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© Medusa Editrice 2014 – MATTEO SPERADDIO, In PRIMA PAGINA
OGGI
IL MONDO DOMANI
PRIMA PAGINA
L ’ a t t u a l i t à s u i b a n c h i d i s c u o l a
Divide Israele dai territori palestinesi
Il muro della paura Settecento chilometri di muri, trincee, porte elettroniche per
impedire l’intrusione di terroristi nel territorio di Israele.
La grande muraglia cinese è l’unica co-
struzione umana visibile dalla Luna. È
lunga 6.500 chilometri, praticamente sei
volte la distanza che corre tra le Alpi e la
Sicilia. È stata costruita nel III secolo a.C.
Per la sua maestosità e la sua grandezza è,
come le piramidi, una delle testimonianze
delle capacità realizzatrici dell’uomo an-
che in epoche in cui le conoscenze e la
strumentazione tecniche erano molto limi-
tate. Ma la grande muraglia è soprattutto
la testimonianza di una grande paura: è
stata costruita per fare, letteralmente, mu-
ro contro le incursioni delle popolazioni
nomadi dell’Asia centrale, che invadevano
le fertili terre coltivate della Cina setten-
trionale. Come ogni muro, aveva la fun-
zione di segnare un limite tra ciò che è
nemico e ciò che è amico, tra ciò che in-
quieta e ciò che rassicura, tra il conosciuto
e l’ignoto. Dai deserti e dalle montagne
dell’Asia centrale arrivavano infatti uo-
mini sconosciuti e spaventosi, che sgu-
sciavano furtivi nella notte o si abbatteva-
no su città, paesi e villaggi con la violenza
e la fugacità di un uragano, lasciando die-
tro di sé lutti, miserie, paure e leggende.
La muraglia cinese può essere vista come
il più grande monumento alla paura, la
paura che diventa panico e inquietudine di
fronte a un nemico sconosciuto, sfuggen-
te, inafferrabile e che spinge a chiudersi, a
barricarsi, a frapporre ostacoli e barriere.
Non si vedrà dalla luna come la mura-
glia cinese, ma anche il muro che hanno
costruito gli Israeliani si impone per i suoi
numeri. È lungo 700 chilometri ed è costa-
to oltre cinque miliardi di dollari. È la più
costosa opera pubblica progettata dallo
Stato d’Israele. Uno sproposito? No, ri-
spondono in Israele: è solo il prezzo che
bisogna pagare per la sicurezza.
Israele ha uno dei migliori eserciti del
mondo, ben organizzato e armato con le
armi più moderne e sofisticate. Dispone
anche di uno dei più efficienti servizi di
sicurezza del pianeta, il Mossad. Quale
sicurezza in più può dare un muro o una
barriera di filo spinato?
Forse Israele si trova di fronte un ne-
mico forte e possente, da contrastare in
tutti i modi? Il nemico è rappresentato da
un popolo, quello palestinese, che non ha
nemmeno un vero e proprio Stato, anzi
aspira ad averne uno da oltre cin-
quant’anni. Nessuno Stato, nessun eserci-
Medio Oriente: il conflitto e Israeliani e Palestinesi
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to, quindi. Il popolo palestinese è un ne-
mico che Israele ha sconfitto e umiliato
militarmente, anche quando aveva al suo
fianco gli altri Stati arabi. Che bisogno c’è
allora di un muro? È solo un bisogno psi-
cologico di frapporre una barriera, un o-
stacolo tra sé e il nemico?
Difficile crederlo, perché tra Israeliani e
Palestinesi non c’è neppure quella barriera
legale e spesso simbolica, rappresentata dai
confini tra due Stati. Molti Palestinesi vi-
vono nei confini di Israele e sono cittadini
di Israele; molti Israeliani hanno colonizza-
to territori che dovrebbero costituire il futu-
ro Stato palestinese. A che cosa serve un
muro se si condivide lo stesso territorio?
E allora? Probabilmente il meccanismo
psicologico è proprio lo stesso che mosse i
Cinesi: anche il muro costruito da Israele è
un monumento alla paura. Simile è anche
la tipologia del nemico, che è invisibile,
inafferrabile, sfuggente proprio come i
Mongoli o i Turcomanni di migliaia di
anni fa. Anzi di più, perché non c’è niente
di più sfuggente di un terrorista, perché il
terrorista può essere chiunque: il baldo
giovanotto un po’ sprezzante, la schiva
ragazzina coperta dal velo, l’uomo ema-
ciato e smagrito da una malattia incurabi-
le, la vecchina instabile che entra nel su-
permercato, l’anonimo impiegato che cor-
re svelto al lavoro, il…
Per anni Israele ha subito attacchi at-
tacchi terroristici sul proprio territorio, at-
tacchi portati da persone assolutamente
comuni, ma determinate a distruggere se
stesse pur di seminare morte e distruzione,
pur di far provare il sapore amaro della
paura e dell’insicurezza. Il terrorismo è un
nemico subdolo e sconosciuto che colpi-
sce proprio là dove pullula più rigogliosa
la vita: sul pullman affollato, tra i tavolini
di un bar, nei pressi di una discoteca, vici-
no a una scuola…
Il terrorista è un nemico destinato a re-
stare senza volto anche dopo la morte,
perché ridotto a brandelli dalla sua stessa
furia omicida.
