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Rassegna stampa I CONCERTI 2016 | 2017

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Rassegna stampaI CONCERTI 2016 | 2017

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Grazie al sostegno di:

BANCA DI BOLOGNA

BPER BANCA

CAMST

CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA

CENTRO AGRO ALIMENTARE DI BOLOGNA SCPA

COCCHI TECHNOLOGY

CONFCOMMERCIO ASCOM BOLOGNA

COOP ALLEANZA 3.0

FATRO

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO DI RAVENNA

FONDAZIONE CASSA DI RISPARMIO IN BOLOGNA

FONDAZIONE DEL MONTE DI BOLOGNA E RAVENNA

GRAFICHE ZANINI

GRUPPO GRANAROLO

GRUPPO HERA

MAURIZIO GUERMANDI E ASSOCIATI

MAX INFORMATION

M. CASALE BAUER

PELLICONI

PILOT

S.O.S. GRAPHICS

UNICREDIT SPA

UNINDUSTRIA

UNIPOL BANCA

UNIPOL GRUPPO FINANZIARIO

MINISTERO DEI BENI E DELLE ATTIVITÀ CULTURALI E DEL TURISMO

REGIONE EMILIA-ROMAGNA

COMUNE DI BOLOGNA

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I CONCERTI DI MUSICA INSIEME 2016/2017Auditorium mAnzoni - BolognA

LUNEDÌ 10 OTTOBRE 2016

AMSTERDAM SINFONIETTAALESSANDRO CARBONARE

clarinetto

CANDIDA THOMPSONmaestro concertatore

LUNEDÌ 24 OTTOBRE 2016

QUARTETTO DI CREMONAENRICO BRONZI

violoncello

RICCARDO DONATIcontrabbasso

GLORIA CAMPANERpianoforte

LUNEDÌ 7 NOVEMBRE 2016

EMERSON STRING QUARTET

LUNEDÌ 21 NOVEMBRE 2016

ST. PAUL CHAMBER ORCHESTRAPATRICIA KOPATCHINSKAJA

violino

LUNEDÌ 5 DICEMBRE 2016

FONTANAMIX ENSEMBLEVALENTINA COLADONATO

voce

FRANCESCO LA LICATAdirettore

LUNEDÌ 12 DICEMBRE 2016

CONCERTO KÖLNGIULIANO CARMIGNOLA

violino

LUNEDÌ 16 GENNAIO 2017

RADU LUPUpianoforte

LUNEDÌ 30 GENNAIO 2017

PIOTR ANDERSZEWSKIpianoforte

LUNEDÌ 6 FEBBRAIO 2017

MARIO BRUNELLOvioloncello e violoncello piccolo

LUNEDÌ 27 FEBBRAIO 2017

VADIM REPINviolino

ANDREÏ KOROBEINIKOVpianoforte

LUNEDÌ 6 MARZO 2017

MARIO BRUNELLOvioloncello e violoncello piccolo

LUNEDÌ 13 MARZO 2017

I SOLISTI DI MOSCAYURI BASHMET

viola e direttore

LUNEDÌ 3 APRILE 2017

YEFIM BRONFMANpianoforte

LUNEDÌ 10 APRILE 2017

KOLJA BLACHERviolino

CLEMENS HAGENvioloncello

AYDIN ÖZGÜRpianoforte

RAYMOND CURFSpercussioni

CLAUDIO ESTAYpercussioni

MARK HAELDERMANSpercussioni

MARTEDÌ 2 MAGGIO 2017

KELEMEN QUARTET

LUNEDÌ 15 MAGGIO 2017

GRIGORY SOKOLOVpianoforte

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L’Ape Musicale 12 ottobre 2016 Bologna, concerto Carbonare/Amsterdam Sinfonietta, 10/10/2016

Re clarinetto di Roberta Pedrotti

Un cambio in corsa e una sostituzione eccellente preludono all'avventurosa apertura della trentesima stagione di Musica Insieme. Il risultato è eccellente.

BOLOGNA, 10 ottobre 2016 - Una tappa della tournée italiana del clarinettista Martin Fröst con l’Amsterdam Sinfonietta avrebbe dovuto inaugurare la trentesima stagione di Musica Insieme, ma il destino ha fatto uno sgambetto e ha rischiato di rovinare la festa: a pochi giorni dal concerto Fröst si ammala e cancella tutte le date italiane. Nel giro di poche ore, però, ecco la rivincita che sbaraglia i piani del fato avverso: Alessandro Carbonare è disponibile a sostituire il collega e a rilevare senza alterazioni il ghiotto programma previsto, da Weber a Brahms, Bartók e la tradizione klezmer (quest’ultima nelle trascrizioni di Göran, il fratello di Martin Fröst). Senza rimpianti, difficilmente avremmo potuto immaginare un esito migliore per la serata, introdotta dal caloroso augurio di Sandro Cappelletto. A mo’ di ouverture, le due parti hanno inizio con i soli archi, dalla cavata ben più ampia di quanto ci si potrebbe aspettare da un complesso cameristico di una ventina di elementi, nell’Adagio dal Quintetto in fa maggiore WAB 112 di Bruckner, prima, e nella Suite JW 6/2 per archi di Janáček, poi. Il suono caldo e pulito si prepara ad abbracciare la voce solista, Carbonare fa il suo ingresso, attacca il Concerto n. 1 in fa minore-maggiore op.73 per clarinetto e archi di Carl Maria von Weber e subito crea un mondo, con quel timbro rotondo, dai riflessi amaranto, sinuoso e misterioso, denso di suggestioni romantiche pronte a sciogliersi, nel secondo movimento, nella più bella e morbida cantabilità, mentre il Rondò finale scintilla di un’elegantissima brillantezza belcantista. Sembra nato per il grande repertorio classico, Carbonare, la cui impeccabile quadratura accademica fa il paio con un respiro d’artista di classe sopraffina, con un fraseggio dei più intelligenti e rifiniti. La stessa acutissima musicalità fa sì che, di lì a poco, il nostro solista paia nato per tutt’altro repertorio, senza che si avverta un qualche scarto o una metamorfosi. L’Amsterdam Sinfonietta ci fa ascoltare quanto il ventitreenne Janáček sapesse respirare l’aria viennese lasciando vibrare sotto pelle le sue radici ceche e le sue intuizioni armoniche e metriche. Poi passa, sempre sola, alle danze popolari rumene di Béla Bartók, nelle quali irrompe a un tratto Carbonare, divertendosi con spericolatissimi arabeschi in cui il suono, improvvisamente, sa anche sporcarsi, s’immerge in una vitalità popolare, danza senza rete, amoreggia spudorato con le tradizioni klezmer e dell’Europa orientale. Si lancia con una cantabilità tutta nuova, ma non meno avvolgente e charmante, nell’eleganza lirica della Danza ungherese n. 14 di Brahms, per poi tornare a divertire e divertirsi nelle trascrizioni curate da Göran Fröst di brani di tradizione klezmer: il trionfo del clarinetto che scopre, grazie allo spirito della comunità ebraica dell’Est, una nuova identità, un universo timbrico, un’audacia sonora che incideranno profondamente e sul Jazz (che pure Carbonare pratica volentieri) e sulle varie avanguardie di XX e XXI secolo.

Il controllo di un ventaglio superbo di colori, dinamiche, curve, spigoli, affondi e ascese si traduce in un inebriante soffio vitale dalle pieghe ambigue, perturbanti e seducenti. Giocando, naturalmente,

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perché Carbonare suona talmente bene, è un musicista così fine da potersi permettere di far capire al pubblico quanto si diverta suonando, e di coinvolgerlo nel suo divertimento. L’elegantissimo complesso olandese (bello anche da vedere per lo stile negli abiti, tutti in nero, tre diversi modelli per le signore accomunati da discreti inserti dai luccichii rosseggianti) è una spalla perfetta, garbatamente complice, sorridente con discrezione.

Un bis per uno, equamente, con Carbonare a dipanare con ammiccante nonchalance il triplo salto mortale di Clarinettologia di Gaspare Tiricanti (scomparso tragicamente appena due anni fa) e l’Amsterdam Sinfonietta che risponde spavalda reinventando con arguzia la colonna sonora di Pulp Fiction. Forse il pubblico delle grandi occasione è un tantino compassato, ma dimostra comunque il suo franco gradimento e l'empatica con gli artisti.Si torna a casa felici nell'aria frizzantina dell'autunno bolognese.

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Bologna, concerto Quartetto di Cremona, 24/10/2016 L’ Ape Musicale 28 Ottobre 2016

La Morte danza in punta d’archetto di Roberta Pedrotti Il Quartetto di Cremona con la partecipazione di Enrico Bronzi, Riccardo Donati e Gloria Campaner propone un ardito e intrigante programma schubertiano per la stagione di Musica Insieme.

