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1 Il verso (in realtà un distico: «Good-bye is too good a word babe/ so I’ll just say fare thee well»), è da R. ZIMMERMAN (Bob Dylan), Don’t Think twice, it’s alright. Cito le opere di Fer- raris con le seguenti abbreviazioni: GBK = Good-bye Kant, Mila- no 2004, e ME = Il mondo esterno, Milano 2001. La Critica della ragion pura (KrV) viene citata nel consueto riferimento alla pagi- nazione della prima (A) e seconda (B) edizione, nella traduzione di C. Esposito (Milano 2004). Poiché intendo il mio lavoro come una discussione critica e non un saggio specialistico, non rimando alla letteratura seconda- ria. Mi sono occupato dei temi che discuto qui – in buona parte affini a quelli su cui scrive Ferraris – nei seguenti saggi: Kant’s Productive Imagination and Its Alleged Antecedents, in The Gra- duate Faculty Philosophy Journal, 1995/1, 65-92; Construction and Mathematical Schematism. Kant on the Exhibition of a Concept in Intuition, in Kant-Studien, 86:2, 1995, 131-74; Schematismo e co- struzione. Il rapporto tra la matematica e la rappresentazione a prio- ri dei concetti nella sensibilità in Kant, in Rivista di Estetica, n.s. 1- 2 (1996), XXXVI, pp. 27-46; M. HEIDEGGER, La questione della cosa (Die Frage nach dem Ding), in Man and World, 1996, pp. 94- 102; Esistenza e giudizio, in Studi kantiani XV 2002, 237-47; Sag- gezza, immaginazione, giudizio pratico. Studio su Aristotele e Kant, Edizioni ETS, Pisa 2004; e Lived Space, Geometric Space in Kant, di imminente pubblicazione in Studi kantiani, XIX, 2006. «GOODBYE IS TOO GOOD A WORD». SULLE DIFFICOLTÀ DEL CONGEDO DI FERRARIS 1 Il libro di Ferraris è denso, ricco di suggestioni, tesi e critiche importanti. Ha un andamento molto strutturato, persuasivo, chiaro. Si ha quasi l’impres- sione che abbia intenti divulgativi, ma in realtà la prosa di Ferraris – prosa stringente, brillante, spesso

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1 Il verso (in realtà un distico: «Good-bye is too good aword babe/ so I’ll just say fare thee well»), è da R. ZIMMERMAN

(Bob Dylan), Don’t Think twice, it’s alright. Cito le opere di Fer-raris con le seguenti abbreviazioni: GBK = Good-bye Kant, Mila-no 2004, e ME = Il mondo esterno, Milano 2001. La Critica dellaragion pura (KrV) viene citata nel consueto riferimento alla pagi-nazione della prima (A) e seconda (B) edizione, nella traduzionedi C. Esposito (Milano 2004).

Poiché intendo il mio lavoro come una discussione critica enon un saggio specialistico, non rimando alla letteratura seconda-ria. Mi sono occupato dei temi che discuto qui – in buona parteaffini a quelli su cui scrive Ferraris – nei seguenti saggi: Kant’sProductive Imagination and Its Alleged Antecedents, in The Gra-duate Faculty Philosophy Journal, 1995/1, 65-92; Construction andMathematical Schematism. Kant on the Exhibition of a Concept inIntuition, in Kant-Studien, 86:2, 1995, 131-74; Schematismo e co-struzione. Il rapporto tra la matematica e la rappresentazione a prio-ri dei concetti nella sensibilità in Kant, in Rivista di Estetica, n.s. 1-2 (1996), XXXVI, pp. 27-46; M. HEIDEGGER, La questione dellacosa (Die Frage nach dem Ding), in Man and World, 1996, pp. 94-102; Esistenza e giudizio, in Studi kantiani XV 2002, 237-47; Sag-gezza, immaginazione, giudizio pratico. Studio su Aristotele e Kant,Edizioni ETS, Pisa 2004; e Lived Space, Geometric Space in Kant,di imminente pubblicazione in Studi kantiani, XIX, 2006.

«GOODBYE IS TOO GOOD A WORD».SULLE DIFFICOLTÀ DEL CONGEDO

DI FERRARIS1

Il libro di Ferraris è denso, ricco di suggestioni,tesi e critiche importanti. Ha un andamento moltostrutturato, persuasivo, chiaro. Si ha quasi l’impres-sione che abbia intenti divulgativi, ma in realtà laprosa di Ferraris – prosa stringente, brillante, spesso

molto divertente – ha la virtù filosofica di non com-promettere il suo rigore pur nell’accessibilità dellanarrazione (e dico narrazione proprio perché il vo-lumetto è scritto come una storia che si dipani sottoi nostri occhi). Tra l’altro Ferraris ha un invidiabilegusto per l’integrazione nel testo di citazioni lettera-rie sempre indovinate e scelte con grande pertinen-za e intelligenza. Di fronte a questo libro, sarebbefacile lasciarsi andare all’impressione quasi incredu-la e tuttavia convinta di chi, come il lettore dellaLettera rubata di Poe, si chiede perché non era arri-vato prima lui, e senza l’aiuto di Ferraris, alle mede-sime conclusioni, palesi, forti, difficilmente demoli-bili, quasi evidenti eye-openers, dettate, com’è salu-tare in filosofia, dall’atteggiamento di chi non inten-de prendere per oro colato tesi acquisite solo per lapatina più o meno veneranda e autorevole di cui iltempo le ha rivestite. Ma la provocatorietà delloscritto richiede un atteggiamento diverso, quello chene prende sul serio ogni dettaglio, nel tentativo dipensare criticamente insieme al suo autore.

Per quanto mi riguarda, il compito di reagire alleprovocazioni non si risolve nel difendere una pre-sunta ortodossia kantiana, perché anzi mi trovo so-stanzialmente d’accordo con alcune conclusioni fer-rarisiane, ad esempio l’insoddisfazione per un’uni-versalità e necessità conferite dalla mente e assentidal mondo; o la tendenza cui Kant a volte soccombedi assimilare esperienza e scienza; o l’occasionale‘errore dello stimolo’ per cui Kant a volte non si ac-corge di ricondurre l’osservato al misurato e – citouna bella frase di Ferraris – «il mondo fenomenicoha solo da guadagnarci se viene ricondotto a un

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mondo di cause» (ME 49). La mia insoddisfazioneverso Kant è in generale per un linguaggio solo su-perficialmente preciso, che in realtà nasconde molteambiguità e oscillazioni quando non contraddizioni(soprattutto a proposito della percezione, come Fer-raris mostra bene), nonché per un dispendio ecces-sivo di mezzi complicati e macchinosi per un risulta-to che, almeno a Ferraris, sembra così modesto, senon illusorio. Senonché ho l’impressione di condivi-dere quelle conclusioni più per via del tema husser-liano del mondo della vita e della sintesi passiva, chenon per le critiche che Ferraris denomina la fallaciatrascendentale o la naturalizzazione della fisica – co-me dire che non sono sicuro avrei seguito la stessavia per arrivare a dire che il modello di razionalità diparte della Critica della ragion pura è la matematiz-zazione della realtà.

