il gusto come problema filosofico

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 Appunti del Corso di Estetica, modulo I 2006-2007, secondo semestre (Gianluca Garelli)  Il gusto come problema fi losofico raccolti da: Viviana Arena Valeria Manco  Davide Cancila Chiara Fortezzi  Elisa Foschini 1. Il problema della definizione di una disciplina. Esiste una certa divergenza su come definire la disciplina filosofica. C’è chi la guarda in modo dogmatico dividendola in categorie, ma in realtà non si può dare una definizione che valga per sempre e che non guardi ai suoi sviluppi. Ovviamente questo vale anche per l’estetica. Il nostro percorso ha uno specifico punto di partenza che ci porterà a sviluppare progressivamente l’ ar go me nt o: la vicinanza della pu bb li ca zi one, in apertura del XX secolo, di due opere fon dam entali. Queste son o l’  Estetica come scienza dell’espressione e linguistica generale ,  pubblicata nel 1902 da Benedetto Croce, e i  Principia Ethica,  pubblicati nel 1903 da Gorge Edward Moore. Due opere molto lontane nel concepire la filosofia ma accomunate da almeno un aspetto,  per noi di particolare interesse: il ricorso alla nozione di intuizione. Croce definisce l’esperienza estetica (ossia cosa si possa concepire come arte e cosa non sembri avere tale validità) attraverso la categoria dell’ intuizione. L’opera d’arte è il risultato cioè della dialettica fra intuizione ed espressione. L’artista ha un’intuizione, ed attraverso la sua modalità espressiva dà vita ad una materia artistica. Però, sorge un dubbio: che rapporto c’è, in Croce, tra le due nozioni? Vi è tra loro equilibrio, o non forse piuttosto uno squilibrio? La risposta è che, in ultima analisi, appare più importante l’intuizione dal momento che, grazie ad essa, l’opera sta già tutta nella mente dell’artista ed è nella sua forma migliore. L’espressione va intesa dunque anzitutto come un mezzo per realizzare ciò che è già compiuto dall’intuizione. Va detto che  Moore non parl a esp lic ita me nte di estetica, dato che i  Principia si occupano di  problemi morali. In questo senso, egli delinea una prospettiva che si potrebbe definire di realismo antinaturalista: esistono cioè proprietà morali che non sono riconducibili a proprietà naturali. Sulla  base della tradizione empiristica (soprattutto Hume), Moore ritiene cioè che non sia corretto che i ragionamenti volti a indagare la verità della natura e della sua conoscenz a si applichino alla morale. Detto in breve: il fatto che una cosa esista non significa di per sé che essa sia buona; ovvero: dalla semplice posizione dell’essere non si può ricavare un dovere (fallacia naturalistica). Ora però: se si volesse ora sostituire la parola «etica» con «estetica», e la nozione di «buono» con quella di «bello», troveremmo un perfetto parallelismo tra i due concetti. Infatti, che cos’ è davvero il bello? Potremmo fare tanti esempi: l’amicizia, una canzone, una donna… Ma ciò sarebbe limitativo rispetto alla portata della questione: perché ancora non avremmo risposto in generale il che cosa. Se gu endo l’ ar go me nt azione di Moor e, si po tr eb be ce rc ar e di risolve re in pr ima approssimaz ione la questione dicendo che tutto ciò che t iene insieme queste risposte è una proprietà nat ura le de lle cose , pe r esempio il  piacevole. Dire che il bello è piacevole però è solo uno spostamento del problema originario, e la creazione di un altro. Dobbiamo infatti chiederci: lo spettro semantico delle due parole ( bello e  piacevole) coincide davvero? E soprattutto: siamo poi  proprio sicuri, a questo punto, di saper definire almeno il piacevole? Bello e piacevole infatti sono  proprietà che non coincidono del tutto: non creano una tautologia. Bello è dunque, secondo l’argomento che Moore adopera per il buono, una proprietà autoevidente, autonoma ed oggettiva, nel senso di oggetto d’ intuizione primitiva; una qualità che si potrebbe definire  sopravveniente. La 1

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Appunti del corso di Estetica dell'università di Firenze.Il prof. Gianluca Garelli incoraggiava gli studenti a stendere a turno delle relazioni sugli argomenti trattati nel corso delle settimane.Questo è il risultato dei loro sforzi: può interessare gli addetti ai lavori come anche i semplici curiosi.

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  • Appunti del Corso di Estetica, modulo I

    2006-2007, secondo semestre (Gianluca Garelli)

    Il gusto come problema filosofico

    raccolti da:Viviana ArenaValeria MancoDavide CancilaChiara FortezziElisa Foschini

    1. Il problema della definizione di una disciplina.

    Esiste una certa divergenza su come definire la disciplina filosofica. C chi la guarda in modo dogmatico dividendola in categorie, ma in realt non si pu dare una definizione che valga per sempre e che non guardi ai suoi sviluppi. Ovviamente questo vale anche per lestetica.Il nostro percorso ha uno specifico punto di partenza che ci porter a sviluppare progressivamente largomento: la vicinanza della pubblicazione, in apertura del XX secolo, di due opere fondamentali. Queste sono lEstetica come scienza dellespressione e linguistica generale, pubblicata nel 1902 da Benedetto Croce, e i Principia Ethica, pubblicati nel 1903 da Gorge Edward Moore. Due opere molto lontane nel concepire la filosofia ma accomunate da almeno un aspetto, per noi di particolare interesse: il ricorso alla nozione di intuizione.Croce definisce lesperienza estetica (ossia cosa si possa concepire come arte e cosa non sembri avere tale validit) attraverso la categoria dellintuizione. Lopera darte il risultato cio della dialettica fra intuizione ed espressione. Lartista ha unintuizione, ed attraverso la sua modalit espressiva d vita ad una materia artistica. Per, sorge un dubbio: che rapporto c, in Croce, tra le due nozioni? Vi tra loro equilibrio, o non forse piuttosto uno squilibrio? La risposta che, in ultima analisi, appare pi importante lintuizione dal momento che, grazie ad essa, lopera sta gi tutta nella mente dellartista ed nella sua forma migliore. Lespressione va intesa dunque anzitutto come un mezzo per realizzare ci che gi compiuto dallintuizione.Va detto che Moore non parla esplicitamente di estetica, dato che i Principia si occupano di problemi morali. In questo senso, egli delinea una prospettiva che si potrebbe definire di realismo antinaturalista: esistono cio propriet morali che non sono riconducibili a propriet naturali. Sulla base della tradizione empiristica (soprattutto Hume), Moore ritiene cio che non sia corretto che i ragionamenti volti a indagare la verit della natura e della sua conoscenza si applichino alla morale. Detto in breve: il fatto che una cosa esista non significa di per s che essa sia buona; ovvero: dalla semplice posizione dellessere non si pu ricavare un dovere (fallacia naturalistica).Ora per: se si volesse ora sostituire la parola etica con estetica, e la nozione di buono con quella di bello, troveremmo un perfetto parallelismo tra i due concetti. Infatti, che cos davvero il bello? Potremmo fare tanti esempi: lamicizia, una canzone, una donna Ma ci sarebbe limitativo rispetto alla portata della questione: perch ancora non avremmo risposto in generale il che cosa. Seguendo largomentazione di Moore, si potrebbe cercare di risolvere in prima approssimazione la questione dicendo che tutto ci che tiene insieme queste risposte una propriet naturale delle cose, per esempio il piacevole. Dire che il bello piacevole per solo uno spostamento del problema originario, e la creazione di un altro. Dobbiamo infatti chiederci: lo spettro semantico delle due parole (bello e piacevole) coincide davvero? E soprattutto: siamo poi proprio sicuri, a questo punto, di saper definire almeno il piacevole? Bello e piacevole infatti sono propriet che non coincidono del tutto: non creano una tautologia. Bello dunque, secondo largomento che Moore adopera per il buono, una propriet autoevidente, autonoma ed oggettiva, nel senso di oggetto dintuizione primitiva; una qualit che si potrebbe definire sopravveniente. La

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  • proposta di Moore in un certo senso paradossale, giacch sembra rivendica loggettivit di unintuizione. Per spiegare il paradosso, potremmo forse citare Kant, il quale attribuisce alla legge morale razionalit ed oggettivit, oggettiva in quanto valida per tutti nel regolare imperativamente lazione.Appare ora evidente dove si possa riscontrare la coincidenza tra Croce e Moore in ambito estetico: proprio nellintuizione, e ci, nonostante il fatto che i due filosofi appartengano a due matrici culturali opposte. Questo e molto significativo. Il richiamo a una nozione problematica come quella di intuizione ha fatto s che lestetica fosse al centro di un dibattito filosofico molto acceso.

    Ludwig Wittgenstein pubblic nel il Tractatus logico-philosophicus, e, sulla scorta del neopositivismo, elabor una teoria rappresentazionale del linguaggio. Il linguaggio, se deve essere significativo, deve corrispondere analizzare le condizioni di validit di una proposizione del tipo S P (ossia: a un certo soggetto spetta un certo predicato). Secondo Wittgenstein, una frase ha senso solo se i nomi che la compongono rispecchiano stati di fatto; tutto il resto insensato. Esistono allora ambiti del sapere che hanno senso, come quelli naturali, ed altri che non lo sono, come appunto letica e lestetica. In questo senso, emblematica la proposizione finale (n. 7) del trattato: Su ci di cui non si pu parlare, si deve tacere. Da una parte c il discorso che pu avere legittime pretese di verit e oggettivit; dallaltra c il dominio dellinsensato.Come noto, questa non sar certamente lultima parola di Wittgenstein al riguardo dellestetica e delletica. Ma, sul piano storico-culturale, quali sono le conseguenze di posizioni come queste?Alfred J. Ayer, fra i padri della filosofia analitica, scrisse Linguaggio, verit e logica (1936) proprio sulla scia di una lettura rigida del Tractatus wittgensteiniano e di altri testi neopositivistici; e fin per concludere proprio che letica e lestetica non fossero scienze. Esse esprimerebbero solo uno stato emotivo. Dire che qualcosa mi piace sarebbe, sul piano argomentativo, nulla di pi che dire evviva questo!: gli attributi delletica ed estetica si limiterebbero secondo Ayer a esprimere uno stato emotivo di chi pronuncia il giudizio (emotivismo).Nei primi anni del Novecento, lestetica va dunque incontro a una sorta di riduzionismo, o addirittura di negativismo: la filosofia (soprattutto in area analitica) scopre che il dibattito sullestetica e sulletica riguarda questioni non concrete e tangibili, e quindi non riesce a fondarsi. Per cui, le soluzioni che rimangono sono poche:1) il razionalismo eliminativista elimina lestetica dalla filosofia stessa, in quanto incapace di argomentare razionalmente;2) la rinascita di una certa tendenza verso unestetica positivistica (nellambito soprattutto del cosiddetto neopositivismo) riconosce che essa esiste, e perci, si deve fondare attraverso le scienze, le sole a poterla definire. Le esperienze estetiche sarebbero, da questo punto di vista, misurabili in per esempio chiave psicologica, e quindi possono rispondere con regolarit misurabile a determinate leggi. Un esempio estremo potrebbe essere costituito, in questo senso, dallideale di macchine capaci di registrare parametri come il battito cardiaco, le varie reazioni fisiche ed emotive di un soggetto di fronte ad unopera darte: la registrazione di queste reazioni ci darebbe cos una misurazione scientifica del suo stato emotivo, esteticamente sollecitato. evidente tuttavia che ci vorrebbe dire orientare lestetica verso una psicologia positivistica che non farebbe che ribadirne linesistenza come considerazione filosofica vera e propria.

