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LEZIONE Feuerbach e Stirner Destra e sinistra hegeliana Rottura della sintesi hegeliana. Hegel aveva permesso, con lo strumento meraviglioso ma anche illusionistico della dialettica, di tenere insieme credenze e atteggiamenti mentali opposti: la spregiudicatezza critica della filosofia moderna con la tradizione religiosa, la fedeltà alle istituzioni con l’istanza di sottoporle al vaglio della ragione. I discepoli di Hegel ruppero la sintesi del maestro orientandosi verso atteggiamenti di conservazione politica e religiosa o, al contrario, mettendo in moto processi di cambiamento più o meno radicali degli assetti esistenti. Di qui l’abitudine di riferirsi a questi due schieramenti come destra o sinistra hegeliana, con un linguaggio che uno dei protagonisti, David Strauss, desunse dall’ambito politico. Con il primo termine si indicarono quei filosofi o teologi conservatori che ritennero possibile un accordo tra la concezione hegeliana, le verità religiose della Chiesa luterana e l’ordinamento politico dello Stato prussiano; di sinistra furono considerati al contrario quei pensatori ‘progressisti’, che sottoposero a una critica più o meno radicale le verità religiose, fino all’estremo dell’ateismo, e per altro verso si orientarono verso un superamento dell’assetto dello Stato prussiano in nome di nuove forme politiche che dessero una più piena attuazione allo Spirito universale.

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LEZIONE Feuerbach e Stirner

Destra e sinistra hegeliana Rottura della sintesi hegeliana. Hegel aveva permesso, con lo strumento meraviglioso ma anche illusionistico della dialettica, di tenere insieme credenze e atteggiamenti mentali opposti: la spregiudicatezza critica della filosofia moderna con la tradizione religiosa, la fedeltà alle istituzioni con l’istanza di sottoporle al vaglio della ragione. I discepoli di Hegel ruppero la sintesi del maestro orientandosi verso atteggiamenti di conservazione politica e religiosa o, al contrario, mettendo in moto processi di cambiamento più o meno radicali degli assetti esistenti. Di qui l’abitudine di riferirsi a questi due schieramenti come destra o sinistra hegeliana, con un linguaggio che uno dei protagonisti, David Strauss, desunse dall’ambito politico. Con il primo termine si indicarono quei filosofi o teologi conservatori che ritennero possibile un accordo tra la concezione hegeliana, le verità religiose della Chiesa luterana e l’ordinamento politico dello Stato prussiano; di sinistra furono considerati al contrario quei pensatori ‘progressisti’, che sottoposero a una critica più o meno radicale le verità religiose, fino all’estremo dell’ateismo, e per altro verso si orientarono verso un superamento dell’assetto dello Stato prussiano in nome di nuove forme politiche che dessero una più piena attuazione allo Spirito universale.

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La destra hegeliana. I più importanti esponenti della destra furono Wilhelm Hinrichs (1794-1861), autore de La religione nei suoi rapporti con la scienza (1822), dove si sostiene la conciliabilità di filosofia e religione; e Karl Friedrich Göschel (1781-1861), autore degli Aforismi sul Non-sapere e sul Sapere assoluto (1829), che sostiene la possibilità di una fondazione speculativa dell’immortalità dell’anima – uno dei temi più controversi tra le due opposte correnti dell’hegelismo. La sinistra hegeliana. La pubblicazione, nel 1835, della Vita di Gesù da parte di David Friedrich Strauss (1808-1874) rinfocolò le polemiche. Strauss sosteneva, sulla base del Vangelo di Giovanni, il carattere mitico e non storico del Cristo della fede, nato dall’aspettazione del Messia, e con ciò la differenza essenziale tra la religione cristiana, fondata sul mito, e il discorso razionale della filosofia. La dottrina dell’Incarnazione è concepita dal cristianesimo come un evento unico, mentre per l’hegelismo l’incarnazione del divino nell’umano rappresenta un processo continuo. Tra gli esponenti della sinistra vanno annoverati anche Bruno Bauer (1809-1882) con la sua Critica dell’evengelo di Giovanni; Arnold Ruge (1802-1880) di orientamento democratico, co-editore con Marx degli Annali franco-tedeschi (1843), ma soprattutto Feuerbach, Stirner e Marx, che con il capovolgimento degli stessi presupposti idealistici dell’hegelismo approdano ad esiti molto più radicali degli altri ‘giovani hegeliani’. Umanesimo e individualismo. I personaggi che impressero una svolta significativa nella storia del pensiero e anticipato la formulazione di problemi con i

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quali tuttora ci confrontiamo si situano in quest’ultima corrente. Ci occuperemo qui in particolare di due di loro, Feuerbach e Stirner, compagni-nemici, che a partire da una critica dell’alienazione religiosa sono pervenuti rispettivamente a un riscatto dei valori umani comuni (umanesimo) o a un’affermazione del carattere unico e incomparabile di ogni singolo (individualismo). Feuerbach e la critica del cristianesimo La vita e le opere. Ludwig Feuerbach nacque nel 1804 a Landshut, in Baviera, da un eminente giurista, Anselm von Feuerbach, e dalla nobile Wilhelmine Tröster. La famiglia e l’hegeliano Carl Daub, professore di teologia, lo incoraggiarono a frequentare la Facoltà di teologia di Heidelberg, ma egli presto si trasferì a Berlino, attratto dalle lezioni di Hegel. Proseguì gli studi a Erlangen, dove ottenne la laurea nel 1828 con la tesi di ispirazione hegeliana De ratione una, universale, infinita, che inviò ad Hegel accompagnata da una lettera in cui esprime l’auspicio, forse non così hegeliano, che la filosofia prenda il posto della religione. Conseguita la libera docenza in Filosofia, tenne corsi all’Università di Erlangen, ma dovette interromperli dopo la pubblicazione, avvenuta anonima nel 1830, dei suoi Pensieri sulla morte e l’immortalità. Nel 1837 si ritirò nel castello di proprietà della moglie Berta Löw, mantenendo contatti con l’ambiente progressista tedesco. Agli anni Quaranta appartengono i suoi scritti programmatici più importanti, L’essenza del cristianesimo (1° edizione 1841, 2° ed. 1843), le Tesi provvisorie per la riforma della filosofia

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(1842), i Principi della filosofia dell’avvenire (1843) e L’essenza della religione (1845). Nel 1848 partecipò al Congresso democratico di Francoforte come osservatore della sinistra democratica e fu invitato dagli studenti a dare lezioni pubbliche sull’essenza della religione. Aderì più tardi al Partito socialdemocratico dei lavoratori. L’ultima grande opera di critica religiosa fu la Teogonia (1858). Tra il 1866 e il 1868 cominciò ad abbozzare un sistema di etica, misurandosi con quelli di Kant e di Schopenhauer (Spiritualismo e materialismo, L’eudemonismo). Morì nel 1872 e fu sepolto a Norimberga alla presenza di migliaia di operai. Il distacco da Hegel. Dopo la tesi ricordata e i primi lavori giovanili condotti nello spirito di Hegel, in Per la critica della filosofia hegeliana (1839) Feuerbach prende le distanze dal suo maestro. Il distacco viene compiuto in nome di un naturalismo e di un’aderenza alla intuizione sensibile che indicano già in modo netto su quali linee Feuerbach intenda muoversi. Il sistema in cui Hegel ha costretto il pensiero deve essere spezzato, l’assolutezza del punto di vista a cui l’idealismo logico crede di essersi innalzato è una pretesa infondata, che nasce solo dal particolare orientamento impresso al pensiero dalla filosofia moderna, a partire dal cogito cartesiano. La dialettica tra l’essere e il nulla da cui muove la logica hegeliana non rappresenta affatto un «cominciamento» assoluto, ma anzi una rottura con le evidenze sensibili, che attestano solo esseri determinati e individuali. La storia e la natura. La critica non si dirige però solo verso l’astrattezza della costruzione di Hegel, ma al suo privilegiamento della storia, la quale risolve il significato

