale di comunicazione.

Perché un paziente sotto esame possa arrivare al silenzio, occorre che lo psichiatra lo anticipi in questa condizione, perché bisogna instaurare un

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rapporto funzionale tra i due, affinché si percepisca l'altro come parte, seppur separata, della propria personalità, addirittura della propria coscienza.

Ho voluto esporre questo accostamento perché credo che quanti si siano

posti sulla "strada del ritorno", abbiano necessariamente organizzato sedute psicoanalitiche per sé stessi.

All'inizio si è avuta la sensazione di ignorare del tutto l'altro racchiuso in noi, la parte che imponeva comportamenti e ritmi che non ci erano congeniali, che ci ponevano in uno stato di disagio.

Si crea dapprima il silenzio, che origina sensazioni particolari, paragonabili allo stato di sonno, di inerzia, simile forse allo stato di morte.

Si è bersagliati ed oppressi dalla necessità di uscirne, per cui il pensiero corre presto al desiderio della rinascita.

Ma rinascita implica aver prima subito la morte, o perlomeno la perdita della coscienza, ovvero il decesso psicologico. È proprio la psiche che rifiuta la morte.

Eppure l'intera natura è caratterizzata dalla rinascita, dal morire pressoché

quotidiano, come quotidiano è il rinnovarsi delle cellule del corpo fisico. È però psicologicamente che occorre essere disposti al mutamento, sempre

che non si voglia isterilire, vegetare, invecchiare anzitempo o vivere comatosamente. Il mutamento psicologico è molto più importante di quello fisico, tant'è che suicida è colui che si uccide perché non sa morire psicologicamente per poi ricostituirsi su basi rinnovate.

È nel crogiolo del silenzio del Terapeuta, nell'Atanor alchemico, che la

parola dell'Io cosciente si scopre come fantasma, proiezione deformante della realtà.

Qui si tratta di rendersi interamente disponibili ad accogliere aspetti profondi ed a fondersi con essi.

Uno stato di silenzio veramente realizzato stabilisce comunicazione con l'oggetto del silenzio, attraverso il contatto con il proprio Io interiore realizzato a livelli profondi.

Questo può essere prodotto e realizzato con tecniche particolari di rilassamento e concentrazione, che producono un primo tangibile vantaggio costituito dalla possibilità di vivere il sogno in stato di veglia, dall'immediatezza della sua produzione, senza particolari elaborazioni e distorsioni, in condizione di vigile concentrazione che consente la pronta comprensione anche dei suoi aspetti più arcani.

Ognuno di noi sa certo quanto sia importante approfondire la comprensione della propria personalità.

Se pensiamo che nel sogno si vivono aspetti racchiudenti il lato psicotico della personalità normale, si capirà meglio perché parlavo di vantaggio.

Comunque questi aspetti, proprio perché sono considerati normali, vengono tenuti dissociati, per cui possono portare a vari stati di disagio.

Invece il sogno vissuto in stato di veglia porta ad un'ampia integrazione di questi aspetti, con conseguenti benefici morali e fisiologici.

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La comunicazione verbale presuppone la dualità soggetto oggetto. Il bimbo ha potuto apprendere l'uso del linguaggio solo riconoscendo il diverso da sé, entrando così in rapporto con il mondo esterno.

Da quel momento si è trovato a sperimentare una molteplicità di desideri, che rappresentano l'inseguimento illusorio dell'oggetto unico identificato sotto apparenze diversificate, in quanto annulla la separazione preesistente.

È evidente che la realtà esterna suscita un grande bisogno di possesso che il mondo della molteplicità può solo in parte rinnovare senza mai saziare. Ciò che l'uomo vuole si trova però al di là di queste molteplicità.

Egli può trovare riposo solo dall'unione stretta con l'oggetto, tanto da implicare una vera fusione con esso.

Così liberato dal bisogno di avere, grazie a quest'unione, trova finalmente la quiete rappacificandosi nella gioia di essere.

È un grande bisogno di unione funzionale, ovviamente diretto ad un ordine

di conoscenza squisitamente spirituale, che caratterizza i grandi mistici, i grandi iniziati, i Maestri che conosciamo attraverso la storia e la Tradizione.

Per cui l'evangelica necessità del ritorno alla condizione infantile per aver accesso al Regno dei Cieli, acquista l'evidente significato di "fare silenzio, non aver desideri, passando così dalla condizione d'avere a quella di essere".

Realizzare il silenzio non è né facile né infantile, specie nel corso di questa

nostra esistenza, satura di rumori di varia natura, esterna ed interiore. Mentre non è facile la soppressione di quelli esterni, risulta ancor più

difficoltosa l'eliminazione degli interni, dovuti a sensazioni, sentimenti e pensieri.

Un esempio forse banale ma significativo evidenziante questa difficoltà, è noto a quanti abbiano sperimentato con successo la concentrazione.

Ci si accorge dapprima che il ronzio della mosca come lo scricchiolio d'un mobile siano percepiti come il rombo di un cannone.

Al contrario piccoli ed insignificanti pensieri ed emozioni acquistano particolarmente grande importanza.

Per conseguire il vero silenzio, che nulla ha da spartire con il silenzio di chi

tace perché ha la mente vuota o perché teme di sbagliare, occorre sforzarsi di praticare, di operare ogni giorno.

Se parliamo non possiamo udire. Bisogna far tacere le nostre voci, spogliarci dei pregiudizi e trovare la

capacità di ascoltare con mente e cuore assolutamente liberi. Le tecniche di concentrazione sono innumerevoli, ma la più diffusa e certo

quella Yoga. Infatti il termine sanscrito Yoga significa unione, non solo con il divino, ma integrazione con sé stessi, col proprio Io interiore, ovvero con la nostra componente spirituale e creativa.

Lo Yoga distingue quattro diversi stati di coscienza:

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1) Stato di veglia 2) Stato di sogno 3) Stato di sonno profondo 4) Stato Turiya, che è l'unione dei primi tre. A parte le modalità e le difficoltà di realizzazione, risulta evidente che ad

ogni stato di coscienza corrisponde un livello di silenzio. Quanto più si riesce a raggiungere livelli di coscienza profondi, tanto più creativa diventa la condizione di silenzio acquisita.

La parola crea comunicazione mentre il silenzio crea comunione. Evidente la differenza. Lo stato di meditazione può essere definito condizione psico fisiologica di

attività passiva e di quiete creativa. Non si tratta di una definizione oscura o contraddittoria, trattandosi di una

parte della mente che viene mantenuta sospesa, in attesa passiva del materiale che le perverrà da un'altra parte che, in apparenza, costituisce la componente attiva.

Solo apparentemente però, poiché in realtà è proprio l'atteggiamento di attesa che si dimostra in certo qual modo attivo, stimolando l'emergere (passivo) ed il fluire del materiale associativo.

Il vero silenzio ha come base questa contraddizione di opposti, tipica

dell'essere umano, perché il semplice rilassamento porta inevitabilmente al sonno. Il voler restare svegli ad ogni costo fa perdurare lo stato cosciente, non consentendo allo stato cosciente stesso di arrivare al silenzio.

Il segreto sta nel saper oscillare continuamente tra uno stato di veglia ed uno di sonno, fino a trovare un equilibrio stabile tra le due opposte condizioni.

Analizzando lo sviluppo umano, si nota che esso non è altro che un continuo progresso dal sonno.

Da quello quasi continuato del neonato si va verso un progressivo risveglio della coscienza, alla crescita dell'Io corrisponde sempre una diminuzione della necessità di dormire.

L'iniziato è anche definito risvegliato, perché ha la capacità quasi mai

sfruttata di restare sempre sveglio, anche nel sonno, anche se questa è una condizione essenzialmente diversa dal semplice essere sveglio.

È un vero salto di qualità, un vivere contemporaneamente a due livelli diversi. Questa necessità di equilibrio fra due opposti è stata espressa nella Tradizione iniziatica con vari simboli.

Uno dei più conosciuti è il Caduceo ermetico, rappresentazione grafica della teoria indù della Kundalini, l'energia sessuale che, destata con opportuni esercizi, risale lungo la colonna vertebrale lungo due opposti canali che si incrociano nei centri sottili, appunto come il caduceo.

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Altro simbolo è costituito dall'Androgino ermetico, dal Rebis di Basilio

Valentino, in cui natura maschile e femminile, positivo e negativo, materiale e spirituale, sono perfettamente bilanciati.

Vi è un ulteriore simbolo, forse ancor più semplice e noto. In questo gli

opposti sono graficamente rappresentati da due segmenti che si incrociano, uno orizzontale esprimente la passività ed il materialismo (squadra) e l'altro verticale esprimente l'attività e la spiritualità (compasso).

Si tratta del simbolo della croce, dai molteplici aspetti e significati, comunque ben noto a tutte le scuole iniziatiche.

La psiche può essere paragonata alla superficie dell'acqua di uno stagno.

Quando non è agitata si ha uno stato di quiete e di silenzio interiore, il raggio della coscienza la può attraversare ed illuminare in profondità.

Al formarsi di un'onda il movimento superficiale può formare un'immagine riflessa, che può diventare chiara e riconoscibile.

Quanto più si riesce a raggiungere uno stato di silenzio interiore, tanto maggiore sarà la limpidezza e la possibilità di identificazione e di riconoscimento dell'Io, anche se ovviamente talune reazioni restano determinate da stimoli esterni.

Abituarsi a tollerare l'immobilità ed il silenzio costituisce un modo di

liberarsi dall'impiego ripetitivo dei movimenti, del linguaggio e del pensiero, diventando così più genuini e liberi.