    2. Una considerazione storica: il battesimo dellestetica moderna, tra Baumgarten e Kant.

    Il fatto che non si possa definire una volta per tutte che cosa lestetica sia non implica per che la sua vicenda storica sia priva di significato, e che non sia degna di essere filosoficamente interpretata. Per esempio, ed quanto ci si propone di fare qui, si potrebbe quantomeno analizzare il problema del gusto a livello storico.Del gusto non sempre esistita una definizione; del resto, non bisogna lasciarsi sfuggire il significato metaforico di questa nozione. La parola gusto designa infatti pur sempre, in primo luogo, uno dei cinque sensi, anzi: lintimo fra di essi. Eppure, in ambito estetico, questa nozione

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  • come vedremo travalica il livello soggettivo, e diventa significativa per una pi ampia concezione storico-culturale generale.Tutto ci pone la questione, per esempio, del divenire storico dellestetica e delle sue categorie ossia, innanzitutto, del rapporto fra lestetica antica e lestetica moderna. La domanda in primo luogo potr essere allora: lestetica antica paragonabile a quella moderna, nellinterrogarsi su cosa sia il bello e larte? Se come probabile fra i due modi di vedere si dovesse riscontrare una grande distanza, o addirittura un abisso, lidea (portata avanti per esempio in ambito fenomenologico) di fondare per sempre lestetica su qualcosa di puro e di a priori finirebbe per incontrare molte difficolt nel rendere ragione di come la sensibilit estetica possa cambiare col tempo (si pensi alla variazione appunto del gusto).Ma il problema deve essere posto in maniera ancora pi radicale. Si pu davvero dire che sia esistita unestetica antica? Certamente no, se guardiamo alla disciplina e alla nozione di estetica da un punto di vista propriamente moderno. S, invece, se osserviamo che, per esempio, sia in Platone sia in Aristotele, o magari in Plotino e Agostino, sono stati trattati argomenti in senso lato estetici. Come possiamo renderci ragione di questa incongruenza?

    Un serio approccio storico deve incominciare da unanalisi dellorigine etimologica della parola estetica. Essa ci rivela come, in un certo senso, questa parola nasca quasi da una piccola bugia dalle grandi conseguenze: sia, cio, dovuta a una falsa etimologia. Estetica si fa derivare dal dal greco asthesis (la stessa radice del verbo aisthnomai), che significa sensazione, percezione. I filosofi moderni sulla base di tale parola hanno dato origine al termine estetica attraverso un calco artificioso dellaggettivo aisthetikon, appunto un attributo che indicava il sensibile. I greci infatti non pensavano certamente di parlare di estetica come disciplina,n di fondarla filosoficamente. Per loro, anzi, lesperienza percettiva non aveva nulla a che fare con la bellezza artistica (come invece sembrerebbe essere, in prima approssimazione, per la filosofia moderna).Chi stato colui, dunque, che ha finto di richiamarsi a una auctoritas antica per fondare una disciplina filosofica nuova?Si tratta di un discepolo di Christian Wolff, padre dellilluminismo tedesco e filosofo del Settecento, seguece di Leibniz. Wolff sistematizza il pensiero leibniziano attraverso la filosofia di Aristotele (Leibniz infatti non era un filosofo sistematico come Aristotele). Il discepolo di Wolff di cui si parla Alexander G. Baumgarten. stato lui a inventare e adoperare la parola Estetica per la prima volta nelle sue due opere: Meditazioni su alcuni aspetti del poema (1736) e Aesthetica (1750-1758). Fra le varie definizioni che Baumgarten offre di estetica, ce ne sono due particolarmente significative, di cui si tratta di comprendere la compatibilit. Egli intende per estetica:1) la gnoseologia inferiore, ossia la filosofia della conoscenza dovuta alle facolt inferiori;2) la scienza filosofica che si occupa del bello.Baumgarten elabora dunque un sistema filosofico che vede lestetica intesa sia come la filosofia del bello e dellarte, sia come analisi filosofica delle facolt inferiori della conoscenza: entrambe le definizioni sono tuttavia basate sugli stessi principi. Nella prospettiva scolastica, la nostra mente, nellatto del conoscere, si articola in intelletto (la facolt superiore che pensa per concetti) e in sensibilit, la facolt inferiore e ricettiva delle esperienze. Era stato Cartesio (Meditazioni metafisiche, 1641) a esigere che il sapere trovasse fondazione solida in una razionalit che ne garantisse il valore universale e necessario: invece la sensibilit non ci d tale fondamento, se no ne risulterebbe giustificata la legittimit di qualsiasi opinione. Ognuno infatti ha una propria esperienza soggettiva e non tutti condividiamo le stesse esperienze. Cartesio invece diceva che la verit di unesperienza resa valida dal fatto che 1) abbiamo la certezza del cogito, ossia di essere cosa pensante; 2) possediamo le idee innate, anzitutto quella di Dio, della cui esistenza ritiene che la ragione possa offrire prova certa.Ora, il problema che ci si pone : che relazione c tra soggettivit ed oggettivit nellambito estetico?Baumgarten, con la gnoseologia inferiore vuole dare allestetica il ruolo di scienza filosofica della conoscenza percettiva. Aristotele diceva che non c niente nella nostra conoscenza che non sia passato dai sensi. Baumgarten, rimanendo nella prospettiva leibniziano-wolffiana, dice che le nostre

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  • conoscenze sono garantite da due qualit: la chiarezza e la distinzione. Ma gi secondo Cartesio una conoscenza vera quando evidente, ossia chiara e distinta; e questo per esempio un criterio valido per distinguere la realt dal sogno. I filosofi scolastici come Baumgarten, si soffermano sul legame fra i due termini. Chiarezza e distinzione sono infatti per loro due gradi progressivi della conoscenza: una rappresentazione pu essere chiara ma non ancora distinta, ma non viceversa. Nella prospettiva della scuola, la facolt inferiore e quella superiore collaborano in una continuit allattivit conoscitiva: attraverso la sensibilit abbiamo una rappresentazione chiara, e quando questa diviene evidente anche per lintelletto abbiamo anche la sua distinzione. Essi non vogliono intendere la mente come divisa in due, ma semmai come funzionante in due modi diversi, secondo appunto due facolt: vivremmo altrimenti, paradossalmente, in mondi paralleli.Baumgarten attribu dunque alla logica lo studio della facolt superiore, e allestetica quello della facolt inferiore. (Kant metter in questione tale concezione, accettando la separazione fra le due facolt: perci come vedremo sar fondamentale comprendere il ruolo che nella sua filosofia sar rivestito dallimmaginazione). Questo un modello di pensiero ipotizzato per non cadere nello scetticismo che rappresenta limpossibilit di conoscere razionalmente ed oggettivamente. A differenza di Dio, che ha una conoscenza sia particolare che universale e possiede la chiarezza e la distinzione di tutte le rappresentazioni, luomo, che ha una mente finita, limita la propria conoscenza attraverso il condizionamento dei sensi. Se noi avessimo la capacit di far s che tutte le nostre conoscenze da chiare divenissero anche distinte, saremmo paradossalmente come Dio; tuttavia siamo costitutivamente collocati nello spazio e nel tempo, abbiamo unesistenza finita. Dio invece, come afferma Leibniz, ha presente la totalit del mondo nello spazio e nel tempo (quindi anche la totalit della storia).Ora, Baumgarten afferma che della chiarezza si pu parlare in due accezioni:1) chiarezza intensiva: pi si intensifica la chiarezza di una rappresentazione, o meglio, di una sua nota caratteristica, pi essa va in direzione della distinzione (propriet qualitativa);2) chiarezza estensiva, la quale, pi che esprimere qualitativamente la propriet di ci che si conosce, ne enumera quantitativamente le varie caratteristiche.Ma tutto ci cosa ha a che fare con il bello?Va detto che per Baumgarten lopposto di una conoscenza chiara e distinta una conoscenza chiara e confusa. Non si tratta di una contraddizione, nonostante quello che superficialmente potrebbe sembrare. Etimologicamente, infatti, il significato di confusa (con-fusa) fusa insieme. Ebbene: Baumgarten riscontra nella poesia una forma di discorso nel quale prevalgono rappresentazioni chiare e confuse. Quindi la poesia esprime la miglior chiarezza estetica possibile (una chiarezza cio priva di distinzione); laddove, invece, la logica fa affidamento su rappresentazioni chiare e distinte. Ecco allora che quella problematica coincidenza tra la conoscenza sensibile e il sentimento del bello (cio sostanzialmente le due definizioni dellestetica sopra ricordate) si giustifica nellaffermazione che il bello la migliore espressione della sensibilit estetica, perch esso percepito quando, nelle immagini della poesia, le rappresentazioni sono chiare ma mescolate tra loro (non distinte). Dunque logica ed estetica sono, appunto, due ambiti della filosofia separati.

    Come viene recepita la novit terminologica proposta da Baumgarten? Anche in questo caso, la storia si rivela un po complicata.A Johann G. Sulzer, un filosofo svizzero di lingua tedesca, si deve per esempio unopera monumentale, la Teoria universale delle belle arti (1771-1774): una sorta di vero e proprio dizionario di argomento estetico. Se vi leggiamo la voce Estetica, troveremo scritto che essa, secondo Sulzer, la filosofia delle belle arti, ovvero la scienza che dalla natura del gusto deriva sia la teoria universale sia le regole delle arti belle, la quale deve essere fondata sulla teoria della conoscenza indistinta e delle sensazioni. Analizzando takle definizione per punti, vedremo che:1) lestetica da disciplina gnoseologica diviene ormai anzitutto filosofia delle arti belle, a poco pi di venti anni dalla pubblicazione delle teorie di Baumgarten;2) il gusto serve a formulare una teoria generale su che cosa larte sia, e quindi serve a spiegare in che cosa ne consiste la bellezza. Il passaggio importante, perch in questo modo lestetica diviene una filosofia: a) descrittiva di che cosa larte sia; b) normativa rispetto a come larte (nella

