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GIOVANNI VERGA (Catania, 1840 - 1922) La vita Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia benestante di proprietari terrieri. Giovanissimo scrive due romanzi storici, Amore e Patria (1857) e I carbonari della montagna (1861-1862). Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma ben presto decide di interrompere gli studi per dedicarsi completamente alla letteratura. Al tempo dell’impresa di Garibaldi in Sicilia, si impegna nella lotta antiborbonica; presta servizio nella Guardia Nazionale e si dedica al giornalismo patriottico. Nel 1863 pubblica il terzo romanzo, Sulle lagune. Insofferente del provincialismo e dell’arretratezza culturale della Sicilia, il Verga matura intanto la decisione di allontanarsi dall’isola e soggiorna a Firenze, dove conosce Luigi Capuana, poi si recherà a Roma e a Milano, la città che gli appare all’avanguardia nella vita letteraria e artistica. Qui partecipa attivamente a dibattiti letterari, teatrali e musicali. Fanno parte di questo periodo i romanzi tardoromantici Una peccatrice (1866), Storia di una capinera (1871), Eva (1873), Tigre reale e Eros (1875), dai toni fortemente melodrammatici, in cui l’amore e la passione travolgono e conducono alla malattia e alla morte, ma che ottengono grande successo di pubblico. Nel frattempo scrive anche un “bozzetto siciliano”, Nedda, che costituisce un significativo esempio del suo progressivo distacco dai modelli tardoromantici e della ricerca di nuove forme narrative. (La protagonista, Nedda, è una raccoglitrice di olive che, dopo la morte della madre, si innamora del pastore Janu, ammalato di malaria. Questi, un giorno, cade da un albero e muore. Nedda, rimasta sola e incinta, e spregiata dal paese, dà alla luce una bambina, ma non può fare altro che assistere impotente alla morte per stenti della sua creatura.) Intanto si interessa sempre più alla narrativa francese, in particolare a Flaubert e a Zola; solo nel 1876, però, attratto dalle idee sostenute dall’amico Capuana che sta ormai mettendo a punto il suo programma letterario, entra in contatto diretto con il Naturalismo. Progetta un ciclo di romanzi. Nel 1880 esce la raccolta di novelle Vita dei campi; l’anno seguente, pubblica I Malavoglia, il primo romanzo del “ciclo”, che però suscita uno scarso interesse di pubblico e viene accolto con perplessità dalla critica. Negli anni successivi, lavora alle raccolte Novelle rusticane (1883) e Per le vie, e al Mastro don Gesualdo (il secondo romanzo del ciclo). Dal 1893 in poi i soggiorni a Milano sono sempre più rari. Alla città lombarda preferisce Catania e Roma. Verga tenta anche esperimenti teatrali, scrivendo alcuni drammi, tra i quali Cavalleria rusticana (1884), La Lupa (1896). Nel 1907 comincia La duchessa di Leyra (il terzo del “ciclo”), che però interrompe dopo il primo capitolo; l’opera non sarà mai conclusa. Negli ultimi anni, lo scrittore vive sempre più appartato e solitario. Nel 1920, il suo ottantesimo compleanno viene celebrato con la nomina di senatore del Regno. Muore nel 1922, nella sua città. Il Pensiero Verga ebbe della vita una visione tragica e dolorosa, non illuminata da alcuna fede o fiducia. Benché accetti molti aspetti della mentalità positivistica, come la vocazione per il dato reale e l’idea di una società regolata dalla lotta per l’esistenza, non ne condivide l’atteggiamento fiducioso verso il progresso, la fede nella scienza, la volontà riformistica, il socialismo umanitario. Egli non denuncia le condizioni di vita delle plebi meridionali per fare politica sociale, ma solo per rappresentare una condizione umana che egli concepisce in modo sempre più cupo e pessimistico, fino al punto di non riuscire nemmeno più a scrivere e a concludere la sua opera, chiuso com’è in posizioni di conservatorismo. Verga non nega il progresso, ma afferma che gronda lacrime, sangue e pene infinite. Certamente l’umanità progredisce, ma il singolo soffre, è condannato all’infelicità e al dolore e, soprattutto, a non poter mai migliorare la condizione di vita in cui il Fato, il Destino, lo ha posto, pena l’andare incontro a sofferenze ancora maggiori. Appunti di italiano - Classe 5^ - A cura della Prof. ssa Anna Schettino 1

