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Il Vero, il Bene, il Giusto: qualche annotazione su ragion pratica e filosofia politica
Roberto Gatti
1. Ha scritto Leo Strauss che “tutte le azioni politiche sono […] guidate da una qualche
idea del meglio e del peggio” e quindi dall’ ”idea del ‘buono’”. La domanda specificamente
filosofica rivolta alla politica emerge nel momento in cui “gli uomini fanno dell’acquistare
conoscenza della vita buona e della buona società il loro esplicito scopo”. Così concepita la
filosofia politica non è altro che un’inseparabile parte della filosofia nel suo complesso,
indicando il termine filosofia “il modo di trattazione” e il termine politica “l’oggetto”1. Poiché
è proprio dell’ ”essenza” degli affari politici “non essere neutrali, bensì pretendere il rispetto,
l’obbedienza, la decisione o il giudizio degli uomini”, la filosofia politica risponde
all’intrascendibile interrogativo circa la conformità del vivere politico ai “canoni di bontà o di
giustizia”. Per questo il suo obiettivo qualificante è, ad un tempo, la chiarificazione della
“natura delle cose politiche” e l’indagine intorno al “buon ordine politico”2. L’intento che la
caratterizza consiste nel render ragione di ogni affermazione concernente la “valutazione
dei fatti politici” e la “presa di posizione nei confronti dei valori politici”3.
Nella misura in cui questo sforzo di motivare razionalmente i contenuti delle
argomentazioni cessa, la filosofia politica subisce una radicale riduzione di significato o
viene tout court negata nella sua essenza qualificante, ancorché se ne conservi il nome.
Se specifico della filosofia politica è l’intento di sollevare le questioni sulla natura, sui
fini, sui fondamenti della vita politica, ne risulta che quella che la caratterizza è una
prospettiva apertamente prescrittiva e tendenzialmente, anche se non assolutamente,
sovrastorica. Sostenere che la filosofia politica “non è una disciplina storica” significa
ammettere che “le questioni filosofiche sulla natura delle cose politiche e sul migliore o
giusto ordine politico sono fondamentalmente differenti dai problemi storici, i quali hanno
sempre a che fare con entità individuali”. Ciò implica che “la filosofia politica è
fondamentalmente differente dalla storia della stessa filosofia politica”, anche se non ne
può evidentemente fare a meno per l’adeguata impostazione dei suoi problemi. E’ infatti
evidente che la filosofia politica non può prescindere dalla storia, visto che, “senza
l’esperienza della varietà delle istituzioni e delle concezioni politiche in paesi differenti e in
diversi periodi, il problema della natura delle cose politiche e dell’ordine politico migliore o
1 L. STRAUSS, Che cos’è la filosofia politica, tr.it. a cura di P. F. Taboni, Urbino s.d., p. 34.2 Ivi, p.36. In questo primo paragrafo riprendo, sintetizzando e apportando alcune modifiche, quanto ho sostenuto in Abitare la Città. Un’introduzione alla politica, Roma 1992 (cap. I).3 D. PASINI, Dignità della politica, in Saggi di filosofia politica, Milano 1981, p. 6.
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giusto non avrebbero mai potuto essere sollevati”. Una volta sollevati, “solo il sapere
storico può far sì che non si scambino le caratteristiche specifiche della vita politica dei
propri tempi e del proprio paese con la natura delle cose politiche”4.
E’ innegabile -se si conviene, in coerenza con quanto sostenuto fin qui, che la filosofia
politica è prioritariamente “parte della filosofia”, e in modo più preciso parte della filosofia
teoretica, quella parte tesa ad approfondire il particolare ambito costituito dai problemi
inerenti la convivenza umana organizzata politicamente- che il rapporto privilegiato della
filosofia politica è con le “altre ‘parti’ della filosofia” (filosofia morale, del diritto, della storia,
della religione). Così la filosofia politica assume le altre prospettive disciplinari attinenti lo
studio della politica “entro la sistematicità complessiva del proprio modo di guardare il
mondo” e risolve “il proprio specifico problema pensandolo in coerenza con quanto essa
afferma in ordine alla conoscibilità o non-conoscibilità degli oggetti ultimi del nostro
interesse: anima e Dio, mondo e mondo storico nel loro senso unitario, libertà o necessità
del nostro agire”. Ed è in relazione a queste premesse che risalta il valore fondamentale
del riferimento costante ai “classici”, come passaggio inevitabile per la riflessione sul
“senso della nostra presenza nel mondo” e sulla natura dei “doveri e dei diritti dei nostri
simili”5.
La filosofia politica rappresenta, in tale ottica, una “teoria intelligibile dell'insieme
dell'ambito politico” e, in quanto tale, intende “istituire un senso per ogni elemento in
relazione all'insieme, riunificare mediante dei concetti, ordinare secondo dei principi,
pensare secondo un ordine di ragione, rivelare una verità”6.
Per far ciò essa procede con un metodo topico-dialettico, consistente nel confronto delle
opinioni, partendo da quelle più accreditate e notevoli (endoxa), attraverso un dialogo il cui
fine, secondo la lezione aristotelica, oggi variamente ripresa nel contesto della
“riabilitazione della filosofia pratica” contemporanea7, è di far prevalere l'opinione migliore
mediante la progressiva eliminazione di quelle che risultano insostenibili o più deboli alla
luce della discussione razionale. Si tratta di un metodo ritagliato sulla particolarità
dell'oggetto indagato, cioè l'azione umana, la quale, in quanto espressione della libertà e in
quanto inscritta nella dimensione della relativa contingenza e della mutevolezza, non si
presta ad essere esaminata con la stessa rigorosità delle scienze esatte (che nello schema
4 L. STRAUSS, Che cos’è…, cit., p.91.5 G.MARINI, La filosofia politica e la storia del pensiero politico, in AA.VV., La filosofia politica, oggi, a cura di D. Fiorot, Torino 1990, pp.30-35.6 R. POLIN, Définition et défense de la philosophie politique, in AA.VV., L'idée de philosophie politique, Paris 1965, p. 34.7 Cfr. F. VOLPI, La rinascita della filosofia pratica in Germania, in AA.VV., Filosofia pratica e scienza politica, a cura di C. Pacchiani, Abano Terme 1980, pp. 11-97; E. BERTI, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, in Le vie della ragione, Bologna 1987, pp. 55-76; AA.VV., La razionalità pratica. Modelli e problemi, a cura di E. Berti, Genova 1989.
