il romanzo dopo il 1945 - fastnet s.p.a. · 2019-11-07 · neorealismo laltra strada è il viaggio,...
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IL ROMANZO DOPO
IL 1945
Gino Tellini
Jesi, 5 novembre 2019
Sommario
● Il neorealismo: l’impegno del narratore (3-14)
● Crisi della poetica neorealistica (15-20)
● Mappa del romanzo nell’Italia del miracolo economico
(21-28)
● Pasolini e lo sperimentalismo (29-34)
● Calvino, percorsi multiformi (35-43)
● Pasolini o Calvino? (44-58)
● Primo Levi e il dovere della chiarezza (59-66)
● Natalia Ginzburg, il coraggio dell’anticonformismo
(67-76)
Il neorealismo: l’impegno del
narratore
L‘età della speranza
Nell’Italia della Liberazione, vinta ma liberata dalla dittatura, s’accende un impulso di speranza e di fervore ricostruttivo: «Sopraggiunse, repentino, il tempo meraviglioso della speranza. È stato il solo tempo della vita, per cui valeva la pena di vivere» (GIUSEPPE
RAIMONDI, Prefazione, in Le domeniche d’estate, Milano, Mondadori, 1963, pp. 19-20).
Giuseppe Raimondi
(Bologna, 1898-1985)
L‘età della speranza
«Di ottimismo e di
fiducia allora erano
piene le strade»
(NATALIA GINZBURG,
Fiore gentile, Pavese
e Calvino, in
«L’Unità», 17 aprile
1988).
Natalia
Ginzburg
(1916-1991)
L‘età della speranza
Non si dibatte già un
problema di forma, ma
di sostanza, di
«elementare universalità
dei contenuti» (Calvino,
Prefazione [retrospettiva,
1964] a Il sentiero dei nidi
di ragno, 1947). La forma
è messa da parte come
cattiva eredità del
regime.
Italo Calvino
(1923-1985)
L‘età della speranza
«Tensione morale» è ora la parola-chiave che risuona nella celebre Prefazione (1964) di Calvino: come «fatto fisiologico, esistenziale, collettivo», come bisogno di «ricominciare da zero», d’«esprimere» se stessi e «il sapore aspro della vita» con una «carica esplosiva di libertà». Prima ed. 1947,
Nuova ed. 1964
L‘età della speranza
«Tensione morale» significa Una nuova cultura, che è il titolo scelto da Vittorini per l’editoriale d’apertura, il 29 settembre 1945, della rivista «Il Politecnico» (1945-1947): «Non più una cultura che consoli nelle sofferenze, ma una cultura che protegga dalle sofferenze, che le combatta e le elimini».
La nota redazionale del secondo numero (6 ottobre 1945), dal titolo Il Politecnico, incalza: «fede nella ricerca dell’umana felicità su questa terra e nel progresso civile».
Non si chiede poco. Il proponimento è civile, etico, ideologico, sociale.
Elio Vittorini
(1908-1966)
L‘età della speranza
In polemica aperta (... il senno del poi) con la cultura ermetica, s’inaugura la stagione neorealistica dell’«impegno», dell’engagement (la parola d’ordine è di Sartre, in Qu’est-ce-quela littérature?, 1947): l’età breve della speranza, dell’entusiasmo ricostruttivo.
Jean-Paul Sartre
(1905-1980)
L‘età della speranza
Appaiono a stampa i testi capitali di Antonio Gramsci (Lettere dal carcere, 1947; Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, 1948; Gli intellettuali e l’organizzazione della cultura, 1949; Il Risorgimento, 1949; Letteratura e vita nazionale, 1950) e Il sangue d’Europa. 1939-1943(1950), libro sorprendente del giovanissimo GiaimePintor.