Il senso di continuità della coscienza è tenacemente legata alla continuità del pensiero, per cui ci sentiamo costretti ad una continua agitazione mentale tale da garantirla.

I pensieri affluiscono alla mente senza sosta, in modo disordinato, ed anche se ci sforziamo di ordinarli in modo logico, restiamo sempre schiavi del pensiero. In realtà noi non pensiamo ma siamo pensati.

Per porre rimedio a questo stato di cose dobbiamo imporci di inserirci in questo vuoto. È allora che cominceremo a sperimentare il vero silenzio.

Con ripetuti tentativi si riuscirà ad ampliare questo spazio e acquisiremo esperienze davvero interessanti.

Talune condizioni di tipo mistico ed iniziatico sono ben diverse anche se simili, nella sostanza, ad analoghe manifestazioni psicotiche.

Realizzando di fatto la condizione di silenzio profondo, si può raggiungere

uno stato di regressione controllata, che permette una fusione con la cosa contemplata, sia essa un oggetto, un pensiero od un simbolo.

È un sistema completamente diverso da quello scientifico, conduce alla conoscenza e presuppone l'osservazione della cosa da parte di un soggetto totalmente distaccato, mai un fondersi tra i due.

Un rapporto fusionale consente la penetrazione dentro l'oggetto, un guardarlo dall'interno.

Per cui conoscere il fiore è essere il fiore, fiorire come il fiore, godere tanto del calore solare quanto dell'umidità della pioggia.

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Se ciò avviene, il fiore ci parla, ci rivela i suoi segreti, le sue gioie e le sue pene.

Allo stesso modo si possono comprendere tutti i segreti dell'universo, che includono tutti i segreti dell'Io, quel mio Io che ho ricercato ed inseguito poiché ho scisso me stesso in una dualità, inseguitore ed inseguito, l'oggetto e la sua ombra..

La realizzazione di un simile stato di consapevolezza richiede il

mantenimento di buona parte di sé stessi in condizione di immobilità spettatrice.

Una singolare utopia sarebbe trasformata così in stato di forza dell'Io, tale da consentire di tacere senza dormire, consentendoci di trasformarci da normali individui separati in corpo ed anima, materia e spirito, in un tutt'uno con l'universo.

Non è cosa facile il conseguimento del silenzio sfruttandone i vantaggi,

esattamente come è complesso il diventare veri Massoni. Le vie tracciate dai saggi che ci hanno preceduti nella via iniziatica, che

hanno lasciato tracce per noi della loro Fede, non sono facili da percorrere. Non potrebbe essere altrimenti, in quanto diversamente non potremmo veramente acquisire merito alcuno per smaltire parte del fardello karmico di cui siamo gravati.

Cosa ci distinguerebbe dal resto dell'umanità se così non fosse? Che significato potrebbe avere l'iniziazione?

Riflettiamo su questa differenziazione, su queste difficoltà, sulle enormi

soddisfazioni che ci sono però riservate qualora vedessimo realizzati attraverso i nostri sforzi i nostri supremi ideali.

Senza dubbio persone amiche, ed ancor più esseri che si amano, realizzando uno stato di silenzio possono raggiungere una comprensione reciproca, un'armonia, una condizione di piacere e di benessere ineguagliabile, incomprensibile da parte di chi non lo abbia mai potuto sperimentare.

Appartenendo ad un ordine iniziatico prima o poi lo si sperimenta. In quel silenzio la distinzione tra me e te è annullata, ogni cosa diventa unica con noi stessi, come una voce interiore per cui la mia voce diventa la tua, e la tua è la mia voce: è la Comunione.

La Catena viene così realizzata come sublime esaltazione del silenzio. È la

Catena d'Amore, l'unione che origina la Fede comune, da cui scaturisce la Forza dà volontà e perseveranza per conseguire le finalità che sono nostre dall'iniziazione.

Una Forza che non svanisce allo scioglimento della Catena perché resta in noi, per aumentare le nostre energie che ci consentiranno di vivere in simbiosi con ideali e principi muratori il messaggio di vera Libertà, Uguaglianza e Fraternità.

Le virtù fondamentali per la costituzione di un mondo migliore rappresentato dal Tempio dell'Umanità.

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Elogio del silenzio Alla ricerca di un'assenza di parole,

di suoni e rumori. Come nutrimento per la mente, oltre che per il corpo

di Giuseppe Jisõ Forzani* Il silenzio non si può dire, ma parlarne si può. Con prudenza e pudore, ogni

tanto è salutare provarci. Per sfatare i pregiudizi che il silenzio circondano, intessuti di fastidio, paura, infatuazione.

È diffusa, oggi, l'antipatia per il silenzio, quasi fosse una condizione di impotenza, privazione, handicap: il rovescio oscuro del suono, della parola, del rumore. Una tenebra di solitudine opposta alla compagnia luminosa dell'eloquio, della musica, del brusio.

Il silenzio è ormai quasi istintivamente compreso per lo più in senso negativo, come una mancanza, un'assenza e non come una condizione fenomenica con le proprie autonome categorie di realtà.

In un'epoca in cui la diversità, dopo esser stata brevemente occasione di curioso e condiscendente interesse, sembra tornare al consueto ruolo di bersaglio fisso per le irrisolte aggressività individuali e collettive, il silenzio simboleggia il diverso.

E assume connotazioni sospette, quasi tendesse agguati totalitari e mortali alla vivacità democratica del suono. Oppure, specularmente, a fronte del fastidio che il crescente inquinamento acustico e il continuo cicaleccio di parole vane ci infliggono, il silenzio si ammanta per alcuni di un'aura mitica, quasi fosse il balsamo che lenisce ogni ferita.

Queste semplicistiche schematizzazioni, di cui spesso siamo complici, provengono da una concezione del silenzio come "il contrario" del suono: ma così non è. Fra quelle due realtà non vi è un rapporto relazionale.

Suono e silenzio sono interdipendenti, nel senso che definiamo e nominiamo l'uno in base all'idea che abbiamo dell'altro, ma fra i due non c'è alcuna relazione costitutiva: infatti quando c'è uno, l'altro non esiste in alcun modo e forma.

Non sono neppure l'uno l'opposto dell'altro, così come la morte non è l'opposto della vita: forse potremmo dire che sono inter-indipendenti. Solo cogliendo la loro reciproca autonomia, si rivela la ricchezza multiforme del suono e del silenzio.

La potenza espressiva del silenzio, infatti, la sua carica comunicativa non sono certo inferiori a quelle del suono: così come le qualità, i modi, le sfumature dei silenzi non sono meno variegate delle forme dei suoni.

Proviamo dunque a tessere un piccolo elogio del silenzio, non fosse che per rendercelo più simpatico o almeno un po' più familiare, o comunque non oggetto di pregiudizievoli ostracismi né richiamo per infantili fascinazioni. Con il termine generico di silenzio indichiamo situazioni e atmosfere che dischiudono realtà molto differenti e a volte antitetiche l'una dall'altra.

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Non posso qui che accennare scegliendo a caso alla sconfinata gamma dei silenzi che sono parte integrante dell'umana esperienza. Il silenzio è, anzitutto, interiore o esteriore.

C'è il silenzio della natura, fenomenico, che si manifesta come una sospensione dei suoni naturali: il silenzio del vento che tace, l'improvvisa simultanea quiete del brusio delle cicale un attimo fa assordante, il silenzio che segue lo scoppio rotolante del tuono, il silenzio che precede l'alba, prima che il primo trillo saluti la creazione che di nuovo incomincia.

C'è il silenzio ontologico, che incrina la barriera fra essere e non essere, il silenzio di Dio, spazio della tragedia e della libertà, origine dell'avventura e dell'angoscia, il silenzio di Buddha, che non risponde e scioglie il punto interrogativo alla domanda, il silenzio della ragione, che non è il suo sonno, ma riposo all'ombra della soglia.

C'è il silenzio del pensiero, nelle sue tante forme: smarrimento del filo e perdita di orientamento, oasi di pace nel deserto della dialettica infinita, margine al bordo dell'abisso o vetta al confine del cielo, spazio infinito che il pensiero evoca e in cui s'annega.

C'è il silenzio della parola, nei suoi innumerevoli aspetti. Impossibilità fonetica fisiologica, privazione del lessico per lo straniero ignaro dell'idioma, negazione della libertà di espressione là dove la parola è controllata e uniforme, reticenza a dire per paura del giudizio, raggiunto limite delle capacità espressive, volontaria rinuncia ascetica, intensa attenzione che predispone all'ascolto, incondizionata apertura all'inaudito, resa condizionata dall'impossibilità di dire.

Sono silenzi di timidezza, reticenza, pudore, omertà, segreto, pietà. Il silenzio è un'esperienza variegata e multiforme, che fa parte della vicenda esistenziale umana, e come tale da assaporare, conoscere, valorizzare, evitare. Non necessariamente va lasciata al caso o alla consequenzialità delle circostanze, ma può e, io credo, dovrebbe essere anche coltivata.

Così come il rapporto del soggetto parlante con la parola che pronuncia o scrive non è determinato solo dall'abitudine alle convenzioni lessicali o dalla fantasia della momentanea improvvisazione.

Ma è anche studio, ricerca, approfondimento del senso del dire e del modo di dirlo.

E va coltivato, nutrito, il rapporto del soggetto silente con il silenzio che ascolta o esprime, per non essere abbandonato all'estro del caso. L'educazione all'ascolto, presupposto di ogni dialogo autentico, compreso quello con se stessi, si fonda sulla capacità di fare silenzio.