A ogni attentato in Israele si sono rin-
novati lo sgomento, il dolore, la rabbia.
Dopo ogni attentato è scattata la rappresa-
glia d’Israele che ha bombardato villaggi,
ha distrutto case, ha rastrellato presunti
terroristi, ha arrestato, ha assediato. Dopo
i primi tre anni di attacchi suicidi, si sono
contati oltre novecento morti israeliani;
quelli palestinesi sono stati il triplo
Morti e sofferenze inutili, dall’una e
dall’altra parte, perché i kamikaze hanno
continuato a colpire e l’esercito israeliano
ha continuato a scatenare le sue rappresa-
glie, in un botta e risposta infinito che a-
limenta l’odio e rende impossibile un ac-
cordo che riporti la pace nella regione.
E allora? Non resta che il muro, anzi la
“recinzione di sicurezza”, come la chiama-
no gli Israeliani o il muro dell’apartheid,
come lo chiamano i Palestinesi?
Sono passati oltre sessant’anni dal
momento in cui è stato costituito
dall’ONU lo Stato d’Israele. Ci sono state
guerre, c’è stato il terrorismo dall’una e
dall’altra parte, ci sono state tregue, mas-
sacri, accordi solenni, clamorose voltafac-
cia, nuovi scontri e, negli ultimi anni, uno
stillicidio continuo di attacchi suicidi da
parte palestinese e rappresaglie sempre più
feroci da parte israeliana.
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Dopo sessant’anni di scontri, di guerre,
di odio, è difficile forse trovare ancora
qualcuno che in terra di Palestina ricordi
cosa significa vivere in pace. Alcune ge-
nerazioni di Palestinesi e Israeliani sono
nate, sono cresciute, sono diventate adulte,
senza aver mai conosciuto la pace.
Eppure la pace è inevitabile, perché
nessuno dei due popoli può realisticamente
pensare di poter mandare via l’altro popolo.
Sono obbligati a convivere e forse anche a
collaborare. La pace non è un’utopia, è
l’unica strada percorribile.
È anche possibile? Alla fine della se-
conda guerra mondiale chi avrebbe credu-
to a un futuro di pace per l’Europa distrut-
ta e insanguinata dalla guerra? Qualcuno
ci ha creduto, ha lavorato per questo ed è
successo. Può succedere anche in Palesti-
na, perché oltre a uomini di guerra ci sono
anche uomini che continuano a pensare
alla pace.
Lavoriamoci su
1. Perché la grande muraglia cinese è definita un «monumento alla paura»?
2. Secondo gli Israeliani a che cosa serve il muro?
3. Quanti morti, da una parte e dall’altra, ci sono stati nei primi tre anni di at-tacchi terroristici?
4. Da quando dura il conflitto mediorientale?
SCHEDA Le parole-chiave
Diaspora Vuol dire «dispersione». I Romani, dopo le rivolte giudaiche e la distruzione del tem-
pio di Gerusalemme (70-135 d.C.), imposero agli Ebrei di abbandonare la Palestina e
di disperdersi nell’Impero.
Antigiudaismo Odio dei cristiani contro gli Ebrei, fondato su pregiudizi religiosi (gli Ebrei venivano
accusati di deicidio per aver crocifisso Gesù), e su elementi leggendari (gli Ebrei veni-
vano fatti discendere dal demonio, venivano accusati di profanare le ostie consacrate,
di essere ostinati nel rifiuto di accettare il vero dio). Durante il Medioevo gli Ebrei – a
cui era proibito di possedere terre e di esercitare molte professioni – venivano odiati
anche perché prestavano soldi a interesse, un’attività invisa ai più e considerata pec-
caminosa dalla Chiesa.
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Ghetti A partire dal secolo XVI gli Ebrei, a cui non veniva riconosciuta la cittadinanza, furo-
no obbligati a risiedere in quartiere a loro riservati, i ghetti.