BOLOGNA, 24 ottobre 2016 - Si sono chetate solo da poche ore le note di Bologna Modern, ed eccoci subito immersi nel primo Ottocento. Un salto non troppo ardito, perché se non v’è ragione di temere il Novecento e il Duemila, non ne abbiamo nemmeno per considerare Schubert molto più lontano da noi, soprattutto se guardiamo oltre alla superficie, in quel suo intrico inestricabile di sottintesi fra dolcezze, dolori, desideri e morte. Un intreccio che si estende anche al di là del microcosmo di un singolo brano, laddove il tema di un Lied trapassa in un movimento di un qualche lavoro strumentale non come puro materiale melodico, ma come portatore di un significato che può essere ancora declinato, interpretato, connesso ed esplorato lontano dal testo verbale attorno al quale era nato. Il Quartetto D 810 La morte e la fanciulla e il Quintetto D 667 La trota sembrano lo scandaglio del non detto e del sommerso nel canto della gioventù che prima teme poi si abbandona alla morte in una danza cullante, dell’innocenza del limpido ruscello intorbidito dall’inganno mortale del pescatore. In un concerto di proporzioni decisamente audaci (oltre due ore di musica) il Quartetto di Cremona iscrive la riflessione schubertiana sulla morte fra questi due estremi, e lo fa con quella levigatezza di suono simile a un marmo canoviano, di abbacinante candore, classica compostezza che, senza esibire passioni romantiche o veriste, senza esporre sangue e carne viva, lascia percepire attraverso altri sensi l’esperienza tattile del pulsare delle vene sotto la pelle sottile, delle sete morbide e leggere, degli sguardi umidi e assorti. L’affiatamento dei musicisti del Quartetto di Cremona li fanno intendere come un’unica, elegantissima voce poetica affine al vibrante classicismo foscoliano, a quello doloroso e vago di Leopardi, in un linguaggio più sinteticamente lirico che analitico e sbalzato fra contrasti. Con un pizzico di spirito viennese, naturalmente. La bella eloquenza di questa koiné musicale condivisa non è turbata dall’inserimento del contrabbassista Riccardo Donati per La trota e del violoncellista Enrico Bronzi per il Quintetto in Do Maggiore D 956, scritto nelle ultime settimane di vita di Schubert e sul quale, dunque, la Morte non può non continuare ad aleggiare, e a danzare ambigua. Il volo del Quintetto, il suo carattere quasi di testamento, si esplicita anche nella singolare ampiezza delle proporzioni: cinquanta minuti, quasi fosse una Sinfonia di Mahler concepita, però, nell’intimità cameristica. Se Cristiano Gualco e Paolo Andreoli violini, Simone Gramaglia viola, e Giovanni Scaglione violoncello suonano assieme come un’unità artistica indissolubile, perfettamente rodata nell’amalgama di personalità, il Quartetto è tanto affiatato e maturo da accogliere in sé altri due archetti senza che si avverta la benché minima increspatura nella superficie, solo una venatura nuova nel timbro, arricchito e ribilanciato in diversi equilibri. Nondimeno Gloria Campaner non trova difficoltà nell’integrare con discrezione e precisione il suo pianoforte nel Quintetto La trota, la chiusura in bellezza della serata e dello straordinario tour de force degli interpreti (in particolare Gualco, Gramaglia e Scaglione, impegnati praticamente senza soluzione di continuità). Dopo ogni brano gli applausi scrosciano con una compattezza fluviale, rara anche a prescindere dalla grande affluenza di pubblico in tutti gli ordini di posti. Già solo l’occasione di ascoltare uno dopo l’altro questi nodi fondamentali dell’autobiografia musicale di Schubert valeva la serata; la qualità del Quartetto di Cremona e del loro lavoro di concerto con gli ospiti no ha lasciato spazio per delusione.

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L’ Ape Musicale 13 Novembre 2016

Bologna, concerto Quartetto Emerson, 07/11/2016

Nel cerchio di Beethoven di Roberta Pedrotti

Il Quartetto Emerson rende omaggio a Beethoven per la stagione concertistica di Musica Insieme e offre un saggio eloquente della sua arte nel fraseggio e nella dinamica, con chiarezza di lettura e sonorità morbide e ammalianti.

BOLOGNA, 7 novembre 2016 - Suonano vicini vicini, raccolti, quasi stretti attorno al piccolo podio del violoncello, che, seduto, si trova praticamente al livello dei colleghi sempre in piedi; gomito a gomito, sguardo a sguardo. Quattro signori dall’aria affabile, tre statunitensi (i violinisti Philip Setzer e Eugene Drucker, il violista Lawrence Dutton) e un gallese (il violoncellista Paul Watkins, subentrato nel 2013 a David Finckel), offrono al primo colpo d’occhio la cifra musicale della serata, quella di un’amabile complicità, di un modo di porgere e di porgersi cordiale, distinto e caloroso allo stesso tempo. Non si tratta, insomma, di passioni e teatralità mediterranee, né di una esatte trasparenze nordiche, ma di saper porgere la complessità con la semplicità accattivante del miele lucreziano. Ci sentiamo vicini a loro, accolti in un circolo ristretto, coccolati da quel bel suono di legno morbido, affettuosamente vissuto, impregnato d'aromi e tepore nella sua naturale porosità. Intanto, però, parte dal “non suono” di un primo violino (Setzer, mentre nella seconda parte sarà Drucker) che sembra quasi vibrare una corda fantasma prima di incontrare i suoi compagni e dar vita ai versi di Boito “allor la nota che non è più sola | vibra di gioia in un accordo arcano | con altra voce al suo fonte rivola || Quivi ripiglia suon, ma la sua cura | tende sempre ad unir chi lo disuna”. Da lì si dipana un programma beethoveniano non certo di tutto riposo, con il Quartetto in do diesis minore op. 131 e, soprattutto il Quartetto in si bemolle maggiore op. 130 coronato dalla Gran fuga in si bemolle maggiore op. 133, in origine ultimo movimento del Quartetto poi tramutato in brano autonomo e sostituito in quella sede da una più contenuta e rassicurante conclusione. Musica di estrema, ardita complessità, ma le cui architetture interne, grazie anche al miele di Lucrezio, emergono come elementi fondamentali del sublime, della meraviglia artistica, non come ostiche speculazioni intellettuali: questo, perlomeno, si rispecchia fedelmente nell’attenzione e nell’entusiasmo di una folta presenza di giovani e giovanissimi incantati da questi quattro signori anglosassoni, variamente brizzolati, dall’aria, sì, simpatica, ma senza nessun fronzolo ammiccante per il grande pubblico. Non offrono, in definitiva, che la loro musica, ed è questa la carta vincente: il piacere concreto, vissuto, amichevole, di far musica insieme. Allora, più che il dato tecnico nella tornitura di questo o quel suono, di questo o quel passaggio, sale alla ribalta la fine franchezza del fraseggio e la scioltezza nel dipanare le esatte e minuziose indicazioni agogiche di Beethoven. Già nel Quartetto op. 131 si alternano, in sette movimenti, Adagio ma non troppo e molto espressivo, Allegro molto vivace, Allegro moderato, Andante ma non troppo e molto cantabile, Più mosso, Andante moderato e lusinghiero, Adagio, Adagio, ma non troppo e semplice, Allegretto, Presto, Adagio quasi un poco andante e Allegro.

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Ogni sfumatura agogica e dinamica trova la sua precisa e naturalissima espressione in un fraseggio che si sviluppa soprattutto nell’eloquenza della metrica. Poi viene il 130, con la malìa della Cavatina e con la Gran Fuga, immensa nell’immenso fascino di un discorso che si rinnova in un continuo ciclo di inseguimenti, asperità, concordanze, in una lucida lettura che dà luogo a confidenza e scioltezza d'esposizione.

Poteva finire così la serata, ben introdotta dalle parole di Fulvia de Colle, e saremmo stati contenti, ma gli affabili archetti dell’Emerson chiudono in dolcezza e propongono – annunciandolo in italiano e con chiarezza, cortesia dimenticata da troppi altri concertisti – il terzo movimento, Lento assai, cantante e tranquillo, dal Quartetto n. 16 in fa maggiore, op. 135. Poetica morbidezza e applausi ancor più calorosi.

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L’Ape Musicale 24 Novembre 2016

Bologna, concerto Kopatchinskaja/St. Paul Chamber Orchestra, 21/11/2016

photo credit: Eric Melzer

Suonare in faccia alla Morte di Roberta Pedrotti

Al fianco dell'ottima St. Paul Chamber Orchestra, Patricia Kopatchinskaja propone un programma elaborato intorno al quartetto schubertiano La morte e la fanciulla. Più che i giochi di luce e intrecci musicali ideati dalla mercuriale violinista moldava, colpisce la prima parte dedicata a rarità di Gideon Klein (1919-1945) e Felix Mendelssohn.

BOLOGNA, 21 novembre 2016 - Leggendo il programma quel che cattura subito la curiosità è la bizzarra composizione della seconda parte del concerto, che smembra il quartetto di Schubert La morte e la fanciulla intercalandolo con libere associazioni dai canti sacri bizantini fino a Kurtág. Quel che conquista nel concreto dell’ascolto, però, è la prima parte, che echeggia, in fondo, non troppo da lontano la languida danza con la Morte cara al romanticismo schubertiano. Ad aprire la serata è, infatti, la Partita per archi di Gideon Klein, nato nel 1919 e internato prima a Terezienstadt, dove fu attivo come compositore insieme con Haas, Krása e Ullman, quindi trasferito nel 1944 ad Aushwitz, dove morì alla vigilia della Liberazione forse di stenti e malattie, forse nelle esecuzioni sommarie degli ultimi giorni. Proprio ai durissimi mesi nel campo di sterminio polacco risale questa Partita (in origine per trio d’archi e poi trascritta per un ensemble più vasto da Vojtěch Saudek) e, ascoltandola, si sente penetrare nelal pelle un vivo disagio, inesorabile: quella è la musica con cui un uomo di nome Gideon si aggrappava alla vita, continuava ad affermare di essere un uomo nonostante tutto intorno a lui volesse affermare il contrario. E non è una musica dura, disperata, è piena di energia, ha in sé una pulsazione orgogliosa, quasi insolente, un’autoaffermazione potente ma non autoritaria, perché rivendica proprio il sentimento, la gioia di vivere, il movimento, il senso. Si tratta di pezzi affatto differenti, ma l’ironia con cui Mahler tratta la marcia funebre del Titano o i versi carnali con cui, nella Quarta sinfonia, fa cantare un paradiso fatto di profumatissime leccornie contadine si avvicina allo spirito perturbante di questo pezzo, che riesce a essere bello, interessante, ben costruito anche senza valutare un contesto nel quale era un'impresa procurarsi anche solo il materiale per scrivere. Là dove mancano i minimi presupposti di dignità e sopravvivenza l’uomo riesce a resistere in quanto artista, e crea. L’angoscia non abbandona al pensiero che, fosse nato giusto un secolo dopo, anche Felix Mendelssohn avrebbe subito sorte analoga: se anche un’intera sinfonia proclama la sua adesione al cristianesimo riformato, le origini etniche e culturali non son cosa che l’antisemita subordina a un battesimo. Nato in una famiglia di intellettuali più sensibili alla comodità burocratica del luteranesimo che a sentiti atti di fede, Felix a soli tredici anni compose un concerto in re maggiore per violino e archi che rimase nel cassetto fino alla riscoperta nel 1952 da parte di Yehudi Menuhin. Nella vena felice del ragazzino si intende già tutta la chiarezza d’idee e costruzioni, tutto l’equilibrio e tutta la sensibilità delle opere maggiori. In più, nelle proporzioni inevitabilmente più limitate – il concerto nasce a uso domestico – si fa spazio con una freschezza particolare anche un aroma di danza popolare che pare guardare a Est, alle tradizioni tzigane. Questa vivacità di spirito offre alla violinista Patricia Kopatchinskaja di offrire il meglio di sé, con la sua personalità mercuriale, fuori dagli schemi e forse anche un po’ sopra le righe. Il suo suono sottile e nervoso non sempre perfettamente a fuoco nel grande concertismo classico guizza qui assecondando il carattere speziato di questo piccolo, grazioso lavoro adolescenziale, e non dispiace affatto. Tanto più che la Kopatchinskaja ha l’intelligenza e l’intuito per coinvolgere nel suo progetto e nella sua tournée l’eccellente St. Paul Chamber Orchestra: non sempre le