Se, mentre ascolto la parola dell'altro (o il suono di una musica, o il passaggio del vento) io non sono capace di fare silenzio dentro di me, se non faccio tacere il brusio dei pensieri, delle riflessioni condizionate, delle emozioni istintive, io forse sento i suoni che mi giungono all'orecchio, ma certo non li ascolto per quello che sono, in tutta la loro potenza espressiva.

Il rapporto con il silenzio è una funzione esistenziale primaria, alla quale ci si deve educare tramite quell'esercizio o quella pratica che definiamo "fare silenzio".

Fare silenzio non vuol dire imporsi o farsi imporre un tacere esteriore e interiore passivo, subìto, ma ampliare lo spazio interiore, che è potenzialmente

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sconfinato ma normalmente ingombro di ogni genere di oggetti-pensiero. Vuol dire riconoscere il valore espressivo del silenzio, comprenderlo come piena partecipazione e non come passiva ricezione, come nutrimento dello spirito, della mente e persino del corpo.

Non è per niente facile fare silenzio, anche perché da secoli la nostra cultura ha imboccato la strada di considerare parola e silenzio come antitetici nemici (i vassalli rispettivamente dell'essere e del non essere) e non ha elaborato un'educazione affettuosa al silenzio.

Anche là dove la meditazione è rimasta come pratica tramandata, si tratta per lo più di meditazione pensata, tecnica psichica, esercizio di elaborazione di immagini mentali, per raggiungere un qualche stato interiore desiderato.

Un rapporto immediato, totale, assorto e vigile con il silenzio non viene proposto come pratica dalla nostra cultura filosofica e religiosa, ma viene abbandonato al sortilegio dell'attimo.

L'amicizia con il silenzio, come ogni amicizia, è un bene di cui avere cura. Altre culture, altre sensibilità ed esperienze, in particolare orientali, che oggi si incrociano con le nostre, ci fanno conoscere modalità di fare silenzio, con la mente e con il corpo, che possiamo imparare e far nostre.

Penso si tratti di una delle non molte speranze che visitano oggi il nostro presente. La ricerca è affidata a ciascuno. Il criterio per distinguere, rispetto al silenzio, la paglia e l'oro credo sia questo: se la meta della meditazione proposta è uno stato di benessere e pace, se il silenzio interiore si ammanta di aggettivi e promesse, siamo nell'ambito del gioco mentale; se si tratta soltanto di sedere in silenzio, siamo alla soglia del fare silenzio.

Ma un elogio del silenzio non può terminare qui. C'è un elemento straniante che sostanzia il silenzio e che le parole su di

esso non possono restituire. Non trovo modo migliore, per testimoniarlo, che raccontare brevemente una storia vera. P. coltiva una forma particolare di silenzio, o forse è lui coltivato da essa.

A un anno di età si ammala gravemente e, dopo inutili cure dolorose, torna a casa destinato a morire. Di colpo, però, guarisce senza apparente spiegazione; contemporaneamente smette di parlare.

Ormai da più di dieci anni non parla, ma sente e ascolta. E in rare occasioni, brevemente, dice.

Vive con sua madre, L., e un giorno giunge in visita un'amica, impegnata da una lunga malattia e dalle cure per debellarla: racconta l'angoscia della notizia del male, i preparativi e i postumi del difficile intervento, la lenta convalescenza, i cicli di cure che guariscono e ammalano, il nuovo corpo, la nuova persona che emerge, la solitudine che circonda il malato...

L'amica racconta, L. ascolta e P. va su e giù, saltella, passeggia avanti e indietro, vicino e lontano, avvolto come in un'aura nel suo silenzio. Il racconto volge alla fine, si condensa nella domanda: "Che fare in questa situazione?". P. blocca il suo andirivieni.

Quando si ferma così, all'improvviso, il tempo e lo spazio si fermano insieme. Tutto si arresta con lui, la parola si spegne, il silenzio di P. avvolge e Silenzio e Attenzioni

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Tema difficile che cercherò di sviluppare per quanto posso utilizzando le

parole, conscio che non è possibile mettere nero su bianco alcune cose. Ogni tradizione che si rispetti incorpora nei suoi parametri la ricerca del

Silenzio, questa è una delle cose più difficili da Comprendere, iniziamo con il dire che non si parla di silenzio acustico, non solo quello almeno, si parla di silenzio totale, anche perchè qui nel nostro ambiente il silenzio (acustico o di altro tipo, inteso come assenza di vibrazione etc) non esiste, il massimo raggiungibile è l'aumento del "rumore" (non inteso come/solo acustico) a tale livello da farcelo percepire come Silenzio... c'è sempre un cerchio Alfa Omega alla fine...

Altro aspetto anche richiamato da tutte le tradizioni anche se a differenza del silenzio usando termini diversi è l'Attenzione, utilizzo questa parola perchè ai fini di questo discorso è quella che più si adatta nei nostri termini occidentali moderni.

Sappiamo tutti che viviamo in un mondo relativo, basta cambiare punto di vista per cambiare una buona fetta del nostro panorama percettivo, entrare in una stanza con il naso e le orecchie tappata ci farebbe percepire una stanza diversa dall'entrare nella stessa normalmente, e stiamo parlando solo dei 5 sensi, in realtà possiamo dire che dove/come noi puntiamo l'attenzione quello sarà il nostro mondo, facendo un esempio anche più emozionale se una persona è attaccata all'apparire camminando per strada dividerà tutto in bello e brutto, si dice che non coglierà le sfumature, cioè la sua attenzione è focalizzata in quel senso... ripeto sto facendo esempi banali per introdurre.. ma tutto quello che percepiamo dipende dalla "larghezza di banda" della nostra Attenzione.

Tutto quello che non è raggiungibile normalmente da una larghezza massima di Attenzione è Silenzio, è al di fuori... noi lo percepiamo come silenzio, l'Umano nel corpo ha la possibilità di sperimentare e conoscere 3 Attenzioni, cioè tre zone che prese singolarmente sono mondi reali a tutti gli effetti con altri 2 di silenzio (da quel punto di vista).

Ci siamo? Se io sono immerso dentro una vasca da bagno, ponendo che non possa

vedere e sentire rumori fuori quello è un mondo, fuori ce n'è un'altro ma per me è silenzio, se io esco fuori della vasca sento e percepisco il mondo normale, ma quello dentro la vasca è silenzio....... sempre esempi banali prendeteli come sono non attaccatevi a questi (uno a caso? LB? ).

Come dicevamo sopra all'interno di ognuna di queste 3 attenzioni, ci sono punti dove il nostro Essere si "fissa"... possono essere statici oppure in movimento, posso fluttuare solo entro un certo range (intervallo, spazio) oppure essere più "liberi"...

la prima Attenzione è quella comune in cui viviamo, è questo mondo e come lo percepiamo, a seconda di quanto il nostro punto di fissaggio è fermo la nostra visuale sarà ridotta, più questo (punto di fissione) si muove e più percepiamo, siamo coscienti di una parte più grande nello stesso momento, più lo fa velocemente e più siamo quello che io definisco "svegli", perchè anche un punto che si muova molto ma lentamente renderà un individuo senza idee fisse ma non integrate... esempio stupido abito in Italia e vado negli Usa tutti i

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mesi, avrò in me entrambe le realtà, se invece vado negli Usa e ci stò 20 anni, acquisterò la coscienza degli Usa ma "perderò" quella italiana, cioè avrò quella italiana di 20 anni prima per cui in pratica avrò perso quella di adesso, lo stesso vale con il punto di percezione più si muove in largo e più velocemente e più ho dati che arrivano da ovunque... in questa prima attenzione.

mi fermo un momento non sono sicuro che sia tutto chiaro La ricerca del Silenzio in questo senso acquista valore di espansione...

ossia rappresenta la ricerca dell'ignoto. Ricercando il Silenzio ci si spinge ad uscire fuori da un mondo (quello conosciuto) per entrare in un altro.

Se il Silenzio cioè rappresenta ciò che sta oltre il limite massimo dei nostri sensi, oltre al quale appunto non percepiamo, la sua ricerca ci proietta al di là del comune mondo conosciuto, ossia al di là dei nostri stessi sensi...

A grandi linee (e quindi in maniera sicuramente semplicista) potremmo dire

che il Silenzio rappresenta la "porta" verso nuovi mondi, e l'Attenzione il mezzo con cui poterne esserne coscienti..

Data registrazione: 24-01-2006 Messaggi: 1,561 Pasta del capitano. Per muovere l'attenzione bisogna esercitare l'intento... ma se non si e' in

uno stato di silenzio tutto e' vano... L'intento (se ben allenato) agisce in parte sulla valvola psichica e in parte

sul testimone silenzioso... L'attenzione raggiunge diversi livelli di realta' a seconda della "profondita'"

dell'intento... L'intento e' semplicemente il non fare... e' una sorta di agire nel non

agire... sembra un paradosso... anzi lo e'... ma non conosco parole che meglio possano esprimere il concetto d'intento...

un esempio puo' essere questo... l'intento e' il timone di una nave... l'attenzione e' la nave... il capitano della nave e' il testimone silenzioso... il mare calmo e' il silenzio interiore... l'orizzonte e' sconosciuto... ufff... che voglia di mare che mi prende...

Citazione: Tutto quello che non è raggiungibile normalmente da una larghezza

massima di Attenzione è Silenzio, è al di fuori... noi lo percepiamo come silenzio, l'Umano nel corpo ha la possibilità di sperimentare e conoscere 3 Attenzioni, cioè tre zone che prese singolarmente sono mondi reali a tutti gli effetti con altri 2 di silenzio (da quel punto di vista).