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aristotelico sono notoriamente la fisica, la matematica e la metafisica)8. Ciò non significa
che il procedimento dialettico proprio della conoscenza delle cose pratiche, cioè applicato
all’indagine dell'azione umana in tutta la sua complessità e variabilità, sia destituito di ogni
rigore. Infatti esso si basa sul ricorso alla ragione come mezzo per determinare, mediante il
ricorso al sillogismo pratico, il grado di verosimiglianza delle varie posizioni e delle diverse
opinioni. La razionalità pratica, pur diversa da quella teoretica, non è un’espressione
“inferiore” della ragione, ma è semplicemente quella forma di razionalità che è adeguata
all’oggetto da trattare, appunto l’agire nella sua costitutiva contingenza; per cogliere tale
dimensione la razionalità teoretica, per la sua natura, sarebbe inadeguata9.
Peraltro la filosofia pratica conserva una relazione significativa con i contenuti di verità
della “filosofia prima” relativi alla determinazione delle caratteristiche costitutive essenziali
della natura umana e alla individuazione delle sue finalità, contenuti di verità che
rappresentano l'orizzonte di riferimento entro cui deve essere collocato il confronto
dialettico sulla “vita buona” e che ne garantiscono la fondatezza. Il rapporto tra etica e
metafisica, pur non essendo pensabile, platonicamente, come relazione che permetta una
sorta di deduzione rigida e meccanica della prima dalla seconda10, è comunque un nesso
che non può essere reciso, nella misura in cui la riflessione sull'agire umano non può
prescindere dalla conoscenza della physis e del telos propri dell'uomo, che la “filosofia
prima” evidenzia: “La phronesis non crea, ma scopre, l’ordinamento teleologico dell’uomo
verso il proprio fine, cioè verso il bene umano […], poiché questo ordinamento rientra nella
struttura generale della realtà, cioè nella physis, la quale in ultima analisi fa capo a Dio”.
D’altro canto “l’etica non si subordina alla metafisica, cioè non deduce da questa le sue
norme […], ma ne tiene conto per determinare più esattamente in che consiste il bene
dell’uomo”11. E’ proprio il mantenimento, entro la conversazione morale e politica, di un
orizzonte metafisico, cioè l'apertura della phronesis alla sophia, che consente una
fondazione ultima dell'etica e della politica non ancorata solo alla convenzione dialogica. 8 “Non bisogna cercare in tutti i trattati una egual precisione come neppure nelle professioni manuali. Infatti il bello e il giusto, a cui si rivolge la scienza politica, presentano tali divergenze e possibilità d'errore che sembrano esser solo in virtù della legge, non per natura [ ... ]. Ci si deve accontentare quindi che coloro che parlano di queste cose e da esse argomentano mostrino la verità in maniera sommaria e approssimativa e che quelli che parlano di cose generali e da esse argomentano ne traggano conclusioni pure generali. Allo stesso procedimento occorre che si attenga anche ciascuna delle cose che diciamo; infatti è proprio dell'uomo colto richiedere in ciascun genere di ricerca tanta esattezza, quanta ne permette la natura dell'argomento: e sarebbe lo stesso lodare un matematico perché è persuasivo e richiedere dall'oratore delle dimostrazioni” [Etica Nicomachea, in Opere, a cura di G. Giannantoni, Roma-Bari 1973, v. III, p. 445 (1, 1094 b 12-28)]. Sullo statuto della conoscenza pratica in Aristotele cfr. E. BERTI, Profilo di Aristotele, Roma 1979, pp. 239-251; ID., Le ragioni di Aristotele, Laterza, Roma-Bari 1989; C. NATALI, Aristotele e l'origine della filosofia pratica, in AA.VV., Filosofia pratica e scienza politica, cit., pp. 99-122.9 ARISTOTELE, Etica Nicomachea, VI. Cfr. E.BERTI, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, cit., pp. 69-70.10 ARISTOTELE, Etica Eudemia, VIII, 3, 1248b 7-1249b 25. Cfr. E. BERTI, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, cit., pp. 74-75.11 E.BERTI, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, cit., p.75.
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Parlare di metafisica non dovrebbe far pensare -secondo un atteggiamento ormai diventato
quasi una moda intellettuale- ad un sapere caratterizzato in senso dogmatico e chiuso, ma
anche in questo caso, data la strutturale finitezza delle possibilità conoscitive dell'uomo e
l'impossibilità di esaurire l'itinerario della ricerca della verità, ad un'attività mai
completamente e definitivamente riscattabile da un'intrinseca ed ineliminabile
problematicità12. Come osserva ancora Strauss, “la filosofia è essenzialmente non già il
possesso della verità, bensì la sua ricerca”: “Caratteristica del filosofo è il ‘sapere di non
sapere’ e il fatto che il suo intuire la nostra ignoranza delle cose più importanti lo spinge a
lottare con tutte le sue forze al fine di conoscerle”13.
2. La filosofia politica così intesa è destinata a diventare mera ideologia -o ad essere
classificata come una disciplina che si differenzia dall’ideologia solo per “una questione di
grado”14- quando si ritiene, secondo la posizione tipica inaugurata dal neo-empirismo, che,
essendo “i valori intrinseci […] privi di un fondamento razionale”, ogni proposizione che li
riguardi deve essere considerata nient’altro che l’espressione di preferenze emotive e di
scelte che riguardano “fini ultimi” impermeabili alla ragione15.
Certamente in tale caso non resta altra strada per la filosofia politica che non sia quella di
restringere il suo campo alla chiarificazione dei concetti che vengono adoperati per
“descrivere e valutare la realtà politica”, assumendo “una prospettiva eticamente neutrale”
e limitando drasticamente la portata degli interrogativi ai quali si sente abilitata a
rispondere: “non indica cosa dobbiamo fare, ma, semmai, come possiamo fare per arrivare
a prendere la decisione più opportuna rispetto ad un fine dato”. Diventa un “metodo per la
scelta razionale”, confinando la componente “normativa” alla raccomandazione di un uso
corretto a appropriato del linguaggio16.
