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ELISABETTA NEGRI MIRAGLIA I poeti amici di GIOVANNI MELI Saggio storico-critico PALERMO

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ELISABETTA NEGRI MIRAGLIA

I poeti amicidi

GIOVANNI MELI

Saggio storico-critico

PALERMO

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PREFAZIONE

Mentre insulsi verseggiatori, tragedi plateali, pittori imbrattatele, statuari volgari, mediocri di tutti i tempi, hanno trovato non di rado ferventi panegiristi che ne hanno portato al cielo l’arte che non avevano e ne hanno narrato la biografia nei particolari piu oziosi, la vita del massimo poeta siciliano, alla distanza di un solo secolo, s’è trovata avvolta in un’aura di mistero e di leggende, che fa pensare, se pur in un’analogia lontana, ai miti che circondano gli antichissimi nomi di Orfeo, Lino, Musèo, e i creatori delle grandi epopee di India e di Grecia.I nostri avi non neglessero il Meli nel senso proprio della parola. Essi conobbero le sue poesie, le amarono perchè rispondevano alla natura della loro anima siciliana: ogni dama fu orgogliosa di farle trascrivere nel proprio album, mentre sulle labbra del popolo favole e canzonette fiorivano liberamente.Ma, paghi della grandezza e della sfolgorante bellezza dell’opera, essi non curarono la raccolta dei particolari della vita e, tanto meno, essi che l’avrebbero potuto, il controllo di quei dati che apparivano inesatti e contradittori. Il poeta ecclissò l’uomo.Se qualche eccezione vi fu, rimase voce isolata e l’oblivione la coprì.Così inedita e dimenticata giacque a lungo la biografia che, schematica ed incompleta, scrisse nel 1797 Giovanni D’Angelo, abate di Mandanici e segretario del Buon Gusto1.Poca importanza ebbero anche le notizie che nel 1825 stampò Giovanni Selvaggio.Più immeritamente fortunata fu invece la biografia data alla luce da Agostino Gallo, dapprima nel “Passatempo per le dame2,, e poi più ampliamente nella pubblicazione che intitolò: “Biografia di Giovanni 3333,, perchè ad essa

1 Questa biografia è stata pubblicata nello stesso anno da Edoardo Alfano -Biografia di G. M. composta da G. D’Angelo, Palermo 1915 e da Arturo Insinga - Pubblicazione di un ms. inedito intorno a G. M. Palermo 1915.2 Palermo 1835 n. 40.3 Palermo, Solli 1857. È stata riprodotta da E. Alfano nella sua ediz. delle Opere poetiche del Meli,

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attinsero sempre ogni biografo posteriore e ogni editore delle poesie.Ma il Gallo, che si vantò di essere un familiare del poeta, pubblicò in proposito troppo poco; non solo, ma, non curando l’accertamento dei fatti, nè quello delle date, tramandò una quantità di inesattezze, onde a buon diritto si può dire che, se a lui si dovevano i pochi cenni conosciuti sulla vita del Meli, a lui risalivano anche tutte le leggende ripetute ancora dai biografi sino a qualche ventennio fa.Verseggiatore, giornalista e studioso di tendenze enciclopediche, il Gallo difetta in genere di indagine critica; preoccupato solo di ammassare un enorme materiale di notizie, rimaste inedite la più parte, su ogni campo dell’attività umana: storia, poesia, statuaria, narra con la stessa buona fede la vita di Domenico Scinà, come quella della mitica Mina siciliana.Inoltre, se la sua testimonianza per la vita degli altri suoi contemporanei può essere sino a un certo punto attendibile, riguardo al Meli egli fu preso dalla debolezza comune a tutti i mediocri che vivono nell’aureola dei grandi: egli volle esaltarne in ogni modo la figura, esagerando le luci e tacendo delle ombre e in quella luce immerse se stesso per associarsi inseparabilmente alla memoria del sommo.

** *

Dopo quasi un secolo dalla morte del Meli, le scarse notizie dal Gallo si tramandavano ancora con gli stessi errori, le stesse contraddizioni ed incertezze.Un movimento di risveglio segnarono i lavori dei Professori Giuseppe Pipitone Federico4 e Giuseppe Navanteri5, un ottimo contributo ha portato poi coi suoi Opuscoli l’Avv. E. Alfano, che ha potuto avere tra le mani preziosi documenti e che ha raccolto in varie edizioni le opere poetiche del grande6.Ma quegli che ha segnato una vera rivoluzione nel campo

Palermo, 1909 pp. XXI-XLVII.4 Giovanni Meli - I tempi; la vita; le opere - Palermo Sandron 1898.5 Studio critico su G. Meli - Palermo Reber 1904.6 E’ giusto che tra i recenti studiosi del Meli si ricordi anche il nome dell’avv. Gaetano Virilo, che ha trovato la genealogia del Meli e ha dato sulla nascita particolari che correggono ed integrano le notizie che si avevano precedentemente.

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degli studi sul Meli, è stato Q. A. Cesareo.Come nelle dissertazioni su l’Arcadia del Meli7 il realismo8 e l’arte del grande bucoliasta siciliano egli ha fatto la più geniale e precisa dimostrazione di quella bellezza nell’opera meliana, che tutti sentivano vagamente, ma nessuno aveva saputo ancora analizzare e spiegare; sfrondando ingiuste accuse, ponendo ogni carattere e ogni creatura nella giusta luce irradiata dal suo fine intuito critico, così nelle due monografie su la giovinezza9 e la vecchiezza10 di G. Meli, nonché nelle lezioni accademiche11 egli ha collocato finalmente nella sua sincera importazione sociale ed umana il creatore di “Sarudda,, abbattendo pregiudizi, correggendo errori tradizionali, precisando date ed atteggiamenti, dandoci con una divinazione miracolosa un nuovo Meli, diverso da quello stereotipato dall’impostura, dalla leggenda e dall’insufficienza critica, meno ideale, ma più umano, più sincero, più ricco di valori sconosciuti: profondamente vero e criticamente inattaccabile.

** *

Sull’ indirizzo segnato dal Cesareo si muove la mia indagine modesta. Il culto e la venerazione per il grande cantore di Nice, è ancora in me ansia di ricerche perchè la sua figura emerga sempre più vivida e chiara.In quel piccolo mondo, in cui il Cesareo impostò il suo poeta evocando figure di trapassati, che lo popolarono e che l’oblivione già coprì, io mi sono rituffata continuando a scrutare, a interrogare, a esumare…

Oh, potere parlare con Neli Duci, Emanuele Dolce, che fu notaio ed era ancor vivo nel 181012, potere apprendere dall’ombra di G. Giacomo Di Pasquale quel che diceva il Meli, che egli soleva chiamare col nome affettuoso di “zio13,,!...

7 L’Arcadia del Meli in Critica Militante Messina, Trimarchi 1907 pp. 291-313.8 Il realismo del Meli in Nuova Antologia - Roma Giugno 1920.9 La Giovinezza di G. Meli in Archivio storico siciliano N. S. Vol. XL 1915 pp. 223-267.10 La vecchiezza di G. Meli in Nuova Antologia Sesta Serie Genn. Febb. 1915 pp. 15-33.11 Lezioni Accademiche di letteratura italiana nella R. Università di Palermo Anni 1914-15 e 1916.12 E’ in mio possesso un atto notarile riguardante un mio antenato, Baldassare Miraglia, datato: Die decimo Octavo Aug.i 13 Ind. 1810 e firmato: Emanuel Dolce M. N.13 Al Di Pasquale è indirizzata la lettera del Meli che è a fog. 1 del Carteggio (Ms. 4 Qq D 4 della Bibl. Com. di Palermo); edita da Giovanna Micale. Le lettere di G. M. pubblicate e dichiarate con note

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Poter chiedere alle memorie del Bar. Pietro Pisani, il grande beneficatore dell’umanità fuor di senno, quanto il buon poeta gli fu di conforto ed intercedette nel suo amore per la vaghissima Maria Antonia Texeira, amore contrastato dai parenti della nobile fanciulla! O ancora quante volte per quelle “benedette prime donne,, in mezzo alle quali il Pisani bazzicava (amante com’era della musica), il Meli dovè comporre i dissidi tra lui e la gelo-sissima Maria, divenuta ormai sua sposa14! Potersi far narrare da Giuseppe Garofalo, il frate sfratato ed incisore di vaglia, quante volte invitò l’amico Meli nella sua casa di Porta di Vicari, ove viveva con la moglie, figlia di Nicolò Cento15!... Ma di queste ed altre figure che rappresentarono la loro parte sulla scena ove il Meli visse, amò e sentì le sue amicizie, farò oggetto forse un futuro lavoro.Limitando la mia ricerca troppo vasta e complessa mi sono occupata in questo saggio dei personaggi, numerosi del resto, che furono amici del Meli e nello stesso tempo poetarono, formando intorno al vate come un cenacolo intellettuale.

Di molti i nomi s’incontrano nelle poesie del Meli stesso: Antonio Lucchese, Principe di Campofranco, Francesco Carì, Gioacchino Monroy, Giuseppe Saverio Poli, Francesco Nascè, Francesco Pasqualino ecc.; uomini tutti che tennero alte dignità, onde si può affermare a priori, che il Meli fu in relazione coi primi uomini del suo tempo.E tutti costoro, più o meno poetarono, poetarono per moda e per passatempo, per imitazione, o per vanità, per seguire l’andazzo comune o per divertire le allegre brigate.Sin da questo momento dirò che, ad eccezione di qualcuno, o meglio del solo Ignazio Scimonelli, essi non meritano il nome di poeti, nel senso che deve avere questa parola, in quello cioè di creatori di una compiuta

Palermo, Trimarchi pag. 11. Il Gallo in Omissioni, addizioni e correzioni alla Bibl. Sicula del Mongitore (Ms. che si trova in fondo ad un’ediz. della Bibl. Sic. dell’anno MDCCVIII in unico volume, conservata nella Bibl. Com. di Palermo) dà delle notizie del Di Pasquale e parlando della amicizia col Meli, aggiunge: “Il Meli solea dire del Di Pasquale: il mio supposto nipote fa la prima impressione di Capitan Generale ma finisce per essere tenuto come semplice soldato.,,14 Cfr. Salemi Pace Cenni Biografici del Bar. P. Pisani Palermo 1878.15 Notizie di G. Garofalo si hanno in Memorie per servire alla Storia Letteraria di Sicilia, raccolte dall’Ab. G. D’Angelo Ms. Qq. E 150 della Bibl. Com. di Palermo.

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realtà artistica.Rientrano quindi nella schiera dei verseggiatori, di cui ci fu sin troppo prodigo il sec. XVIII. Per questo io ho dovuto accennare alla mania versaiuola di tale secolo e alle accademie principali in cui questi rimatori si diedero convegno.Individualmente essi non sono degni di uno studio estetico speciale, che si risolverrebbe sempre in dimostrazione del brutto o in esclusione del fatto d’arte, nè forse avrebbero meritato la dura ricerca, ch’è occorsa per trarre dagli innumerevoli manoscritti o dal nulla ove giacevano, qualche notizia dell’essere loro.Ma la luce stessa che emana dal grande astro, che essi conobbero e che splendette nella loro stessa atmosfera, li rende degni di essere tratti dall’ombra, li chiama a un chiarore discreto.Di riverbero essi illumineranno forse qualche tratto di quella vita, ne completeranno, in un certo senso, l’impostazione sociale, ci daranno un aspetto del quadro d’assieme, dove più viva apparirà la personalità, ch’è oggetto del nostro culto amoroso.

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CAPITOLO I

LA POESIA SICILIANA DEL SECOLO XVIII RIFLESSO DELLE CONDIZIONI POLITICHE E SOCIALI DELLA REGIONE — IL CATTIVO GUSTO E L’EPIDEMIA POETICA — I VERSI D’OCCASIONE — LE ACCADEMIE

G. Meli, che, rispondendo al Barone Filippo Giacomo Rehfues, che gli aveva chiesto notizie biografiche si paragona ad un’ostrica attaccata allo “scoglio in cui nacque, sostenendo sul dorso l’impeto delle onde e delle tempeste16,, è in un certo aspetto, il simbolo dell’uomo di Sicilia nel secolo XVIII; di quest’isola, che come un grande scoglio perduto nell’oceano, rimaneva insensibile ai marosi, indifferente e lontana da quanto fermava e si maturava nel resto del mondo.

G. A. Cesareo ha, con una immagine felice, paragonato il languido giungere di tanto movimento in Sicilia al rombo di una tempesta rispetto agli estremi penetrali di un sotterraneo17. Mentre il lievito rivo-luzionario gorgoglia e freme e si prepara a lavare e ad espiare col suo tributo cruento le colpe di tanti secoli, mentre nuovi orizzonti si schiudono alla coscienza universale, questa nostra isola resta ancora indifferente ed egoista. Le notizie di ciò che si va svolgendo le giungono in ritardo per gli scarsi mezzi di comunicazione e possibilmente alterate.Il governo di Carlo e di Ferdinando e i suoi fedeli funzionari per esso, hanno cura di non far pervenire ai sudditi la più parte delle notizie e di esagerare le altre, dando loro la forma dei paurosi racconti, che si fanno ai bambini per intimorirli.La Sicilia deve rimanere nel suo letargo per amore o per forza. Di questa pare che non occorra ancora l’uso frequente. Il tentativo di F. P. Di Blasi, soffocato nel sangue, rimane isolato e l’opinione pubblica coinvolge nel suo biasimo il giovane senza giudizio, che ha fatto il

16 La copia di questa lettera si trova nel Carteggio del Meli (Bibl. Com. di Palermo ai segni 4 Qq D 4) fog. 95, ed è stata pubblicata da Luigi Boglino in Nuove Effemeridi Siciliane Serie III vol. IX e inoltre da Giovanna Micale - Le lettere di G. Meli interamente pubblicate e dichiarate con note - Palermo Trimarchi, edit. pag. 128. In generale citerò questa edizione.17 Lezioni accademiche di letteratura italiana anno 1914-1915 Stenograf. da Gino Borsellino - pag. 41.

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ribaldo e merita una lezione esemplare.La scarsezza e la superficialità della cultura, la deficienza di scuole soprattutto per il popolo e la borghesia tengono ancora le masse in uno stato inferiore di spiritualità e di coscienza.Autodidatti in massima parte, le persone di mediocre istruzione, quasi sempre sacerdoti e ligi allo stato, se pur una qualche intuizione hanno dei nuovi valori sociali, devono soffocare le impressioni personali, nella impossibilità di poterle esternare, o tutt’al più, conten-tarsi di affidarle nascostamente a memoriali privati o a qualche epistola a persona intima.La Regia Censura esercita i suoi pieni poteri ed è da stolti contravvenire ai suoi decreti. Per essere pie-namente obbedita essa non ha che da far stampare bandi, come il seguente d’ordine “dell’eccellentissimo Sig. D. Giovanni Fogliani Aragona,, in data 10 ottobre 1765, per il quale si “ordina, provvede, comanda che nessuna persona di qualsivoglia stato, grado e condizione che sia abitante in questo predetto Regno, possa per l’avvenire sotto l’infrascritte pene stampare in esso qualsivoglia libro o scrittura di sort’alcuna.... senza che pria fosse stata esaminata, ed approvata dall’Ill. Presidente della R. G. C.....„ Seguono le pene per i trasgressori18. Tagliata la via ad ogni sincera manifestazione di sen-timenti politici, ad ogni libera aspirazione religiosa, lo uomo di Sicilia, non troppo incline per natura alla ribellione, giudica che è meglio adattarsi, trova che è buon senso rassegnarsi in pace.E poiché il pensare potrebbe portare dello scontento,

18 Copia a stampa di questo bando è nel Ms. Qq F 7 della Bibl. Com. di Palermo.Già in data 24 settembre dello stesso anno era stato indetto un altro bando, di cui è copia nello stesso manoscritto della Comunale: “Con sommo rincrescimento del Real Animo del Sovrano pervenne alla di lui notizia d’essersi furtivamente introdotto nella Capitale e nel Regno di Napoli un libro intitolato Dizionario Filosofico, impresso in Londra nello scorso anno 1764, nel quale sotto diversi articoli si prende la mira di rivocare in dubbio li principali fondamenti della Religion rivelata, spargendosi da per tutto massime e dottrine empie, e detestante con manifesta offesa della Divinità e con pericolo di poterne poi nascere il disturbo nella tranquillità dello Stato.Quindi la M. S. risolse e determinò che tal pernicioso libro sia in tutti li suoi domini proibito ed a tal oggetto siccome ordinò e comandò nel Regno di Napoli la pubblicazione del Bando per vietarsi affatto il medesimo libro, così impone con suo Real Dispaccio di pubblicarsi altresì lo stesso Bando in tutto questo suo fedelissimo Regno.,,Seguono le pene per i trasgressori.Nello stesso ms. si trova inoltre un’ altra copia di questo bando a nome stavolta del re Ferdinando IV (allora minore) in data 6 agosto 1765.

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preferisce non pensare. Lungi dal ripiegarsi su sé stesso e meditare, egli si protende verso quello che la vita può ancora offrirgli e si dà tutto alla spensieratezza e ai piaceri.Tra feste e divertimenti vive il nobile orgoglioso e ignorante, l’imita come può la moltitudine oppressa e quando può godere di uno spettacolo gratuitamente elargito, esulta e inneggia al suo tiranno.Riflesso di questa vita gaudente, scettica e vuota è la poesia del secolo.L’entusiasmo patrio, questo grande ispiratore di tutti i tempi, non anima il canto del vate. Ad eccezione di qualche sonetto in difesa della lingua siciliana, contro coloro che la stimavano indegna di figurare nelle produzioni letterarie, in tutte le raccolte del secolo non troviamo nulla che esalti la patria, nulla che vibri di un senso di idealità, non solo riguardo all’Italia, che non è neanche nominata, ma pur circoscritto alla Sicilia.Numerose rime invece per nozze e nascite di principi, per morti e guarigioni reali, versi tutti che rientrano nel genere occasionale, di cui torneremo a dire più avanti.La religione, come non è veramente sentita, neanche da quelli che si sono consacrati al suo ministero, così non può dar nulla che abbia sincerità, serietà, profondità d’ispirazione. Monaci predestinati sono i cadetti di nobili famiglie, del cui senso di ribellione, anziché di mistica esaltazione e della cui vita vuota ed esteriore, anziché effusa di una soave spiritualità, fanno fede parecchi manoscritti, tra cui alcune voluminose miscellanee della Biblioteca Comunale di Palermo provenienti da S. Martino delle Scale. Pseudo-epigrafi in latino maccheronico dicono male di vivi e di morti19, cantate anonime, ormeggianti il Metastasio o il Petrarca, tradiscono il frate, che si lagna del cellerario o del decano e l’offende e minaccia, turbolento20, rime di ogni sorta si lagnano del vitto, di cui il gaudente, epicureo autore vorrebbe maggiore profusione e ricercatezza.Numerosi esempi di monacazioni femminili senza vo-

19 Gir. il Ms. della Biblioteca Comunale di Palermo intitolato Poetica varia segnato 4 Qq B I fog. 273: iscrizioni contro Eutichio Barone e Gaetano Barbaracio.20 Vedi nello, stesso ms. fog. 139 e segg. la “Cantata a Morroy del Sig Abate Pietro Metastasio„ e a fog. 190 segg. l’“Altra cantata allo stesso del Sig. Ab. Pietro Metastasio.„

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cazione religiosa, anzi forzate, fanno pensare che le condizioni della monaca di Monza erano aliene al secolo dei Borboni, quanto a quello della dominazione di Spagna.Il Meli, medico dei monasteri e conoscitore di molte tragedie intime, che si svolgevano tra le mura dei chiostri, mise in versi questo stato di cose ne “La Monica dispirata21,,.Lungi dall’essere tocche dall’ardore puro e semplice, che faceva sgorgare le “Laudes creaturarum,, dal petto del Santo d’Assisi, o dal vivo fuoco, che incideva le pagine di fede di Caterina da Siena, le moniali del sec. XVIII cantano d’amore, sulle orme troppo e troppo male calcate del cantore di Laura. Col senso di scetticismo, generalmente diffuso, difetta anche il dato morale.L’etica, non sostenuta più da alcun imperativo categorico e massimamente da quello, che più le si lega nella coscienza popolare: il fattore religioso, decade ed è dimenticata tra i piaceri terreni e le frivolezze d’ogni sorta.Scompare quindi come problema filosofico e come ispirazione poetica.

***

Difettando le forme più alte d’ispirazione, la poesia siciliana del secolo s’informa tutta alla vita esteriore. E questa riflette meccanicamente, come uno specchio.Gli avvenimenti del giorno, le feste, i banchetti, la moda, la partenza di un globo areostatico, la venuta dei reali, una mascherata sono tutti temi atti a stuzzicare l’estro dei poeti. Ne risultano delle composizioni importanti come documenti umani, storici, in quanto la realtà, il dato esistenziale non è stato trasfigurato in genere da questi cosidetti poeti, ma, in contrario, di nessun valore estetico.Nessuna importanza poi, nè storica nè estetica, hanno le infinite rime d’imitazione, l’eterna imitazione del Petrarca e la più recente del Metastasio, del Rolli e dello

21 Puisii di l’Abati G. Meli in Opere poetiche di G. Meli ediz. curata di Eduardu Alfanu - Palermu - Giuseppi Piazza ed. 1914 pag. 78 - Nelle citazioni mi riferirò sempre a questa edizione.

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Zappi, che continuano l’Arcadia del continente.Fatta eccezione di Giovanni Meli, che si può porre veramente tra i grandi poeti di tutti i tempi e nel quale la fantasia, pur limitata nella scelta delle ispirazioni, ri-prende tutta la sua libertà al momento di elaborare le sue forme infinite, e, sotto certi riguardi anche di Domenico Tempio da Catania e di Ignazio Scimonelli da Palermo, il secolo difetta di veri poeti, cioè di creatori ex nihilo di una realtà compiuta in tutti i suoi dati, diversa da quella terrena, che è monca ed imperfetta.Pertanto diciamo che alcuni dei versi che ci restano sono importanti dal lato storico, perchè la fantasia non ha nulla cambiato, ma noi sappiamo che l’arte non vuole nei suoi domini quello che è contaminato da caratteri a lei estranei, o rientra in manifestazioni di altra natura, e al critico estetico non resta che dimostrare il brutto o negare senz’altro resistenza del fatto d’arte.Se l’impossibilità di elaborare certe ispirazioni non può darci delle poesie di bell’argomento, la mancanza di geni creatori non può darci in modo assoluto delle belle posie, anzi delle vere poesie. Questa mancanza è la vera ragione, per cui il nostro spirito, assetato di bellezza, si ritrae con un senso d’insoddisfazione da i versi dei minori di Sicilia nel secolo XVIII.Nel continente questo senso è avvertito anche dai contemporanei e qualcuno si duole che la poesia “sia generalmente maltrattata in un’isola, che diede i più gentili e i più sublimi poeti nei bei giorni di Gero-ne22„ frase, che cerca invano di confutare Francesco di Paola Avolio nel suo Saggio così povero di senso critico23.La colpa del tempo, applicabile a tutti i tempi, è principalmente quella di voler poetare da chi per natura non si sente chiamato alla compiuta creazione della forma, né pone mente alla verità dell’antico motto: “Poeta nascitur,,.E i colpevoli nel nostro caso sono molti, infiniti. In nessun secolo, forse, come nel settecento, la poesia in Sicilia ebbe tanti proseliti.Il verseggiare degenera in una vera manìa. Ogni uomo che sappia appena di lettere non può sottrarsi a quello,

22 Notizie letterarie stampate in Cesena nel 1791 — N. 33 pag. 252.23 Saggio sopra lo stato presente della poesia in Sicilia per servire alla storia della letteratura nazionale del secolo XVIII. In Siracusa MDCCXCIV nelle Regie Stampe del Puleio pag. XV e segg.

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che egli crede insieme un diritto e un dovere e una condizione di vita: vergare filze di sonetti più o meno caudati, improvvisare brindisi o madrigali, apostrofare in rima un amico o un avversario. Si poeta perchè questa è la moda, che irradia dalla grande Arcadia romana, molte volte per capriccio, il più spesso per passatempo, riducendo la funzione suprema della arte, cui fine e premio è la contemplazione disinteressata del bello, a un’occupazione simile al minuetto, al giuoco della “bassetta„ o delle “ombre„ a una passeggiata col cicisbeo in parrucca, a uno “stravizzo carnevalesco,, cose tutte che allettavano e divertivano la società elegante del sec. XVIII.Un medico, (e dico medico per citare una persona colta) invitato a pranzo, non può fare a meno di dire in rima le lodi dei convitati, o della padrona di casa, o di chi è festeggiato, se si tratta di auspiacare a una ricorrenza.Così, oltre i brindisi del Meli recitati in casa La Torre e quello difetto a D. Jachinu Napuli ecc., ne possiamo leggere molti altri nei manoscritti della nostra Comunale, o nelle raccolte private, come quelli di un medico Valenti diretti a una duchessa Lucia (probabilmente, la Lucia Migliaccio di Fioridia), posseduti da Socrate Chiaramente dell’Archivio di Stato di Palermo.Antonio Lucchese Palli, principe di Campofranco, noto per la sua fama di improvvisatore, venuto da Napoli a Palermo come accusatore per un processo contro dei falsari invero non volgari, poiché ne era impresario Giovanni Settimo e Settimo, principe di Cammaratini, e promossa la condanna dei rei, sedendo “come commissionato principale di quest’affare e primario di esso sollecitator fiscale24„ si attira, naturalmente, lo sdegno dei nobili. Anche il Marchese di Villabianca non può fare a meno di osservare: “Il che ha dato negli occhi a tutti; e non fanno altro che mormorare della di lui negra azione25.La principessa di Bufera lo taccia di traditore e di Giuda. E il principe di Campofranco le risponde....... per le rime, non troppo cavallerescamente, come si può rilevare dal

24 Francesco Maria Emanuele Gaetani, marchese di Villabianca Diari palermitani Mss. della Biblioteca Comunale di Palermo ai segni Qq D 93 — II9 — Gennaio 1759 — pubbl. da Gioacchino Di Marzo in Biblioteca storica e letteraria di Sicilia Vol. XII.25 Ivi.

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sonetto improvvisato, riportato dal Villabianca26. Come si vede, ogni incidente era buono a far stendere dei versi. A non volere moltiplicare gli esempi, basterebbe citare il solo volume di Stefano Melchiore, amico del Meli, che è da cima a fondo una sequela di poesie d’occasione, ottave messe su alla meglio, con l’uso evidente del rimario, per chiedere una cassata„ a un amico, per ringraziare di “una piatta dii cannoli„, per accompagnare l’offerta di un paniere di fichi, per fare un complimento, o contraccambiare un’ingiuria27.L’“Anacreonte parassita dei prosciutti farnesiani„ il Frugoni, aveva in lui un concorrente non trascurabile!La conseguenza di tale facilità a gettar giù rime, era, che se a Roma — a dire del Manfredi — erano più poeti che mosche, la Sicilia non ne era meno sazievolmente provvista.

***

Ogni buon siciliano del tempo del Meli, che fosse, o si credesse, mediocremente colto, cercava di ottenerer iscrizione a qualcuna delle accademie letterario-poetiche, che erano così numerose in quel tempo, da poterlo ben chiamare con Vincenzo Di Giovanni “il secolo delle accademie”.Domenico Scinà dice che “supplivano in parte alla mancanza delle publiche librerie le adunanze letterarie, che numerose erano allora in Sicilia” e aggiunge con soverchio ottimismo “molto conferirono tra noi alla riforma del gusto e al progresso delle lettere28,,.Il Marchese di Villabianca, nel suo lavoro sulle Ac-cademie palermitane, loda il formarsi di tali istituzioni e dice fra l’altro: “In esse quasi nel proprio soggiorno si trovano le vere amicizie, che sono altrove rare. Li Prencipi quindi di buona politica devono sempre più favorire e proteggere queste unioni, acciocché gli uomini trattenendosi in tali onesti divertimenti come immagini (sic) di onore e di virtù possono divenire qualificati per

26 Ivi dopo la pag. 263.27 Poesie siciliane giocose serie e morali composte dal Rev. Sac. D. D. Stefano Beneficiale Melchiore. In Palermo MCCLLXXXV. Nella Reale Stamperia.28 Prospetto della Storia Letteraria di Sicilia nel sec. XVIII Palermo. Presso L. Dato 1824 t. I, pag. 34.

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meglio impiegarsi in loro servizio29,,.Questo brano di un contemporaneo viene a confermarci che il fine delle accademie e delle occupazioni letterarie in genere del secolo XVIII è il puro divertimento, e fa pensare che vi si debba evitare, .conseguentemente, tutto quanto è fatica intellettuale, tormento della fantasia.Inoltre, possiamo apprendere come in queste accademie si formassero e si temprassero “le vere amicizie, altrove rare,,. Ed è con un certo senso di sollievo che noi leggiamo le reciproche manifestazioni amichevoli dei poeti del secolo XVIII, che fu tutto svenevolezza e smanceria, perchè possiamo cogliervi ancora un palpito di sentimento caldo e schietto.Tommaso Gargallo dedica a l’Amicizia un intero poemetto, Domenico Tempio, tra gli altri, ebbe affettuosa relazione con Carlo Felice Gambino e con Francesco Strano, cui diresse una malinconica ottava in occasione di essersene separato, Venerando Gangi e il Marraffino si scambiarono rime di viva cordialità, il Meli fu legato ha affetto al Marchese Pasqualino, a Giuseppe Saverio Poli, al Principe di Campofranco, ai quali indirizzò rime calde di affetto e di riconoscenza.In generale per le riunioni d’indole letteraria egli potè entrare in relazione con i più notevoli uomini del tempo suo e per le lettere e per arti e per illustri natali.

CAPITOLO IIL’ACCADEMIA PALERMITANA DEL BUON GUSTO — RELAZIONI CHE IL MELI POTÈ ACQUISTARE FREQUENTANDO QUESTA ACCADEMIA — ACCADEMIA DEI PASTORI EREINI E QUESTIONI INERENTI.

Troppo lungo sarebbe enumerare le infinite accademie che nel secolo XVIII pullularono, non soltanto in ogni

29 Ms. della Biblioteca Comunale di Palermo ai segni Qq. E 101 log 211.

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città ma in ogni paese di Sicilia e sorpasserebbe le intenzioni del nostro lavoro30.Rivolgendo particolarmente la nostra attenzione sulla capitale dell’isola, interessante per la vita e le relazioni del Meli è l’Accademia del Buon Gusto, che il Principe di Santa Flavia Pietro Filingeri, fondò il primo agosto 1718 nel suo palazzo posto nella Strada Nuova presso Porta di Vicari. Essa si rese notevole per la sua lunga vita e per un certo tentativo di riforma, che se pur non diede quei frutti che se ne ripromettevano i fondatori, rimane per sè stesso degno di menzione.“Suo oggetto fu di illustrare in tutti i suoi punti la storia di Sicilia e coltivare, oltre a ciò, le pulite lettere, affinchè richiamato si fosse il gusto, che, sul cominciare di quel secolo, vizioso e scorretto ancor durava “in Sicilia31,,.Il nome dell’accademia fu tolto dall’opera omonima del Muratori (pubblicata intorno a quel tempo), copie ci informa Domenico Schiavo32, la sua impresa fu uno sciame di api ronzanti col motto “Libant et probant„. Dal discorso del barone Vincenzo Parisi, tenuto all’accademia nascente nel 1719, si può rilevare a quale criterio avrebbe dovuto informarsi l’opera dei componenti: “Lo studio della vera eloquenza così sacra come profana, così in prosa, come in verso restituiranno l’antico splendore alla Oratoria o alla poetica. La buona filosofia, la matematica, la fisica e le sue dipendenze, illustreranno il regno della natura. L’erudizione sacra e profana, lo studio delle antichità, delle medaglie, de’ costumi, de’ Riti, e la critica dei buoni autori, aspettano un maggior lume dai nostri discorsi Voi intanto non iscegliendo fra queste facoltà se non il migliore, imiterete l’ingegno nobilissimo delle api, corpo di nostra impresa, che assaggiando il più eletto di mille fiori, coll’istessa elezione l’approvano, e però ben si conviene l’epigrafe. Libarti et probant33„.Mentre nelle altre accademie del tempo ad imitazione degli “Arcadi,, di Roma, i soci prendevano un nome

30 Per un elenco completo sulle accademie siciliane vedi: Alessio Narbone Bibliografia Sicilia Sistematica Vol. II. Palermo Pedone 1851 pag. 104-119.31 Scinà Prosp. cit. pag. 35.32 Saggio sopra la storia letteraria e le antiche Accademie della Città di Palermo in Saggi di Dissertazioni dell’Acc. Pal. del B. G. Vol. I. Per la storia dell’Accademia del B. G. si veda anche: Vincenzo Di Giovanni: L’Accademia del B. G. nel secolo passato in Atti della R. Accademia di Lettere, Scienze e Belle Arti di Palermo - Nuova serie Vol IX. Tip. del Giornale di Sicilia 1886.33 Ricerca sulle Accademie di Palermo 1719 Pag. 19.

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speciale, il più delle volte di sapore classicheggiante (ed essendo associati contemporaneamente in più accademie, ne assumevano altrettanti nomi, si da far os-servare alla Reitano “che a Palermo i poeti erano più dei poeti stessi34,, nel Buon Gusto i soci erano iscritti col loro vero nome. Di questa Accademia fecero parte ben presto le più eminenti personalità di Sicilia, moltissimi nobili e moltissime donne (come si può rilevare dal Catalogo dei nomi degli Accademici, che si rinviene fra i manoscritti della nostra Biblioteca Comunale) ed anche molti poeti e pensatori del continente italiano tra i quali Pietro Metastasio e Domenico Cirillo.Il Meli vi fa per tempo la sua apparizione. Giovanetto di venti anni vi è ascritto al 1° febbraio 1760, reso degno di sedere tra i vecchi dottori e i superbi magnati per la sua cultura non indifferente e una certa fama di “poetino,,.Anche la considerazione in cui era stato tenuto il nonno paterno suo omonimo, uomo di alte aderenze, aveva dovuto facilitargli la vita. Era costui compare del Barone Giuseppe Zappino, che fu parecchie volte Senatore di Palermo, amicissimo di Pasquale Garrotta, di Giovanni Zappino Barone di Olivieri e di altri di alto rango35.Dalla acuta e diligente ricerca del Cesareo, che accertò gli studi fatti dal nostro poeta nella sua giovinezza, già così avvolta di mistero, noi abbiamo potuto rilevare che egli, ancora adolescente, conosceva molto bene la filosofia di Giovanni Cristiano Wolff, del Leibnitz, aveva notizie, se pur indirette, del sistema di Epicuro e di quello di Eraclito, era uno studioso di Cartesio, del Buffon, e, profondamente, della dottrina di Spinoza, per criticarla però sopratutto, nel di lui seguace e suo contemporaneo Vincenzo Miceli da Monreale, che egli rappresenta sotto le spoglie di una scimmia nella selva dei filosofi, episodio del C. VI della “Fata Galanti36,,.Tutta questa cultura filosofica, insieme agli studi di scolastica, che aveva dovuto fare, più o meno bene presso i Gesuiti, lo mettono in condizione di interessarsi alle dissertazioni filosofico-teologiche dell’Abbate D. Francesco Carì, “le Nestor de nötre republique litterarie37,, come lo definì l’Abate Cannella ascritto al

34 Silvia Reitano - La poesia in Sicilia nel sec. XVIII Palermo, Sandron 1920 pag. 5.35 Queste notizie mi sono state fornite dall’ avv. Vullo, studioso della genealogia dei Meli.36 Cfr. Lezioni Accademiche di G. A. Cesarea anno 1914-15, pagg. 150-163.37 Lettre de Monsieur l’abbè Cannella à Mons. le baron N.N. sur la litterature de Palermo Napoli, Nicola

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Buon Gusto sin dal 174438.Il Meli giovanetto esulta di entusiasmo ai discorsi pieni di forza e di eloquenza, profondi interpreti delle sacre scritture, alla parola calda e vibrante del teologo di cui diventa fervido ammiratore, sì da cantare un giorno:

Cui megghiu d’iddu, cui cu chiù chiarizza,Cui mai cu chiù sublimi dignitati Di li celesti e li divini cosili scrissi e perorau?39

E si affeziona profondamente a colui che considera un maestro e ne è riamato. Un dotto d’altra materia che il nostro poeta studiò bene dopo la filosofia - dico della medicina - egli incontra pure al Buon Gusto: il Dottore Giovanni Gianconte, iscritto nel 1748, colui che, dovendo intraprendere un viaggio per l’estero, gli darà tutti i suoi clienti, richiamandolo nei primi del 1772 da Cinisi a Palermo. Vi incontra ancora il P. D. Gioacchino Monroy cassinese, il D. D. Mariano Scasso traduttore della “Storia di Sicilia,, del Burigny (iscritto il 1 aprile 1765), quei cui darà la parte di “Pilucca senza vurza,, nella farsa “Li meravigghi di Sicilia,, ed eternerà con finissimo humour ne “l’Omu-machina,,.Vi trova ancora l’Abbate Francesco Frangipane iscritto nel 1740 cui soprannomina “Lenti,, ne “Li meravigghi„ e dedica “Lu viaggiu in Sicilia di un antiquario,,.Come si vede, moltissime relazioni della sua vita po-steriore, che formeranno il piccolo mondo del poeta, nascono là fra le mura del Palazzo Santa Flavia, quando egli è ancora un oscuro giovinetto, che muove i primi passi poetando sul sentiero troppo battuto del Petrarca e del Metastasio.Inoltre, il 15 settembre 1745 si iscriverà al Buon Qusto il trapanese D. Bernardo Bonajuto e nel 1756 il Sacerdote Stefano di Melchiore, poeti giocosi che tenzoneranno con lui ne l’“Egluga in lodi di lu gattu40,,. Nel 1766 vi si ascriverà anche quel Deodato Targiani. Segretario di stato e di Guerra del Regno di Sicilia, cui il Meli aveva dedicato il poema de “La ragione„ nella

Russo, 1794-Pag. 17.38 Vedi Catalogo dei nomi degli accademici nel Ms. miscellaneo 3 Qq. B 151 della Bibl. Com. di Palermo.39 Puisii pag. 290 e seg. Cantu funebri pri la morti di lu celebri Sac D. Francesco Carì.40 Puisii pagg. 320 a e segg.

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speranza di ottenere un posticino di “soprannumerario,, alla Segreteria Reale; il 20 febbraio 1769 il Canonico Rosario Gregorio, Professore di Diritto Pubblico Siciliano al sorgere dell’accademia degli Studi e fondatore della Diplomatica siciliana, per la morte del quale il Meli detterà un sonetto41.Un’altra accademia Palermitana di una certa importanza nella giovinezza del Meli era quella dei Pastori Ereini (benché il Villabianca dica “non tanto strepito fece ella in patria „) che Federigo di Napoli, Principe di Resuttano, stabilì nel suo Palazzo posto nel quartiere della Kalsa presso Francesco li Chiovari, il 24 settembre 1730. Essa adottò il calcolo delle Olimpiadi, i mesi e i giorni greci. Sua impresa accademica fu un albero di alloro e uno di mirto, in un campo fiorito con il motto di Manilio : Movetur et loquitur. Gli uffiziali dell’Accademia erano il Corifeo, il Prostrate, il Tritostate, i Critici, il Corago e il Procorago42.Con tutta questa aureola di classicità, che ai posteri lettori del Codex dell’Accademia potrebbe farla raffigu-rare come un’accolta di vecchi sapienti, cultori di serie dottrine e di gravi Muse, essa, non soltanto non si allontana dal carattere di superficialità delle altre acca-demie, ma ne rappresenta addirittura il prototipo.

Quest’accademia non si occupa che di poesia, e questa poesia è frivola, vuota, arcadica, talora giocosa, senza serietà d’ispirazione, nè nobiltà di frasi e di concetti. Basti citare le ottave in “favore della Ignoranza,, e quelle “in lode dello Sbadiglio, oppure il sonetto caudato,, a favore degli uomini di statura alta e parecchie altre rime del Melchiore43, o scorrere il tomo delle “Rime degli Ereini,,, stampato a Roma pei tipi del Bernabò nel 1734In una poesia, che va riportata alla giovinezza del Meli, egli, scrivendo in italiano, come in generale tutti i poeti prima del 1760, rivolge parole d’ammirazione ai Pastori Ereini :

41 Ivi pag. 292.42 Cfr. Guastella - Di Tommaso, Campailla e i suoi tempi pag. 36 n. 1. Cfr. inoltre Cocola Cav. Domenico - Codex academie Heraeinorum Panormi 1776 - Una spiegazione dell’impresa si ha nella Prefazione alle Rime degli Ereini di Palermo Roma, Edit. Bernabò 1743 pag. XXXVIII.

43 Poesie siciliane op. cit. pagg. 27, 107, 54.

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…….drappelloD’aquile altiere a vera gloria intenti

e mostra un grande desiderio di salire, a loro, egli…….vil palustre augelloChe non osa trattar la via dei venti44

La poesia in quistione è assieme ad altre (Fille, Fille ed Amore, etc.) collocata dall’Alfano nel quadro cronologico delle poesie italiane tra il 1760 e il 61 e l’editore dice in nota che questa, come altre date, gli sono state gentilmente indicate da Alfredo Cesareo.Bernardo Bonajuto da Trapani, poeta bernesco che ha l’onore di appartenere a ben nove accademie, in una nota ad un suo capitolo, in cui l’enumera tutte, dice: “L’Accademia degli Ereini, che, per molti anni fiorì in casa del Sig. Principe di Resuttano, ove nacque, dopo 17 anni di silenzio, si è riaperta in quest’anno, sotto gli auspici del Sig. D. Federigo Napoli e Montaperto, degnissimo nipote e successore del defonto Fondatore. In essa sin d’allora l’Autore facevasi chiamare Acide Drepanèo45.,, Il capitolo porta il titolo “L’autore alle Rime nell’atto che vanno alle stampe,, e la stampa avviene nel 1765, sicché l’Accademia degli Ereini si sarebbe riaperta in tale anno dopo 17 di silenzio cioè dal 1748 al ’65.Stando a tale indicazione il Meli non avrebbe potuto scrivere il sonetto “Ai pastori Ereini„, se non nel 1765 e non quando afferma il Cesareo tra il 60 e il 61, anni in cui, secondo la testimonianza del Bonajuto, Taccademia era chiusa.Senonchè, l’analisi del carattere della composizione m’induce a non scostarmi dalla opinione del Cesareo. Essa è scritta in lingua italiana e risente molto della influenza delle letture fatte, della cultura di un periodo in cui l’autore non si è affermato come individualità estetica di spiccatissima originalità. Come la “Canzone in morte dell’Ecc.mo Principe di Monforte46, la cui data è indiscutibilmente il 1759, perchè l’otto gennaio di

44 Poesie in Opere poetiche ed. Alfano pag. 17.45 Rime giocose del sig. D. Bernardo Bonajnto. In Palermo, MDCCCLXV. Nella stamperia di Pietro Bentivegna, pagg. 9-10.

46 Poesie in Opere complete ed. Alfano cit. pag. 6.

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quell’anno il principe morì, anche questa risente molto dell’influsso del Petrarca, che grande ammirazione dovè destare nell’animo giovanetto. Un’altra influenza notevole dovette esercitarla coi suoi versi, fra l’altro, il sacerdote Francesco Carì, già abbastanza rinomato come maestro di poesia e, sopratutto, come teologo e dotto predicatore.Quel paludamento solenne, di cui il lettore di teologia dogmatica, riveste, non solo i suoi discorsi, ma anche talune sue poesie, come il sonetto per “S. Tomaso d’Aquino,, quello “In morte del Sig. D. Rinaldo Alessi,,, quei che principiano “O voi ch’avete l’intelletti sani„ e “L’anima quando uscì dal fabbro eterno47„, con quella devozione, che i giovani studiosi sentono per gli uomini grandi e che si risolve in volontà di imitarli sulla via della gloria — quella specie di enfasi, dico, segnò le sue traccie anche nelle prime composizioni del nostro poeta.Nel sonetto “Ai Pastori Ereini,,, possiamo riconoscere quindi una imitazione diretta del Petrarca e un’imitazione indiretta attraverso il Carì, che in fondo è un imitatore del Petrarca anche lui.La lettura della composizione poi, per sè stessa, sto-ricamente, ci riporta, a un momento, in cui il giovinetto è incerto e mostra non fidarsi delle sue potenze

“…… vil palustre augelloChe non osa trattare le vie de’ venti Mesto m’aggiro del basso colle intorno,,...

È da escludersi quindi che, nella oscurità in cui si trova in tal tempo il poeta abbia potuto aver composto “La Fata Galanti,,, che segnò il momento decisivo della sua carriera poetica e gli schiuse le porte della celebrità. Se la data del poema, come ha dimostrato il Cesareo e come vedremo più tardi, non è il 1759, ma certo non può riportarsi oltre il ’62, la poesia in questione è per il soggetto e per tendenze stilistiche, senza dubbio an-teriore.Ed allora? Come avrebbe potuto dedicare ai Pastori Ereini un sonetto in un’epoca in cui l’accademia era

47 Poetica varia - Ms. 4 Qq B I cit. fogg. 361-362 retro. Due di questi sonetti sono pubblicati in Opuscoli di autori siciliani Tomo V pag. 325 - 326.