Il primo pregio del libro consiste in un coraggioraro di questi tempi: quello di semplificare le tesikantiane, andando aldilà dei mille sottili distinguo dichi pretende avvedutezza storica e attenzione filolo-gica per rimandare indefinitamente, in realtà perrendere alla fine in linea di principio impraticabile,una presa di posizione ed un giudizio filosofico suimeriti del pensiero kantiano. Alla semplificazione siaccompagna un altro pregio, la sistematicità. La de-nuncia ferrarisiana non procede à tatons, come ri-proverava Cartesio alla geometria di Fermat, maaffonda la sua critica in un pensiero di cui ha rico-struito con penetrante sguardo d’insieme le connes-sioni interne rilevanti. Senonché a volte la semplifi-cazione diventa caricaturale, e tutti i dettagli sonoasserviti ad una tesi polemica dominante. Spesso si

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2 Lo stesso si ritrova a GBK 64, dove i suddetti sono «astra-zioni di alcuni principi fisici».

incontrano nel libro di Ferraris affermazioni come leseguenti, che trovo quantomeno esagerate, infonda-te, gratuite; neanche Hermann Cohen sosteneva che«i principi metafisici risultano tratti dalla fisica»(GBK 49). «Io, spazio, tempo, causa e sostanza sonofondati sulle certezze della fisica» (GBK 60 – e qui,se non condivido ma sono in grado di seguire il di-scorso riguardo agli altri principi, non capisco comel’Io possa essere annoverato tra questi)2. Poi: sostan-za e causa non sono «apprese dall’esperienza. Èdunque sulla base della fisica» che K ricava le duetesi (GBK 61, corsivo mio), e questa è una conclu-sione di cui mi sfugge la conseguenzialità.

A volte poi non riconosco nel Kant di Ferraris ilKant che ho studiato io. È un discorso vecchio tranoi due. Chiedersi com’è possibile che si diano dueKant tanto diversi è l’unica domanda filosoficamen-te interessante per il pubblico, che dei nostri disac-cordi giustamente non ha motivo di occuparsi. Ed èa questa domanda che mi accingo ad arrivare, nonper contrapporre un altro Kant a quello di Ferraris,beninteso, ma per vagliare il suo chiedendomi senon ha assunti impliciti che ne influenzino la lettura.Parlerò del significato della Critica della ragion purain generale e del perché penso che Ferraris legga laCritica della ragion pura in un’ottica limitata e limi-tante; passerò poi alla tesi degli schemi concettuali emi soffermerò sull’intuizione, per vagliare la consi-stenza interna della sua tesi; infine proporrò alcunenote su schematismo, sostanza e possibilità.

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Prima di iniziare, espongo una premessa, e avan-zo anch’io una provocazione. La premessa riguardail punto centrale della polemica ferrarisiana, e si puòcompendiare in una semplice domanda. Resta qual-cosa di Kant dopo la demolizione operata da Ferra-ris? È credibile la nostalgia per le Trabant e i cetrio-lini della DDR (mi riferisco ovviamente al film cheha ispirato, secondo l’ammissione di Ferraris, il tito-lo del suo libro, richiamato nelle pagine iniziali diGBK), cioè il proposito di togliere un po’ di rugginead un monumento per restituirlo all’attualità (GBK8), o si tratta di una mera concessione retorica cheallevii il senso di una perdita a cui quanti di noi cihanno creduto dovranno far fronte una volta presoatto della fine di un mondo? Mi sembra non occorraessersi formati alla scuola del sospetto o avere un ta-lento per la demistificazione per dubitare che il ver-detto di ripudio sia inappellabile e che good-bye si-gnifichi un commiato. Il che equivale a dire che lapremessa vale più per le considerazioni che svolgoio che per Ferraris, che credo debba trovarla oziosa.

La provocazione è relativa alla tesi della naturaliz-zazione. E la lascio semplicemente nella forma del ri-chiamo di un passo. Visto che Ferraris scrive che«ciò che conosciamo dipende da come siamo fatti,sicché la filosofia diventa una propaggine della psico-logia» (GBK 140), mi chiedo cosa pensi della paginakantiana sul «sistema di preformazione» della ragio-ne pura alla fine della Deduzione trascendentale B (§27, «Risultato di questa deduzione dei concettidell’intelletto», B 167-8) in cui Kant sembra non soloperfettamente consapevole del rischio della fallaciatrascendentale, ma addirittura ne attribuisce a Hume

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la deriva più pericolosa considerandolo l’opposto diquello che, nelle sue intenzioni almeno, ha appenamostrato. Kant scrive che le categorie non possonoessere innate, ma sono selbstgedacht (pensate sponta-neamente) per garantire l’oggettività dell’attribuzionedi una causa agli oggetti stessi e non solo alle mierappresentazioni. Kant scrive che se le categorie fos-sero disposizioni soggettive del pensiero piantatedentro di noi dal creatore in modo da conformarsiall’esperienza, sì da poter dire che io sono fatto inmodo tale da non poter pensare le rappresentazionise non congiunte in tale modo, questo sarebbe «pro-prio quello che più desidera lo scettico». Mi sembrasia questo, appunto ad onta dell’esplicita posizionekantiana, che presuppone la tesi polemica ferrarisia-na della naturalizzazione. Sarebbe stato utile se Fer-raris avesse commentato criticamente quel passo.

1. Quale Kant?

Le scelte più influenti nelle interpretazioni kan-tiane si situano spesso in una preliminare chiusurache ci permette di concentrarci su ciò che più ci staa cuore. Se questo è naturale, perché alcuni direbbe-ro che a forza di sillabare Kant ci siamo sfibrati oabbiamo perso di vista la vitalità del suo pensiero, oche, con la pletora di saggi da studiare per parlarecon competenza e cognizione di causa, la vita ètroppo corta per dedicarla allo studio di tutte e trele Critiche, è anche una mossa le cui conseguenzespesso sfuggono al nostro controllo. Da questo pun-to di vista la prima obiezione che sollevo non è tantoo solo all’aver scelto la Critica della ragion pura co-

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3 O CARDUCCI (citato da Ferraris a GBK 33 n.), che copiaHeine.

me oggetto esclusivo, quanto ad una concezione ar-chitettonica della filosofia kantiana che ritengo uni-laterale. Perché? Perché ritengo che sfugga a Ferra-ris l’intima connessione tra metafisica e critica, cosìcome gli sfugge la sintesi nella sua centralità in tuttee tre le Critiche.

Per Ferraris la metafisica è un brancolare nel buio(GBK 35), come scrive citando le parole testuali diKant. Ma proprio questo è il punto: Ferraris nonsembra accorgersi che Kant non ha una sola idea dimetafisica; Ferraris isola la metafisica nella sua acce-zione negativa e critica, di derivazione empirista, co-me la tendenza a superare i limiti dell’esperienza. Ecerto nessuno nega che questo sia un tratto essenzia-le, e che Heine3 avesse ragione quando diceva cheKant era il Robespierre della metafisica speciale. Maquesta è solo una delle accezioni della metafisica.Cosa significa per Ferraris che la critica sia una pro-pedeutica alla metafisica? O che la seconda prefazio-ne alla Critica della ragion pura intenda il programmacritico come la fondazione della metafisica sulle stes-se basi sicure di cui godono la matematica e la fisica?Occorre pensare seriamente alle conseguenze delladiscrepanza (e non intendo qui prendere posizionesul motivo di tale discrepanza, attribuendolo a diver-si strati, periodi, contesti) tra la Disciplina della Dot-trina del metodo, in cui Kant oppone la sintesi dellamatematica alla filosofia, che è solo esplicativa, e laseconda Prefazione, in cui appunto la metafisicadev’essere ora sintetica in un senso positivo. Com’è

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possibile capire questo passo con un’idea negativa dimetafisica qual è quella che quasi tutti continuano aripetere, e Ferraris con loro?