Pur non potendo in questa sede esaminare nei particolari i percorsi della crisi cui è
andata incontro tale posizione di pensiero17, è comunque agevole far osservare che, se si 12 Cfr. E. BERTI, Crisi della razionalità e metafisica, in “Verifiche”, 9 (1980), 4, pp. 415-421; ID., Retorica, dialettica, filosofia, in Le vie della ragione, cit., pp. 86-98.13 L. STRAUSS, Che cos’è..., cit., p.35.14 V. MURA, Categorie della politica. Elementi per una teoria generale, Torino 1997, p.89.15 Ivi, p.81. 16 Ivi, pp. 84-86.17 Una sintetica analisi si veda in D. ZOLO, I difficili rapporti tra filosofia politica e scienza politica, in AA.VV., La filosofia politica, oggi, cit., pp.41-68 e Epistemologia e teoria politica, “Teoria”, 10 (1990), 1, pp.51-62. Dopo aver messo in evidenza i limiti della posizione neo-empiristica e anche del “post-empirismo”, Zolo rifiuta radicalmente, com’è noto, anche la possibilità che una risposta ai problemi originati dalle insufficienze di queste versioni dell’epistemologia attraverso, da un lato, un ripensamento di “una filosofia politica che tenti di ‘riabilitare’ e di ripercorrere le vecchie strade della metafisica platonico-aristotelica o della teologia dogmatica” e, dall’altro, attraverso “un ritorno al moralismo giusnaturalistico o al contrattualismo neo-kantiano” al quale si è convertita, a suo avviso, la cultura italiana “post-marxista” (Epistemologia e teoria politica, cit., pp.59-60). La strada da battere sarebbe quella di un post-empirismo le cui linee generali sono sommariamente tracciate in I
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assume il punto di vista sinteticamente proposto fin dalle prime righe di questo saggio,
emergono alcuni motivi di riflessione, certo non nuovi ma non per questo meno rilevanti,
soprattutto se si tiene conto del fatto che si tratta di una posizione che è ben lungi dall’aver
esaurito la sua influenza nella filosofia politica attuale (e allunga la sua ombra, come vorrei
cercare di mostrare, anche in teorie che si connotano per una dichiarata divergenza, più o
meno marcata, da essa). Sono aspetti -vale la pena di aggiungere- che non è
teoreticamente corretto nascondere, come spesso avviene, praticando una sorta di slalom
finalizzato ad aggirarli senza affrontarli. Mi soffermo solo su uno di essi.
Negare la possibilità, per la filosofia politica, di misurarsi con i “fini ultimi” e i “valori
intrinseci” equivale a una presa di posizione (filosofica, malgré soi) per uno scetticismo
segnato da una singolare aporia interna. Se non possiamo addurre ragioni a sostegno delle
nostre convinzioni morali e politiche, dobbiamo riconoscere -ciò che lo scetticismo antico e
moderno, da Pirrone a Montaigne, ha sempre fatto- non solo il loro carattere arbitrario ma
anche l’improponibilità del tentativo di stabilire un ordine e una gerarchia tra di esse 18.
Senza dimenticare che di norma lo scetticismo (e qui il passaggio che porta da Montaigne
alle forme più radicali del libertinismo francese tra ‘500 e ‘600 è fonte inesauribile, seppure
ovviamente non unica, di utili indicazioni) si lega all’idea del disimpegno del “saggio”, nella
sua “seigneuriale liberté d’esprit”19, dagli affari pubblici ed al sostanziale conformismo e
conservatorismo nei confronti delle istituzioni stabilite, motivato con la considerazione che
è impossibile individuare il giusto ordine politico. Non è casuale la diffusa inclinazione,
nutrita da una “molle indifférence”20, di pressoché tutta la cultura libertina per l’assolutismo
e l’atteggiamento tiepido, quando non esplicitamente contrario, verso i governi popolari 21:
dipende non solo dal pessimismo nei confronti della “folla”22, ma anche dalla convinzione
che, non essendo possibile rinvenire un ordine secondo giustizia, l’unico atteggiamento
proponibile è di conformarsi al regime vigente, tanto più se questo, come nel caso della
monarchia faticosamente uscita dalle guerre di religione, dimostra, se non altro, di poter
assicurare la pace e l’ordine, che sono tutto quanto il “saggio”, in ultima analisi, chiede
all’autorità politica. Lo scettico coerente è infatti un “conformista” in politica, visto che nega
possibili rapporti fra filosofia politica e scienza politica: una proposta post-empirista, “Teoria politica”, 1 (1985) 3, pp. 91-109. 18 M. DE MONTAIGNE, Essais, II, 12 (tr.it a cura di F.Garavini, Milano 19822, pp.656-657).19 P. CHARRON, Sagesse, II, 2, in Toutes les Oeuvres, Genève 1970, (rist. dell’ed. 1635), v. I, p.11.20 R. PINTARD, Le libertinage érudit dans la premiére moitiée du XVII siècle, Genève-Paris 1983 (rist. dell’ed. 1943), p.560.21 Cfr. ivi, pp.558-560. Inoltre: R. SCHNUR, Individualismo e assolutismo. Aspetti della teoria politica europea prima di Thomas Hobbes (1600-1640), tr.it. a cura di E. Castrucci, Milano 1979; R. KOSELLECK, Critica illuminista e crisi della società borghese, tr.it., Bologna 1972; A. M. BATTISTA, Alle origini del pensiero politico libertino: Montaigne e Charron, Milano 1961; A. DEL NOCE, Riforma cattolica e filosofia moderna, v.I (Cartesio), Bologna 1965; ID., La crisi libertina e la ragion di Stato, in AA.VV., Cristianesimo e ragion di Stato, Roma-Milano 1953, pp.35-47.22 M. DE MONTAIGNE, Essais, I, 23 (ed. it. cit., v.I, p. 154).
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l’esistenza di criteri normativi validi a determinare la preferibilità razionale di un regime
politico e, in generale, di un assetto della convivenza, rispetto ad altri possibili23.
In modo singolarmente antitetico rispetto a questa posizione, l’elemento centrale che
contraddistingue la “franca propensione allo scetticismo”, nella forma stilizzata in modo
estremamente netto (tanto netto che può essere presa quale punto di riferimento
emblematico) da Hans Kelsen24 e solidificatasi in quanti più o meno direttamente si rifanno
alle sue posizioni in filosofia politica (si pensi in particolare al tema della giustificazione
della democrazia), è la singolare commistione tra il riconoscimento, da un lato, che i valori
non sono che preferenze arbitrarie tra le quali sarebbe vano voler porre un ordinamento
gerarchico e, dall’altro, una tensione morale cui fa da sfondo l’adesione al “valore della
democrazia”, esibita con grande forza e insistenza. E’ da rammentare, per esempio, un
passo kelseniano: “L’ideale di libertà -come ogni ideale sociale- è dal punto di vista della
scienza politica soltanto un ideale relativo; ma, da quello della valutazione emotiva, esso
può essere il più alto, il supremo ideale di un individuo […]. Io posso lottare e morire senza
riserve per la libertà che la democrazia è capace di attuare, anche se posso ammettere che
dal punto di vista della scienza razionale il mio ideale è soltanto relativo”25.