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della della serie dei fatti considerati nell’«ultimo gradino del processo», privando di vita autonoma i momenti subordinati. La natura, a cui Feuerbach si appella, mostra viceversa coesistenza e simultaneità di fenomeni, non vive nella dimensione del «tempo esclusivista» ma in quella «liberale» dello spazio. «E’ vero che la natura ha fatto dell’uomo il signore degli animali ma non gli ha dato soltanto le mani per domarli, ma anche occhi e orecchi per ammirarli» (Opere, Laterza, Bari 1965, p. 110). Queste osservazioni vanno nella direzione di una critica della signoria dell’uomo sulla natura, assai istruttiva oggi che assistiamo a disastri ambientali provocati da uno “sviluppo” incontrollato. L’essenza del cristianesimo. La prima formulazione di una filosofia dell’uomo destinata a fare epoca è contenuta nell’Essenza del cristianesimo (1841), cioè in un libro di critica della religione. Feuerbach, come osservò Marx qualche anno più tardi con l’intenzione di riconoscere il significato della sua opera ma insieme di restringerne il significato, «risolve l’essenza religiosa nell’essenza umana». A una prima lettura si resta effettivamente colpiti dalla spregiudicatezza della demitizzazione compiuta da Feuerbach nei confronti della religione nell’intento di ritrovare un fondamento antropologico all’intera dogmatica cristiana. È comprensibile il senso di liberazione che provarono i contemporanei, avvezzi a sottigliezze teologiche e speculative. Un esame più attento, però, ci rivela che la svolta era annunciata in modo di non provocare troppi traumi. Si trattava infatti di negare Dio come soggetto personale a se stante, ma senza mettere in questione le sue qualità essenziali. Un ‘ateismo devoto’, si

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direbbe forse oggi, che permetteva di salvaguardare, in una cornice umanistica, molti valori originariamente religiosi. Lo scritto è articolato in due parti, intitolate rispettivamente «La religione nel suo accordo con l’essenza dell’uomo» e «La religione nella sua contraddizione con l’essenza dell’uomo». Questa bipartizione mostra che l’autore non intende semplicemente denunciare gli aspetti per cui la religione, con l’assunzione di un Dio trascendente ed estraneo, rappresenta una «alienazione» dell’uomo, vale a dire una perdita da parte sua delle proprie qualità essenziali, intellettuali e morali, ma anche riconoscere che proprio attraverso la religione l’uomo giunge a una prima coscienza di sé. Il contenuto dell’essenza umana. La derivazione religiosa del contenuto dell’essenza umana risulta chiara già nel capitolo introduttivo dell’opera, «L’essenza dell’uomo in generale». La religione, vi si dice, riposa sulla distinzione essenziale dell’uomo dall’animale, cioè sulla coscienza che un essere ha del proprio genere o della propria essenza. Così lo specifico umano viene identificato immediatamente con una particolare forma della coscienza, la coscienza «religiosa» in quanto consapevolezza della propria natura essenziale. Questa conoscenza essenziale ha per oggetto l’infinito: come conoscenza dell’infinito la religione dunque è, e non può essere altro, che la coscienza che l’uomo ha, non della limitazione, ma dell’infinità del proprio essere (L’essenza del cristianesimo, Laterza, Bari 1997, p. 24). La religione viene così riportata all’espressione, sia pure in una forma capovolta o alienata, dell’essenza dell’uomo,

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ma l’umanità riceve, nello stesso atto, una connotazione religiosa. Il contenuto che Feuerbach assegna all’umanità dell’uomo consiste nelle tre facoltà – la ragione, la volontà e il sentimento – che in base alla tradizione sostanzialmente concorde della filosofia occidentale compongono l’uomo. Esse sono presentate come potenze assolute che governano l’uomo e alle quali egli non può opporsi. L’unità di ragione, amore e volontà è «la Trinità divina nell’uomo e al di sopra dell’uomo individuale» (p. 27). Ragione, moralità e amore. La potenza della ragione viene a coincidere con l’entusiasmo della scienza, la quale è insensibile alle debolezze del cuore; la potenza della moralità è vista, kantianamente, come una forza che si afferma nel reprimere le passioni e nel riportare vittoria sul proprio sé inferiore (individuale). Anche l’amore è introdotto come una forza da cui l’uomo è posseduto. Esso vince la neutralità della ragione come il rigore della legge morale. Il suo modello è il Cristo misericordioso che si è incarnato per la salvezza degli uomini (p. 60 ss.). È sempre correlativo a un dolore da comprendere e soccorrere: «il cuore è dolore nel senso di simpatia e di compassione» (Appendice a L’essenza del cristianesimo, in L. Feuerbach, Opere, Laterza, Bari 1965, p. 230). Nell’amore l’uomo si richiama ad altri, anziché ripiegarsi compiaciuto in se stesso, e desidera la loro felicità. L’altro è amato di un amore universale, in nome di quell’elemento comune che è il «genere». Un simile amore appare un analogo della ragione e svolge la stessa funzione di attuare l’unità del genere.

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La centralità del sentimento. Il sentimento, e più in particolare il «sentimento di dipendenza», era già stato riconosciuto da Schleiermacher, nei Discorsi sulla religione (1799), come il principio della religione. Ora Feuerbach riconosce invece l’infinità del sentimento per se stesso, indipendentemente dall’oggetto a cui si rapporta: «Una volta considerato il sentimento come organo del divino - scrive Feuerbach alludendo a Schleiermacher – si dichiara come religioso il sentimento in quanto tale». L’oggetto divino diviene indifferente, e può essere sostituito da qualunque altro capace di suscitare il medesimo sentimento: ogni specifica distinzione tra sentimenti religiosi e non religiosi viene meno (L’essenza del cristianesimo, p. 34). Si profila una grossa rivoluzione nel modo di intendere i rapporti tra le stesse qualità umane: almeno in linea di principio la sfera sensibile dell’essere umano guadagna una posizione che i sistemi idealistici non le avevano riconosciuto. Un sentimento ancorato alla necessità naturale. Il filosofo si rende conto però di dover introdurre distinzioni che fissino la differenza tra la figura del sentimento su cui si fondano le credenze religiose e il modo in cui esso viene riaffermato in un contesto mondano e umanistico. Già nell’«Appendice» all’Essenza del cristianesimo troviamo tracciata una linea di confine tra l’«animo» (Gemüt), di natura trascendente e soprannaturale, «malato, sofferente, in rotta con la natura, scisso dal mondo», da cui prende origine la fede in Dio e nell’immortalità, e il «cuore» (Herz), sentimento determinato e ancorato alla terra, capace di riconoscere i limiti della necessità naturale e di adattarsi ad essi. Feuerbach si arrovellerà tutta la vita nel

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tentativo di chiarire convincentemente questo contrasto: diviso tra l’esigenza di rivendicare all’uomo tutta la ricchezza delle immagini religiose del desiderio e quella di ancorarlo al solido fondamento dell’antica sapienza pagana e dei suoi più limitati e realistici desideri. Il suo interesse costante per il tema della immortalità – dai giovanili Pensieri sulla morte e l’immortalità (1830), che gli preclusero, col sospetto di ateismo, la carriera universitaria, alla Questione dell’immortalità dal punto di vista antropologico (1846) – si spiega proprio con questo intento ‘terapeutico’ di conciliare gli uomini con la naturalità della morte e di distoglierlo da desideri irrealizzabili, orientandoli piuttosto verso mete di progresso storico e di liberazione dai mali evitabili di questo mondo. L’individuo e la perfezione del genere. Finché l’uomo si identifica con il proprio genere non è in grado però di percepire i propri limiti. La natura umana, non dovendosi rapportare a nulla che la trascenda, appare perfetta. Un essere infatti ha dei limiti solo per un altro essere estraneo e superiore a lui. La coscienza che l’uomo ha di sé è necessariamente autoconferma e gioia della propria perfezione. Non è possibile percepire le proprie qualità come finite, perché la limitazione viene percepita dal cuore umano come nullità. È solo l’individuo che può, e anzi deve, sentirsi limitato, ma questa sua coscienza è possibile proprio in quanto gli sta di fronte la perfezione del genere. L’idea che la natura umana sia limitata come tale dipende solo da un errore di valutazione dovuto alla vanità e all’egoismo dell’individuo, che per giustificare il