Antonio
Gramsci
(1891-1937)
L‘età della speranza
Appaiono ora le traduzioni di Lukàcs (Saggi sul realismo, 1950; Il marxismo e la critica letteraria, 1953), di Hauser(Storia sociale dell’arte, 1955-1956), dei maestri della stilistica come Spitzer (Critica stilistica e semantica storica, 1954) e Auerbach (Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale, 1956), dei teorici della scuola di Francoforte, come Adorno (Minima moralia, 1954) e Benjamin (Angelus Novus, 1959).
Neorealismo
Il Neorealismo aspira a un’arte corale e collettiva, epica e popolare, ove la rilettura di Verga (ma spogliato del pessimismo) si unisce ai colori dell’America di Vittorini e Pavese.
Di contro al preziosismo della «bella scrittura», e agli arabeschi eleganti della prosa d’arte, prevale un linguaggio orale, rapido e quotidiano, di secca resa comunicativa, con inserti gergali e dialettali.
«Società», dir. Ranuccio
Bianchi
Bandinelli, Firenze,
1945-1961
Neorealismo
Sono due le strade maestre, entrambe all’insegna dell’eloquenza testimoniale: una strada sono le cronache di guerra, di lotta partigiana, di prigionia, nate dall’imperativo etico di non dimenticare (Fenoglio, il primo Calvino, Il sentieroe i racconti di Ultimo viene il corvo, 1949; Primo Levi, Se questo è un uomo, 1947; Tiro al piccione di Giose Rimanelli, 1953 ...).
Neorealismo
L’altra strada è il viaggio, come già in epoca postunitaria, alla riscoperta delle tante Italie emarginate, depresse, diseredate,
mosaico di genti e di linguaggi (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, 1945, Rocco Scotellaro, L’uva puttanella, 1955, l’esordiente Sciascia, Le parrocchie di Regalpetra, 1956).
Racconto picaresco, sincerità referenziale, pathossolidaristico, e insieme denuncia di violenze patite, inchiesta-reportage su una terra angustiata dall’arretratezza e dalla miseria.
CRISI DELLA POETICA
NEOREALISTICA
ESAURIMENTO DELLA
POETICA
NEOREALISTICA
Gli entusiasmi resistenziali s’irrigidiscono in strategia propagandistica, in schieramento di partito: «già stavo a pelo ritto, a unghie sfoderate contro l’incombere d’una nuova retorica» (Calvino, Prefazione, 1964).
Due rischi della poetica neorealistica
Sono due i rischi sostanziali della poetica
neorealistica:
1. esaurirsi nel mero attestato documentario e
nel referto di costume;
2. non avere un’adeguata consapevolezza
tecnico-linguistica, tanto da scadere nel tono
celebrativo del melodramma sociale e del
pedagogismo ideologico.
Crisi del neorealismo
Il tramonto delle
speranze neorealistiche,
nella depressione degli
anni Cinquanta, cade a
ridosso del «miracolo
economico» che
trasforma nel decennio
successivo abitudini, usi,
costumi nazionali.
Benessere e nuovi squilibri
Il precipitoso sviluppo del boomindustriale (la Fiat 600 nel 1955, nell’aprile 1956 è prodotta la milionesima Vespa, poi frigoriferi, lavatrici, televisori...) allenta la morsa di miseria del dopoguerra, ma non fa in tempo a dare stabilità alla vita civile che subito porta con sé scompensi, insicurezze, squilibri (flussi migratori interni, frattura Nord-Sud, disuguaglianze sociali, rivoluzione antropologica, decollo dei consumi privati e arretratezza dei servizi pubblici...).
Benessere e nuovi squilibri
Alienazione è la parola che sintetizza un diffuso malessere. Nuove attese deluse. Euforia di progresso e aria di cuccagna, ma insieme difesa del profitto e culto dell’individualismo; ricerca dell’utile personale e familiare, accompagnata da «fretta e ansia e rabbia», con la smania d’un «edonismo obbligatorio» (Calvino, La «belle époque» inaspettata, 1961).