Pogrom Termine russo che vuol dire «devastazione». Sono chiamati così i massacri di Ebrei
perpetrati periodicamente a partire dal Seicento fino al Novecento. Particolarmente
frequenti nell’Europa orientale, soprattutto in Russia.
Antisemitismo Nella seconda metà dell’Ottocento si ebbe una ripresa di atteggiamenti ostili nei con-
fronti degli Ebrei che sfociarono in vero e proprio antisemitismo, molto diverso però
da quello religioso dell’età medievale e moderna. Gli Ebrei venivano accusati di ma-
novrare a loro piacimento la finanza mondiale e di sfruttare economicamente e so-
cialmente le popolazioni europee. Nel 1903 cominciò anche la diffusione in tutta
l’Europa di un falso documento, il “Protocollo dei Savi Anziani di Sion”, in cui questi
inesistenti Savi di Sion esponevano un piano ebraico di conquista del mondo.
Sionismo Movimento per ricostituire uno Stato ebraico in Palestina. Fu fondato da Theodor
Herzl nel 1896. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento sorsero i primi in-
sediamenti sionisti in Palestina. Il sionismo si accentuò durante gli anni Venti e Trenta
per le difficoltà che gli Ebrei incontravano in Europa. L’immigrazione massiccia degli
ebrei in Palestina provoca i primi scontri con la popolazione araba (rivolta araba del
1936). Nel 1939, agli inizi della seconda guerra mondiale, gli Ebrei rappresentavano il
30% della popolazione palestinese.
Dichiarazione di Balfour Nel 1917, con la dichiarazione del ministro degli esteri britannico, Arthur Balfour,
l’Inghilterra, che controllava la regione mediorientale, si era impegnata a favorire la
creazione di uno Stato nazionale ebraico.
Shoah Vuol dire “disastro, catastrofe”. Indica lo sterminio degli ebrei da parte dei nazisti du-
rante la seconda guerra mondiale. Nei campi di sterminio morirono circa sei milioni di
Ebrei.
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Un po’ di storia Un conflitto infinito
1947 – L’intervento dell’Onu
L’Onu decide di dividere il territorio palestinese tra Ebrei e Arabi. Per Gerusalemme è
previsto uno statuto internazionale.
1948-1949 – Guerra di indipendenza
Nasce lo Stato d’Israele. Nel maggio 1948 il neonato Stato d’Israele viene invaso dagli
eserciti della Lega araba (egiziani, giordani, iracheni, siriani e libanesi).
Israele riesce a respingere gli invasori, nonostante l’inferiorità numerica. I confini del
piano di spartizione dell’Onu vengono modificati: Israele si annette la Galilea occi-
dentale e il Neged e congiunge il proprio territorio a Gerusalemme.
Nasce il problema dei profughi palestinesi: oltre mezzo milione di Arabi abbandonano
precipitosamente Israele. Sosterranno sempre di aver diritto al ritorno nella propria
terra.
La Giordania si annette la Cisgiordania, l’Egitto occupa la striscia di Gaza. Ambedue i
territori avrebbero dovuto costituire lo Stato palestinese.
1956-57 – Attacco di Israele all’Egitto
Israele attacca preventivamente l’Egitto, che aveva stretto accordi militari con i paesi
che circondavano Israele. Sotto la guida di Moshe Dayan Israele occupa la striscia di
Gaza e la penisola del Sinai. Usa e URSS costringono Israele a ritirarsi, mentre le for-
ze dell’Onu si interpongono tra egiziani e israeliani per mantenere la pace.
1967 – Guerra dei sei giorni
Il presidente egiziano Nasser mette su una larga coalizione di paesi arabi (paesi confi-
nanti con Israele, ma anche Sudan, Marocco, Algeria e Tunisia). Israele sferra un at-
tacco preventivo e, in soli sei giorni, sconfigge completamente gli eserciti della coali-
zione. Occupa il territorio del Sinai, la striscia di Gaza, la Cisgiordania e le alture del
Golan. Sono questi (ad eccezione del Sinai, restituito all’Egitto nel 1979) i “territori
occupati”, controllati ancora oggi da Israele, ma rivendicati dai palestinesi.
La sconfitta nella guerra dei sei giorni convinse i palestinesi che, se volevano ricon-
quistare la loro terra, dovevano fare da soli. Nacquero allora Al Fatah, il Fronte Popo-
lare per la liberazione della Palestina (Fplp), il Fronte democratico della liberazione
della Palestina (Fdlp) e l’Organizzazione della Liberazione della Palestina, l’OLP,
che doveva guidare la resistenza. Partendo dalla Giordania e dal Libano i Palestinesi
tenevano sotto pressione Israele e, nelle stesso tempo, organizzavano azioni spettaco-
lari per richiamare l’attenzione del mondo sulla questione palestinese.