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proprio limite, lo traspone al genere stesso (L’essenza del cristianesimo, p. 31). La filosofia dell’avvenire Un nuovo concetto di ragione. La formulazione del concetto di una ragione ancorata alla sensibilità, «imbevuta del sangue dell’uomo», – ancora incerta nell’Essenza del cristianesimo – è il compito che Feuerbach si assume negli scritti degli anni successivi, elaborando, attraverso una ricostruzione critica dell’intero percorso della filosofia moderna, i fondamenti della propria antropologia (Tesi fondamentali per la riforma della filosofia, 1842; Principi della filosofia dell’avvenire, 1843: tradotti entrambi in. Principi della filosofia dell’avvenire, Einaudi, Torino 19463). La nuova filosofia non ha più per oggetto la ragione in abstracto ma «l’essere reale e totale dell’uomo» (Principi, § 50). L’unità di mente e cuore suppone d’altra parte che si assuma ad oggetto essenziale della conoscenza l’uomo stesso, in luogo delle entità che la filosofia moderna ha finora tenuto in onore (ivi, § 57). La risoluzione della teologia in antropologia che i filosofi moderni hanno tentato doveva restare a mezza strada, perché essi hanno separato la ragione dalle altre istanze che compongono l’interezza dell’uomo (ivi, § 52). Il rapporto io-tu. Un elemento portante di questa antropologia è la verità del rapporto io-tu, di quella vita sociale che i cristiani trovavano adombrata nel dogma della Trinità. Da questo rapporto dipende ogni illuminazione del pensiero come ogni valore morale. «La

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vera dialettica – scrive Feuerbach nei Principi – non è un monologo del pensatore solitario con se stesso, ma un dialogo tra l’io e il tu» (§ 62). L’essenza umana ora appare al filosofo sempre meno un’entità astratta ricavata dal suo m odello divino, e legata invece alla comunione o all’«unità dell’uomo con l’uomo» (§ 59). Una base filosofica per il socialismo. Feuerbach intendeva così, come avverte nella nota introduttiva ai Principi, «trarre la filosofia dal regno delle anime morte e reintrodurla in quella delle anime vive, unite al corpo; farla scendere dalla beatitudine concettuale, divina e autosufficiente, nella miseria umana». Questo riferimento alla miseria umana indusse alcuni suoi seguaci a intendere il suo messaggio in senso sociale e a considerare la sensibilità verso i bisogni della vita umana come la pre-messa di una sorta di socialismo umanistico. Anche Marx del resto credette, nel 1844, che in questi scritti Feuerbach avesse fornito al socialismo una base filosofica; tuttavia dovette presto accorgersi che l’indagine sociale, o dei «rapporti sociali», come presto si disse, restava estranea a un pensatore che aveva eletto a propria missione l’analisi dei fenomeni religiosi e delle forme di moralità La dipendenza dalla natura L’essenza della religione. L’orientamento antropologico dell’Essenza del cristianesimo cede, qualche anno più tardi a una prospettiva naturalistica, che inserisce la stessa essenza umana all’interno di un più vasto contenitore – la natura appunto – da cui dipende. La nuova prospettiva è ben avvertibile nell’Essenza della religione (1845) e nelle

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Lezioni sull’essenza della religione, che Feuerbach tenne a Heidelberg nel 1848, partecipando a suo modo ai movimenti rivoluzionari di quell’anno. Dalla religione che Hegel aveva proclamato «assoluta» ora l’interesse si allarga a fenomeni religiosi dell’antichità classica ed ebraica e alla storia delle religioni primitive, che attestano, diversamente dal cristianesimo, la centralità del «sentimento di dipendenza dalla natura». Comune ai diversi momenti di questo percorso è la sottolineatura della natura sentimentale della religione. Desiderio di felicità. Il sentimento entra in gioco nella religione in un doppio modo: come desiderio di appagamento – «egoismo» dice talora Feuerbach – e d’altro lato come rapporto di dipendenza da potenze superiori, a cui si attribuisce la capacità di soddisfare i desideri. Nell’Essenza del cristianesimo predomina la prima polarità del sentimento: l’egoismo o la brama di felicità, ritenuti responsabili della ristrettezza della prospettiva religiosa. Il sentimento di dipendenza non vi è totalmente assente ma si esprime all’interno del soggetto nella forma di un rapporto tra un io inessenziale (l’individuo empirico) e un io essenziale (l’uomo coi suoi attributi costitutivi). Di fatto l’essenza divina viene totalmente risolta nell’essenza umana. Dipendenza da potenze superiori. Al sentimento religioso così inteso manca, nella prospettiva ora adottata da Feuerbach, quel referente oggettivo che pure sembrerebbe implicito nella stessa idea della dipendenza. Occorre dunque postulare un’essenza diversa e indipendente dall’uomo: e ciò sia per spiegare certi caratteri del fenomeno religioso, sia per intendere la verità

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di fondo, intramontabile, dell’atteggiamento religioso, ovvero dell’esperienza che l’individuo ha di essere condizionato da realtà che lo precedono e lo circondano. La natura. L’Essenza della religione si apre appunto con l’affermazione che l’essere diverso e indipendente dall’essenza umana è la natura, che a fondamento della religione c’è il sentimento di dipendenza che l’uomo prova rispetto alla natura, e che in quanto sentimento di dipendenza la religione può dirsi innata nell’uomo (trad. it. laterza, Bari 1969, §§ 1-3). Le religioni della natura, a cui sono dedicati i primi 26 paragrafi dello scritto, attesterebbero per l’appunto questo sentimento di dipendenza dall’altro, dalla natura non umana. Una natura incantata dall’animo religioso. L’uomo sembrerebbe così scalzato dalla posizione centrale che occupava nell’Essenza del cristianesimo. Tuttavia la natura che costituisce l’oggetto della religione naturale non è la natura puramente oggettiva che cogliamo ad esempio nella prospettiva scientifica. Essa è per così dire animata: cioè posseduta dall’animo dell’uomo che si introduce involontariamente nella natura e fa di essa un simbolo della sua essenza (§ 9). «In origine la natura è per l’uomo oggetto in quanto è ciò che lui stesso è, in quanto essere personale, vivente, sensibile». E dopo aver incon-sciamente «incantato» la natura trasponendovi le qualità del proprio animo, è comprensibile che l’uomo in un secondo momento ne faccia consapevolmente un oggetto della religione, che può essere determinato mediante l’animo dell’uomo quale si esprime in cerimonie e preghiere.

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Sviluppo della religione. L’evoluzione della religione verso la sua forma antropologica e monoteistica occupa la seconda parte dello scritto. La religione naturale è facilmente soggetta alla delusione: basta un colpo d’ascia per convincere l’uomo che dagli alberi che adora non sgorga sangue. Alla delusione la religione si sottrae postulando un essere invisibile, che esercita il dominio sulla natura, di cui è autore e sostentatore. Se il punto di partenza della religione è dato dunque dal sentimento di nullità rispetto alla natura, il suo punto d’approdo è viceversa la convinzione che tutti i dati naturali dipendono dalla volontà dell’essere umano-divino – una convinzione che trova la sua forma appropriata nella fede nei miracoli. Le tracce dell’originaria credenza nella natura si conservano tuttavia nella fede che Dio sia un essere a cui appartengono l’esistenza oggettiva e una serie di proprietà fisiche (l’infinità, la potenza, l’eternità, l’azione secondo leggi invariabili ecc.) che sono evidenti trasfigurazioni di analoghe proprietà della natura (§ 11). La natura funge quindi da fondamento permanente e occulto della religione anche quando la prospettiva umanistica è stata raggiunta. Nel futuro infine l’essenzialità dell’uomo, che si esprime in forma indiretta nella religione antropologica, diventerà una verità palese (§ 53). Quando lo scopo finale della religione di affermare la divinità dell’uomo è raggiunto la religione termina (Essenza della religione. I redazione, in F. Tomasoni, L. Feuerbach e la natura non umana, La Nuova Italia, Firenze 1986, p. 231). Il ruolo ambiguo della religione cristiana. All’interno di questo quadro la posizione del cristianesimo come religione dell’uomo o dello spirito per eccellenza viene ad

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essere ridefinita in modo assai complesso. Per un verso esso è la rivelazione dell’essenza della religione, la quale, come abbiamo visto, anche nelle sue forme primitive, «incanta» inconsapevolmente la natura con proprietà dell’animo umano. In questo senso Feuerbach può affermare che «la religione cristiana necessariamente è l’unica vera, che ha colto il senso della religione, avendo insignito un uomo reale della potenza e della maestà di Dio e superato l’ambiguità dell’antico Dio, che minacciava sempre di ricadere nella natura» (ivi, p. 303). Ma in essa si compie anche il processo di alienazione dell’uomo dalla natura e dalla sua stessa natura sensibile. Interpretazione finalistica della natura. Innanzitutto la natura esterna perde il significato dell’essere indipendente e viene percepita solo dal punto di vista dell’utilità, come un oggetto che trova scopo nell’uomo (ivi, pp. 275-277). L’interpretazione finalistica della natura è appunto connessa alla pretesa di disporre di essa a proprio arbitrio e perde totalmente di vista che la natura va concepita mediante se stessa. Per spiegare la genesi della vita organica si ricorre a cause trascendenti, mentre l’origine degli organismi viventi – come aveva mostrato Darwin a cui qui certo Feuerbach si ispira – coincide con l’instaurarsi di determinate condizioni ambientali (L’essenza della religione, §§ 46, 48). Anche quando la natura dà luogo a formazioni che suggeriscono una «connessione», essa non obbedisce a un progetto razionale precostituito, opera «sotto la spinta della necessità», in modo involontariamente finalistico (§ 48). Disconoscimento dei bisogni umani. Ma una volta che si è compiuto questo allontanamento dalla natura, l’uomo

