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Filosofia del linguaggio (seconda parte) Alfredo Paternoster

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Filosofia del linguaggio

(seconda parte)

Alfredo Paternoster

Varianti del paradigma dominante

- Teoria verificazionista del significato

- Teoria del riferimento diretto

Alternative al paradigma dominante

- Filosofia del linguaggio ordinario (Austin,

secondo Wittgenstein)

- Significato come intenzione comunicativa

(Grice)

- Semantiche cognitive

- Contestualismo (Recanati, Travis)

Teoria verificazionista

Neopositivisti (Carnap, Schlick, Neurath, Feigl,

Waismann, Reichenbach, Hempel …):

Il significato di un enunciato è dato dal suo

metodo di verificazione

Quindi: se a un enunciato non è possibile

associare un metodo di verificazione,

l’enunciato è privo di senso (evidente influenza

del Tractatus)

Lo sfondo della teoria verificazionista

Concezione epistemologica: empirismo

Obiettivo: rendere scientifica la filosofia,

“ripulendola” dalla metafisica

Strategia: far vedere che le proposizioni

metafisiche sono insensate

Criterio di sensatezza: verificabilità ( teoria

verificazionista del significato)

Caso particolare: enunciati della logica e della

matematica

Lo sfondo della teoria verificazionista

Distinzione analitico/sintetico:

Enunciati sintetici: veri in virtù di come è fatto il

mondo; empiricamente verificabili

Enunciati analitici: veri per convenzione (veri in

senso vacuo): sono giustificabili solo in quanto

deducibili da assiomi scelti convenzionalmente.

La scelta degli assiomi risponde solo a criteri

pragmatici (scelgo quelli che mi danno più

vantaggi teorici). Non ci sono fatti in forza dei

quali un insieme di assiomi è meglio di un altro

( geometrie non euclidee)

Lo sfondo della teoria verificazionista

Diversi tipi di enunciati analitici:

Tautologie logiche: “Piove o non piove”

Enunciati matematici: “Il quadrato costruito

sull’ipotenusa è pari alla somma dei quadrati

costruiti sui cateti”. “Due + due = quattro”

Tautologie semantiche: “Nessuno scapolo è

sposato”. “Se qualcosa è verde, allora non è

blu”.

* Casi dubbi di tautologie semantiche: “le balene

sono animali”

Sistemi assiomatici

Assiomi: enunciati che si assumono veri (perché apparentemente non controversi o per convenzione)

Teoremi: enunciati derivabili (= dimostrabili) dagli assiomi applicando per un numero finito di volte le regole logiche.

Regole: schemi inferenziali che specificano, dato un enunciato E, che cosa segue da quell’enunciato (= se ho ottenuto E in un processo dimostrativo, allora posso proseguire scrivendo E*)

Sistemi assiomatici

Esempi

assiomi: P (QP); (P & Q) P; P (P v Q);

P v ~ P (assioma del “terzo escluso”)

teoremi: ~ (P & Q) ~ P v ~Q

P v (~P & Q) P v Q

regole: P, PQ├ Q

PvQ, PR, QR ├ R

Critiche al principio di verificazione

1) Il principio di verificazione è inverificabile,

quindi, in base a quanto esso stesso prescrive,

è insensato (problema dell’autoapplicazione).

o il principio è falso, o deve essere analitico

(vero in senso vacuo)

Carnap: il principio non è empirico, va valutato

pragmaticamente, sulla base dei vantaggi

teorici che ne conseguono. È una esplicazione

(stipulativa) della nozione informale di

significato.

Critiche al principio di verificazione

2) Come stabiliamo quali sono i metodi di

conferma ammissibili (validi)?

Problema degli “enunciati protocollari” (=

osservativi)

(“ora percepisco una macchia blu”: solipsismo,

fenomenismo?)

Critiche al principio di verificazione

3) Sembra impossibile trovare un criterio per fissare il metodo di conferma capace da un lato di scartare tutte le proposizioni metafisiche, o comunque quelle chiaramente insensate, e dall’altro di tenere tutte le proposizioni scientifiche.