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  • fattispecie la poesia) deve essere composta. Il che significa: le opere che non rispettano e trasgrediscono la definizione normativa di fatto non possono essere chiamate davvero arte. Secondo tale teoria le arti vanno eseguite secondo un certo criterio criterio basato sulla consapevolezza del funzionamento dei meccanismi conoscitivi sensibili delluomo. In Immanuel Kant (1724-1804) gli effetti del discorso baumgartiano sono a dir poco oscillanti. Nel 1764 Kant scrive unopera precritica non troppo nota, le Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime. Qui egli incomincia a elaborare una prospettiva in largo senso estetica; eppure curioso riscontrare come, a qualche anno dalla pubblicazione delle opere di Baumgarten, la parola estetica non compaia neanche una volta nello scritto. Lassenza del termine non pu essere casuale n quantomeno una mancanza da parte di un autore cos attento nei riguardi della filosofia scolastica, e di Baumgarten in particolare.Quando Kant scrive la Critica della ragion pura (1781), le cose in parte cambiano. Innanzitutto, la critica della ragion pura lanalisi della ragione dal punto di vista delle forme del suo funzionamento, e non del suo contenuto materiale. Per Kant la ragione pura perch va riempita con la sensibilit (ossia con la materia tratta dallesperienza). Ora, noto che il genitivo pu avere due valori: oggettivo e soggettivo. In questo caso la critica della ragion pura ha la ragione per oggetto, ma la critica stessa, essendo operata dalla ragione medesima, fa s che questa diventi anche soggetto (dice Kant: giudice del tribunale della ragione in cui questa giudica se stessa e le proprie pretese).Nella Critica della ragion pura vediamo comparire proprio il termine estetica, che si fa addirittura titolo della prima sezione: Estetica trascendentale. Per Kant, le nostre forme pure e a priori di conoscere nella sensibilit sono lo spazio e il tempo. Dunque, come per lo stesso Baumgarten, anche qui da Kant lestetica viene vista come la scienza della sensibilit; ma con un metodo nettamente diverso: quello della filosofia trascendentale (che studia non gi le cose in s, di cui nulla possiamo sapere, ma il modo con cui noi possiamo conoscere i fenomeni). Kant invece in una nota diffida esplicitamente dalladoperare il termine estetica nellaltra accezione baumgarteniana, in riferimento alla critica darte e al bello, ritenendo che si tratti di un uso equivoco e sbagliato.Kant scrive in seguito la Critica della ragion pratica (1788) e la Critica del giudizio (1790). Occupiamoci di questultima, che da molti considerata come il primo grande testo classico dellestetica moderna. Kant suddivide la Critica del giudizio in due parti, e la prima prende il nome proprio di Critica del giudizio estetico: laddove per Kant si occuper proprio di nozioni come il bello e il sublime, e non pi affatto della conoscenza sensibile... evidente dunque che anche la seconda accezione della parola estetica viene ora accolta da Kant. In che modo e con quali modificazioni particolari, lo vedremo tuttavia pi avanti.Unultima considerazione storica in proposito, in riferimento a Georg Wilhelm Friedrich Hegel (1770-1831), altra grande figura dellidealismo tedesco, la cui filosofia sar fondamentale per lo sviluppo dellestetica moderna. Soprattutto grazie ad un suo allievo (H.G. Hotho), il quale trascrisse le sue lezioni, ci sono pervenute le sue lezioni di filosofia dellarte (Lezioni di estetica, pubblicate postume fra il 1835 e il 1838). Ebbene: interessante notare come Hegel, nella prima pagina di queste lezioni, annunciando al suo pubblico che largomento di studio sar la filosofia dellarte, sottolinei fra laltro che non sa se in proposito lutilizzo del termine estetica sia davvero appropriato, quantomeno se si pensa al significato conferito alla parola da Baumgarten e ripreso da Kant.Riassumendo: si pu insomma affermare che negli anni che vanno da Baumgarten a Hegel, attraverso Kant, nasce quella disciplina che si soliti designare come estetica moderna. Nel 1790 Kant compie cio una sorta di passo indietro ed accoglie a sua volta lespressione estetica in riferimento al discorso filosofico sul bello. Forse proprio in questa scelta kantiana, che analizzeremo pi avanti nelle sue peculiarit, da scorgersi il vero atto di nascita dellestetica moderna, intesa come ambito disciplinare specifico della filosofia. Emblematica in questo senso laffermazione di Croce, che definisce metaforicamente Kant come lo scopritore di un nuovo continente della filosofia.

    3. Problemi di definizione del giudizio di gusto, nel tempo e nello spazio.

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  • Il gusto, in fisiologia, designa un sistema sensoriale che interpreta attraverso la lingua e il palato stimoli fisici. Laccezione traslata, metaforica di gusto fa s che la parola designi un modo di sentire, di pensare, di condividere esperienze con le altre persone (dunque, paradossalmente, un senso condiviso).Il gusto lintimo fra i cinque sensi: sembra cio prestarsi meno di tutti alla comunicazione. Mentre la vista e ludito sono i sensi a distanza, loggetto vi cio percepito senza contatto, gli altri sensi, a partire dal tatto, esigono il con-tatto con loggetto stesso, in particolare il gusto, che addirittura ne esige una interiorizzazione, unintroduzione nel nostro corpo delloggetto.Nellantichit il verbo latino sapere conservava le due accezioni di gusto: possedere un senso del gusto, e quindi saper giudicare. dunque con una traslazione che sapere diventa concettualizzazione e maturazione dellesperienza sensibile, capacit di giudicare. Un senso che diviene sentimento, modo di sentire; diviene un piacere, un diletto, che non si limita a giudicare un qualcosa di assaggiato, ma valuta qualcosa di pi complesso: valuta cio se un qualcosa caratterizzato da bellezza e bont.Nonostante le apparenze, difficile distinguere fra queste due nozioni. Si pensi ancora a San Paolo, nel cap. VII della Lettera ai Romani, l dove mette in questione la purezza della legge, il criterio della morale. Egli afferma: chi crede di fare il bene viene coinvolto nel peggiore peccato possibile, la superbia; e dice: A me, che ero intenzionato a fare il bene, vicino il male. In tale affermazione adotta il termine kaln: una parola che in greco antico (anche nella lingua della koin) significa tanto buono quanto bello.Eva Cantarella, studiosa dellantichit, autrice dello studio Itaca (2002), da cui prendiamo spunto per ulteriori considerazioni. Lopera studia la nascita della nozione del diritto nella Grecia antica. In particolare si sofferma nel passaggio dalla Grecia arcaica a quella classica: lo stesso titolo rappresentativo, indicando la terra delleroe Ulisse. Lautrice riprende poi la distinzione antropologica tra shame culture e guilt culture: cultura di vergogna e cultura di colpa. Si tratta ovviamente di modelli ideali che, nelle varie societ, prevalgono in vario modo luno sullaltro. La cultura di vergogna consiste nelladeguamento alle regole, non ottenuto attraverso limposizione di norme e divieti, ma attraverso modalit che implichino il biasimo e lesclusione sociale. Vi sono cose che si giudicano inopportune anche se non illegali, secondo una sensibilit che potremmo definire in senso lato morale e estetica assai pi che giuridica. Il modello contrario della cultura di colpa implica che la pena per certe trasgressioni sia il peso del senso di colpa, ed eventualmente una punizione giuridicamente regolata. Va detto che tale distinzione non uninvenzione della Cantarella ma nasce a met del Novecento; lautrice se ne serve per analizzare il comportamento delleroe omerico, limpulso che lo spinge ad agire.Gli eroi omerici, infatti, non provano vergogna, per esempio, nellesercizio della violenza verso il nemico; e nemmeno verso lesercizio smodato e tracotante della violenza. Anzi, i poemi omerici tendono ad attribuire la responsabilit di tali azioni agli di che si impossessano dellanimo umano, o al fato, al destino da cui non si pu sfuggire. Lantichista Walter F. Otto, ne Gli di della Grecia, afferma che negli eroi omerici prevalgono gli aspetti vitali dellessere: essi non rispondono a una legge morale, che per loro sarebbe stata qualcosa di anacronistico, ma si manifestano cos anche nella massima brutalit. Interessante quindi per noi losservazione per cui, secondo la Cantarella, la molla che fa scattare la vergogna negli eroi non scaturisce dal loro interno, bens dallesterno: essa occasionata dal disprezzo sociale, dal biasimo: in ci che dallilluminismo in poi potremmo designare in senso lato opinione pubblica. In una societ come quella, il ruolo di Omero, il poeta narratore, diviene allora di importanza fondamentale. Egli colui che ricostruisce i fatti, la storia e li tramanda secondo la sua visione. Detiene cio un enorme potere: decide cosa e come deve fare leroe, ed colui che dispone davvero della fama e della memoria: persino gli di hanno bisogno della sua parola per esistere davvero. Gli esempi della Cantarella sono tratti dal dialogo fra Ettore e Andromaca e dallira di Achille. Virt, per i greci aret, nozione differente dal latino virtus, che significa anzitutto forza. Aret invece eccellenza che designa lessere migliore rispetto a tutti gli altri. Aidos invece insieme il pudore e la vergogna, e elencheie la voce popolare che attribuisce la vergogna. LIliade, nel canto XII, narra di Ettore che in un momento di cedimento non vuole scendere a conflitto con Achille, sapendo che lo attendono la sconfitta e la morte. Pi che

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  • il timore della morte, per, a turbarlo la paura di apparire vinto: che si dir di lui? Questo stesso impulso lo spinge a vincere lo sgomento, nonostante la resistenza di Andromaca, la moglie, e tutti gli argomenti morali che essa sembra addurre per persuaderlo a non sfidare Achille: la morte di Ettore avrebbe infatti conseguenze catastrofiche per la sua famiglia e per la sua citt. Ettore non si piega alle sollecitazioni della moglie perch in lui scatta non tanto la paura della distruzione, ma la vergogna per la fama corrotta da un atto vile. Questo tratto di attenzione alla dimensione del giudizio pubblicamente (pi avanti si potr dire: politicamente) condiviso si conserva, altrimenti, anche nella Grecia classica e pi tarda. Per esempio Platone, nello Ione, un dialogo sui poeti e sui rapsodi, mette ancora in questione il ruolo della poesia come frutto dellispirazione divina. Il poeta deterrebbe, cos, il potere di tramandare la parola, di fare il mondo, il sapere. I Sofisti, dal greco sapienti, erano per altro verso coloro che davano assoluta centralit alla parola. E, come si visto, un individuo prima di essere in possesso di una aret (virt), detto virtuoso: la sua virt dipende da una dimensione di memoria pubblica, ossia dal fatto che qualcuno lo nomini tale. Lambiguit della parola si riscontra anche notoriamente nella tragedia; ed Euripide, ultimo grande tragediografo greco, quasi a sottolineare lambiguit di tale tradizione fondata principalmente sul detto e sulla parvenza, riscrive il mito di Elena sulla base di una tradizione secondo cui, a essere rapita, non sarebbe stata davvero la moglie di Menelao, bens un suo simulacro (ambiguit della cosa, prima e oltre che della parola).