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introduce una separazione anche al proprio interno, ricono-scendo come propria parte migliore ciò che lo fa essere distinto dalla natura, lo spirito. Ciò conduce all’ipocrisia di disconoscere i bisogni umani (Essenza della religione, I redazione, cit., pp. 309 e 311.). Sotto questo profilo Feuerbach esprime qui, come in molte altre occasioni, una nostalgia per l’antica saggezza pagana, che limitava i desideri all’ambito di ciò che è naturalmente possibile (Essenza della religione, § 55). La civiltà occidentale. Al giudizio ambivalente circa il significato «progressivo» del cristianesimo fa riscontro un venir meno dell’enfasi che la filosofia hegeliana aveva posto sulla civiltà occidentale. La superiorità dell’uomo della società europea occidentale è messa in discussione. In Oriente la natura non viene dimenticata a favore dell’uomo. Così la religione e la civiltà indiana non rappresentano uno stadio arretrato di sviluppo, ma piut-tosto un modo di vita basato su una diversa tavola di valori che occorre «integrare» al dinamismo civilizzatore cristiano-occidentale (§ 38). Città e campagna. Il binomio occidentale-orientale va di pari passo con quello città campagna. Soltanto gli abitanti della città, conviene Feuerbach, fanno storia, ma a quale prezzo? Il filosofo, rimasto fedele al suo ritiro campagnolo per gran parte della propria vita, vede dipendere le azioni storiche dalla «vanità» e dalla forza dell’opinione che si sostituisce a quella della natura, e sembra auspicare un diverso equilibrio, che comporti una rivalorizzazione dei ritmi dimenticati della vita naturale (§ 38). È prendendo spunto da osservazioni di questo tenore che i fondatori del materialismo storico, hanno potuto osservare,

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riallacciandosi direttamente a Hegel, che per la natura Feuerbach aveva dimenticato la storia e la politica (Cfr. ad es. K. Marx-F. Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, V, Rorna 1972, pp. 24-25). Sentimento del limite e autonomia. La radice inestirpabile della religione si rivela così in ultima analisi il senso di dipendenza dalla natura, ovvero dall’insieme di circostanze che ci limitano. Questo sentimento fa tutt’uno con un sentimento di finitudine, col pensiero dei propri limiti e della propria mortalità (Essenza della religione. I redazione, pp. 175-177). Ma il sentimento di dipendenza non deve essere isolato da quello della propria autonomia, ovvero dalla soddisfazione del proprio «egoismo». La religione, intesa nella sua accezione ristretta, realizza già a suo modo questo ricongiungimento: se predica la negazione dell’egoismo umano, lo fa pur sempre per togliere questa negazione e dare all’egoismo l’appagamento, sia pure distorto e innaturale, della beatitudine (ivi, nota). Il valore dell’individuo. La particolare concezione ‘ecologica’ del rapporto uomo-natura che Feuerbach prospetta in questo saggio non comporta affatto nelle intenzioni dell’autore una diminuzione del valore dell’individuo. Il fatto che la natura abbia un’esistenza per così dire anteriore a ciò che si differenzia da essa non significa che essa gli sia superiore. Il processo evolutivo è un processo di progressiva individualizzazione che va dall’inferiore, ovvero dalla materia ingenerata e indeterminata, all’essere generato e individualizzato, composto di parti, più dipendente ma proprio perciò più vitale e ricco di bisogni (§§ 14, 19). La natura non deve

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valere – chiarisce l’autore nelle Lezioni – né troppo, come per il panteismo, né troppo poco, come per il teismo o il cristianesimo. «Come prestiamo alla nostra madre umana il rispetto che le tocca, senza dimenticare, allo scopo di onorarla, i limiti della sua individualità, della sua essenza femminile; come in rapporto alla madre umana non ci arrestiamo al punto di vista del bambino, ma ci poniamo al suo cospetto con libera coscienza da uomini, così non dobbiamo trattare la natura con gli occhi del bambino religioso, ma con quelli dell’uomo adulto e autocosciente» (Lezioni sull’essenza della religione, V). Un’etica eudemonistica. Nei tardi scritti di etica, Spiritualismo e materialismo specialmente in relazione alla libertà del volere (1866) e Etica e felicità (1868), il programma di una filosofia per l’uomo, annunciato molti anni prima nei Principi, si traduce nel disegno di una filosofia pratica capace di competere con quelle di Kant e Schopenhauer. Il nucleo centrale di quest’etica è costituito da un’idea a cui Feuerbach era pervenuto nello svolgimento della critica della religione: l’impulso a essere felici (Glückseligkeitstrieb), l’egoismo, l’amore di sé (Selbstliebe) non costituiscono solo il fondamento della fede, e dell’alienazione religiosa, bensì anche la condizione necessaria e inevitabile dell’esistenza dell’uomo, di ogni sforzo di incivilimento e della stessa moralità. Con questa riabilitazione del principio di felicità Feuerbach riprendeva motivi dell’etica classica, interessata maggiormente al problema della vera felicità che non a quello di stabilire sistemi di regole per un comportamento conforme al dovere, e si poneva in consapevole contrasto

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con Kant, che aveva tentato di espungere dalla morale ogni eudemonismo. Stirner: l’unico e la profanazione del sacro La vita. Johann Caspar Schmidt, noto con lo pseudonimo di Max Stirner (che allude alla sua grande fronte, in tedesco Stirn) nacque il 25 Ottobre del 1806 a Bayreuth, in Baviera, in una famiglia della piccola borghesia protestante. Non conobbe il padre, abile intagliatore di flauti, venuto a mancare sei mesi dopo la sua nascita. Compiuti a Bayreuth gli studi ginnasiali, si iscrisse all’Università di Berlino frequentando tra l’altro corsi di Hegel e di Schleiermacher. Ma fu costretto a interrompere gli studi per assistere la madre seriamente malata. Trovò impiego a Berlino come insegnante nella scuola privata di Madame Gropius per fanciulle di famiglie agiate: ed è probabile che il suo interesse pedagogico maturasse in queste circostanze. Nel 1841 aderì, nella stessa città, al circolo dei “Liberi” (Freien), che raggruppava in una birreria parecchi intellettuali radicali del tempo, tra cui i fratelli Bauer, Engels, che immortalò il gruppo in una caricatura, e anche Marx, che però Stirner non ebbe modo di conoscere. Alla fine del 1844, ma con data 1845, l’editore Wigand di Lipsia pubblicò in una tiratura di mille copie L’unico e la sua proprietà, primo e unico libro di Stirner. L’opera è dedicata alla seconda moglie dell'autore, Marie Dahnhardt, che dopo breve tempo si separò dal marito. Le recensioni, presto apparse, di Feuerbach e di Moses Hess, provocarono una replica da parte di Stirner, I recensori di Stirner, assai utile per chiarire il senso delle

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tesi contenute nell’Unico. Rimasto nella più completa solitudine, punto da un insetto velenoso, Stirner morì il 25 giugno del 1856, a 49 anni, oppresso dai debiti. Poche persone accompagnarono il suo feretro, tra le quali Bruno Bauer, il più affezionato dei suoi amici. La sua opera, dopo aver dato luogo a un vivace dibattito tra i contemporanei, fu presto dimenticata, e riscoperta solo negli ultimi decenni dell’Ottocento e all’inizio del Novecento, quando divenne una fonte di ispirazione per pensatori ed agitatori anarchici. Una notorietà (negativa) derivò a Stirner anche dalla polemica condotta nei suoi confronti da Marx ed Engels nell’Ideologia tedesca. Dall’uomo all’io. Se il senso complessivo dell’opera svolta da Feuerbach può essere riposto, come abbiamo visto, nel riscatto dell’essenza umana dall’alienazione religiosa, L’unico e la sua proprietà di Max Stirner (1806-1856) mette in questione la stessa essenza umana. La critica della religione si amplia in una più ampia critica di ogni valore o istituzione che a qualsiasi titolo siano considerarati «sacri» e impediscano così ai singoli di affermarsi. L’uomo, proclama Stirner, senza di me è perduto. L’«io umano», che Feuerbach ha ritrovato al fondo della religione, deve essere ulteriormente ricondotto all’«io». All’umanesimo si può muovere la stessa obbiezione che Feuerbach aveva rivolto alla fede cristiana in Dio: di tenere divisi un io essenziale (l’essenza umana) e un io inessenziale (l’individuo empirico), che viene subordinato al primo. Nell’umanesimo permale la distinzione di un io essenziale e uno inessenziale. La liberazione in nome