Per Ferraris una metafisica in senso positivo puòsolo significare un’ontologia (GBK 34-5), e questauna naturalizzazione della fisica (GBK 49); coeren-temente con questa tesi Ferraris dice che il Kant co-struttore e non distruttore si trova nell’Analitica, enon per caso Heidegger e Strawson si sono concen-trati su questa parte, sicché, scrive Ferraris, «io miregolo sul loro esempio» (GBK 37). A me sembraun pessimo esempio; e il fatto che Ferraris sia affian-cato dalla stragrande maggioranza degli studiosikantiani non significa che sia in buona compagnia.Una metafisica dell’esperienza che si basi solo suEstetica e Analitica non è una interpretazione suffi-ciente della Critica della ragion pura. Perché? Perchéla Dialettica, che per Ferraris è solo negativa, ha unruolo positivo invece proprio per quello che rendele idee della ragione appunto trascendenti, cioè ilfatto che le idee spontaneamente tendono aldilàdell’esperienza; questa stessa trascendenza ha un va-lore centrale quando le idee regolano e guidano lanostra stessa esperienza e scienza, dall’idea di mon-do e di natura come sistema al problema dell’indu-zione e della specificazione della natura in generi especie fino alle idee di libertà e di Dio nell’Appendi-ce alla Dialettica.

Non soffermarsi su questo significa perdere di vi-sta l’oggetto primario della Critica della ragion purastessa, che non è un’ontologia ma nient’altro chel’autonomia della ragione che non ha a che fare checon se stessa. Per questo avrebbe più senso, al limi-

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te, cominciare la lettura della Critica della ragion pu-ra dall’Architettonica, che mostra come sia la teleo-logia della ragione umana a costituire l’oggettodell’indagine. Per il filosofo le conoscenze sonostrumenti per promuovere un interesse che non ècognitivo (B 867); e la filosofia critica come prepara-zione ad una metafisica è un’attività indirizzata allasaggezza, non uno sforzo di armonizzazione di con-cetti e intuizioni sensibili per capire l’empiria e po-ter rendere conto dei fenomeni.

Di fronte a ciò, non si tratta affatto di concludere‘um so schlimmer für die Phänomene’, ma di rileva-re al contrario che Ferraris prende una parte per iltutto, cioè concepisce la ragione nella sua formamanchevole e unilaterale di intelletto. Critica dellaragion pura deve significare critica della ragione nelsuo senso più comprensivo; e critica non significasolo denuncia delle pretese infondate della metafisi-ca, ma articolazione interna delle funzioni della ra-gione. Forse a qualcuno questo rilievo suonerà he-geliano; ed è vero che tra tutti i grandi filosofi chehanno scritto su Kant è Hegel che ha capito chesenza Dialettica e Architettonica non si fa moltastrada nella comprensione della Critica della ragionpura. Senonché a Hegel interessavano più di tutto leantinomie, mentre io ritengo che nella Dialettica, so-prattutto nell’Appendice, si trovino le idee come di-rettive che la ragione dà a se stessa. E quindi anchegli elementi di continuità tra le tre critiche.

La ragione, non in quanto conosce oggetti sensi-bili, ma in quanto pensa in libertà dalla sensibilità,ha un uso non solo legittimo, ma necessario, perchécosì guadagna l’accesso non solo a libertà (e anima e

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Dio), ma più fondamentalmente al nucleo piùprofondo della sua autonomia. All’Io penso, che esi-ste come coscienza pura di un’attività determinante,coscienza di un’origine e di una spontaneità, corri-sponde praticamente l’io noumenico che liberamen-te si determina all’azione; ma entrambi sono i modidi operare di un io intelligibile. Quella che nell’unitàsintetica originaria dell’appercezione si chiamavaautoaffezione, nell’io pratico è l’autonomia della vo-lontà; ma più fondamentalmente in entrambi abbia-mo una sintesi, un’autodeterminazione della ragioneche è affatto indipendente dalla datità. Come l’Iopenso è un principio inconoscibile e puro, di cui lacoscienza empirica è un risultato, così praticamentela libertà noumenica determina la mia persona equanto c’è di empirico nel mio carattere. In entram-be la ragione è sintesi a priori, l’attività di oltrepas-sare i limiti del sensibile e di occuparsi di se stessacome fonte dei fini essenziali dell’umanità.

Ferraris di queste cose non parla (o meglio, leuniche volte che parla della sintesi a priori, a GBK53-4, dice che la nuova logica sostituisce ai giudizianalitici quelli sintetici a priori, il che mi sembrereb-be un fiat inspiegabile e miracoloso, e intende la sin-tesi come la connessione dei giudizi con l’apperce-zione trascendentale, il che è fuorviante e scorretto),e non è necessariamente un problema. Ma lo diventanon solo per come Ferraris finisce per spiegare il la-voro comune di intelletto e sensibilità, ma poi anchequando nel decimo capitolo di GBK accenna alle al-tre due critiche, e, anziché sottolineare continuità ediscontinuità dal 1781 al 1790, ad esempio nel ruolodel giudizio o nella formazione dei concetti empirici

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4 Che non si tratti di ambiti diversi per Ferraris si vede dalconflitto – per Kant inesistente – che lui ritrova a GBK 132 tra latesi per cui le intuizioni senza concetto sono cieche e la tesi percui il bello piace senza concetto.

5 A GBK 120 Ferraris scrive: «i concetti astratti, come ‘so-stanza’ e ‘scaturire’ (cioè ‘causa’), costituiscono semplici regoleper la riflessione; Kant ha dunque indebolito il ruolo del concet-to, rendendolo una mera funzione epistemologica, necessarianon per l’esperienza, bensì per la riflessione». Da un lato vorreiun chiarimento sul significato e i motivi di questo indebolimen-to; dall’altro, dubito che tale chiarimento sia possibile, perchéFerraris trae conseguenze sulla natura dei concetti puri da un ca-pitolo (KU § 59) che parla solo della loro esibizione (Darstel-

tra riflessione e determinazione, o nel nuovo concet-to di finalità che da molti punti di vista non è che lariformulazione delle idee regolative della Dialettica,dice cose che mi chiedo se non capisco o se hannomotivazioni che mi sfuggono. La prima su cui vorreirichiamare l’attenzione è una frase, che non è invo-lontaria perché viene ripresa dal Mondo esterno, se-condo cui nella Critica del Giudizio il giudizio deter-minante viene «sostituito» dal giudizio riflettente(GBK 131). Il mio sconcerto dipende dal fatto chepensavo si trattasse di una distinzione di ambiti e dipossibilità4, che come tale non viene cestinata ma ar-ricchita e affinata nel corso degli anni ’80 da Kant,che trova sempre più urgente occuparsi del giudizioriflettente e degli ambiti della sua applicazione. Noncapisco se Ferraris vuol dire che dal 1790 in poiKant abbandona tutta la scienza, o rende i suoi giu-dizi determinanti riflessivi quanto alla loro genesi, oche Kant si disinteressa di quello che ora non ha ache fare con estetica e teleologia5. Qui davvero si

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lung). Ma forse è proprio questa la risposta indiretta al mio que-sito di Ferraris, a leggere la conclusione del decimo capitolo diGBK: «la rivoluzione copernicana … è finita, dopo solo noveanni di vita» (p. 135).

6 V. p. 21: Kant non si pronuncerebbe sulla libertà, ma so-sterrebbe che è meglio crederci affinché il mondo umano abbiaun senso (sic).

sente la mancanza di un’approfondimento di un te-ma che messo così si configurerebbe comunque co-me un cambiamento incredibile in meno di tre anni(e non nove), dalla seconda edizione della Criticadella ragion pura (1787) alla Critica del Giudizio.

