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Università di Firenze Facoltà di Lettere e Filosofia Corso di laurea in Filosofia Teoretica Modelli informatici e linguaggio metaforico. Di  Alessandro Geloso     Relatore: Marino Rosso Co-relatore: Alberto Peruzzi Contro-relatore: Alessandro Pagnini Anno 2000 1

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Università di Firenze

Facoltà di Lettere e FilosofiaCorso di laurea in Filosofia Teoretica

Modelli informatici e linguaggio metaforico.

Di Alessandro Geloso

    

Relatore: Marino Rosso

Co­relatore: Alberto Peruzzi

Contro­relatore: Alessandro Pagnini

Anno 2000

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Indice

Prefazione 4

Capitolo 1 Lakoff e la filosofia nella carne

6

1.1 La filosofia nella carne 6

1.2 L'inconscio cognitivo 8

1.3 Prototipi essenziali 9

1.4  I modelli di T. Regier, D. Bailey, S. Narayanan 11

1.5 La Teoria Concettuale delle Metafore di Lakoff 15

1.6 La Teoria delle Metafore Primitive di Grady 16

Capitolo2Il Connessionismo

22

3.1 Il cervello è un emulatore della realtà 22

3.2 Come apprende la rete 28

3.3 Pregi e difetti del connessionismo 33

Capitolo 3La Neurocomunicazione

41

3.1 Come trasporta il segnale la cellula neuronale 41

3.1.1 La struttura della membrana 46

3.1.2 La costante di spazio λ 46

3.1.3 La zona d’innesco 48

3.2 La trasmissione dell’informazione nei nodi delle reti PDP 51

3.3 Il confronto fra i due modelli (neurone e nodo) 54

3.3.1 Gli stimoli inibitori 54

3.3.2 Il caso della sommazione sinaptica 56

Capitolo 4La non computabilità e i sistemi aperti

58

4.1 La macchina di Turing non computabile 58

4.1.1 I problemi P e NP 59

4.2 I sistemi aperti  66

4.2.1 La logica fuzzy 66

4.3 Il teorema di Gödel come prova dell’esistenza di altre dimensioni 68

4.3.1 Entscheidungsproblem 68

4.3.2 Una porta su altre dimensioni 70

4.4 Il sistema nervoso come un flipper, il cervello come un’orchestra 73

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Capitolo 5La scuola di Palo Alto

78

5.1 Gli uomini e le idee di Palo Alto 78

5.2 La nozione di sistema 80

5.3 La Programmazione Neurolinguistica 83

5.4 Un nuovo modello 85

5.5 L'eleganza del modellamento 90

5.6 La sinestesi 94

Capitolo6Lakoff, una visione d'insieme

103

6.1 La mente è interamente fisica 103

6.2 Il pensiero è in gran parte inconscio 107

6.3 I concetti astratti sono per la maggior parte metaforici 108

6.4 Una macchina di Turing Universale sovra dimensionale 111

Bibliografia 115

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Prefazione

In  questa  tesi  abbiamo  cercato  di  affrontare  un  argomento  così  vasto,  come 

quello  del  linguaggio  metaforico,  focalizzando  l'accezione  che  né  dà  George  Lakoff 

nella sua ultima opera.

Con una decisa scelta di campo ci siamo occupati solo di quello che ci sembrava 

promettente ai fini di un'analisi obiettiva dell'argomento e di una nuova visione delle 

metafore, tralasciando altri approcci che, per quanto legittimi, ci avrebbero condotto 

in altre direzioni.

Sono stati tralasciati anche aspetti importanti della concezione in esame come 

il  contrasto  fra  Lakoff  e  Noam  Chomsky,  le  differenze  della  tradizione  cognitivista, 

vari  elementi  del  connessionismo,  così  come  il  legame  tra  il  connessionismo  e  il 

pensiero di Piaget (a cui si fa solo un breve accenno).

Tutto  questo  è  stato  il  risultato  di  scelte,  criticabili  forse,  ma  dirette  ad 

affrontare  un  argomento  con  una  visuale  di  più  ampio  respiro,  cercando  di  seguire 

una direzione ben definita e delimitata.

Le  tematiche  sviluppate  riguardano  la  possibilità  di  riprodurre  con  mezzi  e 

strumenti informatici la complessità di un linguaggio metaforico.

Per  far  questo  abbiamo  esposto  nel  primo  capitolo  l'argomento  così  come 

proposto da Lakoff e da Joe Grady, secondo gli studi della N.T.L. (Neural Theory of 

Language),  un  gruppo  di  ricerca  dell'International  Computer  Science  Institute 

all'Università di Berkeley in California (http://www.icsi.berkeley.edu/NTL/).

Questo  gruppo  di  lavoro  ha  elaborato  una  proposta  secondo  cui  il 

modellamento  neurale  con  reti  informatiche  è  una  prova  della  fisicità  della  mente, 

poiché  si  usa  lo  stesso  meccanismo  sia  per  la  creazione  dei  concetti  che  per  la 

simulazione di percezioni o di meccanismi motori.

Vorrei  sottolineare  come  in questa  tesi  si  ponga  in  evidenza  la  teoria dei diversi 

modelli  neurali  presentati  e  non  tanto  il  loro  effettivo  funzionamento  attraverso  un 

programma specifico.

Abbiamo esposto nel secondo capitolo il funzionamento delle reti informatiche 

e  in  particolare  i  modelli  connessionistici  (PDP)  di  Rumelhart  e  McClelland, 

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discutendo  quegli  aspetti  che  sono  problematici  per  qualsiasi  tipo  di  rete  così 

strutturata.