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chiusa?Probabilmenie il Bonajuto parlando di 17 anni di silenzio, salta un periodo dell’accademia stessa, in cui si dovè riaprire per richiudersi dopo poco. Il Marchese di Villabianca, che nelle cose, di cui potè essere testimone diretto, merita molta fede, dice a un certo punto parlando dell’accademia “Dopo la morte del Resultano,, (il fondatore) “fu favorita da Bernardo Montaperto Princ. di Raffadali, e dopo di esso dal novello Princ. di Resuttano Federigo di Napoli e Montaperto il Giovine, che la mantenne sino al suo Pretorato di Pal. tenuto nel 1775 e 1776. Dopo di che andò ad estinguersi nel 1777,, e sotto si legge: “Monsignore Carlo Santacolomba...., fu l’ultimo Corifeo Ed io sudetto Villabianca fui uno degli ultimi Critici Ereini48,,. Il Villabianca cita qui la sua patente di critico, per cui assunse il nome di Polidamante Titeo e dice di essere stato anche Censore dell’accademia. Era quindi in grado di conoscere bene le cose di essa. Dunque nel tempo in cui fu mecenate il Principe di Raffadali il Meli dovè scrivere il sonetto e il suo desiderio di far parte degli Ereini dovè essere deluso perchè l’accademia, venne allora presto a mancare. Pertanto è da ritenersi rispondente al vero la data del Cesareo 1760-1761.In seguito al riaprirsi dell’accademia, il poeta con diverso carattere della primiera composizione, con maggiore coscienza del proprio valore e con maggiore di sinvoltura vi reciterà la satira “Contra li Cirimonii e lu Galateo,, in una corona di componimenti poetici recitati da vari accademici.Nell’Accademia degli Ereini il Meli ha agio di incontrare quasi tutti i poeti del tempo suo.

48 Le Accademie palermitane Ms. cit. Qq E 101 fog. 321.

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CAPITOLO IIILA “GALANTE CONVERSAZIONE,, — ANTONIO LUCCHESE PALLI PRINCIPE DI CAMPOFRANCO SUO FONDATORE E MECENATE — LA VITA DI LUI — IL PROCESSO CONTRO I FALSARI — ULTIMI ANNI.

Un momento di somma importanza per la vita del Meli e per il nostro studio è rappresentato dalla fon dazione della “Galante Conversazione,, non accademia propriamente, ma riunione di poeti e di dotti per volontà di un signore, che vuole mettersi in evidenza anche col mecenatismo.Questo signore è Antonio Lucchese Palli e Gallego Principe di Campofranco, una personalità veramente ragguardevole per natali e per cariche, chiamato da Napoli a Palermo, per parte del governo in un processo contro dei falsari. In questo tempo egli è già rinomato come poeta improvvisatore e munifico magnate. Vedremo che egli diventerà uno dei più grandi amici del Meli, anzi il protettore di lui, che nella “Galante Conversazione,, “ebbe finalmente modo di affermare pubblicamente e di fare ripetere il suo nome49,,.Prendiamo attraverso i cenni biografici, che ci rimangono conoscenza della vita anteriore di lui prima di parlare della fondazione della “Galante„.

49 Cesareo — Lezioni accademiche cit. Anno 1914-1915 pag. 180.

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^ j■•i Il Mugnos, il Villabianca, il Savasta ed altri scrittori,

seguiti dal Panvini50 fanno risalire la sua origine ad Adinolfo Palli, figlio della sorella di Desiderio, ultimo re dei Longobardi. Da una prosapia così illustre egli, dal Principe Emanuele e da Domenica Gallega, figlia del Principe di Militello, nacque in Palermo il 25 luglio 1716. A quattro anni, il 20 novembre 1720 fu investito del feudo e ducato della Grazia, il 7 aprile 1732 del feudo e principato di Campofranco. Frattanto avea ricevuto la sua prima educazione nel Collegio dei PP. Teatini.Il suo panegirista Ortolani dice che egli mostrò sin da fanciullo una grande passione per le belle lettere, “e dotato essendo di fervida immaginazione cominciò assai di buon’ora a poetare,,. Si comprende subito che la parola immaginazione non sta qui in funzione di “fantasia,, se il buon Ortolani aggiunge subito,,, imitando i Classici che sempre studiava e tenea allo spirito presente,, i suoi poeti preferiti furono, a dire di costui Pindaro, Anacreonte, Orazio e Tibullo, e “dal terzo intraprese una volgarizzazione in italiano fin dall’età di anni 15 età in cui suole pello più trastullare ancora51,,.Sfrondando le soverchie lodi, che, alla maniera dei critici romantici, l’Ortolani si fa dovere tributargli, possiamo apprendere che, mortogli il padre, Antonio, seguendo la moda diffusa tra i nobili del tempo, entrò quale Cadetto nel reggimento di Fanteria della Regina. Intanto studiava la tattica militare, la matematica, la fisica, la chimica, e le altre scienze e nelle ore d’ozio coltivava le Muse. Ben voluto dai superiori, dalla Corte, egli fece rapidi progressi nella carriera militare. Tolse a moglie intanto Anna Maria Tommasi e Valguarnera, figlia del Principe di Lampedusa, grande di Spagna di prima classe. Nel 1738 fu eletto Capitan giustiziere della città di Palermo, “carica assai delicata e nobile, solita affidarsi ai Primogeniti nobili agiati e prudenti onde ben curare la polizia della Capitale52,,. Nel 1754 formò a sue spese un Reggimento di cavalleria di Linea nominato “Sicilia,,, la cui bandiera portava dipinta l’immagine della Trinacria e del cavallo sfrenato e la leggenda: Diu Trinacria domuit e ne assunse la direzione quale Colonnello proprietario.

50 Mons. Pasquale Panvini - Cenno biografico di A. Lucchese Palli e Filangeri (nipote del nostro).51 Biografia degli Italiani illustri contemporanei compilata da Giuseppe E. Ortolani e da altri letterati - Napoli 1817-18 in 2 volumi.

52 Ortolani -op. cit.

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Dovette dopo quel tempo recarsi a Napoli, se nel gennaio 1759 il Villabianca dice che egli venne a Palermo quale accusatore nel processo contro i falsificatori della moneta.L’avvenimento veramente importante perchè implicava la condanna di nobili quali il Principe di Cammaratini e il Marchese di Giarratana e che dovette sollevare grande scalpore nel regno, merita di essere riportato nella narrazione del Villabianca come un documento caratteristico della vita del tempo.All’anno 1759 gennaio dei “Diari,, si legge: “Giovanni Settimo e Settimo, Principe di Cammaratini, Francesco Costanzo ed altri gabeloti ed impresarii della monetazione di questo regno di Sicilia nella Regia zecca di questa capitale furono accusati alla corte che la loro moneta correva mancante e come tale essere rei di lesa maestà in primo capite. A queste istanze li ministri patrimoniali si portarono alla zecca e fecero diversi saggi i quali riuscirono buoni a tenore dell’obbligazione che avevano colla corte li detti impresari.Venuto però in Palermo Antonio Lucchese principe di Campofranco, che, come si dice è l’accusatore e avendo portato con sé particolar commissione di sua maestà esibì la sua carta allo ecc.mo sig. viceré march. Fogliani, con la di cui autorità, estratto dal tesoro pubblico della Città di Palermo, ossia dal denaro della colonna frumentaria, un saccotto di moneta della somma di onze trecento di tante fenici e onzine d’oro di diversa coniazione, queste si fusero di nuovo alla presenza di esso sig. viceré, Campofranco, ministri patrimoniali ed artefici, e fattosene lo sterlinio si trovò che ogni onzina ossia fenice di oro mancava di valore intrinseco due carati e cinque ottavi di oro.A questo prese la fuga il principe di Cammaratini, principale impresario e con esso li principali due fonditori ed altri e per la detta fuga venne carcerato in Castellammare il Marchese di Giarratana Ruggieri Settimo e Calvello sotto il 30 gennaio 1759, a ciò, dovesse rispondere per suo fratello, e almeno deponesse con formale revelo in qual luogo, quegli si fosse ricovrato. In questo stesso giorno furono catturati il Costanzo con altri sette subalterni ufficiali di monete. Dissesi essere stato il capo di questa scoperta maestro

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Antonino Penzallorto e questi fu che fece entrare nella lizza il Campofranco.Questo però di Penzallorto fu indi ucciso con una carabinata nell’anno 1766, vicino la Bocceria della fogia. Il Principe di Partanna, capitano giustiziere, assalì la casa di Giarratana: ma intanto diè largo al Cammaratini di fuggirsene. E notisi che, portandosi in castello il Marchese di Giarratana, parecchi consoli di maestranza, si offersero pel suo disimpegno dalli suoi nemici, considerandolo un signore assai popolare.Il principe di Cammaratini si fè monaco, sacerdote conventuale del Terz’Ordine di S. Francesco, sotto il none di Padre Antonio Osorio, in un convento della città di Roma; e si sa che vive infelicemente, malcontento pur troppo del novello suo stato… Colla staffetta di Napoli del di 25 febbraio 1759 venne di poi disaprovata dalla Corte la carcerazione del marchese di Giarratana: e perchè si procedesse con tutto il rigore contro i delinquenti impresari di zecca, fu eretta da S.M. una giunta criminale di tre Ministri, da’ quali si facesse il processo contro de’ rei, dando loro il condegno castigo e il rimpiazzo degli interessi che han patito l’erario regio e tutto il pubblico di questo regno.Sono i ministri giudici… E notisi che alla testa di questo nuovo tribunale si vede, lo stesso viceré marchese Fogliani, che prende capezziera; e il tribunale si tiene in una delle stanze di detto signor viceré, a lato di cui in una sedia alquanto distante, senza però che avesse luogo, si vede sedere Antonio Lucchese, principe di Campofranco, come commissionato principale di quest’affare, e primario di esso sollecitator fiscale.Il che ha dato negli occhi a tutti; e non fanno altro che

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mormorar della di lui negra azione.....53

Pagine che possono fornire esempi per la storia di quella società e dalle quali scaturiscono importanti considerazioni. Immoralità nei nobili, favoritismo nei ministri corrotti anch’essi, magistrati patrizi, che fanno fuggire il delinquente, perchè la nobiltà deve essere immune da condanna, dedizione completa dei sottoposti, che si vendono come schiavi al potente, corruzione nei conventi, ove si rifuggiano grandi peccatori impenitenti e ribelli, intrighi e fosche vendette. E come si sentì mal represso il malcontento del Villabianca, che è la voce di tutta l’aristocrazia contro il Campofranco, emerge in quell’aura di colpa, novello Farinata, la personalità di lui, cui il governo si fa uno strumento per accusare e punire. Egli si rivela il potente che non teme agguati o vendette, l’uomo dal giudizio indipendente, che si ride di disapprovazioni e mormorazioni. Egli, nobile del più puro sangue, non sa che farsi del del disprezzo dei suoi simili: s’è accusato ribatte l’accusa, senza riguardi, prepotente, superbo, mordace, ironico.

E il Villabianca merita molta fede se riferisce anche ciò che poteva eternare il ricordo di uno scorno della sua casta e perpetuare il trionfo di questa specie di ribelle alle vetuste tradizioni.

Dopo la pag. 263 del manoscritto del diario citato, si ha d’altra mano copiato il seguente sonetto

“N. N. tacciato da una dama in un affare di conseguenza così rispose all’impronta alla medesima:

Madonna se intendete l’Evangelo.Fra Giuda e me vi è molta differenza,Sia in buona pace di vostra Eccellenza,O la sbagliate o fa parlarvi il pelo.Giuda tradì un amico. Io giuro al cielo che mai diedi a un cotale confidenza.Giuda un giusto tradì. L’esperienza Mostra che contro un ladro ardo di zelo.Giuda si diè ad un vil guadagno…E si ebbe poi trenta denari in dono.Io pagherei per appiccarlo il laccio.

53 Villabianca. Diari Bibl. Com. Qq. D. 93-117 Pub. In Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia Vol. XIII, gennaio 1759.

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Dunque madama mia Giuda non sono Ed il vostro bel labro or lodo, e taccio,Per mostrar che di voi me ne......,,

Sotto questi versi si legge di mano del Villabianca:“Questo sonetto fu composto all’impronta dal principe di Campofranco, dando risposta alla principessa di Butera, che lo tacciò di traditore e di Giuda,,.Un uomo quindi molto risoluto e bizzarro, che rispondeva bene alle importanti missioni del Governo affidategli. D’altra parte un improvvisatore di molta facilità, un tipico rappresentante della mania versaiuola del secolo, cui tutto è occasione a stender un sonetto e che gitta i suoi estemporanei, persino ove altri avrebbe lanciato il guanto.Il servigio reso al governo gli frutta la nomina di Maestro Razionale detto di Cappa e Spada del Tribunale del Patrimonio “carica nobile e di confidenza: e la quale esigeva applicazione e proibità; qualità eminenti dal nostro Principe possedute,,. Così l’Ortolani, egli però, ci dà la data del 1758, che dobbiamo ritenere inesatta, anche perchè sposterebbe quella precedente del processo. L’Ortolani poi, scriveva a distanza di tempo e fra due testimonianze, la sua e quella del Villabianca, è da scegliere quella del contemporaneo anche per l’indagine scrupolosa della fonte che egli dimostra.Accanto alla data settembre 1759 del Diario citato noi leggiamo: “Antonio Lucchese e Gallego, principe di Campofranco, fu gratificato da S. M. con la mercede di maestro razionale del real Patrimonio di Cappa e Spada, supernumerario, con soldo di onze duecentocinquanta all’anno, e con l’adozione di succedere al posto di maestro razionale ordinario nella prima vacanza; e questo atteso li suoi servigi per aver discoperto la frode commessa dal principe di Cammaratini nella falsificazione della moneta. E questa mercede di onze 250 all’anno l’ho veduta io nei libri di Protonotaro, nel reg. di num. I-VIII ind. 1759 e 1760, concessa nell’anno 1759,,.L’indicazione del marchese di Villabianca è veramente precisa. Io che ho potuto avere tra le mani i registri del nostro Archivio di Stato ho potuto ammirare la sua

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indagine scrupolosa54.Il resto della vita del Campofranco scorre da un onore, a un altro più eminente.È eletto infatti Gentiluomo di Camera con esercizio da S. R. M., nel 1766 è fregiato del Real Ordine di S. Gennaro quindi è fatto Brigadiere e Maggiordomo Maggiore della Regina Maria Carolina e ancora Tenente Generale degli Eserciti, nella quale dignità muore a Napoli l’anno 1803.

Questo l’uomo e il munifico magnate, che apre le sue sale ai dotti e ai poeti del tempo, che ama circondarsi delle mentalità in auge, per sottoporre ad esse i suoi versi e riscuoterne elogi, che si compiace che il suo nome corra glorioso da un capo all’altro della patria, che lo saluti concorde “novello Rolli,, o “Metastasio di Sicilia,,.

CAPITOLO IV

54 Ecco il testo del documento dell’Archivio di Stato:Regia Cancelleria Anno 1759-60 Fog. 9 retro e segg. Ind. ne 8. - Assento di 250 di salario annuale a favor dell’Ill. Principe di Campofranco Maestro Razionale di Cappa e Spada Supernumerario con l’esercizio del Supremo Tribunale del R P°.Carolus rex Spectabile Regio Fidele Dilecto. All’ Illustre March. D. Luca Antonio De Laredo Conservatore General del P. R. incarichiamo che nei libri d’assenti per conto dei Salariati di R. Corte che si conservano nel di lui ufficio faccia formare il seguente cioè:All’Illustre P.r di Campofranco D. Antonino Lucchese paga la R. Corte cogl’ introiti della R. C. pervenuti e da pervenire in tavola di questa capitale e da polizza della R. G. Tesoreria autorizzate col pagasi dell’ Illustre pr. di questo Supremo Tribunale la somma 250 annuali di mese in mese posposta che gli spettano come Maestro Razion. Supern. di Cappa e Spada di questo Supremo Consiglio Patrimoniale in cui nuovamente è stato promesso della Real munificenza di S. M. C. all’esercizio d’oggi innanzi e con la subintranza subito che gli appartiene nonché col soldo effettivo da pagargli per via della Tesoreria Generale finché entrerà alla piazza di numero nonostante che si trovasse Coronello di Reggimento di Cavalleria di Sicilia conforme si cava il tutto del tenore di un R.° diploma con la data de 15 Sett.bre p. p. 1759 comunicato al nostro Supremo Tribunale con viglietto di nostra Réal Segreteria dal medesimo mese di settembre da correre detto salario a favor d’esso Ill.re Princ. dalli 5 del corrente mese di novembre 1759 giorno nel quale si immise nel possesso di detta carica di maestro Razionale come scorgesi dall’atto di possesso dell’Ufficio di spaccio Protonotaro con la data de 15 del sud. mese di no-vembre e che il salario sudetto sii e si paghi in onze 250 annuali. Si ravvisa da una fede dell’Uff.° della R. Conservatoria Generale in data de 15 di detto mese di novembre. Quindi in riguardo allo anzidetto si devono corrispondere e puntualmente pagare le sudette onze duecentocinquanta annuali da detto di 5 ottobre in poi con li detti introiti della Tesoreria Generale nella forma che si prescrive in detto viglietto il di cui tenore è lo seguente: (Segue in Ispagnolo il viglietto dove è lodato fra l’altro “il servizio di aver Campofranco con suo particolar zelo condottosi a scoprire la frode commessa nel regno della falsificazione ed alterazione della moneta d’oro…il che lo fa segno della real gratitudine. La data è 27 settembre 1759).

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LA “GALANTE CONVERSAZIONE„ — SUA FONDAZIONE E QUESTIONI INERENTI — DATA DELLA “FATA GALANTE„ — DIMESTICHEZZA DEL MELI COL PRINCIPE DI CAMPOFRANCO — LA POESIA A LUI DIRETTA — IL DUCA DELLA GRAZIA E IL BARONE RICCA — LE GARE POETICHE DELLA “GALANTE,,

Bisogna convenire che la parola “ galanteria„ fosse qualcosa di troppo caro alla beata Palermo del ’700 per associarla ad ogni piacevole manifestazione della vita, con quella sua aria seducente di frivolo, di effimero e di graziosamente ipocrito.Nel gran mondo tutto è “galanteria„ dal sorriso del cavalier servente all’eleganza della dama, dal movimento di un ballo al lusso di una festa, dalla munificenza di un signore al verso di un poeta. “Galante„ è l’attributo che più ambisce un principe, sia che offra delle luculliane cene, sia che schiuda le sue sale ai convegni dei poeti, sia che operi l’una e l’altra cosa, poiché esse vanno spesso assieme.Cosa c’è di più notevole nell’Accademia degli Ereini? Cos’ è che può attirarvi un verseggiatore, come Stefano Melchiore a rimare in “Favore dell’ignoranza„?

Guardati ccà sti omaggi, e onuri tanti,Paggi, stafferi, lumi risplendenti,La prisenza di un Principi galanti,Chi vi accogghi cu tanti cumplimenti,Seggi, commodità pri tutti quanti,Ed ogni cosa disposta eccellenti:Su dedicati tutti chisti onuri,Pri la gnuranza di loru signuri55

E la cultura non può che essere “galanteria„, qual cosa di superficiale e di frivolo, di diluito e di vacuo, tale da formar il passatempo d’una dama “colta„ allo uso dei tempi, o di un nobile semi-analfabeta.Lo Scinà, a proposito delle “Lettere critiche scritte ad

55 Melchiore - Poesie giocose op. cit. pag. 32.

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una dama in Livorno„ di Niccolò M. Burgio dice: “Questa maniera di letteratura prese il nome tra noi di “galante„ e galante fu chiamata l’Accademia del “Principe di Campofranco, dalla quale ebbero origine le lettere filosofiche di Anna Gentile e Gagliani che toccan di metafisica e dei vantaggi e svantaggi del viver sociale56,,.Egli c’informa che queste lettere furono mandate alle stampe per bizzarria del Principe di Campofranco. E soggiunge “Per buona ventura fu questa galante lette-ratura presto screditata dalla istituzione dell’Accademia degli Studi in Palermo, dalla riforma dell’Università di Catania e da’ letterari stabilimenti che ricondussero gl’ingegni alle sode scienze, ed allo studio delle cose “particolari57,,.Questo principe bizzarro ed anche ambizioso doveva essere veramente contento di diventare il mecenate della “Accademia della Galanteria,, come la chiamò il Melchiore ed essere il “Principe Galante,, per eccellenza,,.Lo Scinà, concordemente al Di Blasi pone anno della fondazione il 1760 e soggiunge che il Lucchese Palli “radunò presso di sè Niccolò Cento, Tommaso Natale marchese di Monterosato, Francesco Carì, Carmelo Controsceri; Mariano Scasso ed altri soggetti, che tutti erano intesi a promuovere le lettere ed a renderle, quanto allora si potea più gaie e gentili,,.Il palazzo ove si riuniva la “Galante,, non era quello di Piazza Croce dei Vespri, come avea già scritto lo Scinà, ma era posto secondo l’attestazione del Villabianca nella contrada della Kalsa, strada dello Spasimo58. In esso il Principe “fe’ più volte le sue comparse di improvvisare in lingua toscana, seguendo lo esempio lasciatovi dalli furono accademici detti delli “Squinternati59,,.Avendo conosciuto alcune poesie del Meli, che essendo

56 Lettere filosofiche di Anna Gentile e Gagliani - Napoli. Nella stamperia della Società Letter. e Tipograf. 1730 in 8°.57 Prospetto cit. II pag. 104.58 Il Palermo d’oggi-giorno pubblicato da G. Di Marzo in Biblioteca Storica e Letteraria di Sicilia Vol. XIV quarto della 2a serie: Palazzi e case civiche pag. 117. Sotto vi è stata apposta questa nota del Di Marzo stesso: “Ma più recente palazzo de' principi di Campofranco esiste in piazza Valguarnera, oggi Croce de' Vespri, il quale indi a’ dì nostri, dopo la morte del principe Antonio Lucchesi Palli venne in possesso di Ettore suo secondogenito, duca della Grazia marito della real principessa Carolina Ferdinanda Luisa, vedova del Duca di Berry,,.59 Villabianca. Le Acc. Pal. Ms. cit. pag. 329.

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ancor giovanetto, poetava sulle orme del Petrarca e dei suoi illustri contemporanei, tra cui il Rolli e il Metastasio, non senza forse un’influenza del Campofranco stesso già celebre (oltre a un primo periodo di poesia filosofica), il principe volle ammetterlo nella sua scelta società di letterati e di poeti. Giovanni D’Angelo, nella Biografia del Meli, così ci racconta l’esordio di lui nella “galante,,: La prima volta che recitò componimento fu una anacreontica Italiana dello scriver del Rolli, della cui lettura dilettavasi il giovane poeta.A molti piacque quel primo saggio de’ talenti poetici del Meli, ma assai dispiacque al Principe Mecenate dell’accademia. Questo Signore moveasi a censurada non perchè scorgeavi dei difetti, ma perchè egli riputandosi l’Anacreonte Siciliano volea comparire senza compagno in tal sorta di poetare. Gli amici però del Meli, esortavamo di continuo a non iscoragirsi, ma a seguire a scrivere e a cantare anacreontiche italiane in quel letterario congresso.Il prudente giovine però, ascoltar non volle i loro consigli, non sembrandogli cosa giusta, che dovesse scrivere contro il genio del P. di Campofranco in un’Accademia che teneasi nel suo palazzo. Pensò adunque di tentare una provincia non da altri prima di lui trattata, quella cioè di scrivere Anacreontiche in idioma “siciliano60,,. Il D’Angelo scriveva vivente il poeta, del quale era amico e ammiratore, l’anno 1797.La notizia è ripetuta dal Gallo, sicché tutti i biografi posteriori sono stati concordi nell’attribuire al Campofranco la spinta data al Meli a poetare nella lingua, in cui egli si rivelò grande artista. Dobbiamo pensare però che egli, se da una parte fu mosso dal desiderio di far cosa grata al magnate, dall’altra dovè sentire una vivida gioia nel potere librare le sue creature con quella facilità che gli derivava dall’intima conoscenza del natio strumento espressivo. Egli compose allora “La Fata Galanti,,, con cui volle eternare la sua gratitudine per la “Conversazione,,, che gli aveva dischiuso le sue porte, e ne riscosse entusiastiche lodi, che segnarono il suo battesimo di gloria. Il Gallo, ripetuto poi da tutti i bio-grafi, dice che il poeta non avea allora che diciotto anni e che l’anno seguente 1759 pubblicò questo suo giovanile

60 G. D’Angelo - Biografia di G. Meli publicata in Opere poetiche del Meli ediz. Alfano 1915 - Poesie pag. XXIV.

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capolavoro riscuotendone universali lodi e, per la sua età giovanile, l’epiteto di “poetino,,.La notizia della pubblicazione è anche nel D’Angelo, ma il Cesareo ha sfatato questa specie di leggenda, che circolava intorno ad un’edizione del 1759, che nessuno ha mai visto, e ha mirabilmente dimostrato che la “Fata,, sia da riportare ad alcuni anni più avanti della vita del poeta, anzi egli fissa con precisione il 28 febbraio 1762, giorno della lettura del poema dinanzi alla “Galante61,,.Il Campofranco lodò moltissimo il poemetto della “Fata,, ed esortò l’autore a scrivere sempre in lingua siciliana. Egli fu veramente uno dei più grandi amici del Meli. Il D’Angelo dice che “lo invitò a coabitare con sè, onorandolo dell’abitazione del suo palazzo, e del suo pranzo quotidiano. Fu tale invito dal Meli sommamente aggradito e da quel momento cominciò ad usare col P. di Campofranco con la più intima dimestichezza,,.Noi vediamo quindi che ai suoi primordi si delineò abbastanza lieta la vita del “poetino,, ed è forse con un senso di rimpianto nel pensiero di questo tempo beato, che egli, più avanti negli anni, si mostrerà meno contento della sua fortuna.In compagnia del principe egli godeva gli agi del palazzo di via della Kalsa, prendeva parte alle feste ed alle mascherate che vi si tenevano, agli “stravizi,, carnevaleschi, ascoltava le “improvvisate,, di lui e re-citava i suoi “capitoli,,.Il Campofranco produsse sopratutto poesia amorosa, e anche il Meli, contemporaneamente a lui e probabilmente nelle medesime riunioni accademiche, cantava le lodi di donna amata: le sue odicine piene di grazia e di delicate immagini, rispondenti a delle forme concepite realmente nella loro interezza dalla sua fantasia perfetta.A queste accademie dì poesia amorosa allude il Meli nella sua lettera in versi al Principe di Campofranco, inviatagli quando questi era già tornato a Napoli a coprire le più eminenti cariche nell’esercito e presso la corte:

Fummo lo sai consoci In sull’Ascrea pendice Tu celebravi Fillide,

61 La giovinezza di G. Meli op. cit. pagg. 256 e segg.

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Ed io cantava Nice62

In una di queste riunioni poetiche il Campofranco, dovè recitare la canzonetta “sugli occhi di Fille,, che è tra le meno leziose del suo Canzoniere e che per impostazione e movimento ricorda le odicine del Meli, risentendo forse l’influenza che la poesia del Meli esercitava già sulle composizioni del tempo63. L’epistola in versi è un’improvvisazione fatta dal nostro poeta in casa di un Duca, che scriveva al Campofranco tornato a Napoli. Egli conchiude non appena il Duca termina la lettera, perchè il suo foglietto possa essere contemporaneamente recapitato. È da ammettersi col Cesareo che questo “Duca Eccellentissimo,, come è nominato nella poesia, sia con ogni probabilità Emanuele Lucchesi, Duca della Grazia, figlio del Campofranco e socio della “Galante,, col titolo “lu pinzirusu„.Costui infatti come primogenito dei tre figli del principe Antonio, essendo nato nel 1737, era stato dal padre investito del feudo e ducato della Grazia. Uomo di lettere e di un certo ingegno, sposò Bianca Filangeri, figlia del principe di Cutò. Morì a Napoli nel 1797, sei anni prima del padre64.Un segno della dimestichezza che esisteva fra il Cam-pofranco e il Meli è nell’allusione della lettera al “basso umile e rauco

Cantor di Polifemo......,,il Barone Ricca, un nobile, contro il quale il poeta borghese s’esprime con sufficiente libertà di pensiero prendendone le beffe, sicuro di trovare l’approvazione del principe.Il Barone Don Giovanni Ricca, nominato ancora col titolo di Abate, era uno dei tanti poetastri del tempo, socio della “ Galante,, ove aveva preso il nome di “lu Capricciusu„. Piccolissimo di persona, rauco di voce, verseggiatore insulso, si rendeva poco gradito agli ac-cademici, inoltre pare che il Meli provasse per lui una delle sue rare antipatie, anzi un vero e proprio rancore, che finì con un processo.

62 Poesie in opere poetiche ed Alfano cit.63 Poesie di Antonio Lucchesi Palli Principe di Campofranco – Tomo I Napoli MDCCXVI, pag. 192.64 Panvini Cenno biografico di A. Lucchesi Palli e Filangeri op. cit.

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Tutte le volle quindi, che si presentava l’occasione, egli lo scherniva per mezzo del suo verso, come nella sua atroce “Canzuna,,, specie di osceno epigramma, che si trova inedito in due manoscritti meliani della nostra Comunale65.

** *

Notevole è certamente la differenza tra l’intonazione dell’ode di cui sopra (nonché dell’epigramma) contro il Ricca e quella della “Fata galante,,, dove, ancor timido e pavido della sua posizione in quell’accolta di “blasonati,, che era la “Conversazione,,, il Meli ha per essi tutti parole di lode. Qui, non solo il Barone Ricca è fra i militi del “Gusto,, nella strage dei Seccatori, ma ancora è nominato dopo il Campofranco tra quelli, cui vinceva solo il canto di Pane e di Apollo, essendo i primi nel mondo:

Eu stava attentu a lu so improvisari:E mi sinteva in estasi rapiri,Dicennu ‘ntra di mia: cu iddi acantari Criju chi appena si ci po mittiri Lu Poeticu stissu; e avria a stintari Lu Capricciusu cca pri cumpariri;Lu Variu ancora: su’ li primi in munnu;Ma Apollu e Pani su’ chiddi chi sunnu66

Evidentemente il Meli avea presente alla fantasia delle tenzoni poetiche che nella “Galante,, avvenivano tra lu Poeticu, il Principe di Campofranco, e lu Variu, Girolamo Pilo, Conte di Capaci (delle quali è certa notizia) e, con ogni probabilità, anche con questo Barone Ricca, che forse era il meno abile di tutti.Il mito di Polifemo, ricordato nell’ode al Campofranco e nell’epigramma, dovette essere un tema trattato in varie accademie poetiche, se parecchie “cantate,, del Campofranco stesso lo elaborano sotto varii aspetti67 e il Meli amò riprenderlo nella magnifica creazione; di cui ingemmò la sua “Fata,,.

65 Uno di essi è il 4 Qq C. 33. Raccolta di poesie per uso dell’Eccell.ma Signora Contessa Ventimiglia fog. 349.66 Canto VIII ott. 10 Puisii pag. 411.67 Poesie cit. Tomo II — pagg. 87-97.

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In seguito alla lettura di questa, acquistatosi l’amore del Principe e la stima degli accademici, anche il Meli, divenuto più intraprendente, dovette essere ammesso a tenzone col mecenate e cogli altri improvvisatori.Una di queste poesie composta in collaborazione dal Campofranco e dal Meli, a me, che ho studiato profondamente le poesie dell’uno e dell’altro, pare di scorgere in quella che comincia:

Io meniitor ? T’inganni…proveniente dai mss. posseduti dalle eredi del Gallo: M. Rosa e Marianna Schiavo e pubblicata dall’Alfano come interamente scritta dal Meli, anzi come esempio unico di composizione bilingue del nostro poeta68.Ora, a parte le profonde analogie stilistiche, che hanno determinato la mia ipotesi, che ragione avrebbe avuto il Meli di mettere su un tal mostro estetico, senza alcun legame nelle singole parti, mentre quelle siciliane sono per sè stesse tanto piene di vita e di brio?Nella seconda delle parti italiane, che io attribuisco al Campofranco, egli parla appunto del mito famoso:

Ascolta or GalateaChe all’orrido CiclopeNel gergo istesso, in cui parlò VulcanoDirà, com’Ella suoleLiberi sensi in semplici parole.

E, nella risposta siciliana, a me appare di vedere il Meli ammiccante maliziosamente al Barone Ricca, mentre recitava:

Si un veru tataranchiu Quannu ti viju arrunchiu,Quannu ci pensu scunchiuVa levati di cca.

Ancora, dopo tanti anni, scrivendo al Principe tornato a Napoli, il ricordo di quell’insipido poeta non era spento nel Meli ed egli ne evocava gli insuccessi poetici nelle tenzoni sostenute con loro.

68 Puisii pag. 320.

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CAPITOLO VVITA E CONVEGNI DELLA “GALANTE „ — GLI EPITETI ACCADEMICI — LE OCCUPAZIONI EX TRA-POETICHE — IL D. D. MARIANO SCASSO NEI RICORDI DEL GALLO E NELLA POESIA DEL MELI.

Benché la “Galante,,, non fosse un’accademia vera e propria, ma un’accolta di amici più o meno dotti, che convenivano nel palazzo del Principe di Campofranco per recitarvi od ascoltarvi dei discorsi e dei versi, per divertimento, piuttosto che per profondo amore d’arte o di dottrina, essa aveva un andamento più regolare delle altre sale di convegno aperte di tanto in tanto nella città, come quella del barone Pietro Lombardo, ove il Meli reciterà “ Lu specchiu di lu disingannu„, in risposta a “Li origini di la società„, che gli è stata pure attribuita, e che invece il Cesareo ha dimostrato essere d’altro autore69. Luoghi di convegno dove si recitava una volta tanto dovevano essere pure la casa del Sig. Antonino Rossi, ove il Meli nel 1770 reciterà “La villiggiatura„, quella del Razionale Lo Forte posta a Mustazzola, cui scioglie un vero inno il Melchiore, e, alloggiando nella quale, il Meli forse concepì la sua creazione piena di luce “Li piscaturi,,.L’accademia del Campofranco era aperta ai soci dal mese di Giugno a quello di Aprile. Alla fine di tale mese si chiudeva, perchè il principe andava a villeggiare in questo tempo più propizio alla caccia, come si rileva

69 Lezioni accad. Anno 1916 pag. 208 e segg.

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anche da alcune ottave inedite del Barone Chiavarello scritte “in occasione dell’ultimo congresso della Accademia di Campofranco in Aprile 1762,,:

Cessamu amici, di chiù cantari E poi ntra Giugnu ripigghiamu arreri…..

Come nel “Buon Gusto,,, anche nella “Galante,, si passava il bussolo prima di eleggere un socio, che doveva essere quindi accetto per i suoi meriti a tutta la compagnia, inoltre i soci ricevevano un nome speciale, che non era il solito accoppiamento di nome e cognome classicheggianti alla maniera arcade, ma un epiteto che talvolta rispondeva a una qualità fisica, morale o intellettuale del socio in questione.Così, abbiamo detto, che il Principe di Campofranco vi prese il nome di “Lu Pueticu„, il Meli scelse quelle di “Lu Stravaganti,,.Delle altre personalità che frequentavano la Galante e il Meli ebbe agio di conoscere, alcune anche intimamente come vedremo, diamo un elenco, e della maggior parte anche il corrispondente nome accademico: Niccolò CentoTommaso Natale Marchese di Monterosato Ab. Antonio Francesco Carì (Lu Fantasticu)D. Ferdinando Monroy Duca di Garsigliano (Lu Gaiu) Girolamo Pilo, Conte di Capaci (Lu Variu)Dottore D. Mariano Scasso (L’Aggiustatu)Don Martino Ciancio (Lu Vivaci)G. Diego Sandoval Duca di Sinagra (L’Armoniusu) Vincenzo Ventimiglia Conte di Belmonte (L’Amabili) Girolamo Moncada, Conte di S. Pietro (Lu Bizzarru) Gioacchino Burgio di Villafiorita (Lu Cumpiacenti) Sac. Stefano di Melchiore (L’Aggradevoli)Principe Alessandro La Torre (Lu Saggiu)Don Giovanni Di Blasi. Giudice della R. G. C. (Lu Dulci)Giuseppe Chiavarello e Trigona Barone di Ralbiatu (Lu Bellu)Agostino Forno, Barone della fede, volgarmente detto

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della TavolaAb. Gioacchino Monroy Cassinese Mons. D. Carlo Santacolomba (Lu Murali)Don Salvatore Carì (Lu Sullazzevuli)Sac. Antonio Urso (L’Ammirabili)D. Carmelo Controsceri (L’Acutu)D. Giambattista Pagano (u Brillanti)Barone D. Giovanni Gerbinu (Lu Seriu)Dott. Giovanni Gianconte (L’Acclamatu)Dott. Gaetano Liuzza (Lu Garbatu)Garsia D. Giuseppe Bar. di Calabria CascioBernardo Bonajuto (L’Astutu)Abbate Larghi (L’ Officiusu)Orazio La Torre (Lu Cumpagnevoli)Sac. Girolamo Caravecchia (Lu Profunnu)Cav. Saverio Landolina di Siracusa

***

E’ da dire che la vita della “Galante,, non fosse tutta una dedizione alle Muse, se pur più o meno frivole o più o meno oscene. I soci vi si divertivano veramente, vi s’intrattenevano con giuochi: il giuoco dei tarocchi, della bassetta e delle ombre, facevano ancora il giuoco della “Sibilla Cumana,,, seguendo una moda venuta dal continente; si mascheravano di carnevale e andavano ai “ridotti,,, o ballavano nelle feste, di cui era prodigo il principe stesso, recitavano o assistevano alle produzioni che il Campofranco o qualche suo segretario scrivevano e che si facevano cantare poi con fantastica messa in iscena.Nè le delizie della gola erano secondarie a quei buontemponi settecenteschi.

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Molti pranzi e cene luculliane venivano imbanditi con sfarzo e con originalità.E il principe Antonio vi dava spesso prova delle sue tendenze bizzarre, non indegne del secolo, che produsse il Principe di Palagonia. L’11 novembre 1775 egli faceva mangiare carne di asino ai suoi amici e commensali in un pranzo tenuto loro appositamente.Il Villabianca che lo racconta nei suoi Diarii dice che ciò il principe fece “per dar prova di come saprebbe riuscita al gusto del palato e ricevuta nella città tal sorta di carne. Ad alcuno parve saporosa e quasi tutti se la mangiarono con piacere, essendo stato il poledro ben pasciuto di orzo e di erbe delicate. Ciò nonostante non ebbe seguito in conto alcuno70,,. Ma tutto ciò era, a sua volta, stimolo a compicciare dei versi. Infatti per quella occasione corsero dei distici latini riportati dal Villabianca, inoltre il Segretario del Campofranco, Bernardo Bonajuto compose su l’asino ogni sorta di rime e magistrali e ancora dopo qualche anno lodava con piacere la memoria di tale bestia o dalla “sua coda,,, che allungava quella del suo insipido sonetto71.

***

Tra i personaggi della “Galante,, e del piccolo mondo meliano, una figura spicca singolarmente nella sua co-micità: quella del Dott. D. Mariano Scasso e Borrelli, poeta amicissimo del Meli e ispiratore molto spesso della sua musa faceta.Patrizio palermitano, egli nacque il 25 agosto 1725 dal Dr. D. Giovanni Antonio e da Grazia Borrelli e gli furono imposti i nomi di Mariano, Giovanni, Baldassare, Giuseppe, Bartolomeo. Intraprese la versione del francese in italiano della “Storia generale di Sicilia,, di N. Levesque de Burigny, che corredò di copiose note e tavole cronologiche continuandola fino ai suoi tempi. A questa traduzione permise una “Descrizione geografica dell’Isola di Sicilia72,,.

70 Diarii cit. in Bibl. st. e lett. di Sicilia vol. XIII pag. 241.71 Rime giocose cit.72 Pubblicò l’intiera opera in sei volumi in 4.o coi tipi della R. Stamperia nel 1787-1794 e poi separatamente nel 1798 in 8.o la Descrizione geografica dell’Isola di Sicilia e dell’altre sue adiacenti per

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Scrisse inoltre un “Saggio dell’Antica Storia letteraria di Sicilia,, un “Discorso sullo Stabilimento del Cristianesimo in Sicilia,, e un “Prospetto della Letteratura di Sicilia,,, di cui abbiamo notizie in una lettera di un certo Camastra diretta a Giovanni D’Angelo, al quale lo scrivente chiede se lo Scasso abbia prodotto altre opere oltre a quelle elencate, che egli già conosce73. Fu socio di molte accademie, tra cui quella del Buon Gusto, ove fu ascritto il 1° aprile 176574.Agostino Gallo nei suoi autografi inediti su la Letteratura Siciliana del sec. XIX dice di lui che “addettosi alla giurisprudenza percorse i varii rami dello scibile, disordinatamente e a salti„. E continua: il suo “cervello balzano, l’indigesta farragine di cognizioni il resero spesso segno degli epigrammi dell’Abate Meli, al quale era familiare e forse gli servì di tipo pel suo Don Chisciotte da lui dipinto, come istruitissimo, ma stravolto in contrapposto di Sancio Panza pieno di buon senso, in cui il poeta volle raffigurar sè stesso75,,. La dimestichezza tra il Meli e lo Scasso dovette essere grande se questi due uomini spesso si trovarono a pranzare e a divertirsi insieme, parte di una compagnia di amici intimi, nella quale, bandite le convenienze e le cerimonie, si spandeva più schietta l’allegria dei due buontemponi amatori dei buoni cibi e del buon vino.Dai brindisi estemporanei che il Meli fece in tali conviti si apprendono i personaggi della gioconda brigata: quelli stessi che vediamo figurare ancora nella farsa “Li Meravigghi di Sicilia,,, più i coniugi La Torre, da tutti si sa quanto familiari al Meli e in casa dei quali talora avvenivano le liete riunioni, in tanta aura d’intimità il Meli poteva permettersi di cogliere il lato ridicolo della figura del D. Mariano: quella speciale condiscendenza che lo rendeva pieghevole a tutte le opinioni, che faceva di lui una specie di automa cui ognuno o ogni cosa poteva fare agire. È questa marionetta vivente che dipinge scherzevolmente il Meli ne “L’Omu machina,,:

Chi abbinchì mustrasi le stampe di Domenico Adorno.73 La lettera in data 9 del 1801 da Mezzomonreale è inserita nelle Memorie per servire alla Storia letteraria di Sicilia dell’Ab. G. D’Angelo. Mss. Qq E 150 della Bibl. Comm. C. 1226.74 Cfr. Catologo dei nomi degli Accademici del Giornale dell’Accademia del Buon Gusto nel manoscritto cit. 3 Qq B 151 della Bibl. Com. di Palermo.75 Agostino Gallo - Letteratura siciliana sec. XIX - Autografi inediti posseduti dal Dott. Giorgio Traina.

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Omu binfattu Liberu arbitriu Nun n’avi affattu Sulu lu movinu L’uggetti intornu.‘Na donna, un cavulu Un servu, un cornu76.

Il Gallo racconta su tale argomento: “Era di carattere cedevole alle altrui opinioni e al proposito mi rapportava Meli, che in una disputa che lo Scasso ebbe con un protestante cui credeva di convertire al Cattolicesimo, alle gagliarde repliche di costui profferì pian piano al Meli: par che abbia ragione. Allora disse il Meli in tono scherzevole: bello apostolo ha scelto il papa da farsi insaccare da un avversario. Ha creduto di poter acquistare una pecora smarrita e ne ha perduto due,,.A questo aneddoto s’è sincero, si riattacca evidentemente la piccola strofa:

Tuccati st’organo E l’avirriti Santu o diavulu Come vuliti

E la seguente:Quann’entra In chiacchiara Cu li pirsuni Cui parra l’ultimu Sempri à ragiuni77

Questo stesso carattere di cieco assentimento alle ragioni altrui nello Scasso prende ancora di mira il Meli nel formare il personaggio di “Pilucca senza vurza„ de la farsa “Li meravigghi di Sicilia,,, fatta evidentemente per divertire gli amici. Il Gallo ci avverte che è appunto lo Scasso questo personaggio che, per ogni discorso altrui ha l’invariabile assentimento “dici beni„, “e ddocu dici beni„ e che modifica per compiacere altrui un suo

76 Puisii pag. 120.77 Ivi.

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pensiero sino a trasformarlo in uno di senso opposto78. Ma c’è un’altra poesia che nè il Gallo, nè alcuno mai degli editori e degli studiosi del Meli s’è accorto riferirsi allo Scasso: quella intitolata “Ritrattu di un certo Filosofuni di la pasta antica„. Essa, confrontata con “L’Omu-machina,, ci mostra moltissimi caratteri comuni nei due personaggi rappresentati, la cui identificazione si completa poi nell’informazione del Gallo: “Lo Scasso amava di comparire filosofo cinico e quindi allo amor dello studio riuniva quella della crapula e del vino79,,.Quest’ultima notizia è resa dal Meli nei versi:

Chi sulu cridi seriusi affariBrighi di cumpagnii, bigghiardi, e ceni,Unni arma forgia e teni fuculari80.