Ci siamo? Se io sono immerso dentro una vasca da bagno, ponendo che non possa vedere e sentire rumori fuori quello è un mondo, fuori ce n'è un'altro ma per me è silenzio, se io esco fuori della vasca sento e percepisco il mondo normale, ma quello dentro la vasca è silenzio....... sempre esempi banali prendeteli come sono non attaccatevi a questi (uno a caso? LB? ).

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Hai scritto che le tre zone, prese singolarmente sono mondi reali, con due

di silenzio..nell'esempio (scusa Capo ) vedo solo due zone.. in entrambi i casi. Potremmo dire, nell'esempio che se sono dentro alla vasca, non sento i rumori fuori, e nemmeno quelli della stanza accanto per esempio? E se esco dalla vasca, non sento il mondo che sta all'interno della vasca, ma nemmeno quello della stanza accanto..

Data registrazione: 28-05-2004 Messaggi: 6,297 Citazione: Originalmente inviato da RedWitch Hai scritto che le tre zone, prese singolarmente sono mondi reali, con due

di silenzio..nell'esempio (scusa Capo ) vedo solo due zone.. in entrambi i casi. Potremmo dire, nell'esempio che se sono dentro alla vasca, non sento i rumori fuori, e nemmeno quelli della stanza accanto per esempio? E se esco dalla vasca, non sento il mondo che sta all'interno della vasca, ma nemmeno quello della stanza accanto..

Si si.... gli esempi erano solo per far capire che quando sono immerso in un

mondo percepisco gli altri come silenzio..... quindi caro gufetto il silenzio è interiore ma anche esteriore poi...

"quando farete il dentro come il fuori e di due cose una cosa sola" Non muovo l'attenzione ma il punto in cui si fissa... lo so che sembra la mia

solita pignoleria... ma è importante.... non dico adesso cosa cambia. Sorry... hai ragione Uno... in effetti non e' pignoleria... Per il silenzio ho da aggiungere un esempio... Si puo' essere soli in mezzo al mercato di paese... Citazione: Originalmente inviato da Uno Non muovo l'attenzione ma il punto in cui si fissa... lo so che sembra la mia

solita pignoleria... ma è importante.... non dico adesso cosa cambia. Un po' come quando si guarda un panorama... Si vede tutto insieme, ma si

osserva una sola cosa per volta.. la nostra attenzione si fissa prima sul paesetto a valle, poi sale su per il monte, ammira il cielo, poi l'aquila che sta planando verso est... etc..

Più velocemente riusciamo a muovere questo punto di fissione, più riusciamo ad avere una visione globale, fino quasi a "fissare tutto nel medesimo momento".

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"Non muovo l'attenzione ma il punto in cui si fissa... lo so che sembra la mia solita pignoleria... ma è importante.... non dico adesso cosa cambia."

quindi non fissarsi è come non guardare un punto fisso...ma lasciar correre lo sguardo libero e ampio? (apertura? in tutti i sensi) eddai faccio da me __________________ Dio mi conceda la serenità di accettare le cose che non posso cambiare il coraggio di cambiare quelle che posso cambiare e la saggezza di distinguere tra le une e le altre Citazione: Originalmente inviato da Kael Un po' come quando si guarda un panorama... Si vede tutto insieme, ma si

osserva una sola cosa per volta.. la nostra attenzione si fissa prima sul paesetto a valle, poi sale su per il monte, ammira il cielo, poi l'aquila che sta planando verso est... etc..

Più velocemente riusciamo a muovere questo punto di fissione, più riusciamo ad avere una visione globale, fino quasi a "fissare tutto nel medesimo momento".

Il focalizzare l'attenzione sul " globale " deriva dalla espansione ovvero, da

una comprensiva considerazione del paesaggio? Ciò che si muove è il punto " di fissione " non l'attenzione, giusto? Questo più è veloce, più si riesce a " percepire " tante realtà

contemporaneamente; quindi da questo il termine " espandere " comprende la velocità del punto di fissione in maniera tale che io possa avere una

" fotografia dell'istante "? __________________ Dr. Marc Haven “Non deve essere l’alba di luce che deve iniziare ad avvisare la tua anima di

tali doveri giornalieri e dell’ora in cui gli incensi devono bruciare sui fornelli; è la tua voce, solo lei che deve chiamare l’alba di luce e farla brillare sulla tua opera, alfine che tu possa dall’alto di questo Oriente, riversarla sulle nazioni addormentate nella loro inattività e sradicarle dalle tenebre in cui versano.”

Originalmente inviato da Uno Tema difficile che cercherò di sviluppare per quanto posso utilizzando le

parole, conscio che non è possibile mettere nero su bianco alcune cose. Ogni tradizione che si rispetti incorpora nei suoi parametri la ricerca del

Silenzio, questa è una delle cose più difficili da Comprendere,

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Tu parli di tre attenzioni: io le interpreto: 1) attenzione per il mondo che ci circonda in generale; 2) attenzione per il nostro mondo personale, la nostra casa, le persone che

conosciamo 3) attenzione rivolta a noi stessi Due silenzi (che silenzi non sono): 1) silenzio del mondo intorno a me quando mi chiudo in una stanza tutta

mia e lascio fuori l'esterno. 2) silenzio dentro di me (con questo silienzio intendo far tacere i miei

pensieri) cercando di udire il rumore di sottofondo.... e poi fare silenzio anche di quello.... questo lo chiamo passaggio da mente esteriore ad essere interiore, e penso sia questo che tutte le tradizioni chiamano Silenzio.

Se ci chiudiamo nella nostra stanza (fisica e mentale) potremmo anche arrivare ad un relativo silenzio, ma... appena fuori dalla nostra stanza saremo di nuovo sopraffatti dai nostri pensieri e la nostra attenzione si sposterebbe dall'intero all'esterno, di modo che il di dentro non coincide con il fuori (separazione).

Se per trovare il nostro essere interiore abbiamo bisogno del silenzio interno ed esterno, però,non viviamo pienamente la nostra vita in tutti i suoi aspetti, se per trovare il nostro essere interno dobbiamo spostare continuamente l'attenzione....verso il nostro sè.

Per vivere sempre la verità del nostro essere interiore, non solo qualche volta quando ci isoliamo, di modo che la conquista del nostro vero essere interiore si possa applicare all'esterno verso il mondo che ci circonda, dovremmo imparare a essere fuori come siamo dentro, di modo che anche in una strada piena di gente dentro di noi siamo nella nostra stanzetta ma esteriormente siamo in mezzo agli altri e li vediamo con i nostri occhi interni, non esterni, non so se sono riuscita a spiegarmi... e non so se ho capito quello che volevi dire.

Riguardo all'attenzione, più allarghi i tuoi orizzonti e più ti espandi, e questa espansione arricchisce anche il tuo essere interiore, fino a che in questo continuo scambio i due saranno una cosa sola e noi saremo veramente noi in qualsiasi parte del mondo ci troviamo.

No Stella non hai capito cosa intendevo, anche se il tuo ragionamento non

fa una piega parlavo di tre veri e propri mondi... (i tre accessibili all'Umano in questa forma) per dirla papale papale, se entrassimo completamente in un'altra attenzione spariremmo fisicamente da qui e compariremmo in un'altro mondo, questo che adesso è "rumore" sarebbe per noi silenzio, e mettendo di poter tornare "indietro" non ricorderemmo dove siamo stati e cosa abbiamo fatto... a meno che non ci fossimo preparati prima.

Il tuo discorso però si può vedere nell'ottica del "Ciò che è in basso è come

ciò che è in alto...." come specchio di un'altra realtà.. e metaforicamente rende bene anche quella.

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Citazione: Originalmente inviato da Uno Come dicevamo sopra all'interno di ognuna di queste 3 attenzioni, ci sono

punti dove il nostro Essere si "fissa"... possono essere statici oppure in movimento, posso fluttuare solo entro un certo range (intervallo, spazio) oppure essere più "liberi"...

la prima Attenzione è quella comune in cui viviamo, è questo mondo e come lo percepiamo, a seconda di quanto il nostro punto di fissaggio è fermo la nostra visuale sarà ridotta, più questo (punto di fissione) si muove e più percepiamo, siamo coscienti di una parte più grande nello stesso momento, più lo fa velocemente e più siamo quello che io definisco "svegli", perchè anche un punto che si muova molto ma lentamente renderà un individuo senza idee fisse ma non integrate... esempio stupido abito in Italia e vado negli Usa tutti i mesi, avrò in me entrambe le realtà, se invece vado negli Usa e ci stò 20 anni, acquisterò la coscienza degli Usa ma "perderò" quella italiana, cioè avrò quella italiana di 20 anni prima per cui in pratica avrò perso quella di adesso, lo stesso vale con il punto di percezione più si muove in largo e più velocemente e più ho dati che arrivano da ovunque... in questa prima attenzione.

Questo punto di fissaggio mi fa venire in mente il punto di assemblaggio (o

di unione) citato da Castaneda e situato in una zona definita sulla superficie dell’uovo (o bolla ) che se viene spostato rende possibile la percezione di altre realtà diverse da quella ordinaria.Tanto per capire è la stessa cosa? Mi confonde il fatto che tu scrivi che ci sono punti di fissaggio per ognuna delle tre attenzioni. Prendendo in considerazione il punto di fissaggio all’interno della prima attenzione è possibile imparare a muoverlo consapevolmente e in modo mirato per arrivare ad essere “svegli”?

Questo punto di fissaggio mi fa venire in mente il punto di assemblaggio (o

di unione) citato da Castaneda e situato in una zona definita sulla superficie dell’uovo (o bolla ) che se viene spostato rende possibile la percezione di altre realtà diverse da quella ordinaria.Tanto per capire è la stessa cosa? Mi confonde il fatto che tu scrivi che ci sono punti di fissaggio per ognuna delle tre attenzioni. Prendendo in considerazione il punto di fissaggio all’interno della prima attenzione è possibile imparare a muoverlo consapevolmente e in modo mirato per arrivare ad essere “svegli”?