    Ricapitolando: nellanalisi di Eva Cantarella del testo omerico notiamo che in battaglia la vergogna considerata peggiore della morte, e che la cosa che conta davvero, anche ontologicamente, la fama. Questo aspetto riguarda letica delleroe. Luomo che si trova a far fronte allaidos (vergogna) non infatti luomo volgare, ma solo colui che ha la virt. Chi non valente, eroe, non deve sentire la vergogna. Notiamo che tale idea finisce per consolidare socialmente una sorta di doppio legame: restituisce luomo comune al quotidiano, al nostro sentire comune, ma allo stesso tempo lo esclude dal mondo eroico. Questo doppio legame spacca la societ greca. La democrazia greca, pur risultando lontana dalla democrazia moderna, far fra laltro lenorme sforzo di trasformare una morale riservata agli eroi in morale condivisa da tutti i cittadini.Grande considerazione per la parola parlata si avr nellAtene del quinto secolo, che vede da un lato la celebrazione dellambiguit della parola nel teatro tragico (Edipo fraintende le parole dei messaggeri), dallaltro la celebrazione del potere della parola attuata dai sofisti. Nel passaggio da Omero alla polis del quinto secolo avremmo quindi la fama che sancisce leccellenza delleroe prima, la parola come strumento del potere di cui i cittadini possono servirsi poi.Notiamo limportanza del ruolo della parola anche in due opere del sofista Gorgia: Sul non essere o sulla natura (la natura , paradossalmente, il non essere: estrema conseguenza dellambiguit del linguaggio); e Encomio di Elena, in cui lautore costituisce un discorso sul fatto che Elena, accusata di essere la scatenatrice della guerra di Troia, non ha colpa, per il fatto che stata costretta con la forza e la violenza da Paride o convinta dallamore o dalla parola. Il discorso per Gorgia un signore possente cui vano sarebbe resistere. Vi , in questo discorso (che richiama certi aspetti di quanto sopra si detto a proposito di Euripide), grande maestria retorica: se esso risulta infatti molto convincente perch lautore, in una sorta di circolo virtuoso, si serve della parola e della sua efficacia retorica per difendere la parola stessa.Parlando di shame culture possiamo ricordare infine anche un esempio datoci da uno dei saggi raccolti dellantropologo Gregory Bateson nel volume Verso un ecologia della mente. Il saggio risale al 1939 ed intitolato Bali. Il sistema di valori di uno stato stazionario. Che cos uno stato stazionario? Una comunit che tende a mantenere inalterati gli equilibri delle sue strutture sociali. Bali viene educata secondo principi non schismogenici: gli uomini vi sono cresciuti secondo un modello che tende ad eliminare ogni conflitto pericoloso per la conservazione di quellequilibrio sociale. Esistono dunque a Bali, secondo Bateson, forme di infrazione al vincolo sociale che non vengono punite giuridicamente, ma provocano biasimo sociale. Secondo lautore, la deterrenza di questo sistema funziona allo stesso modo di quella dei sistemi giuridici punitivi.

    4. Il gusto come nozione propriamente moderna.

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  • Nella cultura moderna il termine gusto, come si detto, designa qualcosa di pi vasto e pi complesso del semplice ambito sensoriale.Un filosofo che si sforzato di trovare una spiegazione adeguata per lappartenenza della nozione di gusto alla cultura moderna Hans-Georg Gadamer (1900-2002), ultimo rappresentante forse della grande tradizione della filosofia classica tedesca. Al 1960 risale Verit e metodo. Vediamo di intendere anzitutto brevemente il titolo di questo saggio.La tradizione filosofica moderna interpreta la filosofia come fondazione metodologica della conoscenza. Kant parla esemplarmente, nella Critica della ragion pura, di metodo del corretto uso dei giudizi nel senso che la scientificit dei nostri giudizi fondata su strutture a priori della nostra mente (categorie). Kant aveva cercato di sancire il metodo della corretta filosofia della conoscenza, identificando quindi verit e metodo. Da ci non pu che seguire unalternativa di questo genere: o larte non ha assolutamente verit, oppure allarte si riconosce la massima verit possibile. Ed esattamente quanto, secondo Gadamer, successo dopo Kant nella storia della filosofia. Per parte sua, Gadamer ritiene invece che tale idea debba essere superata perch essa ha implicato storicamente la svalutazione di tutti gli altri atteggiamenti filosofici che non sono anzitutto scientifici. Per cui, egli pu sostenere che verit e metodo sono due cose differenti. Una letura fondamentale per lui stata quella del saggio di Martin Heidegger, Lorigine dellopera darte (1936), in cui lautore dice che larte uno dei modi in cui si manifesta originariamente la verit.La prima alternativa, secondo la quale larte non ha verit, per Gadamer troppo riduttiva rispetto a un mondo in cui le esperienze non possono essere riducibili solo a quelle della ragion pura. Lesperienza di una certa cosa si pu fare in modi diversi. Con il meccanicismo della critica della ragion pura, per esempio, non si potrebbe distinguere (e gi Kant se ne era accorto) un animale da una macchina, ossia non si spiegherebbe per esempio il metabolismo. per motivi come questo che Kant avrebbe poi scritto fra laltro la Critica del giudizio. Nel dire invece che, daltra parte, che larte viene dotata secondo alcuni di massima verit, Gadamer ha in mente tutti i pensatori che vedono la scienza come un modo di pensare caduco: ad esempio, in et romantica, Friedrich W.J. Schelling, il quale, nel Sistema dellidealismo trascendetale (1800), definisce infatti lAssoluto come unit indifferenziata di natura e spirito, affermando che il pensiero teoretico, prigioniero della contrapposizione fra soggetto e oggetto, risulta troppo riduttivo per dispiegare lassoluto. Solo larte in grado di cogliere quellunit indifferenziata, pu andare oltre il dualismo natura-spirito, cio in chiave simbolica pu restituire lintuizione tale e quale a quella per cui Dio conosce e crea le cose. Solo larte, in altre parole, per Scheling la rivelazione del genio capace di intuire la verit delluno. noto che Schelling sar poi fortemente criticato da Hegel, che paragona lassoluto ad un colpo di pistola, un botto che vuole arrivare subito (cio senza la faticosa mediazione del concetto) al divino: cosa che per Hegel non invece possibile senza un complesso discorso dialettico. In questo contesto (la Prefazione alla Fenomenologia dello spirito) Hegel avrebbe paragonato poi lAssoluto schallinghiano anche alla notte in cui tutte le vacche sono nere, intendendo un luogo in cui non possibile cogliere le differenze: per rendere conto delle quali, non basta dunque la sola intuizione, che propriamente un sentimento individuale.Altro esempio che si potrebbe addurre a sostegno della tesi gadameriana quello di Arthur Schopenauer, autore de Il mondo come volont e rappresentazione (1819). Secondo Schopenhauer, il mondo del fenomeno rappresentazione, velo di Maya, mentre la cosa in s costituita dalla Volont, principio metafisico inesausto il quale fa s che la vita di tutti gli esseri sia una continua oscillazione fra il dolore e la noia. Da questo stato di cose non ci si pu liberare ovviamente per uno sforzo di volont propria (sarebbe una banale contraddizione pretendere di liberarsi volontaristicamente della volont stessa), ma anzitutto proprio tramite larte, che ha la capacit di intuire le idee, le pure forme la cui contemplazione ci libera dal velo di Maya. Lopera darte consente la visualizzazione del mondo ideale, delle forme prive di conflittualit.Ora, tornando a Gadamer, a suo modo di vedere larte che diventa tutto e larte che diventa niente sono due punti di vista che, in ultima analisi, rifiutano che larte abbia qualcosa di autenticamente comune con la verit. In entrambe le alternative infatti arte e verit si trovano su due piani differenti: qui che nasce quella difficolt che caratterizza tutta la storia della moderna coscienza

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  • estetica. Anche nel momento in cui larte riceve valutazione straordinaria vi infatti una messa tra parentesi del quotidiano: larte diviene una sorta di domenica della vita. Si tratta quindi, per Gadamer, di cercare di impostare il discorso estetico (cio lanalisi filosofica del rapporto fra arte e verit) tenendo conto dei limiti di questa deriva che lestetica ha assunto negli ultimi 250 anni: precisamente quella tendenza che lha fatta diventare qualcosa di autonomo.

    5. Gusto e senso comune.

    Lestetica moderna intrattiene dunque un rapporto ambiguo con la verit: ed anche per questo che cos difficile darne una definizione. Per ovviare a questa difficolt, Gadamer propone dunque in Verit e metodo di individuare alcuni concetti storicamente formati negli anni in cui lestetica tende ad autonomizzarsi. Per fare ci parte dalla nozione di gusto e da quella di senso comune. Tali nozioni, o meglio problemi storicamente corrispondenti, si possono scorgere per la prima volta in Aristotele, e precisamente nellEtica Nicomachea e nel De anima.Ovviamente, per tutto ci che abbiamo detto in precedenza, non si potr affermare che nellEtica Nicomachea compaia la nozione di gusto. E tuttavia Gadamer dice che letica greca, letica della misura, in senso profondo e comprensivo unetica del buon gusto. Pensando al modello etico di Aristotele, e nellintento di tradurre il suo modo di pensare la morale, bisogna rifarsi secondo Gadamer ad una nozione che per noi moderni parrebbe anzitutto estetica. Infatti ci sono nozioni fondamentali nelletica di Aristotele come phrnesis, saggezza e eusynesa, perspicacia, che non possono essere spiegate sulla base dellorths logos, cio del discorso giusto e corretto (il discorso razionale sul modello della matematica). Saggezza e perspicacia sono infatti due categorie fondamentali per comprendere la vita umana, che non sono spiegabili in termini logico matematici. Il sapere pratico, il fare, non pu essere ricondotto a un modello di razionalit rigida (appunto lorths logos). Se vogliamo giudicare il valore morale di un uomo nel momento in cui si confronta con il mondo, il modo pi ragionevole fare dice Aristotele come fanno i muratori dellisola di Lesbo, i quali usavano il regolo di Lesbo, ossia un metro estremamente flessibile, per misurare le colonne con le loro curvature. Allo stesso modo noi, nel discorso morale, non dobbiamo pretendere di rifarci allorthos logos, ma necessitiamo di un discorso pi duttile, adattabile al proprio oggetto. Ci vuole insomma duttilit di pensiero per comprendere il mondo.Ma come si possono interpretare phrnesis e eusynesa? Dice Aristotele, e Gadamer lo cita: che la saggezza non sia scienza (episteme) chiaro. Essa riguarda lultimo termine delle deliberazione e si contrappone allintelletto astratto (che ragiona in termini logici). La saggezza ha per loggetto lultimo particolare (la realt concreta delle cose). Per cui non c scienza della saggezza ma aisthesis (sensazione). Non c insomma episteme della saggezza, bens sensazione, aisthesis: a un criterio in senso lato estetico. Ecco perch secondo Gadamer la preistoria del concetto di gusto riconducibile alletica di Aristotele.Tale nozione torna in Cicerone nel De Oratore, secndo il quale la capacit o facolt di giudicare (gusto connesso al giudizio) non pu essere dedotta intermini astratti n a rigore pu essere insegnata. Si tratta di una sorta di senso inconsapevole che indipendente dallintelletto, e che esige di essere educato.Gadamer afferma che un altro aspetto importante di questa preistoria del gusto si trova quindi nel De anima. Ivi Aristotele dice che la koin aistesis (senso comune) la percezione che ha come oggetto i sensibili comuni a tutti i sensi, ossia il fondamento della cenestesia. In altre parole: quando diciamo marrone-freddo-pesante in riferimento al tavolo, questo un oggetto la cui immagine dovuta al il concorso di pi sensi, che resa possibile appunto dal senso comune. Esso, dice Aristotele, sempre attivo e in interrelazione con noi. E non solo con gli uomini. Ecco perch esso non risiede nellintelletto, del quale non sono dotati tutti gli animali senzienti. (Aristotele risolver la difficilissima questione ricorrendo alla nozione di phantasia, che la capacit di fornire dei phantasmata, cio limmagine di ci che appare, i fenomeni). Il primo grado della conoscenza per Aristotele quindi la sensazione. per solo la fantasia a fornire linterfaccia tra sensibilit e intelletto. Limmaginazione consente cio la ritenzione della traccia (ossia la