Questa bizzarra figura di buontempone settecentesco che fu padre di numerosa figliolanza scompariva dalla scena del mondo nella sua Palermo, il 17 dicembre 1800.

78 Cfr. “Li Meravigghi di Sicilia„ in Puisii pag. 335 e seg.79 Autografo ined. cit.

80 Puisii pag. 114: “Ritrattu di un certu filosofuni di la pasta antica,,.

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CAPITOLO VIL’“EGLUGA IN LODI DI LU GATTU,, — LA DATA E QUESTIONI INERENTI — LE NOTE DEL BARONE CHIAVARELLO — STORIA DELL’“EGLUGA„ ATTRAVERSO I MANOSCRITTI INEDITI DEL CHIAVARELLO.

Un punto di una certa importanza per il nostro studio è dato dalla composizione della “Egluga in lodi di lu gattu„ recitata nella Galante Conversazione dal Meli col concorso di tre altri accademici: Stefano di Melchiore, Barone Giuseppe Chiavarello e Bernardo Bonajuto.Importante, perchè c’illumina sui rapporti del Meli con questi poeti, mostrandoceli quali furono, non semplici relazioni di scuola, ma veri e propri rapporti amichevoli, che non s’esplicavano solo nell’ambito dell’accademia, bensì anche fuori, come si rileva dallo accenno al “ridotto,,, che è alla fine del componimento.Importante poi, perchè è, se non l’unica, almeno la principale delle composizioni, che ci rimangono in una forma dialogata, scritte dal Meli col concorso di altri.Quest’Egluga fu studiata molto profondamente dal Cesareo per un’allusione che vi si conteneva e che lo mosse a ricercarne la data, che egli fissò con molto acume: carnevale del 1765.Dovendo stabilire in quale epoca il Meli fu licenziato ad

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esercitar medicina, il Cesareo trovò in questo contrasto il primo accenno ad una licenza già ottenuta:

Iu comu prufissuri in medicina,Dirrò li qualità fisici e l’usiChi si nni fannu di sira, e di matina

e per stabilirne l’epoca, si valse, con fine intuito critico, dell’allusione al “ridotto,, che è negli ultimi versi:

Ma già lu viju chi siti annujati;Li Musi è tempu chi licenziamu;N’aspetta lu Riduttu maschirati,Tempu di gattiari, gattiamu.

L’opinione del Cesareo che la licenza ad esercitar me-dicina debba esser stata data al Meli tra il 1762 e il 65, se anche non fosse stata avvalorata dallo scoprimento della licenza, per opera dell’Alfano, avrebbe trovato sua conferma nel titolo, che l’Egluga ebbe nella redazione del Barone Chiavarello, da me trovata tra i suoi manoscritti inediti81. In essa, oltre ai nomi e ai titoli accademici dei “compagni galanti,, che recitarono l’Egloga, sono citate le loro rispettive professioni e il nome del Meli è preceduto della qualifica: “D.re in medicina,,.Ma v’è qualcosa di più. Il titolo porta inoltre molto chiaramente la data, che è stato oggetto di ricerche e che il Cesareo ha stabilito carnevale 1765.Qui invece è detto “carnevale 1764,,, tutto il titolo infatti, scritto con molta chiarezza è :

EglogaRecitata nel Carnovale dell’anno 1764 — dai sig.ri Compagni Siciliani — D.n Giuseppe Chiaravello e Trigona B.ne di Ralbiato — detto il Bello, Sac. Dr. D.n Stefano di Melchiore — detto l’Aggradevole, Seg.rio D.n Bernardo Bonajuto detto l’Astuto, e dal D.re in Medicina D.n Giovanni Meli detto lo Stravagante — nella — Academia intitolata la Conversazione de’ galanti sotto gl’auspici del

81 Debbo la possibilità di aver consultato tali manoscritti alla gentilezza del proprietario Bar. Giuseppe Starrabba di Ralbiato, discendente del Chiaravello; e del Cav. Barrilà dell’Archivio di Stato. Sono essi due volumi rilegati in pergamena di cui uno in cattive condizioni, e portano, assieme a molto poesie e bozze del Chiavarello anche poesie e lettere di altri, tra cui il Villabianca, il Bonajuto, Federico Lancia di Castel Brolo, il Melchiore e anche il Meli. In generale non portano numero alle pagine e quindi nelle citazioni non mi è stato possibile precisare il luogo.

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sig.r Prencipe di Campofranco.

Di fronte a una tale differenza di date, prima di accettare quella della testimonianza diretta, respingendo l’altra, che è stata frutto di deduzioni e di sottile indagine critica, vediamo di risolvere per nostro conto la questione con i dati di cui possiamo disporre. E prima di tutto ci chiediamo: è autografo il manoscritto del Chiavarello? Possiamo affermare di sì, per il confronto con le altre scritture dei due volumi, alcune delle quali portano la firma di lui della stessa mano e, specialmente con le bozze dei componimenti, alcuni dei quali sono poi egualmente ricopiati della stessa mano.Inoltre i volumi portano anche le prime stesure del-l’egloga, distribuite in varie parti e diverse tra loro per scrittura (che possiamo giudicare scritte in un primo momento dai singoli accademici), e quelle che ci danno la parte del Chiavarello somigliano per scrittura a quella della stesura definitiva, che le riunisce tutte, portando il titolo che abbiamo detto. Ciò però non dimostra che questa redazione sia stata scritta nello stesso anno in cui l’egloga fu recitata, anzi dal contesto ne risulta posteriore, come vedremo.In tal caso il Chiavarello avrebbe potuto sbagliare nello stabilire la data di un fatto, dopo che era trascorso del tempo.D’altra parte donde ricavò il Cesareo la data 1765? Abbiamo detto dall’allusione al “ridotto,, che è negli ultimi versi. Dopo la recita nella “Galante„, i soci andavano mascherati nel “ridotto„ che corrisponderebbe al nostro veglione. Donde anche la determinazione più precisa di Carnevale 1765.L’anno fu ricavato dalla storia del Di Blasi, il quale in un certo punto, dopo aver parlato della carestia che afflisse per più anni la Sicilia, dice che, in seguito all’abbondante produzione di grano avuta nel 1775, “cominciò ad abbondare il denaro nell’Isola, ritornò il commercio, crebbero le arti e viveasi nel seno della contentezza e del piacere. Contribuì ancora ad accrescere la comune allegrezza il marchese Fogliani permettendo nel carnevale che cadde quell’anno li ridotti ossia festini di ballo con maschera nel Teatro di Santa Caterina, ed allora i Palermitani cominciarono ad assuefarsi con

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piacere a questi divertimenti, sebbene abbia con accortezza il viceré stabilite le condizioni con le quali tenersi dovessero per evitare qualunque disordine82,,.Inoltre il marchese di Villabianca che, nei fatti di cui potè avere personale contezza, è un testimone scrupoloso e merita piena fede dice nel diario palermitano dell’anno 1765: “In quest’anno, 1765, e nel tempo di Carnevale di detto anno fu introdotto il ridotto festino di maschera nel teatro di S. Caterina ove fu lecito a qualsivoglia persona sì uomo che femina di andare a ballare sotto abiti di maschera. Ed il governo lo permise, ma sotto molte precauzioni e duplicate guardie sì urbani che militari regie, ad oggetto di arrestarvi i disordini. Suol cominciarvi la festa alle ore quattro della sera e finir suol sul cominciare del giorno seguente……Dalla capitania quindi del principe del Cassaro si conta la prima epoca del ridotto pubblico83.Ora se prima del 1765 non esisteva a Palermo il “ridotto,, noi non possiamo scostarci dall’opinione del Cesareo poggiata sulle due testimonianze e supporre una poesia che parlasse del “ridotto,, e fosse stata scritta prima che esso esistesse.A meno che il Meli non volesse intendere con questa parola una qualunque festa in maschera privata, come quella che nel 4 Marzo 1764, domenica si ebbe in casa del Generale delle armi per la venuta in Palermo del Principe della Casa reale di Hassia Cassel84. Ma c’è qualche altra cosa che conferma e avvalora l’ipotesi del nostro illustre maestro. Uno dei soci che recitarono l’Egloga è il trapanese Bernardo Bonajuto, che non troviamo nominato col suo soprannome di “Astutu„ nell’episodio della “Seccatura,, del Canto IV della Fata Galanti e pertanto ci ha fatto pensare che in quell’epoca non fosse ancora iscritto alla “Conversazione,,. Tra le rime giocose pubblicate da costui v’è un capitolo che egli indirizza a Mons. D. Francesco Testa Arciv. di Monreale etc. “In occasione di essere stato pregato di intervenire nell’Accademia Galante, lo stesso giorno, che l’Autore fu in essa

82 Giovanni Evangelista Di Blasi - Storia del Regno di Sicilia dall’epoca oscura e favolosa sino al 1774 - Palermo, Stamperia Oretea, 1847 - Vol. III pag. 423.83 Diario palermitano in G. Di Marzo - Bibl. Storica etc. op. cit. Vol. XIII pag. 244.84 Villabianca Diario cit. in Bibl. cit. Vol. XIII pag. 155-156.

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associato85,,. Importante per la cronologia è una nota di questo capitolo nella quale si enumerano “le tante virtù,, del Mons. Testa. Ad un certo punto si legge..... “Ed è poi degna di vera perpetua lode l’impresa già portata a fine, di appianare l’erta strada Regia, che pel corso di 4 miglia (contandosi dalla Porta maggiore di questa Capitale) guida agiatissimamente alla Città di Monreale86…..„.Ora si sa dal Villabianca87 e da altri che la strada di Monreale per opera dell’Arcivescovo Testa fu iniziata nel 1764 e compiuta nel 1765; dunque nei primi di tale anno fu associato il Bonajuto alla “Galante,, e, in qualità di socio, nel Carnevale potè collaborare al contrasto “in lode del gatto,,.Dunque è da ritenersi errata la data dataci dal Chiava-rello e giusta quella del 1765 trovata dal Cesareo, tanto piu che sappiamo dall’Alfano che la data della licenza in medicina del Meli è il 25 luglio 176488.Ma si dirà: perchè il Chiavarello avrebbe voluto trarre in inganno, egli che sapeva la verità? Evidentemente sarà stato tratto all’errore senza volerlo, perchè dopo molti anni la memoria lo serviva male, con una imprecisione analoga a quelle che si son potute riscontrare nelle notizie autobiografiche del Meli.Che l’Egloga poi fosse stata ricopiata dopo molti anni dalla sua recita ci è provato da certe correzioni nel testo, nella parte al Chiavarello attribuita, che modificano anche l’edizione meliana, il che riprova che l’autore aveva avuto agio di ritornare sulla sua parte e correggerla, e sopratutto dalle note che egli sentiva ormai il bisogno di aggiungere ad intelligenza del testo.Queste note ci riportano ad un’epoca in cui la “Galante,, doveva essere stata chiusa e sono interessanti per certi chiarimenti d’indole storica sulla vita di questa accademia.Così, dove nella parte del Bellu si legge:

“Cca c’è Madonna Sibilla Cumana Chi dumanna procardici materii89……….„

il Chiavarello annota: “in questa Accademia solea farsi il 85 Rime giocose cit cap. XVIII pag. 76.86 Ivi pag. 78 nota (a).87 Diario cit. in Bibl. cit. Vol. XIII pag. 248.88 Studi e documenti su G. Meli Opuscolo 4 pag. 71.89 Puisii ed. cit. pag. 320.

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gioco della Sibilla all’uso di Italia„; e un verso dopo, dove si legge :

“Ultra chi cca si dunanu argumenti Pr’improvisari in lingua italiana,, :

“Solea il Sig.r Principe di Campofranco improvvisare col S, Conte di Capaci.,,Alcuni versi dopo dove si accenna al Meli:

“Livannu nun vulissi fari pettuLu nostru Stravaganti, chi à un strumentuChi accorda a la sua vuci di falsettu,,

vi è la nota: “Il Sig.r Meli ha una voce semitonante„.Nella prima parte dell’Astutu, dove questi si lagna di non poter cantare per essere un miserabile, ad un certo punto si legge:

“E un certu amicu, mmatula si vanta:E’ veru che’ brigghiutu, francu e destru;E jetta versi a quaranta a quaranta…..„

E nella nota del Chiavarello: “Si allude al Sig.r Principe di Campofranco quando improvvisava.,,

** *

Sappiamo che della poesia del Meli “in lode del Gatto,, esistono due redazioni: l’una che è il contrasto col Bonaiuto, il Melchiore, il Chiavarello, di cui abbiamo detto e che fu pubblicato vivente il Meli nella Nuova scelta di rime siciliane (Tomo II 1774) e l’altra rimasta inedita sino al 1914, anno in cui fu pubblicata per opera dell’Alfano nell’edizione completa delle poesie del Meli.L’Alfano credette che la poesia fosse stata scritta dopo del contrasto90, il Cesareo, invece dal confronto la giudicò anteriore e noi esaminando i documenti, che abbiamo potuto avere fra le mani, abbiamo ancora una volta potuto ammirare l’esattezza di un giudizio del nostro maestro.Studiando i manoscritti del Chiavarello abbi amo potuto prima di tutto confermare un giudizio che avevamo formato a priori: che l’Egloga, cioè non fosse estem-

90 Puisii pag. 320 a.

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poranea, ma fosse stata elaborata sufficientemente. Ciò anche per il confronto con le altre poesie dei tre amici del Meli, più brutte e scorrette in genere dei brani in lode del Gatto.Ora, dai fogli posti senza ordine nei due manoscritti abbiamo potuto ricavare una specie di storia di questo “capitolo,, dialogato, che nelle prime stesure fu diverso da quello che fu poi recitato, e poi messo insieme, corretto, adattato.In un primo momento abbiamo di mano del Melchiore una specie di canovaccio dell’Eglogla intramezzato dalle parti che egli si proponeva recitare, preceduto da un’introduzione e seguito da un sonetto e da una canzone91.E’ da notare che in questa, come nelle parti, che furono composte poi per proprio conto dagli altri, i poeti sono nominati con i loro cognomi, che in un momento posteriore furono sostituiti dai nomi accademici. Così il Melchiore dice ad un certo punto:

Via via Caro Baruni Ciavareddu Vui caru Meli, e caru Bonajutu, ntra stu mentri chi passa lu cappeddu.Armati tutti lu vostru liutu,Facitivi a conusciri cui siti S’un vuliti vistiti di villutu…..

E analogamente nella parte del Bonajuto si legge ad un certo punto invece di “Via Dottu Gradevoli sbrigamu,,:

Via D. Stefano, a nui, Stifanianu.Spieganni sù suggettu importantissimu;Ma cu lu pattu nun tartagghiamu...

e nella parte seguente:Daveru ca mi praci l’argumentu.Viva la fantasia stifaniana,N’ai fattu una chi vali pri centu.

Come si vede, oltre alla parte del Melchiorre, nei ma-

91 Ho riportato l’intera parte e quella seguente del Chiavarello in appendice, pp. III—XI.

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noscritti abbiamo le parti che su questa dovettero scri-vere per conto proprio gli altri colleghi. Esse appaiono di calligrafia differente l’una dall’altra e sicuramente sono autografe. Così c’è la parte del Chiavarello, che dovette, essere il primo ad attaccare:

Firmati Amicu miu…. pu Arruganza!Silenziu? Scarfavanchi? dui palmati?Cavaddi? terra? e chista ch’è crìanza?Criditi torsi chi ci su…..Genti chi fari vogghianu li critici Picciotti, pitulanti e sfacindati?92

Seguono e precedono confusamente nei manoscritti le altre parti del Chiavarello ed anche quelle del Bonajuto. Quanto alla parte del Meli essa è identica a quella che fu pubblicata poi dall’Alfano tra le Poesie satiriche col titolo “In lodi di lu Gattu93,, che non è altro perciò che la prima stesura della parte che il Meli recitò nel contrasto ed è quindi anteriore ad esso, come sostenne il Cesareo.Queste varie parti confrontate subirono una modi-ficazione quanto alla lunghezza, furono abbreviate, cor-rette e adattate in modo da dare un complesso alquanto coerente e questa parte del lavoro fu fatta probabilmente dallo stesso Meli, come afferma la terzina del Bonajuto:

Spartemunni la turta: e sia tua cura O saggiu Meli cunzari li Brigghia Poi Deu ci manni la buona vintura.

Questa ipotesi è avvalorata da analogie di carattere storico. Il Meli soleva talvolta correggere i versi degli amici, come dimostrano i manoscritti trovati dopo la morte del Gallo che riportano versi di costui, corretti di mano del Meli e come vedremo in seguito parlando di altri poeti.L’Egloga in lode del gatto dovette piacere molto alla galante brigata se l’argomento così sciocco continuò ad essere trattato ancora. Il Bonajuto compone un bel giorno un sonetto magistrale, che manda all’accademia non potendovisi recare di presenza, e un altro capo ameno,

92 Vedi appendice pag. IX.93 Puisii pag. 120.

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probabilmente il Chiavarello, commenta e spiega in un sonetto la di lui assenza col dire che il gatto di lui tanto elogiato gli aveva lasciato sul viso i segni cruenti della sua gratitudine.Così si legge nei mss. del Chiavarello:

Doppo il Magistrale recitato dal S.o SegretarioInvece del Sr. Bonajnto assente

SONETTO SICILIANOS’oggi ccà nun viditi à Bonajutu

Cumpagni, nun vi fazza apprinsionipirchì si trova à la casa impidutupri causa appunto di sta funzioni;

fici stu Magistrali già tissutuIn lodi di la Gatta, e specij boni

tanti cci nni nfilau chi ha divirtutututta la nostra Cunvirsazioni

La bedda Gatta sua pri gradimentuin primi tuttu l’accariziau

e poi ci fici lu gran cumplimentu

La facci tutta cci la sgranfugnautantu ch’un ci bastaru pezzi, e uguentu

e di stu modu lu ringraziau.

CAPITOLO VII

LA TRIADE GIOCOSA: BONAJUTO, MELCHIORE, CHIAVARELLO — SPIGOLATURE STORICHE E POETICHE SULLA VITA DEI TRE “GALANTI,, — G. MELI NEL VERSO DEL BARONE CHIAVARELLO.

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I tre poeti che collaborarono col Meli nel capitolo dialogato in lode del gatto si possono considerare nelle loro rime come tipici rappresentanti della poesia giocosa, non solo dell’Accademia Galante, ma di tutta la produzione siciliana del sec. XVIII. Leggendo le “Rime giocose„ del Bonajuto e sopratutto le “Poesie Siciliane,, del Melchìore e quelle inedite del Chiavarello, noi sentiamo tutta la deficienza di gusto di questo settecento, cui tutto diede occasione a verseggiare, tutto si volle rendere in rima, specialmente le cose più umili e più ignobili, considerate nella loro materialità più bassa, senza l’intervento della fantasia, ma solo nello schema imperfetto dell’esistenziale monotono, che vuol muovere il riso con il lazzo plateale, e invece riesce freddo il più spesso o muove un riso superficiale, che svanisce e non giunge al fondo dell’anima.Nel confronto di queste rime con il Ditirambo e anche con la Fata Galante e le poesie giocose giovanili del Meli, noi sentiamo tanto più giganteggiare la figura di lui, che seppe liberarsi dai vizi del secolo e i suoi compagni d’accademia e obbedire solo alla legge dei fantasmi viventi nella sua meravigliosa fantasia.Onde, è più con una curiosità d’ordine storico che noi ci accostiamo alle loro composizioni, per ricavarne qualche notizia della vita non raccolta o mal raccolta. Ogni elemento della triade giocosa, storicamente, è un rappresentante delle tre diverse classi sociali: della aristocrazia Giuseppe Chiavarello e Trigona, Barone di Ralbiato, del Sacerdozio Stefano M. di Melchiore Beneficiale di S. Giovanni dei Lebbrosi, della borghesia (possiamo dire) Bernardo Bonajuto, trapanese, segretario del Principe di Campofranco.Il Chiavarello nacque il 16 febbraio 1716 da Antonio e da Anna Trigona Terzevo e fu battezzato nella parrocchia dell’Albergheria. Divise la sua vita di nobile gaudente e discretamente ignorante tra la residenza nel suo palazzo di Rua Formaggi e la villeggiatura di Partinico, nel 1765 nella Cattedrale di Monreale sposò Beatrice Sanchez Gil. L’avvenimento più importante della sua vita dovette essere senza dubbio “la vittoria nella causa per il feudo di Ralbiato,, avvenuta nel febbraio 1759, celebrata in un capitolo, dopo essere stata agognata in varie rime.

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Più vecchio di lui il Melchiore, medico e Sacerdote, nacque in Palermo da un medico al servizio del Viceré, famigerato giocatore che ridusse in miseria la famiglia.Stefano lo racconta scherzevolmente in una serie di ottave recitate nell’Accademia Galante:

......... Stu grand’omuQuali la sorti mi detti pri PatriDi la bassetta stampau cchiù d’un tomuJucannusi li Specchi, cu li quatri;E benchì ancora spicca lu so nomu Lassau la Casa spilunca di latri94……

D. Stefano studiò prima filosofia nel collegio dei Gesuiti, poi fece col padre sei anni e mezzo di pratica nella medicina e si addottorò nel 1732, come racconta egli stesso:

Essendu picciutteddu studiai,Filosofia in Culleggiu a veli stisi Doppu appressu me Patri pratticai Continuati sei anni e sei misi,All’annu trentadui mi dutturai Bench’in Catania ci appizzai li spisi,Dda fannu: Accipiamus grana assai Mittamus Asinos a soi paisi95

Datosi al sacerdozio divenne Cappellano dell’ospedale di S. Giovanni dei Lebbrosi, malsano e mal tenuto ricovero di due terribili categorie d’infermi; pazzi e lebbrosi, tra i quali scorse gran parte della sua lunga vita, finché si ammalò anche lui di una specie di lebbra: l’elefantiasi e trascinò gli ultimi anni infermo, zoppo, ma verseggiando sempre, mettendo in ridicolo le sue infermità e servendosi della rima per chiedere incessantemente dolci ai signori suoi amici, che non poteva più visitare di persona.Poco simpatica invero questa figura di vecchio infermo e ghiottone, che si attacca morbosamente a chi gli può mandare una cassata o una piatta di cannoli, e che oltre

94 Poesie giocose serie e morali op. cit. pag. 7.95 Ivi pag. 8.

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ad essere un rappresentante tra i più caratteristici della poesia ridotta ai servigi più umili, non paventa per una qualsiasi leccornia di contrapporre all’alto valore del Meli il confronto di un insulso vezzeggiatore, quale l’amico Chiavarello.Fra le numerose poesie rivolte a costui, per chiedere incessantemente dolciumi, o per difendersi di “essere tacciato da goloso,, si legge questa ottava:

Ora chi v’haiu a funnu canusciutu Chista mia pinna farà di trumbetta,Armandumi di spaia, d’elmu e scutu acciò un Poema furmassi a l’infretta,Farrò chi ognunu prestassi tributu Alla vostra gran musa, e la rispetta E chi Jericu, Meli e Bonajutu A vista vostra sunnu sputa e jetta96

Eppure al Meli egli dovea, se non altro gratitudine, se per la pubblicazione delle sue rime, tanto bisognose d’una raccomandazione, ne avea ottenuto l’ottava che è indubbiamente la cosa più graziosa di tutto il volume: “Largu, largu, curriti etc.97„ Un altro carattere fisico che contrassegna la figura alquanto ridicola del D. Stefano è il difetto di pronunzia, la balbuzie, di cui egli, anziché dolersi, fa il suo strumento di “vis comica,, inesauribile:

A mia lu sulu effe è chi mi ammagghiaCu ddu ffù… ffù..... vi astutu na cannilaL’esse poi mi turmenta tuttu l’annu,E mi ha successu spissu in vita mia,Chi qualcheduno, quali sta passannu,Cu ddu ssi..... ssi si vota e mi talia,Vossia cumanna? signali mi fannu,Ed iu ci dicu: nun chiamu a vossia,E li cani, e li gatti si nni vannu,

96 Autografo del Melchiore sn Mss. del Chiavarello posseduti dal B.ne Starabba.97 In Poesie del Melchiore op. cit. pag. XIV.

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Pari cu ddu ssi... ssi... li cacci via98.Buffone delle accademie, nel Buon Gusto, negli Ereini, nei Pescatori Oretei, e nella “Galanteria,,, ove è ascritto, spesso muove il riso con l’allusione al suo esser “tartaglia,, e i compagni ve l’inducono, come abbiamo visto nell’Eglogla in lode del Gatto:

Astutu Via dottu miu Aggradevuli, sbrigamu:Spiegami ssu suggettu ch’ai pinsatu,Ma cu lu pattu nun tartagghiamu.

Aggradevuli: Lu tartagghiamentu ‘un è piccatu Quannu ci voli ‘na, tartagghiata Vali chiù d’un piscïuni mbuttunatu99

Bernardo Bonajuto di Nicolò, nato in Trapani il 24 Settembre 1714 e venuto in età adulta col padre a Palermo, è citato dalla Reitano come tipico esempio per il numero delle accademie, cui poteva essere ascritto un poeta del settecento e dei conseguenti molteplici nomi, che gliene derivavano “a confusione di quei poveri posteri laureandi di eroica volontà, che volessero farne ricerca nelle varie raccolte del tempo100,,.Sin dal 15 settembre 1745 è associato al Buon Gusto e in cinque anni altre sette patenti accademiche si ag-giungono a quella; egli diviene Dedalio Merèo negli Arcadi, Acide Drepanèo negli Ereini, Polidoro Saturnio negli Etnei, Aurillo Montano negli Agricoltori, Polimone Dirceo nei Pescatori Oretei, l’Affaticato nelle Belle Arti, Segesto Saturneo nella “Civetta,, trapanese.Quindi è associato alla Galante Conversazione col nome di “Astuto„ che risponde alla qualifica che egli dà di sè facendo rima col cognome in “uto„

Occhiuto, astuto, arguto101 A differenza del Chiavarello e del Melchiore, dei quali nessuno mai si è occupato, il suo essere trapanese diede al Bonajuto il diritto ai panegirici di G. Maria Ferro e del P. Fortunato Mondello102 zeppi di sperticate lodi, ma, in

98 Ivi pag. 9.99 Puisii pag. 320 b.100 La poesia in Sicilia op. cit. pag. 5.101 Bonajuto Rime giocose op. cit. pag. 106.102 G. Maria Ferro - Biografia degli Uomini illustri Trapanesi dall’epoca normanna sino al corrente secolo - Trapani 1831 Tomo III pag. 54 e segg. P. Fortunato Mondello Bibliografia Trapanese divisa in due parti e illustrata con cenni biografici

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contrario, scarsissime di sincere notizie biografiche.Anziché pregato di coprire la tal o tal altra carica, come vorrebbero i suoi biografi, noi lo vediamo in cerca di un’occupazione che gli potesse far guadagnare la vita e pertanto raccomandassi ora all’arcivescovo Cusani, ora al Filangeri. Egli può diventare così segretario, prima del Maresciallo di Campo D. Ottavio Gioeni103 e contemporeaneamente della “Sacra Religione Gerosolimitana nella Ricetta di Palermo,,, nel 1755 Segretario del Tribunale della Gran Corte Civile, indi del Principe di Campofranco ed in seguito del Principe di Lercara D. Emanuello Francesco Buglio.A costui rivolge un brindisi nel giorno natalizio104 e molto probabilmente anche il sonetto XV delle rime105 al Campofranco avea indirizzato un capitolo “in lode della Rosa,,, in cui finiva invitandolo ad improvvisare sullo stesso argomento e, molto probabilmente, ad un tale invito si riattacca la canzonetta.

Sulla sua spinaSemplice posa La vaga rosa D’aprile onor

che leggiamo tra le poesie del Principe106. Negli anni in cui è segretario di costui lo vediamo sempre al suo fianco in ogni divertimento, in ogni “stravizzo,,, in ogni allegra mascherata, in cui si davano buon tempo gli accademici della Galante.Il 5 settembre 1767, rappresentatasi per la prima volta nel Teatro di S. Caterina, a spese di molti nobili e dilettanti, la commedia del “Solitario,, del Marchese di Lisère, Torganizzatore e il direttore fu Antonio Lucchesi e tra gli attori dilettanti fu D. Bernardo Bonajuto107. Ad un certo momento è il segretario stesso che, sotto il nome ereino di Aci Drepaneo, scrive un dramma: “La conversione di S. Margherita,, recitata la prima volta

critici e con vari documenti - Palermo 1877 pag. 70 e segg.103 Per la morte di costui recitò nell’Accad. del B. G. in cui era allora censore un’Orazione funebre, che fu pubbl. pei tipi del Bentivegna nel 1753. L’autografo è nel Ms. Qq E 150 Memorie per servire alla storia letteraria di Sicilia di Giovanni D’Angelo c. 766 e seg.104 Rime cit. pag. 99.105 pag. 101.106 Poesie cit. pag. 196.107 Villabianca Diario in Biblioteca Storica ecc. op. cit. 1a serie Vol. XIV pagg. 34-35.

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assieme a un prologo in Villa tra una brigata di nobili, divenuta poi popolarissima e ancora recitata ai tempi della fanciullezza del Pitrè.Il carattere di Bernardo è affine a quello del Principe: comune è in loro una certa bizzarria e anche una certa schiettezza, di cui il segretario si vanta spesso dicendo:

Io son di quelli,che chiaman pane il pane, e corno il corno108

Forse per questo si stabilisce fra i due una corrente di dimestichezza, che qualche volta, in considerazione dei tempi, ci fa stupire per il tono confidenziale con cui il borghese si esprime rispetto al nobile. Ciò si può rilevare nel sonetto: “In occasione di essersi ragionato nell’Accademia dell’Estro poetico e dell’Arte d’improv-visare109,, e anche in un’allusione del contrasto in lode del Gatto, in cui egualmente si attribuisce l’estro del Campofranco alla vita agiata e circondata di ogni piacere :

E un certo amicu ‘mmatula si vanta;E’ veru ch’è brigghiutu, francu, e destru,E jetta versi a quaranta a quaranta;Ma jeu comu la sentu la minestru Alcuni voti ci trema la vuci,E si un’avi dinari nun’av’estru110…..

E’ da dire però che la sua franchezza dovette essere talvolta considerata eccessiva, se gli fruttò dissapori e persino il carcere. Tra i manoscritti inediti del Chiavarello troviamo una lettera del Bonajuto con un’allusione a questa disavventura.Trascriviamo la prima parte:“Amico e P.ne river.mo,Il Tribunale il dì 27 dello scorso risolse di rappresentare a Sua Eccellenza, che per una lettera della quale si lagna una Dama, mi ha trattenuto 50 giorni in carcere, rimettendo al di lui arbitrio la mia libertà. Qualunque sia

108 Rime cit. pag. 15 e altrove pag. 60:“Amo l’amico vivo e il piango morto: Chiamo pietra e pane il pane;E quando ho torto voglio avere il torto.,,

109 Rime cit. pag. 30.110 Puisii pag. 320 b.

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la definizione del Prin.pe, sempre mi è cara, purché fosse presto, e siccome la speditezza dipende dal Guggini che deve far la consulta; volea pregarvi di sollecitarmela con occasione di trovarvi sempre in sua Casa…..,,Il Guggìno era un avvocato molto familiare al Chiavarello, che gli aveva difeso la causa per il feudo di Ralbiato e col quale il Barone scambiava molteplici versi.Fu forse in seguito a quest’avvenimento che il Bonajuto dovette allontanarsi dal Campofranco e non per la partenza di costui per Napoli, come scrissero i suoi panegiristi.Nelle accademie fece sentire di frequente la sua voce, negli Ereini fu Corifeo e nel 1775 fu anche Direttore del Buon Gusto. Sì tenne in relazione poetica con vari verseggiatori ed anche con una dama petrarcheggiante: Pellegra Bongiovanni111.Chiuse la sua vita in Palermo nel 1784.

** *

Abbiamo detto che l’Egloga in lode del gatto è la più importante delle poesie che ci rimangono in forma dialogata, composte dal Meli col concorso di altri, ma non abbiamo escluso la possibilità che altre dello stesso tipo poterono essere recitate e rimasero sconosciute perchè non avevano la pretesa di andare alle stampe, o pure, dimenticati i nomi dei singoli autori, furono attribuite interamente al Meli, come abbiamo visto per la poesia “Io mentitor„ e come è da ritenersi in generale per le poesie a domanda e risposta pubblicate nelle edizioni del Meli.Da due Ottave scritte in un ritaglio di carta nei ma-noscritti del Chiavarello rileviamo l’incitamento a farsi qualcosa di spiritoso rivolto allo stesso quartetto della Egloga: Meli, Bonajuto, Melchiore, Chiavarello.Le due ottave, recitate nella Galante, in un carnevale potrebbero, è vero, essere un precedente dell’Egloga che conosciamo, ma anche riferirsi ad un altro carnevale. Sono interessanti, perchè ci danno una nota viva delle riunioni di quella accademia:

Ntra stu celu Galanti e Geniali 111 Scrisse le Risposte a Messer Francesco Petrarca, prendendo, non diciamo quanto convenientemente, il posto di Laura.

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ci sunnu stati discursi eccellenti nni spiegau Casciu lu fatu Morali e Furnu l’omu in se stissu cuntenti Di Maria pri la lingua universali Fici Casteddi cu la sua gran menti112 e sta sira lu Cunsulu Natali nn’à datu saggiu di li soi talenti, e nui fra tantu ntrà stu Carnovali diversi amici nun faremu nenti?Vaja cumpagni mei tali pri tali Faciti qualchi cosa allegramenti.Tu Mircioni sbrogghia lu tò sali Tu Bonajuto li toi spezzii ardenti tu o Meli lu to meli naturali ed iu mi restu mbarcannu li genti.

Un’altra poesia del Chiavarello interessante, perchè ci dà in certo modo la storia della Galante attraverso le principali recite degli accademici, è una specie di capitolo diretto al mecenate, che porta l’anno 1767 quale data della recita. Interessante poi, perchè ci parla del successo riportato dal Meli per la sua “Fera di Parnassu,,, che dovette essere l’episodio nucleale da cui nacque la “Fata Galante,,.Riproduco la prima parte:

Risolsiru ramici na jurnatadi fari ogn’unu un discursu galanti pri manteniri allegra sta brigata

A chistu s’obbligaru tutti quantie pri chiù gustu s’obbligaru sparti di fari versi e canzuni brillanti

Ed eccu ad ogn’unu si scumparti112 Un discorso del Conte Vincenzo Castelli di Torremuzza “Per li dolori di Maria,, esiste inedito nel ms. Qq. 217 VI della Bibl. Com. Miscellanea di cose siciliane, proveniente dalla Collezione della stessa casa Castelli.

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la sua jurnata comu vui accurdastivu essendu prontu pri la vostra parti

In fatti Vui lu primu accuminzastivue cu l’incegnu vostru assai galanti a maravigghia vi disimpignastivu

quannu l’armuzza vostra in aria erranti lu dilicatu gustu avia circatu ntra tanti Auturi, e ntra Paisi tanti

E doppu aviri già scrafuniatu ogni grecu, latinu, e Italianu dissi in fini chi ccà l’avia truvatu,

Appressu vinni l’Abati Paganuvivu, e brillanti, e di galantaria l’Isula bedda tutta misi in chianu;

Li liggi di stu regnu in pulizzianni spiegau cu grand’arti passu passu lu galanti spittabili Garsia

ntisi ntrà l’autri chi fici un fracassu l’Abati Meli duci e nzuccaratu cu la celebri fera di Parnassu

fera ch’eguali a lu munnu un c’à statu e purtau tanta d’ammirazioni chi quasi ogn’un si l’à cupiatu;

Ora vinni l’amicu Mircionie cu la rima sua finuta in acchiara

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nn’à datu a tutti sudisfazioni113...

A proposito dell’allusione alla “Fera di Parnasso„ è da osservare che, secondo l’editore dell’“Ateneo Siciliano,, fu il Chiavarello ad indurre il Meli a pubblicare la sua celebre Fata Galante. Ciò si legge in nota ad una Ottava pubblicata nell’Ateneo e rinvenuta tra varie poesie inedite del Melchiore, del Bonajuto e di altri che si riunivano in casa del Principe di Campofranco. Essa allude a una promessa di “puma,, fatta dal Chiavarello al Meli e non mantenuta:

La prumissa è un cuntrattu, ed è un diploma,Chi mai lu tempu logora, e consuma;Vui prumittiti a tutti Roma — e toma Con un cori di un Cesari, e d’un Numa;Ma senza un puncighiuni, chi vi doma La promissa è in periculu, chi sfuma.E’ memoria fracca? O fu caloma Spiegati! Ah no, lu spieganu li puma114

Tra i due uomini doveva essere frequente lo scambio di versi. Una poesia del Chiavarello “In Lodi di l’auturi alludendu a lu cognomu Meli,, precede una edizione delle poesie di costui in cinque volumi presso Solli115, un’altra ne ho trovato nei Mss. del Chiavarello senza titolo, ma che evidentemente al Meli allude, come si rileva fra l’altro dai versi:

A lu to lato nuddu cci pò stari e nuddu ardisci fari puisia mancu si fussi Orfeu purria cantari cu la sua bedda lira l’armunia Giuvanni sulu tù ti fai lodari quannu canti cu tutta ligiadria Dunca e di giustu, e ti vogghiu avantari

113 Mss. citati posseduti dal B.ne Starabba.114 Ottva inedita di G. Meli al sig. D. Giuseppe Chiavarello Bar. Di Ralbiato pubblic. in l’Ateneo Siciliano Palermo 1858 anno I pag. 44. Questa ottava è pubblicata invece nell’edizione di Puisii come diretta a D. Luca Costanzu. V. pag. 141.115 Poesie Siciliane dell’Abate G. Meli. In Palermo MDCCLXXXVIII presso Solli, Tomo I pag. XXII e XXIII.

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ca duni onuri a la patria mia.Essendo questa poesia completameute inedita e sco-nosciuta la riporto per intero in appendice (pag. XII).Ma, la cosa più interessante dei manoscritti inediti del Barone sono certamente una serie di ottave, che ci mo-strano un piccolo lembo sorridente della vita giovanile del Meli, non diversa invero da quella di ogni giovane spensierato e gaudente del suo secolo, con le sue scappate, le sue relazioni amorose, i minuetti innume-revoli ballati con foga. Siamo alla fine di un pranzo, con molta probabilità in casa del Mecenate dell’Accademia degli Ereini, dai convitati, fra cui il Meli, si ostentano maniere eleganti e moderne, in omaggio alla moda francese, e si sono recitate rime in lode della “Franzisaria,, e del “Galateo,, certamente in senso satirico, come i soliti capitoli in lode di cose insulse. Il Chiavarello si rivolge a un gruppo di quattro persone e dimostra loro che tutti hanno mancato di gentilezza e di galateo e comincia dal Meli, alludendo fra l’altro a una relazione con una donna, chiamata forse Felicita (Vedi tutta la composizione in Appendice pag. XIII-XV). Proba-bilmente, in seguito a questa poesia nacquero le acca-demie “contra li cirimonii e lu Galateo,, e la poesia del Meli sull’argomento recitata ai Pastori Ereini.Una cicalata dal titolo “Lu Galateo ripugna a la natura,, in prosa e versi, contro il Galateo di Mons. della Casa si trova nel manoscritto Qq. H 217 della nostra Comunale ed è stata scritta dal Conte Castelli di Torremuzza nell’anno 1778116.

116 A fog. XIII. L’Autore è probabilmente non Vincenzo ma Carlo Girolamo Castelli, perché vi si leggono le iniziali G. C. P. T.

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CAPITOLO VIII L’ABATE GIOACCHINO MONROY PROTETTORE E AMICO DEL MELI — SAN MARTINO DELLE SCALE E LA CICALATA “IN LODI DI LA MUSCA„ — LETTERE DEL MELI, CHE POSSIAMO GIUDICARE DESTINATE AL MONROY — VITA DEL CASSINESE E SUA FIGURA MORALE AT TRAVERSO LE TESTIMONIANZE E LA SATIRA DEI FRATI.

Concludendo il suo poema giovanile in lingua siciliana, il Meli fa che la Fata Galante rafforzi i consigli, di cui gli è prodiga nel commiato, con queste parole:

Si lu pariri meu sentiri ‘un voi,Ascuta almenu ddu stissu pariri Di tanti amici e di patruni toi,Chi lu beni ti solino avvirtiri:Ascuta, ascuta a l’abati Morroi Ch’è signuri di menti e di sapiri,Ed ascuta a tant’autri omini granni Chi ti dicinu: - Attenni, attenni, Vanni

Quest’ottava piena di gratitudine e di ammirazione per il nominato Monroy, ci delinea già la sua figura come quella di un personaggio capace di dare al giovane poeta

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incitamenti pregevoli e di assumerne, per il suo alto grado sociale, la parte di protettore.Una nota che risale al Meli stesso, commenta le due parole “Abate Morroy,, con un’altra sola, “Cassinese,, e tutti gli editori posteriori della Fata Galante si sono limitati a ripeterla, senza dare un qualunque cenno biografico di questo personaggio, che pure dovè avere una parte non secondaria nella vita del Meli, se egli molte lettere gli diresse da Cinisi e volle eternarne la memoria nel suo poema.Inoltre, nel suo capitolo “in lodi di la musca,, il Meli al titolo aggiunge un sottotitolo, che ci spiega l’origine della composizione bernesca, indicandone anche la data e il luogo della recita: “Recitatu nellu Ven. Munasteru di S. Martinu l’annu 1768 in occasioni di una cicalata rapprisintata supra lu stissu suggettu da lu P. D. Jachinu Monroy, poi Abati meretissimo di l’ordini cassinisi.,,Dunque questo Monroy, di cui ci è dato qui anche il nome di Gioacchino, fu poeta e come tale ha interessato le nostre ricerche.Avendo indagato in vari manoscritti e sopratutto in quelli provenienti da S. Martino delle Scale, che si conservano nella nostra Biblioteca Comunale, nella Miscellanea intitolata “Poetica Varia,,, in cui è anche un sonetto intercalare “Per il globo volante,,, che porta in margine Monroy quale nome di autore, abbiamo trovato tre specie di componimenti in rima, senza titolo nè nome di autore ma che, dal contesto, risultano delle esercitazioni su l’argomento de “la mosca,, specialmente il secondo e il terzo117. La prima delle tre composizioni potrebbe essere parte della cicalata del Monroy perchè ha una certa intonazione comune al sonetto “per il globo volante,,, l’altra e il coronale esercitazioni sullo stesso argomento che dovette dar luogo a una vera e propria accademia poetica. Dalla forma trascurata di entrambe, da certe allusioni ai Maestri e lettori della seconda si può arguire che gli autori ne siano stati dei chierichetti indisciplinati, che volevano ridere alle spalle dei precettori nello stesso tempo che ne scimmiottavano le consuetudini letterarie.Si vede che l’Accademia in lode della “ musca„ fece epoca a S. Martino e non fu la sola che vi avvenisse in

117 Vedi in appendice ove è riportato il tutto integralmente ed anche il sonetto “Per il globo volante,, (pp. XVI-XVII).

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quel tempo. Il Monastero Benedettino di S. Martino delle Scale aveva raggiunto nel secolo XVIII l’epoca del suo massimo splendore e della sua temporale grandezza. Le sue entrate soverchiavano la bella cifra di quarantamila scudi, il fabbricato della sua sede veniva sempre più ingrandito e abbellito, arricchito di oggetti preziosi per arte ed antichità, di una importante biblioteca e di un museo incominciato da Antonio de Requesenz ed ingrandito dall’abate Salvatore M. Di Blasi. Popolato di religiosi delle più nobili famiglie, cadetti in massima parte, era meta di viaggiatori importanti, che vi venivano accolti con signorile ospitalità: “Lettu di Duminicani, Lussa di Binidittini, Tavula di Cappuccini,, diceva un proverbio allora comune118.Inoltre avea luogo nel monastero un’accademia detta dei Solitarj, alle cui riunioni letterarie e poetiche in-tervenivano molti dotti di Palermo, prelati e laici, fra cui il nostro Meli, l’Abate D. Francesco Carì, il Can. Schiavo, l’Ab. Arcangelo Leanti, R. Storiografo. Anche il Chiavarello e il Melchiore vi andavano. Infatti questo ultimo dice in un suo capitolo inedito, da me trovato tra le carte dell’altro:

ntra dda proposta fatta a S. Martino...Fu in una di queste adunanze, nel carnevale del 1768 che il Monroy recitò la cicalata, a cui il Meli rispose col suo capitolo bernesco.Sappiamo, secondo la precisa dimostrazione fatta dal Cesareo, che il Meli dal 1767 al 71 dimorò in Cinisi, quale medico condotto di quell’università. Evidentemente però egli riusciva a fare, di tanto in tanto, delle scappate da quel soggiorno, specialmente nelle feste, in cui era giusto si concedesse vacanza.Andava allora a trovare le persone, cui era legato da affetto e da gratitudine e una di questa doveva essere il Monroy. In seguito è probabile che egli villeggiasse anche a S. Martino, come si rileva da molti accenni e anche dall’aneddoto, riportato dal Gallo, sulla predi-lezione del Meli per “la più bella metà del genere umano, senza la quale non sapeva vivere119,,.Leggendo l’epistolario del Meli vediamo che egli

118 Cfr. Giuseppe Pitrè: Viaggio di Goethe in Palermo nella Primavera del 1787 pubbl. in Atti della R. Accademia di Lettere Scienze ed Arti Terza Serie Vol. VIII 1918 pag. 25.119 Cfr. G. Pipitone Federico - G. Meli - I tempi, la vita le opere. - Palermo 1898 pag. 42.

