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Milano, 5 luglio 2018 Il “giustificato motivo oggettivo”: analisi della fattispecie alla luce della più recente giurisprudenza ed evoluzione dell’obbligo di repêchage Presentazione a AIDP Lombardia Avv. Angelo Zambelli [email protected]

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Milano, 5 luglio 2018

Il “giustificato motivo oggettivo”: analisi della fattispecie alla luce della più recente giurisprudenza ed evoluzione dell’obbligo di repêchage Presentazione a AIDP Lombardia

Avv. Angelo Zambelli

[email protected]

La fattispecie

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Licenziamento per giustificato motivo oggettivo

Il licenziamento per giustificato motivo con preavviso è determinato da un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali del prestatore di lavoro ovvero da ragioni inerenti all’attività produttiva, all’organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa.

Art. 3, L. n. 604/1966

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Cass. 14 maggio 2012, n. 7474

«In tema di licenziamento per giustificato motivo

oggettivo determinato da ragioni tecniche, organizzative e

produttive, compete al giudice - che non può, invece,

sindacare la scelta dei criteri di gestione dell’impresa,

espressione della libertà di iniziativa economica tutelata

dall’art. 41 Cost. - il controllo in ordine all’effettiva sussistenza

del motivo addotto dal datore di lavoro, in ordine al quale il

datore di lavoro ha l’onere di provare, anche mediante elementi

presuntivi ed indiziari, l’effettività delle ragioni che giustificano

l’operazione di riassetto»

Conforme: Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201

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il giustificato motivo oggettivo di licenziamento può anche consistere nell’esigenza di una riorganizzazione del lavoro per un’apprezzabile riduzione dei costi d’impresa; occorre peraltro che l’esigenza di tale riduzione sia imposta da una seria ragione di utile gestione dell’azienda e non di per sé per l’effetto dell’accrescimento del profitto, che da solo sarebbe un motivo personale del datore

il presupposto fattuale della sfavorevole situazione economica in cui versa l'azienda è requisito di legittimità del licenziamento, che deve pertanto essere provato dal datore di lavoro ed accertato dal giudice

Necessità di uno stato di crisi?

Primo orientamento

(Cass. 24 giugno 2015, n. 13116; Cass. 16 marzo 2015, n. 5173; Cass. 23 ottobre 2013, n. 24037 Cass. 24 febbraio 2012; n. 2874; Cass. 26

settembre 2011, n. 19616; Cass. 25 marzo 2011, n. 7006; Cass. 2 ottobre 2006, n. 21282; Cass. 7 luglio 2004, n. 12514)

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Le ragioni inerenti l’attività produttiva di cui all’art. 3, L. n. 604/66, possono derivare anche da riorganizzazioni o ristrutturazioni, quali ne siano le finalità e quindi comprese quelle dirette al risparmio dei costi o all’incremento dei profitti: «opinare diversamente significherebbe affermare il principio, contrastante con quello sancito dall’art. 41 Cost., per il quale l’organizzazione aziendale, una volta delineata, costituisca un dato non modificabile se non in presenza di un andamento negativo e non anche ai fini di una più proficua configurazione dell’apparato produttivo, del quale il datore di lavoro ha il «naturale» interesse ad ottimizzare l’efficienza e la competitività.

Necessità di uno stato di crisi?

Secondo orientamento

(Cass. 26 aprile 2018, n. 10140; Cass. 21 luglio 2016, n. 15082; Cass. 1 luglio 2016, n. 13516; Cass. 10 maggio 2007, n. 10672; Cass. 24 maggio

2007, n. 12094)

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«Ai fini della legittimità del licenziamento individuale per giustificato motivo oggettivo, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa; ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti, in concreto, l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta».

Conforme: Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882; Cass. 7 dicembre 2016, n. 25201 (così anche Tribunale Milano, 15 gennaio 2018, n. 73)

Cass. 25 giugno 2018, n. 16702

La procedura

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Procedura (art. 7, L. n. 604/1966)

Richiesta di conciliazione del datore di lavoro rivolta all’ITL e trasmessa per conoscenza al lavoratore.

L’ITL convoca le parti nel termine perentorio di 7 giorni dalla ricezione della richiesta.