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Page 1: Giovanni Verga

GIOVANNI VERGA (Catania, 1840 - 1922)

La vita Giovanni Verga nasce a Catania nel 1840, da una famiglia benestante di proprietari terrieri. Giovanissimo scrive due romanzi storici, Amore e Patria (1857) e I carbonari della montagna (1861-1862). Si iscrive alla facoltà di giurisprudenza, ma ben presto decide di interrompere gli studi per dedicarsi completamente alla letteratura.Al tempo dell’impresa di Garibaldi in Sicilia, si impegna nella lotta antiborbonica; presta servizio nella Guardia Nazionale e si dedica al giornalismo patriottico. Nel 1863 pubblica il terzo romanzo, Sulle lagune.Insofferente del provincialismo e dell’arretratezza culturale della Sicilia, il Verga matura intanto la decisione di allontanarsi dall’isola e soggiorna a Firenze, dove conosce Luigi Capuana, poi si recherà a Roma e a Milano, la città che gli appare all’avanguardia nella vita letteraria e artistica. Qui partecipa attivamente a dibattiti letterari, teatrali e musicali. Fanno parte di questo periodo i romanzi tardoromantici Una peccatrice (1866), Storia di una capinera (1871), Eva (1873), Tigre reale e Eros (1875), dai toni fortemente melodrammatici, in cui l’amore e la passione travolgono e conducono alla malattia e alla morte, ma che ottengono grande successo di pubblico. Nel frattempo scrive anche un “bozzetto siciliano”, Nedda, che costituisce un significativo esempio del suo progressivo distacco dai modelli tardoromantici e della ricerca di nuove forme narrative. (La protagonista, Nedda, è una raccoglitrice di olive che, dopo la morte della madre, si innamora del pastore Janu, ammalato di malaria. Questi, un giorno, cade da un albero e muore. Nedda, rimasta sola e incinta, e spregiata dal paese, dà alla luce una bambina, ma non può fare altro che assistere impotente alla morte per stenti della sua creatura.)Intanto si interessa sempre più alla narrativa francese, in particolare a Flaubert e a Zola; solo nel 1876, però, attratto dalle idee sostenute dall’amico Capuana che sta ormai mettendo a punto il suo programma letterario, entra in contatto diretto con il Naturalismo. Progetta un ciclo di romanzi. Nel 1880 esce la raccolta di novelle Vita dei campi; l’anno seguente, pubblica I Malavoglia, il primo romanzo del “ciclo”, che però suscita uno scarso interesse di pubblico e viene accolto con perplessità dalla critica. Negli anni successivi, lavora alle raccolte Novelle rusticane (1883) e Per le vie, e al Mastro don Gesualdo (il secondo romanzo del ciclo). Dal 1893 in poi i soggiorni a Milano sono sempre più rari. Alla città lombarda preferisce Catania e Roma.Verga tenta anche esperimenti teatrali, scrivendo alcuni drammi, tra i quali Cavalleria rusticana (1884), La Lupa (1896). Nel 1907 comincia La duchessa di Leyra (il terzo del “ciclo”), che però interrompe dopo il primo capitolo; l’opera non sarà mai conclusa. Negli ultimi anni, lo scrittore vive sempre più appartato e solitario. Nel 1920, il suo ottantesimo compleanno viene celebrato con la nomina di senatore del Regno. Muore nel 1922, nella sua città.