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dell’uomo prospettata da Feuerbach è restata puramente teologica. Ora che è calato nell’aldiqua, nella forma dell’essenza umana, anzi il contenuto del cristianesimo ha la possibilità di affermarsi veramente. Se l’essere supremo non coincide con la realtà individuale – sostiene Stirner – è assolutamente la stessa cosa vederlo fuori dell’uomo e considerarlo dio, oppure trovarlo nell’uomo e chiamarlo «essenza dell’uomo». «Non cambia niente se io penso l’essenza in dio o fuori di me» (L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979, p. 44 s.). Nominalismo. Il genere, per Stirner, che in questo si riconnette alla tradizione del nominalismo, è solo qualcosa di pensato, e nulla per se stesso. La polemica con Feuerbach gli fornisce l’occasione per dare una caratterizzazione di quello che chiama l’«unico». Esso si costituisce nell’elevarsi oltre se stesso e non nell’adempiere un qualsivoglia ideale. «Essere un uomo non significa adempiere l’ideale dell’uomo, ma invece rappresentare se stesso come singolo» (p. 192). In questo senso l’unico differisce dall’individuo, che è un semplice esemplare del genere e aspira a realizzarlo. Di lui non si può dare una definizione, che esprimerebbe solo che cosa egli sia, e non chi sia. «Il giudizio ‘tu sei unico’ non significa altro che ‘tu sei tu’». A rigore quindi esso è «impensabile e indicibile» (I recensori di Stirner, in Scritti minori, Patron, Bologna 1983, p. 107 s.). L’io è norma a se stesso. L’io è dunque a se stesso il proprio genere e la propria norma. Se anche non dovesse fare molto di se stesso, «questo poco è tutto ed è meglio di ciò che potrei lasciar fare di me dal potere degli altri, dal condizionamento della morale, della religione, delle leggi, dello Stato ecc.». Meglio un ribelle maleducato, aggiunge

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Stirner, che un docile saputello. Il primo ha infatti ancora «la possibilità di formarsi secondo la sua volontà»; l’altro invece «viene determinato dal genere, dalle necessità generali, esse sono per lui la legge, in base ad esse egli viene destinato a questo o a quello; e infatti che cos’altro è per lui il genere se non la sua destinazione (Bestimmung), la sua missione (Beruf)?» (L’unico, p. 192 s.). L’egoismo cosciente. L’egoismo cosciente che Stirner predica non è affatto una condizione originaria, ma piuttosto il risultato di un non facile processo di formazione, che deve fare i conti con una cultura dell’abnegazione, che ha governato le coscienze per molti secoli. È vero che fin dalle origini «ogni cosa tiene a se stessa» e «si scontra con le altre», rendendo inevitabile la «lotta per l’autoaffermazione», ma questo movimento avviene sullo sfondo del «groviglio» delle cose del mondo, in cui si trova gettata a caso e da cui tenta di emergere per conquistare la propria identità (p. 19). La società come stato di natura. Il groviglio da cui l’essere umano progressivamente si districa è la società, che costituisce il suo «stato di natura». La società e non l’isolamento è lo stato originario dell’uomo. «La nostra esistenza comincia col più stretto dei legami, giacché noi, prima di respirare, viviamo nel corpo di nostra madre; aperti gli occhi al mondo, eccoci nuovamente attaccati al seno di un essere umano» (p. 320). Lo sviluppo dell’uomo segna un graduale distacco da questi legami e il dissolvimento della società originaria. La madre deve andarsi a riprendere il figlio per strada, dove ha stabilito rapporti con i suoi pari (ivi). L’uomo adulto di Stirner rinuncia con realismo, come quello hegeliano, a ogni

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idealità giovanile, a una sterile contrapposizione alla realtà esistente in nome di ideali, ma diversamente da quello, invece di adattarsi al corso del mondo, riesce a riferire tutto a se stesso e al proprio interesse» (p. 23). L’interesse. Provocato dai suoi critici, che lamentavano il carattere ristretto e puramente utilitaristico di una simile prospettiva, Stirner chiarì che il proprio concetto di interesse doveva essere interpretato nel senso di «ciò che è interessante» per il soggetto e poteva includere persino momenti di «dimenticanza di se stessi» (I recensori di Stirner, p. 113), cioè di abnegazione disinteressata. A condizione che si abbia chiaro che anche le forme più generose di altruismo sono forme in cui l’io cerca la propria realizzazione e soddisfazione. Egoismo ricco e povero. Alla opposizione tradizionale tra egoismo e altruismo Stirner propone di sostituire la distin-zione, interna all’egoismo, comunque inevitabile, tra ricchezza e povertà di temperamento. «Chi ama un uomo, per questo amore è più ricco di un altro che non ama nessuno: ma con ciò non abbiamo affatto una contrap-posizione di egoismo e non-egoismo, perché l’uno e l’altro seguono soltanto il loro interesse» (ivi, p. 130). Il liberalismo e la legge. L’unicismo di Stirner presenta qualche punto di contatto con l’individualismo liberale, ma sarebbe errato considerarlo, come fecero i critici socialisti recensendo l’opera, una sorta di proiezione ideologica dei comportamenti ‘egoisti’ e competitivi della società borghese. In una sezione dell’Unico dedicata all’analisi delle diverse figure del liberalismo l’autore chiarisce l’originalità della propria posizione. Il passaggio dal dominio personale al dominio impersonale della ragione,

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che si è compiuto nella stagione dell’illuminismo e che si è espresso nella rivendicazione di diritti e libertà individuali da parte dei movimenti della prima metà dell’Ottocento, rappresenta agli occhi di Stirner un indubbio progresso, ma ripristina una nuova forma di soggezione, da parte appunto della ragione identificata con la legge. Nel dominio interiore, la stessa moralità kantiana, autonoma e autodeterminata, appartiene a questo mondo ideale, in cui i rapporti di dipendenza non sono aboliti ma solo trasformati. «Chi ha intenzione di essere perfettamente ligio alla legge è il più morale di tutti» (L’unico, p. 60). La concorrenza. Sul piano delle relazioni sociali ed economiche, Stirner pensa che la concorrenza non coincida affatto con il principio dell’egoismo, per lo meno quando questo sia inteso nella sua radicalità e non come egoismo involontario e inconsapevole. Essa vuole assicurare paradossalmente un vincolo sociale attraverso l’isolamento dei concorrenti. Con lo sguardo rivolto alla teoria smithiana della «mano invisibile» Stirner scrive: «la concorrenza è stata introdotta perché vi si vide una salvezza per tutti, ci si trovò d’accordo su di essa, la si sperimentò in comune. Essa, che è isolamento e divisione, è essa stessa un prodotto dell’unione… per essa ci si trovò non soltanto isolati, ma pure collegati… come in una battuta di caccia tutti i cacciatori possono trovare conveniente per il loro scopo spargersi nel bosco e cacciare isolati» (I recensori di Stirner, p. 128). Libertà e individualità. Per chiarire la differenza tra il liberalismo e il proprio unicismo Stirner ricorre alle due categorie di «libertà» (Freiheit) e «individualità» (Eigen-heit). I movimenti di liberazione non riguardano il singolo,