Tra le altre affermazioni che trovo sorprendenti,vi è quella secondo cui «è bene assumere che siamoliberi, altrimenti tutte le istituzioni e tutti i nostri vo-cabolari andrebbero trasformati» (GBK 1306). Dellafatica improba che fa Kant a proporre soluzioni di-verse della realtà della libertà, non ostensive o intui-tive ma comunque imprescindibili per la moralità,dalla terza parte della Fondazione al ‘fatto della ra-gione’ nella Critica della ragion pratica, non si rico-nosce non solo l’elaborazione concettuale, ma nep-pure il tormento soggettivo da parte di Kant, che ri-torna ossessivamente sul tema negli scritti pratici delperiodo perché vi ha individuato la chiave di voltadella morale. Analoga sorpresa suscita l’idea che ilnoumeno, perché inconoscibile, «è come se non esi-stesse» (GBK 140). Il fatto che il mondo morale nonrientri nella sfera dei fenomeni non significa che«non c’è proprio» (GBK 142) – a meno di attribuirea Kant una tesi forte sull’esclusiva accezione feno-menica ed empirica del concetto di realtà (Wirkli-chkeit? Realität? Dasein? Existenz?) che, alla luce

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del concetto di realtà pratica in Fondazione e Criticadella ragion pratica, non si vede come trovare, equindi a meno di rendere appunto un circolo vizio-so la critica della fallacia trascendentale. Che poi siconfonda la fonte intelligibile della volontà e il ter-reno d’applicazione della ragion pratica (virtù e di-ritto concreti, nei termini della Metafisica dei costu-mi) e si concluda che in Kant l’etica sia «senza mon-do» (GBK 144) perché si è preliminarmente svuota-to il mondo noumenico di contenuti e quindi lo si èdichiarato inesistente, mostra nuovamente un limiteserio della comprensione di Ferraris.

2. Matematica e conoscenza

Ma tutto questo non è centrale per l’argomenta-zione ferrarisiana, e quindi passo al secondo puntoed entro nel merito, iniziando dalla concezione dellamatematica che troviamo nell’interpretazione diFerraris. Che scrive: «La matematica non è una co-noscenza» (GBK 14). È noto che Kant sostiene an-che questo, cioè – sempre nelle parole di Ferraris –che «il conoscere nasce dall’incontro tra i concetti ele sensazioni» (ibid.). Ma da come si esprime Ferra-ris sembra che tra matematica e logica generale cisia pochissima, se non nessuna, differenza (pp. 48-9;v. 60), come quando dice che i giudizi matematicisono «soltanto pensieri» (60). Inoltre, il conoscerepollachôs legetai, si dice in molti modi. Nella Dottri-na del Metodo la matematica è una fonte illimitatadi sintesi a priori e una forma invidiabile di conosce-re (dove l’invidia è tutta della filosofia, che vi ravve-de ein glänzendes Beispiel di progresso delle cono-

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scenze) proprio per la sua libertà dall’esperienza.Resta che non è un conoscere empirico, ma che puòservire all’esperienza; anzi, è normativo per questa,come del resto rileva Ferraris per criticare la tesikantiana. Quello che soprattutto si tratta di sottoli-neare è che matematica e filosofia trascendentalecondividono proprio il tratto più importantedell’operare autonomo della ragione, i giudizi sinte-tici a priori. Senonché questi non danno mai cono-scenze empiriche direttamente, ma le orientano e re-golano. Allora concludere che per il filosofo trascen-dentale si incontrano per strada non solo pedoni eTrabant ma strutture come spazio, tempo, sostanzee cause non è corretto; non si incontrano proprio,ma rendono possibile un incontro sensato e ordina-to con quell’empiria che può essere ricondotta astrutture. Ma il problema è che appunto lo rendonopossibile; non lo rendono necessario. Su questo tor-nerò tra poco con l’esempio kantiano del selvaggio,e in conclusione con una nota su possibilità e realtà.

3. L’intuizione e la tesi degli schemi concettuali,che sono come degli occhiali (GBK 30), senza di cuigli occhi non vedono nulla. Già negli anni ’50Stephan Körner paragonò spazio e tempo ad oc-chiali che deformano ogni visione. Ferraris scriveche come le intuizioni senza concetti sono cieche,così «i concetti senza intuizioni sono vuoti» (GBK10, 83). La prima volta che insegnai la Critica dellaragion pura ai dottorandi di Boston University edesposi lo stesso principio mi fecero notare che in-correvo in quello che Ferraris chiamerebbe l’errorenietzscheano di imporre interpretazioni su fatti, co-

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7 V.E. CASSIRER, An Essay on Man, New Haven-London1944, p. 56.

me se esistessero alla fine solo interpretazioni e i fat-ti non fossero uno zoccolo duro, riottoso, irriducibi-le: qui, direbbe Hume, è la tentazione della simme-tria a fuorviare. Perché Kant dice «Gedanken ohneGehalt», nonostante quello che si legge nei miglioritra gli interpreti kantiani, financo in Cassirer7. Èun’annotazione pedante, me ne rendo conto; noncambia molto per le conseguenze dell’interpretazio-ne, ma se la nomino è per la sua funzione introdutti-va a quello che ci mette su strade opposte, appuntol’intuizione. Perché? perché Ferraris trova la veritàdell’intuizione nella sua assoluta passività e dipen-denza dal concetto, sicché per lui l’essenza dell’in-tuizione è di essere cieca, e basta. Se senza concettile intuizioni sono cieche, non è che non si diano osiano impossibili o incomprensibili, sono solo in-comprese, cioè appunto non ancora comprese. Equi allora mi domando: perché cieco equivale ad ir-razionale per Ferraris? e perché Ferraris riduce laricchezza dell’intuizione kantiana a quel passo? e ingenerale perché, senza distinguere tra puro e empi-rico, riduce tutte le intuizioni di cui parla Kant adun’intuizione sensibile pura, di cui poi conclude chenon esiste (GBK 147)? Mi chiedo perché il semplicefatto che Kant dica che anche l’immaginazione è cie-ca e involontaria e ne siamo solo raramente consa-pevoli non spinge Ferraris a smussare o rivederequesta tesi e a concludere (1) che non è vero chetutte le rappresentazioni sono consce, (2) che l’im-maginazione, che sta dalla parte della sensibilità ma

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è ben attiva, fornisce un esempio ulteriore di funzio-ne attiva eppure non intellettuale, o comunque pre-discorsiva, (3) che l’intuizione appunto non è intera-mente passiva, ma anzi è una forma di organizzazio-ne del molteplice intuitivo che non solo precede, maè del tutto indipendente dal concetto. Ferraris po-trebbe ribattere, o almeno così direi io, che è Kantche oppone la passività del senso all’attività dell’in-telletto, ed è lui il responsabile primo di questa con-fusione. D’accordo; ma credo che di fronte a certetensioni nel testo occorra uno sforzo di interpreta-zione, più o meno caritatevole, e non una decisionepreliminare. Forse sono eccessivamente irenico econciliante, ma a meno di intendere l’Estetica comeuno sforzo preliminare improntato a dicotomie as-solute che poi vengono parzialmente revocatenell’Analitica, la Deduzione trascendentale, la sinte-si figurata, l’autoaffezione e lo schematismo risulta-no intimamente contraddittori.

