il luogo francescano esempio di umanizzazione dello spazio terrestre

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i luoghi francescani nell'Appennino maceratese

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Page 1: IL LUOGO FRANCESCANO ESEMPIO DI UMANIZZAZIONE DELLO SPAZIO TERRESTRE
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Dalla Terra e dal Lavoro dell’uomo - Penna San Giovanni 2006

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IL LUOGO FRANCESCA-NO: ESEMPIO DI UMANIZZAZIONE DELLO SPAZIO TERRESTREdi Andrea Antinori

In Genesi 2,8 si dice: “ Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare,…”. È suggestivo che questo versetto sia stato posto dopo quello sulla creazione dell’uomo e l’origine del sabato, che dice (2,4b) “ Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo, nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo – allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”.

Leggendolo si comprende che la produttività della terra non possa manifestarsi senza l’azione consapevole dell’uomo; anzi sembra di capire l’uomo viene animato dallo spirito di Dio, appositamente per dedicarsi a quella terra con la quale è stato plasmato.Il versetto 2,4 b, evoca con grande precisione l’ambiente del deserto. Nel deserto le foggara, vasti sistemi di cunicoli scavati nel sottosuolo del deserto, permettono la produzione dell’acqua e la vita delle oasi. “ Nessuno faceva salire l’acqua dalla terra” dice infatti il Genesi. Nella foggara, di fatto, l’acqua risale dal sottosuolo ed è come se fosse generata dalla terra stessa. Spesso, erronea-mente, si pensa che le oasi del deserto si formino in quei luoghi dove casualmente vi sia lo spon-taneo affioramento delle acque e il formarsi di una qualche sorgente naturale. In realtà quella, l’oasi, è il prodotto dell’uomo e del lavoro infaticabile della collettività che tutta insieme coopera continuamente per scavare le migliaia di metri di gallerie sotterranee nelle quali l’acqua, salendo per capillarità dalle falde profonde o condensandosi sulle fredde pareti ipogee, scorrerà poi verso l’esterno a fecondare i campi e gli orti. La foggara, infatti, è in realtà una vera e propria “mac-china” per produrre acqua, creata e mantenuta efficiente dall’opera dell’uomo. Dalla produttività della foggara dipende l’intera vita e il benessere della comunità. I matrimoni e il formarsi di nuove famiglie sono possibile solo se c’è acqua da suddividere. La stessa cultura e l’arte degli abitanti delle oasi si ispirano al miracolo dell’acqua, al frutto del lavoro collettivo dell’uomo del deserto, da cui nasce e dipende l’esistenza di quello spazio umanizzato nell’ostile ambiente desertico.Secondo la felice intuizione biblica, quindi, è solo l’uomo che può far si che la terra possa raggi-ungere la sua pienezza, diventi fertile e bella da abitare, ovvero il giardino in cui l’uomo possa diventare veramente umano. Tant’è vero che in Genesi 2,8 si dice ancora: “Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare” A mio avviso non è accidentale che venga rimarcata la bellezza degli alberi prima della loro utilità. L’attuale soci-età economicistica (consumista e capitalista) si sforza di conculcare nelle nostre menti il principio che ha valore solo ciò che è utile, e che è utile solo ciò che produce “l’utile”, ovvero ha un prezzo sul mercato e può essere scambiato per accumulare profitto. Genesi usa, non per caso, il termine “buono”, intendendo quello che è necessario per il bene dell’uomo: non quello che lo rende mate-rialmente ricco, ma ciò che lo rende pienamente umano. E la Bibbia rimarca che per essere buona questa cosa deve essere anche bella a vedersi. È la bellezza che ci fa vivere, che produce i “buoni frutti” dove invece l’utilità economica, fine a se stessa, porta solo distruzione e desolazione.

Qui sta, a mio avviso, la grande intuizione di Francesco: la bellezza del creato, riverbero del

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Dio creatore, cantata continuamente da Francesco, è un mezzo (il dono) attraverso il quale Egli può comunicare con l’uomo e farlo star bene. Ad una condizione, però: che l’uomo cooperi. Il Cre-atore non ha voluto fare tutto lui, con il che sarebbe venuta meno la libertà dell’uomo; ha messo a disposizione i mezzi, la materia, ma è solo l’uomo che può permettere alla terra di produrre frutti. Per sua libera scelta neppure Dio, a questo punto, può far più nulla per la Terra; solo l’uomo. Questa grande responsabilità è tutta sua, grava tutta sulle sue spalle.