Il PensieroVerga ebbe della vita una visione tragica e dolorosa, non illuminata da alcuna fede o fiducia. Benché accetti molti aspetti della mentalità positivistica, come la vocazione per il dato reale e l’idea di una società regolata dalla lotta per l’esistenza, non ne condivide l’atteggiamento fiducioso verso il progresso, la fede nella scienza, la volontà riformistica, il socialismo umanitario.Egli non denuncia le condizioni di vita delle plebi meridionali per fare politica sociale, ma solo per rappresentare una condizione umana che egli concepisce in modo sempre più cupo e pessimistico, fino al punto di non riuscire nemmeno più a scrivere e a concludere la sua opera, chiuso com’è in posizioni di conservatorismo.Verga non nega il progresso, ma afferma che gronda lacrime, sangue e pene infinite. Certamente l’umanità progredisce, ma il singolo soffre, è condannato all’infelicità e al dolore e, soprattutto, a non poter mai migliorare la condizione di vita in cui il Fato, il Destino, lo ha posto, pena l’andare incontro a sofferenze ancora maggiori.

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Gli uomini, quindi, sono tutti vinti nelle loro lotte, nelle loro ambizioni. Nei loro confronti Verga assume un atteggiamento misto di pietà e ammirazione, pietà per le loro sventure ed ammirazione per la loro virile rassegnazione. In particolare, delle classi sociali più povere e derelitte, del mondo contadino e dei pescatori, ammira e rispetta la sopravvivenza di alcuni valori, che egli ritiene superiori: il senso della famiglia e della casa, intese come centro di affetti e solidarietà; la dedizione al lavoro; l’onore e la dignità; la fedeltà alla parola data; lo spirito di sacrificio; l’amore pudico e sottinteso. Nella concezione verghiana del mondo non entra la speranza: la solidarietà umana, l’affetto, persino l’amore si sviluppano e sopravvivono solo nel chiuso ambito del gruppo familiare. Chiunque tenti di uscirne, di cambiare, è destinato alla sconfitta perché “tradisce” le leggi della natura.

Le OpereDopo la composizione della Nedda, il Verga concepì il grande progetto di un ciclo di cinque romanzi, di cui però scrisse interamente solo il primo e il secondo. La stesura dei due romanzi è preceduta e accompagnata dalle raccolte di novelle Vita dei campi e Novelle rusticane.Vita dei campi contiene otto racconti (Fantasticheria, Jeli il pastore, Rosso Malpelo, Cavalleria rusticana, La Lupa, L’amante di Gramigna, Guerra di santi, Pentolaccia)

Il racconto più importante di Vita dei campi è il primo, Fantasticheria. Esso infatti costituisce il manifesto programmatico dell’intera raccolta; nel contempo presenta in sintesi l’argomento dei Malavoglia, il primo romanzo del ciclo dei vinti, con chiare allusioni alla vicenda, ai personaggi e al loro destino, dando inoltre precise indicazioni sulle scelte di stile e sull’ideologia verghiane.

In Fantasticheria Verga sostiene che i pescatori e i contadini siciliani vivono una dura realtà perché non possono vivere diversamente: la loro è una necessità, pari a quella che costringe l’ostrica a vivere abbarbicata al suo scoglio, perché una volta staccata dal coltello del pescatore, muore. In questo “ideale dell’ostrica” si delinea un’intera filosofia di vita, improntata ad un disperato pessimismo, che il Verga approfondirà nei suoi romanzi. Come l’ostrica, che muore se strappata dal suo habitat naturale, anche l’uomo che tenta di uscire dal suo guscio e di modificare la sua esistenza è destinato alla sconfitta.