Esempi:

“questo teorema logico è verde” (I. Berlin)

- proposizioni universali (“tutti i cigni sono bianchi”)

- proposizioni che contengono termini che si riferiscono a inosservabili (es. forza)

Critiche ad analitico/sintetico: Quine

Due dogmi dell’empirismo (Quine 1951):

- La distinzione analitico/sintetico non può

essere fondata perché è impossibile dare una

definizione o un criterio di analiticità.

- Gli enunciati di una teoria si sottopongono al

“tribunale dell’esperienza” non uno alla volta

ma come insieme solidale non ha senso

associare un metodo di verificazione al singolo

enunciato

- La distinzione tra la scienza (inclusa la “buona”

filosofia) e la (“cattiva”) metafisica è illusoria

Quine 1951

Non disponiamo di un criterio per stabilire quali enunciati sono analitici.

I concetti di sinonimia, necessità e analiticità sono l’uno definito nei termini dell’altro.

Non c’è modo di distinguere un presunto enunciato analiticamente vero da un enunciato che esprime uno stato di cose della realtà che sussiste necessariamente.

«La tesi più potente di Quine…[è] che non c’è un buon argomento fondato sulla nozione di verità in senso vacuo e su quella di indipendenza dall’oggetto di discorso che sia in grado di avvalorare la distinzione tra i supposti casi di enunciati analitici (…) e gli altri tipi di verità.»

(Burge p. 11)

«Non è stato trovato un fondamento chiaro e ragionevole per la distinzione tra verità dipendenti esclusivamente dal significato e verità dipendenti, oltre che dal significato, da caratteristiche (…) dell’oggetto di discorso.»

(Burge p. 14)

Critiche all’analiticità (Quine)

Nemmeno gli enunciati della logica sono analitici: anche volendo ammettere che gli assiomi

«(…) siano veri in base a una stipulazione convenzionale, derivare le conseguenze degli assiomi richiede già l’assunzione della logica: i principi fondamentali della logica sembrano precedere qualsiasi attività che sia descrivibile come una specificazione del significato linguistico.» (Burge, p. 12)

Critica di Quine all’analiticità-2

analitico-2 = derivabile dagli assiomi + le

definizioni

«(…) non c’è una distinzione

esplicativamente utile tra I postulati teorici

ordinari e gli asserti che danno il significato

dei termini, o tra le attribuzioni di un

cambiamento di significato e le attribuzioni

di un cambiamento di credenza»

(Burge, p. 15)

Critica di Quine all’analiticità-2

Esempi

postulato teorico: “per un punto passano infinite

rette”;

postulato di significato: “per ogni x, se x è una

rosa, allora x è un fiore”

Si immagini di scoprire che i gatti siano robot

telecomandati da Marte: cambia il significato

della parola ‘gatto’ o cambiano le nostre

credenze sui gatti in carne ed ossa?

Tesi di Duhem-Quine

(“olismo della conferma”)

«Le nostre asserzioni sul mondo esterno affrontano il tribunale dell’esperienza non singolarmente ma come [parti di] un insieme solidale» (Quine 1951)

Un conflitto con l’esperienza causa un riaggiustamento complessivo di una parte della teoria piuttosto che le revisione di un singolo enunciato (metafora del “campo di forze”)

La teoria del riferimento diretto

E’ una riforma interna al paradigma (in quanto mantiene almeno due dei tre assunti fondamentali) o un’interpretazione antifregeana del paradigma.

“Defregeanizza” il paradigma, sotto due aspetti:

- alcune espressioni si riferiscono al loro portatore senza la mediazione di alcun senso, (il che suggerisce che esse non abbiano senso ma solo riferimento)

- il valore cognitivo non è una proprietà semantica

Perché i nomi hanno riferimento diretto

(Kripke 1970)

Se ai nomi (propri) fosse associata una descrizione che ne determina il riferimento (descrizione = senso), allora un enunciato come

‘Aristotele = il maestro di Alessandro Magno’

sarebbe

• Tautologico

• Necessario

• Vero a priori

(il che chiaramente non è).

Perché i nomi hanno riferimento diretto

(Kripke 1970)

Perché nel ragionamento controfattuale ordinario teniamo fisso il referente del nome, sottraendogli (o aggiungendogli) proprietà a piacere.