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  • prestazione che ci consente di percepire limmagine dopo che il percepito non c pi), trattiene limmagine e solo se questa avviene si pu concettualizzare loggetto. dunque il senso comune che fa convergere e mette insieme le singole percezioni. Dove si trova questo luogo? Nella prospettiva fisiologica di Aristotele esso si trova in prossimit del cuore. Egli infatti pensava, sulla base delle sue osservazioni, che fosse il flusso del sangue a trasportare le sensazioni. Osserviamo che per esempio Leonardo fra gli altri accoglier nella sostanza questidea, ma collocher il senso comune vicino al cervello e agli occhi: Locchio riceve le species ovvero le similitudini degli obieti e li d allimpressiva, alla sensibilit, il quale li trasporta al senso comune e li giudicata (Trattato della pittura). Vi gi qui lidea ed ci a cui dobbiamo esplicitamente prestare attenzione che il senso comune eserciti un giudizio: ossia che nella sensazione non avvenga solo la ricezione, ma cominci la discriminazione; ossia, che un certo giudizio preceda lintelletto. La collocazione di Leonardo molto significativa fra laltro anche per questo motivo: se nellocchio che convergono le sensazioni, locchio che ha la predominanza su tutti i sensi; ed ecco perch a suo dire la pittura aveva una funzione educativa: poich capace di sollecitare il giudizio anche in chi non sa leggere, proprio in virt del senso comune.A proposito della fantasia e dellimmaginazione: Martin Heidegger nel libro del 1929, intitolato Kant e il problema della metafisica, pubblicato dopo linterruzione di Essere e tempo (1927), sostiene che la vera facolt in gioco nella Critica della ragion Pura ancora limmaginazione. Essa permette infatti la continuit nelle diverse fasi della conoscenza, che per Kant (a differenza, come si visto, che per i filosofi della scuola leibniziano-wolffiana, come Baumgarten) era problematica, essendo separate le due facolt (sensibilit e intelletto) da cui scaturisce la nostra conoscenza. Secondo Baumgarten, infatti, sensibilit e intelletto (lo abbiamo visto) sono due funzioni della stessa facolt: esiste una continuit tra di esse nel senso che la concettualizzazione operata dallintelletto una progressiva chiarificazione della conoscenza sensibile. Se invece le rappresentazioni derivano dallesterno si tratta di capire come sia possibile il passaggio dalla sensibilit allintelletto. Nella sua prospettiva filosofica, Leibniz aveva ritenuto proprio per questo che da fuori non potesse venire nulla alla nostra conoscenza: sulla scorta di Platone, egli afferma dunque che la conoscenza gi da sempre nella nostra mente introducendo la figura della monade che rappresenta la soggettivit, la sostanza, la mente alla quale Leibniz riduce tutto il mondo percepito.Ma si pu escludere totalmente lesperienza esterna dalle fonti del nostro conoscere? Lobiezione mossa dai grandi empiristi al razionalismo leibniziano sar proprio quella per cui non esistono idee innate ma esperienze esterne. In et moderna ci saranno quindi da una parte i razionalisti (Wolff, Baumgarten, prima ancora Leibniz) che garantiscono la razionalit della conoscenza, dallaltra gli empiristi (Locke) che garantiscono lapporto dellesperienza. Kant capisce linconciliabilit dei due punti di vista, che risultano opposti, e ne scorge i punti deboli. La sua soluzione sar appunto la Critica della ragion pura, secondo cui esiste una struttura trascendentale (forme pure del conoscere) che tuttavia sono per cos dire riempite dallesperienza.

    Ora, per tornare a Gadamer, seguendo la storia della parola senso comune si proseguir la storia del concetto di gusto ai suoi albori. Nel 1648 un filosofo spagnolo, Baltasar Gracin, scrive Lacutezza e larte dellingegno: uno fra i primi testi filosofici importanti nei quali compare la parola gusto, definito come: facolt di distinguere il bello e di goderne nonch di cogliere nella pratica il punto di vista delle cose. Elemento di novit di questa pagina il nesso tra gusto e bello, associato appunto alla capacit di cogliere nella pratica la misura, il punto giusto delle cose e delle situazioni virt che poi di fatto la phronesis (saggezza), ovvero come si detto la capacit di essere ragionevoli.Interessante per noi soprattutto losservazione successiva di Gadamer, il quale dice di Gracin che il suo ideale del gusto deriverebbe dalla risposta ad un problema politico: la legittimazione del terzo stato. Lincrocio tra phronesis e senso comune deve essere cio inteso nella sua insospettabile portata politica, valutando il contesto che quello dellassolutismo, dalla lotta della monarchia assoluta contro la nobilt, della preistoria del terzo stato. Come mai nasce la nozione di gusto in un contesto politico dove si rafforza il terzo stato? Ecco che lindagine sul gusto diventa quasi un problema di filosofia politica. Il gusto il concetto su cui si basa la buona societ,

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  • legittimata non pi dalla nascita, dallappartenenza famigliare alla classe, ma dalla comunanza di giudizi e valori condivisi. Ci troviamo cio secondo Gadamer di fronte ad uno slittamento metaforico che trasforma il gusto da privato a pubblico. Nel periodo illuministico si avr il trionfo di questa nozione di gusto. La societ sente cio il bisogno di legittimare i suoi modi di giudicare: questa la ragione per cui, allimprovviso, in questo periodo saranno scritti numerosissimi trattati filosofici sul gusto.

    [Sulla diversit dei contesti culturali richiamati a lezione, si veda la voce Gusto in allegato]

    6. Precursori di Kant in area britannica: Burke e Hume.

    Edmund Burke pubblica nel 1759 la seconda edizione (la prima era del 1757) dellInchiesta filosofica sul senso del bello e del sublime, preceduta da una Introduzione intitolata On Taste, Sul gusto. Di questa nozione aferma: si tratta del un giudizio pi raffinato prodotto in parte da una percezione dei piaceri primari del senso, in parte da quelli secondari dellimmaginazione, nonch dalle conclusioni della ragione circa i vari rapporti di questi piaceri e le passioni delluomo, gli usi e le azioni. Quindi il gusto inteso da Burke come piacere dei sensi che per per cos dire non bastano da soli, e vengono educati dallimmaginazione e poi dalla cultura. La base del gusto insomma uguale in tutti gli uomini, ma i gusti sono variabili proprio perch educati soggettivamente.Burke una lettura fondamentale per Kant, in quanto nella Critica del giudizio estetico Kant si rif al concetto burkiano di gusto per proporre la distinzione tra le due categorie estetiche fondamentali del sentimento del bello e del sentimento del sublime.Il gusto quindi per Burke frutto dei piaceri fisici (piaceri primari del senso), ma non solo un giudizio relativo ad un semplice piacere corporeo. La loro origine la stessa, solo che nel caso della percezione estetica il gusto esprime un giudizio pi raffinato, pi elaborato rispetto alla semplice percezione sensoriale. Questa viene filtrata attraverso i modelli culturali proposti dalla natura (piaceri secondari dellimmaginazione) ai quali le esperienze dei sensi vengono appunto confrontate. Per esempio il piacere dellopera darte comune al piacere diretto del senso (per esempio la differenza tra la percezione di un quadro e quella di una fetta di torta), solo molto pi raffinata ed elaborata. Se una cosa ci piace non dipende solo dalle sue qualit intrinseche, ma anche dal fatto che nel piacere provato per un oggetto sedimentato anche un fondo storico (in riferimento al contesto e alla situazione sociale culturale). Tutti gli uomini condividono le stesse facolt mentali, solo che le esercitiamo in maniere differenti. Il dialogo possibile appunto perch le basi sono le medesime per tutti.Il discorso di Burke peraltro particolarmente significativo sul piano politico; infatti egli aggiunge che : tra gli uomini riguardo alle questioni di gusto vi una discordia minore pi che non riguardo alla maggior parte di quelle cose che dipendono dalla pura ragione. Gli uomini si trovano molto pi facilmente daccordo nel giudicare pregevole una descrizione di Virgilio che nel discutere sulla verit o falsit di una teoria di Aristotele. Burke non ritiene giusto insomma considerare il gusto come una conoscenza di importanza rispetto a quella razionale. Spesso in realt partiamo dalla formulazione di giudizi di gusto dei quali non siamo nemmeno consapevoli; rovesciando la teoria del gusto di Burke viene fuori infatti una teoria del pregiudizio. Lidea che condividiamo in maniera prerazionale certi valori con una comunit vuol dire che certe volte ci troviamo daccordo su un giudizio estetico rispetto ad un discorso prevalentemente razionale deriva dal fatto che abbiamo pregiudizi molto radicati. Ed ecco che laltra faccia della teoria del gusto la critica degli illuministi al pregiudizio irrazionale: il pregiudizio come critica nei confronti della tradizione, critica del modo di pensare costituito non solo da facolt razionali ma anche dal mondo condiviso che condiziona queste facolt.

    Negli stessi anni (1757) viene pubblicato La regola del gusto di David Hume, un filosofo che notoriamente avrebbe dato molto filo da torcere a Kant. Hume sviluppa lidea della variabilit del

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  • giudizio di gusto in chiave scettica. Egli afferma: naturale che noi cerchiamo una regola del gusto; una regola mediante la quale possano essere conciliati i vari sentimenti degli uomini, o almeno una decisione che, una volta espressa confermi un sentimento o ne condanni un altro. Hume quindi dice che normale che si cerchi di stabilire in che modo giudichiamo le faccende relative al gusto, ma la regola ricercata rispetto al gusto non proprio identica a quella che troviamo quando ci si occupa di conoscenza: aggiunge infatti anche, a proposito di questultima, che fra le mille differenti opinioni che uomini diversi possono nutrire rispetto allo stesso oggetto, ve n una, e una sola che giusta e vera. Vale a dire: se ci pronunciamo sul colore di un oggetto, ci possono essere opinioni diverse (date magari da un daltonico o da un soggetto distante dalloggetto osservato per dire), ma tramite qualche criterio di indagine si potr accertare quale sia la sola vera opinione al riguardo. Al contrario mille diversi sentimenti riguardo a un oggetto sono in qualche modo tutti giusti, perch nessuno rappresenta quello che realmente nelloggetto (la bellezza non una qualit intrinseca). Non si pu persuadere un interlocutore della bellezza di una cosa con lo stesso grado di certezza con cui possiamo farlo riguardo al colore di questultima. Il gusto indica quindi una certa conformit o relazione tra loggetto e gli organi o facolt della mente che lo percepiscono. Non c una ragione oggettiva per cui una cosa pu piacere o meno.Insomma: la bellezza per Hume non una qualit delle cose stesse, soggettiva; quindi evidente che nessuna regola di composizione determinata in base a ragionamenti a priori o pu essere considerata come unastratta conclusione dellintelletto mediante il confronto di quei caratteri, di quelle relazioni di idee che sono eterne e immutabili. Insomma: tramite la ragione non possiamo dedurre le regole per produrre unopera darte. Non possediamo infatti criteri a priori su ci che sia bello o brutto perch il bello soggettivo; eppure quella del bello una soggettivit che per affermarsi richiede qualche consenso. Il fondamento del sentimento del gusto diventa allora lesperienza: donde lutilit di osservazioni generali relative a ci ce si trovato universalmente piacevole in tutti i paesi e in tutte le epoche.