MAPPA DEL ROMANZO
NELL’ITALIA DEL MIRACOLO ECONOMICO
Nell’Italia dopo il
1945 il romanzo
percorre tante
strade diverse:
1. l'elegia (Carlo
Cassola e Giorgio
Bassani)
Il taglio
del
bosco,
1953
Dominique Sanda e Lino Capolicchio,
nel film di De Sica, 1970, dal romanzo di Bassani,
1962, Il giardino dei Finzi-Contini
2. lo
sperimentalismo
(già Gadda, ora
Pier Paolo
Pasolini, Lucio
Mastronardi,
Roberto Roversi…)
Pier Paolo Pasolini
(1922-1975)
3 . il fantastico, il
surreale, il
visionario (linea
già di Palazzeschi,
Savinio,
Campanile,
Landolfi, Buzzati),
ora Gianni Rodari,
Giorgio
Manganelli, Luigi
Malerba... Gianni Rodari
(1920-1980)
4 . tra satira,
umorismo,
grottesco (Ennio
Flaiano, Goffredo
Parise, Luigi
Meneghello...)
Ennio Flaiano,
(1910-1972)
5 . l'inchiesta conoscitiva (già Alberto Moravia, ora Italo Calvino, Primo Levi, Leonardo Sciascia, Raffaele La Capria, Mario Pomilio...)
Italo Calvino
(1923-1985)
Primo
Levi
(1919-
1987)
Leonardo
Sciascia
(1921-
1989)
6 . letteratura e
industria (Paolo
Volponi, Luciano
Bianciardi, Ottiero
Ottieri...)
7 . l'esplorazione
della nevrosi (Paolo
Volponi, Giuseppe
Berto...)
Memoriale,
di Volponi,
1962
Il male
oscuro,
di Berto,
1964
8. il romanzo
femminile (già
Sibilla Aleramo,
Gianna Manzini,
Anna Banti, Lalla
Romano, Elsa
Morante, ora Natalia
Ginzburg, Dacia
Maraini, Elena
Ferrante…)
Natalia Ginzburg
(1916-1991)
Pasolini
e lo sperimentalismo
CRISI DEL NEOREALISMO
Sperimentalismo (Pasolini, La libertà stilistica, in «Officina»,
1957): sintesi tra Ermetismo (= ricerca formale divenuta
una prigione) e Neorealismo (= impegno civile ma con
linguaggio approssimativo e strumentale):
→ lo «sperimentalismo» intende, da un lato, rifiutare
l’«evasività» ermetica, ma recuperandone la lezione
espressiva, e dall’altro abbandonare lo schematico
contenutismo neorealistico, ma recuperandone la
passione ideologica.
CRISI DEL NEOREALISMO
Neoavanguardia (I novissimi, 1961; Gruppo 1963, Palermo:
Alfredo Giuliani, Edoardo Sanguineti, Nanni Balestrini e
Antonio Porta):
In polemica con gli scrittori di «Officina» e con la loro
prospettiva d’una nuova relazione tra cultura e politica, i
neoavanguardisti hanno un obiettivo di ascendenza
futurista: il rifiuto radicale del passato e insieme il rifiuto
d’ogni responsabilità di tipo sociale e politico, con
conseguente irrisione del realismo postbellico.
CRISI DEL NEOREALISMO
Di fronte alla nuova civiltà industriale, che ha spersonalizzato e ridotto a «merce» di consumo il prodotto artistico, per i «novissimi» ogni forma di «impegno» ideologico è illusoria. L’unica strada praticabile è a loro avviso, come per tutte le avanguardie, l’eversione distruttiva, la letteratura come asocialità, paradosso, provocazione, con il risultato, spesso, della illeggibilità.
I due romanzi romani di Pasolini
Proprio sulla linea dello «sperimentalismo» sono orientati i romanzi Ragazzi di vita del 1955, opera processata per «oscenità», e Una vita violenta del 1959: un quadro desolato delle borgate romane e della emarginazione urbana, disegnato, nei suoi aspetti di più viscerale e fisiologica vitalità, con un'imperterrita adesione sentimentale.