Altra novella fondamentale di Vita dei campi è L’amante di Gramigna, nella cui prefazione, Verga avverte che i suoi racconti sono tutti ispirati al vero, quasi documenti “umani”, studi condotti “con scrupolo scientifico” sulla realtà di una regione e dei suoi abitanti. Essi si imperniano su personaggi del mondo contadino, sulla loro vita e le loro azioni, registrate con l’occhio apparentemente obiettivo di un artista che ha scelto di “eclissarsi e sparire nella sua opera immortale”. Di fatto, tuttavia, i personaggi sono colti in una prospettiva particolare: molti sono degli asociali, degli emarginati, o, in ogni caso, dei “diversi”, che la comunità tiene a distanza o demonizza. Tra queste figure di derelitti spiccano per potenza descrittiva e per profondità di indagine psicologica Rosso Malpelo, e la straordinaria Lupa. Il Verga immerge i suoi protagonisti in un’atmosfera di cupo pessimismo, che ne sottolinea le condizioni di costante miseria, di vana lotta per la vita, di inutile speranza di riscatto. In alcune novelle cominciano ad emergere anche temi che saranno ampiamente sviluppati in seguito, come quello della “roba”.

Le Novelle rusticane escono nel 1883. La raccolta comprende dodici novelle, nelle quali vengono sviluppati motivi che segnano un ulteriore passo avanti nel pessimismo dello scrittore. Il tema dominante è il mito dell’arricchimento economico, rappresentato non tanto dal denaro quanto dal possesso, dalla “roba”, al quale tutto viene subordinato.Il racconto forse più celebre della raccolta è proprio La roba, che prelude direttamente al motivo conduttore del Mastro don Gesualdo, secondo romanzo del ciclo dei vinti. Il protagonista, dopo aver accumulato con intelligenza, tenacia e sacrificio un’immensa fortuna, ne diventa talmente

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schiavo che, in punto di morte, la cosa che più lo angoscia è di non potersi portare dietro tutta la sua “roba”.

La raccolta Per le vie è costituita da dodici novelle ambientate quasi tutte a Milano, e costituiscono un’ideale contrapposizione e, contemporaneamente, un completamento di Vita dei campi, poiché hanno per tema e per sfondo la caotica vita cittadina. Uno degli argomenti ricorrenti della raccolta è la vita della classe operaia, con particolare rilievo per le condizioni di forte emarginazione sociale nelle quali vengono a trovarsi gli immigrati meridionali e i disoccupati.

Con il ciclo, che egli stesso definì “della marea” e poi “dei vinti”, Verga si proponeva di studiare l’uomo attraverso l’analisi di vari strati sociali, secondo i canoni dell’impersonalità sostenuti dal Verismo. È un gruppo di 5 romanzi (sull’esempio del ciclo di E. Zola), con i quali Verga voleva rappresentare l’eterna e inevitabile sconfitta dell’uomo dai gradini più bassi della società (ceto popolare), dove si lotta per i beni materiali necessari alla sopravvivenza, per la “roba” (ne I Malavoglia), ai gradini più alti: nella nascente classe borghese, dove si lotta per avidità di ricchezza (Mastro don Gesualdo); nel mondo della nobiltà, dove si lotta per vanità aristocratica (ne La duchessa di Leyra); nel mondo della politica, dove si lotta per ambizione (ne L’onorevole Scipioni); nel mondo dell’arte, dove si lotta per il successo e la fama (ne L’uomo di lusso). Lo scrittore, tuttavia, ha composto solo i primi due romanzi e abbozzato il terzo, secondo alcuni per l’inaridirsi della vena artistica, secondo altri per l’incupirsi del suo pessimismo di fronte ai tempi.

I MalavogliaLa vicenda del romanzo abbraccia un periodo compreso tra il dicembre del 1863 e il 1878 circa.