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hanno per soggetto entità collettive, quali il popolo e la nazione. Essi mirano a sbarazzarsi progressivamente di limiti. Ma questo processo è necessariamente senza fine, sul piano della lotta per la libertà ci si deve adattare per forza a risultati parziali. La limitazione della libertà è inevitabile in ogni forma associativa, anche in quelle forme di «unioni» volontarie che Stirner contrappone alle associazioni di tipo costrittivo che si sono finora storicamente succedute. Anche in queste unioni non è possibile evitare qualche limitazione della libertà. Ciò che in esse può trovare invece sempre esplicazione è la individualità propria. La ribellione come espressione di autenticità. Questa è descritta da Stirner attraverso la metafora dell’andare per la propria strada, mantenendo sempre un atteggiamento «ribelle» rispetto all’ordine esistente. La «ribellione« (Empörung) è la parola d’ordine che Stirner oppone alla pretesa della «rivoluzione» di trasformare le istituzioni, con risultati spesso precari. Piuttosto egli è convinto che una trasformazione effettiva della realtà esterna possa essere conseguenza del mantenimento di questa tensione ‘ribelle’ – un motivo questo che sarà apprezzato dai pensatori anarchici e ripreso da Albert Camus nel L’homme revolté (1951 L’identità personale moderna. La dialettica tra individualità e liberazione non viene approfondita da Stirner in modo del tutto convincente. È difficile infatti pensare a una individualità che non si esprima nello sforzo di sbarazzarsi da vincoli. Tuttavia la supposizione di un nucleo autentico dell’io che funge da centro coordinatore di ogni esperienza rispecchia una situazione effettivamente

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riscontrabile nelle società moderne, nelle quali un’identità personale sempre più pronunciata ha cessato di essere attribuita socialmente ed è in misura crescente oggetto di una costruzione o di un progetto. Il socialismo. Per risolvere le contraddizioni del liberalismo politico ed economico, che aspira a un regime di concorrenza ma non riesce a stabilirlo davvero per il sussistere di posizioni privilegiate, subentra il socialismo, seconda figura, «sociale», del liberalismo. Esso è rappresentato, di nuovo, nel suo rapporto di opposizione all’affermazione di sé («egoismo»). Se nel liberalismo politico veniva sottratta ai sin goli, in nome della legge, la capacità di comando, ora nel socialismo, per evitare disuguaglianze, ad essi è sottratto l’avere, assegnato a un unico soggetto incorporeo che è la società. Di fronte ad essa gli individui non sono altro che «straccioni» (L’unico, pp. 124-126). L’immagine che Stirner presenta del socialismo sono tratte, non senza qualche tendenziosità, dalle ricostruzioni di esso che fino al 1844 erano stati messe alla portata del pubblico tedesco: i Ventun fogli dalla Svizzera, dove era comparso un saggio di Moses Hess, Socialismo e comunismo, le Garanzie dell’armonia e della libertà di Weitling e alcuni scritti di Proudhon. La società dei lavoratori. La società comunista è presentata come una società del lavoro o di lavoratori che trovano nelle prestazioni utili alla collettività la base della loro dignità ed uguaglianza (p. 129). L’affermazione del principio del lavoro rappresenta senza dubbio un progresso rispetto all’insicurezza del regime della concorrenza. E tuttavia l’attribuzione agli uomini della qualifica essenziale di lavoratori fa sì che essi non possano

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raggiungere una coscienza di sé, o della propria singolarità, e siano sottomessi a una nuova autorità che subentra allo Stato: quella appunto di una società di lavoratori. Incombe ancora il «dovere sociale» rispetto a una società verso la quale ci si sente in obbligo o in debito, in quanto si suppone che sia essa a dispensare i beni di cui abbiamo bisogno. La società come strumento. Proprio quest’immagine della società fornisce a Stirner lo spunto per formularne un diverso concetto, di tipo utilitaristico, che esclude ogni richiesta sacrificale ai suoi membri: «La società non è un io che possa dare, ma uno strumento da cui possiamo trarre vantaggio – non abbiamo doveri sociali ma esclusivamente interessi che la società deve favorire – non siamo tenuti a nessun sacrificio per la società, ma se sacrifichiamo qualcosa lo sacrifichiamo a noi stessi» (p. 132). L’autentità dei rapporti e le unioni. La preoccupazione per la salvaguardia del singolo dall’oppressione delle comunità non esclude però una sollecitudine per una forma di autentica socialità. Stirner infatti aggiunge: «solo se siete unici, potete rapportarvi l’un l’altro per quello che siete» (p. 143). Come di consueto accade nel suo modo di argomentare, ora che ha stabilito un nuovo principio, egli tenta di mostrare che esso non comporta l’annullamento di tutto ciò che la civiltà ha finora prodotto: «Che cosa dovrebbe succedere? Forse che la vita sociale deve cessare ed ogni forma di socievolezza, di affratellamento, in-somma tutto ciò che è stato creato dal principio dell’a-more, dal principio sociale, deve scomparire?» (p. 145). La Verein (lega, unione) è la forma sociale contrattuale, di

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tipo volontario e non costrittivo, capace di salvaguardare l’indipendenza dei soggetti «unici» che la costituiscono, pronti a riprendersi, quando gli obiettivi comuni siano stati raggiunti, la propria libertà d’azione. Essa consente di conseguire obbiettivi determinati, in cui gli unici interagiscono per conseguirli più efficacemente, senza incorrere nella rigidità che sono proprie delle altre forme associative, quali lo «Stato», anche nella sua forma liberale, o la «società» socialista. Eliminazione e non trasfigurazione del sacro. La presa di distanza dal liberalismo politico e sociale non nasce nel caso di Stirner da un’adesione all’altra grande tradizione individualistica che percorre il secolo XIX. L’individualismo religioso di Schleiermacher e dei romantici gli è non meno estraneo. In questa tradizione si assiste a una trasfigurazione del sacro, perché ogni cosa finita è assunta come espressione dell’infinito. Per Stirner invece l’appropriazione del sacro suppone che esso venga «divorato» e così eliminato, una radicale profanazione da compiere con «impudenza», l’abbandono di ogni rispetto del sacro (p. 106). Qualunque pretesa di oggettività del sacro deve essere rigettata attraverso la coscienza che «nessuna cosa è sacra in virtù di se stessa ma soltanto perché io la dichiaro sacra» (p. 80). Contro l’amore romantico. Un segnale di quale sia l’atteggiamento di Stirner di fronte al romanticismo, con la sua aura religiosa, si può cogliere anche nelle sue riflessioni sull’amore. La dipendenza dall’oggetto, propria dell’amore romantico, l’impotenza rispetto alla sua estraneità, è definita da Stirner come «possessione amorosa». Questo amore cessa di essere un sentimento

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naturale: «interviene una necessità morale che fa sì che l’oggetto mi divenga sacro». Allora non è più l’oggetto a esistere per me, ma sono io a esistere per esso. Un simile sentimento costrittivo inibisce la disponibilità a provare tutte le possibili emozioni. Un orizzonte di piena immanenza. Gli individui di Stirner non si muovono all’interno di alcuna realtà infinita che li sostenga, la quale rappresenterebbe un nuovo «ordine sacro», ma diventano rigorosamente e orgogliosamente padroni della propria azione, senza alcuna garanzia di successo. I limiti spazio-temporali dell’esistenza finita vengono apertamente riconosciuti. In questo l’autore dell’Unico non fa che trarre le ultime conseguenze del riconoscimento della mondanità operato da Feuerbach. La sua posizione rappresenta davvero l’inizio di un nuovo modo di rapportarsi al problema dell’individualità, in un orizzonte di piena immanenza. Guida alla lettura

1. Come e su quali temi si confrontarono gli esponenti della destra e della sinistra hegeliana?

2. Quali furono gli aspetti della filosofia hegeliana che Feuerbach sottopose a critica?

3. Che cosa si propone Feuerbach nell’Essenza del cristianesimo?

4. Quali sono per Feuerbach le potenze costitutive dell’essenza umana?

5. Qual è il ruolo del sentimento in questo quadro? 6. Quale relazione viene stabilita tra individuo e

genere?

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7. Quale nuovo punto di vista viene introdotto da Feuerbhach nell’Essenza della religione?

8. Quale caratteristiche ha la natura che Feuerbach pone a fondamento della religione?

9. Traccia un breve schizzo di come si compie l’evoluzione della religione secondo Feuerbach.

10. Quale valutazione complessiva dà Feuerbach del cristianesimo e della civiltà occidentale?

11. Quale obbiezione muove Stirner all’umanesimo feuerbachiano?

12. In che cosa l’egoismo cosciente di Stirner differisce da quello ordinario?

13. Quale opinione esprime Stirner circa il liberalismo e la concorrenza?

14. Quali forme associative vengono riconosciute da Stirner? E quali caratteristiche ha la sua «unione»?

15. Quale interpretazione dà Stirner del socialismo? 16. In che senso la concezione sociale di Stirner può

dirsi utilitaristica? 17. Come si pone Stirner rispetto alla trasfigurazione

del sacro operata dai romantici? Guida alla comprensione

1. Illustra il rapporto tra natura e storia in Feuerbach.

2. Come viene tracciata da Feuerbach la distinzione tra sentimenti soprannaturalistici e sentimenti naturali?

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3. Quali caratteri ha il nuovo concetto di ragione introdotto da Feuerbach?