Cosa intendo, e perché dico che nei miei scrittikantiani io traggo conclusioni opposte a quelle diFerraris riguardo agli opposti incongruenti, allemacchie di Koehler e agli esperimenti di Kanisza(GBK cap. VI)? A me sembra che con la dissocia-zione di estetica e logica Kant riconosca, anzi, ci aiu-ti a capire, che nella percezione visiva, per stareall’esempio ferrarisiano delle macchie dotate di «sta-bilità, forma, colore, grandezza e rapporti spaziali»(così vengono giustamente compendiate le macchiedi Koehler a ME 54), ci sono due momenti indipen-denti, l’intuizione della figura individuale dell’ogget-to spaziale che si basa su una organizzazione dellospazio (nella fattispecie visivo), e l’interpretazione o

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identificazione che riconduce il primo momento alsuo significato. Non solo i due momenti sono indi-pendenti per Kant e si possono presentare anche co-me irrelati; importante è che lo sono proprio perchénel primo momento devo poter identificare formeinvarianti in uno spazio visivo in cui le colloco senzaricorrere a concetti, senza quindi sussumerle in giu-dizi determinanti. Quindi l’intuizione spaziale carat-terizzata così è attiva, non passiva, e non dipende dalconcetto di macchia, o da quello che la macchia rap-presenta, e tantomeno dal concetto puro di sostan-za. Qui l’identificazione ha luogo solo a livello intui-tivo; può poi essere la base intuitiva di un riconosci-mento e sussunzione concettuale, ma anche non es-serlo. In altre parole, i rapporti e le posizioni spazia-li non sono comprensibili solo in base a concetti(come si legge a GBK 80-1 e ME 54), ma ne sonointeramente indipendenti. E questo non lo dice Ka-nisza soltanto (per menzionare una delle autorità cuisi appella Ferraris), ma anche Kant. Dove? E conche argomentazioni? Quando prende lo spazio co-me forma, ciò non va inteso in contrapposizione acontenuto, ma a materia. La forma dello spazio èanzi il contenuto o oggetto dell’intuizione pura, cheè intuizione di una diversità o molteplice puro; eKant lo indica quando dice che la sensibilità è fontedi conoscenze a priori (A 39/B 55), quindi nonun’astratta condizione di possibilità cui si arrivi re-gressivamente e analiticamente ma la concretissimagenerazione di relazioni d’ordine non concettuali (A20/B 34 – e a questo riguardo va riconosciuto cheha ragione Heidegger). Allora spazio e tempo nonsono solo le forme della nostra apprensione di og-

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getti, condizioni formali, vuote e inerti; ci danno an-zi un molteplice puro a priori, e con quello relazioniche possono poi essere le relazioni che intercorronotra oggetti empirici, ma ne sono comunque indipen-denti. Dico che possono esserlo ma non lo sono ne-cessariamente perché questo è l’argomento kantianoche fonda la purezza e l’apriorità della geometria.

Vorrei aggiungere due parole sullo spazio e gli in-congruenti. Penso che Ferraris sbagli a dire che lospazio deve avere un colore qualsivoglia (GBK 89),il che mostrerebbe l’originarietà dell’oggetto rispet-to all’intuizione: l’intuizione pura dello spazio èun’intuizione di rapporti e in quanto tale indipen-dente dagli oggetti, inclusi i colori che vi si trovano.Nell’apriorità dello spazio non si tratta di prioritàtemporale, ma di indipendenza concettuale o essen-ziale. Ho l’impressione che Ferraris non tenga abba-stanza separati spazio puro – vuoto, indifferente, co-me dice lui una sorta di foglio di carta – e spazioempirico; ad esser più preciso, poiché uno spazioempirico per Kant non esiste, il problema è che Fer-raris non riconosce né l’apriorità né la purezza diquell’intuizione che è lo spazio.

Così, ritenere che Kant non dovrebbe neppureessere in grado di riconoscere l’identità tra figurenon sovrapponibili, quali mano destra e sinistra, eche avvertire delle figure come simmetriche «nonsarebbe possibile se la nostra geometria fosse soltan-to euclidea» (ME 34), ho l’impressione si basi suuna concezione di nuovo restrittiva dello spaziogeometrico euclideo. Anzitutto, Ferraris sembra ri-tenere lo spazio geometrico di cui parla Kant unospazio omogeneo piatto, indifferente al punto di os-

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servazione. Ora, né Euclide, che negli Elementi siponeva il problema di destra e sinistra, né Newton,che nell’esperimento del secchio teneva conto delverso dello spazio, avevano in mente uno spazio pri-vo di orientamento – ma per Ferraris è come se nelloro spazio non ci fosse un osservatore, un punto divista. Opporre spazio geometrico e spazio vissuto èuna falsa dicotomia, almeno nelle intenzioni diKant, che usa gli incongruenti dal 1768 al 1786 incinque opere diverse con intenti simili (a parte ilprimo esempio, la prova dello spazio newtonianonel 1768, che già dopo due anni viene lasciato cade-re): lo spazio è orientato, a partire dal corpo intesocome un centro ideale di assi ortogonali, e quindicome la fonte delle tre distinzioni elementari destrasinistra, alto basso, e davanti dietro. Il corpo è, neitermini di Husserl in Ideen II e Ding und Raum, ilgrado zero dell’orientamento; senonché poi Husserlarriva allo spazio che lui chiama copernicano per ci-nestesi e progressiva idealizzazione, oggettivazione edecentralizzazione a partire da uno spazio origina-riamente bidimensionale, lo spazio del campo visi-vo, mentre Kant al contrario ritiene ugualmente ori-ginari, perché indistinguibili, lo spazio geometrico equello vissuto. Così come ritiene omogenei, perquanto non identici, lo spazio delle immagini men-tali e quello esterno.

Ha quindi ragione Ferraris ad opporre Kant aHusserl, e riguardo allo spazio delle immagini men-tali a ribadire (GBK 99-100) la tesi che troviamo inEsperienza e Giudizio; ma, tra tutti i fisiologi fine‘800, più che a Stumpf (e alla tesi secondo me fuor-viante e confusa per cui lo spazio è inestricabilmente

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connesso alle qualità sensibili in esso presenti), cuiHusserl si richiama come Ferraris, io avrei fatto ri-corso a Helmholtz come critico della tesi per cui lospazio è intuizione e non concetto sulla semplice ba-se della decisione arbitraria di partenza delle equa-zioni che determinano la curvatura dello spazio (aquesto Ferraris fa solo un fugace accenno in ME 36).

Scrive Ferraris: nell’interpretazione di una figurasenza senso, «dove manca una categoria preesisten-te, la deformazione diviene inevitabile. Ora, si trattadavvero di prove del fatto che le intuizioni senzaconcetto sono cieche? O non piuttosto del fatto chei concetti possono intervenire nelle intuizioni? Chia-ramente, vale la seconda … mentre per Kant … lasfera del visivo risulta totalmente determinata dalconcettuale. Il che, chiaramente, non è vero» (GBK79). Mi colpisce e stupisce molto questo passo. Ioavrei detto che la seconda era anche la strada diKant. Ma non dovrebbe sorprendermi più di tanto,perché mi pare compendi bene la posizione di Fer-raris, motivo per cui l’ho citato per esteso.

Innanzitutto direi che se le intuizioni sono impos-sibili senza una sintesi, sono perfettamente possibilisenza concetti, come si vede dai tre casi dei giudizidi percezione, delle intuizioni formali spazio-tempo-rali, e dei giudizi estetici. In questo senso non capi-sco perché Ferraris interpreti il passo sulla sinossidel senso dalla Deduzione A come «una non megliospecificata funzione anteriore alle tre sintesi che for-nirebbe un quadro generale del mondo primadell’intervento delle categorie» (GBK 115, ME 54);probabilmente è il riferimento alla totalità nella fra-se precedente del testo kantiano che gli suggerisce

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8 Si veda la traduzione italiana (I. KANT, Logica, a cura di L.AMOROSO, Bari 1984) a p. 27. Sul problema v. anche le Reflexio-nen tradotte e commentate da C. LA ROCCA in «Come sono pos-sibili i giudizi sintetici aposteriori?», in ID., Soggetto e mondo, Ve-nezia 2003, 142, n. 82 (e passim).

questa lettura, mentre a me sembra che Kant parlidella sintesi dell’intuizione precedente i concetti, co-me nella famosa, oscurissima e contraddittoria notaa B 160-1.