Viene a configurarsi una situazione, certo non priva di paradossalità, in cui la fedeltà, sul
piano emotivo, ai valori veicolati dall’etica tradizionale (per esempio, i diritti umani) è
inversamente proporzionale alla mancanza di convinzione nella possibilità di poterli
fondare, giustificare, motivare per via razionale. Mentre lo scettico, come lo possiamo
pensare incarnato nelle figure tipiche di un Montaigne o di uno Charron, si contraddistingue
per la coerenza tra la sua posizione filosofica -consistente nella negazione dell’oggettività e
dell’universalità del valore- e il suo comportamento pratico -improntato a un distacco
aristocratico, non di rado velato di ironia, di fronte al multiforme e spesso caotico mondo di
quei “costumi” in cui domina “l’imperio della consuetudine”26 e che nella loro varietà
smentiscono l’esistenza di un diritto naturale-, lo scettico stilizzato da Kelsen mette in
mostra un contrasto palese tra questi due piani: non crede, in sede teoretica, nel “valore
intrinseco” (meglio sarebbe forse dire nel fondamento intrinseco del valore), ma professa,
in sede pragmatica, per esempio nei confronti dei valori della democrazia, un attaccamento
che giunge, in ipotesi, fino al sacrificio della vita.
Ha sostenuto, credo a ragione, Alasdair Mc Intyre che questo fenomeno è comprensibile
solo alla luce della tesi che la ricerca nell’ambito della filosofia morale e politica
23 A. DEL NOCE, Riforma cattolica…, cit., pp.446-447. “La ragione umana è una tintura data in ugual misura, o quasi, a tutte le nostre opinioni e usanze” (M. DE MONTAIGNE, Essais, I, 23, ed. it.cit., v. I, p. 145).24 I fondamenti della democrazia, tr.it. in La democrazia, Bologna 19845, p.216.25 Ivi, p.190.26 M. DE MONTAIGNE, Essais, I, 23, ed.it.cit., v.I, p.150).
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contemporanea avviene in una situazione in cui l’ “uso” dei termini dell’etica tradizionale si
è ormai completamente scisso dal contesto in cui questi termini avevano assunto il loro
genuino “significato”27, significato che, dopo il fallimento del progetto “moderno”, è divenuto
quanto mai enigmatico. Si perviene così a quello che è stato definito un giusnaturalismo
“d’intenzione”28 alla cui base sta il divorzio tra “coscienza morale” e “vocazione scientifica”:
la prima spinge ad abbracciare valori che la seconda si confessa incapace di motivare29.
Ma questa assenza di motivazione razionale sottrae il valore ad ogni possibilità di
fondamento in termini veritativi. Nasce da ciò quella che si può considerare una delle
caratteristiche dominanti del dibattito morale oggi, cioè il procedere per dissensi che sono
interminabili a motivo del fatto che non ci sono più “mezzi razionali per garantire l’accordo
morale”. Domina “l’incommensurabilità concettuale degli argomenti antagonisti”, nel senso
che mancano strumenti razionali per dirimere le controversie quando si risale alla
“premesse” delle diverse posizioni; da cui il tono “petulante” della discussione filosofica30.
Si può anche naturalmente non essere d’accordo con il particolare tipo di spiegazione
fornita da Mc Intyre, che è qui impossibile approfondire e discutere. Rimane pur sempre da
capire come si possano sostenere e difendere, sul piano filosofico e anche della concreta
esperienza vissuta (vedi la citazione da Kelsen sopra riportata), valori ritenuti espressione
di opzioni sostanzialmente gratuite, ai quali si conferisce lo stesso statuto dei gusti o delle
emozioni31. In realtà, se la filosofia è innanzitutto sforzo rigoroso e sistematico di render
ragione delle proprie affermazioni, la posizione in esame equivale a una messa in mora
della filosofia, che sopravviverebbe solo come analisi linguistica e metodologie delle
scienze. Che tale analisi sia importante è innegabile, che possa riassorbire in sé l’intero
campo della filosofia politica è affermazione ovviamente molto meno accettabile.
3. La parte che precede, sulla filosofia politica come “analisi concettuale”, potrebbe
sembrare fin troppo prolissa, non solo a motivo del fatto che le difficoltà di questa posizione
di pensiero sono state ormai più e più volte evidenziate con solide motivazioni, ma anche
27 Dopo la virtù. Saggio di teoria morale, tr.it., Milano 1988, p.89.28 V. POSSENTI, Difficoltà della filosofia pubblica (Riflessioni sul pensiero di Norberto Bobbio), “Filosofia”, 27 (1989), 3, p.161.29 “L’opposizione tra giusnaturalismo e positivismo giuridico ha luogo […] dentro ciascuno di noi, tra la nostra vocazione scientifica e la nostra coscienza morale, tra la nostra professione di scienziati e la nostra missione di uomini” (N. BOBBIO, Giusnaturalismo e positivsmo giuridico, Milano 1984, p.12). Per una critica a questa posizione di pensiero cfr. Anche M. CANGIOTTI, L’uomo giusto. Esperienza etica ed esperienza politica, Brescia 1999, pp.13ss.30 A. Mc INTYRE, Dopo la virtù…, cit., pp.17-20.31 A.J. AYER, Linguaggio, verità e logica, tr.it., Milano 1961, pp. 128-129, 144-145; H. REICHENBACH, La nascita della filosofia scientifica, tr.it., Bologna 1961, p.281; H.KELSEN, La dottrina del diritto naturale di fronte al tribunale della scienza, in La democrazia e altri saggi, tr.it., Bologna 1966, p.340.
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perché non contiene, né si pretende che contenga, molto di nuovo. C’è però una
giustificazione dell’itinerario seguito, e consiste nell’intento di mostrare, pur in modo molto
schematico, che, a partire da quanto detto, è possibile estendere la riflessione a posizioni
che a prima vista appaiono alquanto distanti da quella fin qui esaminata, mentre
condividono con essa forse molto più di quanto può sembrare se ci si arresta alle
dichiarazioni d’intenti dei loro sostenitori.