La famiglia Toscano, pescatori del paesello di Aci Trezza, da lungo tempo soprannominati i Malavoglia, vive nella “casa del nespolo” ed è composta dal vecchio patriarca padron ’Ntoni, da suo figlio Bastianazzo sposato con Maruzza, detta “la Longa”, e dai cinque nipoti, ’Ntoni, Luca, Mena, Lia, Alessi. La chiamata di leva per il giovane ’Ntoni è il primo colpo per i Malavoglia, quello che determina il dramma successivo. Infatti padron ’Ntoni, per guadagnare qualcosa mentre il nipote è assente, decide di comprare una partita di lupini che suo figlio Bastianazzo dovrà andare a vendere. L’affare si rivela un tragico, fatale errore. La barca dei Malavoglia, la “Provvidenza”, su cui Bastianazzo trasporta il carico, fa naufragio: Bastianazzo muore, i lupini vanno perduti. Ma la serie delle disgrazie non si ferma qui: la casa dev’essere venduta per pagare i debiti; Luca, partito soldato per sostituire il fratello ’Ntoni (com’era consentito dalle leggi dell’epoca), muore nella battaglia navale di Lissa. ’Ntoni, tornato in paese, comincia a frequentare cattive compagnie, e finisce in galera per contrabbando; scontata la pena, lascia per sempre il paese. Lia, sulla quale corrono voci malevole, fugge e diventa prostituta in città. Anche Maruzza e il nonno muoiono, l’una di colera, l’altro provato dai colpi della “malasorte”. Svanito il fidanzamento con Brasi, imposto dal nonno, Mena rinuncia di sua volontà a sposare il carrettiere Alfio Mosca, del quale è teneramente innamorata: vivrà insieme ad Alessi e a sua moglie Nunziata, curando i nipotini, quando il fratello, impegnatosi con tutte le sue forze per rispettare il volere del nonno, sarà riuscito a riscattare la “casa del nespolo”.

È osservazione comune e condivisa dalla maggior parte della critica che il vero protagonista dei Malavoglia sia il villaggio di Aci Trezza, all’interno del quale inizia e si svolge il dramma della famiglia Toscano. A conferma di questo, sta il fatto che Verga non si sofferma a descrivere i particolari fisici dei protagonisti, ma fa sì che la loro fisionomia si precisi sempre meglio nel corso della vicenda, in virtù delle azioni che compiono e delle parole che pronunciano. Tuttavia, spiccano due personaggi, che, non casualmente, portano lo stesso nome: il vecchio padron ’Ntoni e il maggiore dei suoi nipoti, ’Ntoni. Nonno e nipote, infatti, occupano un posto centrale nella dinamica dei Malavoglia, e sono quasi l’uno lo specchio dell’altro, poiché ognuno di loro rappresenta uno dei cardini della visione verghiana, cardini che sono al tempo stesso in contrasto fra loro ed espressioni di una medesima amara concezione del mondo. Padron ’Ntoni è il simbolo dei valori ancestrali, fondati sulla tradizione, di quella “religione della casa e della famiglia” che rappresenta uno dei punti di riferimento nodali del romanzo e per tutto il romanzo sostiene e difende con testardo seppur vano coraggio la necessità che ognuno si