Quando di (p. es.) Aristotele diciamo che non è stato il maestro di Alessandro Magno, o che era un grande lanciatore di giavellotto, è sempre di Aristotele che stiamo parlando

I nomi propri sono designatori rigidi

Kripke 1970:

la teoria della designazione rigida

I nomi propri e i nomi di specie naturale e di sostanza sono

designatori rigidi: denotano lo stesso “oggetto” in ogni

mondo possibile.

In un altro mondo possibile l’oggetto è lo stesso, anche se

le sue proprietà sono differenti.

Problema: come faccio a dire che l’oggetto è lo stesso

se gli cambio eventualmente tutte le proprietà?

Replica: “Un mondo possibile non è un paese lontano (…)

che vediamo attraverso un telescopio”. I mondi

possibili sono stipulazioni linguistiche.

Kripke 1970:

la questione dell’essenzialismo

Essenzialismo? Non necessariamente: parliamo

come se l’essenzialismo fosse vero, il che non

prova che lo sia.

“almeno alcune tra queste [= di Kripke] tesi

metafisiche possono essere accolte con minore

fastidio se le si intende come una pura e

semplice esplicitazione di assunzioni che sono

parte della visione del mondo propria del senso

comune.” (Casalegno 2011, p. 100).

Kripke 1970:

la teoria della designazione rigida

La teoria vale non solo per i nomi propri ma anche per i

nomi di sostanza e specie naturale:

acqua, uranio, quercia, leone, …

Dunque per una classe molto vasta di nomi c’è

un’unica proprietà semantica: il riferimento.

(anche se K. non dice proprio così)

Conseguenze

Ci sono enunciati necessari a posteriori

(es. “l’acqua è H2O”, “Espero è Fosforo”)

Ci sono enunciati contingenti a priori

(es. “Il metro-campione è lungo un metro”)

Un enunciato è analitico se è sia necessario sia a

priori (ma resta difficile caratterizzare la classe

degli enunciati analitici).

Contingenti a priori

Recentemente è uscita la notizia che il kilogrammo

campione era “ingrassato” di 10 microgrammi.

Dunque Kripke ha ragione su un punto: l’enunciato

“il Kg campione pesa 1 Kg” può essere falso!

(era vero solo contingentemente).

Eppure, se vero (quando era vero), era vero a

priori. Forse l’enunciato citato da Kripke era contingente a priori soltanto

quando il campione fissava davvero l’unità di misura?

[ i contingenti a priori sono casi rarissimi, casi-limite?]

Riferimento diretto: punti fondamentali

• I nomi propri e i nomi di specie naturale e di sostanza non sono sinonimi di descrizioni; il loro riferimento non è mediato da alcuna descrizione questi nomi non hanno un senso ma solo un riferimento

• Ci sono enunciati necessari a posteriori

• I fattori epistemici sono irrilevanti per la semantica: un nome proprio designa ciò che designa quali che siano le descrizioni che il parlante vi associa

Riferimento diretto: la teoria causale

Le descrizioni (o qualsiasi altra cosa siano i

“sensi”) non fissano il riferimento.

I nomi acquistano un riferimento in virtù di una

sorta di battesimo iniziale, quindi il nome si

tramanda tramite una catena di usi tali che i

parlanti intendono usare il nome in modo

conforme agli usi precedenti.

Tutt’al più una descrizione può essere usata per

introdurre (contingentemente) un nome, ma da

quel momento in poi la descrizione non svolge

alcun ruolo nell’uso del nome.

Riferimento diretto: la teoria causale

Le descrizioni non hanno alcun ruolo semantico,

nemmeno nel fissare il riferimento. Infatti:

1) l’uso di un nome proprio è referenzialmente

efficace anche se non sappiamo associare al

nome descrizioni identificanti (al limite, anche se

non sappiamo associare alcuna descrizione)

Es. “Feynman”

2) l’uso di un nome proprio è referenzialmente efficace

anche se associamo al nome descrizioni erronee.

Es. “Peano”

Riferimento diretto: Putnam 1975

L’intensione (senso) non può fissare il

riferimento e allo stesso tempo essere

un valore cognitivo.