I due romanzi romani di Pasolini
La novità risiede nell'uso d’uno strumento linguistico (sensibile all’esempio di Gadda)
che sa ricorrere a originali contaminazioni di dialetto, di lingua letteraria e di forme gergali.
Nell'impianto strutturale, la fusione tra la voce narrante e il parlato dei personaggi, con impiego d’una vivacissima espressività regionale,
rinvia (attraverso l’esempio di Cesare Pavese con Paesi tuoi, 1941) alla lezione del Verga «rusticano».
Il grande Verga
(1840-1922)
Calvino,
percorsi multiformi
L’esordio realistico-fiabesco
Calvino esordisce nel 1947 con Il sentiero dei nidi di ragno.
La vicenda di Pin, il ragazzo aggregatosi a un gruppo di partigiani tra i monti della Liguria, è disegnata «come una favola di bosco» (lo osserva subito Pavese), tanto che il motivo della lotta civile vi acquista levità fantastica, con un'equilibrata saldatura di fedeltà storica e di fiaba, di rigore logico e d’avventura, in cui è da vedere una delle più originali espressioni del fiducioso slancio etico della letteratura neorealistica.
Tra investigazione realistica e allegoria morale
L'autore ha poi scisso il binomio realistico-fiabesco tipico delle sue prove giovanili.
Da un lato percorre la strada dell’investigazione critica della nuova società mercantile e affaristica, nel tentativo di fronteggiare il disagio di personaggi che hanno visto cadere le speranze di progresso e di collettiva solidarietà proprie del periodo resistenziale:
indicativi in questo senso i racconti di L'entrata in guerra (1954), come i brevi romanzi La speculazione edilizia (1957), La nuvola di smog(1958) e La giornata d'uno scrutatore(1963).
Tra investigazione realistica e allegoria
morale
Dall'altro lato, s’addentra nel terreno dell'allegoria morale e dell’allusività simbolico-satirica, come tre romanzi fantastici Ilvisconte dimezzato (1952), Ilbarone rampante (1957) e Ilcavaliere inesistente (1959), poi ristampati sotto l'unico titolo Inostri antenati (1960). «Dimidiato, mutilato, incompleto» si legge nell'introduzione a I nostri antenati «nemico a se stesso è l'uomo contemporaneo [...] uno stato d'antica armonia è perduto».
Tra investigazione realistica e allegoria
morale
Di fronte all'assurdo e alla irragionevolezza della situazione storica, il narratore proietta ironicamente nella sfera della pura fantasia la sua estrema aspirazione di intellettuale «illuminista»,il suo sogno utopico di un'umanità integra e libera, in armonia con la natura, rinnovando per questa via la tradizione del «racconto filosofico» settecentesco.
Un tragitto multiforme
Dal Neorealismo «a carica fiabesca» (Vitorini),
Calvino è passato a testi d’impegno civile e contemporaneamente d'invenzione surreale, quasi fantascientifica, quindi a esperimenti metanarrativi, d'orientamento semiologico, intorno ai rapporti che si stabiliscono tra la conoscenza della realtà, l’esperienza della scrittura e della lettura,
come indagine sul ruolo e sul destino stesso della finzione romanzesca (di carattere cerebrale e intellettualistico).
Se una notte d’inverno
un viaggiatore
(1979)
Un tragitto multiforme
Poi, sulla destrutturazione dei meccanismi compositivi, fioriscono i raffinatissimi arabeschi della prosa d’arte (con Palomar, 1983): non appagata di sé, ma risolta in un pulviscolo di frammenti che tradiscono la nostalgia d’un’impossibile certezza diagnostica.