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accontenti del proprio stato sociale, senza cercare di cambiarlo e neppure, quasi, di migliorarlo, mettendo in tal modo a rischio le piccole sicurezze di una esistenza povera ma onesta. Dal canto suo ’Ntoni, il “bighellone”, incarna la ricerca del nuovo e del diverso, che, sempre secondo l’ideologia verghiana, è implicita nello scorrere inarrestabile della “fiumana del progresso”, una ricerca che in lui si traduce in una costante irrequietezza, in un’esigenza confusa ma sofferta di cambiamento. Per padron ’Ntoni e per ’Ntoni la legge è la stessa, e non cambia: l’unica differenza fra loro è che il primo la accetta, il secondo la rifiuta.Entro il mondo chiuso del paese si svolge la lotta per la sopravvivenza. A tal proposito, Verga accetta le premesse del darwinismo quando afferma che la selezione naturale permette solo ai migliori di sopravvivere e di perpetuare la specie. Ma secondo le teorie darwiniane il migliore è l’individuo fisicamente più forte, mentre nella concezione verghiana le qualità del migliore dipendono dalle sue capacità di integrazione totale; colui che non accetta le regole della comunità, il trasgressore, è il più debole. Nella sua concezione del vivere, Verga giudica colpevole chiunque desideri cambiare e migliorare le proprie condizioni. I Malavoglia, che cercano di elevare il proprio stato economico e sociale, vengono travolti dal loro tentativo; la salvezza è consentita ad Alessi e a Nunziata, che, tenacemente fedeli alla sacralità della casa, della famiglia e del lavoro, impegnano tutte le loro forze per riscattare la “casa del nespolo”. È un’ideologia rinunciataria, imperniata sull’immobilismo e sull’accettazione passiva del proprio ruolo. Verga, come si è detto, non prende queste posizioni direttamente, ma le fa emergere dalla mentalità che caratterizza il mondo che sta descrivendo, o ne affida l’esposizione ad alcuni personaggi. Fin dalle prime pagine, colui che meglio riassume e riflette le opinioni dell’autore è il vecchio padron ’Ntoni, dal quale proviene l’enunciazione dell’“ideale dell’ostrica” che concentra in sé il culto della famiglia. La famiglia è, infatti, il nucleo in cui l’individuo si forma e all’interno del quale entra a far parte della comunità e della cultura collettiva, basata sull’insegnamento e sulla conservazione dei valori trasmessi dagli antichi; nella famiglia il singolo impara a lavorare, acquisendo quella capacità produttiva indispensabile per la sopravvivenza; la famiglia, infine, rappresenta la sicurezza degli affetti, la protezione e il rifugio dalle insidie del mondo esterno, il quale è una “fiumana” che trascina e travolge, nella tragica corsa verso un progresso indifferente alle sorti dei più deboli.

Mastro don GesualdoIl protagonista del romanzo è Gesualdo Motta, un muratore che è riuscito, grazie al lavoro frenetico, a diventare appaltatore e proprietario di terre. Forte della sua ricchezza economica, intende servirsene per una rivalsa sociale sposando la nobile Bianca Trao, che la famiglia decaduta gli concede per motivi d’interesse e soprattutto perché la giovane donna, sedotta da un cugino, non può più aspirare ad un matrimonio adeguato al suo rango. Per questo Gesualdo lascia l’umile e fedele contadina Diodata che gli ha dato due figli. Il dramma del protagonista si consuma, come per i Malavoglia, nel momento in cui egli tenta di uscire dal proprio mondo, e va fatalmente incontro al fallimento. Disprezzato dai parenti della moglie, dai quali lo separa il profondo divario sociale, Gesualdo non riuscirà neppure a guadagnarsi l’affetto della figlia Isabella (nata in realtà dalla relazione di Bianca con il cugino Ninì), che si vergogna persino del nome del padre. Dopo la morte di Bianca, malata di tisi, e dopo aver maritato in fretta la figlia con l’attempato duca di Leyra per rimediare ad una fuga d’amore di lei con il cugino Corrado, Gesualdo si ammala di cancro. Sconfitto e solo, muore nel grande palazzo del genero, nella completa indifferenza dei servitori, lontano dalla sua terra e dai suoi simili, gli unici che avrebbero potuto capirlo, mentre la figlia e il genero dissipano il patrimonio tanto faticosamente messo insieme, quella “roba” nella quale Mastro don Gesualdo aveva riposto tutte le sue speranze di rivincita sociale.

L’amore ossessivo per la “roba”, l’interesse, l’inevitabile sacrificio della parte più autentica di se stessi al mito del danaro e della scalata sociale sono i motivi dominanti del romanzo, dal quale esce quasi naturalmente l’immagine di un mondo ormai alienato, oppresso e travolto dai meccanismi dell’accumulazione capitalistica, vittima di falsi valori e idoli, che vengono amaramente pagati con il tributo della solitudine, dell’incomprensione e del disprezzo altrui.