La procedura si considera esaurita: • al raggiungimento dell’accordo (il lavoratore ha diritto alla Naspi); • quando le parti ritengano di non proseguire la discussione; • decorsi venti giorni dalla convocazione.

Se il tentativo di conciliazione fallisce, il datore può comunicare il licenziamento.

Le parti possono farsi assistere dal sindacato, da un avvocato o da un consulente del lavoro.

Nella richiesta di conciliazione, il datore deve: • dichiarare l’intenzione di licenziare per motivo oggettivo; • indicare i motivi e le eventuali misure di assistenza alla

ricollocazione del lavoratore.

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Art. 1, comma 41, L. n. 92/2012

Il licenziamento intimato all’esito del procedimento disciplinare di cui all’articolo 7 della legge 20 maggio 1970, n. 300, oppure all’esito del procedimento di cui all’articolo 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dal comma 40 del presente articolo, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il procedimento medesimo è stato avviato, salvo l’eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva; è fatto salvo, in ogni caso, l’effetto sospensivo disposto dalle norme del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, di cui al decreto legislativo 26 marzo 2001, n. 151. Gli effetti rimangono altresì sospesi in caso di impedimento derivante da infortunio occorso sul lavoro. Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato.

I casi esclusi

lavoratori assunti con contratto a tutele crescenti (art. 3, comma 3, D.Lgs. n. 23/2015)

dirigenti

lavoratori dipendenti da datori di lavoro che non soddisfino i requisiti dimensionali di cui all’art. 18 dello Statuto dei lavoratori

In questi casi trova applicazione solo il «nuovo» art. 2 della L. n. 604/1966:

il datore di lavoro deve comunicare il licenziamento per iscritto

la comunicazione del licenziamento deve contenere la specificazione dei motivi che lo hanno determinato

il licenziamento intimato senza l’osservanza di tali formalità è inefficace

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Il repêchage

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Cass. 26 maggio 2017, n. 13379 «la verifica della possibilità, indubbia, del repêchage con

riferimento a mansioni equivalenti» è stata «progressivamente dilatata alla più controversa possibilità di adibizione anche a mansioni inferiori, per l'inderogabilità della norma contenuta nell'art. 2103, secondo comma c.c. (nel testo applicabile ratione temporis precedente la riformulazione introdotta dal D.Lgs. n. 81 del 2015, art. 3)»;

«E ciò in estensione di un fondamentale arresto di legittimità, secondo cui la

sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa possono giustificare oggettivamente» il licenziamento «a condizione che risulti ineseguibile l'attività svolta […], per la ravvisata prevalenza delle esigenze di tutela del diritto alla conservazione del posto di lavoro su quelle di salvaguardia della professionalità del prestatore (Cass. s.u. 7 agosto 1998, n. 7755)»;

«Sicché, analogamente è stato ritenuto anche per l'ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo conseguente a soppressione del posto di lavoro a seguito di riorganizzazione aziendale […]».

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Trib. Roma 24 luglio 2017

Dopo l’entrata in vigore del D.Lgs. n. 81/2015, che ha

introdotto il nuovo testo dell’art. 2103 c.c., deve ritenersi che ai

fini dell’assolvimento dell’obbligo di repêchage, il datore di

lavoro sia tenuto a dimostrare l’indisponibilità di posti di

lavoro di livello corrispondente a quello in cui è

inquadrato il lavoratore: la scomparsa del riferimento alla

categoria dell’equivalenza nel nuovo testo dell’art. 2103 c.c.

determina una maggiore ampiezza e flessibilità dell’ambito di

utilizzazione orizzontale del dipendente.

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Cass. 19 aprile 2017, n. 9869

Nell’ambito di un licenziamento per giustificato motivo

oggettivo, la sola proposta di assegnare al lavoratore

mansioni riconducibili a un livello professionale

inferiore non è idonea a soddisfare l’obbligo datoriale

di verificare il possibile reimpiego del dipendente in

altre posizioni equivalenti. Difatti, l’offerta di ricoprire una

mansione alternativa, fatta al lavoratore e da questi non

accettata, connotata da un contenuto professionale peggiorativo

non assolve all’obbligo del repêchage e non esonera, dunque,

l’imprenditore dalla verifica circa la possibile ricollocabilità in

mansioni equivalenti.