Si è la stessa cosa, definita diversamente, non volevo limitarmi a

Castaneda anche se è quello che ha usato termini simili, non volevo usare quesi termini proprio per quello... ma sono quelli che più rendono oggi. Ci sono punti infiniti di fissaggio... infatti lui parla di punto di unione cioè, il punto in cui ci s fissa tra i tanti... Capito? E' la stessa cosa ma vista da due lati diversi...

Si che è possibile imparare a muovere il punto di unione con volontà, una volontà diversa da quella che crediamo noi essere volontà, in un certo senso sembra che si faccia da solo, in realtà bisogna prepararsi per questo e poi lasciare che si faccia solo all'ultimo.

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Don juan parlava di spostare il punto d'attenzione nella fascia dell'aquila...

ma per fare questo usava il mescalito o il fumo... questo per alterare l'apertura della valvola psichica con sostanze psicotrope... ma ritengo non sia necessario utilizzare sostanze che alterano la percezione della "realta'"... la valvola psichica puo' essere controllata con l'intento... cosi' come il testimone silenzioso... il fare nel non fare e' l'ultima fase... prima c'e' un'allenamento delle suddette... nel romanzo di Castaneda il protagonista conclude il suo tirocinio lanciandosi da una rupe... senza morire... "fisicamente" cambia mondo... un bel romanzo...

Citazione: Originalmente inviato da DanieleAsunis Capito poco x adesso, puoi fare un esempio di 'punto di fissaggio' e un

esempio del movimento di questo 'punto di fissaggio' ? Non è facile, gli esempi banalizzano dovrei fartelo provare per farti

Comprendere realmente. Ci provo Sono sicuro che conosci il color picker per scegliere il colore nei programmi

di grafica (ne allego due immagini), il punto che ho marcato circondato con il rosso possiamo dire che è il nostro punto di unione... il punto in cui il nostro nucleo converge... dove la nostra coscienza è "magnetica" (passami il termine), come vedi se muovi quel punto nel triangolo il colore sotto cambia, ecco quella è la nostra percezione, se spostassimo l'altro punto (quello nel cerchi esterno) cambieremmo attenzione, cioè tutto il triangolo cambierebbe completamente (cambieremmo mondo)...

Mi fermo per vedere se si capisce..... Forte sto color picker è la prima volta che lo uso così... del resto noi

copiamo quello che già esiste... e questo proprio con i colori, il triangolo etc etc è un microcosmo che molto dice su chi siamo, dove siamo etc etc

Anzi rincaro la dose e metto anche un simbolo antico come terza immagine (oggi sfruttato male per spettacolo ) che sempre si integra nel discorso e per ora vi lascio studiare da soli

DanieleAsunis Pensa di allungare la permanenza Ok, la dinamica è chiara. Diciamo che il punto che sta nel triangolo è una

prospettiva, o più semplicemente un punto di vista, no? Se cambio prospettiva o punto di vista, entro certi limiti cambio ciò che

percepisco. Per es posso avere una gigantesca passione per i cani finchè uno non mi

morde e mi manda una settimana all'ospedale, dopo quell'esperienza percepisco i cani diversamente da come li vedevo prima. Questo intendi per il movimento del triangolo?

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Intuisco leggermente cosa intendi per spostamento nel cerchio esterno, per

esempio il passaggio dalla veglia al sogno? Dico questo con qualche remora perchè vedendola così, se parli di tre attenzioni differenti non mi tornano i conti.

Per esempio, mi è capitato una volta di ritrovarmi improvvisamente senza

corpo ma perfettamente vigile e cosciente. Così, all'improvviso, stavo seduto sul letto, rilassato, niente più corpo e ho cominciato a galleggiare verso su con il senso della vista intatto.

Vedevo la stanza dall'alto. Praticamente durante l'esperienza ho cambiato improvvisamente prospettiva (perdendo quella fissa sul corpo) e ho perso una certa capacità di controllare l'attenzione, ma non si trattava di un'attenzione diversa dalla solita...

Citazione: Originalmente inviato da DanieleAsunis Ok, la dinamica è chiara. Diciamo che il punto che sta nel triangolo è una

prospettiva, o più semplicemente un punto di vista, no? Se cambio prospettiva o punto di vista, entro certi limiti cambio ciò che

percepisco. Inz....omma Non è solo un punto di vista... se il mio punto di unione è quel puntino, a

seconda di dove è viene investito da un'infinita serie di direttrici.. impulsi... dati... flussi... ed è formato da questi... (non so come definire in maniera che sia chiara a tutti), esteriormente può sembrare un punto di vista ma è diverso da vedere per esempio le cose dall'altezza di 1 metro o di 5.... con lo spostamento "cambi" tu... mentre con lo spostamento del punto di vista sei sempre uguale ma vedi le cose in maniera diversa... prova a studiare anche il terzo simbolo e vedilo dentro il color picker... vedi i movimenti... ok di questo mi "pentirò" lo so già

Oggi mi sento particolarmente generoso per chi segue i discorsi sull'Alchimia o altre Tradizioni provate a vedere

nella posizione dirtta i tre apici del triangolo che colori danno.... Poi per quelli proprio bravi si può notare che l'opposto del nero nel cerchio

esterno è giallo... infatti per passare dalla prima attenzione alla seconda si passa un "muro" giallino (se si percepisce il passaggio altrimenti vi sto raccontando le favole) per la bianca invece c'è un viola/fucsia che riconoscerete come colore delle vesti di certi ordini sacerdotali (compresi i "nostri" cattolici")... il secondo passaggio....

Oggi proprio sono loquace.... tanto pochi apprezzeranno... I colori non sono giusti ma rende bene le tre sfere che rappresentano i tre

mondi.... bravo Gufetto... quando ce vò... ce vò

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Citazione: Originalmente inviato da Uno I colori non sono giusti ma rende bene le tre sfere che rappresentano i tre

mondi.... bravo Gufetto... quando ce vò... ce vò Ma dimmi un po'... che colori ci vedresti bene per l'arredo?... (l'originale si

trova sopra la volta d'ingresso del castello di Vignola)... chi passasse da queste parti consiglio la visita...

Ho corel draw e il color piker nn c'è Comunque l'altro simbolo evidenzia quattro elementi, un mondo centrale? più altri tre, ciascun semicerchio va a toccare gli altri elementi. Purtroppo non ho mai 'seguito' le Tradizoni Esoteriche Occidentali, qualcosa

di 'Orientale' ma principalmente ho lavorato da solo come una bestia. A un certo punto(anni fa), sono stato preso per mano da (me stesso?) e ho

potuto sperimentare in modo diretto la risposta alla domanda 'Chi sono io?'. Sarebbe fuori luogo raccontare l'esperienza, comunque, cito la cosa perchè

continuo a non capirti quando parli di 'altra attenzione' e perchè non posso sostituire ciò che ho direttamente sperimentato con ciò che posso concettualizzare almenochè dalla concettualizzazione non ne consegua un'altra esperienza.

Da quell'esperienza ne sono uscito con il ricordo preciso di quattro 'mondi'

completamente differenti tra loro che ho attraversato durante la fase di 'rientro' in me. Quello che io chiamo 'attenzione' e che considero proveniente dal più alto di questi quattro conosciuti, era sempre una, e presente in tutti e quattro. La sua qualità essenziale, era sempre la stessa.

Hai qualche lettura di approfondimento web accessibile da consigliare?

perchè, in caso contrario, ti stai rovinando con le tue stesse mani Avevo capito che era nel castello di Vignola, so leggere , i colori dovebbero

essere giallo (per l'esattezza quasi oro) che il nostro ordinario mondo (1à attenzione) visto dall'esterno, per questo per uscirne completamente mantenendo coscienza dovremmo avere un involucro d'oro... c'è molta metafora ma non solo... il secondo colore è viola (2° mondo/attenzione) come simboleggiato dalle vesti che dicevo sopra... di chi dovrebbe padroneggiare anche questo secondo mondo... quelli che per noi sono Maestri... il terzo è ovvio no? E' il regno Celeste... (3°attenzione) ma parlarne adesso è come parlare di fantascienza.

Ok per oggi ho scritto pure troppo su sta cosa... e questo gli fa perdere

valore... Da lì, da quella istantanea convergenza di mondi, dal silenzio che assomma i silenzi, sbocciano tre parole: "Mangiare la paura".

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LA MASCHERA DI CELESTINO CELESTINO V, L'UOMO DELL'OLTRE

di Filippo Strofaldi Intervento di S.E. Mons. Filippo Strofaldi, vescovo di Ischia, in occasione del convegno su ”I sentieri della spiritualità” Conservatorio San Pietro a Maiella - Napoli, 1 aprile 2006 La storia della santità, come viene descritta nei nostri libri classici di

agiografia è spesso una storia di vertici, cioè una storia di grandi leaders, di grandi condottieri spirituali, di persone straordinarie baciate dalla gloria con l’aureola di santità. Invece la vera storia di santità, anche se passa attraverso ruoli importanti, è sempre una storia di periferia, una storia di persone umili e semplici scelte da Dio per il suo disegno di salvezza, E' fatta perciò di gente spesso sconosciuta agli occhi degli uomini o conosciuta per gesti ritenuti pavidi, per non dire vili (”per viltade” scriveva Dante), ma infinitamente preziosi agli occhi di Dio.

Anche le nostre storie sono condotte dalla provvidenza di Dio e si

consumano per lo più, nella vita quotidiana, feriale, nell'oggi del nostro tempo, nell'hic et nunc della nostra esistenza.