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orchestre cameristiche si dimostrano pienamente all’altezza della propria fama, tanto è delicato il loro ambito, ma in questo caso l’ottimo livello tecnico di ogni elemento fa il paio con una coesione capace di fraseggiare con autentico mordente, restituendo una precisa cifra stilistica e interpretativa a Klein come a Mendelssohn. La qualità esecutiva non scende nella seconda parte, in cui fra le pieghe dello Schubert della Morte e la fanciulla (sia il Quartetto sia il Lied nella trascrizione di Michi Wiancko) si insinuano un canto bizantino sul Salmo 140 arrangiato dalla Kopatchinskaja, Lachrimae Antiquae Novae di John Dowland, di Kurtag Ligatura – Message to Frances-Marie (The Answered Unanswered Question) e, dai Kafka Fragmente, Rhuhelos. La St. Paul Chamber Orchestra ribadisce una duttilità, una compattezza e una sensibilità tecnico-stilistica di primissimo ordine, mentre la Kopatchinskaja, benché il suo violino non s’imponga sempre per incisività e pregnanza sonora, ha buon gioco nel farsi valere con un programma che ha studiato nei dettagli, perfino nei giochi di luce. Celebre per l’abitudine di suonare scalza, non teme di sentirsi libera sul palco, canticchia fra sé e sé, si aggira sul palco, saltella, volge le spalle al pubblico, come un folletto impertinente e vivace sospeso fra ingenuità e astuta consapevolezza. Declama, quasi sibila, perfino, il testo del Lied trasformandone la trascrizione strumentale in una sorta di melologo. Il problema è che tanto spirito non riesce tuttavia a persuaderci del tutto della necessità illuminante di questi accostamenti, che, intercalando i movimenti del Quartetto, non fanno che diluirlo. Resta un capolavoro, anche suonato da una ventina di persone, anche ascoltato a rate, così come restano belli, suggestivi e ben suonati gli innesti, per quanto al di là di una speculazione laterale sul tema della morte, del compianto e della trascendenza in musica dalla tarda antichità ai giorni nostri, labili risultino i punti di coesione e corrispondenza che possano infondere reale sostanza al discorso. Un esperimento ardito che, alla fine, convince solo parzialmente. Non è un caso che gli applausi maggiori siano al termine della prima parte e l’impressione maggiore resti quella destata dall’accostamento fra Klein e Mendelssohn.

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L’Ape Musicale 11 Dicembre 2016

Bologna, Lezioni americane, 05/12/2016

Sesto, la Coerenza di Roberta Pedrotti Assai ben realizzato, nel cartellone di Musica Insieme, il progetto dell'ensemble Fontanamix dedicato a Calvino, Eco e Berio.

BOLOGNA, 5 dicembre 2016 - Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. E, naturalmente, i relativi opposti. I cinque bersagli (più un sesto, la Coerenza, solo progettato) verso cui Italo Calvino indirizzò le sue riflessioni estetiche per il ciclo di lectiones magistrales che avrebbe dovuto tenere ad Harvard nell’autunno del 1985 se la morte non l’avesse colto nel settembre dello stesso anno. Leggerezza, Rapidità, Esattezza, Visibilità, Molteplicità. Cinque modi per vedere il mondo, e l’arte, nei quali e intorno ai quali Calvino ha enucleato una galassia estetica e concettuale dalla quale non possiamo più prescindere. All’interno di essa mosse riflessioni Umberto Eco e Luciano Berio articolò aspetti del suo pensiero musicale. E qui propone il suo viaggio l’ensemble Fontanamix, scegliendo come emblema la metafora ricorrente del bosco per un intreccio di note e parole, a cavallo dei secoli, guidate dalle parole ben selezionate dei tre mentori. Il concerto-spettacolo si dipana senza soluzione di continuità, scandito solo dalle cinque stazioni calviniane. Sullo sfondo i video realizzati da Stefano Croci [Caucaso], presenza non prevaricante, ma in giusto equilibrio fra evocazione e didascalia; le parole di Calvino, Eco e Berio hanno la voce di Giovanni Chessa e da esse sembra scaturire la musica, leggera, rapida, esatta, visibile e molteplice, di Madena e Gibbons, di Schubert e Berio, Chopin e Ligeti, Bach e Boulez… via via fra Ravel, Stravinskij, Mahler fino a un epilogo che accosta i Madrigali guerrieri et amorosi di Monteverdi al celeberrimo 4’33'’ di John Cage. Celeberrimo? Può darsi, anche se non è proprio frequente trovarlo nei programmi dei concerti, com’è ben prevedibile per un pezzo che si basa essenzialmente sull’effetto sorpresa. Non potremo sapere se la maggior parte del pubblico avesse effettiva contezza del fatto che, in questo pezzo, gli esecutori devono tacere per il tempo esatto prescritto dall’autore, tuttavia dovremo riscontrare come, un po’ per consapevolezza un po’ per educazione, il brusio fosse ridotto al minimo. Paradossalmente, durante una sinfonia o una sonata, in un pianissimo o un cantabile, è più frequente esser disturbati da scartocciare di caramelle (pare che l’esistenza di confezioni prive d’incartamento singolo in croccanti rettagolini plastificati sia del tutto ignota a molti frequentatori di teatri e auditorium), suonerie varie di cellulari e altri apparecchi, borbottii di sorta. Chissà cosa avrebbe pensato Cage dell’accoglienza attuale, rispettosissima, di questo suo all’epoca provocatorio elogio del silenzio in musica e del “rumore di fondo”. Certo, la sospensione di 4’33’’ è la miglior conclusione per questo viaggio, un istante di musica muta in cui si possono condensare le sollecitazioni dell’ora precedente. Un’ora nella quale, soprattutto, hanno colpito le fusioni fra antico e moderno, fra i classici del XIX secolo e le voci del XX. O’King di Berio s’insinua nel lamento di Gretchen am Spinrade con un’esattezza sorprendente, sottolineando l’incedere rapido dell’implacabile ruota d’arcolaio con lo schioccare delle sue sferzate ritmiche, come singhiozzi, finché il canto di Margherita non si trasforma in altro, con la radicale naturalezza delle carni di Dafne mutata in alloro nel marmo del Bernini. Nondimeno il pulviscolare e frenetico Finale:presto dalla seconda Sonata per pianoforte di Chopin si fonde in innata affinità con la Serenata per un satellite di Maderna, pianoforte ottocentesco da una parte ed ensemble novecentesco dall’altra accostati e uniti indissolubilmente. Dalla Valse di Ravel si scivola nel Tango di Ravel – due balli differentemente

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peccaminosi, differentemente popolari nelle origini e raffinati nell’evoluzione – prima di una nuova callida iunctura, ancora Berio (Winds of May) questa volta sposato al Mahler di Des Antonius von Padua Fischpredigt. Sembrano fatti l’uno per l’altro, a scambiarsi ironie, sinuosità e spigoli, ritmi e timbri. Se Calvino non riuscì a scrivere il suo saggio sulla Coerenza e la sesta lezione manca ufficialmente dal programma, la si ritrova sullo sfondo, nella capacità di non forzare la natura dei brani pur offrendone una particolare chiave di lettura, nella convinzione con cui tutti gli artefici concorrono alla realizzazione della serata, nella cura amorosa del dettaglio e nella qualità tecnica sia della prova vocale e strumentale, sia della regia sonora (Nicola Evangelisti), dell’interazione con gli interventi preregistrati e della gestione degli effetti. Doveroso citare la duttilità della voce di Valentina Coladonato, la chiarezza musicale e la passione contagiosa del suo approccio a questo repertorio, così come l’impeccabile direzione di Francesco La Licata, guida nettissima anche negli intrecci più complessi, e, nondimeno, Lavinia Gullari (flauto), Marco Ignoti (clarinetto), Simone Cinque (corno), Alice Caradente (arpa), Irene Puccia e Franco Venturini (pianoforte e tastiera), Claudio Jacomucci (accordeon), Valentino Corvino e Giacomo Scarponi (violini), Corrado carnevali (viola), Sebastiano Severi (violoncello), Emiliano Amadori (contrabbasso), Paolo Aralla (curatore del progetto sonoro insieme con La Licata ed Evangelisti). Bis travolgente all’insegna di Ligeti a liberare ancora una volta l'energia che Fontanamix ha infuso in queste Lezioni Americane. Energie ben indirizzate, con Coerenza, Leggerezza di spirito, Rapidità di ritmo teatrale, Esattezza musicale, Visibilità nelle immagini e nel suono e Molteplicità di stili e suggestioni.