Un tragitto multiforme
Un simile tragitto, segnato da frequenti «cambi di rotta», è iniziato all'insegna di un'interpretazione avventurosa del reale, per approdare infine a una drammatica attitudine di «perplessità sistematica» di fronte al disordine del mondo, di fronte al «molteplice», al «relativo», allo «sfaccettato».
Un tragitto multiforme
Lungo il viaggio molte speranze e attese sono cadute, e molte cose sono cambiate. Da una letteratura come investigazione conoscitiva si è giunti nei paraggi (postmoderni) d’una letteratura come divertimento e gioco.
Pasolini o Calvino?
Due coetanei antitetici
Pasolini e Calvino sono coetanei (Pasolini nasce il 5 marzo 1922 e Calvino il 15 ottobre 1923). Entrambi sentono la necessità di reagire alla poetica dell’Ermetismo, con un tipo nuovo di letteratura che affronti il rapporto con la realtà sociale dell’Italia uscita dal fascismo e dalla guerra.
Entrambi esordiscono negli stessi anni, nel clima del Neorealismo.
Sul piano personale, hanno intrattenuto rapporti cordiali (come mostrano anche le lettere private di entrambi), con attestati di reciproca stima.
Eppure le loro posizioni sono divergenti e antitetiche.
Tra Bilancia e Pesci
Sono divergenti, già a partire dal segno zodiacale. È stato Calvino, in un’intervista del 1980, a richiamare l’attenzione sull’equilibrio che gli viene dall’essere nato nel segno della Bilancia: «Comincerò dicendo che sono nato nel segno della Bilancia: perciò nel mio carattere equilibrio e squilibrio correggono a vicenda i loro eccessi». Quanto a Pasolini, nato nel segno dei guizzanti e imprendibili Pesci, emblema di contraddittorie emozioni, è chiaro che l’equilibrio non è la sua caratteristica fondamentale.
Voce pubblica e arte del silenzio
Pasolini, specie negli ultimi anni d’attività, si è distinto per continui interventi giornalistici o televisivi, a sostegno della costante presenza della sua voce di intellettuale. Calvino, invece, riservato e taciturno, ha confidato in un’intervista del 1984: «Tutti si fanno in quattro per proclamare opinioni o giudizi e nessuno conosce più l’arte del silenzio, che è più difficile dell’arte del dire».
Effusione di Pasolini
«Lo scandalo del contraddirmi» è un verso famoso di Pasolini, nel poemetto Le ceneri di Gramsci e rinvia ai contrastanti impulsi di «passione e ideologia» che muovono l’opera dello scrittore e del regista, sempre ricca di confessioni, di valutazioni personali, di giudizi, di verdetti polemici.
Laconicità di Calvino
«Sono laconico», ha confessato Calvino (lettera a Domenico Rea, Torino, 13 marzo 1954), «per indole, in cui si perpetua il retaggio dei miei padri liguri, schiatta quant’altre mai sdegnosa d’effusioni. E ancora, soprattutto, per convincimento morale, poiché lo credo [essere laconico] un buon metodo per comunicare e conoscere, migliore d’ogni espansione incontrollata e ingannevole […]: io vorrei che […] quanti parlano della propria faccia o dell’ ‘anima mia’ si rendessero conto di dire cose vane e sconvenienti».
Calvino a proposito di Le ceneri di Gramsci
Calvino ha letto con ammirazione Le ceneri di Gramsci di Pasolini. Ne parla con entusiasmo in una lettera allo stesso Pasolini (Torino, 1° marzo 1956):
«Bravura tecnica da sbalordire. Poi [poesia] tutta concatenata di pensiero come i Sepolcri. Così si scrivono le poesie!»;
però nella medesima lettera a Pier Paolo, il giudizio complessivo, nella sostanza, è molto severo: «Ma il tema vero e proprio del componimento mi pare debole e non nuovo: il dissidio rivoluzione-passioni, rigore logico-vitalità è ormai ben povero dramma».