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Onere della prova

Orientamento tradizionale

La prova dell’impossibilità di adibire il lavoratore ad altre mansioni non deve essere intesa in modo rigido, dovendosi esigere dallo stesso lavoratore che impugni il licenziamento una collaborazione nell’accertamento di un possibile repêchage con mansioni diverse e anche inferiori a quelle originariamente svolte, mediante l’allegazione della esistenza di altri posti di lavoro nei quali egli poteva essere utilmente ricollocato; a tale allegazione, poi, corrisponde l’onere del datore di lavoro di provare la non utilizzabilità del lavoratore nei posti predetti (ex plurimis, Cass. 12 agosto 2016, n. 17091)

Giurisprudenza di legittimità

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Onere della prova

Orientamento più recente

L’onere della prova circa l’impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni analoghe a quelle svolte in precedenza è posto a carico della parte datoriale, con esclusione di ogni incombenza, anche solo in via mediata, a carico del lavoratore.

Giurisprudenza di legittimità

=> Principio di vicinanza della prova - mentre il lavoratore non ha accesso al quadro complessivo della situazione aziendale per verificare dove e come potrebbe essere riallocato, il datore di lavoro ne dispone agevolmente, sicché è anche più vicino alla concreta possibilità della relativa allegazione e prova (Cass. 5 gennaio 2017, n. 160; Cass. 12 gennaio 2017, n. 618; Cass. 22 novembre 2017, n. 27792).

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Onere della prova

«"l'art. 5 L. n. 604 del 1966 è assolutamente chiaro nel porre a carico del datore di lavoro "l'onere della prova della sussistenza... del giustificato motivo di licenziamento" […] ed in esso rientra il requisito dell'impossibilità di repêchage […].

Tali conclusioni sono conformi anche al principio di riferibilità o vicinanza della prova […]. È evidente, infatti, la maggiore vicinanza di allegazione e prova dell'impossibilità di repêchage al datore di lavoro, non disponendo il lavoratore, al contrario del primo, della completezza di informazione delle condizioni dell'impresa».

Giurisprudenza di merito

Trib. Milano, 26 giugno 2017

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Onere della prova

«Il principio affermato dalla Cassazione secondo cui grava comunque sul lavoratore un onere di allegazione e deduzione (ex multis Cass. 2.4.2004 n. 6556) non fa venir meno il fatto che, sia pur in difetto di allegazioni, l'onere della prova non debba comunque essere assolto dal datore di lavoro, anche se potrà essere adempiuto mediante il ricorso a risultanze probatorie che, in questo caso, a maggior ragione potranno essere anche soltanto di natura presuntiva ed indiziaria»;

«una cosa è l'onere della prova, altro e ben

differente è l'onere della allegazione, sicché porre a carico del lavoratore l'onere della allegazione non significa anche addossargli l'onere della prova che resta […] a carico del datore di lavoro»

Giurisprudenza di merito

Trib. Trento. 27 aprile 2018, n. 102

Il regime sanzionatorio

manifesta

insussistenza del giustificato motivo oggettivo

Riforma Fornero: apparato sanzionatorio licenziamento g.m.o.

Reintegrazione nel posto di lavoro e pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione ma che, in ogni caso, non potrà essere superiore a dodici mensilità (viene meno il limite minimo di cinque), deducendo sia il cd. aliunde perceptum che il cd. aliunde percipiendum

Pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva ricompresa tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità di retribuzione

in tutti gli altri casi in cui il giudice accerta che non ricorrono gli estremi del giustificato motivo oggettivo

violazione della procedura preventiva

Pagamento di un'indennità risarcitoria onnicomprensiva ricompresa tra un minimo di 6 e un massimo di 12 mensilità di retribuzione

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Il vaglio giudiziale

Nel licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il Giudice

«può» riconoscere la tutela reintegratoria cd. «attenuata»

solo dopo aver svolto un duplice vaglio:

deve verificare l’«insussistenza del fatto posto alla base del

licenziamento per giustificato motivo oggettivo»

deve accertare che tale insussistenza sia «manifesta»

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Il «fatto»

Primo orientamento - la nozione di «fatto» comprende unicamente la

riorganizzazione e la soppressione della posizione del lavoratore

licenziato: la violazione dell’obbligo di repêchage può

comportare il riconoscimento della sola tutela indennitaria

(Trib. Roma 26 maggio 2017, n. 5005; nello stesso senso, App. Catanzaro

30 giugno 2016, n. 1177; Trib. Torino 5 aprile 2016; Trib. Varese 4

settembre 2013; Trib. Milano 20 novembre 2012).