E’ evidente che la “filosofia politica analitica” qual è stata appena stilizzata non può che
archiviare quale residuo del passato la “concezione classica”, così come tutti i diversi
tentativi di tornare a proporre una idea della filosofia politica quale “parte della filosofia
pratica”. Ciò vale anche per la versione “debole” di questi tentativi, rappresentata dalle
teorie della giustizia e dei diritti, inficiate -si afferma- dal “miraggio di stabilire” ancora una
volta, e pur in forme parzialmente nuove, “un’etica oggettiva”32. Per quanti condividono la
concezione della filosofia politica brevemente schematizzata all’inizio di questo saggio, un
tale difetto non può evidentemente apparire che come un merito, e ciò va affermato
soprattutto in riferimento al neo-contrattualismo di matrice rawlsiana, che ha avuto in Italia,
com’è noto, significative adesioni e importanti approfondimenti critici33. Il punto da
sottolineare è però -a mio avviso- che grava su di esso il limite consistente nel fatto di
basarsi, da un lato, sulla netta demarcazione del Giusto dal Bene, con la connessa
affermazione della priorità del primo sul secondo (motivabile in senso “morale” ed
“epistemologico”34), e, dall’altro, di non riuscire a dar ragione fino in fondo di questa
distinzione, centrale per l’elaborazione della “teoria della giustizia” proposta da Rawls; non
riesce inoltre a rimanere coerente con essa.
Com’è stato più volte osservato, a monte dell’elaborazione in termini procedurali dei
principi di giustizia della “società ben ordinata” sta l’opzione per un ideale di Bene che
coincide, per quanto riguarda l’essenziale, con la facoltà propria di ogni individuo, inteso
come “persona razionale e morale”, di costruire un proprio “piano di vita”35, opzione che si
presenta come la trascrizione dell’idea kantiana dell’autonomia. Senza questo riferimento
verrebbe meno la stessa giustificazione dei due fondamentali principi di giustizia enunciati
nel par. 11 di A Theory of Justice. Secondo quanto è stato correttamente sottolineato,
nell’ambito delle teorie contrattualistiche la giustizia è basata sul consenso appunto a
motivo del fatto che si considera l’autonomia come “la caratteristica fondamentale 32 V. MURA, Categorie della politica…, cit., p.78.33 S.VECA, Questioni di giustizia, Torino 1991; ID., Dell’incertezza, Milano 1997 (specie pp.87-251); S. MAFFETTONE, Valori comuni, Milano 1990; ID., Le ragioni degli altri, Milano 1992; ID., I fondamenti del liberalismo (in collaborazione con R. DWORKIN), Roma-Bari 1996; A. BESUSSI, Giustizia e comunità. Saggio sulla filosofia politica contemporanea, Napoli 1996.34 Cfr. M. SANDEL, Il liberalismo e i limiti della giustizia, tr. it., Milano 1994, pp.28-29.35 Per il concetto di “piani di vita” e per i problemi connessi cfr. Una teoria della giustizia, tr. it. a cura di S. Maffettone, Milano 1986, pp. 90-93 e 336ss.
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dell’uomo etico”36. Tale autonomia si concretizza nella facoltà di scelta e di realizzazione di
piani di vita, per i quali notoriamente, secondo Rawls, i “beni sociali principali” sono mezzi
essenziali, costituiscono cioè “quelle cose che si suppone che un individuo razionale voglia
qualsiasi altra cosa egli voglia” e rappresentano “mezzi necessari per qualunque sistema di
fini”37.
Ma, ammesso quanto precede, sembra difficile non riconoscere che è scarsamente
conseguente driblare, se si consente la terminologia calcistica, la risalita dal Giusto al
Bene, mantenendo la priorità del primo rispetto al secondo. E’ evidente infatti che c’è una
“dottrina antropologica e, dunque, una concezione del bene”, da cui vengono dedotti i
principi e lo stesso obbligo di seguire le procedure. Charles Taylor ha efficacemente
sostenuto che le “teorie procedurali”, come quella di Rawls, sono “incoerenti” e che la loro
“debolezza” è agevolmente identificabile. Essa si rende evidente “quando ci si domanda
cos’è che sta alla base della gerarchia che queste teorie riconoscono, e che ogni teoria
morale deve necessariamente riconoscere […]. Cos’è che obbliga a seguire le procedure
privilegiate? La risposta deve consistere in una certa comprensione della vita umana e
della ragione, in una dottrina antropologica e dunque in una concezione del bene […]. Ciò
ci permette di vedere che in queste teorie non si è sfuggiti alla logica della ‘natura’, del
‘telos’ e del ‘bene’, che la si è semplicemente persa di vista”38.
Neppure il tentativo, compiuto ne Il liberalismo politico, di rendere autonoma la teoria
della giustizia da ogni “dottrina comprensiva” (in particolare da quelle di Stuart Mill e di
Kant), presentandola come “una concezione strettamente politica della giustizia” basata
sulla radicale divisione tra “filosofia morale” e “filosofia politica”39, può essere considerato
persuasivo, poiché quello che si potrebbe definire lo sfondo kantiano -in termini di
antropologia filosofica e di filosofia morale- rimane evidente, facendo risaltare i limiti dello
sforzo di anestetizzare la dimensione “politica” da quella “morale”.
L’ ”imparzialità” verso le “dottrine comprensive” sembra ripetere, su un piano e in un
contesto evidentemente differenti, l’illusoria ricerca della “neutralità” rispetto ai valori dello
scienziato politico neo-empirista. E’ d’altra parte lo stesso Rawls a riconoscere
l’impossibilità dell’esecuzione rigorosa del progetto consistente nel ritagliare per la “ragione
pubblica” uno spazio totalmente esente dall’influenza di ogni “dottrina metafisica o
epistemologica specifica”40.
36 F. VIOLA, Vivere bene ed essere giusti, “Per la filosofia”, 17 (1989), 6, p.8.37 J. RAWLS, Una teoria della giustizia, cit., pp. 90-91.38 C. TAYLOR, Le juste et le bien, “Revue de métaphysique et de morale”, 93 (1988), 1, p.40.39 Liberalismo politico, tr.it. a cura di S. Veca, Milano 1994, pp.4 ss.40 Ivi, p.28.
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Non è ovviamente possibile approfondire qui le varie implicazioni connesse ai punti
accennati. Comunque sia, è alquanto arduo sostenere che la concezione procedurale della
giustizia non rimanda e non richiede il rinvio alla dimensione sostantiva del Bene; ma la
trattazione dei problemi concernenti questo nucleo tematico appare gravemente ostacolata
in Rawls dalla convinzione secondo cui ogni giudizio sul Bene non può che essere
soggettivo, particolare e dettato dalla volontà. Un’etica pubblica con pretese
universalistiche è possibile, ma solo se viene presentata come teoria della giustizia di tipo
formale, mentre un’etica materiale non è abilitata a suggerire valori capaci di esprimere
portata universale e quindi di fornire la base per un consenso razionale; è infatti lo stesso
Rawls ad asserire recisamente che “non vi può essere […] un accordo […] sul come
valutare la felicità in quanto definita, ad esempio, dal successo degli uomini nel portare a
termine i propri piani razionali, e ciò è ancora più difficile per quanto riguarda il valore
intrinseco di questi piani”41. Proprio per questo un’etica formulata come teoria della giustizia
nel senso rawlsiano “non tenta nemmeno di valutare i relativi meriti delle varie concezioni
del bene”42. Come Rawls afferma, “dobbiamo rifiutare lo standard di perfezione come
principio politico e per i fini della giustizia evitare qualsiasi valutazione del valore relativo
dei rispettivi modi di vivere”43.