I dialetti
Pasolini ama il dialetto e in dialetto ha scritto le prime poesie (Poesie a Casarsa, 1942). Per lui il dialetto è la lingua del ritorno all’originaria innocenza. Anche i romanzi Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta(1959) sono intrisi e impastati di forme dialettali romanesche.
Calvino ha diffidenza verso i dialetti. Nel saggio Il midollo del leone (1955) afferma che «i dialetti sono sì pieni di sapore e vigore e saggezza, ma anche d’offese sopportate, di limitazioni imposte, d’abitudini di cui non ci si sa scrollare». E delle quali, invece, è bene liberarsi.
Poesia dialettale del
Novecento,
a cura di Mario Dell’Arco e
P.P. Pasolini,
Parma, Guanda, 1952
Scrittura saggistica
La scrittura saggistica di Pasolini spesso è di lettura ardua, perché le idee, per l’impeto delle argomentazioni, si accavallano le une sulle altre e anche perché talvolta Pasolini ricorre al gergo della critica letteraria accademica. La scrittura saggistica di Calvino è sempre limpida e lineare, tanto che Italo in una lettera inviata a Pier Paolo, da Torino, il 1° marzo 1956, si arrabbia con lui a proposito della sua scrittura non chiara: «Però, porcamiseria, perché scrivi così difficile?».
Lettere 1940-
1985, a cura di L.
Baranelli, Milano,
Mondadori, 2000
Coinvolgimento emotivo e controllo della ragione
Pasolini è governato da «passione e ideologia», con coinvolgimento emotivo che anima le sue pagine d’intensa vibrazione umana, di generose autoconfessioni (Supplica a mia madre), di coraggiosa capacità d’autonalisi («Come andrà a finire non lo so»), di struggente simpatia umana (Marilyn), di aspre contraddizioni (Il PCI ai giovani!!).
Passione e
ideologia,
1960
Coinvolgimento emotivo e controllo della ragione
Calvino scrive sempre sotto il controllo della ragione: non vuole il coinvolgimento autobiografico, anzi è polemico contro le effusioni dell’io (La rivoluzione dello specchietto retrovisore) e cerca sempre una prospettiva distaccata rispetto a ciò di cui scrive (Il barone rampante). Anche l’invenzione fantastica, segue per lui la logica razionale.
Rivoluzione antropologica
Pasolini ha avvertito con tensione drammatica la «rivoluzione antropologica» degli anni Sessanta, quando l’Italia da paese agricolo diventa paese industrializzato, con un conseguente mutamento di gusto, di sensibilità, di qualità della vita.
Calvino ha parlato di una ben diversa «rivoluzione antropologica», legata alla liberazione dell’«ingombro» dell’io.
Parere di Alfonso Berardinelli:
«I due autori hanno messo in circolazione due modelli letterari opposti, due idee di letteratura e di comportamento letterario. Calvino è piaciuto agli astuti e ai prudenti, ai laboriosi borghesi del nord, agli insegnanti gioviali che hanno paura di smuovere qualcosa di temibile negli alunni, agli studiosi di strutture formali e di cruciverba, a chi vuole solo elegantemente sorridere, ai critici cortigiani in carriera presso la Einaudi».[continua]
Alfonso Berardinelli
(1943)
continua cit. di Berardinelli:
«Pasolini appassiona chi vuole perdersi, chi ha l’istinto di accusare, chi si sente accusato, chi piange sulle vittime, chi non capisce che la storia è lavoro, chi fiuta dovunque possibili lager, chi vede in ogni burocrate un nazista potenziale».
[continua]
continua cit. di Berardinelli:
«Calvino morto a sessantadue anni nel settembre 1985, Pasolini morto a cinquantatreanni nel novembre 1975, sono ancora fra noi. Si può scegliere fra l’uno o l’altro. Per quanto mi riguarda, per passionale prudenza, me li tengo tutti e due come opposti maestri» (A. Berardinelli, Calvino e Pasolini, opposti maestri, in «Il Foglio», 27 ottobre 2015, p. 21).