Comunque sia, siamo finalmente alla famosa De-duzione A con le sue tre sintesi. A me pare che le tresintesi conducano Ferraris alla sua conclusione soloperché le prende in blocco; a me viceversa sembra sipossano avere senza che la consecuzione sia richie-sta come inevitabile e normativa. Un esempio: possoavere una sintesi dell’apprensione nell’intuizionesenza riproduzione nell’immaginazione e ricognizio-ne nel concetto se mi si mostrano per un attimo lemacchie di Koehler, che non sono in grado di ripro-durre benché le abbia intuite. Posso poi avere unasintesi di intuizione e immaginazione senza avere unconcetto. E questo dove lo trovo? Nell’esempiokantiano del selvaggio che vede una casa senza aver-ne mai incontrate prima nella Logik Jaesche8. Il sel-vaggio ha un’intuizione della casa, e ciò significa chepuò anche riprodursela nella mente o sul foglio, manon sa cos’è; ha quindi le prime due sintesi senza laterza (esattamente come, nell’esempio che Ferrariscita come prova del limite della teoria kantiana aGBK 68, chi alza gli occhi al cielo in Metropolis eesclama «It’s a bird! it’s a plane! it’s Superman!»). Ilselvaggio non è in grado di sussumere e riconoscere

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9 Kant e l’ornitorinco, Milano 1997, p. 54.

l’intuizione come significativa, perché non ha il con-cetto empirico di casa che hanno gli occidentali. Perquesto quando Umberto Eco si sofferma sull’ornito-rinco come se dovesse rappresentare un problemaper lo schema, e intende questo come un tipo cogni-tivo già noto, costruisce una difficoltà ad arte, per ilsuo effetto amplificatorio di un tema (un’esperienzainedita, o i concetti dell’esperienza quotidiana, che,lamenta Eco, almeno sino alla Critica del GiudizioKant «appare straordinariamente disinteressato achiarire»9) che a Kant è altrettanto conosciuto (an-corché non direttamente centrale per la filosofia tra-scendentale) che a Eco o Peirce. Allora, per ribalta-re la parafrasi di Ferraris («Il problema non è l’orni-torinco. È Kant», ME 25), se il problema non è l’or-nitorinco, non è neppure Kant; perché Kant è ingrado di spiegare che io incontri una cosa nuova e laassimili nella mia esperienza.

Come faccio? E qui la cosa diventa interessante,perché se manco del concetto empirico di casa, nonnecessariamente manco del concetto puro di sostan-za o quantità o causa. Detto altrimenti, il selvaggiopuò girare intorno alla casa, ma difficilmente igno-rerà la sua solidità, la funzione causale della durezzadelle mura in un possibile urto cinetico, e non deci-derà di sapere di più sui costumi degli occidentaligettandosi a capofitto contro il muro. Cosa vogliodire? Che il concetto empirico viene costituito arbi-trariamente con selezione di tratti significativi e di-scriminanti; ma questa costituzione è resa possibileda un concetto sovraordinato al concetto di casa che

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è il concetto dell’oggetto in generale. Qui, e soloqui, per rendermi possibile questa formazione delconcetto empirico, possono intervenire le categorie,che non determinano nulla della mia esperienza par-ticolare se non una rete possibile di senso. Ma se so-no folle, o se il selvaggio ritiene che la casa possa im-provvisamente volatilizzarsi, squagliarsi, non avereun interno e un esterno, abbiamo un caso in cui l’in-tuizione è interamente e per principio dissociatadalla categoria (e dai concetti della riflessione), chenon fornisce più nessun principio di ordine e regola.Si vede dunque che non c’è nessun sapere, nessunaconoscenza che renda possibile l’intuizione, al con-trario di quanto asserisce Ferraris. In questo senso,in questa indipendenza reciproca di intuizione econcetto, continua a valere il principio antileibnizia-no, senza che per questo dobbiamo concluderne chel’intuizione dev’essere opposta al concetto comel’assoluta passività all’attività pura.

Se preso sul serio, ciò inizia a mettere in questioneil principio ferrarisiano per cui Kant capovolgerebbela prospettiva humeana: anziché far dipendere lascienza dall’esperienza, concludendo alla mancanzadi necessità, Kant baserebbe la certezza dell’espe-rienza sul fatto che è fondata a priori dalla scienza.No: è perfettamente possibile avere un’esperienzasenza scienza, senza sapere concettuale. E quindinon è che l’esperienza venga riportata alla scienza,perché le categorie rendono possibili entrambe, e inmaniera separata e distinta. Così, quando sostieneche se sapessimo davvero quello che facciamo ci ren-deremmo conto che un’infinità di calcoli ha luogonella nostra testa quando tiriamo un sasso (ME 30),

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a me sembra che Ferraris parli forse di Leibniz, macerto non di Kant.

Ho parlato dello spazio; del tempo vorrei solo se-gnalare una cosa. Io sono spesso tentato di concor-dare con l’ispirazione aristotelica, se non trendelen-burghiana o hegeliana, della apriorità del movimen-to rispetto al tempo che Ferraris mette in rilievo(GBK 92, ME 41). Però mi colpisce l’identificazionetra tempo e Io operata da Ferraris; mi chiedo se siauna svista oppure una scelta intenzionale, perchéovviamente come sanno i lettori l’Io penso non ètemporale, e solo il senso interno è intriso di tempo-ralità. A questo proposito mi colpisce un’altra cosa,il fatto che Ferraris salti una modalità nella sua di-scussione dell’Io penso. Lascia cadere il ‘poter’(GBK 59, 93, 98, ME 39) dal principio per cui l’iopenso deve poter accompagnare le mie rappresenta-zioni, e conclude che le rappresentazioni per Kantsono tutte consce, escludendo qualsiasi latenza(GBK 99). Si pensi all’immaginazione, come dicevoprima (o all’infinità di calcoli matematici operantinella mia testa di cui diceva Ferraris stesso, che mipare qui contraddirsi), e già mi pare che questa tesivada rivista. Ma mi fermo qui con questo punto,perché so che altri interventi in questo volume vi sisoffermeranno.

Passo a un ultimo dettaglio, meno essenziale.Quando Ferraris si riferisce all’illusione di Müller-Lyer sulle due linee che sembrano di lunghezza di-versa ma sono in realtà uguali, lo prende come unprincipio estraneo a Kant, se non antikantiano(GBK 74 sgg., ME 44-6). La storia di sensazioni checontinuano ad apparire diverse da come in realtà

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sappiamo dovrebbero essere va da Eraclito e Plato-ne, dal bastone che sembra piegato se immersonell’acqua, al sole che sembra, dice Aristotele, largoun piede, e prosegue con numerosi altri illustriesempi. Qui la ‘doxa antifêsi tên fantasian’ (De in-somn. 460b 16-20), dice Aristotele, cioè la nostracredenza contraddice l’impressione o immagine checi facciamo dell’oggetto. Mi chiedo se Ferraris haconsiderato il passo kantiano sull’illusione trascen-dentale (B 353) in cui Kant sostiene, in modo similead Aristotele, che la facoltà di giudicare è fuorviatadall’immaginazione.

4. Schematismo

A GBK 56 Ferraris scrive che l’immaginazione è«creativa». Di nuovo non capisco perché Ferrarissostenga questa tesi, e cosa crei l’immaginazione.Per Kant produttivo e creativo sono concetti moltodistanti, soprattutto riguardo all’immaginazione(che nel primo caso produce apriori determinazionidel tempo, quindi opera al servizio dell’intelletto epertanto è normativa, nel secondo né opera al servi-zio dell’intelletto né può essere indirizzata, o deter-minata intellettualmente). Ferraris scrive inoltre chelo schematismo ha «giustificazione psico-fisiologica»(GBK 108, e 116), e risponde ad una quaestio facti(GBK 117). Di nuovo vorrei sapere perché; nonperché si tratti di una tesi insostenibile a livello criti-co, ma perché mi sfugge come Ferraris sostanziereb-be in dettaglio la sua analisi, e su questo punto deci-sivo lo trovo più laconico di quanto lui rimproveridi essere a Kant.