Possiamo dire che viviamo la nostra vita di ogni giorno nei cantieri umani

con tutta la fatica, nel silenzio e nella semplicità. Al massimo, se chiamati a gravi responsabilità, ricopriamo con amore e

modestia ”una vita da mediano” senza coniugare il fascino della primadonna o il look del protagonista, senza la smania di emergere a tutti i costi mettendo da parte gli altri.

Il vero santo è serio e autentico, non cerca il premio della popolarità o

l'oscar del consenso per emergere nel traffico del mondo e farsi notare dagli altri.

Il vero santo ama allora il silenzio, la discrezione, la semplicità e il ritorno

nell'ombra, anche se, suo malgrado, si è trovato sotto le luci della ribalta. E San Pietro del Morrone, sin da giovane, ha preferito l'obbedienza alla

volontà di Dio, una vita umile e semplice, l'austerità e la povertà delle scelte. La sua austerità di vita, la penitenza, le mortificazioni, i digiuni non erano,

come oggi, digiuni estetici (per dieta) o digiuni patologici (anoressia) o digiuni di protesta pannelliana, ma segni dell'interiorità dall'uso moderato e non dall'abuso dei beni di consumo, in vista del ”quod superest date pauperibus”.

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Il suo silenzio non è stato un silenzio prudenziale; a volte noi stiamo zitti per non comprometterci o per paura. No.

Pietro, eccetto la parentesi del Papato (e parentesi è stata) ha vissuto il

silenzio come ascolto di Dio nella propria vita e come voce della volontà divina. In realtà il silenzio dell'ascolto è una voce che parla, è la voce del silenzio, anzi, meglio, è il canto del silenzio (”silenzio cantatore”).<1HS0.1>

Il suo, insomma, non è stato, come si dice oggi, un silenzio stampa dettato

dal calcolo o dalla protesta come quello dei divi del calcio, della politica e dei grandi personaggi dello spettacolo. Non è questo il silenzio dove si ascolta la volontà di Dio.

II silenzio di Pietro è un silenzio interiore che consuma i suoi pensieri

profondi nelle grotte o negli eremi, nel monastero o sui monti e si traduce nell'attuare la volontà di Dio nella propria esistenza.

Così divenne l'uomo dell'oltre, non del ”buio oltre la siepe”, ma della luce

oltre la siepe, oltre gli orizzonti sfocati da cortile, oltre la staccionata dei nostri interessi, oltre gli intrighi della politica, oltre il pantano di una religiosità fondamentalista, oltre le prevaricazioni del potere temporale o del potere religioso dimenticando l'equilibrio di ”dare a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio”.

Vero è che il brevissimo pontificato di Pietro del Morrone, l'eremita

divenuto papa con il nome di Celestino V è fra quelli sui quali maggiormente la storiografia si è cimentata per cui anche la sua rinuncia o abdicazione alla carica venne interpretata già dai suoi contemporanei in modi contrastanti ”multi multa dicunt” ieri durante l'arco quasi secolare della sua vita 1210-1296, come ai nostri giorni quando scadiamo nel ridicolo equivocando ogni parola, frase o atteggiamento.

E così padre Dante interpretò le sue dimissioni come ”un gran rifiuto”

addirittura ”per viltade”, altri come Petrarca intravide un gesto di grande libertà interiore compiuto da uno spirito angelico che non sopportava le imposizioni dettate dal compromesso di una guida suprema spirituale, come il papato, impastoiato di commercio, interesse e politica e di ”movimenti metallurgici”.

A me piace invece vedere sempre in Pietro del Morrone, la ricerca dell'oltre. Sin da giovane avverte l'esigenza di andare oltre una normale scelta

religiosa, di per se stessa già eroica, in un monastero benedettino e perciò lasciò il cenobio per diventare eremita sui monti abruzzesi.

Rientrato a Roma per essere ordinato prete avvertì subito dopo il bisogno

spirituale di ritirarsi in una grotta sul monte Morrone vicino Sulmona, assumendone il nome appunto di Pietro dal Morrone con il quale viene sempre

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chiamato. E quando i pellegrini, attratti dalia sua vita di santità, crescevano di numero nelle frequenti visite, ancora andò oltre in luoghi inaccessibili della Maiella dove fondò l'eremo di Santo Spirito con alcuni discepoli (1252). Il Papa Urbano IV inserì nell'Ordine benedettino gli eremiti di Santo Spirito, ma Pietro dettò norme disciplinari e liturgiche ”oltre” la già severa Regola di San Benedetto e perciò, appena si consolidò il Monastero di Santa Maria del Morrone, ancora una volta Pietro affidò ad un altro religioso la direzione e si ritirò in una grotta solitaria.

E fu dal nuovo eremo di Sant’Onofrio, che Pietro fu chiamato dai cardinali

riuniti in conclave (1294) alla guida della Chiesa per la sua grande fama dì santità e saggezza.

E fu Celestino V a 85 anni. Acclamato come un papa angelico e spirituale suscitò grande entusiasmo

nel suo ingresso all’Aquila, paragonato dalla fantasia popolare a Gesù nel suo ingresso a Gerusalemme nella domenica delle Palme.

Due ali di folla accolsero un vecchio e povero eremita, Cristo in terra, su un

asinello condotto per le briglie da un re ( Carlo Il d'Angiò) e da un principe (Carlo Martello).

Il tempo di nominare alcuni cardinali, di concedere alla chiesa di Santa

Maria di Collemaggio a L'Aquila I'indulgenza plenaria, nota come ”La Perdonanza celestiniana” e di farsi costruire una piccola cella di legno qui a Napoli, in Castelnuovo, che dopo pochi mesi di pontificato, all'approssimarsi dell'Avvento, realizzò il suo ultimo ”oltre”, addirittura ”oltre il Papato”, nel desiderio di ritirarsi nel suo eremo sulle montagne abruzzesi.

Ma questa volta il suo ultimo ”oltre” fu sviato (e questa è una verità storica

che non può essere ”insabbiata” come si dice oggi, anzi come si fa oggi) dall’intervento del suo successore Bonifacio VIII che lo fece rinchiudere in una torre del Castello di Fumone nei pressi di Ferentino dove Pietro del Morrone, già Celestino V, il ”povero cristiano” di Ignazio Silone concluse la sua ”avventura” sfociando, finalmente nell'oltre di Dio. Era il 19 Maggio 1296.

E noi, a distanza di secoli, ne facciamo memoria e lo veneriamo come

santo, come icona di ricerca al di là delle cose o come mi è piaciuto chiamarlo il ”povero cristiano dell'oltre”, per saper ritrovare anche noi la vera dimensione della spiritualità nell'oltre.

Napoli, 1 aprile 2006 S.E. Mons. Filippo Strofaldi, vescovo di Ischia

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Il silenzio "Taccia ogni mortale davanti al Signore, poiché egli si è destato dalla sua

santa dimora" (Zac., 2,17) (di Anna Maria Piantanida) Il silenzio è un requisito indispensabile per percorrere il sentiero, perché

sentiamo il bisogno di dire i nostri segreti? Vanità, verbosità, oppure piacere di insegnare, dobbiamo invece far

consistere la nostra gioia, nell’essere padroni di noi stessi. Se si parla troppo le cose vere saranno dimenticate, ma i nostri argomenti deboli saranno invece ricordati; la discussione si riferirà a questi anziché alla verità.

Andrè Arnoux dice: "Rigira sette volte la lingua, non per rispondere, ma per

riflettere, per avere il tempo di tacere: il silenzio, forma di saggezza. Giungerà a te, le parole che trattieni si purificano e ti fanno più forte".

Fra l’uomo e la donna, il silenzio è possibile soltanto quando l’amore è

vero; il silenzio è un segno divino. Il silenzio ci fa prendere contato con l’eternità, se sappiamo tacere allora converseremo con Dio, il seme matura nell'oscurità, nel nulla risiede l'intelligenza primordiale e l'Assoluto è immobile. Se la musica è il linguaggio degli angeli ed il silenzio e il linguaggio degli dei, allora l'alternanza tra musica è silenzio è come un dialogo tra gli uni e gli altri.

"La quiete ed il silenzio ordinano l'universo" dice Tao Te Ching. Mentre

Confucio, sostiene che "Il Silenzio è un amico fedele che non tradisce mai" e Kahlil Gibran, scrive, "Soltanto avendo bevuto dal fiume del silenzio tu potrai realmente cantare".

Alcuni proverbi come ''il silenzio è d'oro" detengono, accanto al significato

profano, anche un significato occulto; e il Maestro Kuthuma configura il silenzio come il linguaggio degli Dei.

La Tradizione, indica la permanenza nell'oscurità, durante i giorni che

precedono i solstizi e gli equinozi o prima dei riti, per rendere invisibile il nostro corpo nel momento della trasmutazione; così analogamente essa c’indica anche di praticare immobili ed in silenzio; ed è noto che in molte antiche scuole di saggezza, i discepoli si preparavano a ricevere i primi gradi di conoscenza, dopo una lunga sosta nell'oscurità, preferibilmente immobili e nel più assoluto silenzio.

"LA PAROLA DEL SILENZIO" "Un nudo silenzio impersonale è ora la mia mente, un mondo di visione

chiara e inimitabile, un volume di silenzio, firmato da una Divinità, una grandiosità scevra di pensiero, vergine di volontà.

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Un giorno sulle sue pagine, l'Ignoranza poteva scrivere in uno sgorbio dell'intelletto, la cieca congettura del Tempo e lasciare pallidi messaggi di luce di un sol giorno, cibo per anime che errano al margine della Natura.