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L’Ape Musicale 14 Dicembre 2016

Bologna, Concerto Carmignola/Concerto Köln, 12/12/2016

foto Florian Profitlich

Bach democratico di Roberta Pedrotti Nonostante la classe, non spicca in modo particolare l'interpretazione di Giuliano Carmignola, solista d'eccezione nel concerto natalizio di Musica Insieme; poco male perché, se sono smussati i rapporti di forza fra singolo e assieme, l'effetto è perfettamente in linea con l'eleganza e l'equilibrio che caratterizzano il Concerto Köln.

BOLOGNA, 12 dicembre 2016 - Anche quest’anno Musica Insieme augura buone feste al suo pubblico su note barocche, in questo caso tutte circoscritte ai primi anni ‘20 del Settecento a esclusione del Concerto XI in sol maggiore di Charles Avison (1709-1770), autore già in odor di galanteria ma comunque dichiaratamente ispirato alle sonate per cembalo di Domenico Scarlatti, e dunque alla stessa generazione di Bach e Benedetto Marcello (nonché di Pietro Antonio Locatelli, seppur di questi più giovane d’una decina d’anni). Un programma bel equilibrato fotografa in una relativa sincronia forme di concerto grosso, concerto solistico (o a due) e ouverture all’italiana in tre movimenti, quest’ultima rappresentata dalla sinfonia per l’oratorio Gioàs di Marcello, capace di riservare qualche sorpresa nelle intriganti soluzioni timbriche e tecniche del terzo tempo. Non mancano di stimolare l’attenzione anche il concerto grosso di Locatelli e la rielaborazione, da parte di Avison, per archi della tastiera scarlattiana, tuttavia il sovrano incontrastato della serata è, inesorabilmente, Johann Sebastian Bach. I concerti per violino archi e continuo BWV 1041 e 1042, ma soprattutto il 1043 che di violini solisti ne prevede due, sono fra quelle pagine per cui ogni parola d’esegesi pare superflua e impari: si ascoltino, si godano. Cos’altro se non ammirata deferenza può ispirare l’eloquio poetico del raffinatissimo intrecciarsi dei seguaci, mutevoli per ruolo e numero, ora dell’uno ora dell’altro solista nel concerto BWV 1043? Non più la contrapposizione fra il gruppo ristretto del concertino e la collettività dell’orchestra al completo, né la contrazione in cui ai tutti risponde un singolo virtuoso, o l’equilibrio della triosonata, con due solisti e il basso continuo: in questo concerto gli archi e il continuo sviluppano un discorso articolato di rapporti cangianti ma, parimenti, governati con sovrano equilibrio contrappuntistico e formale. Il Concerto Köln si destreggia con forbita eleganza, suono chiaro, equilibrato, musicalità misuratissima. La fama dell’illustre complesso, protagonista di tante prestigiose incisioni anche operistiche, non è smentita in quest’occasione, che permette di apprezzarne dal vivo il gusto e il rigore discreto. Questo senso di fine temperanza non si stempera quando dall’ensemble cominciano a emergere i solisti e, per quanto il primo impatto con lo Stradivari dell’ospite d’onore Giuliano Carmignola ricordi il blasone dello strumento, in breve anche il manufatto cremonese cede cortese la luce della ribalta. Fuor di metafora, Carmignola non s’impone mai per carisma e mordente, giocando piuttosto con classe consumata la carta dell’armonia paritaria con il Concerto Köln, anche

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a costo di offuscare un po’ lo smalto che ci si aspetterebbe da un solista, specie del suo calibro. Pare, insomma, che l’intento sia proprio quello di leggere i concerti solistici in maniera decisamente democratica, senza distinguere marcatamente i soli, ma amalgamandoli all’insieme di cui si fanno, occasionalmente, portavoce e punto di riferimento, prime parti più che ospiti. Carmignola possiede l’allure dell’esperienza, della statura e della figura signorile, ma non sovrasta la concentrazione e il fare fresco e accattivante della sua allieva e konzertmeister dell’orchestra Mayumi Hirasaki. In nessun caso, comunque, l’uno o l’altra spiccano in maniera eclatante: sono i capofila d’un saggio consesso musicale. Il concerto risulta, così, piacevole, mette al centro dell’attenzione il valore intrinseco delle partiture, più nel ponderato equilibrio che nell’estro e nell’impronta indimenticabile dell’artista, più nella misura che nella brillantezza, più nell’omogeneità che nei contrasti. Più illuminismo che barocco.

Successo e due bis bachiani, l’Allegro dal concerto BWV 1043 e l’Adagio dal Concerto per cembalo in sol minore: bis collettivi, pur con uno o due strumenti-cardine, e non poteva essere altrimenti.

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Il Corriere Musicale 22 dicembre 2016

Concerto Köln a Bologna per Musica Insieme Di Francesco Lora La raffinata rassegna cameristica ha ospitato la forbita orchestra coloniense, in rara apparizione italiana. Accanto al violino solista di Giuliano Carmignola si è distinta la Konzertmeisterin Mayumi Hirasaki

Non capita spesso d’ascoltare in Italia l’orchestra con strumenti originali Concerto Köln; tra quelle tedesche è forse essa la più nobile, forbita e adamantina, nonché la più immediatamente riconoscibile al gesto e alla fonetica: vibrato quasi del tutto bandito, arcate nette e lunghe, sonorità affilata e ronzante, timbro di bagliore algido e argenteo. Per chi ammiri la sua ricca discografia senza poter poi presenziare a tournée lontane, una rara occasione d’incontro è avvenuta il 12 dicembre all’Auditorium Manzoni di Bologna, nell’àmbito della sempre raffinata rassegna cameristica di Musica Insieme: un’istituzione che sta attualmente festeggiando i suoi primi trent’anni d’attività, e che esibisce dunque con orgoglio il lusso delle proprie amicizie e alleanze artistiche. Anche l’ensemble strumentale coloniense ha recato con sé un compagno, il violinista Giuliano Carmignola, e ha incentrato così il programma presentato sulla letteratura solistica per il più acuto nella famiglia degli archi. Il virtuoso italiano esce sbrigativo in palcoscenico per suonare i Concerti in La minore, in Mi maggiore e in Re maggiore BWV 1041-43 di Johann Sebastian Bach (1718-23): con un ragionevole ma disinibito ricorso al vibrato si distacca dallo sfondo dell’orchestra che lo accompagna, e così pure per un suono più sordo, virile e ombroso, che pare sentenziare con tono perentorio anziché cantare in grazioso registro di soprano. Un vivace contrasto s’inserisce in tal modo nel terzo dei concerti bachiani, dove la parte del secondo violino solo è tenuta dalla Konzertmeisterin Mayumi Hirasaki, taciuta in locandina per inspiegabile eccesso di modestia: si tratta di una violinista che, con indirizzo poetico complementare a quello di Carmignola, e in barba al fatto di essere stata di lui allieva, rincorre e consegue il suono brillante, la frase arguta, l’ornamentazione rapinosa, il maniacale puntiglio tecnico di una giapponese naturalizzata tedesca. Addolcendo la bocca a chi s’aspettava d’ascoltare Carmignola come unico mattatore dell’esecuzione – così il manifesto sembrava promettere – è ella a tenere le redini di quanto resta nel programma: il Concerto grosso in Sol minore op. 1 n. 12 di Pietro Antonio Locatelli (1721), il Concerto XI in Sol maggiore di Charles Avison (uno dei dodici ispirati a sonate per clavicembalo di Domenico Scarlatti, 1744) e la Sinfonia in Re maggiore dall’oratorio Gioas di Benedetto Marcello (1726): la presentazione della serata musicale, nella brochure, indicava il brano come «omaggio al 350° anniversario dell’Accademia Filarmonica di Bologna» cui l’autore «fu aggregato … nel 1712»: ma allora perché non chiedere e ottenere dal Concerto Köln un brano di Giuseppe Torelli, o di un qualsiasi altro compositore che, a differenza del collega veneziano, abbia contribuito non solo per onorifico accidente alla storia di quel consesso?

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L’Ape Musicale 19 Gennaio 2017

foto Roberto Serra

Bologna, concerto Lupu, 16/01/2017

L'infinita sottigliezza del peso di Roberta Pedrotti Per la stagione di Musica Insieme torna all'Auditorium Manzoni di Bologna con un recital il pianista Radu Lupu.

BOLOGNA, 16 gennaio 2017 - Radu Lupu poggia le dita sulla tastiera e il peso della nota si fa tangibile, come il suo attraversare la meccanica del pianoforte fino a vibrare nell’elasticità della corda. Peso ed elasticità: ecco la sostanza di cui è fatto il suono, nella sua singolarità e nella sua concatenzazione progressiva in forme più ampie e complesse. Radu Lupu soppesa l’energia e le note rimbalzano in un moto controllato attraverso gravità, flessibilità, altezza e durata. Così il fraseggio si gioca in un moto tridimensionale, privo di reale massa ma in un’idea di massa delineata attraverso un calibro sottile che richiede una cura meticolosa del tocco, una consapevolezza e una chiarezza estrema di visione. Magari, con il passare del tempo, in uno spazio più circoscritto proprio perché sempre intelligentemente misurato. Dopotutto la fisicità del suono non deve essere necessariamente pingue e nerboruta, può anche essere infinitesimale, matematica, e matematicamente poetica, artistica geometria. Così l’illuminismo dell’Andante con due variazioni e coda in fa maggiore-minore di Haydn guarda avanti, come possibile espressione musicale di una relatività di spazio e tempo conoscibile e misurabile. Parimenti la Fantasia in do maggiore di Schumann trova un suo personalissimo ordine poetico nell’originalità di una visione del suono dall’interno, chiarissima ancora una volta nel calibro di tutte le variabili, compreso il passar degli anni nel fisico del pianista. La seconda parte, tutta dedicata a Čajkovskij, ci dimostra cosa sia in grado di fare un vero artista con pezzi apparentemente caratteristici come i dodici quadretti mensili delle Stagioni, che scorrono l’uno nell’altro senza alcuna voluttà o qualsivoglia compiacimento folklorico o descrittivo. Basti ascoltare la Barcarola di giugno per aver chiaro come il tema celeberrimo condiviso con la scena della lettera di Tat’jana nell’Onegin possa rapprendersi in un’intensità mille miglia lontana dal salotto dolciastro in cui rischia talora d’esser confinato il compositore russo. Gli stessi passaggi quasi onomatopeici evocanti corni da caccia o campanelle di slitta sono vissuti come evocazioni poetiche, giammai come rassicuranti illustrazioni da contemplare fra le “buone cose di pessimo gusto”. L’angolazione sempre un po’ obliqua con cui Radu Lupu studia lo scoccare del tocco e del peso fino all’oscillazione della corda ribadisce la peculiarità di un fraseggio unico, dalle geometrie singolari, ma mai bizzarro e fine a se stesso, sempre governato da una visione d’insieme ben ponderata ed equilibrata. Così è anche nel bis schubertiano, che ci ricorda per l’ultima volta come la scienza del peso sia anche arte della leggerezza e della chiarezza.