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Si accentua nell’autore la volontà di denunciare e demistificare la brutalità della corsa verso la ricchezza, e da questo derivano elementi di durezza, quasi di cattiveria verso i personaggi, che mancavano nei Malavoglia.Nel Mastro don Gesualdo il pessimismo del Verga si fa più cupo e inesorabile: nei Malavoglia ci sono ancora una possibilità di sopravvivenza e un approdo per chi rimane fedele alle leggi ancestrali della casa e del lavoro, come dimostra Alessi che lotta fino in fondo per riscattare la “casa del nespolo”; nel Mastro don Gesualdo resta solo una cruda analisi dei meccanismi dell’arricchimento: il cambiamento è soltanto apparente e il progresso è un’illusione che produce vittime, mentre il tentativo di cambiare e migliorare il proprio stato si sconta con la rinuncia completa alla propria identità. Non sono mutate le cause che spingevano i Malavoglia all’azione, né sono diverse le conseguenze; ma è cambiato il “meccanismo delle passioni”, che nel primo romanzo appare quasi istintivo, mentre qui è complicato da sovrastrutture sociali e culturali inesistenti nel semplice mondo di Aci Trezza

Le Tecniche NarrativeLe tecniche narrative di Verga sono l’applicazione fedele dei canoni del Verismo: - Il criterio basilare adottato è la cosiddetta “eclissi dell’autore”. L’autore non si identifica né con

il narratore né con i personaggi, ed è autonomo rispetto alla vicenda. Egli non interviene in nessun modo a integrare i fatti con riferimenti storici, o con motivazioni psicologiche o, infine, con valutazioni morali.

- Il narratore non fa l’analisi psicologica dei personaggi, non anticipa e non commenta l’azione e solo rarissimamente mostra, con i suoi interventi, di essere a conoscenza di quanto sta per accadere. Il narratore si mimetizza dietro i personaggi in modo tale che la trama sembri snodarsi senza alcun intervento esterno, sembri, per usare le parole stesse del Verga, “essersi fatta da sé”, e diventi quasi una cronaca oggettiva priva di manipolazioni. L’effetto è reso possibile attraverso la tecnica di alternare il discorso diretto, cioè il monologo o il dialogo, con il discorso indiretto libero, che consiste nell’eliminare le didascalie introduttive e nel volgere il discorso diretto alla terza persona.

- Un altro espediente del Verga è quello della “regressione. Egli sceglie di allineare il suo punto di vista e la lingua al punto di vista e all’espressività dei suoi personaggi. Il narratore, quindi, si mimetizza anche sul piano linguistico, poiché parla la stessa lingua ed usa la medesima sintassi dei suoi popolani: la struttura sintattica e il lessico, pur rimanendo all’interno dell’italiano, assumono cadenze e voci proprie del dialetto, un “colorito” siciliano. Questa scelta comprende il ricorso a immagini e similitudini del siciliano, l’impiego dei soprannomi in dialetto, l’uso costante di proverbi e di sentenze cioè espressioni appartenenti al patrimonio della saggezza popolare.

- Nel Mastro don Gesualdo c’è invece un narratore popolare che esprime il punto di vista del paese. Questa voce narrante esterna spesso ritrae i personaggi principali in modo ironico e li deforma fino a renderli grotteschi e – come la critica ha notato più volte – dà loro quasi una dimensione animalesca. Per rispettare il canone verista dell’impersonalità, Verga non può lasciarsi andare ad un intervento diretto in prima persona, per cui introduce una voce narrante che, diversamente da quanto fa nei Malavoglia, esprime il punto di vista, le reazioni e i giudizi dell’autore. L’intervento non è scoperto, ma emerge dall’abile accostamento delle battute, da variazioni del registro linguistico o dal contrasto dei comportamenti.

- Una terza scelta narrativa è il monologo interiore, che affida alla voce del protagonista l’espressione di sensazioni, pensieri, ricordi, in un libero fluire e associarsi delle idee.

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