Medio Oriente: il conflitto e Israeliani e Palestinesi
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1969 – Arafat, capo dell’OLP
Il palestinese Yasser Arafat, fondatore del gruppo combattente Al Fatah, viene eletto
presidente dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina. L’anno dopo i pae-
si arabi lo riconoscono come unico rappresentante dei palestinesi.
1973 – La guerra del Kippur
L’Egitto, appoggiato dalla Siria, attacca Israele durante la festività del Kippur. Nono-
stante la sorpresa, Israele riesce a bloccare l’attacco. L’Onu impone il cessate il fuoco
e invia i caschi blu a presidiare una zona smilitarizzata.
1978 – Accordi di Camp David
Sono firmati dal presidente egiziano Muhammad Anwar al Sadat, dal primo ministro
israeliano Menachem Begin e dal presidente americano Jimmy Carter. Prevedono la
restituzione del Sinai, l’apertura di normali rapporti diplomatici ed economici, la con-
cessione dell’autonomia ai palestinesi. Quest’ultimo punto dell’accordo resta lettera
morta.
1977-1981 – Guerra civile in Libano
Lo scoppio della guerra civile tra musulmani e cristiani maroniti in Libano coinvolge
anche i palestinesi e israeliani. Il libano resta diviso in quattro parti controllate da si-
riani, israeliani, cristiani libanesi e palestinesi. Alla fine i capi della resistenza palesti-
nese sono costretti a spostare il loro quartiere generale, perché non riescono più a resi-
stere ai bombardamenti degli israeliani guidati dal ministro della difesa Ariel Sharon.
1982 – Il massacro di Sabra e Chatila
Nei campi profughi palestinesi sono rimasti quasi solo vecchi, donne e bambini. Ariel
Sharon, determinato a eliminare tutti i terroristi, raggiunge un accordo con i cristiani
maroniti, che, coperti dall’esercito israeliano, organizzano un’incursione nei campi
profughi trucidando i palestinesi casa per casa.
L’opinione pubblica mondiale resta scossa dalle immagini dell’eccidio. Sharon è co-
stretto a dimettersi. Israele è costretta a lasciare il Libano, che passa sotto il controllo
della Siria. L’OLP è lontana. La resistenza palestinese sembra esaurita.
1987-1991 – La prima Intifada
L’8 dicembre un camion israeliano investe una macchina con quattro operai di Gaza
uccidendoli. I Palestinesi pensano a un atto intenzionale. La rivolta scoppia violenta e
prende una piega inattesa: a combattere sono donne e bambini che lanciano bottiglie
incendiarie e pietre contro i carri armati.
I soldati di leva israeliani sono in difficoltà a sparare su donne e bambini. Duecento
riservisti si rifiutano addirittura di andare nei Territori occupati. L’OLP riprende il
controllo della rivolta.
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Rafforzata dalla rivolta popolare, l’OLP per la prima volta invoca una soluzione basa-
ta su due Stati.
Frattanto però è nata la Jihad islamica per la Palestina e nel 1988 si costituisce il
gruppo di Hamas, formato da esponenti della cosiddetta Fratellanza Musulmana, gui-
data dallo sceicco Ahmad Isma’il Hasan Yassin. I due gruppi musulmani si oppongono
all’Olp di ispirazione laica: condividono l’obiettivo di mandare via i sionisti, ma non
quello di arrivare a due Stati.
1991-1995 – Dalla Guerra del Golfo a Oslo
Nel 1991 l’Iraq invade il Kuwait e una larga coalizione internazionale guidata dagli
Stati Uniti interviene per ristabilire l’ordine internazionale. All’indomani della fine
della guerra, il presidente americano George Bush senior rilancia il processo di pace
tra Israele e palestinesi.
L’anno dopo il partito laburista vince le elezioni in Israele e Yitshal Rabin diviene
primo ministro. Il dialogo per la pace riprende con più vigore e si arriva nel 1993 alla
storica stretta di mano tra Arafat e Rabin alla Casa bianca.
L’accordo prevede: 1) il riconoscimento reciproco; 2) l’impegno di Arafat a fermare il
terrorismo; 3) l’istituzione di un’autorità di autogoverno palestinese; 4) il trasferimen-
to graduale dell’autorità civile sui territori occupati da Israele ai palestinesi.
Nel 1994 le forze armate israeliane si ritirano dalla striscia di Gaza e da Gerico e Ara-
fat torna in Cisgiordania.
L’Autorità nazionale palestinese (Anp) guidata da Arafat non riesce a rilanciare
l’economia e ad assicurare maggior benessere. Hamas, Jihad e Fplp intanto si oppon-
gono a ogni accordo e continuano la lotta armata, mettendo in seria difficoltà Arafat
che non vuole o non può fermare il terrorismo.