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L’Ape Musicale 07 Febbraio 2017

Brunello, o della chiarezza di Roberta Pedrotti Primo appuntamento del ciclo bachiano di Mario Brunello per Musica Insieme. Un esempio perfetto di chiarezza di intenti e scelte esplicitato in parole e in musica.

BOLOGNA, 06 febbraio 2017 - L’arte d’introdurre un concerto è quantomai delicata. Una volta stabilito – cosa di per sé non scontata – di far precedere le parole alla musica, conviene che queste siano né troppe né troppo poche, capaci di non stuccare il competente e di non porre enigmi all’ignaro, in un tono che non sia eccessivamente dottorale né familiare oltre misura. Ancor più insidioso risulta sovente l’affidare le presentazioni agli interpreti stessi, non sempre oratori eloquenti quanto possono esserlo nella loro arte. Mario Brunello è un’eccezione, e non perché sia affabulatore particolarmente facondo, al contrario sembra tradire una certa timidezza ma forse anche proprio per questo quando comunica lo fa con forza e affabilità, accattivandosi attenzione e simpatie del pubblico. La sua, si badi bene, non è una semplice lezioncina su Bach e i suoi lavori per strumento ad arco, né tantomeno la relazione autoreferenziale delle proprie scelte: fornisce invece, semplicemente, la precisa chiarificazione di queste scelte per quel che concerne gli strumenti utilizzati e una trasposizione di tonalità. Le parole, dunque, sono compagne opportune della musica offrendo la bussola della chiarezza fra le opzioni filologiche e le libertà personali dell’interprete: nello specifico, l’esecuzione al violoncello piccolo di una sonata e una partita per violino (BWV 1001 e BWV 1004) alternate a due suite per violoncello (BWV 1007 e BWV 1010), la seconda delle quali trasposta dal Mi bemolle maggiore originale al Sol maggiore.

La chiarezza è la miglior legittimazione della libertà dell’interprete; Brunello ammette francamente il suo amore per questa musica, quasi una stella polare artistica, e immagina che anche i suoi colleghi dei tempi di Bach potessero confrontarsi e scambiarsi partiture cimentandosi in pezzi nati per strumenti differenti. La chiarezza degli intenti va di pari passo con la chiarezza dell’esecuzione, che dà forza e sostanza a un percorso ben intellegibile.

Il fraseggio è tanto limpido ed eloquente nello stile, nell’articolazione melodica e polifonica, nello spirito e nel rigore da fugare ogni dubbio sull’opportunità di questa trasposizione: nessuno vuol defraudare il violino del suo patrimonio, ma ben venga l’occasione per un artista di valore di attingere anche a questo repertorio. Brunello è solo bravissimo, per tecnica e consapevolezza, ma suona anche con un mordente che mantiene viva l’attenzione dalla prima all’ultima nota, valorizzando al massimo il contrasto fra la morbidezza avvolgente del violoncello barocco e le sonorità più agili e asprigne del suo fratello minore. A entrambi si deve un bis, sempre all’insegna di Bach, è inevitabile, come invito e anteprima del secondo appuntamento con Mario Brunello e il Kantor di Lipsia a Bologna, fra un mese esatto.

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L’ApeMusicale 09Marzo2017

Bologna,concertoBrunello,06/03/2017

BachcomeeperchédiRobertaPedrottiSecondoappuntamentoconl'integralebachianapersonalizzatadaMarioBrunelloperMusicaInsieme.

BOLOGNA6marzo2017-TornaMarioBrunelloconlasuaesplorazionebachianaanchealdilàdeiconfinidel violoncello. Rispetto al primo concerto del ciclo, precedente di un mese esatto, concentra la suaintroduzione sull'analisi dei brani in programma più che sulla scelta degli strumenti e delle trasposizioni.Pocomale,tuttosommato,perchierapresenteancheinfebbraioeavrebbetrovatoqualcheridondanza,benchélospostarel'agodellabilanciaalcosadalcomeedalperchépossaessereaffarenontrascurabile.

Dipersé,difatti,nonvisarebbemotivopernonpreferirelePartiteeleSonateviolinistichediBacheseguitesullostrumentodeputato,pertipodiarticolazioneediqualitàsonoranellatessitura.L'interessevienedallamotivazionedell'artistaaesplorareaspettidellascritturabachianaaldifuoridellaletteraturaspecificapervioloncello, da qui sorge la peculiarità della lettura: la libertà di fraseggio, l'elaborazione del suono, lostaccodeitempi. Insomma,sitratta infondodi incontrare ilrapporto intimofraBrunelloeBach,entrarenelmondodel violoncellista introversochecomunicaproprioattraverso la semplicitàdel suoeloquiounpo'timido,dellasuamusicalitàraccoltaeconcentrata.

Fra la pasta del violoncello standard e il suono più asciutto e guizzante del suo fratello minore, Brunellodistillailsuostileintroverso,quellariservatezzache,paradossalmente,s'imponecomeunmarchio:ilsigillodelmusicistachedallesueDolomitiaffilalesuearmitecniche(sututtelatornituradelsuonodalsilenzioallapienezza)modellandoconesseunapoeticatuttapersonale,cheponeinequilibriochiarissimolalibertàdell'interprete, il suo estro, perfino, seppur non appariscente, la radicalità di certe riletture dal carattereidiomatico di uno strumento all'altro, per quanto parente stretto, e pure il rigore espressivo, la cura didettagliesecutivifilologici–certearcate,ilvibrato–inuncontestochestrettamentefilologicocertononè.Brunellopuro,insomma,nelsuoesserebachianodevotoquand'anchenonproprioortodosso.

Sisusseguono,cambiandostrumentofrapagineconsacratealvioloncelloonateperviolino,laSuiten.3indo maggiore BWV 1009, laSonata n. 2 in la minore BWV 1003, laSuite n. 5 in do minore BWV 1011 elaPartita n. 3 in mi maggiore BWV 1006. Il gioco di simmetrie concentriche e parallele, il susseguirsi didanzeetopoicontrappuntisticièevidenteallasolaletturadelprogramma,eaffascinante,anchesequestaspeculazionenonspicca inprimopianoquanto ilcontinuo lavorìosonorodiBrunello,sempresulconfinefra l'esplorazionedellostrumentoattraversoBachel'esplorazionediBachattraversolostrumento,forse,allafine,unospecchiodiséstessoedellapropriapiùintimaideadimusicariflessanelmitoamatissimodelKantordiLipsia.

Il pubblico, numeroso e attento, tributa a Brunello e ai suoi due compagni d'avventura in legno e cordeprolungatiapplausi,appagatidaunbis,naturalmentenel segnodiBach: ilpreludiodallaprimaSuitepervioloncello.Appuntamento,oraalterzoconcertodellaserie.

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L’Ape Musicale 15 Marzo 2017 Bologna, concerto Bashmet, 13/03/2017

Viola russa di Roberta Pedrotti Splendido concerto di Yuri Bashmet con i Solisti di Mosca per Musica Insieme: un percorso affascinante fra il suono della viola e il repertorio russo e sovietico del XX secolo.