In Genesi 2,8 vi è un altro grande messaggio per l’uomo di oggi. Quando Dio plasma l’uomo sente la necessità di collocarlo in un luogo da Lui appositamente creato: il giardino di Eden. Solo qui, radicato in questo “luogo”, l’uomo potrà vivere. Senza un luogo in cui riconoscersi l’uomo non può né vivere né morire umanamente. Una delle cose che più mi sono rimaste impresse delle mie esperienze di vita e di morte fatte da ragazzo, è l’aver scoperto l’ardente desiderio con il quale in punto di morte, i malati ricoverati in ospedale, desideravano di essere riportati a casa. Solo lì, avrebbero potuto distaccarsi con serenità da questa vita. Lì dove la loro vita si era svolta e profon-damente radicata. Per vivere, ma anche per morire, l’uomo ha bisogno di riconoscersi in un luogo che in ogni momento gli rinvii messaggi di identità. Forse la malattia più diffusa oggi, nella nostra società della mobilità, anche se poco percepita, è lo “spaesamento” ovvero il non riconoscersi più in nessun luogo, paese e paesaggio.

Il luogo non è solo un ambiente fisico, fatto di cose materiali (case, alberi, fiumi, mon-tagne…) ma è soprattutto quel meraviglioso intreccio di esperienze, relazioni, luci, immagini, ovvero paesaggi, esteriori ed interiori, che tengono in vita il nostro essere. Infatti qui solamente germogliano ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, cioè gli alberi della vita, che sono tutto ciò che giorno per giorno ci nutre di senso e consapevolezza. Proseguendo nella meta-fora biblica, l’uscita da questo luogo è la morte nell’aridità del deserto, il non luogo dell’indistinto e del caos minerale che si oppone all’ordinata disposizione del luogo coltivato e vissuto consapevol-mente dall’uomo. Pur senza tante analisi sociologiche è nell’esperienza di tutti la constatazione che dove si degrada l’ambiente sociale umano, i rapporti di amicizia e di vicinato, di solidarietà, anche l’ambiente fisico si mostra desolato e degradato, e viceversa. Senza un’identità dei luoghi si fran-tuma anche l’identità dell’uomo.Biologicamente si è da tempo riconosciuta l’importanza dell’ imprinting, specialmente nei primi momenti di vita quando appena nato gli odori, i suoni, le luci che per primo lo colpiscono legano indissolubilmente il nuovo essere vivente a chi gli sta attorno, determinando con forza i primi legami parentali. Qualche cosa di simile deve avvenire anche per i luoghi che accompagnano la nostra infanzia da cui ognuno sembra riceve come un marchio, un sigillo che lo accompagnerà per tutta la vita, determinando fin da subito il suo sentire, il modo di rapportarsi agli altri e di sentire quei luoghi. Vi è quindi un gioco di corrispondenze profonde tra l’ambiente che abitiamo e l’anima che ci abita.

Quando leggo di Francesco che nei primi momenti della sua vocazione prende a percor-rere le campagne d’Assisi alla ricerca di luoghi solitari in cui ritrovare l’intimità con la sua anima, penso a come quei luoghi gli fossero sicuramente già noti dall’infanzia. Ora però li riscopriva, con occhi nuovi, come appartenessero ad un mondo del tutto inedito e sconosciuto, che andava quindi curato e reso abitabile.Il nostro vivere comporta una continua riorganizzazione dello spazio e quei paesaggi sullo sfondo dei quali la nostra vita si svolge, che sembrano così perenni, in realtà mutano incessantemente perché incessantemente muta il nostro modo di vederli e di sentirli. Ce ne rendiamo conto, spesso dolorosamente, quando dopo lunghe assenze, ritornando ai luoghi della nostra infanzia, li troviamo così diversi e mutati, da essere irriconoscibili. Ma irriconoscibili a chi, se non alla nostra anima che lì aveva ancorato alcuni suoi indispensabili riferimenti di senso?Così l’impulso di ognuno di noi è quello di imprimere nel paesaggio segni che ce lo rendano intel-ligibile e sensato; segni che lo pongano al riparo dall’impermanenza inesorabile del mondo in cui viviamo; segni che, quindi, lo rendano sacro.Francesco, preso dal suo impulso mistico, inizia infatti a ricostruire le chiesuole campestri abban-donate, i cui ruderi sono in quel tempo i muti testimoni del declino del monachesimo benedettino, un tempo florido nell’area del Subasio. Vivono ancora i monasteri, come quello imponente di San Benedetto al Subasio, ma in quel periodo di profonde trasformazioni economiche e sociali (che molto assomiglia a quello attuale), essi non rappresentano più ormai il riferimento significativo a cui per secoli si erano volti gli uomini del medioevo. Come i benedettini avevano saputo innestare la loro visione cristiana sul tronco della morente civiltà classica, così ora Francesco innestò su quel tronco la pianticella del suo ordine che avrebbe dovuto dare nuove direttrici alla spiritualità del mondo che stava nascendo.