Primo Levi
e il dovere della chiarezza
Dello scrivere oscuro
Una delle peculiarità che distinguono lo stile di Levi è la chiarezza. Nell’articolo Dello scrivere oscuro (1976) l’autore affronta la questione in modo diretto, non parlando di sé ma in termini generali. Scrivere in modo chiaro è un fatto non solo di civiltà, ma di responsabilità umana, perché «dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per parola». Primo Levi
(1919-1987)
Dello scrivere oscuro (1976), in L’altrui mestiere (1985):
«Abbiamo una responsabilità, finché viviamo:
dobbiamo rispondere di quanto scriviamo, parola per
parola, e far sì che ogni parola vada a segno. Del resto,
parlare al prossimo in una lingua che egli non può
capire può essere malvezzo di alcuni rivoluzionari, ma
non è affatto uno strumento rivoluzionario: è invece un
antico artificio repressivo, noto a tutte le chiese, vizio
tipico della nostra classe politica, fondamento di tutti
gli imperi coloniali».
[continua]
continua cit. di P. Levi
«È un modo sottile di imporre il proprio rango: quando padre Cristoforo dice ‘Omnia munda mundis’ in latino a fra Fazio che il latino non lo sa, a quest’ultimo, ‘al sentir quelle parole gravide d’un senso misterioso, e proferite così risolutamente, [...] parve che in quelle dovesse contenersi la soluzione di tutti i suoi dubbi. S’acquietò, e disse: ‘basta! lei ne sa più di me’».
[continua]
continua cit. di P. Levi:
«Neppure è vero che solo attraverso l’oscurità verbale
si possa esprimere quell’altra oscurità di cui siamo
figli, e che giace nel nostro profondo.
Non è vero che il disordine sia necessario per
dipingere il disordine; non è vero che il caos della
pagina scritta sia il miglior simbolo del caos ultimo a
cui siamo votati: crederlo è vizio tipico del nostro
secolo insicuro».
[fine citazione]
Significato del passo
Scrivere in modo chiaro è un dovere morale. Scrivere in
modo oscuro «è un antico esercizio repressivo», cioè
un modo obliquo e sleale di imporsi sugli altri.
La chiarezza dello stile di Levi non è una caratteristica
formale, ma è una scelta morale, una dichiarazione di
fede etica e civile. Questo è lo stile di Levi: un impegno
di civiltà e di moralità.
Stile = non forma, ma modo di conoscere, di guardare il
mondo.
Citazione manzoniana
La citazione dal cap. VIII dei Promessi sposi è significativa, perché mostra il realismo del romanzo manzoniano, nel quale non esistono personaggi esenti da difetti.
Anche l’eroico padre Cristoforo, commette un errore, perché adotta il latino con fra Fazio (che il latino non lo sa). Padre Cristoforo si comporta come don Abbondio quando usa il latino con Renzo: commette un sopruso, un atto di violenza.
Anche padre Cristoforo commette un atto di violenza contro fra Fazio.
Si può notare che lo commette a fin di bene (per salvare degli innocenti), ma resta nondimeno un atto di violenza e come tale condannabile. Non parlare (o scrivere) in modo chiaro è un sopruso, una violenza. Questo intende dire Levi con la citazione manzoniana.
Oscurità verbale
«Neppure è vero che solo attraverso l’oscurità verbale
si possa esprimere quell’altra oscurità di cui siamo figli,
e che giace nel nostro profondo».
Anche questo passo è importante: Levi contesta ogni forma
di «ermetismo» e ogni forma di «oscurità» (in contrasto con
quanto sostiene Montale). La chiarezza razionale
dell’esposizione non arretra dinanzi a nulla: «Non è vero
che il disordine sia necessario per dipingere il disordine».
Dobbiamo imparare a dipingere il disordine con
chiarezza e con rigore.