4. Come si intrecciano per Feuerbach il sentimento del limite e quello della propria autonomia?

5. In che cosa consiste il nominalismo di Stirner? 6. Quale differenza pone Stirner tra libertà e

individualità? 7. Qual è per Stirner la condizione di un rapporto

autentico? Oltre i testi Metti a confronto l’immagine della ragione che puoi ricavare dalle pagine dedicate a Hegel con quella introdotta da Feuerbach. Metti in relazione la concezione del sentimento di Schleiermacher con quella presente nell’Essenza del cristianesimo.

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TESTO Ludwig Feuerbach, L’essenza dell’uomo in generale, in L’essenza del cristianesimo, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 25-35.

L’infinita potenza del genere

Le pagine introduttive dell’Essenza del cristianesimo indicano come differenza essenziale tra l’uomo e l’animale la coscienza intesa in senso stretto come coscienza dell’infinito o coscienza dei generi. Ma la coscienza dell’infinito non è altro che la coscienza che l’uomo ha della propria essenza. Nel seguito del brano Feuerbach esplora il contenuto di tale essenza, e lo ripone nella ragione, nella volontà e nel cuore, potenze che sono nell’uomo ma pure lo trascendono e dominano. Solo in rapporto a queste forze, di per sé infinite, l’individuo si apprende come limitato. Tra esse spicca il sentimento, che è stato definito «organo del divino», ma che ha un valore infinito in se stesso, indipendentemente dall’oggetto a cui è rivolto.

La religione si fonda sulla differenza essenziale dell’uomo dall’animale – gli animali non hanno religione. […]

Qual è però questa differenza essenziale dell’uomo dall’animale? La risposta più semplice e universale, ma anche più popolare a questo interrogativo è: la coscienza – tuttavia la coscienza in senso stretto; infatti una coscienza in quanto sentimento di sé, facoltà sensibile di distinzione, di percezione delle cose esteriori secondo determinate caratteristiche accessibili ai sensi, una tale coscienza non può essere contestata all’animale. Si ha coscienza in senso stretto solo quando un ente ha per oggetto il suo genere, la sua essenzialità. L’animale ha sì per oggetto se stesso come individuo - perciò ha sentimento di sé –, ma non come genere – perciò gli manca quella coscienza che deriva il suo nome da scienza. Dov’è la coscienza, c’è facoltà di scienza. La scienza è la coscienza dei generi. Nella vita trattiamo con individui, nella scienza con generi. Ma un ente che ha per oggetto il suo proprio genere, la sua essenzialità, può rendere suo oggetto le altre cose o enti secondo la propria natura essenziale.

[…] La religione in generale, in quanto s’identifica con l’essenza dell’uomo, s’identifica con I’autocoscienza> con la coscienza che ha 1’uomo della propria essenza. Tuttavia la religione, in termini universali, è coscienza dell’infinito; dunque è e non può essere altro se non 1a coscienza che ha l’uomo della sua essenza, e questa non finita, limitata, ma infinita. Un’essenza davvero finita non

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ha neppure il più remoto presentimento, per non dire coscienza, di un’essenza infinita, infatti il limite dell’essenza è anche il limite della coscienza. […] La coscienza in senso stretto o proprio e la coscienza dell’infinito si identificano. Una coscienza limitata non è coscienza; la coscienza è essenzialmente di natura infinita,. La coscienza dell’infinito non è se non la coscienza dell’infinità della coscienza. In altri termini: nella coscienza dell’infinito l’ente cosciente ha come oggetto solo l’infinità della sua propria essenza.

Ma che cos’è dunque l’essenza dell’uomo, di cui egli ha autocoscienza, o che cosa costituisce il genere, l’umanità vera e propria nell’uomo? La ragione, la volontà, il cuore. A un uomo completo spetta la facoltà del pensiero, la facoltà della volontà, la facoltà del cuore. La facoltà del pensiero è la luce della conoscenza, la facoltà della volontà l’energia del carattere, la facoltà del cuore l’amore. Ragione, amore, facoltà di volere sono perfezioni, le perfezioni dell’essenza umana, anzi, sono assolute perfezioni essenziali. […] La Trinità divina nell’uorno e al di sopra dell’uomo individuale è l’unità di ragione, amore, volontà. La ragione (nelle sue forme sensibili: facoltà di immaginazione, fantasia, rappresentazione, opinione), la volontà, l’amore o il cuore non sono facoltà che l’uomo possieda - infatti senza di loro non sarebbe nulla, egli è ciò che è solo per mezzo loro; ma in quanto facoltà, elementi o principi che costituiscono la sua essenza, un’essenza che egli né possiede, né fa, sono forze che lo animano, determinano, dominano – forze divine, assolute, cui non può opporre resistenza.

[…] Ogni limitazione della ragione o in generale dell’essenza umana si fonda su un equivoco, su un errore. Certamente l’individuo umano può, anzi deve percepirsi e riconoscersi come limitato – in questo consiste la sua differenza dall’animale; ma egli può prender coscienza dei suoi limiti, della sua finitezza solo perché gli è oggetto la perfezione, l’infinità del genere, sia come oggetto del sentimento, sia come oggetto della coscienza morale o pensante. Se tuttavia prende i suoi limiti per i limiti del genere, ciò si fonda sull’equivoco di identificare immediatamente se stesso con il genere, un equivoco connesso nel modo più stretto all’indolenza, all’inerzia, alla vanità e all’egoismo dell’individuo. Infatti un limite che conosco semplicemente come mio limite mi umilia, mi confonde e mi inquieta. Per sbarazzarmi di questo senso di vergogna, di questa inquietudine, trasformo i limiti della mia individualità nei limiti dell’essenza umana.

[…] quando il sentimento diventa organo dell’infinito, essenza soggettiva della religione, l’oggetto della medesima perde il suo valore obiettivo. Così da quando il sentimento è diventato l’elemento principale della religione, il contenuto della fede cristiana, un tempo così sacro, è diventato indifferente. Se pure nell’ottica del sentimento si continua ad accordare valore all’oggetto, questo tuttavia lo mantiene solo grazie al sentimento. Se un altro oggetto suscitasse gli stessi sentimenti,

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sarebbe altrettanto benvenuto. L’oggetto del sentimento diventa però indifferente appunto perché, una volta espresso il sentimento come l’essenza soggettiva della religione, ne è anche di fatto l’essenza oggettiva, benché non venga espresso come tale, almeno direttamente. Direttamente, dico; infatti, a ben guardare, lo si ammette indirettamente giacché, una volta considerato il sentimento come organo del divino, si dichiara come religioso il sentimento in quanto tale, ogni sentimento in quanto sentimento, si elimina e deve essere eliminata la distinzione fra sentimenti specificamente religiosi e irreligiosi o almeno non religiosi.

Guida alla lettura

1. Qual è la differenza essenziale dell’uomo dall’animale? 2. Qual è l’oggetto proprio della coscienza? 3. Qual è il contenuto dell’essenza umana? 4. In quale rapporto si trova l’individuo con l’infinità del genere? 5. Quali effetti derivano dalla proclamazione della infinità del senti-

mento? Guida alla comprensione 1. Perché a giudizio di Feuerbach si deve supporre che l’essenza

umana sia infinita? 2. Perché l’individuo prende i suoi limiti per limiti del genere? 3. Perché il contenuto della fede cristiana, secondo Feuerbach, è

diventato indifferente? Oltre il testo Quali conseguenze ti pare possa avere sul piano delle credenze e dei costumi la proclamazione della infinità dell’essenza umana? Per quali motivi pensi che Feuerbach abbia introdotto il sentimento di dipendenza dalla natura accanto all’autocoscienza che l’uomo ha della propria essenza? TESTO Max Stirner, L’unico e la sua proprietà, Adelphi, Milano 1979, pp. 19-24.