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Un esempio tra tanti. Oggi il nostro mondo appare sempre più fragile a causa della bramosia dell’uomo di appropriarsi delle sue risorse. Francesco indicò la via maestra che intrapresa allora avrebbe oggi dato frutti abbondanti: non volle mai che i suoi frati fossero proprietari di niente, ma solo utilizzassero ciò che la comunità metteva gratuitamente a loro disposizione. Come non riconoscere qui la profonda adesione al passo della Genesi citato all’inizio? Il mondo ci è dato affin-ché attraverso la sua cura possiamo portare a compimento la nostra umanità; noi lo stiamo invece depredando illudendoci di diventare più ricchi: questa forse è la radice del peccato originale.Quei segni, allora tenui, oggi delimitano con forza lo spazio sacro del territorio assisiate che grazie a loro attrae milioni di persone da ogni parte del mondo: a quella contrada molti guardano con la speranza che da quel luogo possa scaturire finalmente la pace nel mondo. Dopo l’azione di con-sacrazione attuata da Francesco e dai suoi compagni quello spazio geografico è ormai definitiva-mente trasformato e arricchito di profondi significati esistenziali, valori riconosciuti non solo dai cristiani.

Quel modello di umanizzazione dello spazio e del territorio, attraverso il quale il movimento francescano si radicherà fortemente nella società, Francesco e i suoi compagni lo estenderanno a tutta l’area dell’Appennino Centrale tra la Toscana e il Lazio, l’Umbria e le Marche: il territorio che fu la culla ed è tuttora il cuore del francescanesimo, benché ormai esteso in tutto il mondo. Qui si rinvengono infatti la maggior parte dei luoghi francescani originari, quelli in cui è certo che dimorò Francesco o dove la tradizione indica con forza tale presenza. Ognuno di essi rispetta ed è strut-turato secondo un modello ricorrente, in cui quasi sempre si ritrovano i seguenti elementi: il luogo isolato, in genere nel folto di boschi secolari, una piccola grotta dove il santo si ritirava in ascesi e preghiera; una piccola cappellina o immagine sacra già esistente, che Francesco venerava con grande devozione; la manifestazione del sacro attraverso segni del mondo naturale (acque mira-colose, animali ubbidienti ecc.). Il paradigma è significativamente il Monte della Verna dove av-venne il miracolo delle stimmate, ma lo stesso modello lo si ritrova nei numerosi eremi tra Rieti e Terni, nell’aretino, sul Subasio, sui monti del fabrianese e dell’ascolano e in molti altri luoghi ancora. Successivamente attorno a quei primitivi insediamenti crebbero gli edifici conventuali nec-essari per le necessità della comunità dei frati. In genere le strutture edilizie che oggi incorporano il luogo originario, crebbero e si svilupparono a seguito dell’opera di San Bernardino da Siena e poi nei secoli successivi. Al di là dei valori sacri e religiosi, il messaggio che giunge da quei luoghi è nel veder come si sono sviluppati, spesso in secoli di aggiunte e trasformazioni, in armonia con gli elementi naturali del luogo, adattandosi ad essi, accettando i suggerimenti della conformazione delle rocce, dei volumi, della plastica topografica, senza la violenza piallatrice dei moderni insedia-menti che invece vuole trasformare tutto a propria immagine, cancellando ogni identità dei luoghi.Oggi, pur nella stagione del chiassoso turismo di massa, chi si avvicina a quei luoghi non può non sentire una certa vibrazione dell’animo: quella sensazione di intima gioia di chi riconosce final-mente di essere giunto a casa, la casa dell’uomo.