BOLOGNA, 13 marzo 2017 - Stretta fra la brillantezza del violino e la pastosità del violoncello, la viola è la sorella di mezzo che fatica a imporre la propria personalità. Rischia di batterla anche il contrabbasso, quando si emancipa dai borbottii a fondamenta dell’armonia e fa sentire la sua voce cupa, o si presta al gioco del jazz. Invece la viola in orchestra è raro faccia più che da ripieno, come è raro che la letteratura solistica e cameristica le riservi qualche attenzione più: Puccini, Berlioz e pochissimo altro fino al XX secolo, quando l’interesse dei compositori sembra risvegliarsi. Sembra però che la sorella di mezzo debba ancora sgomitare per far riconoscere la propria personalità individuale fuori dall’ombra ingombrante del parentado. Ci riesce senz’altro quando a suonarla è Yuri Bashmet, che non solo è un musicista di prim’ordine dotato di tecnica sopraffina, ma, quel che forse più conta, coglie l’anima dello strumento e se ne fa paladino e portavoce. Non un violino un po’ più basso o un violoncello un po’ più acuto, ma una voce dal timbro inconfondibile, fra l’avorio e il legno chiaro, calda ma anche leggera, asciutta, con una sua peculiare agilità, un’articolazione idiomatica dai gustosi aromi popolari, dai contorni insolenti. Lo proclama quando deve intonare la trascrizione della Canzone della fanciulla da Mavra di Stravinskij, con il suo carattere piccante fra ironia e melanconia dal sapore spiccatamente slavo; senso del melos, sapido tratteggiare spigoli e sinuosità, classe: sembra proprio che non manchi nulla a Bashmet, e lo conferma la disinvoltura con cui passa dall’archetto alla bacchetta, forte anche dell’eccellenza del complesso dei Solisti di Mosca, da lui stesso fondato. Suono di rara incisività, musicalità chiarissima, sempre intellegibile in una precisione che non rinunzia a entrare nel senso della pagina scritta, i Solisti di Mosca sono un modello esemplare per ogni ensemble di questo genere, una ventina di persone efficaci come se fossero cinquanta, affiatate, rifinite e precise come fossero una. Il programma che propongono, poi, è una bellissima cavalcata attraverso diversi volti del Novecento sovietico: si comincia un autore che dal governo ebbe solo premi e riconoscimenti, Georgij Svidorov con la Sinfonia da camera op. 14 per archi, permeata da una raffinata quanto accattivante e per nulla scontata cantabilità. Segue, con la citata trascrizione da Mavra (scritta per Parigi ma dedicata alla memoria di Puškin, Glinka e Čajkovskij), Stravinskij, che dalla natìa Russia era partito già nel 1910 per intraprendere una carriera quantomai cosmopolita. La trascrizione, a cura di Rudolf Barshai, delle Visions fugitives op. 22 ricorda, nella profondità con cui dispiega umori caratteristici, i rapporti più tormentati fra Prokof’ev e Stalin, finché la morte, ironica, non decise di coglierli nel medesimo giorno, 5 marzo del 1953. Nel 1994, dissolta ormai l’URSS, Alfred Schnittke, ripresosi dopo una

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L’Ape Musicale 17 Marzo 2017

Bologna, concerto Repin/ Korobeinikov, 27/02/2017

A memoria il duo spaziale di Alberto Spano Stupefacente concerto, per la stagione di Musica Insieme, del violinista Vadim Repin col pianista Andreï Korobeinikov fra Debussy e il repertorio russo.

BOLOGNA, 27 febbraio 2017 – La prima cosa che colpisce lo spettatore all'inizio del concerto del violinista Vadim Repin col pianista Andreï Korobeinikov (decimo appuntamento di Musica Insieme al Teatro Manzoni) è il fatto che i due musicisti entrino, si siedano e suonino a memoria. Avete letto bene: a memoria. Entrambi. Nella fattispecie due opere capitali della musica da camera come la Sonata per violino e pianoforte in sol minore di Debussy e quella in re maggiore op. 94 bis di Prokof'ev. Cominciano e vanno avanti per quaranta minuti filati come se nulla fosse, ognuno concentrato sul proprio strumento, quasi “dentro”. La cosa passa quasi inosservata, e probabilmente la maggior parte del pubblico neppure se ne accorge. A memoria un duo violino e pianoforte? Ma quando mai? In oltre quarant'anni di onorata frequentazione di concerti dal vivo, non era mai successo a chi scrive. Durante l'esecuzione, facendo sforzi di memoria (sic), ci si è ricordati di aver visto in video Glenn Gould suonare a memoria in duo con Yehudi Menuhin o altri cameristi (cantanti, violisti, violoncellisti, quartetti), ma tutti col loro bravo spartito davanti, compreso Menuhin. È più frequente il contrario, cioè che il violinista, il flautista, il violoncellista o il “non-pianista” di turno esegua a memoria. Ma “entrambi” è qualcosa di inusitato e rischioso, ed è sicuramente indice di un rapporto di fiducia nel partner che ha pochi confronti nel mondo reale. Vedendoli suonare a memoria, dandosi rapidissime occhiate di intesa, concentrati nel proprio mondo a-cartaceo, eppure così liberi e 'liberati' da problemi di volta pagine e di spartiti, venivano inesorabilmente in mente imprese simili del Quartetto Italiano dei primi anni, di recente rinnovate da gruppi come il Fonè, l'Emerson, il Kelemen. Oppure il suonare a memoria e di spalle (per non rischiare di guardarsi ma solo di ascoltarsi) delle sorelle pianiste Pekinel. Torna in mente la stupefacente impresa vissuta a Ferrara una decina d'anni fa col pianista russo Evgeny Koroliov, di eseguire a memoria l'intera Arte della Fuga di Bach, o quella coeva del clavicembalista Enrico Baiano di eseguire a memoria l'intero Clavicembalo ben temperato. Il suonare a memoria non pare al pubblico un'impresa così impervia nel caso dei pianisti solisti: la “colpa” di questa prassi che a pensarci bene ha qualcosa di costrittivo e irrazionale, è tutta di Franz Liszt, che a metà Ottocento, dal quel virtuoso pazzesco che era, inventò letteralmente il “recital” pianistico, rovinando la vita a

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future generazioni di musicisti: recital inteso come spettacolare formula di concerti in teatri sempre più grandi in cui un lugubre pianoforte a coda è al centro della sala (a volte con con iettatorie composizioni floreali attorno) e il pianista suona a memoria un'ora e mezza di musica, quasi sempre altrui. Formula divenuta quanto mai familiare per i frequentatori di società di concerto, ma sicuramente non diffusa prima di Liszt. I pianisti, cioè, suonavano in pubblico, ma sempre assieme ad altri musicisti, con lo spartito, spesso offrendo partiture proprie sconosciute o eseguite per la prima volta, con spirito antidivistico e antispettacolare. Quello spirito che oggi non pochi cercano di ricreare anche in sala di concerto, magari intrattenendo amabilmente il pubblico, descrivendo le musiche eseguite, addirittura stabilendo un dialogo con l'uditorio. Il recital pianistico brevettato da Liszt ha creato la figura del “concertista”, il mito del pianista solitario col suo strumento, arrovellato nella ricerca della perfezione e spesso ossessionato dal suonare a memoria. Quanti grandi talenti hanno dovuto rinunciare al concertismo per la memoria: “Potrei nominarne almeno una ventina più bravi di me che abitano a Mosca ma che non hanno fatto carriera perché non avevano memoria” disse una volta Vladimir Ashkenazy. Affermazione alla quale non facciamo fatica a credere, anche se dobbiamo registrare una quasi inversione di tendenza degli ultimi anni che vede un buon numero di concertisti dal successo internazionale che hanno smesso di suonare a memoria, conquistando una nuova libertà. Ricordiamo il caso leggendario di Sviatoslav Richter dei suoi ultimi vent'anni, e quelli più recenti di Ivo Pogorelich, Krystian Zimerman, Olli Mustonen e Alexander Tharaud. Quello del duo Repin-Korobeinikov rimane un caso di rarità eccezionale, che all'ascolto dal vivo lascia letteralmente di stucco. Non è frutto di un'illusione ottica, ed è abbastanza incredibile: senza l'obbligo della carta i due musicisti sembrano suonare meglio, respirare assieme, con un'unitarietà espressiva quasi impressionante. Succede subito nella mirabile condotta rapsodicamente improvvisativa della Sonata in sol minore di Debussy, per esempio, in cui lo stupendo Guarneri del Gesù di Repin sembra trasformarsi in un'emulsione sonora perfettamente amalgamata al pianoforte di Korobeinikov, in un magma sonoro unico in cui i disegni risultano vieppiù nitidissimi. Forse ancor più stupefacente l'effetto nella Seconda Sonata in re maggiore op. 94 bis di Prokof'ev, all'origine per il flauto. Qui il suono e l'intonazione di Repin risultano spaziali, come spaziale è il dialogo serrato col pianoforte di Korobeinikov, che per conto suo esibisce una rotondità di suono davvero straordinaria. Superato il quasi choc per la disumana coesione del duo che suona a memoria, nella seconda parte i due immensi artisti offrivano una prova di camerismo un po' più “umano”, riprendendo la carta entrambi per districare le note dei complicati quattro movimenti del Divertimento da Le Baiser de la Fée di Stravinskij (trascrizione d'autore realizzata in collaborazione con Samuel Dushkin) e di due rare pagine di Ciajkovskij, la Méditation da Souvenir d'un lieu cher op. 42 e Valse-Scherzo in do maggiore op. 34. Cioè dieci abbondanti minuti di musica romantica al cubo, un concentrato di tutti i topoi ciajkoskiani affrontati con trascendentale virtuosismo. Soprattutto la meditabonda Méditation, in cui Vadim Repin sposa il suo supremo virtuosismo strumentale ad un suono di vertiginosa bellezza e intonazione coadiuvato da un Korobeinikov in stato di grazia che sembra il suo guanto caldo, in un'intesa assolutamente perfetta. Due i bis da lasciare ancor più a bocca aperta, il secondo dei quali le Danze Rumene di Bela Bartók.

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L’Ape Musicale 06 Aprile 2017 Bologna, concerto Bronfman, 03/04/2017

L'intelligenza del suono di Roberta Pedrotti Splendido recital di Yefim Bronfman per la stagione cameristica di Musica Insieme. Il pianista russo-israeliano dipana il suo magistero tecnico sempre al servizio di un'acuta e sottile intelligenza musicale, di un gusto sorvegliato e intrigante.