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Il monogramma non è una silhouette (come silegge a GBK 119) perché è un procedimento, ed èpuro; vale a dire che Kant non ripete quello che lacritica berkeleyana individua come l’errore di Lockedell’idea generale. Per Ferraris lo schema del canemi permette la possibilità di risalire al cane empiricoma non di ridiscendere ad esso – di sussumerlo, manon di costituirlo (GBK 119). Per questo sarebbepreferibile parlare di processo di esemplificazionepiuttosto che di metodo di costruzione (GBK 120).Ha ragione qui Ferraris? Sì e no. Sulle difficoltà del-lo schema del cane ho le mie idee, ma per discuterespecificamente le sue direi che ‘costituire’ ha un’ac-cezione ambigua. È evidente che non ho un concet-to né uno schema innato di cane; se Kant cionono-stante si ostina a parlare di costituzione dello sche-ma del cane è perché l’ qui, ancora una volta, non vainteso in senso temporale. E anche in questo ritengoche Kant sia il primo responsabile della confusione,ma che proprio per questo attribuirgliene di ulterio-ri, come fa tanta letteratura secondaria, equivalga adascrivergli idee balorde.

Perché è Kant il primo responsabile? perché siesprime a volte come se l’ non fosse soltanto ciò cheè assolutamente indipendente da ogni esperienza (co-me viene definito a B 2-3), ma anche ciò che precedeogni esperienza (ad es. B XVII-XVIII, e A 159/B198). Ma se dovessimo intendere l’ in senso tempora-le, come se designasse le conoscenze che possiamomaturare non indipendentemente dall’esperienza maprecedentemente ad essa, il testo ci rimarrebbe oscu-ro, e l’intento kantiano ci sfuggirebbe. Se tra cono-scenza e conoscenza empirica avessimo una dicoto-

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mia, dovremmo forse meravigliarci di più di quantofacciamo regolarmente dell’ottusità del programmatrascendentale, che non solo non è in grado di spie-gare l’esperienza comune, ma diventa del tutto in-conciliabile con quella. Non si capirebbe, in altre pa-role, perché Kant scriva che «l’intuizione empiricasottostà ad un’intuizione sensibile pura, che ha luo-go» (sic, B 144: l’ è l’ dell’empirico, non ciò che pre-cede l’esperienza, come si vede); e soprattutto non sicapirebbe perché «è soltanto dei fenomeni che pos-siamo avere un’intuizione» (B 151). Se «la forma pu-ra delle intuizioni sensibili … si troverà a priorinell’animo» (A 20/B 34), allora questo non va intesocome se fosse l’attribuzione al soggetto trascendenta-le di una versione depurata del termine sospetto, manon dei suoi connotati egualmente pericolosi, di in-natismo. Ha qui luogo piuttosto uno sdoppiamento,interno ad ogni intuizione e conoscenza sensibile, traciò che è e ciò che dipende dall’esperienza; l’ è ilprincipio d’ordine del sensibile, l’attività di unificareil molteplice che non può derivare dalle cose. Conquesto sta o cade la sintesi, la conoscenza pura, e l’in-tera filosofia trascendentale. Come si vede dalla lette-ra del testo kantiano, anche di un ornitorinco esperi-to per la prima volta allora avrò delle conoscenze,che hanno a che fare con la sua forma e il mio mododi apprenderla, ma che non sono nulla più che leoperazioni intuitive e intellettuali con cui lo esperi-sco: delle attività, non delle dotazioni inerti a cui ri-salgo solo quando decido di individuare la fonte ulti-ma delle conoscenze.

Non vorrei divagare e attribuire a Ferraris inten-zioni che in realtà erano forse solo quelle di un mio

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io precedente, che come Ferraris era partito dallaproblematicità degli schemi di concetti empirici edal desiderio di tenere distinte costruzione e costitu-zione. Per rivolgermi senz’altro a Ferraris e al suoesame dello schematismo, quando si limita a preferi-re semplicemente la versione della Critica del Giudi-zio per cui i concetti empirici vengono sensibilizzatitramite esempi alla versione dello schematismo dellaCritica della ragion pura, Ferraris ignora, cioè trascu-ra e tratta come irrilevante – mirabile visu, in unamico di Derrida – tutta la questione dell’autoaffe-zione e dell’iscrizione nel senso interno della tracciaconcettuale.

Non mi vorrei dilungare troppo sullo schemati-smo, che continua a sembrarmi il punto più difficile,e riguardo al quale tra l’altro si trovano in GBK sug-gestioni acute e originali. Mi limito a dire che a mesembra che lo schematismo, qualunque cosa se nevoglia pensare e pur con tutta la sua oscurità e i suoiproblemi, metta a nudo una questione centrale: ilrapporto funzionale tra spazio e tempo (oltre ovvia-mente al rapporto di questi con l’io) che nell’Esteticaerano esaminati in assoluta separazione e indipen-denza. Così, sostenere, con Ferraris, che Kant avreb-be dovuto limitare l’intervento o l’applicazione deltempo agli eventi soltanto (GBK 93) equivale a igno-rare questo rapporto funzionale; perché quello cheha in mente Kant è una forma di traduzione da tem-po a spazio e viceversa, che vale tanto nell’apprensio-ne soggettiva di una casa nella forma di una grandez-za estensiva in cui ripercorro successivamente ciòche rimane dato come un tutto che di suo non è in-trinsecamente temporale, quanto nell’arrestare una

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sequenza o successione in una coesistenza, che è ciòche succede con le immagini in generale. Si pensi alquadro di Degas che cattura un momento nella corsadei cavalli e arresta il flusso del tempo in un mediobidimensionale, o a una qualunque foto di oggetti inmovimento, o al tempo diventato spazio di cui parlaProust alla fine della Recherche, quando il tempo halasciato il suo segno sui volti degli invitati all’ultimafesta dalla duchessa di Guermantes cui partecipa ilnarratore, volti che inizialmente stenta a riconoscere.

In ME (p. 61) Ferraris lamenta che gli schemi di-fettano di dimensione e movimento; ho l’impressio-ne che qui richieda troppo allo schema, come se fos-se la mappa di Borges (GBK 45: una sorta di dupli-cato e non un’abbreviazione, che, se è superiore infedeltà, diventa immediatamente superfluo), mentreè una guida ad una semplificazione (e sicuramentenon una qualità gestaltica, come sostiene ME 64).

Penso che alla fine Ferraris possa aver ragione:può darsi cioè che gli schemi siano superflui; di cer-to si tratta di una soluzione ingegnosa ma macchino-sa, cui per molti è difficile non preferire la sempli-cità dell’intenzionalità di Husserl, o del nous aristo-telico. Gli schemi mediano tra la concettualità e ilmondo inteso come estensione soltanto, come ci ri-corda Ferraris quando sottolinea che per Kant glischemi hanno valenza soprattutto figurale. Si po-trebbe dire che anche in questo Kant rappresentil’interpretazione più conseguente – il compimento,si diceva una volta – della rivoluzione scientifica.Dagli scritti di Leonardo sul disegno alla Diottrica diCartesio il privilegio accordato alla figura è prepon-derante, e si radica, come sappiamo, nella distinzio-

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10 In estrema sintesi, non capisco se a permanere nella suc-

ne tra qualità prime e seconde.A questo proposito vorrei offrire un’osservazione

relativa a quello che dice Ferraris riguardo ai coloricome oggettivi (GBK 141). Io non ho mai difeso lafilosofia moderna sulle qualità secondarie; per me èuna sciagurata semplificazione gravida di conseguen-ze nefaste a livelli diversi. E tuttavia, per usarel’esempio di Ferraris, nel buio pesto della notte scon-trandomi con la sedia l’alluce si fa male, mentre il co-lore dello sgabello non si vede. Allora, pur non se-guendo Locke, rileverei che forse non è un’idea deltutto peregrina dire che alcune proprietà sembranopiù intrinseche all’oggetto di altre. Resta che anchequi Kant si esprime in modi sia estremi che inconci-liabili (un contrasto che Ferraris stesso rileva a GBK86-7): a KrV B 45 dice che i colori sono mere modi-ficazioni soggettive, ma nella fase più centrale dellaDeduzione A (A 101) tratta improvvisi mutamentinel colore del cinabro come segni di un mondo folle(ein Gewühl) privo di ogni ordine e oggettività.