«Il fatto del quale valutare la sussistenza è soltanto il venir

meno della posizione lavorativa, mentre l’obbligo di

verificare se esiste o meno una possibilità di ricollocazione

rappresenta una mera conseguenza del fatto, alla quale,

tuttavia, il datore di lavoro è tenuto al fine di non incorrere nella

condanna sebbene, appunto, di natura esclusivamente

economica».

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…Il «fatto»

Secondo orientamento - rientrano nella nozione di «fatto» sia la

riorganizzazione e la soppressione della posizione del lavoratore

licenziato che l’assolvimento dell’obbligo di repêchage da parte del

datore di lavoro: la violazione dell’obbligo di repêchage, quando

sia manifesta, può comportare il riconoscimento della tutela

reintegratoria (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; App. Roma 1° febbraio

2018, n. 469).

«Posto che nella nozione di licenziamento per giustificato

motivo oggettivo rientra (…) sia l’esigenza della soppressione

del posto di lavoro sia l’impossibilità di ricollocare altrove il

lavoratore, il riferimento legislativo alla «manifesta

insussistenza del fatto posto a base del licenziamento»

va inteso con riferimento a tutti e due i presupposti di

legittimità della fattispecie».

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La “manifesta” insussistenza

Cass. 2 maggio 2018,

n. 10435

«evidente e facilmente verificabile assenza dei presupposti giustificativi del licenziamento che consenta di apprezzare la chiara pretestuosità del recesso»

Cass. 25 giugno 2018, n. 16702

«la "manifesta insussistenza« […] va riferita ad una chiara, evidente e facilmente verificabile (sul piano probatorio) assenza» dei presupposti di legittimità del recesso per giustificato motivo oggettivo (i.e. sia le ragioni inerenti all'attività produttiva, l'organizzazione del lavoro e il regolare funzionamento di essa, sia l'impossibilità di ricollocare altrove il lavoratore)

Giurisprudenza di legittimità

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La “manifesta” insussistenza

Trib. Reggio Emilia, 17

gennaio 2017

«Il contesto storico ed il tenore della riforma rendono palese l’intento del legislatore di ridurre le ipotesi di annullamento del licenziamento a casi estremi, nei quali, […] il datore di lavoro abbia «torto marcio»;

la carenza del motivo oggettivo è

manifesta «quando la sua infondatezza risulti totale: o perché nessuna delle componenti essenziali della fattispecie (difficoltà economica - riorganizzazione - soppressione del posto) venga provata o perché la ragione oggettiva addotta si riveli un pretesto che dissimula altro motivo».

Giurisprudenza di merito

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La “manifesta” insussistenza

Trib. Milano 26 maggio 2017,

n. 1494

«La manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo - di cui all’art. 18 st. lav. così come modificato dalla L. n. 92 del 2012 - emerge dal dato negativo della mancanza di prova del giustificato motivo oggettivo»

Giurisprudenza di merito

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La “manifesta” insussistenza

Corte d’Appello Roma, 1°

febbraio 2018

Giurisprudenza di merito

Non appare condivisibile l'orientamento secondo cui per "manifesta" si deve intendere evidente ovvero facilmente verificabile ovvero tale da denotare una notevole discrasia tra i fatti descritti nella comunicazione di licenziamento e quelli provati in giudizio […].

La manifesta insussistenza del fatto ricorre ogni qualvolta è riscontrabile la insussistenza delle circostanze materiali "inerenti all'attività produttiva, all'organizzazione del lavoro e al regolare funzionamento di essa" indicate dal datore di lavoro nella comunicazione del licenziamento quale motivo dello stesso.