BOLOGNA, 3 aprile 2017 - Non si scompone, non perde la concentrazione nemmeno per un impercettibile istante: eppure ne avrebbe tutto il diritto, Yefim Bronfman, quando un cellulare squilla imperioso proprio nel bel mezzo della Humoreske di Schumann (resta un mistero come vi sia chi consideri una poltrona in platea preferibile al divano di casa per mangiucchiare, conversare, utilizzare facebook e whatsapp). Nulla sembra poter distrarre il pianista russo-israeliano, che attraversa rapido il palco senza troppe cerimonie, attaccando sempre di lancio non appena sfiorato lo sgabello. L’impellenza non fa rima, tuttavia, con irruenza, e la ricchezza del suo tocco e del suo fraseggio è sempre informata dall’eleganza di un ferreo controllo. Il suono, allora, appare rotondo, suadente, ma più strutturato che rigoglioso: è un suono intrinsecamente pianistico, non un pianoforte-orchestra, o un pianoforte-mondo. La linea della mano destra ha una superficie smaltata, luminosa, un aroma piacevole e avvolgente che ben si sposa a un corpo più speziato e pungente, ai chiaroscuri che emergono nel registro medio grave e nella mano sinistra, per esempio nel moto cupo come il franare di una ghiaia sottile che emerge nella Suite op. 14 di Bartòk. Del legame fra il compositore ungherese e le radici popolari della sua terra si dipana, fra le dita di Bronfman, con un lirismo sottile, a tratti sorprendente per l’intelligenza con cui vive peculiarità strutturali che, altrove, si sarebbero viste piuttosto come spigoli e che non vengono tuttavia banalmente annacquate. Un discorso simile si potrebbe fare per i Tre movimenti da Petruska di Stravinskij, che chiudono il programma ufficiale: l’impulso ritmico non è perentorio al punto da divenire prepotente, ma si fa moto perpetuo guizzante e virtuosistico, giostra la sua autorevolezza nel gioco elastico del polso e delle dita, insinuandosi in tutte le variazioni dinamiche, in un’agogica ficcante quanto mai estremizzata, in un’esuberanza mai fine a sé stessa. La caratura di fraseggiatore di Bronfman, peraltro, era emersa prepotente proprio in quella Humoreske magnetica, a dispetto di qualsivoglia tranello per la concentrazione: qui il dominio del suono è al servizio sorvegliatissimo di prosa e poesia, in una misura espressiva che non pare curarsi dell’immediatezza dei contrasti, per penetrare con esattissima profondità nel cuore della psiche di Schumann, in un equilibrio delicato quanto ferreo, fatto di sottili gradazioni fra ironie, riflessioni, dolori latenti e nascosti.

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Nondimeno, il senso del legato, la musicalità colta e innata di Bronfman emergono quando lascia scivolare una nota nell’altra, con traslucida densità, in un Debussy ancora una volta poetico senz’essere diluito in un latteo languore. Contestualizzato nella Suite bergamasque cui appartiene, lo stesso Clair de lune emerge in tutta la sua pudica bellezza come Shakespeare nella sua completezza sottratta alle citazioni da cioccolatino (o da social network). Un Debussy così meditato e antiretorico è una vera gioia.

Con il medesimo fare diretto, di fronte agli applausi copiosi, Bronfman non si fa pregare: più di mille inchini valgono questi altri sette minuti circa di Schumann. Arabesque, questa volta, nuovamente un cesello eloquentissimo in tutte le sfumature ambigue di un animo artistico tanto complesso.

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L’Ape Musicale 12 Aprile 2017

Bologna, concerto Blacher/Hagen/Özgür/Curfs/Estay/Haedermans, 10/04/2017

Il genio di Dmitrij di Roberta Pedrotti Šostakovič regna incontrastato in due trascrizioni per trio con pianoforte e percussioni affidate, per la stagione di Musica Insieme, a un eccellente ensemble di solisti.

BOLOGNA, 10 aprile 2017 - Il ritmo puro e semplice, l’oggetto più elementare, la musica commerciale, il puro intrattenimento del varietà. E, poi, il genio artistico che fa la differenza e sublima questa materia. Questo potrebbe essere il soggetto del concerto proposto da Musica Insieme, ancor più eloquente nei suoi diversi esiti. Si comincia, infatti, lasciando affilare le armi ai tre percussionisti – Raymond Curf, Claudio Estay e Mark Haeldermans – con Music for Pieces of Wood di Steve Reich. Una decina di minuti di ritmi minimalisti che, si suppone, dovrebbero evocare intrecci di impulsi primordiali, suoni di natura, poliritmie esotiche ma che, in fin dei conti, appare come un piccolo esercizio tecnico, delibato come un bicchier d’acqua dai nostri magnifici tre. Tutt’altra musica quando l’organico raddoppia e sopraggiungono il violino di Kolja Blacher, il violoncello di Clemens Hagen e il pianoforte di Aydin Özgür (all’occorrenza impegnato anche con la celesta) per la Suite per orchestra di varietà di Šostakovič. Qui è il genio del compositore sovietico a fare la differenza, portando all’ennesima potenza il tratto oggettivo, meccanico, vitalistico – futurista, si potrebbe dire – della musica di consumo fino a un parossismo visionario e giocoso che giunge ad aprire, nelle sue pieghe, squarci lirici, grotteschi, malinconici, ironici, tragici. Un’ebrezza esuberante traspira dal caleidoscopio di ritmi di danza dispiegato nell’unione perfetta di solisti di questo calibro, che, nell’organico asciutto (la trascrizione si deve a Oriol Cruixent), esaltano l’agile dettaglio, il sottinteso sottile. L’eccellenza degli interpreti è la ragion d’essere della versione distillata (questa volta a cura di Viktor Derevianko) della Sinfonia n. 15, partitura elevata, seria, classicissima nell’organico originale e nell’architettura complessiva. Eppure anche qui emerge il gioco tragicomico della citazione, dell’elaborazione dell’elemento oggettivo (sia esso un tema, uno stilema, un ritmo), non ha caso eleggendo a interlocutori proprio il drammaturgo musicale più spregiudicato ambiguo e straniante, Rossini, e quello più demiurgico e magniloquente, Wagner; il re del rinnovamento sematico dell’elemento musicale diversamente combinato e il profeta del Leitmotiv univoco e assoluto. Dall’Allegretto iniziale, con la sua propulsione meccanica zigzagante, il discorso, tuttavia, scivola pian piano, quasi senza soluzione di continuità perfino attraverso lo Scherzo, fra due Adagi. Un lirismo prende corpo per evaporare nel magistero di sei

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musicisti capaci di sussurrare con impalpabile intensità finanche il pianissimo delle percussioni. Ci si potrebbe perdere nel contemplare la duttilità della cavata e delle arcate di Blacher e Hagen, la loro articolazione netta e intelligente, o il dominio dinamico straordinario di Curfs, Estay ed Haedermans, o il sostegno plastico e discreto che Özgür sa dare agli uni o agli altri, ma il disegno complessivo è tanto chiaro e condiviso che resta solo da ammirare nell’insieme la proiezione in microcosmo del macrocosmo geniale di Šostakovič. Peccato non aver potuto godere di un bis: avremmo riascoltato tanto volentieri anche solo una sequenza della Suite.

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L’Ape Musicale 13 Maggio 2017 Bologna, concerto, Kelemen Quartet, 02/05/2017

La ragione e il sentimento di Alberto Spano Il Kelemen Quartett sigla, per la stagione di Musica Insieme, uno dei migliori concerti uditi a Bologna negli ultimi decenni.

BOLOGNA, 2 maggio 2017 – Avevamo imparato a conoscere il Kelemen Quartet nel maggio di tre anni fa al Teatro Romolo Valli di Reggio Emilia, durante le finali della decima edizione del “Premio Paolo Borciani”, concorso fra i più severi al mondo per il quartetto, che i quattro ungheresi capeggiati da Barnabás Kelemen vinsero a mani basse, dopo che nell'edizione precedente (2011) si erano segnalati fra i migliori in campo. Si conobbe una formazione di livello superiore, dotata di una tecnica pazzesca, un'incredibile compattezza ed un'efficienza rara. Sembrò allora un quartetto dotato dell'infallibilità, e proprio per questa sua perfezione assoluta sembrò allora emergere una certa freddezza. Dopo un bel numero di concerti in mezzo mondo e un cambio di violoncellista a metà strada (allora Dora Kokas, la musicalissima sorella del secondo violino Katalin Kokas, ora l'eccellente László Fenyö cui si aggiunge il violista Gábor Homoki), ritroviamo il Kelemen Quartet per il penultimo concerto di Musica Insieme al Teatro Manzoni, e a stento li riconosciamo: i quattro ungheresi sembrano quasi aver cambiato pelle e da gelida macchina da guerra si sono trasformati nel quartetto più incredibilmente espressivo ed emozionante che a nostro avviso circoli sulla piazza oggidì. Il concerto del 2 maggio è stato certamente un momento di stato di grazia, uno dei migliori concerti uditi in questo teatro e sulla piazza bolognese negli ultimi trent'anni. Non ci facciamo problemi a confermare con forza tale affermazione, perché concerti di questo livello sono rari nella vita di una persona, e le poche volte che capitano, quasi sempre all'insaputa di chi ascolta, le emozioni e le sensazioni provate sono difficili da riferire per iscritto. Qui si parla di molti momenti, di attimi assoluti in cui tutto, anche l'aria che si respira, anche la luce della sala, sembrano esserne contagiati. I nostri quattro eroi sono strumentisti di qualità tecniche e musicali superiori: quattro virtuosi insomma, quattro personalità fortissime, a cominciare dal primo violino Barnabás Kelemen, che coi suoi 39 anni e qualche capello bianco ha alle spalle una carriera solistica da fare invidia ai più grandi violinisti, per esempio la vittoria nel 2002 del Concorso internazionale di Indianapolis. Qualità strumentali fuori dall'ordinario che ritroviamo quasi identiche negli altri tre, con quella particolare facilità e naturalezza nel porgere la musica che è retaggio di pochi al mondo. Questi quattro moschettieri dell'arco, che certamente continuano carriere solistiche strepitose ciascuno per conto suo, appena otto anni fa hanno deciso di provarci col quartetto, e il risultato è stato più che