    7. La Critica del Giudizio, fra Baumgarten e Hume. Un problema morfologico.

    Hume scrive il saggio sul gusto nel 1757, un anno prima delluscita del secondo e ultimo volume dellEstetica di Baumgarten. evidente che, anche in ambito estetico, le teorie dei due filosofi sono esattamente agli antipodi: Hume non riconosce infatti criteri oggettivi che spieghino come produrre unopera darte (in quanto i giudizi di gusto sono soggettivi), Baumgarten invece afferma (abbiamo visto) che sulla base della definizione del bello si possono dedurre le regole del comporre artistico. In ambito estetico, prima di Kant, c quindi la compresenza di due tradizioni apparentemente inconciliabili tra loro, ma che non sono altro che la riproposizione di quello che nellambito conoscitivo era stato il problema da cui prendeva le mosse la Critica della ragion pura: mettere insieme la razionalit cartesiana con lempirismo lockeiano, ovvero il fatto che ci siano conoscenze a priori che lesperienza riempie di contenuto. La Critica della ragion pura riconosce che ci sono forme pure a priori della conoscenza riempite per dal molteplice dellesperienza. Nella Critica del giudizio si ripresentano le due stesse tradizioni, ma in ambito estetico: da una parte un criterio razionale della bellezza, dallaltra limportanza massima dellesperienza nella formazione del gusto. Kant vuole dunque elaborare una prospettiva estetica che spieghi una certa condivisibilit dellesperienza di gusto con il fatto che un gusto non pu essere imposto. Nel farlo, egli si trova quindi in mezzo a queste due correnti: una tradizione empirista che conduce verso lo scetticismo e il relativismo del giudizio di gusto e una razionalistica che invece porta al normativismo. Lorigine dei nostri gusti empirica, ma il fatto che si possa discutere intorno ad un oggetto di gusto, nonostante laltro interlocutore non possa essere riconducibile ragionevolmente a ci che diciamo, significa che nel giudizio di gusto c una pretesa di universalit che non si esaurisce nel relativismo. Il paradosso che si cerca di rendere universale un nostro sentire particolare, ma si avverte pure che questa pretesa impossibile proprio per la natura soggettiva del nostro sentire.Nel dicembre 1787 Kant manda una lettera a Karl Leonard Reinhold, uno dei suoi primi discepoli. Reinhold, secondo Kant, avrebbe potuto contribuire alla diffusione della sua filosofia tra

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  • il pubblico, dando una forma pi accattivante e una chiave maggiormente popolare a una filosofia propriamente accademica. Nel dicembre 1787 dunque, quando era appena stata data alle stampe la Critica della ragion pratica, Reinhold riceve una lettera in cui Kant asserisce: ho scoperto un tipo di principi a priori nuovo rispetto ai precedenti. Le facolt dellanimo sono infatti tre : 1) facolt conoscitiva, 2) sentimento di piacere e dispiacere, 3) facolt di desiderare. Ho trovato principi a priori per la prima nella Critica della ragion pura (teoretica) e per la terza nella Critica della ragion pratica. Si tratta di trovare un principio a priori anche per la seconda facolt, il sentimento di piacere e dispiacere, e sebbene prima ritenessi impossibile trovarne, sono stato messo su questa strada dalla sistematicit che lanalisi delle facolt prima nominate mi ha fatto scoprire nellanimo umano. Proviamo ad analizzare in sintesi il contenuto di questa lettera.Ci sono principi a priori sia per la ragione pura sia per quella pratica, ma tra le due Kant individua un terzo elemento apparentemente privo di tali principi, o almeno: fino alla redazione della Critica della ragion pratica Kant pensava che lo fosse. Uno dei classici luoghi comuni su Kant che fosse ossessionato dallo strutturare il suo pensiero in una maniera architettonica e sistematica estrinseca, forzatamente ricondotta al modello di razionalit elaborata nella Critica della ragion pura. Kant in questa lettera invece afferma che se c un motivo per cui arrivato a concepire che ci siano principi a priori anche per il sentimento di piacere e dispiacere, questo stato dettato proprio dalla struttura architettonica scoperta nelle due facolt precedenti.Anche se non lo troviamo enunciato esplicitamente in questa lettera, potremmo forase anticipare che la scoperta di Kant nel fatto che la sensazione piacevole non coincide con il sentimento di piacere e dispiacere; la sensazione infatti non si potrebbe dotare di principi a priori che ce ne spieghino la piacevolezza o meno, in quanto il giudizio sulloggetto del senso si pu ricondurre a qualit riscontrate nelloggetto, ma non pretendere negli altri. La sensazione in questo senso sempre vera, in quanto non si pu confutare la verit di una sensazione soggettiva. Kant tuttavia capisce che il sentimento di cui si parla, quando si cerca di definire per esempio il bello, non questo, ma una facolt della mente.Continua poi Kant nella lettera a Reinhold : cosicch ora riconosco tre parti della filosofia, ognuna delle quali ha i propri principi a priori che vi si pu enumerare. Grazie ad essi determinabile lambito della conoscenza in tal modo possibile : filosofia teoretica, teleologia e filosofia pratica. Lintermedia certamente la pi povera di fondamenti di determinazione a priori. Che cosa significa la parola teleologia? Essa lo studio filosofico del principio della finalit, dal greco tlos (che significa bersaglio, ci a cui si mira). Mentre la ragion pura e la ragion pratica capiscono fin da subito quali sono i principi a priori e cercano di dedurli (con tutte le difficolt annesse a questa difficile operazione, e i relativi limiti), la teleologia non gode di principi analoghi; nel sentimento del piacere e dispiacere ci troviamo dunque di fronte al paradosso di un principio a priori che non si giustifica con una categoria o pi in generale con struttura trascendentale solida (per esempio la legge morale, per la Critica della ragion pratica) come avveniva negli altri due casi. Il che significa: manca una categoria certa e universalmente condivisa a priori di finalit, tale che tutti possono condividerla; le regole sono date dalla nostra mente ma non sono date una volta per sempre; ci ha a che fare, come vedremo, con il fatto che bello ci che di volta in volta piace. (Dunque, diciamo fin dora la prestazione richiesta al giudizio di gusto non potr essere una prestazione determinante come quella che fonda sinteticamente a priori la validit del giudizio conoscitivo).Conclude infine Kant nella lettera a Reinhold: spero di aver pronto verso pasqua con il titolo di Critica del gusto il manoscritto quandanche non lopera stampata. noto invece che il libro sarebbe uscito nel 1790 e con il titolo di Critica del giudizio, suddivisa al suo interno in Critica del giudizio estetico e Critica del giudizio teleologico, due parti a prima vista eterogenee: una si occupa infatti del bello e del sublime, laltra della finalit nella natura e innanzitutto dellorganizzazione propria degli esseri viventi. Nella Critica del giudizio teleologico Kant voleva infatti fondare una filosofia a priori che corrisponda alloperazione che egli stesso aveva fatto con la fisica di Newton nella Critica del ragion pura; se questultima era stata la fondazione della fisica di Newton, la Critica del giudizio teleologico voleva essere fra laltro la fondazione filosofica di una scienza della vita.

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  • Qual dunque il legame della bellezza con le questioni filosofiche circa la differenza fra il vivente e ci che non lo ? A ben vedere, si tratta del problema che aveva caratterizzato la filosofia da Cartesio in poi. Cartesio diceva infatti che lessere umano era caratterizzato dalla compresenza di res extensa (materia, corpo) e res cogitans (mente), mentre gli animali erano da lui considerati privi di questultima; Leibniz a sua volta, sia pure in una prospettiva decisamente pi complessa, riconosce la stessa cosa, considerando gli animali alla stregua di macchine perfette. Kant contesta questo principio: da una pate cio si rif alla fisica di Newton, dallaltra per si rende conto che essa non sufficiente per spiegare scientificamente la differenza costituita dalla vita, ossia in altri termini non offre principi sufficienti a distinguere i fondamenti a priori della fisica da quelli della biologia (Kant dice che deve ancora nascere un Newton del filo derba che sappia spiegare come nasce la vita nel modo in cui Newton ha spiegato meccanicisticamente la legge di gravitazione universale).Ora, la nozione di bellezza e di vita stanno insieme proprio sulla base del principio trascendentale di questo terzo aspetto della filosofia che si colloca tra conoscere e desiderare (che poi il problema della coesistenza nel mondo di necessit e libert). In breve: il problema del bello accomunato al problema della finalit e nella fattispecie del vivente grazie al concetto di finalit.Ernst Cassirer, uno dei padri del neokantismo, nel suo studio Vita e dottrina di Kant ci offre una chiave di accesso a questo difficile nesso concettuale, quando afferma: Nel diciottesimo secolo la parola finalit non significa deliberazione intenzionale. Non cio consequenzialismo di mezzi e scopi, ma libero concordare delle parti di un molteplice in una unit dotata di senso e di armonia. Un oggetto dotato di finalit insomma quando ci appare composto di parti che sono fra loro in accordo, in maniera tale che questo accordo suscita in noi lidea di unarmonia. La definizione di Cassrer della finalit importante per sgombrare il campo da un equivoco, liquidando lidea che essa significhi innanzitutto lobbiettivo che qualcuno si propone per raggiungere un determinato scopo, un certo fine utile: va quindi superata lordinaria concezione strumentale del concetto di fine o scopo.Per capire che cosa intendesse Kant per finalit, facciamo un salto indietro nella storia della filosofia, e ricordiamo quanto afferma Aristotele in Metafisica (A, 3) e in Fisica (B, 198 a 240), ove egli elabora la cosiddetta teoria delle cause. Lincipit famosissimo della Metafisica dice che sapienza conoscenza di cause: quindi lo studio delle cause lunico che pu condurre a dare un interpretazione dellessere. Ora, secondo Aristotele queste cause sono fondamentalmente quattro: 1) materiale; 2) formale; 3) efficiente; 4) finale. Lesempio aristotelico anche abbastanza celebre. Pensiamo a una casa: la sua causa materiale sar la materia prima con cui costruita, quella formale il progetto dellarchitetto, quella efficiente chi effettivamente la costruisce (loperaio, il muratore ecc.) e quella finale il fatto essere abitata; per Aristotele quindi abbiamo conoscenza di che cosa sia un ente, nella fattispecie una casa, se ne riconosciamo le quattro cause.Cerchiamo dunque di tradurre in termini aristotelici la definizione di finalit data da Cassirer. Nel secondo libro della Fisica (cit.) troviamo una frase importante per chiarire linterpretazione di finalit in Kant: Dice Aristotele: in effetti il che cos [causa formale] e il ci in vista di cui [causa finale], sono una cosa sola. Aristotele in questo passo sta probabilmente riferendosi alla peculiarit degli esseri viventi: se nel caso della casa causa formale e causa finale coincidono solo in senso molto lato, negli enti dotati di vita questi due aspetti sono identici, o meglio sono due modi diversi di considerare la stessa realt.Su questa base possiamo allora dire: la nozione che tiene insieme giudizio estetico e giudizio teleologico quella di forma, ma in quella accezione per cui appunto la forma, come si legge in Aristotele, fa tuttuno con la nozione di fine. Un essere vivente (dotato di anima e di capacit di muoversi) come si differenzia da un automa che magari lo riproduce perfettamente? La differenza per Kant proprio nel fatto che, nel caso dellessere vivente, causa formale e causa finale coincidono, nel senso che lunico essere dotato della capacit di darsi la propria forma come fine. Ci significa che lessere vivente dotato di metabolismo (ancorch Kant non adoperi direttamente questo termine, esso ci sembra rendere lidea della cosa in questione), ossia della capacit di prendere della materia dallesterno, e di trasformarla al suo interno (nutrirsi, riprodursi) conservando cos la propria forma. A un primo livello la materia esterna viene metabolizzata e trasformata secondo un disegno corrispondente alla propria forma (conservazione); a un secondo