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parecchie lettere diresse al Monroy da Cinisi, raggua-gliandolo dei casi di quel villaggio e raccomandandogli la famiglia del valente medico D. Stefano Pizzoli, come persona che è sicura di ottenere le grazie che chiede.Dove si conobbero i due uomini ? Si potrebbe pensare in casa del principe di Campofranco, ove abbiamo visto tra i Galanti un altro della famiglia Monroy, Ferdinando principe di Pandolfina, soprannominato Lu Gaiu, che era probabilmente il padre del nostro Gioacchino. Qualche biografo dice anche che il Meli fu incoraggiato da costui alla cultura della poesia siciliana, riferendosi forse a quell’“attenni, attenni, Vanni,, che ci fa piuttosto pensare che il Monroy conoscesse per tempo le doti e l’ingegno del nostro poeta e la loro relazione fosse anteriore.Intorno al 1762, forse nei primi di tale anno il D. Gioacchino, risiedendo nel piccolo Monastero di S. Carlo alla Fieravecchia aveva aperto “nella sua monastica cella una pubblica scuola di belle lettere, e di poesia e dei migliori aggradevoli studi per la gioventù più studiosa e per li più Eruditi ecclesiastici della Capitale120,,. Fra i frequentatori era anche il nostro Meli e doveva ricavarne quegli ammaestramenti, il cui ricordo consacrava poco dopo nella Fata Galante. Contempo-raneamente il Monroy attendeva alle “lezioni dei casi di coscienza,, frequentate dal Carì, dal Leanti, dal Di Blasi e dalle Autorità ecclesiastiche.G. M. Mira nella sua “Bibl. Siciliana,, attingendo a qualche biografo precedente, attribuisce all’amicizia del Monroy il posto avuto dal Meli a Cinisi121. Il Cesareo ha dimostrato con documenti che il Meli non era stipendiato dal Monastero, ma bensì dalla Università di Cinisi, ma non esclude che possa esservi stata una raccomandazione del Monroy, che era una personalità abbastanza influente per natali e cariche.Prendiamo ora una conoscenza più intima della vita del nostro Abate attraverso la documentata memoria del P. D. Ambrogio Mira, contemporaneo di lui ed Archivista del Monastero.

120 Memoria del P. D. Gioacchino De Monroy Abate Cassinese amministratore del Gregoriano Monastero di S. Martino di Palermo scritta dal P. D. Ambrogio Mira in Prose e Versi per onorare la memoria di D. G. M. Palermo, Solli 1799, pagg. 72-73.121 Giuseppe M. Mira Bibliografia Siciliana ovvero Gran Dizionario Bibliografico delle Opere Edite e inedite etc. Vol. II pag. 66.

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Da Ferdinando De Monroy e Giusulfo Marchese di Garsigliano, primo principe di Pandolfina e dalla Mar-chesa Antonia Scuderi e Palma nacque Gioacchino in Palermo il sei luglio 1731. Nel 1742 fu ammesso a compiere la sua educazione in S. Martino, ove ebbe per maestro di lettere ed eloquenza il Sac. D. G. B. Testa e poi compì il corso degli studi supremi sotto il celebre P. D. Salvatore M. Di Blasi, lettore allora di Istituzioni Matematiche e Filosofiche, dal quale fu indirizzato allo studio della poesia italiana e della lingua francese. Avendo mostrato vocazione religiosa, nel 1742 fu ammesso alla solenne professione dei voti, tre anni dopo promosso alla prima tonsura e ai quattro ordini minori e nel 1753 abilitato al sacerdozio. In occasione della promozione del Di Blasi a decano compose un sonetto e glielo presentò anonimo per parte dei P. P. Sacerdoti di S Martino. Nel 1754 fu nominato lettore e l’8 giugno promosso al sacerdozio nella chiesa dello Uditore.In questo tempo incominciano le sue apparizioni all’Accademia del Buon Gusto, dove è associato e nel 1854 recita un discorso su “La lavanda dei piedi eseguita da Gesù Cristo,,; col nome di Ovidio Baleo è fatto pure accademico degli Ereini e nel 1758 il Buon Gusto lo nomina censore. Nel 1760 seguì a Caltanissetta il P. D. Antonio Spadafora destinato Abate di Santa Flavia in quella città, e ivi prese parte ai letterari congressi. Dopo circa tre anni ritornato in città si fermò in S. Carlo ed aprì una pubblica scuola di belle lettere e poesie dove si recava il Meli, come abbiamo detto.Durante la sua permanenza in Cinisi, l’autore della Fata Galante scrive una lettera, che è stata giudicata diretta al Monroy, perchè dopo le prime parole si legge: “avendo esaminato il conto degli elogi, alla pagina Monroy, mi trovo creditore di un mezzo milione122,,. Il resto della lettera, confrontato con la vita del Monroy, conferma questa attribuzione, togliendo ogni dubbio. Il Meli in tale epistola oltre ad informare l’amico di quanto avveniva in Cinisi prende a perorare la causa di un povero cappellano vittima delle sopraffazioni di un ladro esperto e che nessuno dei cinquanta monaci di Cinisi difendeva. Egli teme che il furfante possa ancora ricorrere contro il povero ministro e vorrebbe chiudergli la vita.Ora perchè il Meli si rivolge proprio al Monroy? Perchè

122 Carteggio del Meli Ms. 4 Qp D. 4 cit. fog. 8 e Micale - Lettere del Meli op. cit. pag. 22.

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egli appunto era stato nel 1766, per procura di tutta la Comunità, deputato a sostenere nel pubblico foro le liti del Monastero. Era quindi un uomo che avea da fare con la giustizia, non solo, ma era il signore della terra di Cinisi e faceva da giudice nei contenziosi interni del monastero.il giorno dell’apertura della Biblioteca di S. Martino, 21 novembre 1768, radunandosi l’accademia dei Solitari, con l’intervento del supremo inquisitor di Sicilia Mons. Francesco Testa Arcivescovo di Monreale, del Consultore Deodato Targiani, ed altri sacerdoti e letterati, fra gli altri poeti, che recitarono i loro versi, il Monroy fece sentire una canzone123, in seguito recitò nella stessa accademia altre poesie e dissertazioni. Nel 1765 aveva avuto il titolo di Decano, fu fatto poi maestro dei novizi e nel ’75, vacillando l’economia del monastero, fu fatto Cellarario. Durante questa carica continuò la fabbrica del Monastero, ne migliorò il prospetto, acquistò delle pitture e delle statue di celebri autori, decorò lo spazio circostante di giardini e di piante, arricchì la Chiesa, la Biblioteca, il Museo. Ma, a non gravare le già scosse finanze del Monastero con le ingenti spese, introdusse delle riforme economiche e accrebbe i canoni, togliendo i fondi dalle mani di coloro che li possedevano per ingiusto prezzo e coltivando i feudi già infruttuosi.L’epoca della sua amministrazione svegliò però l’estro satirico dei frati gaudenti, che non se la intendevano di rinunziare a certi piaceri della gola, nè, nel loro egoismo vedevano l’utilità delle nuove riforme. Varie com-posizioni, nei manoscritti provenienti da S. Martino delle Scale, rivelano un’irritazione sorda e un movimento di ribellione in questi epicurei, che avrebbero dovuto cu-stodire e trasmettere pura ai posteri la fiamma della fede.Un anonimo, parodiando il Metastasio, di cui assume lo pseudonimo lo avverte:

La tua virtù, t’uccide.O gran babbo Monroy: ma tu nol sai,Spargi i sudori al vento,Eppure i tuoi sudoriAvran quella mercè

123 Fu pubblicata per il Bentivegna nel Tomo XI degli Opusc. di aut. siciliani.

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che hanno avuto i fantasmi,E l’ombra degli eroi, di cui sei figlio,che han portato alla tombaUn nome vano, un resto d’eroismo124...

E in un’altra lunghissima cantata lo stesso critica gli atti amministrativi del Monroy:

Senti i miei detti, o prole di Quirino.Già per tre volte biondeggiar le ariste Dacché sei cellarario;Facesti al primo passo Tocco di babuasso Con gran sudore e stentoUna sciocchezza che ti sembrò portento Togliesti Barca e lo sposasti al censo Con dir: guadagno immenso.Da sì bello ImeneoPer i vostri nipotiSorger vedrete, allieviDolce mia fiamma e curaUn altro spunterà picciolo BarcaSarà così pel vecchio tempo. AdessoAltro non s’è veduto,Che un Barca ha discacciato un altro Barca Tra l’infinito stuolo Delle tue novità.Di questa bella idea ti compiacesti.E quasi far lo stesso risolvesti,Maritando Milocca con te stessoLetterato borghesePer l’avvenire sperandoDa coppia si felice

124 Manoscritto 4 Qq. B. I, fog. 189: (Cantata a Monroy del Sig. Abate Pietro Metastasio) della Bibl. Com. di Palermo.

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Altri quattro Milocchini125

L’anonimo verseggiatore critica quindi le riforme negli studi e nella tavola dei frati, del cui odio terribile si fa esponente: truce, minaccia di morte il cellarario, si ripromette di renderlo lo zimbello dei frati, ma anche attraverso le sue parole ostili noi possiamo rilevare, di quando in quando, le buone intenzioni del Monroy.

Tu frattanto ti pasciDi Belle Idee. Porci e porcelli aduniRisparmi per l’ulive un soprastante,Facendolo tu stesso. Ah figlio, figlio Nel cammin degli impieghi Sei nuovo. Pellegrin.

E una brutta fine vi è ripromessa:Ecco lo svelo. Escluso da Palermo A cavallo, a cavallo in S. Martino L’infelice Morroj sarà mandato,Là troverà per tuttoDel soggiorno inumanoL’odio persecutor, che lo circondi

Vivrà senza speranzaD’ottener posto, ed anche titolare.Addio per lui lusinghe di capitolo.Per lui, Dieta, Addio.Non più gli andrà d’intorno La turba adulatrice,Che s’affolla a ciascun, quando è felice

125 Ms. 4 Qq. B. I cit. Altra cantata allo stesso del Sig. Ab. e Pietro Metastasio fogg. 190 retro - 197. Si allude in questa composizione alle concessioni enfiteutiche fatte dal Monroy in feudi non coltivati, tra cui quello di Barca presso il Molo di Palermo. La terra di Milocca, Baronia nella Diocesi di Girgenti era stata gabellata per molti anni per una cifra irrisoria. Il M. che conosceva il pregio del terreno n’assunse l’amministrazione, obligandosi a molti migliaia annuali. Egli aveva concesso pure il feudo della Carrubbella presso Borgetto e di S. Martino. E come s’ intitolò Bar. di Milocca ebbe il titolo di Barone di Cinisi, Borgetto e Favarotta che dipendevano pure da S. Martino. Per questo il Meli informava il Monroy di quanto avveniva in Cinisi.

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Da tutti abbandonato,Dalla cella d’ognuno separato,N’andrà per quelle rupiQual furibondo e insanoSolo portando in manoIl libro di Castiglia126

Unico suo compagno, e buon per lui,Giacché nei suoi rigori E nell’estrema tregua D’ogni sua cura, in quelli sacri onori Correggerà del libro i gravi errori.Datti pace, e ai giorni miei Monrojello, gli astri amici Mai non splendano infelici Come splendono per te.

Questi livori frateschi non ebbero soltanto espressione poetica, nè rimasero latenti. Il Monroj venne sospettato di disonestà nell’amministrazione e dovette provare la sua innocenza. I sospetti però continuarono e, in una ad un male fisico che cominciava a travagliarlo, tormentavano la sua esistenza. E’ ovvio che un uomo, che avea potuto raggiungere i gradi più eminenti della sua carriera e che godeva dell’amicizia di tanti potenti, potesse essere oggetto d’invidia da parte di competitori meno fortunati di lui.Così almeno pare che la pensi il Meli nella lettera che è a fog. 24 del Carteggio, lettera che, secondo il mio parere, certamente fu indirizzata al Monroy.Da essa si rileva come S. Martino, lungi dall’essere un romitaggio di umili asceti era un vero focolaio di lotte civili, paragonabili a quelle che insanguinavano Roma nei giorni di Cesare, il Meli, molto bene informato degli avvenimenti, giudica che in S. Martino, come nella Repubblica Romana vi è il Bruto, il M. Antonio, il Cassio

126 Si allude qui all’opera del Monroj: I doveri dell’uomo ecclesiastico in società posti in veduta nella vita e virtù del parroco D. M. Isidoro Del Castillo Vol. II in un Tomo Palermo 1776-77 per le Stampe di Epicuro, (pubbl. anonima).

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etc., gente tutta che s’erge a difendere l’indipendenza della sede contro Cesare, per non averne potuto raggiungere l’impero in di lui vece127. Nel Capitolo generale tenuto in Perugia nel 1778 il Monroy fu innalzato priore di S. Martino, nel 1782 fu elevato al grado di Cancelliere e scelto da Mons. D. Francesco Sanseverino Arcivescovo di Palermo, per uno dei Visitatori e Giudici Ecclesiastici per la città e Diocesi, e, nel maggio 1783, venne eletto Abate.Come visitatore dovè allontanarsi da S. Martino per Catania, Messina ed altri luoghi; nel 1786 andò a Vicenza per la dieta della Congregazione; fu indi scelto dall’Airoldi all’Ufficio di Teologo e poscia ebbe il titolo di Abate di S. Clemente.Fu allora che maggiormente si accrebbero i sospetti sulla sua amministrazione e i suoi mali fisici e gli uni e gli altri infieriscono ancora dopo che si trasferisce a Palermo, nell’Ospizio dello Spirito Santo, nel 1789.Andato nel 1793 in Monte Cassino per la celebrazione del Capitolo, fu mandato al governo di S. Maria la Nuova in Monreale, ove, per la sua economica amministrazione, migliorarono le compagne, furono rinnovate ed abbellite le fabbriche ed arricchita la biblioteca, intanto che la sua ricchissima egli destinava a S. Martino. Amicissimo di Mons. Filippo Lopez y Royo, arcivescovo di Palermo e Monreale, che aveva conosciuto in Napoli e che spesso gli scriveva e lo visitava in S. Martino, fu costituito nel ‘95 esaminatore sinodale della Diocesi.Probabilmente di tale data, o poco anteriore è la lettera direttagli dal Meli per raccomandargli il figlio Domenico del suo defunto maestro D. Stefano Pizzoli, affinchè il D. Gioacchino volesse ordinare in suo favore “un atto di soprannumerario tra gli avvocati di quel venerabile monastero,,. Concludendo la sua missiva il Meli scrive: “Sono ansioso di sentir notizie della di lei preziosa salute. Qual regime di vita e qual trattamento al presente sta praticando contro al consaputo malore che tanto l’incomoda e la molesta?,,Giovanna Micale, nella sua pubblicazione delle lettere del Meli, commenta così questo punto: “Trattavasi di

127 In Lettere Pubblicate da G. Micale op. cit. pag. 31.

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scabbia, di cui era affetto l’illustre Abate di S. Martino ecc., male che in quel tempo largamente e incessantemente vessava anche le persone di agiata condizione128.,, Non sappiamo donde la Micale abbia potuto trarre una tale spiegazione, che è priva di fondamento. Il male che torturava il Monroy proveniva invece da uno “scabrosissimo calcolo che si scoprì dopo morte nella vescica,,, come si esprime il conte Vincenzo Castelli Principe di Torremuzza nello Elogio funebre del Monroy recitato al Buon Gusto129 e come testimonia anche il P. Ambrogio Mira. Di questo male che dovea condurlo alla tomba e che durava da tempo, il Meli gli chiedeva notizia come medico e come amico.Rientrato nel 1796 al governo di S. Martino, vi cessava di vivere due anni dopo il 17 novembre 1798. In memoria di lui, oltre i discorsi e le memorie furono poste iscrizioni in tutti gli angoli e all’ingresso della Chiesa, dettate da D. Vincenzo Raimondi, professore di Rettorica in S. Martino, che fu anche amico del Meli.

CAPITOLO IXL’ABATE ANTON FRANCESCO CARI’ ATTRAVERSO L’ELOGIO DEL MELI E DEGLI ALTRI CONTEMPORANEI — SUA VITA — IL “DISCORSO SUL BUON USO DELLA RAGIONE,, E IL POEMA MELIAMO “LA RAGIONE,, ALTRI RAPPORTI TRA I DUE POETI — LA FIGURA FISICA E MORALE DEL CARI’ SECONDO UN AUTOGRAFO DI AGOSTINO GALLO E UNA POESIA DEL MELCHIORE.

Quando il 22 luglio 1798 spirava il Sac. D. Francesco Carì, lettore di teologia dogmatica nella R. Accademia degli Studi di Palermo, ammirato come poeta, anzi “ri-

128 pag. 71.129 Bibl. Com. Ms. Qq H 217.

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formatore del gusto poetico e letterario in Sicilia130,, Giovanni Meli scioglieva un funebre canto, che voleva rivendicare il posto eminente conteso dall’invidia, dalla ignoranza, dall’attaccamento intransigente a idee invete-rate, all’uomo che gli era apparso superiore al secolo in cui era vissuto e pertanto era stato giudicato male da esso130.

Mortu è Cari, lu granri, lu sublimiPrincipi di la lira e di li canti!

Attraverso il carme meliano noi possiamo ricostruire in parte la figura del Carì e spiegarci l’ascendente che esercitava sulla colta gioventù con la sua personalità di libero pensatore, la sua parola dotta, colorita d’immagini, ispirata, suggestiva e potente.In filosofia egli non è un novatore: studioso di teologia sulle fonti egli la libera piuttosto dai sofismi e dal pedantismo, dalle false interpretazioni di Gesuiti e Giansenisti e si fa espositore delle idee di Tommaso di Aquino, rivolto sopratutto a conciliare la ragione e la fede. La sua popolarità è nella sua eloquenza nella cul-tura superiore a quella dei sacerdoti del suo tempo, ignoranti e superstiziosi, nel coraggio d’imporre le sue idee, nello spirito di polemica che fa di lui quasi un uomo moderno.Il Di Blasi lo giudica “uno dei più bell’ingegni del tempo131,, l’Abate Cannella lo saluta “le Nestor de nôtre république littéraire,, aggiungendo “placé sur un plus grand thêatre il se serait mesuré avec les meilleurs auteurs du siècle. Toutes ses productions filles du génie portent l’empreinte du feu divin qui anima Dante e Milton. Il a toujours visé au grand, il est parvenu au sublime132…„Tommaso Natale, il poeta filosofo così esprime lo alto concetto che ha di lui:

Il buon Carì che aggiungeAl profondo intelletto, al così giusto Critico ingegno, al chiaramente esporre

130 Cfr. Note del Meli al “Cantu funebri pri la morti di lu celibri Sac. D. Franciscu Carì,, in Puisii pag. 290. Lo stesso concetto espresse F. M. Gueli nella Nenia scritta per la morte del Carì: “Ahi quantu s’ingannau Sicilia mia – Sicilia chi uni fici pocu cuntu, - Ed ora mortu lu chianci e disia! – pubbl. in Annu pueticu sicilianu Palermu Adornu 1799, Parte I pag. 46.131 Storia del Regno de Sicilia op. cit. vol. III pag. 497.132 Lettre à Mons, le baron N, N. pagg. 17-18.

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I più astratti pensieri; al sì divino Vatidico furore, al colto stile L’alta scienza delle sacre cose E penetrando entro all’eterne leggi Che sapienza sovra i petti umani Forte scolpì, dell’uomo e delle genti La suprema ragion chiaro discopre133

Più di tutti si sprofonda in lodi il Conte Vincenzo Castelli, principe di Torremuzza nell’“Elogio funebre,, recitato nella Accademia del Buon Gusto, ma, dalle stesse parole di lui, noi possiamo giudicare che le bellezze, che egli rileva nei versi del Carì, non sono in tutto, quelle a cui la nostra estetica ci viene educando: “II suo poema del Cagliostro, le sue Rime liriche sono oggetto di ammirazione a tutti gli allievi delle Muse… Egli fu poeta d’arte e non di natura …L’artificiosa purità di lingua costituisce una bellissima specie di stile e spira una grazia non sentita già da tutti, ma da tutti i migliori sommamente gradita,,.Dal punto di vista teologico egli attribuisce al Carì i meriti che questi riconosce all’Aquinate, servendesi delle stesse parole di lui “Li traviamenti dell’umana ragione, i mali del peccato originale, gli errori degli antichi filosofanti ed il pericolo di cascare nella loro incredulità non riscossero punto il magnanimo suo spirito ed abbandonare i lumi della ragione; anzi egli col fulgidissimo suo intelletto avvivandoli soavemente li condusse a pie’ della fede, ampliando così e sostenendo li vantaggi della religione134,,.Assai più sobrio, benché troppo benevolo il giudizio dello Scinà: “I discorsi..... di Francesco Carì di maschia ed alta eloquenza sono fregiati, e se talvolta per la forza del suo immaginare tocca per poco il poetico non disgusta, anzi il più delle volte ti piace, perchè è un pensiero, una verità, un fatto che pinge ed adombra in una forma leggiadra, e con qualche spiritosa immagine. Non vi ha dubbio che sia questo un difetto, ma è da confessare che pochi son

133 Tommaso Natale – Filosofia Leibniziana pag. 108.134 Elogio di Anton Francesco Carì recitato dal Torremuzza nell’Accademia del B. G. in Ms Qq H 217 della Bibl. Com. — Cfr. il “Discorso sul Buon Uso della Ragione fatto da S. Tommaso d’Aquino a benefizio della Teologia„ del Sac. Dott. D. F. Carì in Opuscoli di autori siciliani Tomo II MDCCLIX.

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capaci di tali difetti. Pieni di vivacità, e dirò così, finiti sono poi i sonetti del Carì per la morte di un suo amico, ma per lo più nel poetare è scorretto, non cammina di egual passo, e cade di quando in quando perchè si lasciava portare dalla foga della sua fantasia nè ripuliva, nè limava, nè correggeva se stesso135„.Completando il giudizio dello Scinà noi diciamo che egli manca di fantasia e anche egli come gli altri del tempo non è un vero poeta, non solo, ma in pochissime composizioni si allontana dalla volgare maniera di poetare. Diamo un saggio della sua poesia satirica riportando in appendice un inedito Sonetto contro Targianni (pag. XVIII).

***

Nato in Palermo, il 17 novembre 1726 Anton Francesco Carì fu, secondo la testimonianza del Torremuzza, nei suoi primi anni, “assalito da un morbo di maligna natura,,. Scampato dal pericolo di morte coll’uscire dall’infanzia, cominciò a dimostrare molta intelligenza, onde i suoi genitori affidarono la sua istruzione ad un sacerdote illuminato e paziente, che in certe ore del giorno dava lezioni in casa a pochi e scelti giovani. Sotto la direzione di costui ascese alle scuole grammaticali ove profittò nella lingua latina e storia. Nelle ore d’ozio seguendo la guida del precettore, coltivò la poesia, studiandola sui classici, studiò quindi la Logica, la Metafisica e la Morale.Vestito dell’abito clericale attese allo studio ecclesiastico molto più profondamente che non si facesse dalla comune dei sacerdoti. Spirito eminentemente polemico, insoddisfatto dei falsi metodi e delle errate dottrine del suo tempo, cominciò ad attaccare i gesuiti nelle questioni dogmatiche e ne ebbe in contraccambio la persecuzione.Essendo stato da essi incolpato di rilasciata dottrina e di una vita poco confacente allo stato ecclesiastico, si vide tagliata la via a un progresso nella carriera sacerdotale.

135 Prospetto cit. Vol. II pag. 341.

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Per potere ascendere agli ordini sacri dovè cercare protezione dai vescovi di Patti e di Messina. Nella diocesi di Patti occupò la cattedra di belle lettere, di filosofia e di teologia. A Palermo insegnò privatamente il diritto naturale, civile ed ecclesiastico. La sua casa era frequentata dai giovani che aspiravano al sacerdozio e dagli studiosi in genere, i quali traevano molto profitto dal nuovo metodo di insegnamento, anche perchè egli cercava nei discepoli degli amici e manteneva questa amicizia per tutta la vita.E’ probabile che alle sue lezioni accorresse anche il giovane Meli, e che ad esse formasse molta della cultura filosofica, che ebbe sufficientemente vasta anche nella sua prima giovinezza e forse un pò troppo, dati i tempi per essersi formata interamente sugli originali.Egli avrà infatti col Carì molti principi comuni: un senso di avversione per i metodi dei gesuiti, il riconoscimento della falsità del Panteismo di Spinoza, come del materialismo dei filosofi pagani, una critica geniale contro i sistemi dell’Abate Miceli e dei partigiani.Il Meli che si sente chiamato alla poesia, si dà in questo periodo alla filosofica.Vuole fare qualcosa di simile al “De rerum natura,, di Lucrezio, o al poema del suo contemporaneo Natale su la filosofia del Leibniz. Con ogni probabilità l’argomento gli vien fornito da un tema trattato dal Carì e divenuto, diremo così, d’attualità.Nell’Aceademia del Buon Gusto, ove è associato sin dal 1774 e poi è fatto censore l’anno 1792, il Carì è incaricato nel 1759, per la data consetudinaria 28 gen-naio, di dire in S. Cita le lodi di S. Tomaso. Egli vi legge il “Discorso sul Buon Uso della Ragione fatto da S. Tomaso d’Aquino a benefizio della Teologia,, che, nello stesso anno 1759 è pubblicato per i tipi del Bentivegna nel Tomo II degli Opuscoli di autori siciliani.Nella presentazione, che ne fa l’editore, è detto fra l’altro: “in questi tempi, in cui troppo innalzano la Ragione i Spiriti Forti, troppo la deprimono i deboli, ha egli dottamente appalesato il buon uso che far si debba della Ragione nelle materie Teologiche, quale appunto ne fece quel gran Santo Dottore, mettendo così freno agli

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uni, e dando agli altri coraggio136…..,,Questo discorso dunque è lanciato in aura di polemiche; mentre alcuni cercano di dimostrare la soggezione della Regione alla fede, altri proclamano la superiorità assoluta della Fede e quest’argomento diventa più popolare ancora, dopo la dissertazione del Carì e il conseguente attacco dei Gesuiti. Se ne fa l’oggetto di accademie poetiche. Da un’ottava di Bernardo Bonajuto137, si apprende che in occasione “di essersi ragionato nell’Accademia,, che con ogni probabilità è quella del buon Gusto, del buon uso della Ragione e della Verità si recitano una corona di componimenti poetici di cui quest’ottava è l’introduzione.Sullo stesso argomento il Carì scrive il sonetto “L’anima quando uscì dal fabbro eterno138,, che potè far parte di quella corona.Il Meli, benché non si ascriva al Buon Gusto che nel 1760, può essere a conoscenza di ciò che si agita nel pensiero della società, (tanto più se frequentava le lezioni del Carì) ed essere tentato a scrivere anche lui sull’argomento qual cosa che sia degno di rilievo e, nello stesso tempo, sia come un saggio della sua cultura filosofica e lo renda idoneo ad essere ammesso nelle società dei dotti.Così, secondo questa mia ipotesi, nacque il poema filosofico “La Ragione,,, composto con ogni probabilità nel 1759, quando il Meli aveva diciannove anni. Il fatto che il primo abbozzo della prima ottava di questo poema si trovi nel margine a sinistra dell’autografo della “Canzone in morte del Principe di Monforte,,, il quale cessò di vivere l’8 gennaio 1759139 ne è la conferma.Forse nell’ultima parte del poema il Meli si proponeva di esporre le conclusioni del Carì, ma il manoscritto s’interrompe all’ottava 33. Una ragione dell’interruzione dell’opera potrebbe essere il timore degli attacchi dei gesuiti, coi quali il Carì era in quei giorni impegnato in grandi lotte. Egli confuta l’opera del “Paradiso,, del Gesuita Piazza con la sua “Lettera al doge degli Apisti; combatte alcune

136 Discorso cit. in Op. cit.137 Rime giocose pag. 45.138 Pubblicato in Op. di aut. sic. Tomo V. pag. 326.139 Poesie di G. Meli in Opere Poetiche pag. 6 nota e pag. 8 nota.

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proposizioni che sanno di giansenismo, combatte i miceliani e gliene risultano controversie e persecuzioni infinite, alle quali però non piega. L’Abate Nicolò Spedalieri, che reggeva la cattedra di Teologia nel Seminario di Monreale, sostiene le idee teologiche del Cardinale Sfrondati. Il Carì suscita una polemica e sfida lo Spedalieri a rispondergli. Ma questi anziché aderire gli abbandona il campo. Nel 1772 fonda un giornale Ecclesiastco e vi fa collaborare i suoi discepoli.Tutto questo se da una parte fa acquistare celebrità al Carì, dall’altra gli crea una quantità di avversari anche tra i potenti. Espulsi i gesuiti egli non è nominato tra i professori dell’Accademia degli studi. Il Castelli dice che il re Ferdinando, contrariato di non vederlo nominato, lo prescelse Lettore di Teologia Dogmatica. Si oppone il Viceré Fogliani a questa elezione e ne consulta il real rescritto, attaccando il Carì di rilasciata dottrina. Costui, avvisato di quanto si operava contro di lui, benché indebolito di forze per un male che soffriva, in una sola notte — secondo narra il Torremuzza — formò un saggio della sua Teologia dogmatica e lo rimise al Sovrano. Questi applaudì la di lui fatica e fece sapere al viceré che voleva essere prima obbedito e quindi consultato. Gli fe’ dare così la Cattedra, assegnandogli vita natural durante la pensione annua di onze cento. Il Carì era allora già sofferente e di giorno in giorno la sua vita declinava, però continuò lo studio e le lezioni, fino alla sua morte avvenuta il 22 luglio 1798.Per essa il principe di Torremuzza compose “l’Elogio,, funebre ufficiale, che fu recitato al Buon Gusto, il Meli, il Chiavarello, Francesco Mattia Gueli, D. Giuseppe Bonura ed altri accademici parecchie nenie e sonetti.I rapporti amichevoli che il Carì ebbe col Meli ancor giovinetto ci sono chiariti dal fatto che quell’uomo celebre amava ragionare con ogni genere di persone nobili e plebei, giovani, vecchi e fanciulli e aveva anzi un culto speciale per la gioventù, alla quale si legava di affetto e quest’affetto conservava per tutta la vita.I due poeti avevano frequenti occasione d’incontrarsi: al Buon Gusto e alla galante ove erano consoci, ai pastori Ereini, nel Monastero di S. Martino, nell’Accademia Sici-liana e inoltre alle feste del Principe di Campofranco, presso il quale il Meli aveva alloggio e il Carì trovava

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posto, amante come era del mangiare, del bere e dei di-vertimenti. In questi e simili convegni il D. Francesco re-citava le sue poesie filosofiche, poiché egli, come dice il Meli “filosofia,,.

A li Grazij.... spusau, chi a manuLa conducianu, e di li cumpagnji,Di li Curti, li tavuli e li festi Erasi fatta l’anima e la vita140

In seguito, quando il 27 settembre 1787 il nostro Meli è nominato professore di chimica nell’Accademia degli Studi, dove già è insegnante di Teologia il Carì, divenuto il discepolo collega del maestro, devono intensificarsi ancora i loro rapporti, ma le testimonianze precise mancano.Mi piace, prima di chiudere questi cenni sul Carì, riportare alcuni particolari, sulla figura di lui alquanto originale, traendoli da un autografo inedito di Agostino Gallo, su la vita di suo zio Simone, poeta latino estem-poraneo, e autore fra l’altro di un’orazione funebre pel barone Lombardo. Ad un certo punto vi si legge:“Volendo… indirizzarsi allo stato chiesastico e levando allora gran fama di sé il celebre Abate Francesco Carì... il Gallo divenne allievo di quest’esimio precettore. Il quale, sì perchè il vide fornito di acuto e pronto ingegno, sì per l’analogia di carattere al suo l’ebbe assai caro e il predilesse sugli altri suoi scolari e divenne quindi l’indivisibile suo amico. Amendue amavano la gozzoviglia, amendue affettavano una aria di trascuranza filosofica e di spregiudizio. Essi però rappresentavano i Pittagorici Pizia e Damone dell’antichità che l’uno avrebbe dato la vita per l’altro. Entrambi sporchi negli abiti, d’indole fervida ed irritabile per nulla curanti delle convenienze sociali sembravano due cinici, e non pertanto erano religiosi, buoni, onesti, filantropi141.„Un altro dato che contrassegnò questo bizzarro tipo di studioso e di poeta fu la franchezza. Racconta il Pitrè che una mattina, in sagrestia, gli si presentò un uomo, pregandolo di volergli dire quale sonetto dei due che aveva composti e che gli avrebbe letto meritava di vedere

140 Cantu funebri cit.141 Autografi inediti posseduti dal Dott. Traina.

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la luce. Mentre lo sconosciuto legge il primo sonetto, il Carì si fa brutto in faccia. Finita la lettura gli dice secco secco: “Stampate l’altro„ “Ma come,, risponde quello “se Vostra Eccellenza non l’ha sentito ancora?,, “Sicuro„ aggiunge l’Abate Carì “perchè peggiore di questo primo il secondo non può essere142.,,Quest’aneddoto si ricongiunge alla fama di maestro di poesia che il Carì godeva e che gli faceva ricevere frequenti visite di rimatori ignoranti, che lo pregavano di giudicare i loro versi.Di questa consuetudine testimonia fra l’altro un Capitolo Bernesco “Contro i poetastri,, scritto dal Chiavarello e forse diretto al Melchiore:

Doppu di tanti riggiri e di rivoti si nni và in casa di Carì, e cci dici:Liggiti, e poi faciticci li noti,L’annu ludatu multi di l’amici e m’annu dittu ch’è cosa signura, veru m’arrinisciu multu felici Carì si aggrinza lu so nasu allura Comu un cignali sciutu di na macchia e metti a tistiari chiù d’un’ura!Ccà ci trova un difettu; e ddà na macchia e poi ci lu scattia beddu chiaru chi rinova d’Esopu la Curnacchia Ora si nun ci fussi, Amicu caru una critica giusta chi li barra à tanti cosi cui darria ri paru?

Questa consuetudine del Carì di correggere i versi dei suoi contemporanei sarà ripresa dal Meli, come vedremo.

142 La Vita in Palermo cento e più anni fa - Palermo Reber Vol. II pag. 433.

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CAPITOLO XGLI ALTRI PROFESSORI DELL’ACCADEMIA DEGLI STUDI CON CUI IL MELI EBBE RAPPORTI DI AMICIZIA — EUTICHIO BARONE — FRANCESCO PAOLO NASCÈ — VINCENZO RAIMONDI.

Ad ogni studioso della vita del Meli è noto che alla morte del Dott. Giuseppe Capaci Prof. di Chimica Farmaceutica nell’Accademia degli Studi di Palermo, ad intercessione dell’Arcivescovo Sanseverino, protettore del nostro poeta, questi, con decreto del 27 settembre 1787, veniva dal Viceré Principe di Caramanico nominato insegnante di chimica in detta Accademia143.Qui, oltre a vedere il Meli cinto da una schiera di discepoli, esporre le dottrine del Lavoisier o combattere le teorie del Brown possiamo immaginarlo ancora tra i colleghi dell’Accademia, tra quelli che costituirono il gruppo erudito dei suoi amici.Abbiamo già detto di Francesco Carì, degli altri possiamo citare Eutichio Barone, Francesco Nascè, Giuseppe Saverio Poli, dotti tutti che coltivarono anche la poesia.Il Barone, più erudito veramente, che poeta, nacque da famiglia baronale in Palermo l’anno 1728. Monaco basiliano, fu abate del suo ordine ed incaricato della visita dei monasteri Olivetani, poi soppressi. Valoroso nelle discipline filosofiche ed ecclesiastiche, rialzò inoltre

143 Cesareo - Lezioni Accademiche anno 1916 pag. 222 e segg.

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il culto della lingua e letteratura greca e delle lettere in genere, in cui istruiva gli allievi del suo ordine. In particolare si segnalò negli studi per il Monastero e la biblioteca del Salvatore in Messina144.Ebbe varii incarichi dal governo, tra cui quello di R. Revisore delle Stampe, che esercitò per più anni. Cacciati i Gesuiti nel 1767, e presosi possesso dei R. Studi del Collegio che aveva nome da quelli da parte dei nuovi lettori il cinque novembre, 1769; tra i cognomi di costoro troviamo un Barone, il quale non può essere che il nostro Eutichio, accanto all’incarico: “Lettore di Scrivere145,,.In seguito lesse nell’Accademia degli Studi la storia na-turale e la botanica146 e s’innalzò sugli altri insegnanti e per la sua facondia, che rendeva piacevoli le sue lezioni, facendovi accorrere quantità grande di allievi. Anche il Meli, in nota ad una poesia, ricorda questa naturale eloquenza dell’amico: “Nun dicu di la sua facilità di parola pirchì tali meritu è da rifiririsi chiù assai a la na-tura chi a lu possessuri147,,. Ma il suo nome si legò specialmente alla cattedra per il testo di Newton, che egli intitolò “matematica sublime,,, che per lui fu istituita e cessò colla sua morte onde “si venne a dimostrare che era stata fondata a premio più tosto del Barone che ad utilità del pubblico insegnamento148,,. Per quell’occasione corsero in Palermo più poesie, nelle quali si mordeva con amarezza l’istituzione della cattedra del testo di Newton, e questi livori erano vivi ancora dopo la morte del Basiliano avvenuta nel Gennaio 1788 in Napoli, ove si trovava, impaziente di elevarsi ancora a maggiore dignità.

144 Cfr. Stefano Vittorio Bozzo - Gli Studi classici in Sicilia dal secolo XIV alla metà del XIX- Palermo, Lao 1884 pag. XIX-XX.145 Villabianca - Diarii in G. Di Marzo - Bibl. Stor. e Lett. di Sic. Vol. XIV pag. 191. Uffiziali Regii di questi studi: Direttore D. Gaetano Sarri - Lettore di dogmatica Sac. Francesco Carì - di Catechismo ecclesiastico Sac. Vincenzo Fleres - di filosofia D. Giuseppe Nicchia - di matematica D. Niccolò CentoM - di rettorica D. Pietro Carì - di aritmetica D. Giovanni Natale - di scrivere… Barone.146 Le sue lezioni di botanica si conservano fra i manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo ai segni 2 Qq C. 46.147 Puisii pag. 261 nota 1.148 Scinà – Prospetto cit. 3 pag. 35. Racconta questo storico che volendosi fondare una nuova cattedra di matematica nell’Accademia degli studi studi furono invitati molti matematici e mentre alcuni, “ricusavano ed altri erano sul trattare, l’Abate Basiliano Eutichio Barone fece opera che sotto il nome di matematica sublime dichiarati si fossero i principi matematici del Newton e riuscì a farsene scegliere con grosso salario a professore. Questa novella lezione chiamata del testo di Newton, che ebbe cominciamento nel 1786 riuscì, come dovea, inutile al pubblico insegnamento, e ci privò quel che è più di una cattedra, di cui si mancava, e ch’era molto necessaria a recar lume e perfezionamento nell’accademia di Palermo al corso delle scienze matematiche,,.

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Un’epigrafe anonima in latino maccheronico traman-dataci in un manoscritto proveniente da S. Martino delle Scale, lo manda all’inferno dopo averne fatto l’oggetto di tutti i biasimi:

Elitichius Barone Ordinis S. Basilii Abbas Historiae Naturalis EtMathesis sublimioris Invita Minerva LectorReligionis Hostis Sacerdotii dedecus Regularium oppugnator Sibi utilisOmnibus noxiusPatriae detrimentum Postquam Leviratum In Christianismo RenovaveritIn Gehennam descendit Pridie nonas Januari1788149

Questa iscrizione è nel manoscritto preceduta da un’altra dove si accomunano le sorti di due “fulmini siciliani,, precipitati dall’alto ingloriosamente. L’uno di essi è senza dubbio il nostro Eutichio:

DuoTrinacriae fulmina Iuter nubila jam jam CondituraAmbo precipite fatodelapsaAlterum in Vesevum

149 Bibl. Com. di Palermo Ms. 4 Qq B 1 fog. 278.

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InEtnam alterumIngratiis ingloriis150

Del Barone ci rimangono un’“Orazione inaugurale di studi recitata innanzi il Viceré Marco Antonio Colonna ritornato da Napoli,, e la traduzione della “Relazione fatta dall’Accademia di scienze sopra la macchina aerostatica inventata dal Signor Di Montgolfier,, del sig. Le Roy151, fatta per incarico del governo nel momento in cui tutta l’Europa levava grandi rumori per l’invenzione del globo volante ed anche a Palerrno se ne attendevano gli esperimenti, cui in seguito pose mano il lucchese Capitano Lunardi.Come poeta il Barone dovette preferire il genere ana-creontico poetando in dialetto secondo l’attestazione delle due strofette pubblicate tra le poesie del Meli con il titolo “Lu vecchiu e lu briu„ e con l’aggiunta di tre altre composte da costui152. Ma niente diede alle stampe, sicché è andata perduta l’opera sua. Ora, come l’ode: “Crudu amuri chi turmenti,,, che l’Alfano ha pubblicato fra le poesie del Meli153, ha dei caratteri che testimoniano l’imitazione più che la vera paternità del poeta (e il Gallo non senza una buona ragione l’aveva già attribuita al D. Eutichio), analogamente è da supporre che moltissime delle poesie che non contribuiscono ad accrescere la fama del Meli siano forse del Barone. Le composizioni di costui dovettero mescolarsi a quelle del grande molto per tempo: fra i due colleghi accademici, in una alle relazioni amichevoli, dovette intervenire uno scambio frequente di rime e quelle del Barone rinvenute tra le carte del Meli senza nome furono poscia confuse alle cose di lui.Delle poesie che molto verisimilmente non appartengono al Meli si possono citare “L’Astrolacu154,, “Lu Mastru di

150 Ivi. L’ altro fulmine “delapsum in Etnam,, è con ogni probabilità Gaetano Barbaracio, di cui si parla nel fog. 276, che era stato Canonico incardinato nel Capitolo della Cattedrale, Deputato del Regno ed anch’esso R. Revisore dei Libri, come risulta dal Registro di Consulte del Governo n. 206 anno 1788 n. 12 conservato nell’Archivio di Stato di Palermo.151 Palermo 1784 in 8.0 II segretario di quell’Accademia, Marchese di Condorcet avea mandato una copia della relazione al Viceré March. Caracciolo, che la fe’ tradurre dal Barone.152 Puisii pag. 261.153 pag. 260 Cfr Ms. 4 Qq C 37 f. 19 (Bibl. Com. di Palermo).154 pag. 263.

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Musica e la sculara155„ “Lu medicu e la malata156,, che con certezza devono essere d’uno stesso autore, perchè in loro è un’intonazione comune, diversa d’altronde da quella delle rime di tutti i poeti che abbiamo considerato nei capitoli precedenti e che consideremo ancora.Però, noi non abbiamo elementi bastevoli per attribuire tali poesie al Barone: una soluzione verrebbe facilmente se si trovassero delle rime di sua indiscutibile paternità.Un’altra poesia falsamente attribuita al Meli, almeno in parte, e forse dello stesso autore delle altre apocrife, di cui abbiamo detto, è “Lu picciriddu spirdutu157,, che il Meli rifiutò come sua, poiché non fu pubblicata nell’edizione del 1814.Questa poesia, che, come si sa, è bipartita, essendo composta di una Dumanna e di una Risposta, esiste in due manoscritti delle poesie del Meli nel Ms. 4 Qq C 37158 e nel Ms. 4 Qq C 34, che ha però solo la prima parte159.Ora, si può affermare che se non entrambe, almeno la Dumanna non sia del Meli, che non aveva ragione di scrivere una composizione in questa forma, riprendendo nella seconda parte i concetti della prima, e dimostrando in più versi di rispondere ad un’altra persona.La prima delle due parti, poi, è evidente che non sia del Meli, fra l’altro, per la difformità delle rime finali di ogni quartina, per la trascuranza quindi delle leggi metriche, a cui il poeta grande non sarebbe certamente venuto meno.Con un sospetto un pò arrischiato si potrebbe pensare al Barone come all’autore di questa prima parte.