In effetti, l’ultimo Montale (con Satura, 1971) ha
contraddetto se stesso, avvicinandosi alla chiarezza
amata da Primo Levi.
Natalia Ginzburg,
il coraggio
dell’anticonformismo
Natalia Ginzburg: la cronaca grigia d’ogni
giorno
Il terreno più congeniale a Natalia Levi (che si firma con il cognome del marito Leone Ginzburg) è la cronaca grigia d’ogni giorno, indagata senza enfasi con una prosa scabra e semplice, che viene da Pavese e dagli scrittori americani. Lessico famigliare,
1963
Osservatrice del muto
dolore
Osservatrice acuta
della realtà circostante,
Natalia riesce a
cogliere, dietro il brusio
dei minimi fatti
quotidiani, un fondo
aspro di privazione, di
desolazione, di muto
dolore.
Il tema della famiglia
Nella sua opera la famiglia diventa spesso protagonista
(Lessico famigliare, 1963; Famiglia, 1977; La famiglia Manzoni, 1983; La città e la casa, 1984): microcosmo protettivo affollato di affetti, abitudini, manìe; guscio caldo che tutela dalla paura del mondo, ma anche luogo di crudeltà e di ottusi egoismi che proiettano nel cerchio della consuetudine domestica le ferite della vita di fuori.
Il coraggio di esprimere le proprie idee
Anticonformista nel modo di pensare, contraria alle mode e alle idee correnti, è determinante in lei il coraggio di esprimere le proprie idee, di andare controcorrente, di schierarsi contro «le parole della tribù», cioè quelle parole che in ogni epoca attirano sempre il consenso generale, ma sono spesso interessate e convenzionali.
L’uso delle parole (1989)
«Nella nostra società attuale, è stato decretato
l’ostracismo alla parola cieco e si dice invece non
vedente. È stato decretato l’ostracismo alla parola sordo e
si dice non udente. Le parole non vedente e non udente
sono state coniate con l’idea che in questo modo i ciechi e i
sordi siano più rispettati».
[continua]
continua cit. di Natalia Ginzburg:
La nostra società non offre ai ciechi e ai sordi
nessuna specie di solidarietà o di sostegno, ma ha
coniato per loro il falso rispetto di queste nuove
parole. Le troviamo artificiali e ci offendono le orecchie
e francamente le detestiamo».
[continua]
continua cit. di Natalia Ginzburg:
«A volte le parole che sentiamo usare e infine usiamo
noi stessi per docilità, non sono soltanto ipocrite, sono
aberranti. Lo sterminio degli ebrei nei campi di
concentramento nazisti, viene ora costantemente chiamato
olocausto. Se cerchiamo la parola olocausto nel
vocabolario, troviamo scritto: ‘sacrificio a Dio d’una vittima’.
Dov’era il sacrificio e in nome di quale Dio sono stati
ammazzati milioni di ebrei nelle camere a gas?»
[continua]
continua cit. di Natalia Ginzburg:
Non è stato un olocausto è stato un genocidio. Non c’è
stato nessun olocausto nel nostro secolo. C’è stato un
genocidio. Nel coniare la parole olocausto, è palese
l’intenzione di dare una dignità storica e religiosa a un
evento dove la religione e la dignità storica erano del
tutto assenti».
[continua]
continua cit. di Natalia Ginzburg:
«Nel chiamarlo olocausto si è voluto giustificarlo e
nobilitarlo. Perciò la parola olocausto è oltraggiosa per
la memoria di quei morti. Fu un genocidio. Portò nel
nostro secolo un’idea dello sterminio che non c’era
prima, lo sterminio calcolato e studiato a un tavolo,
quietamente, a freddo e senza passione».
(N. Ginzburg, L’uso delle parole [1989], in Non possiamo
saperlo. Saggi 1973-1990, a cura di D. Scarpa, Torino,
Einaudi, 2001, pp. 149-151).
fine