Nonostante ciò si arriva all’accordo di Oslo (settembre 1995) che divide la Cisgiorda-
nia in tre aree: Area A, a totale controllo palestinese; Area C, a totale controllo israe-
liano; Area B, a controllo misto.
La pace sembra finalmente arrivata, quando durante una manifestazione di festeggia-
menti, Rabin viene ucciso da uno studente in legge della destra religiosa israeliana.
1996-2000 Il mancato accordo
Il processo di pace non si ferma, ma continua stancamente. Israele non si affretta a
mantenere gli impegni presi e Arafat non è in grado o non vuole mantenere i suoi. Il
terrorismo continua a imperversare, mentre per motivi di sicurezza i Territori vengono
chiusi.
Tutto sembra smentire il processo di pace. Il presidente americano Bill Clinton cerca
in tutti i modi di forzare la situazione, costringendo Arafat e il nuovo primo ministro
Barak a firmare un accordo che risolva definitivamente la questione. Ma l’accordo non
c’è e la tensione ritorna alta.
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2000 - 2006 La seconda intifada e i kamikaze
In questa situazione il 28 settembre 2000 il leader del Likud Ariel Sharon – quello di
Sabra e Chatila – si presenta con mille uomini armati sulla spianata delle Moschee, il
luogo più sacro per i musulmani. È una grave provocazione e il giorno stesso comin-
ciano le manifestazioni di protesta con lanci di pietre contro i soldati israeliani. È co-
minciata la seconda intifada.
Mentre Arafat perde sempre più il controllo della situazione, cominciano gli attacchi
suicidi, ispirati da Hamas e dalla Jihad islamica, che seminano strage tra la popolazio-
ne civile di Israele.
La sicurezza diventa il problema principale di Israele e alle elezioni trionfa chi di quel-
lo scoppio di violenza è stato il detonatore: Ariel Sharon, che decide di rispondere
colpo su colpo agli attacchi terroristici: a ogni attentato Israele risponde con rappresa-
glie e incursioni nei territori controllati dall’autorità palestinese. Lo stesso Yasser Ara-
fat viene confinato a Ramallah, impedito di fatto a svolgere la sua funzione politica.
Dal 2003 Israele avvia la costruzione del muro per controllare gli ingressi dei palesti-
nesi nel suo territorio, nella speranza di arginare il terrorismo. Frattanto cerca di colpi-
re duro i dirigenti palestinesi: il 22 marzo 2004, tre missili lanciati dall’esercito israe-
liano disintegrano la bianca figura dello sceicco Ahmad Isma’il Hasan Yassin, il capo
spirituale di Hamas, mentre esce dalla moschea dopo aver recitato le preghiere del
mattino.
Nello stesso anno Yasser Arafat muore a Parigi, dove si era recato per essere curato. Il
suo posto verrà preso da Abu Mazen.
Le violenze continuano da una parte e dall’altra. Inaspettatamente, Ariel Sharon an-
nuncia l’intenzione di lasciare la striscia di Gaza: rientreranno in Israele sia i soldati
che gli ottomila coloni insediati nei 25 villaggi costruiti a partire dal 1967. Ariel Sha-
ron, il più odiato dai palestinesi, sembra voler proporsi come garante di un processo di
pace. Questa volta il tentativo potrebbe andare in porto, perché, per il suo passato poli-
tico, Sharon non può essere accusato di cedere al nemico e può perciò convincere an-
che gli estremisti di destra ad accettare l’idea di trattare.
Mentre comincia il ritiro unilaterale dei soldati israeliani dai territori occupati, Ariel
Sharon, colpito da un’emorragia cerebrale, va in coma, un coma lunghissimo da cui
non si sveglierà più (muore nel 2014).
2006 → Lo stallo attuale
Dopo la morte di Sharon, il ritiro di Israele dai territori occupati è stato realizzato a
metà: sono andati via i soldati, ma non i coloni.
Israele ha completato la costruzione del muro e ha ripreso a favorire gli insediamenti
dei coloni israeliani nei territori occupati (90 nuovi insediamenti solo nella zona a ri-
dosso di Ramallah). Questa politica aggressiva è portata avanti dal nuovo premier,
Benjamin Netanyahu, ed è una scelta che non favorisce certo il processo di pace, anzi
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crea continuamente nuovi elementi di frizione.
I due leader – Abu Mazen per i palestinesi e Benjamin Netanyahu per gli israeliani –
non riescono a intavolare un dialogo.