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eccellente fin dalla prima prova. Questo lo si capisce perfettamente, poiché si tratta di magie istantanee che a volte avvengono, quegli incontri baciati da dio che non possono essere assolutamente preordinati, ma che semplicemente accadono - lo racconta con ineffabile candore Elisa Pegreffi del compianto Quartetto Italiano in una vecchia intervista televisiva – e che poi, attraverso un grande studio e una feroce abnegazione, possono portare all'eccellenza assoluta. Come quella che si è udita al Manzoni in questo felice concerto, della cui altissima temperatura devono essersi accorti gli esecutori stessi, oltre che il pubblico presente. Ma sia ben chiaro: non è solo questione di perfezione, di tecnica, di virtuosismo, di intonazione, di compattezza, di scuola o di rispetto del testo. È qualcosa di più profondo, di più spirituale diremmo, un ineffabile mix di bravura, libertà, attenzione e fantasia. E certamente alla fin fine è una questione di suono. Ma non di suono in quanto perfetta emissione di sonorità o di intonazione illibata: quando si parla di suono di un quartetto si intende quell'indescrivibile amalgama di singole sonorità che si riconoscono nella loro identità ma che si mescolano in un sound unico che, nel caso fortuito, sembra come uscire direttamente dai corpi degli strumentisti, dalla loro anima diremmo, e non dagli strumenti da loro suonati, fatti di corde di acciaio e di budello, di archetti con crini di cavallo, di pezzi di legno e di vernici. Che la serata avrebbe preso una piega straordinaria lo si è capito immediatamente dalle prime note del Quartetto in re maggiore op. 20 n. 4 di Haydn, uno dei cosiddetti “Quartetti del Sole”, banco di prova assoluto per ogni quartetto. Qui la chiarezza polifonica della formazione era addirittura accecante, ma quel senso di lontana algidezza provata durante il concorso era come magicamente sparita, a favore di una cordialità di eloquio, una morbidezza e una succosità di suono (viene in mente la polpa sana di un frutto maturo) che rendevano intelligibile ogni senso musicale, ogni ordito strumentale. Questa estrema bellezza del quartetto, solo due o tre volte toccata da qualche piccola imperfezione che, a mo' di timide su un bel viso femminile, rendeva ancora più perfetto lo stupefacente incarnato del suono del quartetto - quasi a voler ribadire il concetto che la grandezza si può permettere l'errore momentaneo - trovava poi il suo sfogo alto nella più prodigiosa esecuzione da noi udita del Quartetto in la maggiore op. 41 n. 3 di Robert Schumann, opera difficile, complessa e oltremodo infida. Ebbene, per la prima volta, ogni intento dell'autore sembrava perfettamente compiuto, in un'apoteosi di virtuosismo e di calore: perché tutto col Kelemen prende forma e logica, tutto si spiega, tutto ha un perché, anche una frase apparentemente illogica o faticosa che nell'opera di Schumann a volte si può trovare. Apice assoluto e momento di ipnosi collettiva il meraviglioso Adagio molto, seguito da quella specie di cavalcata eroica finale verso l'infinito che è l'Allegro molto vivace, spauracchio di tutti i quartetti professionisti. I nostri lo eseguivano con invidiabile souplesse e con espressività, con velocità contenuta e dominio sovrano.

Mirabilia si sono poi udite nello struggente Quartettsatz in do minore D 703 di Franz Schubert, in cui i nostri non hanno dimenticato che Schubert è autore romantico ancorché mascherato di classicismo, ma soprattutto nel finale Quartetto n. 5 (1934) di Béla Bartók, in cui il Kelemen dava ulteriore prova di superiore dominio tecnico (ma bastava un allegro haydniano per capire tutto) e di avvincente coinvolgimento musicale ed espressivo. Qui l'incredibile tavolozza timbrica disponibile e la tenuta assoluta, nonché l'entusiasmante realizzazione di ogni intento del compositore, letteralmente esplodevano in un finale glorioso, senza la benché minima cessione a momenti di stanchezza o di distrazione, tutti e quattro coinvolti in un incredibile vortice ritmico e in una apoteosi di ragione e sentimento. Applausi da stadio e bis haydniano di grandissimo pregio.

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L’Ape Musicale 20 Maggio 2017 Bologna, concerto Sokolov, 15/05/2017

Il demone di Sokolov di Roberta Pedrotti Audace e straordinario, ispirato e cangiante, Grigory Sokolov chiude la stagione di Musica Insieme con Mozart, Beethoven e sei fuori programma.

BOLOGNA, 15 maggio 2017 - Definire Grigory Sokolov un pianista e questo, sic et simpliciter, un recital pianistico è come una freccia che colpisca il bersaglio senza conficcarsi nel centro esatto: non improprio, ma nemmeno esatto.

Questo è uno dei casi in cui il programma è concepito e sviluppato in una testi interpretativa, in un’opera d’arte poetica che va oltre le categorie consuete, come già suggerisce l’annullamento dei confini nelle due parti, parallele, in cui si articola: di Mozart, prima, e Beethoven, poi, si eseguono due sonate – una dalle forme più classiche (rispettivamente, la n.16 KV 545 in do maggiore e la n. 27 in mi minore op. 90) seguita da una seconda più ardita e complessa (Fantasia e Sonata KV 475/457 e Sonata n.32 op. 111, entrambe in do minore) – senza soluzione di continuità, quasi facessero parte di un unico discorso che, avanzando, si fa sempre più complesso.

In queste arcate si estende il pensiero musicale di Sokolov, straordinariamente consapevole e coerente nel controllo di una varietà cangiante di accenti, colori, dinamiche, rubati: tutto soppesato con tale arte, una tale profonda intelligenza da nobilitare una tavolozza tanto ampia da poter costituire persino un’insidia, una tentazione all’abuso. Invece il puro dato tecnico sembra passare in secondo piano, perché totalmente votato all’idea dell’interprete: non si ascolta attenti alla perfezione assoluta, bensì rapiti dal genio dell’artista. Ciò non significa, naturalmente, che Sokolov non sia in possesso di una tecnica eccellente, ma che mai come in questo caso essa sia mezzo e non fine, tant’è vero che i trilli infiniti della Sonata n. 32 di Beethoven risultano sì sbalorditivi per qualità, rapidità, agilità, ma anche se non soprattutto per la loro sopraffina modulazione dinamica, per l’eloquenza espressiva, per l’intreccio sapiente con il controcanto melodico delle altre dita. Già nelle prime battute di quella Sonata n. 16 in do maggiore, che Mozart compose con la classe del genio ma con intenti più didattici che artistici, incanta: il basso albertino riluce di uno splendore che non avremmo saputo immaginare nel cliché galante dell’arpeggio alla mano sinistra che alleggerisce la base armonica della melodia offrendo altresì all'interprete meno scaltrito perniciosi allettamenti al lezioso e al meccanico. Sokolov riesce a infondervi un colore argentino che subito fa pensare, in effetti, all’automatismo di carillon e altri marchingegni alla moda all’epoca di Mozart, ma accende anche la fiammella di Prometeo e infonde man mano vita alla materia interte.

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L’iterazione astratta, oggettiva – con spirito modernissimo che sa guardare al Settecento con la consapevolezza di chi ha vissuto il Novecento – si anima man mano nel più fine gioco di colori e dinamiche. La galanteria si fa Illuminismo, l’Illuminismo si scioglie nel sentimento di Rousseau, nei turbamenti Sturm un Drang, nello struggimento della Sehnsucht, ma tutto filtrato da uno sguardo che viene da lontano, analitico e sintetico, capace di osservare in profondità e modellare la musica con una classe che non cede a compromessi e segue, imperterrita la meta prefissa.

La cura suprema del dettaglio sempre coerente, sempre consequenziale nel delineare quest’unica grande arcata, si impone, poi, quando accenti e rubati esaltano nelle loro metamorfosi la costruzione tematica in Beethoven, la dialettica di allusioni, rimandi, echi, riprese fra cellule melodiche, armoniche e ritmiche anche minime. Questa giostra calibrata nell’infinitesimo scorre, tuttavia, con la naturalezza sublime del flusso di un’ispirazione poetica fulminante e trascendentale, come appaiono trascendentali alcuni incisi in cui il suono sembra rarefarsi diafano, venire da un’altra dimensione e ricongiungerci a un iperuranio ben familiare a Sokolov e vagamente demoniaco. Qui si dipana anche quella premonizione jazz che non viene enfatizzata, indulgendo come sarebbe facile, troppo facile fare: traspare vispa e ben articolata nell’eleganza potente di un tocco ispiratissimo, che dipana un fraseggio ora levissimo, quasi astratto e sfumato, ora più denso, ora pesato con esattezza puntuale, ora elastico, come se la nota rimbalzasse fra le dita.

L’organismo animato dal demone di Sokolov nelle due coppie di sonate avvince con l’audacia decisa che ne delinea le proporzioni, i movimenti, i caratteri e gli atteggiamenti: personali al limite della sfrontatezza, ma ammaniti con tale meditata intenzione da porsi in un equilibrio tanto delicato quanto, alla fine, perfetto.

Al momento dei bis, il macrocosmo si condensa in particelle purissime, come se tutti gli elementi dipanati in precedenza nell’ampio abbraccio fra le sonate di Mozart e Beethoven ora si presentassero singolarmente nelle miniature dei sei fuori programma. Ecco l’intimità poetica di un Momento musicale (op. 94 n. 1 D 780) di Schubert in punta di dita fra l’oscillare meccanico di note ribattute e lo sciogliersi di un pathos più mobile; ecco il canto trascendente che alla cantabilità nulla concede in due Notturni di Chopin (il n. 1 e il n. 2 op. 32), arabeschi di rubato; ecco che nell’Indiscrète di Rameau non scimmiotta il clavicembalo, ma lo evoca con la misura di un tocco guizzante e leggiadro; ecco l’Arabesque vero e proprio, quello ben noto di Schumann, liquido ed elastico ma ancora non privo di forza, quella stessa forza che riposa nella gravità del sesto e ultimo bis: il Preludio op.28 n.20 il cui denso color nero si dispiega e si sfuma anche in un pedale ora saggio quanto imprevedibile protagonista.

Sala affollatissima, pubblico festante ma anche sollecitato alla riflessione e al dibattito per questa chiusura di stagione di Musica Insieme. Un concerto che sarà difficile dimenticare