Una nota biografica del D. Eutichio, che ci ricorda un’analoga situazione nella tradizione della vita del Meli, è la misera condizione in cui il lettore del testo di Newton lasciava morendo i suoi eredi, specialmente la sua

155 pag. 258.156 p. 257.157 pag. 114.158 Poesie inedite di G. Meli tratte da un antico manoscritto posseduto da S. E. il Principe di Trabia, che apparteneva alla Contessa di Sommatino, di lui madre, raccolte da Agostino Gallo, intimo amico ed ammiratore di questo divino poeta, fog. 38-41.159 Raccolta di componimenti poetici dell’Abate D. Giovanni Meli di Palermo capitale della Sicilia fatta l’anno 1783 fog. 285.

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vecchissima madre e quattro nipoti che manteneva, figli di un suo defunto fratello. Di essa fa fede un memoriale in data 11 marzo 1788 dell’Archivio di Stato di Palermo, in cui il Segretario del Consultore, forse il Marchese Simonetti dà relazione di una supplica presentata al re e intercede per la famiglia del Barone160.Al rev. Sacerdote D. Francesco Paolo Mascè, professore di eloquenza latina e italiana nell’Università di Palermo,,, il Meli dedicò una tra le sue più belle poesie filosofiche in forma epistolare, che va riportata all’ultimo decennio

160 Ne riporto una buona parte, perchè ci dà notizie sicure sulla vita del Basiliano, e sulla reputazione che godeva per la sua cultura.Registro di consulte del Consultore del Governo n. 206 anno 1788 n. 18.“Per la famiglia del P.re Abbate D. Eutichio BaroneEcc.mo Signore — A motivo della seguita morte del P.re Abbate D. Eutichio Barone si portò piedi del Sovrano, il B.ne D. Gaetano Barone di lui fratello a far presente con suo memoriale li non pochi servizi prestati dal difonto Abbate così a questo Governo di Sicilia, che al pubblico, le importanti Cattedre, che sostenne in questa Regia Accademia, la gelosa incumbenza che fu a lui appoggiata nella visita de’ Monasteri Olivetani senza veruna mercede, “la carica di R.o Revisore delle stampe che da più tempo esercitò, l’incubenza, che lodevolmente sostenne nello scandaglio del pane di questo Senato a tante altre straordinarie fatiche da lui sofferte per vantaggiare nonché il R. Erarioma questo pubblico; si fece a vista delli meriti del fratello a supplicare la Maestà del Padrone che essendo stato il defunto Abbate l’unico sostegno della sua famiglia consistente in una cadente madre, una sorella vedova, i nipoti del primo, secondo e terzo matrimonio di un defunto fratello, che egli sostenea, si benignasse il Re ordinare per un mero atto di sua Real Clemenza, che si desse qualche temporale pensione alla sudetta famiglia e sopra le onz. 300 annuali, che il Re assignò al defunto Abbate per la Cattedra del Testo di Newton, e sopra le rendite dell’abolita S. Officio o sopra il Vescovato di Girgenti o sopra gii aboliti conventini o sia sopra qualunque altro cespite di Real pertinenza.Rimesso di Sovrano comando a V. E. si fatto memoriale con incarico di sentir me ed informar indi col parere, ebbe motivo l’Ecc. V. di comandarmi con suo venerato Vig.to de dodici del passato Febraio d’informarla. Dando adempimento a tale superiore comando vengo divotamente a rassegnarle, che il difonto Abate era un Uomo de’ più dotti, che a giorni nostri potea vantare la Sicilia che per tal verso iacea veramente decoro alla Patria, la quale dee compiangerne la perdita. E’ purtroppo vero ch’Egli sostenea la cadente madre e la famiglia di un suo fratello, di cui è una dei figli la D.a Caroiina ch’è per l’istesso oggetto ricorsa a V. E. ed al re con quei due memorali, che mi ha Ella rimesso con sua riveritissima rescritto de’ 18 dello scorso mese e con Big.to de’ 4 corr. e per farne l’uso che convenne al tempo di riferire. Degna dunque reputo della sovrana commiserazione non la casa del B.ne D. Gaetano Baroni Ric.te e di altro suo fratello perchè han modo di sostenersi con l’esércizio della rispettiva professione di Causidici, ma la vecchia madre del difonto Abbate, e li figli tutti minori, ed impuberi al numero di quattro del primo, secondo e terzo matrimonio del fu D. Domenico Barone altro fratello, come quei che ricevendo alimento dal risp.vo figlio e zio, sono ora con la di costui morte rimasi sprovveduti d’ogni umano soccorso nel tempo che han bisogno di sostegno e di educazione, quando S. M. resta commosso per impulso di sua Real Clemenza gratificare in questa famiglia i meriti del fu abb. e Barone, che fra gli altri è notabile quello di avere adempito di Regia commissione la visita dei già suppressi Monasteri degli Olivetani in questo Regno per quanto mi sono informato, senza veruna mercede, o riconoscenza; potrebbe sollevarla con un’annua vitalizia assegnazione sulla pensione del Serenissimo Principe di Asturia, o sulle rendite dell’abolila inquisizione, o sul fondo delle limosine ingiunte per peso da Testatori espulsi Ex Gesuiti da conseguirla in maggior parte la madre finché sarà in vita attenta la sua decrepitezza, e nella minor parte per uguale porzione li quattro figliuoli del fu suo fra-tello Domenico con che morta la Madre e rispettiva nonna di detti figliuoli debba tutta in loro consolidarsi e ripartirsi egualmente,,...

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della sua vita, in essa propone al “saggio, all’erudito, al conoscitore profondo dei classici,, l’eterno torturante quesito: in che consiste e dove si trova il piacere?

Fammi ‘na grazia: mi sapristi diri (Si puru in terra esisti realmente)Cos’è ed unni si posa lu piaciri?

E gli prospetta l’assillante ricerca, la corsa senza tregua verso questa meta instabile e diversa che altro non è in fondo che illusione, eterno capriccio dell’inconoscibile, che fa concludere al poeta con un senso di affanno:

Insumma è l’omu un essiri assai stranu Curri, si affanna, acchiappa lu piaciri,N’è chiù lu vidi quannu l’avi in manu.E’ chistu forsi Amuri, chi, scupriri Psichi tintannu a lumi di lucerna Si lu vitti d’un subìtu spiriri?‘Nsumma cos’è sta trizziata eterna?161

Quest’uomo, della cui cultura il Meli, ebbe si alto concetto, nacque in Corleone il 24 dicembre 1763 da Melchiorre e da Angela Porcelli. Indirizzato dal padre alla carriera ecclesiastica, fu mandato nel seminario di Monreale, salito in alta fama sotto la protezione di Testa e dove due professori levavano il grido: Vincenzo Miceli e Francesco Murena il giovane, che fu il suo professore di lettere. Il Nascè ancor giovanetto scriveva sermoni latini e si distingueva per la facilità di parola. Ben presto fu incaricato di dettar lezioni di belle lettere nel seminario di Palermo e quindi nel collegio Ferdinando dei Gesuiti. In seguito gli fu data la cattedra di eloquenza latina nell’Accademia degli Studi e poi di quella italiana alla morte dell’Abbate Cannella che la sosteneva. Il Nascè riunì le due Cattedre in una sola.Siccome l’Accademia divenne Università nel 1805 e il Cannella morì nel 1810, dopo tre anni d’insegnamento, possiamo affermare che “ la littira a lu Rev. Sacerdote, D. Francescu Paulu Nascè,,, di cui abbiamo detto, va riportata all’ultimo lustro della vita del Meli.Con buona erudizione il Nascè esponeva le sue lezioni sui classici e sulla origine e i progressi della poesia,

161 Puisii pag. 60-61.

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frequentate non solo dagli alunni, ma anche da molti au-torevoli personaggi, che andavano a passare nella sua scuola quel poco di tempo che potevano sottrarre alle proprie faccende162. E’ fama che egli incoraggiasse l’attività degli alunni e che procurasse loro, occorrendolo, anche degli aiuti finanziari. Si rese illustre ai suoi tempi per l’eloquenza e per l’innovazione del metodo critico nello studio delle opere d’arte. Collaborò nel “Giornale di scienze, lettere e arti,, fondato nel 1823, fu socio classificato dell’Accademia del Buon Gusto col Meli, lo Scinà, l’Abate Cannella, Giovanni D’Angelo163. Fu decorato dell’ordine di Francecso I.Era molto ben voluto del Principe di Campofranco e ricorda lo Scibona a proposito dei numerosi distici latini dal Nascè composti: “Era un luogo in Palermo sulle mura della città, che guardano verso il mare, il qual chiamavasi mare delle cattive, perchè cattive qui nel linguaggio del volgo si chiaman le vedove, alla passeggiata delle quali per antica tradizione si diceva destinato quel luogo. Esso sotto il governo del Principe di Campofranco D. Antonio Lucchesi Palli fu adornato in modo che divenne una superba passeggiata, oggi chiamata, Pubblico parterre.Il Nascè in questa occasione fece il distico seguente:

Moenia funesta quondam devoti doloriAspectu Antonii nunc ilarata vides

Questo distico dovea apporsi in quella passeggiata ma non vi fu posto e non ne sappiamo il perchè164,,.Gli ultimi anni della vita del Nascè furono travagliati da una affezione itterica e poi da un polipo fibroso alle fosse nasali. Andò a Napoli per operarsi, ebbe deturpata la fisonomia dalle dolorose operazioni, ma non guarì. Si aggravò anzi e perdette la voce, allora incaricò Giuseppe Bozzo di sostituirlo nelle lezioni universitarie. Morì in Palermo il 28 luglio 1830165.

162 Giuseppe Scibona — Elogio di Nascè Francesco prof. di eloquenza nella R. Università di ‘Palermo — Letto nella tornata straordinaria del 12 Sett. 1830 nella Accademia del B. G. — Palermo MDCCCXXX.163 Vedi Elenco degli Accademici del B. G. che si trova nel Ms Miscellaneo della Com. di Palermo ai segni Qq H 217, e che proviene dalla Collez. Castelli Torremuzza.164 Elogio cit. pag. 29 nota 18.165 Nella casa ove morì sita in via Coltellieri fu posta la seguente iscrizione: “In questa casa morì nel 1830 Francesco Nascè da Corleone che prof. di letteratura nell’Università di Palermo — Dotto, Arguto, fecondo, seppe erudire la mente — Ed infondere vivo amore del bello nei giovani”. Gli fu innalzato anche

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Lasciò moltissime iscrizioni latine, un carme, un’elegia, un idillio e anche dei versi italiani. Tre poesie siciliane furono pubblicate in “Annu pueticu sicilianne,,: Esse sono di scarso valore e rivelano l’imitazione del Meli166.

** *

Un altro latinista ricordato nella poesia del Meli è l’Abate D. Vincenzo Raimondi, nato in Monreale da un sarto; compagno di sudi del Nascè sotto il Murena e poi professore di belle lettere in S. Martino, donde poi venne a Palermo. Il Gallo con quella sua particolare tendenza all’aneddoto racconta che si allontanò di là perchè morto un abate di quel monastero e fatte da lui le iscrizioni funebri, gli furono censurate da uno dei religiosi influenti. Al che piccato, egli avrebbe risposto: “Ebbene morite presto e ve ne scriverò migliori167,,. L’Abate per cui aveva dettato le iscrizioni è certamente il Monroy di cui abbiamo detto.Venuto a Palermo cominciò a dare private lezioni di belle lettere. Divenne così emulo del Nascè e pare che ciò avesse creato una certa ruggine tra i due. Però si riconciliarono e il Gallo dice che il Nascè lo propose allora al Principe Giovanni Lanza per suo precettore ed educatore e sin da quel tempo rimase nella casa di lui.Sappiamo che il Raimondi giovanissimo ancora fece in latino una buona traduzione dell’Egloga Piscatoria del Meli, traduzione pubblicata la prima volta nel 1797 quando egli era ancora in S. Martino168. Essa fu inviata al Meli in compagnia di una lettera in data 28 novembre dello stesso anno, che contiene anche questi versi encomiastici:

In starapis Siculae, studium quem mellis adurget,Dulce sic vigilem me tua mella trahunt;

Nec segnis videar, si te laudare recusem

un monumentino nel Pantheon.166 L’immurtalità di l’anima pag. 55 Luciu, pag. 113, L’Armunia pag. 147.167 A. Gallo - Autografi inediti posseduti dal Dott. G. Traina.168 Egloga ‘Piscatoria Sicula D. Joannis Meli Pubblici Chymie Professoris-In Regia Accademia Panhormitana-Latine Reddita- A D. Vincentio Raimondi - Monregalensis Cathedralis Ecclesiae, -Chori Vicario-In sacro Gregoriano Coenobio Santi Martini de Scalis-Politiorum Litterarum Professore et Panhormitana Academiae Boni-Gustus Socio-M. D. C. C. XCVII - Panormi apud Tipographiam Petri Solli.

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Imbellis potius musa tui ingenijDetereret laudes; sed amoris munera reddamNam tua in ore mihi carmina semper erunt169

Il Meli gli rispose molto probabilmente con la lettera che è a fog. 70 del Carteggio, in cui dopo aver lodato l’universalità dello “Idioma dell’aureo secolo dei latini,, si dimostra grato al Raimondi per essersi degnato di rivestirne la sua produzione siciliana170.In seguito, permanendo a Palermo, il Raimondi tradusse la Buccolica meliana, e dell’opera di lui, pubblicata nel 1815, il Meli lo ringraziò con il celebre sonetto

Un cannistru di frutti eu vitti in Pinnu171.

Il Raimondi morì di anni 65 circa nel 1737 durante la strage del colera.

CAPITOLO XILA PARTENZA PER NAPOLI DI GIUSEPPE SAVERIO POLI NEL VERSO DEL MELI — OPERE E CENNI

169 Ms. 4 Qq D. 5 Bibl. Com. C. 51 — Pubbl. in Nuove Effem. Sicil. serie III Vol. XII Pag. 109.170 Micale-Lettere del M. op. cit. pag. 64.171 Puisii pag. 292.

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BIOGRAFICI DI QUESTO PROFESSORE DELL’UNIVERSITÀ DEGLI STUDI E PRECETTORE DI FRANCESCO I — LA SATIRA MELIANA CONTRO GLI ARCHEOLOGI DA STRAPAZZO — IL VASO DI PANDORA E “LU VUTTAZZU,, — CARATTERE DI QUESTA SATIRA — ALTRE POESIE DIRETTE AL POLI.

Chi truzza cu lu Fatu?Postu chi accussì voli,Parta l’amicu Poli,Ma cu l’augurii allatu...

Questo il vale affettuoso che Giovanni Meli rivolgeva al professore di fisica della sua Università, che lasciando la Sicilia si recava a Napoli col Principe Ereditario Francesco I, di cui era precettore.E nel verso armoniosissimo lo raccomandava alla cura dei Genii del mare, che spargessero rose sul suo legno, invocava i delfini, che gli scherzassero attorno chiamati dal canto di Arione novello, e la nave affinchè scorresse superba di un simile pegno, che aveva incatenato i cuori di chi l’aveva avvicinato una volta, o ne aveva soltanto conosciuto le opere:

Sacci chi pri sua dota Parta li cori additti D’ognun che lu vitti,O lu trattau ‘na vota:… E di tant’autri a cui La sorti avara dissi:Liggiti quantu scrissi,Nun vi si accorda chiùi172

Opere degne di tanto encomio, più che le poetiche erano veramente le scientifiche, a cui il Poli aveva legato per tempo il suo nome e che gli avevano dato la celebrità. Dei suoi “Elementi di fisica sperimentale,, composti per Uso della Regia Università, si fecero sino a sei edizioni, diffusi

172 Puisii pag. 297.

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erano i saggi “sulla calamita e la sua virtù medicinale,,,, “sul tuono e sulla folgore,,, “sul galvanismo, sulla respirazione, sulla traspirazione,,, etc.Sicché ostentando un senso di gradita meraviglia il Meli aveva risposto un giorno a un sonetto siciliano dell’amico. Anche poeta l’uomo di scienza?Ciò dimostra che nemmeno il Poli aveva saputo sottrarsi all’andazzo comune ed era stato tentato di esprimere in versi i suoi complimenti al collega.E il Meli salutandolo “figlio di Urania,, raffigura tale Musa in cerca di lui traversare le scuole di matematica, portarsi alle cose della natura da lui studiata a fondo e trovarlo finalmente a pescare con le sicule Muse nel Fonte Castalio:

‘Nsumma sgammannusi La Dia si sfascia;Lu cridirissivu Unni poi l’ascia?‘Ntra lu Castaliu Fonti, chi pisca Cu Musi Siculi In festa e crisca!

Con Muse siciliane; doppia sorpresa! poiché il Poli siciliano non era.D. Giuseppe Saverio infatti, era nato a Molfetta nel regno di Napoli nel 1746. Avea però dimorato a lungo in Sicilia, seguendo i vari gradi della carriera militare, in cui pervenne a quello di Tenente Colonnello. Precettore del Principe Ereditario Francesco I, egli era stato fatto Cavaliere di Giustizia del R. Ordine di S. Giorgio e quindi Commendatore. Per la sua cultura venne associato a moltissime Accademie e non soltanto nazionali.Nello elenco degli accademici del Buon Gusto, che il conte Vincenzo Castelli scrisse per l’Abate Migliaccio, socio corrispondente e che si trova in un Ms. Miscellaneo della nostra Comunale, egli è classificato tra gli accademici onorari esteri con la determinazione Per le Scienze intellettuali173.

173 Ms. Qq. H 217. proveniente dalla Collezione Castelli-Torremuzza.

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Fu inoltre Presidente del R. Istituto d’incoraggiamento, Membro britannico della Società R. di Londra, socio dell’Accademia dell’Istituto di Bologna, di Torino, di Siena, di Filadelfia, della R. Accademia delle Scienze di Napoli, etc.Nel 1810 fu deputato degli studi nella R. Università di Palermo.Oltre ad essere un cultore di scienze fisiche e naturali, si occupò anche di storia, come dimostrano i suoi “Testacea utriusque Siciliae,, e di astronomia.Come poeta lo troviamo nominato nel celebre brano del giornale “Le Moniteur universel de Paris,,, che il Meli trascrisse a Francesco di Paola Avolio, accompagnandolo con la lettera iu data 17 novembre 1805, che si trova a foglio 89 del Carteggio. Egli scrisse infatti poesie varie che riunì in quattro volumi e un piccolo poema “Il viaggio celeste,,. Una sua ode agli studenti del seminario di Monreale, tradotta in latino da Giambattista Caruso, rettore di esso seminario, fu pubblicata nelle Nuove Effermeridi Siciliane174.L’amicizia fra il Meli e il Poli si dimostrò abbastanza forte quando il Poli risiedette a Napoli, dove insegnò nell’Università. Ma anche prima tra loro correvano ottimi rapporti, entrambi facendo parte di una riunione di intimi amici, tra i quali erano inoltre il Marchese Pasqualino, D. Giacinto Troysi, D. Luigi Medici, D. Luigi Cittadelli ed altri, che spesso si divertivano assieme. E il buon Meli, amante dello scherzo e della caricatura bonaria, portato dalla sua natura a cogliere il ridicolo in tutto ciò che presentasse dei lati deboli, dedicava un bel giorno al Comandante erudito un capitolo, in cui si compiaceva deridere la mania archeologica di certi suoi contemporanei che si perdevano in questioni oziose. Nel tempo in cui per Saverio Landolina e per Gabriele Lancilotto Castelli la numismatica e l’antiquaria in genere avevano ricevuto un novello impulso, anche delle persone di cultura men che mediocre si erano date, non solo a fare delle ricerche, ma anche delle deduzioni di una logica puerile, aiutandosi in gran parte con l’immaginazione, confondendo i miti con le verità storiche.

174 Serie III Vol. IV Materiali di notizie riguardanti la storia del Seminario di Monreale pag. 131.

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Il viaggio dell’amico Frangipane aveva già stuzzicato l’estro del D. Giovanni a crearne comicissimamente i particolari in “Lu viaggiu in Sicilia di un antiquario175,,. Da accademie, che non è improbabile si facessero sul “vaso di Pandora,,, nacque la “Dissirtazioni istorica-critica filulogica supra l’infaustissimu Vasu di Pandora oggi dittu Vuttazzu,, che fu “Dedicata a lu medicu impariggiabili di S. E. Signur Cap.nu Don Giuseppe Poli, pricitturi di S. A. R. etc.176„, come a colui che occupandosi di scienze positive ed esatte ed essendo dotato di una seria e salda erudizione fosse tra i più disposti a sorridere delle questioncelle puerili di certi pseudo-dotti, dei cui meriti satireggia il Meli:

Ver’è chi spissu perdinu nuttati Tra bummuliddi, e ciaschi, e vasi rutti,E iscrizioni menzi arrusicati Di vecchi balatuni du cunnutti;Ma vannu un occhiu in certi mali passi Pri truvasi lu capu a li matassi177

La tempesta dei mari che si addensano sulla povera umanità ha fatto scervellare tanti filosofi, invece bastava interrogare gli antiquari: il vaso di Pandora tutto spiega. Ma affettando serietà ragiona il poeta: se questo vaso conteneva tutti i mali ora sparsi nel mondo, i quali sono moltissimi esso doveva essere molto grande:

Tutti li mali chi cca ‘nterra sunnu Prima d’aviri sbulazzatu fora Ad infistari l’universu munnu,Erano ntra lu Vasu di PandoraDunca si foru tutti dintra d’idduStu vasu ‘un era certu un bummuliccu.E cantannu li frevi ch’un su picca Tanti specii di pesti, rugni e tigni,Malu francisi chi a tutti si appicca,

175 Puisii pag. 109.176 Puisii pag. 110.177 Ivi.

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Cancreni, ascessi e pustuli maligni,Guerri et cetra... a capirli stu vasuni Duvia esseri, almeno, un gibbiuni178

Anzi una gran botte : un vuttazzu e il poeta ne tira tutte le amene conseguenze e spiega essere stato questo serbatoio di mali portato in Sicilia da Plutone in regalo a Proserpina ed essere rimasto nella valle di Sferracavallo fino a che i Rossi non lo disotterrarono.Questi Rossi, che furono forse Bernardo Rossi di Castelnuovo, che si occupò di Archeologia (1741-1831) e Giovanni Gherardo dei Rossi, che stava a Roma (1754-1827), e fu poeta e archeologo (e forse è quello stesso che più giù è nominato “Lu nostru dignu Patri Don Giuvanni„) prende qui di mira l’intenzione satirica del poeta. Ma questa satira, come abbiamo altra volta os-servato, a proposito dello Scasso, non ha niente di pe-sante o spiacevole, è facezia, lepore, scherzo, di cui avrebbero riso anche quelli che erano messi in berlina. Il poeta non adoprò l’altra satira che rarissimamente, o mai; anche quando egli pare prenda beffa del Miceli e del suo sistema egli non fa che della caricatura e la riprova di ciò è nel modo onde essa veniva accolta dal Miceli stesso. Narra infatti Biagio Caruso, che il poemetto “ L’Origini di lu munnu,,, prima che fosse dato alle stampe venne manoscritto in Monreale e il Miceli “lo facea leggere la sera nella sua camera del Palazzo Arcivescovile da’ sacerdoti letterati, e dai suoi discepoli per ricreazione dopo le serie applicazioni dei ragionamenti scientifici, e leggendosi ne provava Miceli molta soddisfazione, e solea dire che il Meli aveva poste in veduta con buona grazia e con talento le difficoltà, che solevano opporsi al sistema179.,, Ritornando al “Vaso-vuttazzu„ il Meli si compiacque scherzarvi ancora nel tremendo scongiuro che egli fin-geva lanciare all’origine di tutti i mali per trattenerli lontani e che intitolò “Cratramatracchia a lu Vuttazzu di Sferracavaddu„, poesia scritta per essere recitata tra amici, che dovevano evidentemente ripetere il ritornello, che porta infatti l’indicazione Coro e comincia:

Cra, cra, cra, lu corvu gracchia 178 Pag. 111.179 Materiali di notizie cit. raccolte da Biagio Caruso pagg. 16-17.

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E stu cra è Catramatracchia Cu lu quali ti sconciura Malidici, e disonuraImitalu di ccaE gridamu: era, era, cra180

Tra questi amici doveva essere il Poli, perchè con lui in particolare s’intrattiene ancora il Meli su l’argomento, anzi fa parlare il “Vuttazzu„ stesso, divenuto quasi una mascotte:

Vuttazzu e fonti sù di bon’augurio Strittu parenti a lu celesti Acquariu,Pri mia l’influssi soi Giovi e Mercuriu Mannanu allegri chiù di l’ordinario181

E questo “Vuttazzu,, era tanto d’attualità, da essere per così dire “portato ai cieli,,, onde la faceta conclusione che un giorno sarebbe stato scoperto tra le altre costellazioni dall’insigne Poli, che si era reso benemerito negli studi astronomici.Questo il senso che, a mio giudizio deve avere la terzina finale del sonetto:

Un jorno Urania a Poli in visioni Mustrirà a mia Vuttazzu tra li stiddiComu una nova costellazioni182

** *

Sappiamo di sonetti siciliani del Poli diretti al Meli. Oltre a quello che ebbe per risposta la poesia del Meli, “In festa e in trisca,, un altro fu ricambiato con quello che s’intitola “Faciti versi!,,, dove il Meli parla della misera

180 Puisii pag. 112.181 Pag. 298.182 Puisii pag. 298. Tanto questo sonetto che la precedente “Cratramatracchia,, non erano destinati al pubblico, e apparvero solo nella edizione Alfano, che li trovò tra i manoscritli posseduti dalle Signore M. Rosa e Marianna Schiavo.

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sorte dei poeti, cui “Ducentu mila versi oggi non vannu…. a procacciari un tozzu,, e della serenità con cui il Poli stende i suoi:

E vui, signur Don Pippu, friscu e linnu Faciti versi! E lu peju è chi sunnu Bonissimi, e di fari a tutti spinnu183

Lo stesso tono di elogio si rileva ancora nella poesia “A la morti,,, scritta in occasione di una grave malattia del Poli durante la sua residenza a Napoli, dove il poeta promette allo studioso l’immortalità, e che è piena di grazia e di vita come tutte le cose del sommo:

Morti, contra di Poli l’arcu impugni!Chi fai? rifletti. Nenti ci guadagni,Docu ci su li Troi e li Cutugni Chi ti fannu ammulari li calcagni184

Dalle relazioni poi tra il Meli e Giacinto Troysi, ultimo consultore del Governo in Sicilia poi ministro di Stato, possiamo dire che il Poli facesse talora da trait-d-union. Egli, cui il Troysi dirigeva da Napoli le sue lettere, notiziava il Meli di tante cose che riguardavano il Don Giacinto.Inoltre, a mezzo di lui, il Meli faceva pervenire al Ministro i tomi delle poesie dell’edizione completa del 1814, che aveva già pubblicato in sette volumi, ma poi doveva ripetere l’invio degli ultimi quattro, che non erano giunti a destinazione.Queste notizie si rilevano dalla lettera al Troysi, che è a foglio 41 del Carteggio.

183 Puisii pagg. 297-298.184 Ivi.

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CAPITOLO XIILA “LITTIRA A LU SIGNURI FRANCISCU PASQUALINO,, — DATA DI ESSA — LA LUNGA AMICIZIA TRA IL MELI E IL PASQUALINO SECONDO L’ATTESTAZIONE DEL GALLO — IMPORTANZA DEL MARCHESE RISPETTO ALLA VITA PUBBLICA E CENNI SULLA CARRIERA PER-CORSA — VITA PRIVATA — L’ODE DEL MELI “PRI LI NOZZI,, — ANCHE IL PASQUALINO VUOL ESSERE POETA E IL MELI GLI CORREGGE I VERSI — GLI ULTIMI ANNI DEL PASQUALINO E L’AFFETTUOSO RICORDO DEL MELI NE “L’ORLANDO POLITICO,,

Una nota particolare, che abbiamo potuto rilevare leggendo l’opera del Meli, è la sua abitudine, non aliena del resto ai poeti del suo tempo, di dedicare le poesie di serio argomento, specialmente morale e filosofico ai suoi illustri amici.Abbiamo detto della lettera filosofica indirizzata al Prof. Francesco Paolo Nascè, un’altra poesia su “Lu Statu presenti di la morali filosofia,, è dedicata a Giacinto Troysi185, al Cav. Antonio Forcelli è dedicata la “Filosofia d’Anacreonti186,,.Gli avvenimenti, che vedeva precipitare ai suoi giorni, non ancora ispirati da quella coerenza, che avrebbe più tardi riunito le tendenze multiple verso un unico scopo, nella stridente contradizione che in simili casi producono i moti sporadici, le repressioni, gli eccessi contrarii, lo conducevano a riflettere sulla elasticità che ha nella pratica la morale umana, che dovrebbe invece avere assoluto valore:

Pirchì in un regnu esaltasi,Dunqui, la saviizza,E si castiga in ‘n’autruCu tanta rigidizza?

185 Puisii pag. 56.186 Pag. 51.

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E’ veru chi ntra l’omini Nun fannu eccizioni,Pirchì sù’ frequentissimi Li cuntradizioni.Ma puru anch’è verissimo,Chi la morali è innataNell’omu e perciò merita D’essiri rispittata.Ciò nun ustanti osservasi Ch’è affari anchi di moda;In tempi nun si calcula In autri poi si loda187

Queste sue considerazioni sulla instabilità umana il Meli esprimeva in forma di lettera diretta al Marchese Francesco Pasqualino, e non senza una buona ragione perchè costui, come quei che divideva i suoi principi politici, avrebbe dovuto essere il più atto a comprenderne gli sfoghi... Vedremo però che gli eventi facevano cadere in contradizione anche lo stesso Pasqualino.Anche a non voler tener conto del contenuto della poesia, i due primi versi sono sufficienti a precisarne in certo modo la data e a riportarla all’ultimo lustro della vita del Meli.

Lassu li vani tituli Judici e presidenti

la “Littira” comincia.Il Pasqualino, che era un ottimo avvocato, si era dato con fortuna alla magistratura e, da giudice pretoriano di Palermo nel 1781-82 e del Tribunale del Concistoro, era stato promosso nel luglio 1810 alla carica di Giudice della Magna Curia.Sappiamo che qualche tempo dopo veniva eletto Pre-sidente. Quando con precisione? Da avvocato fiscale del Tribunale del R. Patrimonio era passato ad avvocato fi-scale del Trib. della G. Corte, ed essendo contemporanea-mente Presidente onorario aveva domandato la carica di Presidente del Tribunale del Concistoro, che veniva a va-

187 Pag. 151.

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care per la elezione Del Bono, che la teneva, ad uno dei Camerari della costituzione. -Ciò apprendiamo perchè copia del memoriale, che egli fece per tale occasione si trova a foglio 385-386 del Ms. 4 Qq D. 74 della Bibl. Com188. Benché questa copia sia senza data, l’allusione alla Costituzione la riporta con sicurezza al 1812 e noi sappiamo che la domanda venne accolta. La poesia del Meli come quella che si riferisce ad un tempo in cui il Pasqualino era giudice e presidente va riportata all’ultimo triennio della sua vita (1812-1815).Visse a lungo il Pasqualino e, benché non fosse di molto piu giovane del Meli, essendo nato il 18 febbraio 1754 (in Palermo da Giuseppe e Francesca Leone), a lungo gli sopravvisse, essendo morto il 9 gennaio 1845.Stando all’attestazione del Gallo, il quale dice di averlo appreso dal Pasqualino stesso, che il Meli di ritorno da Cinisi gli lesse le sue “Stagioni,, e ne riscosse entu-siastiche lodi, l’amicizia tra i due uomini fu molto lunga e tenace, e noi possiamo fin da ora affermare che il Pasqualino fu uno dei più intimi amici del Meli, il quale scrivendogli poteva ben lasciare “li vani tituli Judici e Presidenti,,.Il Marchese discendeva da antenati che si erano resi benemeriti negli studi, tra cui il suo illustre omonimo, autore del “Vocabolario Siciliano etimologico,,, pubbli-cato poi dal figlio Abate Michele. Rimasto orfano a sette anni fu educato dall’avo materno Gaspare Leone, insigne magistrato189. Dotato di ferrea memoria, datosi agli studi di giurisprudenza progredì in essi in modo da distinguersi come avvocato sopra gli altri della sua età, e per l’eloquenza, e per la vastità della scienza del diritto e dei vari rami di essa. Tra le sue arringhe si ricorda come famosa, quella in difesa del Cav. Saverio Landolina, per vietata estrazione di grano dal porto di Siracusa. Ai suoi progressi nella magistratura, oltre che i meriti personali, contribuirono anche la sua posizione di patrizio e la stima in cui era tenuto dalla Corte borbonica e particolarmente dalla regina Carolina.Anch’egli come il Meli era conservatore, avverso pel principio alla costituzione, e desideroso che si affermasse

188 Questo manoscritto contiene memorie giudiziarie e documenti diversi della vita pubblica del Pasqualino e anche alcune lettere a lui indirizzate, o che lo riguardano.189 Cfr. Giuseppe Nicolò Pipitone Biografia del Marchese Francesco Pasqualino Palermo 1845 in 8. Stamperia di Domenico Maccarrone.

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il Governo paterno del suo Ferdinando, col quale si vedeva giornalmeute, anche quando il Re era alla Favorita.Però, avverso per natura alle lotte si barcamenava di fronte agli eventi e nel 1812, conoscendo che il partito liberale del principe di Belmonte era prevalente, si piegò ad esso e fu conservato in carica. Caduta la costituzione di Sicilia con la pace generale e col riacquisto del regno di Napoli si rivolse nuovamente al partito cortigiano (ecco la continua contraddizione umana!) ed ottenne la carica di Consigliere del Supremo Consiglio di Cancelleria di Napoli, stando nella quale gli fu affidata dal Governo la compilazione del Codice Penale, che resse la Sicilia sino alla unificazione italiana.Quanto alla sua vita privata, sino all’età di cinquantanove anni egli era rimasto scapolo, compagno di allegri divertimenti del Meli, cui aveva spesso a gradito commensale, anzi ospite quasi sempre nella sua villa tra la Noce e Passo di Rigano; poi, il ventuno novembre 1813 s’era sposato e, recatosi a passare la luna di miele a Carini, aveva ricevuto la gradita sorpresa di una visita del poeta, che per l’occasione aveva composto la fresca anacreontica: “Pri li nozzi,,, la quale incomincia:

O Baccu, o anima Di l’alligria Sti spusi amabili Cunsignu a tia190

Della familiarità tra il Meli e il Pasqualino testimoniano anche le lettere di Giacinto Troysi dirette al poeta, in una delle quali si legge: “M’immagino che vi siete molto divertito nel Casino di Francesco Pasqualino191,,. La vicinanza di un uomo così celebre nella poesia, che spesso gl’indirizzava i suoi canti, dei quali rimane, oltre i due nominati, il grazioso sonetto “Pri lu capa d’annu192, in una alla mania poetica del secolo, dovette tentare anche il Pasqualino a cadere in quel dolce peccato. Ed egli, che non era certo uno dei predestinati all’arte immortale, nè era per natura dotato di fantasia, esordisce nei suoi tardi anni parafrasando in poesia siciliana due passi delle

190 Puisii pag. 293.191 Questa lettera, che è a fog. 154 retro del Carteggio, in data 9 luglio 1914 è pubbl. in Nuove Effem. Sic. Serie III Vol. XII 1881 pag. 126.192 Puisii pag. 293.

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Georgiche virgiliane: La descrizione della peste e L’età dell’oro. Questi componimenti ci rimangono assieme ad altri dello stesso autore, conservati nel Manoscritto 4 Qq D. 71 della nostra Comunale, che porta il titolo “Poesie di Francesco Pasqualino,,.Una cosa degna di rilievo è che a ciascuna delle due perifrasi precede nel volume, incollata e rilegata insieme, una striscia di carta, che porta autografe delle correzioni del Meli ai versi del Pasqualino. Si vede che il valente magistrato sentiva il bisogno di farsi aiutare e passava i suoi versi poco valenti all’amico compiacente, che li liberava dai barbarismi, dagli errori più grossolani e rifaceva i versi zoppicanti. A dare un’idea di queste correzioni del Meli ho riportato in Appendice il testo della prima parafrasi seguito dalle correzioni corrispondenti (pagg. XIX-XXIV).È da notare che il Meli andava di fretta perchè talora nelle note sbagliava la numerazione dei versi. In generale queste correzioni sono poi riportate sopra i versi corrispondenti di mano del Pasqualino, mentre il testo era stato copiato da altri.Dopo la morte del Meli il Pasqualino continuò da sè a stendere varie rime, di nessun valore, in massima parte occasionali, e scarso valore ebbe anche il suo poema “L’Orlando politico„, in cui imitò in certo modo il “Don Chisciotte,,, del Meli.Maggior pregio, per l’importanza storica ed utilitaria ebbero le sue prose, tra cui gli scritti giudiziari, un progetto per il rimboscamento di Monte Pellegrino, gli Atti della mia vita che vanno dal gennaio 1813 al 29 dicembre 1815 e le Riflessioni sulla rivoluzione palermitana del 1820, scritte di mano dell’autore, che ne fu testimone oculare.Ma egli non fu un elegante scrittore, e a testimonianza del Gallo, era anche “un inelegante anzi triviale parlatore193,,.Scriveva nei ritagli di tempo che gli consentivano le sue occupazioni molteplici. Nel 1821 in Sicilia occupò il posto di Direttore dei ripartimenti degli affari ecclesiastici e degl’interni nel Ministero e Segreteria di Stato, fu poi

193 Cenno biografico di F. Pasqualino scritto da A. Gallo, in Omissioni, addizioni, e correzioni alla Bibl. Sicula del Mongitore Ms. cit. - Questo cenno è riportato da G. Di Marzo nel Catalogo dei manoscritti della Bibl. Com. di Pal. Palermo 1878 Vol. III pag. 373.

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Procuratore Generale del Re e quindi Presidente della Gran Corte dei Conti. Il Gallo dice che “in questa carica egli espiò i torti della equivoca condotta precedente, essendosi gagliardamente opposto alla prepotenza napoletana, prevalente per mezzo di un Rocco, d’un Arpino e di un Cuccia, che sebbene Siciliano era ad essi deferente193,,.Però la morte interrompeva l’opera sua. Ad essa si era preparato già con animo sereno, dando tutte le disposizioni che stimava utili post-mortem, dettando financo la supplica per la pensione della futura sua ve-dova, nonché l’iscrizione per il suo sepolcro194.Diceva di morire tranquillamente, non avendo rimorsi e quindi aspirava al paradiso, ov’era contento di riunirsi eternamente agli antichi suoi amici: il Canonico Gregorio, Giovanni Meli e Domenico Scinà.Il ricordo affettuoso per il Meli già estinto si rileva anche in più luoghi del suo “Orlando politico,, nella parte rimasta inedita. Notevole è in special modo un tratto, in cui il Pasqualino afferma che il Meli mai si scostò dal suo fianco mentre visse, e spessissimo nella sua villa presso Passo di Rigano, attorno al desco dell’artistica sala da pranzo, cantò i suoi versi.Egli immagina che Ulivieri venuto in Sicilia è tra l’altro accolto da un signore, che l’invita alla sua villa, di cui dà la situazione topografica e la descrizione minuziosa. S’intende che il signore, che non si nomina, è il Pasqualino stesso.Giunti nella sala da pranzo, che aveva ospitato tanti uomini illustri, ora morti o lontani, Ulivieri chiede:

… giacché morte i miglior sempre furaDel mondo, e i rei lascia a lungo restarvi,Quel vostro insigne siciliano poeta Vive? O toccò de’ giorni suoi la meta?Ti chiedo ancor se de’ tuoi amici è stato,Che certo son che tu il conosca a pelo.Parli di Meli? Mel vedresti allato Se respirasse ancor l’aure del cielo.

194 L’autografo è nel Ms. 4 Qq D 74 fog. 399.

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Mai in vita sua si fu da me scostato,Assieme ci trovava il caldo ed il gelo.E a quel desco in mezzo al desinare Queste volte si udì dolce cantare!

Richiestone da Uliveri egli dice di conoscere tanti versi del Meli che “ancora ignoti sono a tutto il mondo,, e recita la satirica ottava “all’Animali nun ci mettu peccu,,, inedita a quel tempo e poi pubblicata con due piccole varianti e col titolo “Lu Seculu195,,.Riporto l’intero tratto dell’Orlando Politico a pagg. XXV-XXVII dell’Appendice.

195 Puisii pag. 139.

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CAPITOLO XIIILA MALATTIA DEL MELI: RISIPOLA ALLA FACCIA — LE PREOCCUPAZIONI DELLA CITTA’ — I VERSI DI COMPIACIMENTO PER LA GUARIGIONE — LA DESCRIZIONE DELLA CURA — L’ANONIMO AUTORE E’ PROBABILMENTE ANTONINO MODICA — I DUE CAVALLI DI FEDERICO LANCIA DUCA DI CASTEL BROLO E LA RISPOSTA DEL MELI — UNA LETTERA E UNA POESIA DEL LANCIA NEI MANOSCRITTI DEL CHIAVARELLO.

Quando il Meli era già al colmo della sua gloria, alla fine del secolo, parve per un momento che dovesse mancare brutalmente alla folta schiera dei suoi ammiratori ed amici. Ammalatosi gravemente nel 1799 di risipola alla faccia, durante più giorni si disperò di salvarlo e tutta la città fu in grande trepidazione per l’infermità del suo poeta. Ma evidentemente non era suonata ancora la sua ultima ora perchè egli guarì; e allora piovvero da ogni parte versi per compiacimento della guarigione.Tra le poesie inviate al Meli per l’occasione ve n’ha una, di cui non è stato sinora trovato l’autore, che a mio parere doveva essere un medico, e forse uno di quelli che lo assistettero, perchè si mostra informato del metodo di cura. Da essa noi possiamo apprendere ciò che fu somministrato al poeta in quella occasione. Leggiamo il principio del componimento:

Ivi chi terribiliu!Oh! Diu, chi serra serra

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Li figghi d’Esculapiu ntra diddi fannu guerra!Pirchì l’Omeru Siculu cchiù duci di lu meli Si trova ntra Piriculu di scattarci lu feli.Cc’è cui a Galenu scotula muffutu purvulazzu cui si pigghia ad Ippocrati currennu comu un pazzu.Brauniani trasinu di vinu cu buttigghi cu l’oppiu e lu cortici Comu soi veri figghi196

Le solite Muse scarmigliate volano a Giove e questo le rassicura, comandando ad Atropo di non tagliare il filo prezioso e ad Apollo di scendere in terra a quietare la rissa dei medici: Giove stesso si preoccupa di dare al suo inviato le prescrizioni che potranno guarire il poeta:

Cu li toi manu applica Supra li parti esterni Li sali di cantaridi pri li vileni interniComu spissu un diaulu un autru caccia fora cussì l’amur veneficu n’autru vilenu accora.Ntra vrazzu, cosci e ficatu metti tri vissicanti e lu vidrai d’un subitusanari ntra un istantiLu chermes, la Poligola

196 Ms della Bibl. Com di Palermo ai segni 4 Qq D5 cc. 21-23.

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chi sequiti a pigghiari lu Cicculati celebri pri farlu espettorari..,

L’autore di questa poesia, abbiamo detto, doveva essere un medico. Inoltre si manifesta imitatore del Meli cominciando la sua ode con un movimento analogo alla anacreontica “ Li capiddi,,. Chi potè essere costui?Ho iniziato in proposito delle buone indagini e sono pervenuta alla conclusione che il presunto anonimo è con ogni probabilità un certo Abate Antonio Modica, il quale risponde esattamente a tutte le qualità richieste dall’autore del componimento.Di quest’uomo nessuno o quasi s’è occupato, eppure esiste pubblicato postumo nel 1855 dal Sac. Pietro Gam-bino, un volumetto di poesie siciliane197, in cui l’imi-tazione del Meli è così evidente da saltare agli occhi anche ad un profano. Pare che il buon sacerdote non sapesse trattare altri temi che quelli stessi pienamente elaborati dal suo modello: il suo idillio Melibeo, le Anacreontiche Nici chi dormi, La gesuminu, Li capiddi di Nici, ecc. forniscono esemplari tipici a chi voglia studiare la fortuna del Meli in Sicilia.Ma quello che a noi più importa è che il D. Antonio visse molto vicino al Meli essendone stato intimo amico. Nato a Monreale nel 1761, all’età di dieci anni fu dai parenti messo ad istruirsi nel Seminario Arcivescovile, in cui viveva Mons. Testa e il Murena impartiva le sue lezioni di pura latinità. Uscitone sacerdote e scrittore di versi latini, veniva chiamato a leggere retorica nel Monastero di S. Martino delle Scale. Là conobbe il Meli, che aveva ammirato attraverso le opere. Conversando con lui si sentì attratto a seguirne l’esempio. Cominciò a scrivere le prime odi in siciliano, le presentò al maestro e ne ricevette incoraggiamenti, non solo, ma ne ebbe l’amicizia.Allora il Modica, che per tanto sentivasi grandemente onorato, desiderò vivere piu presso al Meli e, lasciando S. Martino, venne ad apprendere la medicina a Palermo.Per la corrispondenza delle date possiamo dedurre che egli fu anche alunno del Meli all’Accademia degli studi e,

197 Poesie dell’Abate Antonio Modica raccolte ed annotate dal Sac. Pietro Gambino Palermo. Stamperia di Giuseppe Meli 1855.