Una vita d’uomo Il «groviglio» originario, di cui si parla in questa sezione de L’unico

dedicata al processo di maturazione che avviene in ciascuna vita individuale, è ciò che altrove Stirner chiama «stato di natura». Si tratta di

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una condizione, biologica e sociale, in cui i singoli mancano ancora di una loro consistenza e appartengono a una totalità. Da questo stato si esce attraverso un conflitto, che per Stirner ha dunque un significato evolutivo. L’opposizione genitori-figli ne è una prima manifestazione. Il bambino è tenuto a freno da principio solo da potenze esteriori. È solo il giovane ad obbedire a ragioni e alla voce della coscienza. Ma lo spirito, che appare in lui nella forma di ideali, si irrigidisce fino ad assumere la veste di uno spirito perfetto, che risiede in un aldi là, trascendendo il giovane e svuotandolo del suo valore proprio. Nell’età adulta questo processo di alienazione si rovescia nella persuasione che non si debbano perseguire ideali in opposizione a un mondo reale supposto privo di valore, ma si debba invece seguire il proprio interesse e affidarsi al godimento di se stessi.

Dal momento in cui apre gli occhi alla luce, l’uomo, trovandosi buttato a caso

tra tutte le altre cose del mondo, cerca di trovare se stesso e di conquistare se stesso emergendo dal loro groviglio.

Ma tutto ciò che il bambino tocca si ribella alla sua stretta e afferma la propria esistenza.

Perciò la lotta per l’autoaffermazione è inevitabile, perché ogni cosa tiene a se stessa e nello stesso tempo si scontra continuamente con altre cose.

Vincere o soccombere: tra queste due possibilità oscilla il destino della lotta. Il vincitore diventa il padrone, il vinto il suddito: il primo esercita la sovranità e i «diritti del sovrano», il secondo adempie, rispettoso e riverente, i «doveri di suddito».

Ma entrambi rimangono nemici e restano sempre all’erta, attenti l’uno alle debolezze dall’altro, i figli a quelle dei genitori, i genitori a quelle dei figli (per esempio alla loro paura); o il bastone vince l’uomo o l’uomo il bastone.

[…] L’infanzia più bella passa senza che siamo costretti a batterci con la ragione. Non ci preoccupiamo affatto di essa, non ci lasciamo invischiare, non accettiamo ragione alcuna. Con la persuasione non si ottiene niente da noi, che siamo sordi di fronte ai buoni motivi, ai princlpi, ecc.; invece resistiamo difficilmente alle carezze, alle punizioni e simili.

Questa aspra lotta con la ragione comincia più tardi, dando inizio ad una nuova fase: nell’infanzia corriamo qua e là senza lambiccarci tanto il cervello.

Spirito si chiama il primo ritrovamento di sé, la prima sdivinizzazione del divino, cioè dell’inquietante, degli spettri, delle «potenze superiori». Ormai niente più fa impressione al nostro fresco sentimento di gioventù, alla nostra consapevolezza di noi stessi: il mondo viene spregiato, giacché noi gli siamo superiori, siamo spirito.

Soltanto adesso ci accorgiamo che fino ad ora non abbiamo affatto osservato il mondo con gli occhi dello spirito, ma l’abbiamo solo fissato attoniti.

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Noi esercitiamo le nostre prime forze contro le forze naturali. I genitori s’impongono a noi come una forza naturale; più tardi si tratta di abbandonare padre e madre e di considerare infranta ogni forza naturale. Essi sono superati. Per l’uomo razionale, cioè per 1’«uomo spirituale», non c’è famiglia come forza naturale: si manifesta un rifiuto dei genitori, fratelli, ecc. Se questi «rinascono» come forze spirituali, razionali, non sono assolutamente più ciò che erano prima.

[…] L’atteggiamento si è ribaltato completamente, il giovane assume un comportamento spirituale, mentre il fanciullo, non sentendosi ancora spirito, cresceva imparando meccanicamente. Il giovane cerca d’impadronirsi non delle cose, ma dei pensieri che si nascondono dietro le cose […] Se nell’infanzia bisognava superare la resistenza delle leggi del mondo, adesso ci si scontra, in tutto ciò che si ha davanti, con un’obiezione dello spirito, della ragione, della propria coscienza. «Questo è irragionevole, anticristiano, antipatriottico»: con queste obiezioni, o con altre simili, la voce della coscienza c’intimorisce e ci distoglie da ciò che avevamo in animo di fare. Ciò che noi adesso temiamo non è né la potenza delle Eumenidi vendicative, né la collera di Posidone, né Dio, per quanto egli veda anche le cose più recondite, né la verga del padre, bensì la – coscienza.

Noi «ci abbandoniamo ai nostri pensieri» e seguiamo i loro comandamenti così come prima seguivamo quelli dei genitori o degli uomini. Le nostre azioni si conformano ai nostri pensieri (idee, rappresentazioni, credenze), così come si conformavano, nell’infanzia, agli ordini dei genitori.

[…] Portare alla luce il pensiero puro, o diventare suoi seguaci, è la passione della gioventù, e tutte le figure luminose del mondo dei pensieri, come la verità, la libertà, la natura umana, l’uomo, ecc., illuminano ed esaltano l’anima del giovane.

Ma se lo spirito viene riconosciuto come la cosa essenziale, fa tuttavia una gran differenza se lo spirito è povero o ricco, e così si cerca di diventare ricchi di spirito: lo spirito tende a diffondersi per fondare il suo regno, un regno che non è di questo mondo, giacché questo mondo è stato appena superato. Così lo spirito anela a diventare tutto in tutto, ossia, sebbene io sia spirito, tuttavia non sono spirito perfetto e devo innanzitutto andare in cerca dello spirito perfetto.

A questo modo, però, io che mi ero appena trovato come spirito, mi riperdo subito, inchinandomi davanti allo spirito perfetto, in quanto spirito che non appartiene a me, ma a un aldilà, e sentendo la mia vuotezza.

[…] L’uomo adulto è diverso dal giovane, perché prende il mondo com’è, invece di rappresentarselo sempre nella peggior luce possibile e di volerlo migliorare, cioè modellare sul proprio ideale; nell’uomo adulto si consolida l’opinione che nel mondo bisogna seguire il proprio interesse, non i propri ideali.

Finché ci si conosce solo come spirito e si pone tutto il proprio valore nell’essere spirito (il giovane darà via facilmente la sua vita, quella «del corpo», per un nonnulla, per la più sciocca questioncella d’onore), si hanno soltanto pensieri, idee, che si spera di poter realizzare una volta trovato un cerchio d’azione; nel frattempo, quindi, si hanno soltanto ideali, idee o pensieri incompiuti.

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Soltanto quando abbiamo imparato ad amarci nel proprio corpo e a godere di noi stessi, del nostro corpo e della nostra vita (ma questa può accadere solo nell’età matura, nell’uomo adulto), solo allora si ha un interesse personale o egoistico, cioè un interesse non solo, mettiamo, del nostro spirito, ma invece un interesse alla soddisfazione totale di tutta la persona, un interesse personale. Confrontate un uomo e un giovane, per vedere se il primo vi appare più duro, meno generoso, più interessato. Ebbene, è per questo peggiore? Voi dite di no: è solo diventato più concreto o, come voi anche dite, più «pratico». La cosa principale, comunque, è che egli fa di se stesso il punto centrale assai più che non il giovane, il quale «si entusiasma» invece per altre cose, per esempio per Dio, per la patria, ecc.

Perciò l’uomo adulto manifesta un secondo ritrovamento di sé. Il giovane ha trovato se stesso come spirito e di nuovo si è perso nello spirito generale, lo spirito perfetto, lo Spirito Santo, l’uomo, l’umanità, in breve: in ogni ideale; l’uomo trova se stesso come spirito corporale.

Guida alla lettura

1. Come viene descritta la situazione originaria dell’essere uma-no?

2. Qual è la fase nella vita di un’individuo in cui appare lo «spirito»?

3. Il passaggio dagli ideali e gli interessi definisce l’età adulta. Danne una descrizione.

Guida alla comprensione

1. Dai un’esemplificazione di quali sono i valori che l’idealismo

del giovane contrappone alla realtà. 2. Quali sono le conseguenze della formazione dell’immagine di

uno spirito perfetto? Oltre il testo Prova ad accostare le osservazioni sulla lotta per la vita contenute in questo brano alla tematica hegeliana del rapporto schiavo-padrone. Quale differenza c’è tra il ‘realismo’ dell’età adulta che si ricava dalla descrizione stirneriana e l’adattamento alla realtà proposto da Hegel?

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