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  • livello la forma fine nellessere vivente in quanto questo lunico tipo di essere capace di riprodursi generando un essere simile a s, ossia prendendo della materia e riproducendola in una forma simile alla propria.Tornando alla definizione di Cassirer: possiamo spiegarci in questo modo come il conservare la propria forma in ragione della finalit stessa non corrisponda a una deliberazione intenzionale: il fatto che risultato dellintero processo sia il mantenimento della forma significa che la forma la manifestazione morfologica di unarmonia che rende possibile questa stessa riproduzione di s, questo (parafrasando Kant) incremento delle forze vitali.Interpretando in questo modo la finalit, Kant pu liberarsi dai numerosi problemi che il concetto di fine si portava appresso, ancora in relazione alla Critica della ragion pura; in quanto questultima aveva come scopo anche quello eliminare la metafisica dogmatica che finiva nel provvidenzialismo, ovvero la metafisica scolastica di Leibniz e dei suoi discepoli, secondo la quale tutto ci che , in quanto dotato di dignit ontologica, bene per cui ogni cosa, anche la pi terribile, potrebbe corrispondere a un disegno divino, come avrebbe ironicamente sottolineato Voltaire nel Candide.Importante dunque capire che quando usa la categoria di finalit nella Critica del giudizio Kant non vuole in alcun modo riproporre unidea di provvidenzialismo: gi per questo motivo si era del resto rifiutato, nella Critica della ragion pura, di inserire la nozione di finalit nella tavola delle categorie: perch se la finalit costituisse un principio del nostro giudizio determinante, tutti gli oggetti della natura sarebbero in qualche modo finalizzati, e Dio sarebbe lessere perfetto che ha creato il mondo nel modo migliore possibile: anche disastri tremendi come il terremoto di Lisbona, che sconvolse nel 1755 la coscienza degli intellettuali europei, sarebbero ottimisticamente giustificati.

    8. Giudizio determinante e giudizio riflettente.

    Quindi Kant ha bisogno per cos dire di ripulire epistemologicamente la nozione di finalit, e per questo non la fa corrispondere affatto al disegno divino, quanto piuttosto allidea della forma degli esseri viventi, e della libera manifestazione estetica dei fenomeni. Si tratta di capire in quale modo si potr dunque parlare in filosofia di finalit senza trasgredire i limiti sanciti dalla Critica della ragion pura; il problema diventa cio quello di elaborare un nuovo strumento teorico che permetta un ricorso non dogmatico alla nozione di finalit. Tale strumento diventa, in Kant, la distinzione tra giudizio determinante e giudizio riflettente.Nella Critica della ragion pura, a proposito del giudizio, appare fra laltro questa definizione: Pensare giudicare. Che cosa significa questa affermazione?Secondo Kant, ogni volta che pensiamo qualcosa, come se la nostra mente, consapevolmente o meno, elaborasse una proposizione (o un insieme di proposizioni connesse fra loro) del tipo

    S P

    - vale a dire: a un certo soggetto (S) spetta un certo predicato (P). Dire o pensare che un foglio bianco appunto lunione di un soggetto con un predicato. Quindi tutti i nostri contenuti mentali sono ritenuti da Kant, pi o meno direttamente, riconducibili a questo tipo di giudizio; pi ancora, ogni pensiero sempre un giudizio. Tale giudizio, poi, pu avere contenuti sensati (dire appunto che il foglio bianco, se si in presenza di un foglio di quel colore) o insensati (dire, per esempio assurdo, che il foglio un elefante); la Critica della ragion pura stabiliva appunto i limiti entro i quali i giudizi si potevano formulare correttamente; laddove poi la Critica della ragion pratica spiegava in che senso per esempio ci siano ambiti, come la morale, in cui pensare e conoscere non coincidano, e tuttavia si possano formulare proposizioni coerenti che non trovano corrispettivo nellesperienza, ma che non per questo possono dirsi semplicemente sbagliate o insensate. Per Kant, la proposizioni relative alla morale non sono in alcun modo ampliative del sapere, ma non sono contraddittorie con i dettami della Critica della ragion pura. Se parliamo di Dio da un punto di vista della ragione pura teoretica finiamo per affermare cose non dimostrabili;

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  • ma se ne parliamo correttamente dal punto di vista della ragione pratica possiamo dire cose molto sensate e rilevanti, in riferimento alla legge morale.Riepilogando potremmo dire dunque che per KaNT:

    - Giudicare pensare, ma non sempre pensare conoscere; - Ogni pensiero riconducibile a uno o pi giudizi, del tipo: S P (unione di un soggetto a

    un predicato);- Il fatto che pensare sia giudicare non significa che i pensieri siano sempre veri e sensati,

    giacch si possono formulare anche giudizi falsi;- Non tutti i pensieri sono dimostrabili (non tutti sono conoscenza secondo i criteri della

    Critica della ragion pura), ma non tutto ci che non dimostrabile di per s fasullo o irrilevante;

    - Dunque, per Kant ci sono pensieri che aspirano alla validit scientifica, altri che non ne sono dotati affatto, alcuni dei quali falsi (per esempio dire che il foglio un elefante), altri invece sono pensabili secondo criteri di una razionalit che non si pu definire conoscenza ma che comunque ha senso in un determinato ambito (si pensi alla legge morale e ai suoi postulati, quali si trovano nella Critica della ragion pratica).

    Nella Critica del giudizio Kant afferma dunque, in apertura, che il giudizio pu essere di due nature: determinante o riflettente.Quando si formula un giudizio, si collega un soggetto particolare (secondo il solito esempio: il foglio) a un predicato universale (il concetto di bianco) che non si applica solo a quel soggetto (bianca pu essere infatti anche la parete, una scatola ecc.). Ebbene: il giudizio determinante appunto quel tipo di giudizio di conoscenza di cui Kant aveva parlato nella Critica della ragion pura. Il giudizio nellun caso determinante perch gli oggetti non li percepiamo come cose in s ma come fenomeni, e la conoscenza dei fenomeni consentita (appunto, determinata) dalle strutture trascendentali della mente (spazio, tempo, categorie, idee della ragione). Non possibile dire come siano fatte le cose in s; per avere una conoscenza scientifica si deve ricorrere alla nozione di trascendentale, ossia (in estrema sintesi) aver chiare quelle conoscenze formali che mettiamo noi, in quanto soggetti conoscenti, nei fenomeni: tali costanti sono appunto le strutture trascendentali della nostra mente. In una celebre lettera, il poeta Heinrich von Kleist avrebbe efficacemente detto con uniperbole che nella prospettiva kantiana, in un certo senso, come se vedessimo tutte le cose tramite degli occhiali verdi: il fatto che tutte le cose ci appaiano verdi non vuole dire che lo siano in s, bens dipende dalla natura degli occhiali che indossiamo (qui metafora delle strutture trascendentali della nostra mente).Il giudizio si chiama determinante, dunque, quando riguarda lapplicazione di strutture trascendentali date a priori, che determinano il presentarsi dei fenomeni. I fenomeni si presentano a noi solo in quanto sono determinati dalle nostra strutture mentali: come sono le cose in s non lo sapremo mai. Esiste per un altro modo per unificare S P: appunto il giudizio riflettente. Questo giudizio non ha la pretesa di determinare come le cose siano fatte, bens esprime il riflettersi un nostro stato danimo nel momento in cui un certo fenomeno si presenta a noi. Dunque, una proposizione come

    la rosa rossa

    sar un giudizio determinante; la proposizione invece

    la rosa bella

    che ha a che fare evidentemente con la dimensione estetica sar un giudizio riflettente.Il concetto di bello, infatti, non esprime una determinazione del fenomeno, non una qualit oggettiva delloggetto, bens uno stato danimo che la rappresentazione delloggetto suscita in chi lo osserva.Nellintroduzione alla Critica del giudizio, Kant spiega la distinzione tra giudizio determinante e riflettente in questo modo: il giudizio in genere la facolt di pensare il particolare come

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  • contenuto nelluniversale. Se dato universale, la regola, il principio, la legge, il giudizio che opera la sussunzione determinante. Se invece dato soltanto il particolare e il giudizio deve trovare luniversale, il giudizio semplicemente riflettente.Da un punto di vista formale quindi nel giudizio determinante luniversale dato (cio lo abbiamo gi), nel giudizio riflettente trovato (va dunque cercato di volta in volta).Per esempio il concetto di un colore ce lo abbiamo, ma il concetto di bello no, per il motivo che non un concetto universale; non abbiamo una nozione di bellezza o di finalit che sia uguale in tutte le menti di tutti gli uomini. In altre parole: per quanto riguarda la conoscenza, la scienza pu secondo Kant aspirare a fornire dei concetti certi; ma nellambito del giudicare estetico ci non si verifica, perch il mettere insieme la nozione di bellezza a una esperienza particolare non li accomuna semplicemente, ma deve spiegare di volta in volta cosa sia questo universale chiamato in causa, il bello. Insomma: esprimendo un giudizio estetico non ci si pu avvalere secondo Kant di una legge gi data, ed come se, ogni volta, si dovesse rendere conto dallinizio del proprio criterio.Come vedremo, non solo in riferimento alla bellezza, ma per parlare della finalit in generale (di cui la bellezza un caso) abbiamo bisogno di ricorrere, nella prospettiva kantiana, al giudizio riflettente.

    Tra parentesi, qualcuno potrebbe domandare a questo punto: il giudizio morale in Kant, dato che non ha pretese scientifiche n ampliative del sapere, un giudizio riflettente?La risposta a questa domanda no: da un punto di vista formale il giudizio etico non si pu configurare in maniera diversa da un giudizio determinante (anche se non riguarda la conoscenza), dato che luniversale (nella fattispecie, la legge morale) dato, presente di per s alla ragione umana finita; in caso contrario, il buono sarebbe considerato come un universale da cercare, sicch la morale ne risulterebbe relativizzata, mentre per Kant la legge morale un fatto dato a priori.