Ufficialmente, il quartetto formato dall’ONU, dagli USA, dall’UE e dalla Russia con-
tinua a lavorare per la pace, ma senza passi avanti apprezzabili. Neanche il nuovo pre-
sidente degli USA, il democratico Barack Obama, riesce a imprimere un nuovo impul-
so alle trattative.
Nel 2012 i palestinesi fanno segnare un punto a loro favore, riuscendo a ottenere che
la Palestina venga ammessa all’ONU come Stato osservatore non membro. Sembra un
passo decisivo per il riconoscimento dello Stato palestinese.
Non seguono però novità di rilievo, anzi la questione palestinese sembra relegata in
secondo piano dopo la «Primavera araba», che dal 2010 ha investito tutto il mondo a-
rabo, rendendo molto instabile la situazione nel nord-Africa e nel Medio Oriente. La
questione palestinese è diventato un piccolo tassello in uno scacchiere che negli ultimi
anni è percorso da ansie di rinnovamento e da brutali repressioni. Ora gli occhi del
mondo sono puntati sulla Libia, sull’Egitto, sulla Siria, sull’Iraq.
Lavoriamoci su
1. Come è quando è nato il contenzioso tra Israeliani e Palestinesi?
2. Sapresti spiegare che cos’è il sionismo e che origine culturale ha?
3. Che cos’è l’intifada?
4. A che cosa serve il muro costruito da Israele?
5. Lo Stato d’Israele ha uno degli eserciti più forti del mondo e un servizio segreto tra i più efficienti; eppure i Palestinesi sono riusciti a mettere in seria difficoltà Israele: come?
6. Attualmente com’è la situazione? Esiste un Stato d’Israele, ma non uno Stato pale-stinese: perché? Sarebbe giusto che anche i Palestinesi avessero un loro Stato?
Il piano di pace di Ginevra È uno dei più realistici piani elaborati per arrivare alla pace tra il popolo israeliano e
quello palestinese. È interessante, non solo perché è una della poche proposte concrete
di pace, ma anche perché fa capire bene quali sono i problemi da risolvere per mettere
la parola fine a uno scontro che dura da oltre mezzo secolo.
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Il piano di pace di Ginevra da Le Monde, Francia, in Internazionale n. 514/2004
L’obiettivo è stato identificato da tempo: la pace si ottiene creando un Stato palestine-
se. Ma il metodo previsto dagli ideatori del nuovo piano di pace tra israeliani e pale-
stinesi è rivoluzionario. Invece della politica dei piccoli passi seguita nell’ultimo de-
cennio, dagli accordi di Oslo fino alla road map dell’aprile 2003, due abili negoziatori
come l’israeliano Yossi Beilin e il palestinese Yasser Abed Rabbo, affiancati da esper-
ti e responsabili politici delle due parti, hanno scelto un metodo volontaristico, facilita-
to dal carattere non ufficiale della loro procedura.
La loro iniziativa affronta direttamente quel che finora era sempre stato rinviato
all’ultima fase di qualsiasi negoziato: i nodi centrali del contenzioso israelo-
palestinese. Il piano infatti prende in considerazione le frontiere, lo status di Gerusa-
lemme, il futuro delle colonie e dei profughi. Questa scelta è frutto di un’analisi della
situazione fatta dopo tre anni di violenze ininterrotte.
Principi Il piano conferma l’esistenza di due entità: lo Stato di Israele e l’Organizzazione di li-
berazione della Palestina (Olp). E riconosce «un diritto del popolo ebraico a uno Sta-
to» e un «diritto del popolo palestinese a uno Stato».
Frontiere La base del tracciato è costituita dalla Linea verde, la linea di armistizio del 1949. È
combinata con alcuni scambi di terre per risolvere una delle questioni più spinose del
conflitto: quella delle colonie ebraiche. Lo scambio avverrà su una base di parità.
Gerusalemme La soluzione del problema di Gerusalemme si basa su un principio «clintoniano»
(suggerito cioè dall’ex Presidente degli USA, Bill Clinton) : una sovranità palestinese
sulle zone popolate in maggioranza da palestinesi e una sovranità israeliana sulle zone
a maggioranza israeliana. Ciò comporterà una divisione politica della città. In queste
zone i due paesi potranno stabilire le loro capitali riconosciute dalla comunità interna-
zionale.
Profughi A ogni palestinese che si è rifugiato all’estero sarà proposta una serie di scelte, sotto il
controllo di una «commissione internazionale». I profughi potranno esercitare un dirit-
to di ritorno nel quadro di questo futuro stato palestinese, sia all’interno della Linea
verde sia sulle parti di terra cedute da Israele. Potranno inoltre decidere se andare in un
paese terzo, in Israele o rimanere nel paese dove risiedono attualmente. I profughi
hanno due anni di tempo per fare la loro scelta, dopodiché perderanno automaticamen-
te il loro stato di profughi.