Ma ora, ascolto una parola più grande, nata dal raggio muto, invisibile, onnisciente: la Voce che solo l'orecchio del Silenzio ha udito, balza emessa da una gloria eterna di Luce.

Da una vastità e da una pace intatta, tutto passa a tumulto di gioia in un mare di ampio riposo".

(Sri Aurobindo da "Last poems ")

Molti credono che comunicare sia parlare bene, ma "Comunicare" è essenzialmente saper ascoltare. E' l'ascolto, infatti, che permette di "Costruire" relazioni di qualità. Senza il "Silenzio" non può esserci vera "Comunicazione".

Il silenzio è sempre presente anche tra le parole. Rimanere in silenzio davanti a Dio, per renderci conto dell’oscurità

psicologica e spirituale, nella quale ci dibattiamo, quando siamo lontani da Lui. Rimanere silenziosi di fronte a Dio, non significa rimanere silenziosi dinnanzi agli uomini, con coloro che operano il male è giusto protestare, sia come uomini che come credenti in un Dio di giustizia.

Il silenzio ci porta ad avere un rapporto diretto con lo Spirito di Dio. C’è una parte della Regola di San benedetto, che istruisce sull’uso del

silenzio, l’amore del silenzio. Facciamo come dice il profeta: "Ho detto: Custodirò le mie vie per non

peccare con la lingua; ho posto un freno sulla mia bocca, non ho parlato, mi sono umiliato e ho taciuto anche su cose buone".

Se con queste parole egli dimostra che per amore del silenzio bisogna

rinunciare anche ai discorsi buoni, quanto più è necessario troncare quelli sconvenienti, in vista della pena riserbata al peccato... Se, infatti, parlare e insegnare é compito del maestro, il dovere del discepolo è di tacere e ascoltare.

Romano Guardini, nel suo libro" Il testamento di Gesù" così si esprime

riguardo al silenzio: "Quando la santa messa viene celebrata come si deve, tacciono ad intervalli, nel suo sviluppo, sia la voce distinta del sacerdote sia quella dei fedeli. Il sacerdote parla a bassa voce o esegue, senza parole, ciò che il servizio divino prescrive; la comunità prende parte con l'intenzione degli occhi e dell'anima".

Che cosa significano questi momenti di silenzio? E che fare allora? Anzi cos'è in fondo, il silenzio?

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Anzitutto, una cosa semplicissima: che ci sia proprio silenzio, che non si

parli e, che non sia dato di cogliere nessun rumore, nessun movimento, nessun fruscio di fogli, nessun colpo di tosse.

Non vogliamo esagerare: gli uomini sono degli esseri viventi e si muovono,

e un essere schiavo, non sarebbe da preferirsi al disordine. Eppure silenzio è per l'appunto silenzio e, solo allora, è silenzio, quando positivamente lo si vuole.

A volte la preghiera diventa silenziosa. Una tranquilla comunione con Dio si può trovare senza parole. "Io sono

tranquillo e sereno come un bimbo svezzato in braccio a sua madre". Come un bambino soddisfatto che ha smesso di piangere ed è nelle braccia

della madre, così può "stare la mia anima" in presenza di Dio. La preghiera allora non ha bisogno di parole, forse neppure di pensieri.

Com’è possibile raggiungere un silenzio interiore? Qualche volta siamo apparentemente in silenzio e tuttavia, abbiamo grandi

discussioni dentro di noi, lotte con compagni immaginari o con noi stessi. Calmare la nostra anima richiede una specie di semplicità. "Non mi tengo

occupato con cose troppo grandi o troppo meravigliose per me". Silenzio significa riconoscere che le mie preoccupazioni non possono fare

molto. Silenzio significa lasciare a Dio ciò che è oltre la mia portata e le mie capacità. Un momento di silenzio, anche molto breve, è come una sosta santa, un riposo sabbatico, una tregua dalle preoccupazioni.

Il tumulto dei nostri pensieri può essere paragonato alla tempesta, che

colpisce la barca dei discepoli sul mare di Galilea, mentre Gesù stava dormendo. Come loro possiamo sentirci senza aiuto, pieni di ansietà ed incapaci di calmarci. Ma Cristo è abile nel venire in nostro aiuto. Come rimprovera il vento e il mare e "ci fu una grande calma", egli può anche donare calma al nostro cuore, quando è agitato dalla paura e dalle preoccupazioni. (Marco 4)

Rimanendo nel silenzio, confidiamo e speriamo in Dio. Un salmo ci

suggerisce che il silenzio è perfino una forma di lode. Siamo soliti leggere all’inizio del Salmo 65: "A te si deve lode, o Dio". Questa traduzione segue il testo greco, ma effettivamente il testo ebraico

dice: "Il silenzio è lode a te, o Dio".

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Quando le parole ed i pensieri si fermano, Dio è lodato in un silenzio di stupore e ammirazione.

Quando Gesù nacque, era una notte silenziosa e la grotta del nostro cuore

deve essere silenziosa, per accogliere la nascita del Cristo. Cristo dice: "Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri,

come io vi ho amati" (Giovanni 15,12). Abbiamo bisogno di silenzio per accogliere queste parole e metterle in

pratica. Quando siamo agitati e irrequieti, abbiamo così tanti argomenti e ragioni

per non perdonare e per non amare. Ma quando "abbiamo calmato e reso quieta la nostra anima", queste ragioni ci paiono insignificanti.

Forse qualche volta rifuggiamo il silenzio, preferendo qualunque rumore,

parola o distrazione, perché la pace interiore è una cosa rischiosa: ci rende vuoti e poveri, disintegra le amarezze e ci conduce al dono di noi stessi.

Il silenzio è un umile ma sicuro cammino verso l’amore.

Tratto da un brano della comunità di Taizè

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Il silenzio dentro di noi Il film “Il grande silenzio”

La prima richiesta è del 1984. Allora Philip Gröning, giovane regista di

Düsseldorf, scrisse al priore generale dei certosini per ottenere il permesso di girare un documentario all’interno della Grande Chartreuse, la casa madre dell’ordine situata sulle Alpi francesi, vicino a Grenoble.

Gli fu detto che era troppo presto. E che sarebbe stato meglio risentirsi una decina d’anni dopo. Gröning non si perse d’animo, ma il consenso dei monaci arrivò soltanto

nel 2001, accopagnato da una serie di clausole da seguire accuratamente. Così, l’anno successivo, il regista tedesco cominciò le prime riprese di

quello che sarebbe diventato «Il grande silenzio», presentato lo scorso settembre alla Mostra di Venezia, accolto a dicembre in Germania da un successo sorprendente e divenuto negli ultimi tre mesi un vero fenomeno culturale, occupando intere pagine sui giornali e aprendo interessanti dibattiti sul rapporto tra cinema e fede.

Realizzato in digitale, in alta definizione, con alcune parti in Super8, lungo

165 minuti (su 120 ore complessive di girato, ridotte a due ore e quarantacinque minuti di immagini dopo due anni e mezzo dedicate al montaggio), privo di musiche, senza commenti esterni e con pochissimi dialoghi, «Il grande silenzio» ha richiesto a Philip Gröning cinque mesi di permanenza nel seicentesco convento certosino, in totale aderenza alla disciplina monastica.

Ospite dell’Alba international fillm festival, la rassegna diretta da Luciano

Barisone incentrata sulla spiritualità (che si è svolta dal 31 marzo all’8 aprile e che ha omaggiato il regista tedesco con una retrospettiva dei suoi lavori), Gröning, 47 anni, formatosi alla scuola di cinema di Monaco, risponde alle nostre domande in un italiano corrente, una delle cinque lingue parlate insieme al tedesco, l’inglese, il francese e lo spagnolo. Pochi giorni prima era a New York. Due giorni dopo sarebbe ripartito per Hong Kong.

Il fascino de «Il grande silenzio» risiede indubbiamente nel suo contenuto,

ma anche nella sensibilità, nel pudore con cui sono state eseguite le riprese. Lo stile sobrio e poetico del suo film è stato per così dire obbligato dal contesto monacale oppure c’è stata una valutazione a priori su come filmare i certosini e la loro quotidianità?

Io sapevo dentro di me che per fare il film che avevo in mente dovevo

vivere come i monaci, seguirli non solo con la macchina da presa ma anche nelle loro attività giornaliere. Non volevo, cioè, girare il film fuori dal monastero, ma viverlo fino in fondo dall’interno.

Certo, le restrizioni a cui ho dovuto sottostare, come il divieto di porre domande e fare interviste, di non sovrapporre alle immagini una colonna sonora né una voce fuori campo, hanno delimitato lo stile de «Il grande

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silenzio», ma su questo piano di lavorazione ero d’accordo anch’io, non l’ho vissuto affatto come un’imposizione.

Già nel 1984, quando avevo scritto al priore della Grande Chartreuse per chiedere il permesso di girare il film, avevo specificato che avrei portato nel monastero solo me stesso e la mia macchina da presa, null’altro, né altri tecnici né altri strumenti.

E’ chiaro, comunque, che per restituire agli spettatori il senso di un’esperienza così profonda, come cineasta bisognava porsi dei limiti. Non c’era bisogno di un elicottero per inquadrare dall’alto, in volo, il monastero, né di uno staff che mi prelevasse e mi riportasse in hotel dopo ogni giorno di riprese.

Dovevo trovare un ritmo intermo al film, non convenzionale, non concentrato solo sui dettagli. Perché il pubblico deve trovare un equilibrio tra l’esperienza che sta vivendo seduto in platea e la curiosità personale di trovare altri agganci nella storia.