Appare chiaro che la demarcazione tra Giusto e Bene non è solo un accorgimento
metodologico basato sulla scelta preliminare di una prospettiva da cui guardare i problemi
della “società ben ordinata” sospendendo temporaneamente, per così dire, altri angoli
visuali possibili (come appunto quello del Bene), ma dipende da una tesi speculativa ben
precisa, cioè quella secondo cui il campo del Bene è, per sua natura, non sottoponibile al
discernimento razionale. Assume particolare significato il fatto che Rawls escluda che la
“ragionevolezza” possa estendersi alla “giustificazione pubblica, condivisa e applicabile alle
dottrine comprensive”44: se l’uso di questa capacità subisce tale sorta di rigida clausura
all’ambito del “giusto” e non è considerato pertinente oltre esso, ciò dipende appunto
dall’idea che non esiste una base per l’intesa argomentativa su ciò che concerne il Bene.
Ma allora è corretta l’osservazione che era già stata avanzata da Sandel a proposito di
Una teoria della giustizia: “Una volta ammesso che le nostre concezioni del bene sono
moralmente arbitrarie, diventa difficile capire perché la più alta di tutte le virtù (sociali)
debba essere quella che ci consente di perseguire queste concezioni arbitrarie ‘tanto
completamente quanto lo consentono le circostanze’”45. La negazione della pertinenza
41 Una teoria della giustizia, cit., p. 93.42 Ivi, p. 92.43 Ivi, p. 363.44 J. RAWLS, Liberalismo politico, cit., p. 66.45 M. J. SANDEL, Il liberalismo… cit., p.184.
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della ragione relativamente al problema del Bene induce a chiedersi se tutta la sofisticata
elaborazione della teoria della giustizia non poggi invero su basi alquanto fragili, visto che
l’idea di Giusto mostra la sua dipendenza da una “dottrina comprensiva” del Bene, di chiara
ascendenza kantiana, che trova nel concetto di persona morale il suo punto di coagulo.
Ma, essendo il Bene indeterminabile razionalmente (e quindi anche non atto a produrre
alcun principio valido universalmente), pure l’adozione di tale base risulta, in ultima analisi,
nient’altro che un’opzione immotivabile, e l’ombra di quello “scetticismo” che così
decisamente Rawls rigetta46 riaffiora: i problemi lasciati aperti dalle versioni più radicali del
neo-empirismo, sopra brevemente accennati, riemergono nell’ambito di una posizione
filosofica che pure si presente come capace di offrire una risposta ad essi senza ricadere
nella metafisica.
4. Quanto sin qui sostenuto induce a chiedersi se non sia in altre direzioni che deve
essere ricercata la via per ricostituire quel rapporto tra filosofia politica e ragion pratica che
è stato messo in discussione, pur seguendo varie e diverse impostazioni, nell’ambito di
molte correnti del pensiero filosofico contemporaneo47. E’ già stato in precedenza
richiamata la fecondità di un ripensamento dell’aristotelismo come possibile itinerario in tale
prospettiva. Ed è noto che la filosofia pratica aristotelica ha svolto e continua a svolgere,
nell’ambito di posizioni speculative variamente caratterizzate e orientate, un ruolo di primo
piano all’interno del variegato panorama costituito dalla “riabilitazione della filosofia
pratica”48.
Richiamo anche in questo caso solamente un autore, forse troppo rapidamente
dimenticato. Si tratta di Perelman, del quale va qui innanzitutto ricordata la sottolineatura
del fatto che il risultato dell’egemonia del “monismo” metodologico di matrice positivista e
neo-positivista è stato che “la filosofia contemporanea, nella misura in cui non si
accontenta di intuizioni non verificabili, è stata condotta a rinunciare alla filosofia pratica e
ad ogni teoria della scelta, della decisione, dell'azione ragionevoli”49. Infatti, se si identifica
totalmente e senza residui il razionale con l' “evidente” nel senso cartesiano del termine, si
finisce per togliere alla ragione la possibilità di fare da guida in tutto ciò che riguarda il
“plausibile”: “Da Descartes fino al neopositivismo contemporaneo le stesse esigenze nel
46 J.RAWLS, Liberalismo politico, cit., p.68.47 Riprendo, sintetizzandoli e parzialmente modificandoli, alcuni punti già esposti in Abitare la Città. Un’introduzione alla politica, Roma 1992 (cap. I).48 W. HENNIS, Politik und praktische Philosophie. Schriften zur politischen Theorie, Stuttgart 19777; J. RITTER, Metaphysik und Politik. Studien zu Aristoteles und Hegel, Frankfurt a M. 1969.49 C. PERELMAN, Il campo dell'argomentazione. Nuova retorica e scienze umane, tr. it., Parma 1979, pp.196-197.
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campo conoscitivo hanno condotto progressivamente dall'imperialismo razionalista, in cui
la ragione umana aspira a ritrovare la ragione divina, fino alla rinuncia ascetica del
positivismo, che si confessa incapace di fornire alla nostra azione, oltre che una tecnica, un
significato, gettando a mare l'ideale stesso di ragion pratica”50.