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nell’epoca della malattia del Meli, era da poco licenziato o studiava tuttavia. Sappiamo che egli fu anche membro della Accademia Siciliana e scrisse per la morte del Meli un idillio che è pubblicato tra le poesie (pag. 4). Fu forse dopo questa morte, che egli ritornò in patria dove esercitò la sua professione e fu un buon medico. Morì nel 1818.

** *

Fra quelli che si congratularono in versi per la ricuperata salute del Meli fu il Cavaliere Francesco Vincenzo Giardina e Grimaldi e un certo Domenico Rubino. Le composizioni di entrambi sono nella stessa raccolta che porta i segni 4 Qq D 5.Inoltre in un lungo sonetto caudato espresse il suo compiacimento Federico Lancia e Caruso, Duca di Castel Brolo, che altrove, nella dedica di una serie di ottave dell’anno precedente 1798, conservate nella stessa raccolta, si dichiara del Meli “infimo scolaro,,. Ed il Meli, in parte profittando di quest’umile confessione, in parte per il lungo uso di correggere i poveri versi zoppicanti degli amici, leggendo le sedici ottave del Lancia, non aveva saputo resistere alla tentazione di apporvi qualche nota, qualche rifacimento, o qualche commento pieno di arguzia, come mi sembra quello del verso 5 della l.a ottava:

Di Meli Orfeu dicanu ed Anfiuni Minn’aju ‘ntisu jiri canni canni198

Le due composizioni del 1798 e del 1799, (che sono letteralmente composte, perchè la prima costa di 16 ot-tave e di un lungo sonetto caudato, e la seconda di un sonetto, di una lunghissima coda e di relativa con-clusione) sono i “due cavalli alati,, a cui allude il Meli nelle sue ottave dedicate al Duca di Castel Brolo, cavalli, che secondo egli dice cerimoniosamente, lo trasportarono sul monte della gloria199.Ma il guaio era che il Duca aveva dato per avere era ansioso ed ambizioso di poter mostrare agli amici

198 Si veda l’Appendice pagg. XXVIII-XXXIII ove ho riportato integralmente le composizioni del Lancia e le note autografe del Meli.199 Puisii pag. 261.

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qualche componimento del sommo vate, che lo riguar-dasse, onde “spesso lo ricercava della risposta alle sue obbliganti poesie,,. E poteva farlo di presenza perchè il Meli era suo amico e spesso suo gradito commensale, nella sua casa, sita nel piano dell’antica parrocchia di S. Nicola all’Albergheria200 nonché suo maestro di poetica.Alludendo a queste richieste, il Meli, nella risposta ricorre alla figurazione del vetturino, che, giunto alla meta, gli chiede la mancia:

Ma mi sentii tirari pri darreriE dirmi: “Me patruni, e lu lueri?Vossia è vinutu ccà cu dui vitturi,Chi ci adduau don Fidiricu Lancia;Mi dirrà: L’appi gratis pri amuri;A la bon’ura; e datimi la mancia.”

Ma questo artifizio, come l’altro della visita al tempio della gloria o all’Olimpo, di cui nessun verseggiatore sapeva fare a meno nell’elogio di un suo simile, e che il Meli è costretto a riprendere nella sua risposta, non si riconoscono quasi più, tanto il poeta infonde vita, e movimento, e tutto un complesso armonioso di pensieri e sentimenti molteplici alla sua evocazione ch’è tutta sorriso, tutta marioleria spensierata, che culmina talvolta, come in quel modo di congedarsi dagli immortali del tempio della gloria:

Jeu mi cogghiu li pezzi e mi la sbignu.La grazia biricchina del componimento è tanto più pregevole in quanto il Meli non ha avuto libertà suffi-ciente di ispirazione proponendosi di ormeggiare i versi del Lancia. La conoscenza di questi spiega certe espres-sioni del Meli. Così, ad esempio, il duca concludeva il sonetto per la ricuperata salute in questo modo:

Di sti ridiculi Mei versi smeusi Senza l’intirguli Gustusi e Zuccaru,Composti grevii,

200 Cfr. Francesco Emanuele e Gaetani, March. di Villabianca. Il Palermo d’oggi giorno in G. Di Marzo Biblioteca storica e letteraria di Sicilia Vol. XIV (quarto della 2.a serie) fog. 214.

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E ab hoc, ab hac

Ora facitinni ‘Na luminaria;O puru Purvuli Dintra ammugghiaticci,E poi sparatili Pri trich-trac.

E il Meli così foggiava la terzultima ottava della sua risposta:

Lu vitturinu nonostanti in terra M’inquieta e perseguita ogni giornu, E pri la mancia sempri mi fa guerra,Ne ni lu pozzu livari d’attornu Afferra finalmenti pri na cerra La Musa, e fattacci ed Apollu un cornu,Scrissi in fretta sti stanzi ab hoc e hab hac E dissi “Te fattinni nn tric-trac.,,

Dal raffronto delle Poesie si può inoltre stabilire la data della risposta del Meli, che con ogni probabilità si può riportare al 1799, o poco giù di lì.Nato in Ficarra nel 1732 da D. Girolamo e da Donna Marianna Caruso, il Lancia quando scriveva quei versi era già vecchio e infermo; quattro anni prima, in una lettera in data 11 ottobre 1795, diretta al Barone Chiavarello assieme ad una sua poesia aveva scritto che questa sarebbe stata l’ultima, dato il suo grave stato, Però egli non morì che nel 1815, come il Meli e a Palermo anche lui.Nella lettera in questione che, assieme alla poesia, si trova autografa nei manoscritti del Chiavarello di cui ho parlato, egli ringrazia per la “compiacenza,, dimostrata dal Barone per la vittoria di una sua causa e anche per una canzone fattagli, alla quale non risponde, perchè, egli dice, ogni suo componimento “sarebbe assai inferiore alla bellissima Risposta che V. Ecc.za da Corifeo

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dei Poeti ha formata… E per altro non faccio risposta poetica, stantechè mi trovo già licenziato dalle Muse per una grave infermità, in cui sono stato; come Ella potrà osservare dall’acclusa mia rozza composizione.,,Nel foglio seguente si legge la composizione, che riporto in appendice per dare un saggio della maniera poetica di quest’altro infilzatore di rime; che pur atteggiandosi a asceta, non disdegnava di accrescere il numero infinito dei suoi colleghi del secolo. (Vedi pag. XXXVII).

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CAPITOLO XIVLA RACCOLTA MELIANA DEI “COMPLEMENTI,, — IL CAV. MATTEO BEVILACQUA — UN ALTRO ANONIMO CHE VIENE ALLA LUCE: RAFFAELE SPARAGIO — LA GALANTERIA PER LOUISA DABRON — MADDALENA MAYERN E IL CARTEGGIO COL MELI — S. MADDALENA E S. GIOVANNI — UN’ALTRA POETESSA AMICA E TRADUTTRICE DEL MELI: MISS CORNELIA ELLIS KNIGHT.

Le poesie del Lancia di Brolo dirette al Meli, di cui abbiamo detto, si conservano manoscritte nella nostra Bibl. Comunale (ove sono la maggior parte dei preziosi manoscritti dell’opera meliana) in una raccolta che porta i segni 4 Qq D5, e che è interessante, fra l’altro, perchè fatta dal poeta stesso negli ultimi anni di sua vita.Nella prima carta, che era originariamente una lettera, dove si dava un appuntamento ad un certo D. Stefano201 e che, oltre ad essere molto ingiallita, presenta molte gualciture e molte corrosioni, si legge, presso il margine inferiore, questa parola di mano del Meli “Complimenti,, e, da una parte, questa frase, così eloquente nel suo laconismo: Complimenti che costituirono tutto il fruttato ed (sic) tutti i proventi dei miei studi poetici,,.Dalle ripiegature che la carta presenta e dalla direzione della scrittura, si rileva che il Meli ne aveva fatto una specie di fascia per legare questi “Complimenti,, i soli, a

201 È superfluo far rilevare questa abitudine del Meli di scrivere su ogni ritaglio di carta che gli capitasse fra le mani, uso che, del resto, si riscontra in molti suoi amici e contemporanei.

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suo dire, che ricompensassero l’artista delle sostenute fatiche, mentre egli avrebbe desiderato anche dei vantaggi pecuniari, più atti a procurargli un’agiata vecchiezza, e a permettergli di ricambiare le cortesie che da ogni parte gli venivano fatte.Oltre le poesie per la riacquistata salute, la raccolta contiene gli omaggi poetici di vari, tra cui un cliente ristabilito: J. J. NICOUD (carte 25-26) e dei versi latini, quali quelli di un FEDELE TERZO, alunno del seminario di Monreale, che fa la parafrasi di parecchie canzonette del Meli, fra cui Li capiddi, Lu gigghiu, Lu labbru, ecc. (fogg. 34-33 retro), una versione latina delle odi Lu labbru e Lu gesuminu, copiate del Meli e di cui s’ignora l’autore, che potrebbe essere anche il Modica, che pure componeva versi latini. Nelle ultime carte, poi, si ha la traduzione italiana di trentasette stanze del Don Chischiotte, fatta del Cav. Matteo De Bevilacqua da Trapani, residente a Vienna, dove era uno dei cinquanta rappresentanti della società, degli Amici della Musica degli Stati Austriaci. Questa traduzione è preceduta da un’epistola encomiastica in versi siciliani.Una lettera dello stesso Bevilacqua all’autore in data di Vienna, 4 novembre 1814, è conservata a fog. 156-157 del Carteggio e pubblicata dal Boglìno. Da essa si rileva, che, dimorando da venti anni a Vienna il Bevilacqua, non appena colà gli capitarono in mano i versi del Meli, ne fu tanto preso, che ne tradusse tutta la lirica e la Bucolica, ed era pure arrivato a tradurre sette canti del Don Chischiotte, quando ne mandò all’autore il saggio anzidetto.Ma non ci è noto se mai sien venute alla luce tali versioni, che il traduttore avea premura di far stampare, come egli scriveva nella citata lettera. Sappiamo però che egli pubblicò un volume di poesie, che indicò con “Prima parte,,, onde, evidentemente, si riserbava pubblicarne qualche altro. Sono poesie di scarsissimo valore, di carattere arcadico, non aliene spesso di bizzarrie seicentesche, abbondando di una quantità di acrostici e di bisticci202.Nella stessa raccolta dei “Complimenti,,, di cui andiamo facendo la rassegna, si trovano a cc. 32-33 retro degli endecasillabi di imitazione catulliana, con cui fu

202 Poesie diverse del Cav. Matteo De Bevilacqua siciliano. Parte 1. Vienna 1815.

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accompagnato il dono, fatto al Meli, di tre tomi delle poesie di Ossian203.Sin’ora da nessuno, ch’io sappia, è stato identificato l’autore, ed anche il Di Marzo, nel suo “Catalogo dei Manoscritti della Biblioteca Comunale di Palermo,,, de-scrivendo la raccolta, dice che l’autore di quest’ode è un “anonimo,,. Nessuno, compreso il valente bibliotecario, ha fatto attenzione, che, nell’ultimo foglio del componimento, ove si legge la dedica, tra questa e i versi di Catullo, vi sono dei segni quasi indecifrabili, che si possono con sicurezza attribuire alla mano tremante del Gallo nei suoi ultimi anni. Questi segni io ho potuto leggere quasi divinando: Ode del Barone Sparagio.Esistette veramente un uomo di tal nome tra i contemporanei del Meli? E’ questa la domanda che mi son rivolta, alla quale agognavo trovare una risposta, che confermasse la mia piccola scoperta. Frugando infaticabilmente, ho finalmente trovato tra le carte dello stesso Gallo, possedute dal Dott. Traina, un autografo di lui, che dà, non solo valore a quanto io affermo, ma anche qualche notizia di questo Sparagio, nel quale si viene, direi quasi, ad esumare un altro personaggio, che ebbe la sua parte nella vita del creatore di “Sarudda,,.Trascrivo l’autografo del Gallo:“LETTERATURA SICILIANA — Secolo XIXFra i più intimi amici del celebre poeta Giovanni Meli e da lui tenuto in grande stima come filosofo ed erudito, eravi Raffaele Sparagio del quale posso io dar le poche notizie che ne udiva dal Meli stesso non avendolo conosciuto da vicino.Viveva egli ritirato nei suoi studi, contento d’uno scarso patrimonio, che sapea con giudizio impiegar pel suo modesto sostentamento e in acquisto di libri di antica e moderna filosofia, di classici latini italiani e francesi di rare edizioni di cui fatto avea una sceltissima raccolta e che spesso prestava a leggere all’abate Meli. Secondo l’opinione di costui lo Sparagio era un moralissimo filosofo e dotto, ed erudito non solo in molte branche dello scibile ma fornito di buon giudizio, e di alacre critica, talora amava egli di sentire il di lui parere nelle sue poesie. Lo Sparagio scriveva anche versi italiani in corretto ed elegante stile, ed ho trovato fra le carte del

203 Vedi Appendice pag. XXXVIII.

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Meli un’ode saffica encomiastica a lui diretta, che meriterebbe di esser pubblicata. I suoi manoscritti si sono smarriti dobo la sua morte avvenuta in età inoltrata verso il 1814,,.L’ode, a cui aecenna il Gallo, è con ogni probabilità quella stessa compresa nella raccolta dei “Complimenti„, cc. 32-33, di cui abbiamo detto.

***

Evidentemente, anche il sesso gentile si piccava talvolta di far versi per onorare il poeta e spingerlo a nuovi componimenti, se non addirittura per chiederne l’amore.Ancora nel Ms. 4 Qq D5 della Bibl. Comunale a cc. 27 e 29-30 si hanno due composizioni in francese di Louïsa Dabron, una fedelissima di Maria Carolina, di cui era probabilmente dama di compagnia, venuta coi reali a Palermo la storica sera del Natale 1798, in seguito alla fuga da Napoli, cui minacciavano le truppe francesi.In data 26 Giugno 1799, ella, arrogandosi la qualifica di “une Muse etrangère,,, elogia il vate:

Comme Apollon tu sais toucher la Lire,Sur tous les tons tu peux charraer les Coeurs. Chacun le sait, chacun aime à le dire, j’ai vu par tout de tes admirateurs.

Ma ella desidera anche che il canto di lui iteratamente renda omaggio all’ospite reale e lo sprona a ciò:

Ta Muse dort, On attendoit de toi De si beaux vers pour recevoir ton Roy Que tes amis fachés de ton silence,Sans perdre espoir, ont perdus patience,Dis-donc pourquoi restes tu sans ardeur?204

Così pare che s’inizi la relazione con questa Maddame

204 Ms. cit. 4Qq D5 c. 27 — Cfr. Cesareo — La vecchiezza di G. Meli in “Nuova Antologia,, Sesta serie. Gennaio-Febbraio 1916 pagg. 22-23.

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Dabron, che il 2 gennaio dello anno seguente 1800, in un’altra composizione che invia al Meli dalla villa regia di Mezzo Monreale, si protesta innamorata dell’ormai sessantenne poeta, al punto da porgli il dilemma:

Delivres-moi de l’affreux malheur d’etre ou donnes-moi ton coeur et tes plaisirs.

Questi versi per il carattere intimo dei sentimenli che esprimono, furono trasmessi al poeta autografi, mentre i precedenti la Dabron aveva fatto copiare da altri in una appariscente scrittura piena di svolazzi.Al poeta non dovea dispiacere di fare un pò il galante con la signora francese che domandava di diventare “la plante de Meli„.

Menes-moi donc dans tes chers paturages, vers le vallon que tu cheris le plus et fais-moi plante, avec quelques vertus qui quelque jour me fasse aimer du sage Mais places-moi près de ton hermitage que ton jardin par moi soit embelli et qu’au printemps tes soins me fassent naître pour que chacun en me voyant paraître m’apelle alors la plante de Meli.

Egli però le rispondeva con le amabili strofette:Na musa sicula Scausa e ‘ncammisa Si offri a ‘na nobili Musa francisa205.

e nel resto nulla si sa di questa sentimentale rimatrice, che dovette partire con la regina, dopo aver composto altre rime, oltre quelle dirette al Meli, se questi potè dire di lei “celebra granni ed eroi206,,.Un’altra poetessa, che corrispose col Meli in francese fu Maddalena De Mayern, di cui, nella stessa raccolta dei

205 Puisii pag. 304.206 Ivi.

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“Complimenti,, c. 30, si ha un elegante bigliettino, dove, tra una corona di fiori, si leggono questi versi:

Pour couronner un autre AnacréonL’amour, ce Dieu charmant voloit vers l’HipocrêmeJe te suis, lui dit Apollon;Qui mérita jamais dans le sacre VallonMieux que notre Meli, ta couronne et la mienne?

Al biglietto si accompagna una lettera pure in francese, in data 23 giugno 1811, la vigilia dell’onomastico del poeta, ed è appunto una lettera di auguri, in una forma ricercata secondo il gusto dei tempi: D. Maddalena avea desiderato, nei giorni scorsi, di comporre un mazzo per quella festa, ma non era riuscita a penetrare nella sacra valle delle Muse, inaccessa ai profani. Un amico, che si era offerto di tenerle compagnia e cui le Muse erano state meno spietate, era tornato da esse a lei, assieme a una divinità campestre “qui avoit tous les attributs qu’on donne à la Veritè,, e le aveva recato quell’unico fiore, che ella ora rimetteva al poeta207.Pertanto, pochi giorni dopo il Meli, restituendo alla De Mayern (che egli chiama semplicemente Mayer) il primo tomo di “Le génie du Christianisme,, di Chateaubriand, che ella le avea prestato, le scriveva le sue considerazioni sull’opera e la sua ammirazione per l’autore, che sapeva “moralizzare senza apportare sonno,,, e poi aggiungeva questo poscritto:“ S. Giovanni è costernato perchè non si trova in Pindo un fiore degno di S. Maria Maddalena, perciò si previene questa Santa a custodirsi il suo accuratamente, stante la scarsezza che v’è n’è in Parnaso ed altrove, al segno che si dubita se ne abbiano più per “loro stesse le scarse Muse208.Ma non a lui di quei fiori potevano mancare. Infatti egli inviava alla De Mayern, la dimane della sua festa, scusandosi di non averle, per dimenticanza, fatto visita il giorno innanzi, le graziosissime sestine:

Avennu vistu chi la Musa mia,Comu ‘na criatedda zizza zizza,

207 Vedi tutta la lettera in Appendice pag. XXXIX.208 Lettere pubbl. da G. Micale pag. 167-168.

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Pri li curti si aggira e si firria E mi sburdi Taffari e li sirvizza,Ora chi vecchiu su’, tardu e melensu,Mannu ad idda e profittu di stu menzu209.

Poiché S. Maddalena cade il 22 luglio è da affermare che questa composizione fu scritta il 25 luglio dello stesso anno 1811.

***

Un’altra poetessa straniera, che nutrì amicizia ed am-mirazione per il Meli, fu l’inglese Cornelia Ellis Knight, damigella di compagnia della Principessa Carlotta di Walls; giunta da Napoli a Palermo, dopo un’avventurosa traversata il 1. gennaio 1799 con la madre, il vecchio ambasciatore inglese alla corte di Napoli Lord Hamilton e la moglie di costui, la famosa Emma Lyona.Sbarcata, era andata con la madre, secondo racconta ella stessa nella sua autobiografia210, nell’unico albergo, che v’era allora a Palermo, presso il carcere della città, quello del quale parla il Brydone nel suo viaggio (Lett. 21), e che doveva poi ospitare Volfango Goethe211. Vi si era trattenuta alcuni giorni perchè la madre avea contratta una grave pulmonite, e poi era andata ad abitare un appartamentino presso Villa Montalbo al Molo, in cui aveva preso stanza Lady Hamilton.Questa famosa avventuriera, oltre ad essere direttamente molto amata dalla regina Maria Carolina, aveva le chiavi del cuore dell’Ammiraglio Nelson, che era onnipotente a Corte.Il Meli, in quel tempo era in impiccio per l’arresto del suo povero compare D. Gioacchino La Torre e si raccomandava a destra e a sinistra per ottenerne l’escarcerazione212.

209 Puisii pag. 296-299.

210 Autobiografy of Miss Cornelia Knight 2. Edition London 1861 Vol. I, Chep. 8.211 Cfr. G. Pitré - Il Viaggio di Goethe a Palermo op. cit. pag. 9.212 Cfr. G. A. Cesareo - La Vecchiezza di G. Meli, op. cit. pag. 23 e segg.

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Quella della Lyona gli parve una buona via e si giovò della Knight per esserle presentato. Costei l’avvisò con un biglietto, pubblicato dell’Alfano213, che Milady pro-metteva di aiutare il suo amico e lo pregava di andarlo a trovare.Il Meli vi andò infatti, e stabilirono assieme ch’egli le consegnasse per il Nelson un memoriale e dei versi.Durante la sua permanenza in Palermo, Miss Knight tradusse in inglese alcuni idilli del Meli e n’ebbe in ricompensa l’ode “Li Musi,,, in cui è salutata la loro decima sorella:

Vinni a cumprinniri L’Aoniu coru Miss-Nnait AnglicaDecima soru214.

Dopo la sua partenza dalla Sicilia Miss Cornelia passò al servizio di Carolina di Brunvick, principessa di Galles e ivi scrisse una Descrizione dei Lazio (1805) e la sua Autobiografia, che ha pagine notevoli sulla Palermo dei tempi. Prima aveva composto dei versi, il romanzo Dinarbos (1790) e le Le lettere di M. Flaminio e Settimio, tradotte in italiano e stampate in Roma da Baldassare Odescalchi nel 1794.Morì nel 1837 a Parigi.

213 Nuove Poesie di G. Meli. - Palermo 1911 pag. XVI.214 Puisii pag. 300.

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CAPITOLO XVL’ACCADEMIA SICILIANA — LE COMPOSIZIONI IN LODE DEL SICILIANO IDIOMA— IL MELI NEL VERSO DI FRANCESCO SAMPOLO — LA NOMINA A PRINCIPE DELL’ACCADEMIA — OPPOSIZIONE DEL GUELI — CENNI BIOGRAFICI DI QUESTO POETA — IL COMITATO CENSORIO — IL MELI E GIOVANNI ALCOZER.

All’ultimo periodo della vita di Giovanni Meli corrispondeva il sorgere e lo svolgersi in Palermo di una nuova accademia, che, meglio delle altre, rispondeva al carattere ed alle tendenze patriottico-linguistiche del poeta e che, si può dire, moriva veramente con lui.Quest’accademia, che possiamo chiamare “della riforma,,

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derivava indirettamente dalla fama che il “Teocritus alter et Anacreon,, aveva ormai acquistato, non soltanto in Sicilia ma, anche in Italia e all’estero e che aveva risuscitato l’orgoglio linguistico dell’isola. Ad imitazione del Meli molti poeti si erano dati ora a scrivere in Siciliano, riprendendo meritatamente a considerare come lingua questo idioma che ha una tradizione molto antica e gloriosa.Fondata nel 1790 da Francesco Paolo Di Blasi, l’illustre martire precursore di quanti caddero per la libertà italiana, l’“Accademia Siciliana„ si proponeva di tenere alto l’onore di questa lingua, obbligandosi a servirsi di essa, non soltanto per le poesie, ma per qualsiasi orazione o discorso.Se essa ebbe vita grama o travagliata, onde a volte parve morire e poi si risollevò, vivacchiando come una debole inferma, se, nonostante gli sforzi dei soci “non seppe o non potè raddrizzarsi, rinsanguarsi, mostrare qualche giorno o qualche ora di quella vitalità che tutti i soci predicavano e speravano o per lo meno desideravano215,, è da pensare ai tempi fortunosi in cui visse e alle vicende che la minarono, fra cui non ultima il supplizio del Di Blasi, caduto per mano del boia, nella piazza di S. Teresa, solo sei anni dopo la fondazione dell’accademia (maggio 1796). A non voler dire a priori che essa ebbe tra i suoi componenti poeti che seppero fare qualcosa di meglio dei loro predecessori di altre accademie, quali Francesco Mattia Gueli, Giovanni Alcozer e sopratutto Ignazio Scimonelli (non diciamo del Meli, la cui arte è fuori e sopra di qualsiasi accademia) è notevole nelle produzioni di essa il sentimento patrio, che, se pur limitato alla sola Sicilia, anzi più particolarmente all’idioma della Sicilia, rinfranca in certo modo lo spirito insodisfatto e sdegnato dalla lettura delle aride produzioni in rima di tutto il settecento, riboccanti di pastorellerie arcadiche, di rime occasionali, di sciocche imitazioni petrarchesche o metastasiane. Se non sempre troviamo l’arte, almeno possiamo cogliere un palpito di sincerità, qualcosa che sgorga puro dal cuore senza le lambiccature della mente, senza lo sforzo, mal represso e mal riuscito di voler foggiare un’invenzione meccanica, o un dato dell’esistenziale sulla falsariga, troppo battuta, di un

215 Cfr. Salvatore Salamone Marino Accademia Siciliana (1790-1818) Tip. F.lli Vena 1894.

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predecessore più o meno illustre.Ignazio Scimonelli, nelle ode saffica recitata il 18 ottobre 1793 in lode della lingua e poesia Siciliana così conclude:

Nuli mettu peccu a Grecu o GirmanisiNè a Toscu o Francu, o Latinu, o Spagnolo;Ma bedda carta mi canta in cannoloLingua e paisi.E pri sta lingua sugnu tantu vanu,Ca mortu e prima d’essiri urvicatu Lu Miserere lu vogghiu cantatu‘n siciliano.Sarrà in latina ben fatto e ben dittu,Ma un Miserere in lingua nostra misu L’arma mi la fa jiri ‘n paradisuDrittu pi drittu216

E alcuni anni dopo, quando alla morte del Di Blasi l’accademia aveva cercato di qua e di là una sede dove riunirsi, ed ora era stata accolta in casa Lanza, ora nel Palazzo Roccaforte, ora in quello del Principe di Torremuzza, e ad intervalli anche nella casa di qualche socio, come in quella di Francesco Di Paola Sampolo, quest’ultimo in uno di tali bivacchi cantava alla sua Sicilia, dandole conforto dice Rosario Salvo “con lo stesso amore, con cui si potrebbe dare ad una madre per una bambina disgraziata che non ha tetto che la ricoveri217,,.

Nun picchiari cchiù Sicilia mia,Nun stari cu la lingua ritirata,Nun dubbitari, sciogghila; talia,Ca la tua sorti, e d’idda è già canciata.Nni vidi ‘ntra stu locu arricugghiuti?Sai chi facemu? Pri tia travagghiamuE a la tua lingua damuChiddi onuri, chi ad idda su duvuti.Ridi tanticchia, statti allegramenti,

216 Poesie di Ignazio Scimonelli-Palermo 1877 pag. 4.217 Rosario Salvo di Pietraganzilli Storia delle lettere in Sicilia Vol. III pagg. 362-63.

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Li nostri versi sentiCa Minerva ed Apollu misi in ganaLa lingua usano già siciliana218

Ed il cantore non poteva disgiungere l’esaltazione amorosa della Sicilia da quella del suo grande poeta:

Riscialati lu cori Vanni MeliCu sta tua lingua t’ha fattu immurtali.La fama supra l’aliL’ha sollivatu pri sina a li celi.Nui cu l’esempiu so nichi acidduzzi.Sparmamu già l’aluzziE sbulazzannu ntra sti virdi vaddi Avemu espostu lu pettu a li baddi219

La figurazione dell’aquila che s’innalza sino al cielo e i piccoli augelletti cercano d’imitare col loro debole volo, se non nuova è adatta a rendere l’immagine del sommo circondato dagli altri accademici, che cercano dì seguirne le orme.Qui il Meli non è più un socio, come nelle altre Accademie, è il capo scuola e gli altri sono i discepoli, il senso della sua alta personalità s’impone alla comune coscienza, i suoi capolavori sono i modelli a cui i poeti s’ispirano liberamente.Ordinata l’Accademia sotto la direzione del conte Vincenzo Castelli nel 1807 e stabiliti per essa un pro-tettore, un direttore, un principe, otto censori, dieci con-sultori, uno storiografo, un segretario, un vice segretario, Giovanni Meli, meritatamente ne veniva proclamato Principe.È da dire però che questo primato, che a tutti s’im-poneva, non andò esente da qualche senso d’invidia, che degenerò talvolta in aperta opposizione.Questi piccoli livori, queste invidiuzze che, evidente-mente minarono la vita interna dell’Accademia, toglien-

218 Luigi Sampolo Accademia Siciliana (1790-1818) Palermo Tip. “Lo Statuto,, 1896 pag. 7.219 Ivi.

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dole quella concordia che doveva esserne l’elemento vitale, hanno un particolare interesse per noi, storici delle piccole cose, che per amore di verità, non paven-tiamo d’intaccare o distruggere l’ideale unità che, a distanza di tempo, s’è formata a gloria di una istituzione o di un personaggio.Luigi Sampolo nella sua monografia sull’Accademia Siciliana, dice che alla nomina degli ufficiali del 1807-8 il Meli fu eletto Principe “a voti unanimi220„.Invece tale elezione non fu senza contrasti, per essa l’accademia si divise in partiti, uno dei quali si opponeva con energia all’ elezione stessa.Dalla parte dell’opposizione, anzi, si può dire, a capo di essa, era il Gueli, censoree per l’anno 1807-08 sto-riografo dell’Accademia.Il Gallo racconta però, a difenderne in certo modo la memoria, che il Gueli “ben tosto si avvide del fallo, si ravvicinò col cuore al nostro Anacreonte e rimeritò l’affetto e la stima di quel sommo, che, nato per il sentimento del bello più squisito, non sapea sentir odio, ma amore per chicchessia221.Francesco Mattia Gueli, che morì in Palermo il 29 gennaio 1829 di anni sessantaquattro, era nato a Catania in occasione che il padre di lui, ragioniere, vi si era recato seguendo Mons. Ventimiglia, destinato a reggere quella Diocesi. Ritornato col padre in Palermo, fu messo a studiare presso i P. P. delle Scuole Pie e sin d’allora si diede a poetare in siciliano, incitato dall’esempio del Meli. Annoiatosi nello studio della metafisica, avvolta nelle sottigliezze scolastiche, a cui si era dato, se ne distolse poco dopo, ed, anche perchè le circostanze domestiche non gli permisero di continuare oltre gli studi, vi rinunziò del tutto.La sua vita ci appare avvolta ed oppressa da un’aura di mediocrità dalla quale nessuna manifestazione seppe emergere veramente.Siccome la via più facile a procacciarsi una sussistenza era ai suoi giorni quella del foro, vi s’incamminò nella

220 Pag. 12.221 Cenno biografico di Francesco M. Gueli Letto nell’Accademia di Scienze e Lettere di Palermo pubbl.o ne “Il Telegrafo Siciliano„ anno I n. 5 Pal. 1834. Da questo cenno che è l’unico che ci dia qualche notizia del Gueli, ho attinto le brevi notizie che qui riporto.

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qualità di causidico. Ma non vi aveva disposizione, nè era dotato di facile parola, onde non fece fortuna. Allora cercò un impiego e venne assunto nell’officina dalla percezione dei pubblici dazi. Anche questa carica non gli procacciò che una meschina sussistenza, ma egli se ne accontentò. Nelle accademie ebbe varie cariche, nel Buon Gusto, come nella Siciliana fu censore.Nella sua giovinezza scrisse numerose poesie amorose in italiano, dalle quali — dice il Gallo “molti bei sonetti si potrebbero scegliere pregevoli se non per la lingua e per la frase, almeno per la forza del sentimento e per peregrini pensieri,,, una serie di sonetti giocosi sulla mitologia greca e molte composizioni siciliane, in cui egli cadde nel difetto del suo secolo: di trascendere nel lubrico e nell’immorale senza aver fatto niente per l’arte.Il Gallo dice che però erano notevoli tra queste alcune allegorie, che ai suoi tempi erano da tutti ricordate a memoria. Probabilmente egli allude con ciò alle di lui favole, di cui quella che s’intitola “Lu Voi purtatu a lu Maceddu,,, che è la migliore, fu già attribuita al Meli222. Nel 1807, essendo stato scelto a tema dell’Accademia Siciliana Damone e Pizia, dopo la lettura del discorso sull’amicizia fatta da Francesco Sampolo, il Gueli recitò una serie di ottave “Li pinseri di Damuni ostaggiu di Pizia ntra la carcara di Dionisiu,, a cui tenne dietro il sonetto del Meli “All’amicizia,,, che corrispondeva forse a un intimo desiderio del poeta che nell’Accademia forse quella pace, che derivava dall’affetto e dalla concordia tra i soci. Pertanto esso racchiudeva un grande insegnamento in quel:

Santa amicizia, oh quanta giuvi e alletti223! Ma la pace era qualcosa di elastico nell’Accademia; c’erano in essa troppi elementi discordi, che si davano importanza di autorità costituite, specialmente i censori, che usavano a dritto e a torto del loro potere ed erano a loro volta censurati dai malcontenti dell’opera loro.Ne nascevano dei pettegolezzi, i quali dopo aver tentato invano di conciliare, il Meli scriveva al Conte Castelli il famoso sonetto, riportato da quanti si sono occupati

222 Nell’ediz. del 1859 delle Poesie siciliane presso i Fratelli Pedone Lauriel vol. IV pag. 313. L’errore fu ripetuto anche dall’Alfano, che pubblicò la favola nell’ediz. di Puisii anno 1909 e che poi, accortosi che era fra quelle del Gueli la soppresse nell’ediz. del 1915.223 Puisii pag. 314-15.

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dell’Accademia:Scuvai di puddicini ‘na ciuccata224.

dove fra l’altro proponeva come miglior partito l’aboli-zione della censura.Tra quelli che sentivano particolarmente la frecciata del poeta era il giovane parroco D. Giovanni Alcozer, uno dei censori per quell’anno. Benché la poesia non fosse stata pubblicata vivente il Meli, pure egli sentiva il bisogno di giustificarsi e di pungere a sua volta, e pertanto scrisse un lungo sfogo in versi, che tra le sue favole porta il numero di XXIX, ma che, in verità, come egli dice:

FavulaChiamari nun si pò225

In essa, dopo avere esaltato la Sicilia, madre di eroi, viene ad elogiare la grande arte del Meli, servendosi dell’allegoria del tessitore, che faceva splendidi drappi dai disegni meravigliosi:

Campava tempi arreri Un certu tissituri,Chi stupenni lavuriFacia ntra drappi di vari maneri,Da li siciliani e forasteriStimati preziusiDivintaru famusiE ricircati foruPirchì l’argentu e l’oraCu sita, e lana, tessiri sapiaCu tantu gustu, cu tanta maistria,Chi lu pannu d’arazzu‘Mparaguni di chisti è un cannavazzu.

Dopo aver lodato i pregi degli arazzi raffiguranti il Don Chisciotte, “L’origini di lu munnu,,, “La Fata Galanti,,, La Bucolica, dichiara di essere stato un imitatore del grande

224 Ivi pag. 299.225 Giovanni Alcozer Poesie Siciliane Palermo 1836 Tip. Virzì pag. 118 Lu Tissituri.

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artista:Stu mastru industriusu appi un scularu,Chi travagghiava a partiE ci circava d’arrubbari l’arti.Di li periti stissi.Chiù d’unu accussì dissi:Avia lu su tilaruE fici qualchi cosa a l’ammucciuni.

Però il maestro non si curava di questo discepolo, vide le sue prime opere, ma storse la bocca disapprovando:

Li primi cosi di lu so garzuni Vitti lu mastru, e nun ni fici cuntu Tantu in autu era juntu Senza parrari, ridiu, mussiau Forsi pri puddicinu lu pigghiau

Ecco il ricordo spiacevole. E l’Alcozèr, che nutriva una segreta speranza di diventare grande anche lui come il suo modello, trovava presuntuoso il contegno di colui, che a suo giudizio aveva dovuto pur cominciare dalle piccole cose, che aveva dovuto essere “un pulcino,, prima di diventare grande e cantare cose eccelse:

Ma l’onoratu artifici valenti ‘Ntra du primu buliu Si scurdau veramenti,O forsi a diri megghiu, un riflittiu,Chi lu cricchiutu re di lu puddaru Lu quali porta ‘ntesta ‘na curuna Comu ‘na paparina,Lu quali avi a li pedi li spiruna,Ne aspetta a jornu chiaru,Ma canta cu tri uri di matina,Nun nasciu tuttu ‘nsemmula accussì;Forsi diri putia chichirichì

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Si prima nn’abbiccava E l’ovu nun lassava?Appi ad aviri puru tantu beddu La sua scorcia appizzata a lu vudeddu

Ed ecco la frase maligna:Gaddu di bona razza Pidacciati nun duna.Ne’ pigghia a pizzulunaLi figghi puddiciniDi li ciocchi muggheri, o concubini.

Però, a mio giudizio, questa auto-difesa dell’Alcozer ha più l’aria di una raccomandazione presso i contem-poranei e i posteri, che quella di un attacco contro il Meli.In verità, la sua indole bonaria non portava il creatore di Sarudda a una satira fortemente sentita, che pungesse e ferisse: quello che poteva sembrare tale era invece anche qui scherzo, facezia, come abbiamo osservato altrove, e l’Alcozer non se ne poteva offendere, nè sentire tampoco il bisogno di rispondere.A riprova di ciò sta anche una testimonianza storica. Racconta Giovanni Priolo Alcozer — che raccolse le opere e i cenni biografici dello zio materno, il poeta Giovanni, — che costui soleva recitargli il sonetto del Meli, quasi a compiacersene e ad attestare che era “fra loro un continuo scambio di poesie di ogni tema e ritmo,,. Il Priolo scriveva di non aver potuto trovare il sonetto, tuttora inedito ai suoi tempi e ne ricordava solo il primo verso.Del resto l’Alcozer non lasciò occasione per esprimere la sua ammirazione per il Meli. In un’ode giovanile egli rappresenta il Meli come un cigno ed esprime la speranza di poterlo emulare:

Canta un cignu226: a lu so cantu Sugnu tantu Elettrizzatu.

226 L’Ab. Giovanni Meli (Nota dell’autore).

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Ca mi criju, chi canciatu Fussi in cignu; e già mi pari Di cantari Anch’iu accussì.Di lu nomu anch’iu di cignu Forsi dignu Un sugnu, è veru;Ma è delittu si lu speru?Lu miu pedi l’auta rocca Forsi un tocca.E forsi sì227.

Inoltre, in un’accademia in lode dei poeti del Secolo XVIII, l’Alcozer fece un’offerta al Meli in una serie di sestine, che esprimono tutta la sua ammirazione devota. Ad un certo punto egli dice:

Vui ‘ntra la lingua nostra sulu siti,Veru poeta, ed eguali ‘un aviti Pri essiri comu vui tantu ci voli,Chi l’anni passirannu a milia a milia;Vui lu Sicilianu Savioli,Lu Metastasiu Vui di la Sicilia Anzi diri si pò senza periculu Cha siti vui l’Anacreonti Siculu

E più giù:Vui sulu o Meli ‘un aviti confruntu Pirchì l’unicu siti, e senza eguali;Unni avistivu a jiri siti juntu La vostra fama già fatta è immortali,Venezianu è bonu, è bonu RauMa la vostra sampugna l’avanzau228

E quando il Meli moriva l’Alcozer faceva sentire la sua voce dolorante in un idillio, che riscosse gli encomi delle

227 Poesie siciliane edizione 1815 Tomo I Ode I.

228 Riporto per intero in appendice pagg. XL-XLIII l’Offerta, che è inedita e sconosciuta.

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accademie Palermitane229.

CAPITOLO XVI

229 Poesie siciliane edizione 1835 — Idillio primo.

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GIOVANNI ALCOZER NELLA VITA — FRANCESCO RIOLO SEGRETARIO DELL’ACCADEMIA SICILIANA E CURATORE DELLA SORELLA DEL MELI — FRANCESCO DI PAOLA SAMPOLO E IL SONETTO IN MORTE DEL MELI — IGNAZIO SCIMONELLI IL PIU’ GRANDE DISCEPOLO DI LUI.

Palermo fu culla e tomba del parroco Giovanni Alcozer di Francesco, nato nel 1777, morto nel 1854 il 18 agosto230. Avuti dagli arcivescovi Sanseverino e Gravina gli ordini minori, a ventiquattro anni fu sacerdote, dopo avere ottenuto dai P. P. dell’Oratorio di S. Filippo Neri, deputati ed amministratori il patrimonio di onze 24 della eredità del fu Ab. D. Geronimo Prenestino, previo concorso di teologia dogmatica e morale. Continuati i suoi studi e resosi noto come “buono e piccante poeta,, — secondo dice il Gallo — fece parte non secondaria delle Accademie palermitane.A 15 marzo 1815 fu ascritto nel numero dei cinquanta classificati dall’Accademia del Buon Gusto, e il Diploma fu firmato dal Meli nella qualità di censore. Oltre che nell’Accademia Siciliana fu ascritto anche alla Euracea Imerese col nome di Crateo Viridio231. Le limitate risorse del padre e i bisogni della famiglia lo indussero a dettare lezioni di letteratura presso le famiglie nobili di Palermo, e fra le altre patrizie la Principessa di Villafranca, D.a Giuseppa Moncada, gli affidò l’educazione delle sue figlie.Con decreto Reale del 23 settembre fu nominato Rettore della seconda Scuola Militare in Monreale e nel 1825 fu per concorso eletto Parroco del Forte di Castellammare in Palermo, dove abitò tenendo presso di sè la sorella vedova e i figli, tra cui il Priolo Giovanni e dove disimpegnò le sue funzioni specialmente nell’assistenza dei condannati all’estremo supplizio.

230 Questi cenni si ricavano da quelli che precedono le opere manoscritte dell’Alcozer, riunite a cura di G. Priolo Alcozer nipote del poeta, conservate nella nostra Bibl. Com. ai segni QQ H 282 e dalla Biografia dello stesso Priolo ai segni Qq H 284; inoltre dal ms. di A. Gallo che s’intitola Omissioni, addizioni e correzioni alla Bibl. Sicula del Mongitore, che si conserva nella stessa Biblioteca Comunale. Rosalia Anastasi Campagna nella sua monografia sull’Alcozer, attinse ai primi, ma mostrò sconoscere l’altra biografia, che dà più ampie notizie e quella del Gallo.231 I diplomi accademici si conservano nel ms. Qq H 284.

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Il Priolo e i discendenti ancora in vita sostengono che egli fu anima fervida di liberale, e che nel Parlamento siciliano del 1848-49, anche per i suoi meriti letterali, fu nominato Pari, corrispondente all’odierno Senatore. Fu poi destituito con la restaurazione borbonica del 1849, perchè in qualità di Pari avea sottoscritto l’atto di decadenza di quella dinastia, e ricusò poi recisamente di sottoscrivere la vergognosa disdetta. Il Gallo, invece, tace della nomina a Pari e dice che mentre era Parroco del R. Castello, “essendo questo consegnato dalle R. R. truppe ai rivoluzionari del 1848 e intimato a seguir le medesime che s’imbarcavano per Napoli, egli o perchè mal sano in salute, o perchè preferì di mostrarsi Siciliano, volle rimanere in Palermo. Al ripristinamento dell’ordine fu calunniato e destituito. Si difese ma invano e con rassegnazione filosofica soffrì la sciagura e la miseria, sino alla morte,,. Il Gallo lo dice uomo di severi ed ingenui costumi, buon religioso, nemico dell’ippocrisia e de’ falsi zelatori. Si mostrò affettuosissimo verso i nipoti, sentì caldamente l’amicizia come dimostrò specialmente col Canonico D. Gaetano Mondino, altro socio dell’Accademia Siciliana, con cui divideva gli studi e gli affetti, sì da meritare entrambi i titoli di novelli Pilade ed Oreste e coll’illustre Ignazio Scimonelli, con cui scambiò frequenti rime e lettere al tempo della residenza in Monreale.Dalle sue molteplici poesie pubblicò un primo volume per i tipi di Lorenzo Dato nel 1815, contenente venti odi e ventitré favole, che, a dire del Gallo, fu bene accolto dal pubblico, ma un suo componimento “in cui con fine allegoria feriva alcuni canonici della Cattedrale gli attirò delle brighe e de’ dispiaceri onde si distolse dal dare in luce i volumi seguenti„. Più tardi, nel 1836 venne alla luce un opuscolo contenente l’Idillio per la morte del Meli e diciotto favole (Tip. Virzì), indizio della ripresa pubblicazione, ma anche stavolta essa si arrestò, interrotta dall’invasione colerica.