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Controllo e accesso ai luoghi santi Sarà costituito un «gruppo di applicazione e di verifica» per «aiutare, assistere, garan-
tire, controllare e risolvere le controversie» legate all’applicazione del piano; sarà
composta da Stati Uniti, Russia, Unione europea e Nazioni unite.
Liberazione dei prigionieri La questione dei prigionieri sarà affrontata secondo un approccio bilaterale.
Lavoriamoci su
1. Ogni accordo si basa sul riconoscimento delle ragioni dell’altro: qual è il riconoscimento
reciproco su cui si basa il Piano di Ginevra?
2. Che cosa sono le colonie ebraiche? Perché sono definite un «problema spinoso»?
3. Sapresti spiegare chi è un profugo? Quali diritto viene riconosciuto ai profughi palesti-nesi?
IL COSTUME LA LEGGE Il terrorismo
Il terrorismo è l’uso della violenza per raggiungere degli obiettivi politici. In
un’attività terroristica ci sono sempre:
una o più azioni violente (attentato dinamitardo, assassinio, rapimento…) che
provocano danni materiali e mettono in pericolo delle vite umane;
la volontà di intimidire la popolazione civile;
la volontà di influire sulla politica di un governo;
l’obiettivo di richiamare l’attenzione dei media.
Il terrorismo suicida usa delle persone disposte a morire, per colpire la po-
polazione civile o obiettivi militari. L’obiettivo non sono però le persone colpi-
te o uccise, ma quelle costrette ad assistervi, cioè l’opinione pubblica. La fina-
lità è sempre quella di ottenere un obiettivo politico (indipendenza, autonomia,
liberazione di prigionieri politici..).
L’attacco suicida è scelto generalmente dalla parte più debole in un conflit-
to, convinta di non poter raggiungere i suoi scopi con mezzi meno cruenti e
non autolesionisti. A livello internazionale il ricorso al terrorismo è stato prati-
cato negli ultimi decenni dall’organizzazione al Quaeda.
Oltre ad al Qaeda, negli ultimi anni sono ricorsi agli attacchi suicidi i Ceceni
e i Palestinesi. Ambedue i popoli sono impegnati in una lotta di liberazione na-
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zionale, contro la Russia i Ceceni, contro Israele i Palestinesi.
Il primo attacco suicida in Medio Oriente è stato quello contro l’ambasciata
irachena di Beirut, nel 1981 (27 morti e oltre cento feriti).
Kamikaze
Il termine kamikaze usato sui mass-media è improprio, quando viene riferito
agli attacchi suicidi ispirati dal fondamentalismo musulmano. Il termine più
appropriato per designarli è “shahid”, cioè martire.
I kamikaze (“vento divino”) erano, invece, giovani piloti giapponesi che,
nella fase finale della seconda guerra mondiale, si lanciavano volontariamente
con i loro caccia pieni di carburante contro le navi statunitensi (battaglia di O-
kinawa, aprile 1945), provocando molte vittime e prolungando nel tempo una
guerra ormai perduta.
La reazione occidentale al terrorismo
L’attentato più shoccante per l’opinione pubblica mondiale è stato l’attacco alla
Torri gemelle dell’11 settembre 2001, shoccante per le modalità con cui è stato
portato a termine e shoccante per il numero di vittime.
Il pericolo terrorista ha provocato un aumento delle misure di sicurezza e
dei controlli soprattutto negli aeroporti e una limitazione delle garanzie demo-
cratiche e processuali negli Stati Uniti.
Nel periodo immediatamente successivo all’11 settembre, ci sono state gravi
ricadute economiche negative in tutti i paesi occidentali. Soprattutto il settore
dei trasporti e quello turistico ne hanno sofferto molto.
Polizia, magistratura e servizi segreti hanno alzato la guardia, aprendo molte
inchieste e intensificando i controlli. Molti gli arresti, non solo negli Stati Uni-
ti, ma anche in Europa e in Italia.
L’attacco alle Torri gemelle ha influenzato i rapporti internazionali per un
decennio. Gli Stati Uniti hanno subito lanciato l’allarme nei confronti degli
Stati canaglia, cioè di quegli Stati accusati di favorire il terrorismo internazio-
nale, con un atteggiamento di tolleranza o addirittura di complicità nei confron-
ti del terrorismo.