Sempre pensando alla rivoluzione scientifica, enella fattispecie alla disputa tra Cremonini e Galileosulla relativa priorità di sostanze e movimento, michiedo se effettivamente Kant sia soltanto un «rivo-luzionario giudizioso» (GBK 40) quando riformulail problema della sostanza; a me sembra profonda-mente rivoluzionario, se sostanza non è più il sostra-to individuale ma viene ora intesa come il termine diuna relazione pura (il permanente che fa da sfondoal mutevole). Devo ammettere che io non capiscobene cosa intenda Kant per sostanza10, quindi non

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cessione sia (1) il «tempo come tale» (A 183/B 226, di cui Kantnelle pagine sulla permanenza sottolinea l’alterità rispetto altempo come successione e rispetto alla nostra apprensione deifenomeni nel tempo, che è sempre successiva) o (2) la materia,come si evince da A 185/B 229 (la materia o sostanza permane,solo la sua forma muta). Per la prima tesi: ad A 183/B 226-7 silegge che il mutamento concerne i fenomeni nel tempo mentre apermanere è appunto il tempo stesso come un tutto che, non po-tendo esser percepito in se stesso, costituisce il sostrato di tuttele determinazioni temporali del fenomeno – sostanza sarebbe«nei fenomeni … il sostrato che rappresenti il tempo in genera-le» (A 182/B 225). Se questa fosse la soluzione, non solo richie-derebbe parecchio lavoro esplicativo sul rapporto tra questotempo e il tempo definito come forma del senso interno, ma por-rebbe anche un problema non da poco sulla discrepanza tra lasuccessione – intuibile – e la simultaneità che definisce il «tempoin se stesso» (A 183/B 226), il quale sembra altrettanto poco in-tuibile che il sostrato permanente dei fenomeni che lo dovrebberappresentare (cosicché il «tempo in se stesso» non sarebbe piùun’intuizione, ma un concetto). Per la seconda tesi: se a perma-nere è viceversa il reale del fenomeno il cui quantum nella naturanon viene né accresciuto né diminuito, come Kant scrive nellaprima analogia (A 182/B 224), e se, come leggiamo nella Confu-tazione dell’idealismo, solo la materia può essere il permanentealla base del concetto di sostanza (B 278), si pongono probleminon meno gravi: poiché i fenomeni sono tutti essenzialmentemutevoli, cosa può mai essere una sostanza che appare, la sub-stantia phaenomenon (A 277/B 333)? E relativamente a qualecontesto di riferimento va inteso il permanente? È un permanen-te relativo o assoluto, cioè è ciò che permane rispetto a ciò chemuta o ciò che permane in ogni tempo? Se ogni mutamento vacompreso sullo sfondo di un permanente, e per questo la sostan-za è una relazione, la sostanza rischia di essere, alternativamente,o un’irrealtà – un concetto funzionale potenzialmente arbitrario,giusta A 277/B 333 –, o al contrario un dato residuale metafisico:

mi sento in condizione di biasimare le critiche diFerraris a questo proposito. Ugualmente vorrei se-

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cioè o una sorta di postulato metodologico (B 278: la permanen-za «non è ricavata dall’esperienza esterna, ma presupposta apriori come condizione necessaria di ogni determinazione tem-porale», laddove posso presupporre una condizione qualsivogliapurché funga da sfondo permanente), oppure un’unica sostanzaassolutamente immutabile e identica a se stessa. Nel primo casosostanza non identificherebbe positivamente un contenuto e re-sterebbe un concetto puro; se ciò è compatibile quindi conl’Analitica, proprio per questo però sostanza dovrebbe esseresoltanto una regola meramente funzionale per l’intelletto, e quin-di non si vedrebbe come possa stare per una totalità (sia essa iltempo o la materia) né come possa rappresentare il sostrato deifenomeni. Nel secondo, avremmo un singolare caso di spinozi-smo (e con questo un’idea della ragione, e non più un concettopuro dell’intelletto) nel culmine dell’argomentazione che perKant deve poi fondare le analogie dell’esperienza e indiretta-mente i principi della scienza della natura dei Metaphysische An-fangsgründe der Naturwissenschaft (il fatto che poi nella Dialetti-ca Kant si sia dichiarato esplicitamente contrario a questa secon-da lettura – A 414/B 441 – perché nella sostanza la ragione nonfonda un regresso verso le condizioni non può sorprendere, ladomanda è piuttosto se riesce a fugare i dubbi). In entrambi i ca-si, infine e comunque, si vorrebbe capire come il permanentepossa essere utile alla percezione del mutamento (A 188/B 231).

gnalare una tensione che mi pare sottenda alla sualettura, quella tra l’idea di sostanza come gli elemen-ti atomici «nella tavola periodica» (GBK 102), cioèla materia (sostanza è «caratterizzazione chimica efisica», 103), e gli individui (o oggetti: il cane, GBK104). A questo proposito chiederei un chiarimento aFerraris. Ma gli chiederei anche di non sentirsi delu-so se il concetto puro non cattura gli individui(GBK 121), perché Kant è il primo a sapere che ciòsarebbe chiedere troppo (del resto neppure il con-cetto empirico cattura l’individuo); la Deduzione

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11 Presentazione di G. CONTINI, Milano 1963, rist. 1995, p. 315.

(che non dimostra affatto «che le categorie dellamente rendono possibile il mondo», GBK 56) ambi-sce ad un risultato ben più modesto, poiché mostranelle intenzioni di Kant che i concetti puri hanno unriferimento solo indiretto – ma appunto fondato –all’esperienza, sicché non è possibile esibire empiri-camente i concetti puri.

5. Su possibilità e realtà

Nel Mondo esterno (p. 29) Ferraris scrive: Kant«esclude il possibile dalla sfera del’ontologia…, e[ne] restringe l’ambito… al reale, … al sensibile, percontrapposto al possibile». Mi sembra strano cheFerraris non discuta mai la distinzione kantiana trapossibilità logica, possibilità reale e realtà empirica.È di possibilità reale che si parla nella Critica dellaragion pura, non dell’empiria, come Kant ribadisceanche nella risposta a Eberhard; ed è solo su questache si può esercitare l’unica sintesi a priori di cuisiamo capaci. A volte si ha quasi l’impressione cheFerraris, che pure spiega molto bene la critica kan-tiana al concetto leibniziano di possibilità, non di-stingua tra realtà e possibilità dell’esperienza.

Riguardo a possibilità logica e reale vorrei con-cludere con un passo di un autore che so che Ferra-ris ama, che mi sembra suggellare e parodiare uncerto modo, tutto prekantiano, di concepire il realecome precipitato del possibile. La citazione è daGadda, Accoppiamenti giudiziosi11:

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“I fatti nuovi erano maturati e caduti nella realtà dellacognizione comune, quella cognizione ovvero consapevo-lezza che certi filosofi chiamano appunto ‘il reale’ per me-glio distinguerlo dallo strascico delle loro private farneti-cazioni, quasi concedendogli un diritto di pallida cittadi-nanza ‘dans le domain de l’esprit’: eran caduti, caduti,spiccandosi, dure pere, dall’albero di natale d’una prece-dente sospensiva, denominata ‘il possibile’.”

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