** *

Fra i soci dell’Accademia Siciliana che ebbero col Meli personali rapporti fu il segretario per l’anno 1807-1808: Francesco Riolo, figlio del Dott. Vincenzo e di Maria Antonia Nicodemo, che morì nella grave età di 97 anni il

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27 ottobre 1839. Dalle poche notizie, che rimangono di costui, ho potuto rilevare che egli fu curatore della demente M. Antonia Meli, sorella del poeta, cui tanto afflissero negli utimi anni le di lei stravaganze, che sperperavano quel poco di denaro e di roba che invece egli tanto avrebbe desiderato di vedere accresciuti.Il Gallo racconta di lui che studiò sotto i P. P. Gesuiti e nella poesia ebbe per guida il celebre Ab. Carì e il Meli, di cui fu intimo amico. Dice che riuscì leggiadro scrittore di componimenti nel genere scherzevole-satirico in lingua siciliana e che essi rimasero in potere del Notar Lionti dopo la morte del Riolo232. Anche il Sampolo dice che poetava leggiadramente “accoppiando alla fluidezza fulloniana una maggior dose di sale e di arguzie,,. Ricorda come lepidissime le sue composizioni, “Lu Jocu di focu„ “Lu musaicu,, “La pazzia,, “La Filosofia,, “Lu Munnu a la riversa,, “La festa di li crasti,, ma dimostra di non averlo conosciuto neanche lui, poiché dice in nota che sono ricordate in un manoscritto di Francesco Franco che egli possedeva, dal titolo: “I poeti siciliani fiorenti nel 1811,,. Invece il Sampolo conosceva, forse perchè riprodotta nello stesso manoscritto, una poesia del Riolo, di cui ci riporta un saggio, che non è certamente spregevole233.

** *

Al Meli si accostava per i suoi principi politici di anti-costituzionale, oltre che per l’indirizzo poetico, un altro socio dell’Accadernia, anzi uno dei censori: Francesco di Paola Sampolo, padre di Luigi, che scrisse dell’Accademia.Di lui che, nacque il 17 febbraio 1774 e morì il 16 agosto 1834, ho citato nel capitolo precedente dei versi in lode dell’idioma siciliano e del Meli.Dal figlio Luigi sappiamo che egli nella R. Accademia degli studi fu allievo di Francesco Vesco e di Mi-chelangelo Monti per le lettere latine italiane e del Gre-gorio, del Bisso, del Drago, per il diritto pubblico sici-liano, il diritto romano e il canonico.Applicatosi alle scienze giuridiche esercitò con successo

232 Omissioni, addizioni ecc. ms. cit.233 Op. cit. pag. 14.

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la professione di causidico e acquistò fama di valente nel diritto ecclesiastico. Oltre che dell’accademia Siciliana fu socio del Buon Gusto e dei cinquanta classificali.Poetò in siciliano sull’esempio del Meli: il suo nome appare nella Raccolta di poesie siciliane per il rista-bilimento in salute del Viceré principe di Caramanico, compose inoltre egloghe, sonetti, canti, poesie varie occasionali, un poema bernesco per un’ottobrata al Monastero di S. Martino.Nell’Accademia Siciliana, egli alla morte del vate, ispirato, dice il figlio “dal dolore che la perdita del grande poeta avea eccitato nell’animo di quanti avevano prelibato la soavità della lirica pastorale e delle odi di lui,, recitò il sonetto che comincia;

Pasturi di li siculi capanni Musi chi la Sicilia prutiggiti Fama chi curri pri sti banni banni Trattinitivi cca’ cu mia cianciti234.

Ma un altro sonetto fu recitato nell’Accademia per l’infausto evento, da colui che ne riprendeva le redini con la scomparsa del Principe. Tutti rimanevano come sgomenti, l’Accademia incerta del suo destino minacciava di dissolversi: occorreva riunirne le sparse membra, rinsanguarle, ed era l’ultimo tentativo disperato che Ignazio Scimonelli faceva per salvare l’onore della poesia siciliana.Piangere s’era fatto abbastanza, ma non bisognava abbattersi, e, nel suo verso semplice, ma pur ricco di vita il principe novello cantava:

Cussì la puisia siciliana Quannu Meli muriu jisau li vuci:Ora ‘nta là putia cui cerni e scana Cui nni li mpasta cchiù li cosi duci?Lu so lamentu ch’in Parnasu acchiana L’ascuta Apollu e cu li manu a cruci Tistiannu parrau: Zittu babbana Metti ligna a lu focu e adduma luci.

234 Luigi Sampolo Accademia Siciliana op. cit. pag. 22.

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Meli ti nni lassau bravi garzuni,Cunsignaccilli ad iddi in fidi mia Li crivi, la majidda e lu sbriguni,Chisti farrannu onuri e a Meli e a tia Dunati d’armu e ‘un fari cchiù catuni Sarria vrigogna chiujiri putia235

L’Accademia non potè risorgere più e vivacchiò tre anni ancora finché lo Scimonelli stesso la riunì nel 1818 a quella del Buon Gusto, di cui era Direttore, ma la poesia di costui rimase ad attestare che l’esempio del Meli non era rimasto infruttuoso ed aveva potuto ben germogliare in un uomo dotato di fantasia.Giunti al fine quasi della nostra rassegna possiamo rialzare gli occhi che hanno visto strisciare o svolazzare terra terra gli accademici numerosi che poetarono attorno al Meli ed affisarli sereni in queste semplici e chiare creazioni dello Scimonelli.Basta questo sonetto a farci comprendere che non siamo più di fronte ad un volgare accademico che infilza parole e rime ben risonanti all’orecchio e accoppia agli uomini e ai miti gli epiteti più tipici e più generici. Egli vede veramente le sue creature, modeste sì ma vive non importa che i suoi dei non abbiano nulla di divino, sono per questo più vitali e più veri.La Poesia Siciliana elogiata e cantata già come qualcosa di eccelso e pur in modo affettato e falso, è qui una popolana qualsiasi che vende dolci, cui è morto il suo operaio migliore, ed è addolorata perchè vede la fonte del suo guadagno esaurita.E non sviene, nè manda gemiti come una qualunque pastorella arcadica, resta popolana e grida il suo dolore:

Jisau li vuciOra ‘ntra la putia cui cerni e scanaCui nni li mpasta cchiù li cosi duci?

E chiamare il Meli “il creatore de’ li cosi duci,, è il migliore di tutti i panegirici accademici, che si possa fare

235 Sampolo op. cit. pag. 23.

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di lui, che cantò tutto ciò che fu piccolo, grazioso, umile con dolcezza infinita.

** *

Ignazio Scimonelli era nato in Palermo il 14 febbraio 1757, da Pietro, ufficiale della Conservadoria di Azienda e da Anna Jerico e in Palermo morì il 21 dicembre 1831. Datosi agli studi del diritto ne divenne profondo conoscitore e apparve fra i più eloquenti e valorosi avvocati dei suoi giorni, anche nel foro di Genova ove a venticinque anni si trasferì. Ritornato in patria gareggiò con successo coi primi penalisti del suo tempo, addetto per decreto reale a difendere le cause di delitti e misfatti dei poveri, di cui fu valente e pietoso tutore. Iniziatosi nella magistratura, Mons. Lopez, arcivescovo di Palermo, lo costituì assessore della sua Curia arcivescovile. In seguito fu Giudice del Tribunale del Concistoro, avendo compagno il Pasqualino, poi della Gran Corte Criminale, quindi della Magna Curia e ancora Giudice Perpetuo del Tribunale dell’Erario e, a un tempo, Consigliere del Magistrato del Commercio.Dovendosi preparare il nuovo codice e l’organizzazione delle nuove magistrature fu eretta una commissione straordinaria per decidere le cause criminali con un metodo abbreviativo; lo Scimonelli ne fu primo giudice con le funzioni di Presidente236. Ma in seguito la parabola discese rapidamente e nel nuovo ordine giudiziario non riprese l’antico posto.Da alcuni si attribuisce l’origine delle sue disgrazie a un epigramma, che gli produsse delle amarezze ed anche qualche giorno di prigione. Si legge nella prefazione delle sue poesie che egli, ritraendo larghi vantaggi dalla sua carriera, conduceva un’agiata esistenza ed era possessore di una carrozza e di due bellissimi cavalli.Il Viceré di quell’epoca (di cui si dice che quando fu nominato al suo ufficio, avesse nominato alla carica di giudice di circondario molti individui suoi familiari e di poco merito) in occasione delle feste di S. Rosalia, che allora celebravansi con pompa e solennità straordinaria richiese allo Scimonelli di prestargli i suoi cavalli, per

236 Progetto di Codice Penale del Principe di Villafranca, di Ignazio Scimonelli e di Salvatore Malvastro, Palermo 1813 in 4°.

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servirsene assieme ad altri due che aveva uguali attaccandoli tutti e quattro alla carrozza di gala con la quale voleva recarsi alla cappella reale. In quest’occasione lo Scimonelli compose la seguente ottava satirica, che, pervenuta alle orecchie del Viceré, nè eccitò tutte le furie:Pri la gran festa di l’anniversariu Di la Santuzza chi pruteggi a nui,Di lu nostru Sovranu lu Vicariu Vosi li mei cavaddi tutti dui.Pri un serviziu cussì straordinariu Mi scantu, malidittu quannu fui,Si giudici ‘un li fa di circundariu E li bestii cc’appizzu e ‘un l’aju cchiuj!237

Nel suo degradamento egli riprese l’antica carriera di avvocato, che abbandonò quando per malattia le forze gli vennero meno, e trascorse gli ultimi anni in seno alla famiglia, che ebbe numerosa, avendo preso tre mogli, e avendo avuto figli dalla prima e dalla terza.Piccolo di statura e pieno, egli era di indole allegra tanto che dovea durar fatica a star serio. Questi e gli altri particolari del suo fisico e del suo temperamento si possono rilevare da un sorridente autoritratto che egli lasciò in poesia:

Su curtu e chinu comu un varrilottu,Nun è lu visu miu tunnu perfettu Aju a livellu e frunti e varvarottu,Vucca e labbru nun sdicinu all’aspettuLu nasu l’aju picciulu e cugnuottu,E aperti l’ali sol mostra in prospettu;L’occhi mei fannu focu senza bottu,E lu culuri miu quasi è vrunottu.Bianchi già li capiddi aju in gran parti , Junti li gigghia ridennu taliju

237 Poesie siciliane edite ed inedite - Palermo, Gaudiano 1877.

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E a stari seriu aju bisagnu d’arti.238 A questo è da aggiungere, per testimonianza dei con-temporanei, una voce assai dolce, che accresceva pregio alle sue poesie, che usava recitare dappertutto: pregio “che in parte venne ad essi a mancare, tosto che alla fredda lettura furono sottoposte„ secondo il giudizio di Antonio Di Giovanni Mira239. E Francesco Sampolo grandemente elogiandole dice a tal proposito: “Or perchè mai risorgere non veggo a rendermi la più autentica ed irrefragabile testimonianza i Lucchesi, i Carì, i Tetami, i Salvagnini, i Monti, i Natali, gli Airoldi, i Gregorii, i Meli, di ciò che intesero dalla bocca dello Scimonelli?240,,E ancora “i partigiani di Scimonelli auguravano di valere la pubblicazione delle di lui opere ad ecclissare l’opera del sempre immortale Giovanni Meli, appunto perchè costui nel pronunziare le sue dolcissime poesie aveva assai meno di grazia, e venustà di quanto Scimonelli naturalmente sfoggiava241„.Queste opere, alcune delle quali hanno veramente dei pregi, ma non tutti in egual misura, sono 17 idilli, 28 canzonette, 17 sonetti, 4 capitoli e un poemetto pa-storale, pubblicati in due volumi vivente l’autore, inoltre delle traduzioni da Orazio e da Teocrito, tre satire, una quantità di favole pubblicate postume assieme alla stampa delle altre poesie, e un poemetto: “Il Diluvio Universale,, rimasto inedito e incompleto.

238 Ivi pag. 3.239 Necrologia di Ignazio Scimonelli in Effemeridi scientifiche e Letterarie per la Sicilia Tomo I. Anno 1832 pag. 37.240 Elogio funebre di Ignazio Scimonelli pag. 14-15.

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CAPITOLO XVII

CENNI SUL CONTE VINCENZO CASTELLI DI TORREMUZZA — I PRANZI DATI AI SOCI DELL’ACCADEMIA SICILIANA — AGOSTINO GALLO, IL PIU’ GIOVANE AMICO DEL MELI.

Prima di chiudere questa rassegna delle principali figure dell’Accademia Siciliana diciamo qualcosa del Mecenate Conte Vincenzo Castelli. Figlio dell’illustre letterato, archeologo, numismatico Gabriele Lancelotto, allievo del Carì, seguendo gli esempi paterni, si applicò alle lettere e in ispecie alla storia, ma rimase di molto minore al padre per dottrina e per fama.Lasciò i “Fasti di Sicilia,,, varii lavori sull’ordine di S. Giovanni Battista di Gerusalemme, delle memorie storiche dell’Ammiraglio Federico Gravina e di Giovanni Castelli, preposito dell’Oratorio. Inoltre una quantità di

241 Ivi pag. 17.

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zibaldoni, pieni di appunti storici e letterari, ma di carattere generico e deficienti di senso critico, che si trovano inediti nella Biblioteca Comunale di Palermo.Fu segretario dell’Accademia del buon Gusto nel 1796 e poi si adoperò nel 1801 perchè ad essa si apportasse una riforma con la costituzione approvata nel settembre di quell’anno.Politicamente, era un uomo dalle vecchie idee realiste, anzi dei più accaniti e con gli altri redinisti è colpito nella poesia “cronica,, Dies Illa, pubblicata dal Pitrè, dove si allude al di lui essere Gentiluomo di Camera con chiavi d’oro:

Turrimuzza, pri la chiavi,Fusti puru di li bravi,Sbirru e spia fusti a un puntu,Ma vattinni, ca si juntu242.

In un altro sonetto italiano dei cronici intitolato “De-putazione del regno,, in cui tutti gli undici deputati del “Dies Illa„ sono messi alla gogna, è qualificato:

Un che il figlio arricchì, che il Regno afflisse243.

Invece nell’anticronaca: “L’Agunia di li Cronici,, è detto di lui:

Castellu, novu accortu,Lavura, e fa caminn,E sutta manu joca Cu tattu suprafinu244.

Nell’Accademia Siciliana, egli recitò varii discorsi (oltre a delle poesie). Ad uno che s’intitolò “La Sicilia ‘ntra li scienzi nun la cedi all’antica Grecia e Roma„ recitato nel 1809, rispose il Meli con l’improvvisata “Lu vantu passatu,,245. Due anni prima nel 1807 quando sotto i di lui auspici l’Accademia era risorta, il Meli gli aveva

242 Giuseppe Pitrè - I Cronici e gli Anticronici e la loro poesia (1812-1815) in Archivio Storico Siciliano - Nuova serie - Anno XXXIX Palermo 1914 pag. 41.243 Ivi pag. 44.

244 Ivi pag. 48.245 Ivi pag. 44.

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indirizzato il sonetto che termina:Conti, vui nostru Romulu, li mura Difinniti d’attornu da l’audaci Esterni insulti d’ignoranza oscura.E si dintra un qualchi Remu… oh taci!Taci o Musa, rispetta la futura Regia di li to soru e di la paci246

Esso era stato recitato in un banchetto largito dal magnate agli Accademici.Di un altro pranzo pure dato dal Conte Castelli abbiamo notizia attraverso due sonetti recitati da due accademici per l’occasione.E’ interessante il secondo in ispecial modo perchè incomincia:

Cui pò nigari, cha’ Meli è lu Gnuri?

ed è tutta una lode per questo poeta, che doveva essere presente al banchetto. L’intero sonetto e il precedente, essendo inediti e sconosciuti ho riportato interamente in Appendice (pag. XLIV).

** *

Ed ora, a conclusione del nostro lavoro, veniamo a parlare di colui che menò il vanto di essere l’amico più grande del Meli e ne fu forse il più giovane, contando venticinque anni quando il poeta morì: Agostino Gallo.Nato in Palermo il 7 febbraio 1790 da Salvatore negoziante di porcellane e cristalli e da Gesualda Pisanti, vi morì il 16 maggio 1872247.A otto anni fu mandato al Collegio del Buon Pastore, ove studiò l’italiano, il latino e la letteratura. Uscitone a tredici, cominciò a frequentare la scuola di eloquenza e poetica diretta da Michelangelo Monti, professore prima nell’Accademia degli Studi e poi nella Università di

246 Puisii pag. 139.247 Biografia di Agostino Gallo per Paolo Sansone - Palermo Tipografia Barcellona 1872.

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Palermo, e quindi ne frequentò la casa, correggendoli quegli una versione d’Orazio, che egli aveva iniziata. Divenne così amico del Monti, che, prima di morire, gli affidò i manoscritti suoi di prose e versi, onde pubblicarne i migliori. Il Gallo eseguì tal voto e inoltre fe’ dipingere il ritratto del Monti dal Patania e gli fe’ innalzare il monumento da Valerio Villareale nella Chiesa di San Domenico. Sua ambizione essenziale nella vita fu quella di amicarsi grandi del tempo.Ad uno di quei soliti aneddoti, che aveva sempre da riportare, attribuiva la sua amicizia per l’astronomo Piazzi248, per il quale scrisse anche un’ode italiana in cui accennava ai lavori astronomici di lui ed alla scoperta del pianeta Cerere; nelle sue memorie racconta pure di avere avuto dimestichezza con Domenico Scinà, che considerò come suo precettore, e per il quale intimò anche il duello ad un avvocato che l’aveva oltraggiato249.Studiò diritto civile, canonico, naturale, s’iniziò nella lingua greca e nella tedesca e poi nella francese e nell’inglese, ma non si approfondì in nessuna di queste materie. Con la stessa superficialità studiò storia naturale ed astronomia, agricoltura ed economia politica ed anche disegno e pittura con Giuseppe Patania, di cui copiò alcuni quadri.Ed analogamente, senza alcuna disposizione si diede alla poesia, forse proponendosi d’imitare il Meli, cui diresse l’ode che comincia:

Meli dall’anima ridente ingenua Erede ed arbitro del plettro dorico250

In verità egli però, non fece in questi primi anni che dell’arcadia, arcadia amorosa ed arcadia laudativa, in seguito, quando la corrente romantica bagnò dei suoi fiocchi spumosi anche quest’estremo lembo di Europa, egli (mancando di attitudine e di fantasia) seguì quell’indirizzo, come dimostra fra l’altro nell’“Ode a Marianna Mira Castelli Principessa di Torremuzza251,,. Datosi al giornalismo, pubblicò “Le riflessioni sulla Cronaca,,, periodico in cui si opponeva a “La Cronica,,

248 Sansone, Biografia di. pag. 10.249 Allo Scinà egli fece erigere pure un monumento a S. Domenico, un altro al Piazzi e ancora a Pietro Novelli, ai Mar vuglio padre e figlio e alla poetessa Nina Siciliana.250 Poesie di Agostino Gallo - Palermo - Lorenzo Dato - pag. 24.251 In Prose e versi in morte di Marianna Mira Castelli - Palermo Tip. Roberti 1838 pag. 67.

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ministeriale e flagellava Lord Bentink, ministro e generale per la Gran Bretagna in Sicilia. Ciò gli fruttò l’arresto assieme al tipografo Li Pomi e rimase sei mesi in carcere, dove, egli (racconta nelle sue memorie) era visitato da tutti i suoi amici e fra questi dallo Scinà, dal Patania ad anche del Meli.Oltre della prigione era stato condannato a due anni di esilio, ma, per la protezione della Principessa di Paternò, per cui aveva scritto un’ “Ode,,, ebbe il condono. Allora, per consigliò dello Scinà, — egli dice — si recò in Napoli, dove per concorso e per la raccomandazione del Piazza ottenne il posto di Referendario, presso il Supremo Consiglio di Cancelleria.Ciò però dovette avvenire dopo il 16 ottobre 1815, epoca in cui cadde il Murat e si ebbe la restaurazione. Il primo ottobre era ancora a Palermo, perchè il Meli lo ricorda nella sua lettera inviata a D. Pietro Darla, che è l’unico luogo in cui il Meli faccia menzione dell’amicizia con il Gallo252, amicizia che (questi dice) durò intima per sei anni dal 1810 al 15253. A Napoli rimase fino all’ottobre 1819 e si attirò la inimicizia del poeta Gabriele Rossetti; inoltre ebbe un duello col siciliano Ferdinando Ruggieri, per cui riportò una ferita.Nominato ufficiale di carico onorario nel ramo d’i-struzione, delle arti, salute e beneficenza pubblica eser-citò tale carica a Palermo per quarantun anni, introdu-cendo in Sicilia le scuole comunali col nuovo metodo di Bell e Lancaster, dettando i regolamenti della nuova Università di Messina e della Biblioteca Comunale di Palermo, di cui fu deputato per dieci anni. Egli fece arricchire la biblioteca di 18.000 volumi, di parecchi giornali, di rare edizioni e di moltissimi manoscritti, ne fece anche costruire la scala ed innalzarvi un busto marmoreo al fondatore A. Vanni Principe di S. Vincenzo.Fu socio di moltissime accademie italiane ed estere, fondatore del R. Istituto d’incoraggiamento, d’agricoltura e pastorizia. All’Accademia del Buon Gusto egli mutò il titolo in quello di Accademia di Scienze Lettere e Belle Arti dividendola in quattro classi. Dal Governo fu fatto

252 Lettere pubbl. da G. Micali pag. 225.253 Confronta per l’amicizia tra i due: “Agostino Gallo e Giovanni Meli” (pubblicazione di un tratto di un Ms. del Gallo) in Edoardo Alfano — Studi e documenti su G. Meli - Opuscolo 1.o pagg. 166-168.

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Cavaliere Ufficiale dell’Ordine dei SS. Maurizio e Lazzaro.Riguardo al Meli, dopo averne cantate le lodi in occasione della medaglia fattagli coniare dal Principe Leopoldo di Borbone254 e dal busto scolpito da Villareale255 dopo la di lui morte, egli propose al decurionato di Palermo di destinargli onze cinquecento per l’erezione di un sepolcro in S. Domenico. Il mo-numento fu fatto dal Villareale, la epigrafe fu dettata dal Gallo stesso e la salma vi fu trasportata con grandi solennità.Però egli racconta anche di aver lottato parecchio coi Padri Francescani, che, avendo nella loro chiesa la salma del Meli, che era stato loro medico, non volevano cederla e pertanto l’avevano nascosto.Pare proprio che tutte le stranezze capitassero a questo D. Agostino che tanto tendeva all’aneddoto. Oltre a raccontarne di ogni sorta sul Meli, nella Biografia, che egli pubblicò, ne narrò anche sulla di lui salma e persino sul di lui tavolino.Ho letto in un appunto dei suoi zibaldoni, però di aliena mano, che, dopo aver comprato tale scrittoio dalle eredi del Meli, per memoria del poeta, egli diede a ripararlo ad un maestro. Costui, guasto com’era, lo vendette a dei facchini, i quali a loro volta lo rivendettero ad un gentiluomo per 24 tarì, ignorando che fosse del Meli. Il Gallo allora dovè ricorrere alla polizia, che, appurando della terza rivendita, fe’ ritornare il tavolo a Palermo. Al Gallo toccò allora rimborsare i facchini ed incaricarli di rimborsare l’ultimo compratore in buona fede. Sicché quel tavolo che egli aveva comprato onze tre gli costò in tutto onze quattro. Egli allora vi appose una lamina di rame conia seguente iscrizione:

Meli qui scrisse un dì carmi immortaliPoi nuov’angelo a Dio s’alzò sull’ali

Palermo 1826256.Per il Meli egli tenne in casa sua anche un’accademia poetica il 7 marzo 1864, alla quale intervennero tra gli

254 Poesie cit. - pag. 42.255 Ivi pag. 93.

256 Manoscritti pssseduti dal Dr. Traina. Questo tavolo è ora posseduto dall’Avv. Alfano.

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altri la Principessa di Galati e la Poetessa Concettina Ramondetta Fileti, che coronarono di fiori il busto in marmo del poeta, mentre le canzonette di lui, vi venivano cantate attorno. La descrizione della festa e i versi recitati il Gallo pubblicò col titolo “Meleide257,,.E’ da dire se tutto ciò era a gloria del morto giovava certamente anche al vivo, che teneva moltissimo a dimostrare la sua amicizia coi grandi, come si può rilevare anche da un’altra accademia che egli tenne in onore di Vincenzo Bellini.Molto meglio avrebbe fatto egli a ricercare i documenti e le testimonianze, che avrebbe potuto avere con facilità ai suoi tempi e darci una biografia del Meli fondata su maggiore rigore critico.Ciò che però si deve riconoscere nel Gallo è il merito di avere raccolto tutti i manoscritti dell’opera meliana: versi, lettere, prose, di cui forse buona parte si sarebbe dispersa senza la sua cura.Raccolse inoltre quantità notevolissime di opere d’arte, i ritratti degli illustri siciliani (ora alla Bibl. Com. di Palermo), ancora: un materiale veramente enorme su ogno campo artistico e letterario, di cui, solo poco pubblicò e la maggior parte in periodici e fogli volanti, avendo collaborato in tutti i giornali del suo tempo: “L’Ape,,, “L’Indagatore Siciliano,,, “L’Effemeridi Siciliane,,, “Il Diogene,,, “L’Ateneo Siciliano,, ecc.Nelle sue prose, che rivelano tutta la superficialità della sua cultura, la fretta della compilazione e la trascuratezza, sono però una grande congerie di notizie, che sarebbero andate perdute senza l’opera di lui e che, spigolate con un saggio criterio e con acume critico, possono essere di molta utilità.Come poeta, abbiamo detto, ha scarsissimo valore e meschina è anche la traduzione che egli fece dei capolavori del Meli: la Bucolica, la Lirica, le Favole.

LE VARIANTIDELL’«EGLUGA IN LODI DI LU GATTU»

Da i Mss. inediti del Bar. Giuseppe Chiavarello e 257 Meleide - ossia corona di versi di fiori e di melodie – offerta al celebre poeta G. Meli da Palermo per il suo giorno natalizio – in casa del Gallo suo superstite amico – a 7 marzo 1764 – Palermo Barcellona 1864.

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Trigona posseduti dal Bar. Giuseppe Starrabba di Ralbiato.

Introduzione alle lodi del Gatto258 (Autografo di Stefano Melchiore)

Fazzu la chiù profunna riverenza all’eruditi cumpagni Galanti ed a tutta sta nobili udienza,Di poi ntennu prigari a tutti quanti Pri un silenziu perfettu e rigurusu, diversamenti nun si passa avanti,E si qualchi suggettu suspittusu pritenni fari di li ragazzati,Cioè si cce quarcunu murritusuO si castiga cu quattru parmati,O se quarcunu di li scarfavanchi Avi un cavaddu a causi calati;Nn’avemu fattu li capiddi vranchi pri dari gustu a tutta st’unioni e vi assicuru affé, ca semu stanchi,Silenziu dunca, e summ’attenzioni Sintiriti lu canta d’un suggettu dignu di tutta venerazioniLu tema e bellu, nobili, e perfettu Senza palori, equivoci, ed osceni,e mi lusingu, chi darrà dilettu;Prima di tutti si sarria di beni,Giacchi mi sentn lassu, friddu e moddu chi ricurrissi a Cliu, ed a Melpomeni,Tu chiù di tutti riscaldami Apoddu.Ti pregu chi scinnissi adaxu, adaxu,

258 Ho trascritto integralmente mantenendo l’ortografia e la punteggiatura.

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■tì

o ti precipitassi a rumpicoddu,Mprestami lu to mantu, e sia d’abbraxu,Si nun riscaldi tu la fantasia, la mia musa si mori di ndixaxu,E vui cumpagni di la lega mia,Vui chi aviti chiù prontu ciriveddu,Aiutatimi vui pri curtisia.Via Via Caru baruni Ciavareddu,Vui Caru Meli, e Caru Bonajutu,Ntra stu mentri chi passa lu cappeddu,Armati tutti lu vostru liutu,Facitivi a canusciri cui siti.S’un vuliti vistiti di villutu,E mentri chi a cantari favuritiVaiu accurdannu lu miu calaciuni Pri tutti all’armunia essiri uniti,M’attrovu rallintatu lu burduni,tiru, mettu sputazza a la cavigghia,Pirchì ‘ha tant’anni ch’è misu all’agnuni,Vi pregu a nun vi fari maravighia Si sintiriti quarchi dissunanza quann’un strumentu è vecchiu è na canighia

ripigliano li compagni e dimandando qualsia il soggetto, dico così259

Cumpagni lu saggettu è eccellentissimu, e chinu di gran pregi e nobiltà, lu sintiriti, è maravighiusissimu,La nascita, li gusti, e qualità…chi v’aiu a diri, su cosa magnifica, è di bon gustu un vi dispiacirà,

259 Queste parole e le altre corrispondenti sono nel testo in calligrafia più minuta.

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e di cui capu a pedi lu significa, l’uncia, lu tira, fa la scorcia, e sana e di chiù, lu purifica, e matrificae si l’abilità Stefaniana,ntra qualchi scelta à stata di bongustu, oggi la vidiriti antesignanae l’obblighi l’aviti a chistu fustuPri tali scelta, ed avi a chi ci pensu Di li trent’ottu di lugliu, o d’agustu.eccu apriti l’oricchi, chi accumensu,...Ma prima vegna un poco d’acqua rosa, quantu mi sguazzu la vucca cca mensu,

Siegue l’interrogaz.e per sapere con impazienza il soggetto, e dico.

Viju chi tutti siti impazienti,e pr’un fari chi nescia aucunu mattu eccu chi vi la spiegu cca prisenti;Lu gran suggettu è supra di lu gattu, e tutti quattru un’avemu a mpignari acciocchì ognunu resti sodisfattu,L’imprisa è forti, e tantu avemu a fari, addivintannu quattru Ciceruni fina a li stiddi l’avemu a purtari;Anima e cori, via Caru Baruni curaggiu Bonajuti ed ardimentu e tu Meli fa cori di liuni

qui si dipartiscono li meriti del gatto a tutti e quattro, e quando tocca a me così dico,

Ora a mia tocca pighiari l’imprisi di spiegari la sua etimologia La musica, e li pregi a veli stisiVi spieghirò la Gatteologia

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e li soi gran virtuti naturali,Pirchì lu restu un apparteni a mia,Dipinciu lu suggettu tali quali; senza inorpellu ed adulazioni supra di stu Illustrissimu animali;In primis hà na variazioniSupra la peddi di vaghi culuri digna di tutta l’ammirazioni,ntra lu muunu un c’è dama, mi c’e signuri chi o pri nguantuni, ò fodari nun fannu à stu nobili gattu un granni onuriLa Muscovia, la Prussia, e lu Normannu, L’Albania, la Morea cu la Soria chisti lu nomu sò pighiatu l’annudalli culuri di la gattaria;Muscovia, quannu lu gattu è Muscatu, e di lu biancu vinni l’AlbaniaLa Morea, da lu nigru, e giuijttatu,La Soria da lu gattu surianu, e tanti regni chi m’aju scurdatu;Lu so caminu poi quantu è bugianu Leggiu, pulitu, cu passi insensibili, e comu avi li pedi, avi li manu,l’ugna soi in chi su armati, in chi invisibili, chisti sunnu lu donu chiù mirabili,donu di la natura incomprensibili,In chi su dintra puliti e trattabili,In chi viditi spuntari ntr’un trattu, tanti spuntuni, spati, spiti, e sciabuli,Fannu fodaru, e spata eodem attu, e si po diri, ch’è na qualità di li chiù signalati di lu gattu.Poi la sua cuda quanti moti fà,

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la ioca spissu comu na bannera cu pulizia cu grazia e agilitàFa un cumplimentu di certa manera chi quannu cu la manu l’àllisciati, la spinci comu ntinna di galeraChiù lu viditi cu tanta onestati ‘ntempu chi fa l’amuri st’animali chi va fujennu li cammari e strati,La sua virgogna, e lu russuri e tali, chi pr’un essiri vistu da li genti, va fa l’amuri supra li canali,Chista sorti di amuri, è chiù eminenti, l’omu lu fa a lu quartu inferiuri, lu Gattu supra di l’appartamenti;Ogni Papa; ogni Re, ogn’Imperaturi Ogni nobili, riccu, ogni plebeu, lu tennu a li soi casi tutti l’uri;e quannu st’armaluzzu fa meu meu Tuttu è signu di amuri e fedeltà, e ntenni diri a tutti beni meu;Annu l’ucchiuzzi soi na qualità chi parinu a lu scuru comu focu, cosa chi sbalurdisci in verità,S’ingannau na criata e nun vi iocu, chi parennuci luci, ci accustau c’un surfareddù all’occhiu a fari focuIn summa la natura lu dotau d’ogni virtuti, meritu e talentu e dui stiddi ntra l’occhi ci lassau,e siti digni di ringraziamentudicennuci a na donna occhi di gatta, e ci faciti un granni complimentu;e puru à sti paisi si baratta,

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chi si si vinni un gattu, si abbannia, Vali un carrinu cui si l’arriscattaS’incontru unu di chisti pri la via, Prima lu fazzu attaccari pr’un cornu, e poi l’ammazzu ntra la vicariaIamu a lu nostru; di novu ritornu a lodari st’armali eccellentissimu Pirchì è dignu di lodi notti, e jornue chiddu ch’aiu lodatu, è pochissimu rispettu a chiddu duci, a chiddu caru cautu sò nzuccaratu, e suavissimu;specialmenti a lu misi di jnnaru quannu supra li letti iu un istanti a setti, ad ottu cantanu di paru,dd’armunia mparadisa a tutti quanti ed a facci scuperta pozzu diri, autru chi Raffi ed autru chi MazzantiMusica eccelsa chi Vi fa rapiri Comu si fossi un nobili duettu, chi duci duci v’invita a durmiri,e quannu a coru cantanu a quartettu cui di contraltu, tenuri, o sopranu, all’ura si ch’apporta un gran dilettu.Cui dormi si risvighia a manu, a manu, e l’arma affaccia di tanti pirtusa Pri sintiri ddu cantu supraumanu,O chi cuncertu, oh chi armunia famusa unu chi attentu ddi passaggi ascuta Comu pighiassi pri li chiappi a Susa;La Gatta in elani fa na nisciuta,Lu masculo chi passa in effaut e cu la cuda ci fa la battuta,Cui canta in chiavi di Gesolreut,

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Cui trilla, e strilla supra l’elafà O bemi in chiavi di cesosfautCui fa sol, cui fa do, cui remi fa e ddi passaggi su tenti tesori, chi sentiri li po sua MaistàOgni ascultanti nni spiticchia, e mori e mentri è tuttu ntentu a stu concertu sicc’apri cu dui idita lu cori,Vi pozzu assicurari certu certuchi canta megghiu assai di Egizieddu na sdiserrama atta cu un cunsertu,E Virgiliu fu mattu puvireddu,cha un fi ci nuddu muttu ntra l’eneidi, supra di un cantu si suavi e beddu,Si di don Ciucciu vinni la Cicceidi aviria ancora duvutu stampari supra lu gattu fari la Gatteidi,duveva ancora a litri d’oru e chiari di tali pregi scrìvirinni Oviddìu e ntra li metamorfosi notari, ed ogni autori ha fattu un granai ecciddiu nun parrannu a favuri di stu Cignu e furmarinni un picciulu enchiriddiu,basta.... a st’armali cu tuttu lu ‘mpignu aiu ludatu pri quantu ho pututu riposu un pocu.... a vui cullega dignu.

doppo dette le lodi dei compagni chiudo così

Sonettoestrassimu li lodi di st’armalisignuri mei di parti oltramuntana e nni li ministramu tali quali

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spiegati in poesia siciliana,Accetteriti ntra stu carnovaliun partu chi nasciu senza mammana, e si ntra lu viddicu nun c’è sali,Supplisci tutta la prudezza umana,e vidennunni Apollu virdi e giarniPietusu a tutti quattru ittau un sgricciu di la sua Musa pri disimpegnarmi,e si qualchi satiricu schimicciutaghiari a nui vurrà fardi di carni ci damu un privileggiu di Don Cicciu

Canzone

Già di lu gattu nà ntisu ogni Pirsuna li preggi, e la virtùti supraumana quali l’annu spiegatu ad una sti Musi in Poesia siciliana; o ci ha praciutu, e siaci dia ad ognuna una lodi discreta, e non baggiana; s’un ci ha praciutu, ed iu ntra sta canzuna cci dugnu lu Cunsigghiu di Terrana.

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PRIMA STESURA DELLAPARTE DEL BAR. CHIAVARELLO

(Autografo)

Firmati Amica mia, [troppu Arruganza260. Silenziu? Scarfavanchi? dui palmati?Cavaddi? terra? e chista ch’è crianza?Criditi forsi chi cci su....Genti chi fari vogghianu li critici Picciotti, Pitulanti e sfacindati?CCa su tutti prudenti e sù puliticisannu quantu cci voli a fari un versu pirchì di puisia.... sunnu stitici;…, pigghiati ogni cosa a lu riversu; ma quand’aviti nzirragghiu lu griddu Ittati à modu vostru la sparataUnni và va la varca dici chiddu:Poi lu fini qual’è di stà scappata? lu nvitari à cantari à tri pirsunich’ognunu d’iddi campa à la jurnata?Pocu pruvisti di versi e canzuni chi stamu tutti cu lu scancia e mancia ne avemu robba misa à munzidduni?chi jamu pri limosina à la Gancia chi semu tutti d’una vuluntati

260 Il ms. è corroso in molti punti. I puntini indicano le lacune, le parentesi quadre le integrazioni che si presentavano più evidenti.

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e nenti l’unu di l’autri si scancia;Ma sapiti la mia difficultatiunni consisti ch’avemu a cantari nta pirsuni di tanta Autoritati.Cca Amicu si bisogna distillari tuttu lu sucu [di] li nostri musi si puru qualchi cosa si pò fari;Cca nun si tratta di cosi jucusi L

tutti sunnu filosofi accimati e d’erudizzioni su famusiCcà vuliti cantari? la [sga]rrati:nun cci accunsentu [pri] la parti mia forsi chi vulemu essiri frustati?ccà oce lu gustu e la galantaria .Cca vannu pedi pedi li criterij261 e tutti mastri su di PuisiaCca si tratta di cosi astrusi e serij cc’e la Signura Sibilla Dumana ca dumanna procardici materijè priculusa assai sta Cristianaultra chi cca cci su granni argumenti tutti proposti in lingua italiana:sopra della raggion sufficiente; se quel comando del Gran Giosuè fermò la terra, o il Sole in occidente;Se i santi magi furon [tre] Re se quella fu menzogn[a] d’Esaù; di che legno fu l’arca di NoèD’Adamo ed Eva il pri[mo] amor qual fù. se aveva Corrola il [pozzo] di Rebecca262,

261 Var: «ccà sunnu amanti di giusti criterij»262 È da notare che nelle edizioni dell’«Egluga» invece di «Corrola» si legge «Cirolla», che scritta con lettera maiuscola fa pensare ad un nome proprio e non ha senso. Ciò evidentemente è un errore di lettura del ms., invece «Cor-rola» «Currula» «Carrucola» esiste in siciliano, e il senso diviene chiaro.

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ò qualch’autra dumanda a frustustù.Poi chi circati la lecca, e la mecca sapiti cui à sti cosi po rispnnniri? cui di suverchiu Asinitati pecca;Nui prima nni vulemu [iri] a funnirie poi cantari ntra stu locu: Amicu troppu vui nni pigghiati crapi a tunniri... chiaru chiaru vi lu dicu senza circari tanti capitinii à cantari cca dintra nun m’intricudi già m’aju tiratu li mei linji aju lu calaxiuni scurdatizzu chinu tuttu di muffa e di filinijCussi risolva e nesciu di stu lizzu iu ntra stu locu a cantari mi mettu? e chi su foddi? quantu junciu, e appizzu?Livannu lu su Meli miu dilettuchi sempri avi accurdatu lu strumentu vuliss’iddu cantari di fausettu.Iu pri la parti mia nun mi la sentu ca su di Puisia la vera trigghia E fazzu qualchi cosa cu gran stentu.In sostanza via famula sta cosa263 vurria sapiri com’avi a finiri e vidennu sta cocula unni posaDiciti presto zoccu aviti a diri iti spiegandu lu nostru concettu senza tanti episodi e raggiriVia prupuniti prestu lu suggettu

263 Questa parte, che avrebbe dovuto essere la seconda delle spettanti al C. è una bozza, con cancellature e ripetizioni e scritta in diversi momenti, con differente inchiostro e calligafia. Non si trova nello stesso volume della prima parte.

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S’iddu e prestu masinnò e mancu mali quantu sta mentri almenu m’arrisettuma avvirtiti chi semu a Carnovali criju sarrà riddiculu e Cinicu sacciu ch’à vui nun vi nni manca salie vui fra tantu nni tiniti in friscu; ma perdonati la mia impertinenza si dugnu tirdinari e micci mbiscu.già nni viditi tutti misi a lenzae chi aspettamu cu la vucca aperta lu suggettu cu tanta impazienzaDunca cari cumpagni stati all’erta chi già sta pri sparari lu cannuni ma ancora nun sapemu a cui va nzertaVaia tu Mircioni me patrunifaciti a manu a manu stu propostu dicitinni zocch’è... diascacciuni.

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OTTAVE DEL BARONE CHIARAVELLOIN LODE DEL MELI

(Dai Mss. inediti del Chiaravello, posseduti dal Bar. Starrabba.)

Quannu sentu lu duci to’ cantarie l’alti voli di tua fantasia.Vurria cu versi ancora a tia lodari Currispunnenti e la tua milodia Ma si tant’autu nun pozzu arrivari Giuvanni, chissu nun è culpa mia Però ti dicu: chi ti poi chiamariPindaru in voli e Tassu in poesiaCu Summa Gloria la Grecia decanti Sofocli, e Omeru cu li versi sai e lu latinu pri so’ onuri avanti Virgiliu e Ovidiu purtassi di poi Petrarca, Italia e li versi di Danti Ariostu, Torquatu e tanti eroi Sulu Giuvanni onuri doppu (illeggibile)

tu la Sicilia cu li versi toiEspremiri nun si po’ lu to cantari si rifirissi tuttu l’Emisferiu ne ce poeta chi pozza avantari Cridimi certu pirchi parlu seriu

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A po’ lu stissu s’avirria a scantari264 cu tuttu chi sunassi lu salteriu Si tantu duci, chi sa incatinariCantammo tiri a tutti lu to’ imperiuA lu to latu nuddu cci po’ stari e nuddu ardisci fari puesia Mancu si fussi Orfeu purria cantari cu la sua bedda lira l’armunia Giuvanni sulu tu’ ti fai lodari quannu canti cu tutta ligiadria Dunca è di giustu, e ti vogghiu avantari ca duni onuri a la patria mia

264 Var: «nun purria stari».

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OTTAVE INEDITEDI

GIUSEPPE CHIARAVELLO E TRIGONA(Dai Mss. inediti del Bar. G. Chiaravello posseduti dal Bar. Giuseppe Starrabba di Ralbiato)

Giacchì Signuri mei tutti spacciati265 crianza, e civiltà tantu chi siti ò (sic) lutti ò quasi sfranzisati e di franzisaria vi nni sintiti; Iu cù sti versi mei mali sbarrati vugghiu pruvari cu casi seguiti chi tutti siti pocu accrianzati e chi di Galateu nun nni sapiti:Giust’è chi doppu lu già fattu pranzu la nuda virità nescia ccà menzu giachì à pariri d’Angilu Custanzu veritas est in vino, si cci penzu; farria ad Apollu veniri lu lanzu S’iu vulissi adulari, e dari incenzu

265 Sono ottave abbozzate, cancellate e rifatte in molti punti. Ma non è affatto corretta l’ortografia, la grammatica la punteggiatura, come del resto in tutte le altre produzioni di questo rimatore, di cui questa può dare esempio per tutte. Ho copiato fedelmente.

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addunca mi nni vegnu manzu manzu e già da lu cchù picciulu accumenzu.Tu cù quali crianza ò Meli Amicu mi lassasti aggiuntati intra ddu locu? quandu comu Avvocato lu cchiù nicu ti duvia l’arma arribuffari ddocu;Fu pri ballari; lu sacciu lu ntricu, passasti dda nuttata in spassa e jocu; cù cui ballasti poi si ti lu dicu ti farrai russu: ma parrumu pocu;Facisti qualchi trenta minuè ma tutti cù na gran felicità: ti sbiasti li gammi a tinghitè e quanto trippiasti non si sà tu chi sempri l’ai fcisu lu tuppè e pari un milurdottu in virità,Dimmi si civiltati in tia ci nnè si fu crianza lassarinni dda?Già t’aju ditta pirchi ci lassasti prima chi tirminassimu la giunta.Meli bomprudi a tutti nni burlasti ballavi comu un cavaddu di munta; ti dicu tuttu saccio tantu basti si l’Amicu un lu sapi à cui la cunta? ai fattu bonu ca ti lasciasti cui tasta almenu li labbra si l’untaNon è ben fatto signura Marchisa266

d’avirvi pigghiatu lu Judeu, ca mi teni scrittura bedda stisa mi pari contra di lu Galateu la cosa nun ammetti chiù difisa

266 Questa ottava è rifatta, in certi punti è addirittura illeggibile. Sotto le cancellature si legge invece di «non è ben fattu», «contra lu frati.»