D'altra parte, questo irrazionalismo e l'opzione “scettica” che ne deriva possono essere
evitati se si accetta la prospettiva del “pluralismo metodologico”51, se cioè in altre parole, si
riconosce, accanto al suddetto ed estremamente restrittivo paradigma di razionalità, un
paradigma più comprensivo e soprattutto più conforme all'oggetto da analizzare, che è
l'agire umano. La “teoria dell'argomentazione” -formulata a partire da un articolato
ripensamento della “dialettica socratica, formalizzata nei Topici di Aristotele”52- dovrebbe
rendere conto appunto delle modalità di tale paradigma, mostrando che nel campo della
prassi e nell'ambito delle discipline che se ne interessano si esercita una razionalità che,
pur non dando luogo a dimostrazioni del tipo di quelle cui ricorre la scienza, è ugualmente
dotata di un suo rigore. Il criterio cui essa si conforma non è quello della certezza assoluta,
quanto piuttosto quello del “verosimile, del probabile”53, vale a dire del ragionevole; le
conclusioni cui perviene non sono mai apodittiche e definitive, ma tali da poter consentire
un accordo provvisorio e sempre rivedibile; le tecniche usate sono quelle della
“persuasione” retorica, che tendono ad ottenere l’ “adesione” alle tesi presentate nella
discussione che si svolge tra individui interessati a chiarificare il senso, il valore e le finalità
del loro agire54. “L'argomentazione -scrive Perelman- è la tecnica che si utilizza nella
controversia, quando si tratta di criticare e di giustificare, di obiettare e di confutare, di
domandare e di dare delle ragioni”. E' ad essa che si fa ricorso “quando si discute e
quando si delibera, quando si cerca di convincere o di persuadere, quando si forniscono
delle ragioni pro o contro, quando si giustificano le proprie scelte e le proprie decisioni”. E'
nell'argomentazione che bisogna cercare la via verso quella “logica dell'azione” e dei
“giudizi di valore” che manca alla filosofia contemporanea, “obbligata, dalla sua concezione
ristretta della logica, ad oscillare fra l'assolutismo e lo scetticismo, fra un irrazionalismo e
un positivismo, estranei tutti e due all'idea del ragionevole”55. La razionalità di tipo
argomentativo implica dunque che siano riconosciuti i limiti della ragione in questo genere
di trattazione, ma nello stesso tempo rivendica alla ragione stessa la possibilità di giungere
a conclusioni plausibili attraverso il confronto delle opinioni: “Se la giustificazione concerne
sempre un'azione o una disposizione ad agire, ammettere la possibilità di una 50 Ivi, p.19.51 Ivi, p.18.52 Ivi, p. 10. Cfr. anche C.PERELMANN-O.TYTECA, Trattato dell’argomentazione, tr.it., Torino 1966, pp. 3-11.53 Ivi, p.3.54 Il campo dell’argomentazione…, cit., p.1055 Ivi, p.185. Cfr. anche Trattato dell’argomentazione…, cit., pp. 3-6.
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giustificazione razionale significa ammettere nello stesso tempo un uso pratico della
ragione, non limitando questa alla facoltà di discernere dei rapporti necessari e neanche
dei rapporti riguardanti il vero o il falso” nel senso inteso dalla scienza. Infatti “ogni
giustificazione razionale suppone che ragionare non sia soltanto dimostrare e calcolare, ma
anche deliberare, criticare e controbattere, presentare delle ragioni pro o contro, in una
parola argomentare”56.
Il “campo dell'argomentazione” viene a definirsi così come intermedio tra la sfera dell'
“evidenza”, inattingibile nella dimensione della prassi57, e quello dell' “irrazionale”, che
condannerebbe l'azione ad una inevitabile arbitrarietà58. Esso definisce lo spazio di una
razionalità limitata, ma non per questo destituita di ogni capacità di motivare le proprie
conclusioni. In tale contesto la “verità” si configura come l'insieme delle “più sicure e meglio
sperimentate delle nostre opinioni”59.
Ciò che, in sintesi, così si propone è “l'ideale di una filosofia razionale, privata delle
sicurezze che forniscono le intuizioni evidenti o necessarie e le certezze incrollabili” e per la
quale assume un'importanza centrale il dialogo, in cui si presenta agli altri, “come una
ipotesi convincente, una concezione del reale che si sottopone all'assenso di tutti”60. Il
riconoscimento della necessità della discussione, della positività del pluralismo nelle
opinioni, della doverosità della tolleranza, suggerisce un rapporto diretto tra questo
“razionalismo critico”61 e la democrazia, vista come il miglior contesto per l'esercizio di una
“ragion pratica semplicemente ragionevole”62.
Non v'è dubbio sul fatto che le varie forme del neo-aristotelismo variamente riconducibili
nella prospettiva della “riabilitazione della filosofia pratica” -così come altre espressioni
presenti in tale variegato panorama speculativo, con particolare riferimento agli
orientamenti contraddistinti dal recupero della filosofia pratica kantiana63- debbono essere 56 Il campo dell’argomentazione…, cit., p. 159. Scrive Perelman che “gli argomenti che giustificano le nostre opzioni, le nostre scelte e le nostre decisioni, non sono mai costringenti come le prove dimostrative: sono più o meno forti, pertinenti, convincenti. Mentre una dimostrazione è corretta o scorretta, si impone assolutamente o è priva di ogni valore, nell'argomentazione è sempre possibile sostenere il pro e il contro, giacché gli argomenti che vanno in appoggio ad una tesi non escludono interamente gli argomenti che si potrebbero avanzare in favore della tesi opposta; il che non significa affatto che questi argomenti abbiano lo stesso valore” (ivi, p. 199).57 Cfr. Il campo dell’argomentazione…, cit., p. 159. “Solo l'esistenza di un processo argomentativo che non sia né cogente né arbitrario dà un senso alla libertà umana, condizione per l'esercizio di una scelta ragionevole” (Trattato dell'argomentazione…, cit., p. 538).58 Cfr. Il campo dell’argomentazione…, cit., p. 21. Se i fini dell'azione “sono scelti in seguito ad opzioni irrazionali fra le quali il ragionamento non consente di far prevalere nessuna, la nostra civiltà, dotata di una tecnologia di grande qualità, dovrà metterla al servizio di pulsioni, di desideri e di aspirazioni, razionalmente incontrollabili” (ivi, pp. 196-197); cfr. anche Trattato dell'argomentazione…, cit., p. 536.59 Il campo dell’argomentazione…, cit., p. 70.60 Ivi, p. 241.61 Trattato dell’argomentazione…, cit., p. 538.62 Il campo dell’argomentazione…, cit., p. 166.63 Cfr., per esempio, M. RIEDEL, Metaphysik und Metapolitik. Studien zu Aristoteles und zur politischen Sprache der neuzeitlichen Philosophie, Frankfurt a M. 1975; E. VOLLRATH, Die Rekonstruktion der
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valutate positivamente se viste come reazione a quegli indirizzi di pensiero che sfociano,
pur per diverse vie, nella drastica riduzione del significato e del ruolo della filosofia politica,
almeno se intesa come disciplina indirizzata ad indagare la “natura delle cose politiche” e
soprattutto del “bene politico”, secondo la già ricordata definizione straussiana. Il tentativo
fondamentale che le caratterizza unitariamente, pur tra grandi diversità, è quello di
pervenire alla individuazione di una forma di razionalità diversa da quella scientifica ma non
per questo destituita di fondatezza e cogenza argomentativa64. Nella gran parte dei casi (e
pur anche qui non certo senza differenze di rilievo) l'orientamento predominante è verso il
recupero di una razionalità dialettica e comunicativa, nella quale viene individuata
l'alternativa all'irrazionalismo e ad ogni razionalità con pretese assolutizzanti65. Percorrendo
questo itinerario si tenta di ristabilire un rapporto razionalmente motivato tra etica e politica,
riscattando la prima dalla presa dell'irrazionalismo e la seconda dagli esiti decisionistici cui
il primo conduce: si cerca quindi di riconnettere verità, ragione e decisione e di colmare il
solco scavato tra di esse dalle etiche non-cognitivistiche.