La teoria del significato (verocondizionale) è

distinta dalla teoria della comprensione.

(ma su questo punto ha in parte modificato la propria

posizione)

Putnam 1975: Terra gemella

Due parlanti (Oscar e Oscar-2) che abitano due

mondi identici salvo che sull’uno (Terra

gemella) nei fiumi, laghi e rubinetti c’è XYZ

(una sostanza superficialmente identica

all’acqua ma con una struttura chimica

diversa) associano alla parola ‘acqua’ lo

stesso “file mentale” (lo stesso senso), eppure

si riferiscono a entità diverse: il valore

cognitivo non fissa il riferimento.

Putnam: la divisione del lavoro linguistico

Teoria della divisione del lavoro linguistico:

Il fatto che per molte parole che usiamo abbiamo assai poche conoscenze sui loro riferimenti è compensato dal fatto che, all’interno della società, queste conoscenze sono possedute da altri: ci sono delle “autorità” semantiche, che variano da classi di parole a classi di parole, a cui i parlanti si rimettono per quanto concerne il significato (e il riferimento) delle parole (“deferenza” semantica).

Putnam: la teoria dello stereotipo

Teoria dello stereotipo:

Lo stereotipo è ciò che i parlanti normalmente si comunicano in un’interazione linguistica. È l’insieme dei tratti tipici associati al riferimento di un’espressione

Es. stereotipo di limone = <giallo, rugoso, aspro>

NB Lo stereotipo non fissa il riferimento, ovvero non è l’intensione

(un limone verde è pur sempre un limone!)

Chi non conosce lo stereotipo associato a una parola viene giudicato semanticamente incompetente.

Critiche alla teoria del riferimento diretto

- Nomi vuoti (senza una descrizione come possiamo

riferirci a qualcosa di inesistente?)

- Sostituzione di co-referenziali rigidi nei contesti di

credenza non è salva veritate

- Realismo metafisico? Se nomi di sostanza e specie

naturale sono rigidi, c’è un unico modo vero, reale, in

cui la realtà è “ritagliata”. Eppure le nostre ontologie

sembrano riflettere sempre un punto di vista.

Critiche alla teoria del riferimento diretto

- La scissione fra teoria del significato (intesa come

teoria del riferimento e di ciò che lo determina) e

teoria della comprensione rende la teoria del

significato poco interessante se ciò che interessa è

capire come comprendiamo e usiamo il linguaggio.

- Se il significato è ciò che conosciamo quando

comprendiamo un’espressione non si vede perché

bisognerebbe considerare come teoria del significato

una teoria che ha poco o nulla da dire sulla

comprensione.

Riferimento diretto: Kaplan

Espressioni indicali: sono quelle espressioni che acquistano un riferimento solo in un contesto extralinguistico (es. ‘io’, ‘qui’, ‘oggi’)

Le espressioni indicali sono designatori rigidi. Una volta fissato il contesto, il loro riferimento è lo stesso in ogni mondo possibile.

Attenzione: contesto ≠ mondo possibile ! Prima si fissa il contesto (e si valuta l’espressione), poi ci si

chiede che cosa l’espressione denota in un altro mondo possibile.

“Essenzialità” degli indicali

Come i nomi propri, gli indicali non sono sinonimi

di alcuna descrizione, nemmeno nel caso di

‘io’ e ‘parlante nel contesto’ (come pure

sembrerebbe ovvio!) Infatti, mentre ‘io’ è

rigido, ‘il parlante nel contesto’ NON è rigido:

in un altro mondo possibile potrebbe essere

qualcun altro a parlare, non io (mentre io

continuo ad essere io).

gli indicali non sono intersostituibili salva

veritate, p. es., nei contesti epistemici

(“essenzialità degli indicali”).

Contenuto e carattere

Indicali propri e indicali impropri: ai primi, ma non ai secondi, è associata una “regola linguistica” che consente di individuare il loro referente nel contesto. Es. la regola linguistica associata ad ‘io’ è “il parlante (nel contesto)”.