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la carta canta chiaru e la liggividopu…….. livarivi ogni imprisa. ......................Tolomeu267

Chistu n’è modu su Lisi Terrana mancari di palora à tanti Amici lassannu sula la sira a la strana la Signura Marchisa Regalmici ma un dubitari chi nun e Babbana si disimpignirà comu si dici cci appizzi zertu li pila e la lana avennu ad idda e a nui pri toi nimiciOra parru cu vui su Abbati Rizzu,Davirvi jorna fa ntra stu Palazzu Cu Meli sulu abbagnatu lu pizzu vui mittistivu tutti ntra lu mazzu vulennu fari lu sautampizzu e lu pueta criticu e smargiassu, si fari contra vui canzuni appizzu tuttu frinnuli frinnuli vi fazzu;Amicu dunca n’è chista l’usanzach’avemu ntra sta cumpagnia brillanti, di fari contr’ognunu la tua stanza268 ma senza sali mordaci, e siccanti; chista mi pari na pocu crianza pigghiaritilla pri contra di tanti,In pena addunca di tanta arruganza dunanni cù la facci à tutti quantiChi pecca contra di la pulizia

267 Dal terzo verso in poi sotto le cancellature si legge:«cci appizziriti l’affannu e la spisa chistu à bon... e lu pariri meu Iu nun v’ingannu ca nun c’è cuntisa lu tistamentu e chiaru, e lu less’eu mi pirdunati chista vostra mprisa mi pari contra di lu Galateu.»

268 sotto di «fari» c’era cancellato «facisti».

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cui ntra stu jornu una porta canzuni e pirchì ogn’unu di sta Cumpagnia detti palora chìsta è la raggiuni: dunca pri chistu pri la parti mia nni fici chisti quattru a ruzzuluni.

LE COMPOSIZIONISU L’ARGOMENTO DE «LA MUSICA»

Dal Ms. 4 Qq B. 1 della Bibl. Com. di Palermo, intitolato «Poetica Varia» proveniente da S. Martino delle Scale fogg. 211-212 retro.

IChi vuol veder quantunque può natura di picciol Moscherin miri sovente Le leggi ignoti i sensi e la struttura E nieghi se ha ragion l’OnnipotenteChe a rintracciar del Cielo l’orditura Se sia Giove da se lucido e ardente Che a rintracciar di Febo la figura E donde avvien suo rutilar frequenteSu i monti i colli e su gli erbosi prati Stampò natura con ingegno e acume Segni dei suo poter nobili e graviTaccia l’empio s’arretri, e a tanto lume Apra gli occhi maligni e ottenebrati E chinando la fronte adori il nume

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II

Il Moscherin, la Mosca ed il Moscone Così turban dell’Uom la fantasia Che lo fan dare in disperazione O in una violenta frenesia.Perde chiunque la devozioneChi da quelli vien tocco o punto sia Lascia, chiunque la Colazione La Mosca a caso in quella se gli avviaSe ai Maestri o ai Lettor la Mosca viene Miseri e afflitti sian tutti perduti.E cci è d’uopo soffrir castighi e peneVuota la mosca il fonte d’Ippocrene Schizzau le mosche coi sui pie verbuti Chiunque, che valor sommo contiene

IIICoronale

La mosca tiene in moto gli oziosi La Mosca è contro dell’ostruzione Fa trovar pronti tutti i sonnacchiosiA Vespro a prima e a ogni altra funzione La mosca rende ancor molto famosi I camauri, le mirre e le CoroneQuanto i santocchi son più virtuosiSe accoppian mosche a la divozione La Mosca all’uom riforma la natura La mosca aggiunge all’uom la fantasiaLa mosca accresce e toglie la ventura La mosca desta ancor vati e che sia Perchè d’essa nessun con più premura

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Dell’uom che studia è viva compagnia

IL SONETTO DEL MONROY«PER IL GLOBO VOLANTE»

Ms. 4 Qq B. 1 fog. 354.Sonetto intercalare per il Globo Volante

Che non machina l’uom quanto figura L’arte, e la forza adopra, e la ragione Erge in atto i pensier, segna, dispone, fende il mar, gira l’orbe, il ciel misura Che non machina l’uom, quanto figura,Non qual Dedalo ne le cere indura Posticcie penne equilibrando impone, che d’Icaro al pariglio il volo espone, Globo ù l’arte insudò stupì natura, che non machina l’uom, quanto figura.Geometra non son, ma pur ragionoPondo ugual—moto —proporzion—ritegno.

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Nol cape Apollo, è di Minerva il dono, Pondo ugual—moto —proporzion— ritegno.Che globo, che inventor, che gran disegno Cozzan le sfere, il pol, di Febo il trono, Volar senz’ali sin di Giove al regno,Che globo, che inventor, che gran disegno…..

UN SONETTO SATIRICODI FRANCESCO ANTONIO CARÌ

Dal Ms. 4 Qq B. 1 della Bibl. Com. intitolato Poetica varia proveniente da San Martino delle Scale;

Sonetto contro TargianniDialogo fra Plutone e il Sudetto

T. Apri Fiuto. P. chi è là P. uom carco d’anni, P. E che cercando vai; T. A te ne vegno.P. Qual luogo brami mai entro il mio regnoT. Il Primo. P. E tu chi sei T. son io TargianniP. Nel Mondo che facesti T. odii ed inganni Fra preti seminai. P. con qual disegno.T. Di farmi Papa lor senza triregno?P. Abbattesti i Pastor T. Domai i tiranni

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P. Piacesti T. Ai dotti sol P. e al popolazzo T. Fui lor favola un dì, ma d’indi in poi, Piacque anche a lor de Preti lo strapazzo,P. Tu sei un’alma grande alma d’Eroi,Ma per te non v’è luogo. T. io scasso. P, oh... Costui vuol far da Papa anche tra noi.....

FRANCESCO PASQUALINOTraduzione ed in parte perifrasi in Poesia siciliana

di un passo delle georgiche di Virgilio (Testo e Correzioni del Meli)

Ms. 40 D 71 Bibl. Com. di Palermo fog. 3-7

TESTO1 Si qualchedunu li Alpi e li Casteddi Norichi ha visitatu fabbricati ‘N cima di ddi scuscisi munticeddi4 E di Timavu li larghi cuntrati,Avrà vidutu li regni e li sedi Di li pasturi tutti abbandunati7 ‘Ntra ddi voschi vacanti, orrenda sedi

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Insolita mutangara, e di armali Scopriri nun si po unghia di pedi10 E pirchì? Pirchì un tempu orrendu mali Pri corpu di malaria arruinau Ddi paisi, e fù cosa universali.13 ‘Ntra l’autunno lu mali caudiau,Ed armali domestici, e sarvaggi Tutti a la tunna di mmenzu livau.16 Li laghi d’acqua, li ciumi, l’ervaggi Di morbusa materia s’infittaru E la pesti crisciu maggis e maggi269. 19 Ne a la morti currevanu di paru,Chi prima si sintevanu n’arsura,Chi ad astutari nun c’era riparu.22 Si cuntraea270 lu Corpu, e poi in poca ura271 Li membri e l’ossa stissi sfracillati Si sciughea tutta in marcia la natura.25 Spissu accadiu, chi mentri a li sagrati Altari in mezzu la vittima stava Li sagri bendi a la testa appizzati,28 E mentri lu ministru auto isava La sagra scuri, la vittima fridda ‘Nterra morta da sè si stinnicchiava31 E si pri sorti qualcheduna d’idda Giustamenti a scannari s’arrivava Nun c’era poi chi farni di chidda,34 Chi la carni a lu focu un’abbruciava L’auruspici un’avea chi studiari Ca lu cuteddu appena s’allurdava;

269 Nel Ms. sopra questo verso è riportata la corr. del Meli di mano del Pasqualino:«Crisciu la pesti, e fici orrenda straggi».270 Questa parola è corretta sulla corr. del M., prima era scritto: «Si attraeva».271 Sopra si legge la corr: «e tutti allura».

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37 Appena si videva stizziariSangu, chi d’una marcia schifiusa Vinia lu pulvirazzu a tacchiari.40 Di ccà vitaddi pri dda spiaggia erbusa O’ntra li staddi, unni fenu ’un mancava Esalavanu l’arma dulurusa;43 Di ddà a li cani la raggia affirrava,E una tussi di pettu convulsiva,Li porci pri li fauci strangulava.46 Chiù lu cavaddu arditu un’annitriva,Si scurdau di li cursi, e di la guerra Ne’ appetisci chiù l’erva, e l’acqua viva;49 Chiù ’un curri pri lu chianu, o pri la serra Ma lentu, ed agghiuttutu mali pr’iddu! Spissu azzappa cu l’unghia e sbatti in terra.52 Tisu hà lu coriu, e a maniarlu ngriddu; L’oricchi a pinnuluni, e ddà272 un suduri Chi si muriri avea, era chiù friddu.55 Chist’eranu li primi, e chiù sicuri Signali di lu mali, chi ’ntra pocu Si chiù forza pighiava, e chiù viguri,58 L’occhi ci addivintavanu di focu,Si cci strincia lu ciatu, chi mannava Spissu con un lamentu afflittu; e rocu;61 Un sangu niuru a li naschi affacciava Zurra la lingua e li fianchi strinciuti Lu singghiuzzu di morti accuminzava.64 Provaru alcuni cù corna, cu muti Darci a viviri vinura putenti E parsi in primu, chi fussi saluti,67 Ma poi si viiti, ch’un giuvava, a nenti, Ch’anzi era peju, e fora di li senzi

272 Una «d» è poi cancellata.

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Nisciuti tutti cù li propi denti70 Cù una smania, e una furia, ch’un si pensi273 Celu pietà )Pietà pri nui e a barbari stu fatu!Misericordia )Lassati o Dei a nimici stu piccatu!A nimici )A barbari) sia chistu risarvatu!Dei sia chistu a nimici destinatu!Li carni si facianu lenzi lenzi.

�⃰�⃰�� �

73 Eccu chi mentri all’autru voi attaccatuLu voi sudannu l’aratu strascina Vomita sangu, e cadi stinnicchiatu.76 Va lu lavuraturi, e a terra china274 La manu, lu cumpagnu scapulannu Di lu cumpagno afflittu a la ruina.79 E si arricogghi l’aratu lassannuAppizzatu a lu sulcu, e la maisa Lascia a menza mità cu ntressu e dannu.85 Chiù ‘un detti a chiddu cunfortu, e salutiNon l’acqua stessa di l’oru chiù pura,Chi lu ciumi strascina a passi muti.82 Virdura di ddi prati frisca e stisa Voschi d’arvuli altissimi frunzuti,Unni ci è un’umbra, chi v’imparadisa88 Comu fattu ci avissiru fatturaSicci li chianchi (sic), la vista appannata,

273 Da questo verso sino a quello che precede il 73 «Li carni ecc.» il testo è stato cancellato per sostituirvi le correzioni meliane.274 Sopra v’è corretto di mano del Pasqualino: «L’araturi la manu a terra inclina.»

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La testa a pinnuluni a la chianura;91 Chi cci giuva la vita travagghiata?Tanti sirvizzi di autri a li vogghi?E tantu applausu e lodi meritata?94 Iddi poi nun si pascinu d’imbrogghi Di carni, suchi, e di cibi esquisiti,Ma d’ervi, fenu, di pampini, e fogghi;97 Nè cù vinu si passanu la siti275, Ma li fonti ci fannu pri276 biccheri,E li viviri277 soi chiù sapuriti100 Sunnu l’acqui purissimi e leggieri Di la currenti, nè cura molesta,Nè sonnu c’interrumpi lu pinzeri.103 A ddu tempu pri farisi la festa Di Giununi li voi si addisiaru,Ch’un ci n’era pri metterli di testa106 Li bufali sparaggi alliazzaru E cù chisti lu Carru di la Dia E li doni famusi si purtaru.109 Perciò cu stentu grandi, e cu fatia Cu ligna e zappi la terra smuveru, Facennu quanta megghiu si putia;112 Li simenzi coll’unghia c’infuuneru,E cù lu coddu attrattu a la muntata Li straguli, e li carri cunnuceru.

** *

115 Lu lupu chiù nun passa la nuttata Pustianuu li mandri; autri pinzeri Ci tennu l’arma oppressa, e angustiata.118 Timidi cervi e Daini leggieri

275 Correz. dovuta al Meli. Prima era scritto «ci passava la siti».276 Sopra vi è riportato «da».277 Sopra vi è riportato «vivanni».

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Si vidinu vicini di li casi ‘Nzimmulati a li bracchi, e a li livreri121 Vomit’anchi lù mari a spasi a sdasi Morti, e sfatti li pisci, e lu Derfinu Scappa, e dintra li ciumi sinni trasi.124 S’impizza ‘ntra la tana a capu chinu La vipara, ma un giuvacci pri nenti,Ca ddà dintra l’agghiunci lu destinu;127 E sicchi, ‘mpassuluti, cu li dentiSgrignati, e cu la squama arrivutata Si trovanu li Draghi, e li Sirpenti.130 Lu celu ancora, e l’aria e ‘mpistata, Nmenzu d’idda truvannusi a vulari Fannu ‘nterra l’oceddi na cascata.133 Nun giuva chiù di pasculi mutari.Di rimedi un c’è chiù cuntu, e ragiuni, Ch’in autri tempi sulianu giuvari.136 Li medici si misiru all’agnuniCassi, co un potti chiù, l’Amitaoni278

Melampu, e lu Filliridi Chiruni.139 Regna pri tuttu, e a modu so disponi Scappata da lu ‘nfernu a fari festa La orrenda furia pallida Tifoni142 Lu scantu smortu, e la schifusa pesta Si metti pri davanti, e d’ura in ura Spingi chiù in autu l’affamata testa.145 Di flebili magiti di dulura,Di piatusi, e languidi belati,Risona tutta intornu la chianura;148 E li ciumi, e li munti, e li vallati;La straggi universali già si risi,Già li staddi di morti su fuddati;

278 Sopra v’è riportato: «Cci dìciu l’armi ccà».

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151 Li corpi l’unu supra l’autru stisi Putrefatti cù orribili puzzura Appestanu d’intornu lu paisi;154 Tantu chi poi tra qualchì fossa oscura, Ch’in terra bisugnavasi cavari’Daricci risulveru sipultura157 Chi di lu coriu un c’era chi ni fari Di lu chinu ‘un puteasi fari cuntu Chi focu, ed acqua ‘un lu putea cunzari,160 Li lani di ddu coriu lordu ed untu Di marcia iddi medesimi corrosi Farinni tila279 nun turnava cuntu163 E si qualcunu arrisicari vosi E ddi robbi ‘nfittati vosi usari La propria vita a magnu rischiu esposi163 Papuli ardenti si videva isari Supra li carni e fetidu suduri Da lu corpu pri tuttu traspirari,169 Li pigghiava lu friddu cu riguri Lu corpu tuttu attrattu si sintia Ne avia tantu a aspittari, ch’in pochi uri Lu focu sagru ad ardirlu vinia.

279 Cancellato: sopra v’è scritto «panni».

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CORREZIONI AUTOGRAFE DEL MELI pag. 1 v. 18Crisciu la pesti, e fici orrenda straggi. v . 20 Ma prima

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pag. di dietro v. 1280 Si contraïa lu corpu, e tutti allura vers. 3Lu tuttu si sciugghea in marcia impura. v. 24 e 25Chi la carni a lu focu ‘un abbruciava L’auruspici ‘un avia chi studiari pag. 2 v. 4281

‘n’annitriva ‘un annitriva

vers. 13. ddà un suduri dà con un d.282 vers. 54Chi si facia di tempii in tempu friddu. v. 70 E cu furj, cu smanj, e violenzi (fora di nui, sia a barbari stu fatu Li carni etcv. 76 L’araturi la manu a terra inclina L’afflittu voi compagnu scapulannu,Chi spettaturi fu di la ruina. v. 97 Ne cu vinu si passanu la siti v. 98 Ma li fonti ci fannu da biccheri Pri li vivanni soi cari, e graditi.Pag. 6 ver. 137Ci cidiu l’armi cca l’Amitaoni dietro ver. 142Lu scantu smortu, e schifiusa pesta. v. 146Pri li ciumi, e li munti, e li vaddati vers. 160

280 Il Meli nelle prime correzioni non tenne conto della numerazione dei versi. La pag. 1 retro cominciava col verso 22.281 Nel ms. il fog. 2 comincia col v. 43.282 Il Meli intendeva dire forse terz. 13 ma sbagliò nel contare. Si allude al verso 46. Nel resto si giovò della numerazione segnata.

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Farinni panni nun turnuva cuntu v. 165La propria vita a risicu si esposi.

GIOVANI MELI NEL VERSODI FRANCESCO PASQUALINO

Ms. 4 Qq D 71 della Bibl. Com. di Palermo-Fog. 130—131 retro ott-102-112.

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Orlando Politico — Canto XIII

102

Ma diceva il padrone, questa salaquanti a quel desco, uomini illustre accolse! Or la fortuna rivoltò la scala;Morte da un lato i migliori mi tolse:Ed altri altrove or si gavazza e sciala,Che Ingradituto contro me rivolse.Ma lasciam questi funesti pensieri;Vuoi quei giardini vedere, Ulivieri?

103Di questa Corte uopo è passar le mura,E possiam con un droscio camminarvi. Rispondeva Ulivieri: non ci è premura, Tempo non mancherà di passeggiarvi.Ma giacché morte i miglior sempre fura Dal mondo, e i rei lascia a lungo restarvi, Quel vostro insigne sicilian poeta Vive? o tonò de’ giorni suoi la metà?

104

Ti chiedo ancor se dei tuoi amici è stato,Che certo son, che tu il conosca a pelo, Parli di Meli? Mel vedresti al lato Se respirasse ancor l’aure del cielo.Mai in vita sua si fu da me scostato, Assieme ci trovava il caldo e il gelo,E a quel desco in mezzo al desinare Quante volte si udì dolce cantare!

105

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Ah! perdita fù questa! Hai ragione;Disse Ulivier, ma che vi possiam fare? E questa d’un mortal la condizione.Ben: da Bianco è assai facil predicare283 Come or fatto hai gli diceva il padrone;Ma facile non è farsi impiccare.Perduto ho padre, madre, zij, amici,E che fai tu? Che morti son mi dici.

106Ulivier rispondea: Tu non sei stoico.Ed io ti voglio al mio Folco accusare,Che fra l’altre dottrine anch’è buon loìco,E della morte sa ben chiaccherare.Solo ha che sempre è su quel tono eroico, Che un letterato suol sempre pigliare;Nel resto è un uom valente, e della morte Dimostreratti, che nulla c’importe,

107A me il confesso, non mi ha persuaso.Ma lo lascio parlar per suo diletto,Ma dimmi or tu se or ti ricordi a caso Di quel poeta qualche canto eletto?Credo che a mente ti sarà rimaso Di tante cose sue qualche pozzetto?Ora che siamo soli per la strada Se mel dici faraimi cosa grata.

108Io ne so tanti il Padron replicava Che ignoti ancora sono a tutto il mondo:Ma ora solo vuò dirti un’ottava,

283 Li Bianchi è una congrega destinata ad assistere nelle ultime ore coloro che vanno ad impiccarsi (Pasqualino).

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Ch’è un elogio magnifico e giocondo La persona che iu esso egli lodava Non ti disvelo, anzi te la nascondo.La devi da te stesso indovinare,E poi la stanza mi vedrai cantare.

109Ti dico sol per non farti impazzire,Che tal persona è la più fortunata,Che suol prima d’ognun alto salire,E tatti gli altri le fan scalinata;Sicché ognuno la deve riverire,Ed ella è tutta di gioie addobbata,A indovinarla non bisogna tanto Dunque mel dici: ed io incomincio il canto.

110Ed Ulivier: Che fosse Carlomano?Che Carloman? Rispondea il padrone,E quei ripiglia: Che fusse il Soldano, Che impera in Asia dentro Babilone? Che Babilon! (Colui) ti appone invano, Ch’ella ama, tanto Cristo, che Macone, E il dirò giacchè tu nol puoi,Questa si chiama l’asino fra noi.

111Or senti la canzone, e il Paladino Ridendo un pezzo si mise a ascoltare: Guarda, dicea colui, che, in suo latino Solea sempre Meli poetare Non cercare di greco o di latino, Sempr’ei parlò sicilian volgare:Suol poi in Sicilia far l’istessi nodi La rima senza mai cangiarsi, or odi.

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112Alli animali nun ci mettu peccu Ch’è seculu in cui sunnu li chiù forti Oggi nun luci, chi stu sulu meccu E tutti l’autri su astutati, o smorti. Lassamu stari lu crastu, e lu beccu Ch’ànnu oggi d’oru li soi corna torti Signuri mei, criditi chi lu sceccu E un gran mobili all’occhi di la sorti.

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IN LODE DEL CELEBRE POETADR. DON GIOVANNI MELI

Ottave Siciliane composteda Federico Lancia Duca di Castel Brolo

di lui infimo scolare1798

Ms. 4 Qq D 5 Bibl. Com. di Palermo(cc. 2-7 retro).

1

Liggennu e riligennu li CanzuniDi ddu Poeta insigni, e tantu granni,Chi tali addivintau pri fatasciuni284 Prima ch’iddu cunchiu (sic.) diciott’anni;Di Meli iu dicu, ehi ad Orfeu ed Anfiuni285 A sunari la Lira duna affanni;Pinsavi allura faricci un carignu.Ma in versi, e fussi d’accittarlu dignu286.

2

E dubitannu di la mia entitàDebuli e di sapiri scarsulidda, Specialmenti ‘ntra287 chista vecchia età In cui la vina sbenta e s’arrifridda; Dicia ‘ntra di me stissu: Ora cu sà

284 Si allude a quanto Egli cantò nella sua Fata Galanti (Lancia).285 Questo verso e il seguente sono nel ms. contrassegnati da una crocetta, cui rispondono nella pagina a fianco i seguenti versi di mano del Meli:

Di Meli Orfeu dicanu, ed Anfiuni Minn’aju ‘ntisu jiri canni canni.

286 Anche questo verso è contrassegnato da Meli ed è così rifatto:In versi, ma chi fussi d’iddu degnu:

287 Contrass. c. s. e corretto con «in».

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Si ancora resta in mia chiù ‘na faidda Di lu focu poeticu ch’accenni La fantasia, e vivaci ni la renni?Sicché arrisorsi a chista vogghia mia Durmiricci di supra: e mi sunnai,Chi già arrivatu in Celu, ddà vulia, Ch’Apollu m’ajutassi in tali guai.Chi riscaldassi la mia fantasia,E l’Estru miu cu li so caldi rai;Pri nun fari, chi Meli a sta cantata Un Cavaddu mi dassi, o ‘na Parmata.

4

Truvai lu Celu apertu e’ mpazienti Per prigari ad Apollu trasu avanti,E ddà Santi Amurini. e Servienti Iu vitti di ddi Dei leti e fistanti,Ad unu dimandai modestamenti:Chisti cu su? Rispusimi, o ‘gnuranti. Chisti su li Patruni nostri Dei,Chi fannu diri miserere mei.

5

Ncugnu a lu primu Diu, chi mi ntuppau, Cridennulu Esculapiu; e mi spia:Cui si? Iu cci rispusi, un Tatamau,Un recipe poeticu vurria.Iu Baccu, dissi, su chi generau288 Giovi tra la sua Coscia; la Burnia289

288 «chi generau» è corretto in margine dal M. mi «scuvau».289 «tra» corr. c. s. «da».

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Sgarrasti; cerca ad Apollu divinu290

Ju fari ti purria testa di vinu.

6

Sintennu chistu, passu a lu secunnu,E ci dissi prigannu: O numi beddu,Pri la bitt’Arma si di vostru Nunnu Via faciti poeta un mischineddu. Mercuriu sugnu, dissi, ch’a lu Munnu Su lu Diu di li Latri; e lu Dueddu Di li Sirpenti spartu; si Assasinu D’essiri brami; ti cci fazzu finu.

7

Rifutatu da chistu, trovu appressu ‘Na Signura vistuta a la Ninfali;Pietusa la prigavi, e genuflessa,Comu prigavi all’autri tali quali,Rispusi: Comu accosti a lu miu sessu?Diana sugnu, o pezzu di Minnali,Cu la caccia mi sbiu tutti l’uri;Si vuoi, ti fazzu un bonu Cacciaturi,

8

Appressu poi’ ncuntravi un Carvunaru,Lu quali un’anca rutta, e torta avia.Signori, cci dissi in cu lu cucchiaru.Facitimi dutturi in Poesia.Ma mi rispusi: O miu figghiuzzu caru,

290 «cerca ad Apollu divinu» corr. c. s. «Apollu sapi stu latinu».

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Vulcanu su, e Firraru è l’arti mia;Si Vommari, ed Arati tu vuoi fari, Iu ti cci ‘nsignu, e Fulmini macari.

9

A nautru, chi un Tridenti aveva in manu Passu a prigari, e cci dicu: Signuri,La mia prighera nun sia sparsa invanu,Facitimi poeta tra dui uri.Ma mi rispusi: Iu sugnu, o tabbaranu, Nettunu di lu Mari lu retturi:Ti purrìa fari un Pilotu valenti Per Eulu domari, e l’autri venti.

10

Caminu appressu, e vitti’ na Signura Chiù bedda di Diana, e un pocu autera Pri lu stissu fauri cu premura Iu la prigavi pri menz’ura intera.Stizzata dissi: O locca Criatura:La Poesia nun è pri la mia sfera,Veneri sugnu la Dia di l’Amanti,Si voi qualchi Picciotta, fatti avanti,

11

Finalmenti arrivavi unn’era Apoddu,Cha l’osservavi cu lu Suli ‘ntestaCci dissi: O Diu, cca vinni a rumpicoddu, Fammi cantari cu’ na vuci lesta.Rispusi: Tu si debuli, e si moddu.E la tua vuci è troppu rauca, e mesta:

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Tu mai hai passatu tra la Poesia291: Comu ti vinni, di’, chista Fuddia?

12

È veru; ma sta grazia m’ai di fari,(Cci rispunnivi misu in ginucchiuni) Iu la chitarra la sacciu accurdari, Quantunqui sia allintatu lu burduni,Poeta fammi sulu pri cantariDi Meli in lodi dui boni Canzuni;Ed a chistu mi dissi risolenti:«Si, chi ti sia cuncessu; sta cuntenti.

13

«Arrispigghiati, e portati in Parnassu «Di li Musi a la nobili brigata.«Acchiana in Ippocreni passu passu,«E biviti di dd’acqua ‘na panzata,«Accussì tu puoi fari lu smargiassu«Tra li Poeti, e sarrà decantata «La tua virtuti tra la Poesia,«E di la tua Citarra l’armunia»

14

Allura allippu; e di chidd’acqua un nicchiu Mi vippi, e d’un ‘gran Puzzu in Elicona,E già mi sugnu misu in cacaticchiu,Cha su Poeta di ‘nninghilinnona.

291 Questo verso è così rifatto dal Meli «D’unni mai ti chiuppiu sta fantasìa».

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Lu miu Cantu ora un’è cchiù com’un picchiu292, Ma293 la mia vuci armonica risona.E divintatu Cauturi perfettu,Ora si fazzu a Meli lu Sonettu.

Sonettu

Stuffi li Musi di stari in Parnassu,Vulianu fari ‘na villiggiaturaPer un misi in Citati, e cu premura Ieru unni Giovi, e ficiru un fracassuQuannu ‘ntisi la causa di stu chiassuLu summu Diu, si misi in positura;E dissi: Basta, ch’Apoddu abbia cura Di accumpagnarvi, jiri vi ci lassu.Unni però vuliti pusintari?Rinnitimi ora prima persuasu,S’e a locu bonu; vi cci fazzu stari‘Ncasa di Meli, dissiru, ch’a casuMittennusi ‘iddu cu centu a cantari Cci misi a tutti sputazza a lu nasu.«Vi binidicu, e vasu,«Rispusi Giovi vaiti addirittura«A starivi cu Meli a la bonura.«Allegra e ben sicura «Ognuna di vuautri ddà pò stari«E truviriti Pasta da scanari;«Cioè di verseggiari«Cu Meli a coru, di cui Apoddu ha dittu, «Chi, com’iddu, in Palermu nuddu ha scrittu,

292 «un’è cchiù, com’un picchiu» rifatta dal Meli: «è Cantu e nun è picchiu».

293 «Ma» corr. c. s. «E».

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«Sia tuttu binidittu,«Chi lu talentu, quali ci aju datu «Cu lu studiu so l’à cultivatu.«Pri Medicu ammagnatu,«E pri Poeta granni, e valintuni «E’ stimatu da tutti cu ragiuni»Accussì Giovi Ammuni A li Musi soi Fighi (sic) in seriu dissi;Ed in sinceru cu sti versi scrissi.

Dunca a stu Medicu,A stu Poeta Figghiu di Pindaru Cu vuci leta Cantamu laudi Di ccà, e di ddà.Ma a chisti Cantici Ci sia cumpagna Saluti stabili Ricchizza magna,E sempri prospera FelicitàOretu giubila,Và canni canni Pri li gran meriti Di lu so Vanni;Onuri e gloria D’iddu si fàE la SiciliaIn bianca Petra So nomu celebri Scrivi, ed all’Etra L’alza, e in memoria Sempri l’avrà

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Lu tempu rapidu.Chi tuttu strudi Li Regni e Imperi Cu denti crudi;Un pilu lediri Nun ci putràLa magra Invidia Tutta si muzzica, A maldicenzia Li genti stuzzica, Ma sempri encomj Meli avirrà.

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PER LA RICUPERATA SALUTEDA GRAVE INFERMITÀ

DEL DR. DON GIOVANNI MELICelebre Poeta, e valente Medico

Scrisse in volgar SicilianoFEDERICO LANCIA

DUCA DI CASTEL BROLOIn attestato

Di ossequio, e Congratulazione1799

Ms. 4 Q.q D 5 Bibl. Com. di Palermo cc.8-2.

Sunettu

Aveva già ammulatu lu cuteddu La ria Parca lu filu pri tagghiari Di la vita di Meli; ed un maceddu, luvidiusa, d’iddu vulia fari.Ma in figura d’un Giuvini assai beddu Cursi in difisa lu so tutelari Geniu, e dissi: Ferma; un Puvireddu «Pirchì ‘mmaturamenti vuoi ammazzari?«Lu Piru è virdi; nun è fattu ancora,«Ogghiu cci nn’è un Cafisu a la sua lampa; «Parti, che Giovi nun voli chi mora.Atropu, chi faceva prima carti,Di sdegnu a stu cummannu tutta avvampa, Meli amminazza, urla tri voti, e parti.

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E poi sullicita Lu passu movi Pri jiri a sentiri Da lu Diu Giovi;Si avvissi l’ordini Iddu emanatu,Chi da lu Geniu Cci fu purtatu;E Giovi replica Lu so cumannu Di Meli viviri Centu, ed un’annuFilici, e vegetu Senza amarizza,In statu prosperuE in cuntintizza.In giustu premiu Di sua virtuti:E pri li fervidi Prigheri avuti.A sta notiziaJunta in Parnassu,Li Musi, e Apollini Ficiru un chiassuDi soni armonici,E di Sonetti,D’inni, Capituli,E d’arietti;Rinnennu grazijA l’adoratu Giovi, cha viviri Avia accurdatuA lu so amabili

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Figghiu dilettu,Di la Poetica Mastru perfettu;Di la Peonica Arti saputo,Chi d’Esculapiu L’avia apprinnutuIu cu sti debuli Versetti mei Divotu supplicu Li giusti Dei,La fatta Grazia Di confirmari D’un annu, e un seculu Meli campari.D’iddu pri apprenniri L’arti canora,Chi un aju (aj miseru?) ‘Mparatu ancora,Pr’aviri un validu Miu Mecenati;Pr’a Longu godiri La sua Amistati.Santa Amicizia,Virtù sublimi,Cui po spiegariti In Prosa, e in Rimi.Tu abbatti, e allevi Di li Mortali Li peni, angustii,Ed ogni mali.Cun iddu ligami Cu nodu forti

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Sin’a lu spaziu Di la mia morti.

CONCLUSIONE DI LU COMPONIMENTO

Di sti ridiculiMei versi smeusi Senza l’Intinguli Gustusi, e Zuccaru, Composti grevii,E ab hoc, ab hac,Ora facitìnni‘Na luminaria;O puru Purvuli Dintra ammugghiaticci, E poi sparatili Pri trich—trach.

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FEDERICO LANCIADUCA DI CASTEL BROLOper una sua grave infermità

si licenzia dalle Muse.Dai Ms. inediti del Bar. Giuseppe Chiaravello posseduti dal Bar. G. Starrabba

Sonetto

Addio Febo, Pieridi, e ParnasoVati canori un tempo amici, addio;Nel mio petto senil l’Estro è rimaso Di vigor scevro, e d’all’Aonio brio.D’anni e morbi son carco; e il bel Pegàso Più non m’innalza d’Ippocrene al Rio:Già de’ miei giorni il sol giunto è all’occaso; Volto a più degni oggetti è il pensier mio.Sol bramo all’alma dar pace e riposo.(Sciolta che sia dal suo corporeo velo)Nel seno del divin suo dolce sposo.Speme dice: L’avrai, ma dice il zeloPiangi i tuoi scorsi falli, e in cella ascoso, Sii morto al mondo, e vivo sei pel Cielo.

A tal’annunzio Del zelo fervido M’investe l’animo Il duolo acerrimo

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E tutto struggere mi sento il corLe nere immagini Dalle nequissime Mie scelleragini Lava per odio Il mio dolorMondo ingannevole Dalle mie languide Pupille involati;Solo all’Empireo Il guardo or umile Voglio vibrar.Nume adorabile L’ale di rapida Colomba apprestami;E l’alma misera Fa per tua grazia al ciel volar.

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GLI ENDECASILLABI CATULLIANIDI ANONIMO IN LODE DEL MELI

Ms. 4 Qp. D. 5 Bibl. Coni, di Palermo co. 32-33II più nobile de’ Poeti stranieri

Al maggiore de’ NostriIn segno di stima

ec. ec.Cui dono lepidum novum libellum

Arida modo pumice expolitum? Aureli tibi……. Catul. I.

Al S.r A. D.n G. M.i

Rondeau

Del vate celtico cui do il libretto?A te lo dono, Poeta Amabile,Che l’ugual genio racchiudi in petto.Quel fa degli Esteri Vati l’onore;Tu il fai dei nostri. Dolci e sensibili Con ugual grazia toccate il core.Con soavissima, dolce magiaA gara entrambi sapete infondere Pura delizia nell’alma mia.Pittori amabili della Natura

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I suoi bei tratti da Voi s’esprimono Con mano energica, fedele, e pura.Sul Morven patrio cols’ei gli allori;Del patrio Oreto sul verde margine Te a gara adornano Ninfe e Pastori.Per lui l’Eroiche paterne imprese,Per te l’Ibero eroe fantastico Non meno celebre fra noi si rese.Quando alla tenera gentil Malvina Colui gli antichi fatti rammemora,Su dolce, armonica, cetra divina;Si bel sa pingere l’ardor guerriero,Che al paragone vinti s’arretrano Confusi e taciti gli Eroi d’Omero,Tal, se il tuo genio vive scintille Getta per Nice, d’invidia struggesi Corinna, Lesbia, Licori, e Fille.Or se a Voi debbesi l’uguale onore,S’entrambi teneri, dolci e sensibili Con pari grazia toccate il core;Del Vate Celtico l’aureo libretto A te si debbe, Poeta amabile,Che l’ugual genio racchiudi in petto.

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LETTERA DI MADDALENA DE MAYERNA G. MELI

Ms. 4 Qq D 5 Bibl. CoM. di Palermo c. 30.

Monsieur,Pensant ces jours passes que le jour de votre fête s’approchait, j’eus un vif désir de vous faire un bouquet; pour le cueillir, je voulus entrer dans quelque bosquet du sacré Vallon; j’étais avec un ami, qui y est en pays de connoissanee, il eût la bonté de croire qu’il lui seroit aisé de m’introduire; mais voyez la disgrâce! par hazard les muses y étoient rassemblées, des que elles nous virent, elles vinrent très poliment à notre rencontre, mais cette politesse était pour cet ami, pour moi dés qu’elles m’eurent apperçue, elles me chassèrent, impito-yablement, je n’en pu captiver aucune, plus je les priois et plus elles me repoussoient; notre ami resta avec elles; j’avois vu qu’il etoit touché de ma peine, il revint un moment après, accompagné d’une divinité champêtre qui avoit tous les attributs qu’on donne à la Vérité! il me dit: J’admire comme vous le charmant Meli! j’aurois voulu lui faire un bouquet digne de lui, mais les Muses m’ont dit: que cela ne m’étois pas permis: ie n’ai pu cueillir que cette fleur, c’est bien peu de chose, mais je n’ai voulu vous laisser dans la chagrin. Il dit et disparu!Je vous envoyé cette fleur avec mes voeux les plus

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sincères pour votre bonheur, puissent tous vos jours, filés d’or et de soye durer autant que tous les sentiment, qui a pour vous eella qui a l’honneur d’étre

MonsieurVotre très humble et très

obéissante servantele 23 Juin 1811

M. DE MAYERN

GIOVANNI ALCOZERSestini chi serveru pri offerta tra l’accademia fatta

in lodi di li poeti di lu seculu (XVIII).Ma, Qq H 282 Bibl. Com. di Palermo G. Alcozer— Poesie varie V.

Offertaa l’Abati D.n Giovanni Meli294

Nmenzu tanti poeti di criteriuDigni di lodi summi e applausi eterni, Ch’in un linguaggiu maistusu e seriu Hannu lodatu Pan l’autri moderni Di lu seculu miu decimu ottavu,Seculu ntra li seculi cchiu bravu

294 Queste sestine furono recitate in un’accademia in lode dei poeti toscani del secolo decimottavo (Alcozer).

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Iu poeta di chiddi a quattru a mazzu. Sfacciati, chi un canuscinu piriculu,Cu lu linguaggiu miu basso e scanfazzu, Linguaggiu senza reguli295, riddiculu, Nesciu arroganti, ed a facci scuverta Incaricato di fari l’offerta296

E megghiu scelta unn putivu fariAvennu scelto a mia facci di coriu, Duvennu a qualchedunu presentari Di l’Accademia, vostra l’Offertoriu;Cui cc’era in fatti, chi megghiu di mia Stu tali impiego abbracciari putia?

Si mai fa offerta a lu so Santu ogn’annu Cunfraternita, o Cungrigazioni,A dui a dui li confrati si nni vannu Beddi puliti, ed in prucissioni;Lu tabare però cui si lu pigghiâ?Lu massaru vistutu di rubbigghia..

Vui dunca amici, siti li Confrati,Ed iu stasira passu pri Massaru:Vistuti ‘ngala, cu torci addumati Vui facistivu sfrazzu, e vi lodaru Ora vegn’iu dicitimi fratantu L’offerta a cui la fazzu? unn’è lu Santu?

Ma stamu tanticchiedda in ciriveddu,E parramu cu sennu e cu giudiziu

295 Ironicamente, perchè si accusa la lingua siciliana di non aver grammatica (Alcozer).296 Era costume di terminare le accademie con un’offerta (Alcozer).

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Lu nostru amicu D. Iacintu Agneddu297 Chi ‘ntra la poesia nun è noviziu Ammuntuan na pocu di soggetti Poeta valarusi, anzi perfetti.

A qualcunn di chisti su purria Tali quali com’e sana e sanzera Offeriri la nostra accademia Chi ‘ntra l’Accademii porta bannera,Ma unni vaju a trovari ad Algarotti,A Bettinelli, a Bondi, a Cesarotti?

Va truvati a Cuipani, ed a Fruguni,Ad Alferi, a Bertola, a Gianni, a Munti,A Savioli, a Mazza, a Pindemunti,A Galfu, ad Ugu Fosculu, a Varanu;Unni li trovu? a dda banna MilanuDi chisti alcuni min campana cchiui Paganu lu tributu a la natura,E mentri un ci su cchiù, saluti a nui Li lassu stari ‘ntra la sepultura;A li poeti cci su bonu amicu,Ma di li morti mi nni mporta un ficu.

Pri li vivi nun aju ‘ntinzioni Di farimi sta sira stu scarpinu,Mancu pri vui sarria discrizioni Mannarimi a Firenzi ed a Torinu:E poi criditi cha sugnu sumeri ‘Ntra ssi Paisi ci su Laparderi298

Ma l’offerta però chi s’avi a fari297 Var: «discurrenti beddu». 298 Guardie armate d’allabarda. Si allude ai francesi che allora occupavano quelle città (Alcozer).

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Domma è di fidi un si nni po prescinniri; Chista è na prena chi divi figghiari Quannu un si po ‘mpignari s’avi a vinniri, Dicinu poi certuni (e un hannu tortu)Cha senza offerta l’Accademia è abbortu.

Dunca comu facemu? Abati Meli St’offerta cadi a vui; pacenza aiati:Vi servi pri decotti o pri sciumeli299,Tali quali com’è vi la plgghiati:Cumpatiti la mia malacrianza,Ma l’offerta è na cosa di mpurtanza.

Pri sorti nostra, caru D. Giuvanni,E pri grazia di Diu vui siti vivu.E puzzati campari autri mill’anni, Accuminzannu d’ora mentri scrivu;Cha l’esistenza di la vostra Musa300 A tutta la Sicilia è priziusa.

Di Poeti Tuscani Italia è chinaScappau ntra l’ottucentu l’aganippi;A li poeti arrifriscau la vina,E fa versi parrannu cui nni vippi. Perciò ci su poeti, e poetuni,Cha ciumara non fu, fu alluviuni.

Ma vui ‘ntra ‘na gnunidda cca jittatu Di la Sicilia puntu matamaticu,Chi nun merita d’essiri cuntatu‘Ntra lu terrestri mappamunnu aquaticu,

299 pozione composta di mele ed aceto, buon per espettorare (Alcozer).300 Var:Però ch’un pattu, chà un vi Tegnu pi’ omu Si ogni annu almenu nun stampati un tomu.

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Vui ‘ntra la lingua nostra sulu siti,Veru poeta, ed eguali ‘un aviti301

Pri essiri comu voi tantu ci voli,Chi l’anni passirannu a milia a milia; Vui lu Sicilianu Savioli,Lu Metastasiu vui di la Sicilia;Anzi diri si po senza periculu Cha siti vui l’Anacreonti Siculi.

Sta sira ‘ntra l’Esili certu certu Ci appi ad essiri qualchi capiddata Si appiru a sciarriari a lu scuvertu Cui sa si si jucau di stoccu o spata?A li poeti di la lingua etrusca Sta sira certu ci pigghiau la musca.Tutti l’antichi ntra li campi eterni Comora sunnu tutti arraggiatizzi Vidennusi in confruntu a li moderni;Cui sa chi serra-serra, chi spirtizzi?Mi li figuru cu la facci zarca A Danti, ad Ariostu, ed a Petrarca

Vui sulu, o Meli, ‘un aviti confruntu Pirchi l’unicu siti, o senza eguali;Unni avistivu a jiri siti iuntu La vostra fama già fatta è i mmortali, Vanezianu è bonu è bonu Rau,Ma la vostra sampugna l’avauzau.

Dunea senza pinzari, e fari noliti,

301 Var: «e nautru comu vui non l’avirriti».

Page 204: Web viewIl servigio reso al governo gli frutta la nomina di Maestro Razionale detto di Cappa e Spada del Tribunale del Patrimonio “carica nobile e di confidenza: e la quale esigeva

Li lodi mei nun vogghiu estrarregnari Giacché l’offerti sunnu cesi soliti A un paisanu miu la vogghiu fari Accittatila senza taliari Li manu, chi la vennu a presentari.

Coronaliin occasione di un pranzu datu

da lu Sig. Conti Castelli a la GinuisaDal Ms. Qq. H. 217

Miscellaneo di cose sicilianeXIX Poesie varie sicilianee italiane di diversi autori

Mbriachi dotti cantati cu mia Si puru aviti testa di cantari: e si Apollu vi smovi, e stuzzichia Cchiù ntisa a Baccu nun duviti dari.

Pri lu mancu faciti comu mia Chi lu vinu lu vaju a timpirari

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A lu Castaliu fonti, e cu energia Farriti canti armuniusi, e rari.

Lu tema è di piaciri ed è battutu Nni fu lu Conti amabili l’Oturi Da cui nni sarà spissu ripitutu

Cantati dunque cu alligria, e cu amuri E dati cu l’armonicu liutu Lodi a lu Conti comu protetturi

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Cui pò nigari, chà Meli, è lu Gnuri!Si ci dunanu tutti lu primatu.Iddu a Sicilia à fattu granni onuri,E com’iddu un ci nnè, ne ci n’ha statu

Si Anacreonti fù lu primu auturi D’un cantu, accussì duci, e dilicatu; Meli ancora Lu siculu canturi Pari di avirlu in parti superatu.

L’Egloghi soi, l’Idilij, li soi canti,Sparsi di una melodica armunia La vera ambrosia sù, sù tutti incanti.

O quantu; a stu propusitu dirria.Ma suli li me forzi un sù bastanti. Mbriachi dotti, cantati cu mia.