D'altra parte, non si può sottovalutare il limite costituito, in quasi tutte queste posizioni
filosofiche, dal fatto che non riescono a fornire ai valori che di volta in volta propongono un
fondamento ulteriore rispetto al semplice consenso argomentativo e comunicativo. E
neppure intendono farlo: esse infatti preferiscono muoversi nel campo della
“ragionevolezza” o della “persuasione” che in quello della “verità”, a meno che non si parli
di verità identificandola con i giudizi, le proposizioni, le tesi, che ricevono temporaneamente
il consenso dell'uditorio. Ogni verità che pretenda di essere diversamente fondata, per
esempio attraverso un'apertura metafisica, è considerata impossibile o classificata come
“dogmatica”66. Eppure, com'è stato osservato con particolare riferimento alle posizioni dell'
“etica comunicativa” di Habermas e di Apel, un'argomentazione puramente formalistica
basata sugli universali procedurali del discorso e della comunicazione rischia di essere
“ancora insufficiente a fornire una vera e propria fondazione reale di un'etica che non sia
semplicemente un formale fair play, ma contenga dei precisi valori positivi, capaci di dare
un senso all'intera vita umana, individuale e sociale”67. Se si vuole rinvenire una base politischen Urteilskraft, Stuttgart 1977; G. PATZIG, Ethik ohne Metaphysik, Gottingen 1971.64 Cfr. E. BERTI, La razionalità pratica tra scienza e filosofia, cit. e Retorica, dialettica, filosofia, cit.65 Riferendosi a questo orizzonte speculativo, ed in particolare a Hannah Arendt, Nicola Matteucci osserva che “la filosofia pratica [ ... ] ha rivalutato la prassi discorsiva in uno spazio pubblico” ed ha posto in rilievo che “la comunità politica è soprattutto una comunità linguistica, nella quale -per mezzo della comunicazione- gli uomini confrontano le proprie esperienze esperite e vissute, per dare un senso alle cose e affrontare problemi” [Alla ricerca della filosofia politica, “Filosofia politica” 3 (1989) 1, p. 9].66 Perelman si pronuncia, ad un tempo, contro il predominio in etica dell' “irrazionale” e dell' “assoluto” ( Il campo dell'argomentazione..., cit., p.160. Cfr. anche C.PERELMAN-0.TYTECA, Trattato dell'argomentazione, cit., p. 534). 67 E. BERTI, La razionalità pratica..., cit., p. 66. Habermas, ponendo in rilievo con molta evidenza la natura eminentemente formalistica della sua teoria, scrive che “l'etica del discorso si volge contro gli assunti fondamentali delle etiche materiali, che si orientano verso i problemi della felicità e di volta in volta
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adeguata per la filosofia pratica appare dunque necessario -e con ciò ci si ricongiunge con
quanto si accennava all’inizio- evitare di ricondurre ed esaurire tutto l'ambito del filosofare
all'interno della verosimiglianza e del consenso ottenuto attraverso la persuasione e/o la
comunicazione mirante all'intesa. Per usare i termini di Perelman -ma invertendo le
conclusioni del suo ragionamento- si può dire che è necessario non arrestarsi al momento
della giustificazione dei valori, delle norme, dei comportamenti (ritenuta l'unica via
percorribile dagli autori ricordati), ma muoversi in un'ottica intenzionata ad attingere il mo-
mento della fondazione di essi (che questi autori considerano invece non attuabile), sia
pure di una fondazione che, come già si è osservato, non può né deve pretendere ad
un'assolutezza dogmatica. E’ stato giustamente rilevato che, a causa dell'assunzione di un
“orizzonte postmetafisico”, il dibattito sviluppatosi nell'ambito della “riabilitazione della
filosofia pratica” risulta carente per quanto riguarda la “consapevolezza che la filosofia
pratica non può essere ricostituita in assenza di una riflessione che ricomprenda e
tematizzi la sua collocazione in relazione ai problemi che rientravano un tempo nella
'metafisica' e che non possono essere semplicemente evitati con la cancellazione o la
rimozione di questo nome”68.
Quello che caratterizza oggi, in molti e pur diversi casi, l’atteggiamento verso la
metafisica è appunto le tendenza -nutrita sovente da un disinvolto spirito di “divertissement”
e dalla “fascinatio nugacitatis, che sembra ogni giorno di più attanagliare la filosofia”69- a
rimuovere il problema piuttosto che ad affrontarlo, anche in chiave critica. Ma il rimuovere
senza l’affrontare denuncia una posizione dogmatica, quasi che l’improponibilità di
un’apertura della riflessione in chiave metafisica dovesse, per così dire, dimostrarsi da sé e
il rigetto di tale apertura non avesse bisogno di essere argomentato. Ora, sulla metafisica
ognuno può pensarla come crede; ciò da cui però, almeno se si intende rimanere nel
contesto di un dibattito di natura filosofica, non è possibile prescindere è l’imperativo di
proporre, nel momento in cui si intenda rigettarla, ragioni consistenti e non, come il più
delle volte accade, petizioni di principio o esibizioni di pregiudizi. Se, come sovente si
afferma, l’elemento caratterizzante del pensiero metafisico è il suo carattere “assolutistico”
e “dogmatico”, non si può far a meno di riconoscere che i detrattori di esso, non esibendo
queste ragioni, ripetono il gesto che pure dichiarano di rifiutare: nessun dogmatismo supera
infatti quello che oppone il silenzio, l’insofferente scrollata di spalle, l’irridente ironia, alla
domanda di render conto motivatamente di quanto si afferma.
privilegiano ontologicamente un determinato tipo di vita etica” (Etica del discorso, tr.it. a cura di E. Agazzi, Roma-Bari 1985, p. 129).68 F. VOLPI, Tra Aristotele e Kant: orizzonti, prospettive e limiti del dibattito sulla “riabilitazione della filosofia pratica”, in AA.VV., Teorie etiche contemporanee, a cura di C. A. Viano, Torino 1990, p.148.69 I. MANCINI, L’ethos dell’Occidente. Neoclassicismo etico, profezia cristiana, pensiero critico moderno, Genova 1990, p.79
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