Indicali impropri: sono i pronomi dimostrativi (‘questo’, ‘quello’) e alcuni pronomi personali (‘egli’, ‘lei’)

La regola linguistica prende il nome di carattere dell’espressione, e può essere considerata il significato linguistico dell’espressione (N.B. non è il senso di Frege!)

Si definisce contenuto dell’indicale il riferimento dell’espressione indicale (nei vari mondi). Il contenuto è determinabile solo dopo aver fissato un contesto.

Contenuto e carattere

Più precisamente:

• Il carattere è una funzione da contesti a contenuti (fissato un contesto, risulta determinato il riferimento dell’espressione).

• Il contenuto è una funzione da mondi possibili a estensioni, cioè è l’intensione dell’indicale. Poiché gli indicali sono designatori rigidi, il contenuto è una funzione costante.

Contenuto e carattere

L’enunciato

‘Io sono qui ora’

è, in base alla teoria presentata, CONTINGENTE, ma ANALITICO (!): esso è vero in virtù del significato delle parole (e quindi vero in ogni contesto), e nondimeno potrebbe essere falso.

Al contrario, l’enunciato

‘Io sono Alfredo Paternoster’

non è analitico, perché il suo valore di verità dipende dal contesto, ma è NECESSARIO (perché la determinazione del suo statuto modale si fa solo dopo aver fissato il contesto).

Quine: Word and object (1960)

Imperscrutabilità del riferimento e indeterminatezza

della traduzione

Esperimento della traduzione radicale:

Come faccio a stabilire se ‘gavagai’ si riferisce ai

conigli, alle parti di un coniglio, ai segmenti

temporali di un coniglio?

Non c’è nessun fatto che mi può far decidere per

l’una o l’altra di queste opzioni.

Quine: Word and object (1960)

Imperscrutabilità del riferimento e indeterminatezza

della traduzione

Faccio un’ipotesi al riguardo. Via via che traduco altri

enunciati, l’ipotesi può essere corroborata o

smentita?

Quine: ogni ipotesi può essere mantenuta

coerentemente.

Ci sono più “manuali di traduzione” incompatibili

tra loro ma egualmente “buoni” (coerenti ed

empiricamente adeguati).

Quine: Word and object (1960)

Imperscrutabilità del riferimento e indeterminatezza

della traduzione

Il riferimento è determinato solo relativamente a un

intero linguaggio. Non c’è una nozione assoluta

di riferimento (relatività ontologica).

La nozione intensionale di significato è oscura, ma

nemmeno la nozione di riferimento può costituire

una base solida per la teoria semantica.

Chomsky vs. Quine

- Non è vero che gli unici dati disponibili al linguista

sono le disposizioni all’assenso/dissenso ai

proferimenti ( intuizioni su grammaticalità)

- (di conseguenza) La correttezza di un manuale di

traduzione non dipende soltanto dall’aderenza al

comportamento verbale osservato

(inaccettabili assunzioni comportamentistiche)

- L’indeterminatezza della traduzione non è altro che

un caso particolare di un problema generale: la

sottodeterminatezza delle teorie (scientifiche)

Chomsky vs. Quine

Replica di Quine:

L’indeterminatezza non è la stessa cosa della

sottodeterminazione delle teorie. Infatti:

1) (se si è realisti scientifici) le teorie sono sottodeterminate

rispetto alle osservazioni, ma c’è un modo in cui stanno

le cose (c’è, in linea di principio, una teoria giusta);

invece, nel caso del linguaggio, non c’è una traduzione

giusta perché non ci sono fatti in base ai quali stabilire

che è quella giusta.

2) (se si è antirealisti scientifici) una volta scelta una teoria

(una qualsiasi), l’indeterminatezza resta, quindi

l’indeterminatezza si aggiunge alla sottodeterminazione.

Chomsky vs. Quine

Controreplica a Quine

1 presuppone il comportamentismo. Non è vero che i

fatti collassano sulle osservazioni.

2 presuppone che il linguaggio non faccia parte della

natura.

(su 1 molto probabilmente ha ragione Chomsky. Su

2 la questione è assai controversa, ma gli

argomenti di Chomsky sono deboli perché una

cosa è la grammatica, un’altra è il riferimento).