Cinque mesi di riprese: con quale ordine ha proceduto? Il monaco africano che si vede all’inizio del film, Benjamin, sarebbe entrato

nella comunità certosina quattro giorni dopo il mio arrivo nel monastero, per cui fin da subito ho deciso di partire con le riprese.

In realtà, se avevo delle idee generali su come procedere, non sapevo ancora bene come fare per riprendere i monaci nella loro armonia contemplativa.

Appena arrivato ero un po’ imbarazzato, non volevo sembrare irruento. Per cui ho optato per quei ritratti in posa, dove loro fissano la macchina da presa, senza pronunciare alcuna parola, per qualche secondo. Mi sembrava il modo più naturale e rispettoso.

L’immagine della preghiera in solitudine con cui si apre il film, invece, è stata effettuata molto più avanti. Ho osato filmare il monaco nella sua cella solo dopo cinque o sei settimane dal mio arrivo nel convento. Prima avevo girato in chiesa, in cucina, nelle sale comuni. Quella sequenza di intima solitudine con Dio è stata possibile solo dopo che tra me e la comunità della Grande Chartreuse era nata una totale fiducia reciproca.

«Il grande silenzio» ha avuto un grande successo in tutto il mondo. Si è chiesto quali sono le ragioni per le quali il suo documentario è riuscito

a interessare così tanti spettatori? Sono onesto: mi aspettavo che questo film sarebbe stato visto da

parecchia gente. Credevo in questo progetto, pensavo che potesse avere delle potenzialità di

comunicazione. Però non mi aspettavo così tanti spettatori, questo certamente no.

Parlando con il pubblico, prima e dopo le proiezioni de «Il grande silenzio», ho capito che sono tre le ragioni fondamentali del successo del film. La prima è legata al bisogno di una spiritualità profonda, un’esigenza, da parte della

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collettività, in ogni parte del mondo, molto più accentuata di quanto si possa di norma pensare.

E «Il grande silenzio» consente allo spettatore comune, osservando una diversa scelta di vita, intensa, serena e pervasa dalla Grazia, di riflettere sul proprio vissuto quotidiano, sulla distanza che c’è tra quel tipo di esistenza e la propria.

La seconda ragione è che, in Germania ma anche nel resto d’Europa, c’è una forte preoccupazione nella gente di perdere il proprio posto di lavoro.

Questa paura condivisa e condivisibile della disoccupazione, o perlomeno della precarietà occupazionale, è la dimostrazione che certi ritmi esasperati in ufficio e la competizione sfrenata tra colleghi non ha senso, è l’illusione di una sicurezza economica che non corrisponde più alla realtà.

Allora il pubblico, osservando i monaci che dal lavoro nei campi traggono soltanto il nutrimento essenziale per sopravvivere, dedicando al contrario tutto il loro tempo al rapporto con l’Assoluto, credo che tragga da quell’esempio uno stimolo profondo, un insegnamento particolarmente efficace per la propria crescita interiore.

E il terzo aspetto? E collegato alla seconda ragione. C’è una grande tristezza, a mio avviso, nelle persone che dedicano ogni

energia ai propri interessi personali. C’è un egoismo diffuso, nella nostra società, che investe la sfera degli

affetti, del denaro, del tempo libero e che talvolta appare invalicabile. Invece, la leggerezza con cui i monaci de «Il grande silenzio» affrontano

ogni giornata dimostra che c’è un’altra dimensione dell’esistenza, totalmente disinteressata agli affanni quotidiani, slegata dai beni materiali e predisposta al viaggio interiore, alla conoscenza di sé attraverso la vicinanza con Dio.

Ecco, credo che questa leggerezza faccia molto bene al pubblico, perché propone un’alternativa concreta, chiara, persino affascinante ad una programmazione della vita troppo egocentrica. Sì, credo che vivere solo per i propri obiettivi sia davvero deprimente…

Quanto queste tre ragioni, a livello personale, hanno influito su di lei nella

scelta di girare «Il grande silenzio»? Per me la molla è stata la ricerca interiore. Sono cresciuto in un ambiente cattolico, ma sono stato ragazzo negli anni

Sessanta, un periodo di forti contraddizioni. Mi sono rimesso in discussione molte volte, nel corso della mia vita, e

ventidue anni fa, quando ho scritto per la prima volta al priore della Grande Chartreuse, l’ho fatto perché volevo capire da dove venivo, come intellettuale e come uomo, quanto fossero autentiche le mie radici.

All’inizio mi interessava più l’esperienza umana di quella artistica, ero cioè più invogliato a vivere con i monaci che a fare un film su di loro. Poi, però, le cose sono cambiate.

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Ma senza l’esperienza "dal di dentro" non sarei mai riuscito a fare questo film. Ne «Il grande silenzio», come regista, non sono il centro focale. Io sono solo il mezzo, il tramite tra i monaci e il pubblico.

Le prime riprese del film risalgono a quattro anni fa. A distanza di tempo,

cosa le ha lasciato questa esperienza? Ho capito che io, come tutti, sono parte di un mondo che vive di armonia e

di bellezza. E ora mi sento più forte nell’affrontare le traversie della vita, perché mi rendo conto che ogni momento della nostra esistenza è legato alla scintilla della creazione dell’universo.

Sì, avendo vissuto ogni giorno con i monaci e avendo condiviso con loro per cinque mesi le mie giornate, ho imparato che la vita è destinata ad un traguardo felice.

Si possono commettere tanti errori, certo, ma se si è capaci di ascoltare il richiamo interiore si acquisisce la certezza che ogni strada individuale conduce alla felicità.

E come regista, cosa le ha insegnato «Il grande silenzio»? Che il mio prossimo film sarà molto difficile da realizzare. «Il grande

silenzio» è stato per certi versi un punto d’arrivo, ho lavorato sul concetto di tempo in maniera assidua e coinvolgente, alcuni giornali in Germania hanno definito il mio lavoro un «film assoluto», interrogandosi su cosa adesso potrò fare di pari intensità. Sinceramente non lo so. Ho due progetti in corso di film di finzione, non documentari, e c’è un’installazione video che mi appassiona parecchio.

Vedremo. In realtà sto cercando di uscir fuori da «Il grande silenzio», ma non è

facile: interviste, presentazioni, rassegne, convegni... Però quando un film arriva nelle sale, il suo autore deve lasciarlo al

pubblico, come un padre deve lasciare che un figlio, ormai adulto, se ne vada di casa.

La verità è che in questo mestiere si ricomincia da zero ad ogni film. Non ci sono soluzioni giuste e scelte perfette, ma si possono rifiutare le direzioni sbagliate e i compromessi umilianti. Questa è la fatica, ma anche la soddisfazione di fare cinema.

«Il grande silenzio» si muove, in effetti, lungo la direzione impalpabile ma

emozionante del cinema puro, un cinema che è capace di spurgarsi di ogni sovrastruttura e indagare l’animo umano con toccante sensibilità.

Vengono in mente, pur su sponde distanti, Abbas Kiarostami, Aleksandr Sokurov e Terrence Malick. Esiste per lei il cinema puro?

Di Malick conosco solo il primo film, «La rabbia giovane», che ho trovato

bellissimo, e il penultimo, «La sottile linea rossa», che ho visto solo per la prima mezz’ora e poi sono uscito dalla sala.

Esiste il cinema puro?

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Io credo che se il cinema continua così, tra vent’anni non esisterà più. Un cinema che non offra un luogo, un riparo alle esperienze interiori è

destinato a scomparire, non ha una sua ragion d’essere e il pubblico, alla fine, lo penalizzerà.

Il cinema, a mio giudizio, è un’arte non ancora sviluppata rispetto ad altre discipline artistiche, e questo a causa di una serie di automatismi di natura economica, commerciale.

A Hollywood tutti lavorano per fare soldi, per incassare più degli altri, proponendo sempre le stesse storie appiattite e gli stessi cliché abusati. Ma in realtà gli studios hollywoodiani sono in crisi, il trend è in ribasso, dunque la formula non è così vincente come potrebbe sembrare.

Il compito del cinema, allora, è di trovare nuove soluzioni, proporre al pubblico storie diverse, più personali, più intime. Kiarostami, certamente, lo fa. Ma i distributori hanno sempre più paura di questo cinema puro, e non lo aiutano.

In alcune sequenze «Il grande silenzio» riesce anche a "desacralizzare"

l’immagine dei monaci di clausura, ad esempio quando uno di loro parla con i gatti a cui dà da mangiare o quando alcuni gruppi si ritrovano insieme a chiacchierare nel giardino del monastero…

Sì, non è vero che «Il grande silenzio» racconti l’esperienza ascetica e

contemplativa dei certosini solo in termini di rigore e disciplina. Certo, le regole ci sono e nel monastero devono essere rispettate. Però ci sono anche momenti di svago, che stando a contatto con i monaci per così lungo tempo ho cercato di cogliere e restituire al pubblico.

Ciò che mi ha più colpito di loro è che dietro le tuniche dei religiosi ci sono degli uomini. Uomini che hanno verso la vita un’attitudine speciale, che non temono la morte e che dedicandosi a Dio hanno raggiunto una libertà interiore straordinaria, a volte quasi infantile.

Io volevo mostrare tutto questo: non dei santi, ma degli uomini coerenti con la loro scelta. Non persone che si sono autoescluse dal mondo, ma, al contrario, persone che sono in cammino verso una qualità di vita molto più alta della nostra. Non delle icone, ma degli esempi illuminanti.

Paolo Perrone (nostro servizio da Alba)

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SCELTO

CORRETTO E

IMPAGINATO

DA

ANGELICO BRUGNOLI

PER IL GRUPPO DI

INCONTRI DI SPIRITUALITA’

NEL MESE DI MARZO 2008