Nelle Marche il francescanesimo si è radicato e diffuso con forza. La presenza di Francesco fu frequente e i suoi viaggi toccarono gran parte delle contrade regionali. Particolarmente impor-tante in questi anni fu il territorio dell’alto maceratese, nelle valli e i colli tra il Tenna e il Fiastra, dove si svolsero una buona parte degli episodi dei Fioretti e indossarono l’abito francescano molti uomini anche illustri. Tra Sarnano, san Ginesio e Penna San Giovanni, ai piedi orientali dei Monti Sibillini si rinvengono almeno tre luoghi francescani importanti: la Grotta di Soffiano, San Fran-cesco di Roccabruna o Valcajano e la Grotta dei Frati. I primi due luoghi sono dei topos importanti per la diffusione dell’ordine, tant’è che sono ricordati nei Fioretti. La grotta dei Frati ap-partiene a quella stagione immediatamente successiva in cui la crisi dell’ordine si manifestò con la diffusione dei fraticelli e di altri movimenti di spirituali.Il più tipico è la grotta di Soffiano dove, su un precedente insediamento probabilmente benedet-tino, si insediarono alcuni frati che dettero poi origine all’attuale convento di San Liberato, sorto poco distante, alle pendici del Monte Ragnolo. Il capitolo 56 dei Fioretti ricorda le gesta e la santità di due fratelli frate Umile e frate Pacifico, che lì dimorarono a lungo e morirono in odore di san-tità. Il luogo è di grande suggestione, nascosto al di sotto di uno sperone di roccia, in faccia alle selvagge rupi del Pizzo Meta e del Monte Ragnolo che, fitte di boschi, precipitano sul Rio Terro. Dell’eremo resta un lacerto di muro e pochi segni sulla roccia, ma vicino c’è ancora la piccola sorgente che rese abitabile questo luogo, talmente isolato che i feudatari della zona, i Brunforte, convinsero i frati ad abbandonarlo per il più comodo luogo di San Liberato. Siamo negli anni tra il 1274 e il 1276, quindi poco distanti dalla morte di Francesco che, attestata la sua presenza a Sar-nano, sicuramente avrà visitato anche questi luoghi.La Grotta dei Frati, per lunghi anni sconosciuta ai più e da tempo sepolta dai detriti della mon-tagna, è oggi un luogo diventato molto noto, grazie agli scavi e al lavoro di un francescano di

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Colfano, padre Natale Sartini. Anch’essa si trova al di sotto di precipiti pareti rocciose che in-combono sull’orrido della gola del Fiastrone. Oggi si raggiunge abbastanza comodamente, ma in passato il luogo era veramente isolato ed impervio. Qui infatti si rifugiarono nell’ultima guerra i partigiani delle bande Niccolò, per sfuggire ai rastrellamenti della milizia fascista e dei nazisti. In origine fu probabilmente un luogo dei fraticelli del movimento degli spirituali, che volevano conser-vare l’austera vita dell’ordine come indicato da Francesco, in contrasto con i tentativi di una deriva conventuale e gerarchica dello stesso. Nota anche con il titolo di santa Maria Maddalena, successi-vamente fu luogo dei frati minori, che vi abitarono in cinque o sei ricavando nei pressi piccoli orti e campicelli per le necessità quotidiane. Fu abbandonato nel XVII secolo e cadde in rovina.San Francesco di Valcajano, dal nome del colle che sorge di fronte a Sarnano, è una solitaria chiesuola in laterizio, immersa nei boschi di cerro e castagno della Macchia da Fuoco. Fu donata a Francesco dai Brunforte. Il convento è in mani private e trasformato in casa di abitazione, ma il luogo mantiene intatta tutta la solitaria suggestione dei luoghi francescani. I Fioretti ricordano come in questo luogo, frate Simone da Assisi, disturbato nelle sue preghiere dalle cornacchie che vi abbondavano, comandò loro di allontanarsi da lì e non ritornarvi mai più: i sarnanesi giurano che da allora in quel luogo le cornacchie (ciaule) non si sono più viste.

Questi luoghi non sono molto distanti tra loro e per godere appieno della loro visita, vale la pena di raggiungerli a piedi, come facevano gli uomini che li edificarono.

tratto dagli atti del Convegno:Dala Terra e dal Lavoro dell’uomo “ La Terra come luogo dell’incontro e della festa”

Penna San Giovanni 2006Associazione culturale “Giuseppe Colucci”