    9. Il giudizio di gusto in Kant.

    Si potrebbe dire che, in Kant, lidea del giudizio di gusto una sostanziale smentita del proverbio secondo il quale del gusto non si deve n pu discutere; del gusto invece secondo il filosofo di Knigsberg si pu (e si deve) quasi solo discutere, non se ne pu fare a meno, in quanto un giudizio che formuliamo sentendoci in dovere di accogliere le argomentazioni degli altri, ma di dire anche la nostra. Nel corso del Novecento moltissimi filosofi si sono fra laltro ispirati proprio alla Critica del giudizio per ipotizzare un modo di pensare dialogico e non dogmatico, quindi (in qualche modo) anti-metafisico; Hannah Harent per esempio ha scritto una Teoria del giudizio politico, pubblicata postuma negli anni ottanta, in cui la filosofa si rif allidea kantiana del giudizio riflettente per elaborare una filosofia politica orientata sulla base delle categorie di gusto e dialogo intersoggettivo, nonch di una universalit non dogmatica.Come spiega Kant il giudizio di gusto? Incominciamo dalla Prefazione della Critica del giudizio, e precisamente dal secondo capoverso: Era dunque veramente lintelletto, che ha il suo proprio dominio nella facolt di conoscere, in quanto esso contiene a priori i principi costitutivi della conoscenza, che doveva essere messo dalla critica designata in generale col nome di critica della ragione pura nel suo sicuro possesso contro tutti gli altri competitori: compito della Critica della ragion pura era dunque garantire la validit del giudizio determinante, ossia il corretto uso delle categorie dellintelletto, dimostrando la validit dei principi costitutivi a priori della conoscenza (spazio, tempo, categorie); e, prosegue Kant, allo stesso modo che alla ragione, la quale non contiene a priori principi costitutivi se non soltanto relativi alla facolt di desiderare, stato assicurato il suo possesso nella critica della ragion pratica. Per Kant esiste cio anche un altro ambito, quello della morale, che ha a che fare con la ragion pratica e che ha pure dovuto avere la sua dimostrazione di validit (nella seconda Critica di Kant). In certo modo troviamo nella prefazione quindi un riepilogo di quanto si era letto nella lettera a Reinhold. Infatti Kant prosegue: Ora, se il giudizio, che nellordine delle nostre facolt di conoscere fa come da termine medio fra lintelletto e la ragione, abbia anche per s stesso principi a priori, e se questi principi siano

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  • costitutivi o semplicemente regolativi, e se il giudizio dia a priori la regola, il sentimento di piacere o dispiacere come il termine medio tra la facolt di conoscere e la facolt di desiderare, ecco ci di cui si occupa la presente critica del giudizio. Kant quindi individua tra lintelletto e la ragione la facolt intermedia del giudizio, in corrispondenza di quellelemento intermedio che nella lettere a Reinhold veniva definito come sentimento del piacere e del dispiacere. Il filosofo individua cio tre ambiti della filosofia, due ormai assodati, e un terzo che ha la particolarit di servirsi di un modo di giudicare chiamato giudizio riflettente. La difficolt della teleologia (espressione che ricorreva nellepistola) consiste proprio nel fondarsi su un principio che ha bisogno di verificazione di volta in volta.Buttiamo ora una rapida occhiata dinsieme allIndice della Critica del giudizio. Essa composta in questto modo:

    - Prefazione- Introduzione- Parte I: Critica del giudizio estetico

    (che ha per oggetti a) il Bello libero o aderente b) il Sublime matematico o dinamico)

    - Parte II: Critica del giudizio teleologico (che studia la finalit interna della natura).

    Parliamo dunque brevemente dellIntroduzione. Va detto che quella premessa al testo nel 1790 non lIntroduzione originaria, bens quella che viene definita dagli studiosi Seconda introduzione alla critica del giudizio. Esiste infatti un testo che Kant non ha mai voluto dare alle stampe, abitualmente definito Prima introduzione alla critica del giudizio. Essa non ha avuto diffusione non tanto per argioni di lunghezza eccessiva, come sembra voler giustificare Kant, quanto piuttosto (come ha osservato Vittorio Mathieu) perch Kant si rende conto che nel testo della Prima introduzione c un elemento in qualche modo pericoloso per limpianto complessivo della sua filosofia critica.Dagli scambi epistolari scopriamo che un corrispondente aveva chiesto a Kant uno scritto nel quale trovare riassunte le complesse prospettive del pensiero kantiano. Kant, in risposta, dice che gli avrebbe mandato un testo nel quale sarebbe contenuto esattamente il nucleo del suo pensiero: noi sappiamo che quel testo appunto la Prima introduzione alla Critica del giudizio. Dunque Kant la riteneva importante. Eppure laspetto insidioso del testo, che lo rende prudente nel diffonderlo, la nozione di tecnica della natura. Resosi conto che ci sono elementi della variet della natura che non sono riconducibili perfettamente alla struttura trascendentale presente nella Critica della ragion pura, comprende anche che tale struttura risulta non gi inadeguata, bens insufficiente. La Critica della ragion pura considera infatti la natura da un punto di vista formale (formaliter); ma la natura ricca anche di leggi particolari, ossia di un materiale che d luogo a fenomeni concreti come le leggi della biologia, della chimica, ecc. (e non solo della fisica newtoniana). Fenomeni che sono spiegabili solo sulla base di una spontanea attivit organizzatrice e produttiva (appunto una tecnica) insita nella natura stessa.Se le cose stanno cos, per, Kant si rende ben presto conto che la sua filosofia finisce per prestare nuovamente il fianco allobiezione di Hume: se le singole scienze speciali e le loro leggi particolari non possono essere spiegate solo con lo scheletro di strutture trascendentali del conoscere fornito dalla Critica della ragion pura, giacch esso necessita di essere in qualche modo riempito ma non semplicemente dallesperienza, in quanto essa falsificabile e particolare. Il tarlo dello scetticismo ricompare quindi, proprio perch da un punto di vista materiale la Critica della ragion pura appare carente; il riempitivo materiale dellesperienza mette nuovamente in gioco la purezza trascendentale che doveva essere la fondazione di ogni scientificit possibile. Per questo nella Prima introduzione della Critica del giudizio viene elaborata lambigua nozione di tecnica della natura, secondo la quale la natura possiede una forza capace di darsi delle forme. E infatti, tale nozione sarebbe davvero utilissima per spiegare egregiamente (ancora una volta) la differenza tra un essere vivente e un automa; il quid mancante a un essere non vivente (quella qualit

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  • identificata nelle scorse lezioni come il metabolismo, nella sua duplice funzione) verrebbe infatti per cos dire supplito da questa tecnica agita dalla natura stessa. Tuttavia, a ben guardare, accettare semplicemente questa nozione vorrebbe dire accettare un principio razionale che plasma delle forme, ma che non la ragione. La tecnica della natura rischia cio di diventare una sorta di razionalit esterna alla ragione umana, che viene ammessa come esistente nella natura stessa per spiegare quel tanto che la ragione umana stessa non riesce a spiegare (appunto, per esempio, la differenza tra un organismo e un meccanismo). Ammettere tutto ci metterebbe dunque in crisi la cosiddetta rivoluzione copernicana che sta alla base della Critica della ragion pura, secondo la quale noi non conosciamo n possiamo aspirare a conoscere come sono fatte le cose in s, ma dei fenomeni conosciamo a priori solo quello che noi stessi mettiamo per contribuire al sorgere delle rappresentazioni.La prospettiva di una libera e autonoma tecnica della natura piaceva ad alcuni lettori di Kant, tra cui J. Wolfgang Goethe, che negli stessi anni andava elaborando un sistema della natura che cercava di spiegare le origini (lo Urphnomen, il fenomeno originario) di quella forza vivente che la natura stessa. Goethe trovava infatti nella Critica del giudizio una filosofia meno astratta di quanto non trovasse nella Critica della ragion pura.Kant aveva quindi ottime ragioni per togliere questa introduzione dalla circolazione; ma ci sono altres ottime ragioni per inviarla a chi gli chiedesse in amicizia un compendio dello spirito del suo filosofare. Infatti Kant si rende conto ormai che ogni pretesa costruttivistica, da parte della filosofia trascendentale, di ridurre la conoscenza della natura a una struttura dettata dalla ragione deve scontrarsi con qualcosa di esterno che non mai deducibile a priori: con una forza viva che viene da fuori, e che tuttavia mette in pericolo la stessa scientificit del pensiero, che aspira alle caratteristiche di universalit e necessit.

    Kant ritir dunque la Prima introduzione con la scusa di uneccessiva lunghezza (non che quella pubblicata sia poi particolarmente breve); mentre nella seconda e definitiva Introduzione viene inserita per la prima volta con chiarezza la distinzione tra giudizi determinanti e giudizi riflettenti che abbiamo visto sopra. Viene cercato e trovato un escamotage, cio, per sottrarsi alle problematiche appena accennate proprio attraverso il tentativo di chiarificare quale sia il valore epistemologico dei giudizi riflettenti. La soluzione consiste nellaffermare che il giudizio riflettente non ha valore costitutivo, bens regolativo.Il termine costitutivo, in questo contesto, ha un valore simile allattributo determinante predicato del medesimo giudizio conoscitivo; un giudizio ha valore costitutivo cio quando costituisce gli oggetti dellesperienza, ovvero: gli oggetti dellesperienza non possono presentarsi se non attraverso quel giudizio (che giudizio determinante, appunto).Kant nega dunque che la teleologia e il corrispondente principio a priori della facolt intermedia tra intelletto e ragione (la finalit) mettano capo a un principio costitutivo, in quanto se la finalit lo fosse, tutti gli oggetti (come si detto) ci sembrerebbero in qualche modo finalizzati, addirittura cio necessari e voluti da una provvidenza: tutte le cose sembrerebbero cio buone; forse, addirittura, non si potrebbe distinguere fra oggetti inanimati e animati. Se il principio della finalit fosse costitutivo tutti gli esseri apparirebbero cio viventi, nel senso che sarebbero tutti parte del grande organismo vivente che il mondo: mentre Kant invece insiste nella distinzione il vivente e il non vivente, per distinguersi fra laltro da Leibniz, il quale aveva ipotizzato che la sostanza o monade (il principio metafisico delluniverso) altro non contenga in s se non lintero mondo totalmente animato e vivente, rispetto al quale ci sarebbero tuttavia gradi di vita consapevoli e altri dormienti. Per Leibniz, dunque, la differenza tra un meccanismo e un organismo non ontologica ma di consapevolezza: solo lessere umano, dotato di appercezione, ha consapevolezza del proprio essere vivente; ma la sua sostanza in perfetta continuit con gli esseri che non lo sembrano, essendo monadi dormienti. Ancora una volta riscontriamo che lontologia leibniziano-scolastica dunque una filosofia della continuit, mentre il criticismo di Kant un pensiero della discontinuit: ricordiamo che anche sensibilit e intelletto per Kant sono separati, infatti indispensabile il termine medio dellimmaginazione per spiegarne la radice comune.Che significa invece valore regolativo?

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  • Per spiegare il motivo per il quale il giudizio riflettente ha valore regolativo, Kant ricorre all