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Il principio "può altresì applicare" (di cui al comma 7 del novellato - dalla L. n.

92 del 2012, art. 18) deve interpretarsi nel senso che a fronte della inesistenza

del fatto posto a base del licenziamento il giudice, tenuto conto degli

elementi del caso concreto (nella specie la giuridica assenza di un patto di prova

che non poteva essere stipulato in base al C.C.N.L., l'assenza di altre motivazioni

poste a base del recesso, nella specie esclusivamente basate sulla libera recedibilità

durante il periodo di prova), applica la reintegra, essendo evidente la differenza

rispetto al caso in cui sia emerso che il fatto posto a fondamento del licenziamento

esista ma non sia ritenuto concretare un g.m.o., con la conseguente tutela solo

indennitaria. La giuridica inesistenza del fatto obiettivo presupposto (a

base del licenziamento), valutate altresì le circostanze del caso

concreto, esclude che la scelta sia rimessa alla discrezionalità del

giudice (id est che a fronte della manifesta infondatezza del fatto il giudice decida

liberamente se applicare la reintegra o la tutela indennitaria), trattandosi di ipotesi

del tutto differenti (Cass. 14 luglio 2017, n. 17528).

Sanzione reintegratoria vs tutela indennitaria

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«una eventuale accertata eccessiva onerosità di ripristinare il

rapporto di lavoro», avuto riguardo alla nozione richiamata dagli

artt. 1384 e 2058 cod. civ., «può consentire, dunque, al giudice di

optare - nonostante l’accertata manifesta insussistenza di uno

dei due requisiti costitutivi del licenziamento», vale a dire

sussistenza del fatto costituente il giustificato motivo e assolvimento

dell’obbligo di repêchage, «per la tutela indennitaria» (Cass. 2

maggio 2018, n. 10435).

L’eccessiva onerosità

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«Poiché il giudice può attribuire la cd. tutela reintegratoria

attenuata, tra tutte le ipotesi in cui accerta che non ricorrono gli

estremi del giustificato motivo oggettivo, esclusivamente nel

caso in cui il fatto posto a base del licenziamento non

solo non sussista, ma anche a condizione che detta

insussistenza sia manifesta, non pare dubitabile che

l’intenzione del legislatore, pur tradottasi in un incerto testo

normativo, sia quella di riservare il ripristino del

rapporto di lavoro ad ipotesi residuali che fungono da

eccezione alla regola della tutela indennitaria in materia

di licenziamento individuale per motivi economici» (Cass., 23

gennaio 2018, n. 1633; Cass. 8 luglio 2016, n. 14021).

La residualità della tutela reintegratoria

Regime sanzionatorio Jobs Act

Regime sanzionatorio Legge n. 92/2012

• indennità risarcitoria non assoggettata a contribuzione pari a 2 mensilità dell’ultima retribuzione utile ai fini del calcolo del TFR per ogni anno di servizio, comunque non inferiore a 4 e non superiore a 24 mensilità.

Regime sanzionatorio Jobs Act

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NB: Decreto Dignità: indennità non inferiore a 6 e non superiore a 36 mensilità

Trib. Roma, ord. 26 luglio 2017

L’ordinanza rimette alla Corte Costituzionale la questione di legittimità delle norme che tutelano i lavoratori in caso di licenziamento soggetto alla disciplina dal Jobs Act, muovendo dall’impugnazione di un licenziamento per GMO intimato ad una lavoratrice assunta successivamente al 7 marzo 2015. La rimessione è motivata in ragione della «rilevanza della questione di costituzionalità dell’art. 1, comma 7, lettera c) L. n. 183/2014 e degli artt. 2 – 4 e 10 D.Lgs. n. 23/2015: l’innovazione normativa in parola priva infatti l’odierna ricorrente di gran parte delle tutele tuttora vigenti per coloro che sono stati assunti a tempo indeterminato prima del 7.3.2015. La normativa preclude qualsiasi discrezionalità valutativa del giudice […] imponendo al medesimo un automatismo in base al quale al lavoratore spetta, in caso di accertata illegittimità del recesso, la piccola somma risarcitoria prevista».

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Questions?