Dopo vari avvertimenti e dopo un invito a consegnare il capo riconosciuto
di al Qaeda, Osama bin Laden, gli Stati Uniti hanno prima attaccato con
l’aviazione e poi invaso l’Afghanistan. Secondo gli Stati Uniti, non si sarebbe
però trattato di una guerra tra due Stati, ma di un’operazione di polizia interna-
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zionale, tesa ad arrestare i terroristi. L’attacco americano ha provocato la cadu-
ta del regime dei talebani, ma bin Laden è stato catturato e ucciso solo dopo
molti anni.
Successivamente gli Stati Uniti hanno rivolto la loro attenzione a un altro
Stato canaglia, l’Iraq, governato dal dittatore Saddam Hussein, accusato di es-
sere complice del terrorismo internazionale e di disporre di armi distruzione di
massa.
Nonostante la contrarietà di gran parte dell’opinione pubblica internazionale
e del mancato avallo dell’ONU, le truppe di Stati Uniti e Regno Unito hanno
attaccato l’Iraq, hanno sconfitto le truppe di Saddam e arrestato lo stesso ditta-
tore, che successivamente è stato condannato a morte e giustiziato.
La gestione del dopoguerra si è rivelata però più difficile del previsto: i sol-
dati americani ha subito continui attacchi e hanno pagato un pesante contributo
di sangue, mentre l’Iraq è scivolato in un clima di guerra civile, diventando un
ulteriore elemento di instabilità nel Medio Oriente.
Il terrorismo frattanto ha continuato a spargere sangue in tutto il mondo. Gli
sviluppi della situazione hanno dimostrato che rispondere con la guerra al ter-
rorismo non è la strategia migliore, perché logora la situazione politica interna-
zionale e allontana le possibilità di riportare la pace in Medio Oriente.
Lavoriamoci su
1. Che cos’è il terrorismo?
2. Da chi è praticato il terrorismo a livello internazionale?
3. Che cosa si intende con l’espressione “Stato canaglia”?
4. Quali sono le motivazioni statunitensi per gli interventi in Afghanistan e in Iraq?
5. Quali effetti ha avuto l’attacco alle Torri gemelle sugli USA e sugli altri Stati occidentali?
Suggestioni letterarie e linguistiche
Primo Levi, Se questo è un uomo
Uno dei fattori che ha accelerato il processo politico che ha portato alla nascita
dello Stato di Israele è stata la Shoah, cioè il tentativo di sterminio portato a-
vanti da Hitler durante la seconda guerra mondiale. La scoperta di quanto era
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successo nei campi di concentramento ha commosso e scosso l’opinione pub-
blica mondiale, creando un largo consenso all’iniziativa dell’ONU che ha por-
tato al riconoscimento dello Stato di Israele nel 1948, subito dopo la fine della
Seconda guerra mondiale.
Qui di seguito riportiamo la poesia che apre uno dei testi più famosi sulla vi-
ta degli internati nei campi di concentramento nazisti, quello di PRIMO LEVI, Se
questo è un uomo, pubblicato nel 1956 con le edizioni Einaudi.
Se questo è un uomo
Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un sì o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
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Domande in linea
1. La poesia è divisa in quattro parti: riassumi brevemente il contenuto di ciascuna di
esse.
2. Nella prima parte, a chi si rivolge il poeta?
3. Nella seconda parte si fa riferimento alla condizione di uomini e donne nei campi di concentramento: com’era la vita di queste persone? Cerca di spiegarlo, interpretando le espressioni della poesia.
4. Nella terza parte, l’autore sollecita i lettori a fare qualcosa: che cosa?
5. La quarta parte è una maledizione: chi dovrebbe colpire? Quali mali vengono augura-ti? Spiega il senso della conclusione di questa poesia.
Percorso di ricerca
1. Fai una breve ricerca sulla Shoah e riassumila in trenta righi.
2. Anche ha sofferto per il fenomeno del terrorismo nei cosiddetti «anni di piombo»: dopo aver fatto una breve ricerca, spiega che cosa si intende con questa espres-sione; da chi veniva praticato il terrorismo; quali differenze c’erano nel modo di o-perare tra terrorismo rosso e terrorismo nero; che cos’è il pentitismo.
Discutere e dibattere
1. Riflettere insieme sulla storia del conflitto tra Israeliani e Palestinesi: come mai non si è arrivati alla pace? Quali ostacoli bisognerebbe rimuovere per arrivare a una coe-sistenza pacifica tra i due popoli?
2. I «pentiti» hanno permesso allo Stato italiano di sconfiggere il terrorismo e di otte-nere importanti vittorie nella lotta alle mafie. Informatevi sul fenomeno e poi discutete-ne fra voi: quale giudizio date del fenomeno? Siete d’accordo che lo Stato conceda sconti di pena a persone che si sono macchiati di gravi crimini in cambio della loro col-laborazione?