Il  connessionismo,  soprattutto  quello  delle  reti  PDP,  è  da  prendersi  come 

quadro generale; in realtà le tipologie delle reti sono varie, ma il nostro obiettivo non 

era  quello  di  fare  una  storia  dei  diversi  programmi  d'intelligenza  artificiale,  quanto 

quello di mettere alla prova il loro funzionamento per capire e contestualizzare le loro 

limitazioni.

Nel  capitolo  terzo abbiamo  invece  illustrato  come  funziona  la  trasmissione 

dell'informazione  a  livello  neurale,  paragonandola  con  l'informazione  trasportata 

nelle  reti  PDP  e  nel  quarto  capitolo  abbiamo  esposto  le  caratteristiche  funzionali 

della  rete  nervosa,  principalmente  la  sua  non  computabilità  e  una  sua  possibile 

simulazione da parte di un computer attraverso un modello matematico fuzzy che 

si prestasse alla produzione di metafore.

Questo  tentativo  è  da  intendersi  come  propositivo.  Il  suo  scopo  è 

principalmente  quello  di  mostrare  le  differenze  sostanziali  fra  una  rete  neurale 

naturale ed un'artificiale.

Nel  capitolo  quinto  abbiamo  ampliato  la  prospettiva  fuzzy  integrandola  con 

una  nuova  e  stimolante  teoria,  la  PNL,  che  dà,  a  nostro  avviso,  una  più  adeguata 

visione di quello che Lakoff chiama il “pensare metaforico”.

La motivazione principale per  cui  abbiamo  scelto questa  teoria e non altre, è 

perché  oltre  ad  essere  relativamente  poco  indagata,  sembra  capace  di  notevoli 

applicazioni pratiche. 

Nell'ultimo capitolo riprendiamo la teoria concettuale delle metafore di Lakoff e 

Grady  rivisitandola  alla  luce  delle  considerazioni  fatte,  non  tanto  per  trarne  delle 

conclusioni categoriche, quanto per mostrare come le intuizioni di Lakoff, della PNL, e 

dell'ultimo connessionismo convergano tutte in un quadro teorico più generale, che si 

apre a nuovi studi  della mente.

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Capitolo 1Lakoff e la filosofia nella carne

“ Siamo esseri neurali, i nostri cervelli ricevono input dal resto del corpo.I concetti che usiamo per pensare sono formati dalla struttura 

e dal funzionamento del nostro corpo.Possiamo pensare solo quello che ci permette il nostro cervello fisico.”

George Lakoff 

1.1 La filosofia nella carne

Negli ultimi trent'anni gli studi sul cervello umano e sulla sua fisiologia hanno 

portato  alla  luce  nuove  ed  importanti  scoperte,  secondo  le  quali  sembra  prendere 

piede  una  prospettiva  diversa  di  indagine  della  cognizione  umana.  Questa  nuova 

prospettiva  è  ancora  più  evidente  quando  c'interessiamo  al  linguaggio.  Nella 

tradizione più recente si sono contrapposte due idee del linguaggio: come formato da 

precise regole grammaticali (la “grammatica generativa” di Chomsky) o come formato 

da precise regole semantiche (la “semantica generativa” di Lakoff).

Queste posizioni contrastanti non sono più in contraddizione come le ritengono 

i  loro  autori, ma  diventano  due  aspetti  coesistenti  del  linguaggio.  Esamineremo nel 

presente lavoro di tesi come ciò sia possibile, mostrando come le ultime riflessioni di 

Lakoff sul  linguaggio metaforico coincidano con  la  teoria della PNL           (un metodo 

basato sulla grammatica generativa chomskiana), attraverso  lo  sviluppo delle attuali 

interpretazioni cognitive.

George Lakoff, dal 1972 professore di Linguistica all'Università di California a 

Berkeley,  rappresenta  ad  oggi  uno  dei  più  interessanti  studiosi  di  questa  nuova 

prospettiva delle scienze cognitive. L'indagine di Lakoff si occupa principalmente del 

linguaggio, di come questo possa avere origine dall'uomo e di come  la  sua struttura 

fisica implichi delle funzioni superiori come pensare, fare associazioni d'idee, costruire 

modelli. 

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Questi studi mostrano come si possa passare da un insieme di neuroni eccitati da 

percezioni  esterne,  alla  formazione  di  parole  e  di  come  queste  si  combinino  con  senso 

nelle frasi di un discorso. Per far questo Lakoff e i suoi collaboratori (in seguito Lakoff 

&  C.)  hanno  delimitato  il  loro  campo  d'indagine,  considerando  l'uomo  come  un 

sistema  che percepisce  il mondo  fisico  con  i  suoi  organi  di  senso,  che  organizza  ed 

elabora  l'informazione  nel  proprio  sistema  nervoso  che  agisce  sul  mondo  fisico 

attraverso il corpo.

Tale delimitazione di campo fa sì che il rapporto funzionale tra i vari neuroni 

nell'uomo, la fisiologia del sistema nervoso, assuma il ruolo particolarmente rilevante 

in questi studi. 

Lakoff e Johnson (1999), nel loro ultimo libro Philosophy in the Flesh, mostrano 

come  si  possa  passare  teoricamente  dall'impulso  neurale  alle  parole  ed  ai  concetti, 

ponendosi alcune domande: come può  il cervello  fisico  funzionare come una mente? Il 

nostro  cervello  è  formato  da  enormi  complessi  e  altamente  strutturati  network  di 

neuroni,  come  fa  questa  struttura  intricata  a  creare  i  concetti?  Esattamente  quali 

neuroni  servono  per  fare  ciò  e  perché?  Come  può  il  sistema  neurale  utilizzare  nel 

linguaggio i concetti?

I  tentativi  di  rispondere  a  queste  domande  formano  il  lavoro  della  N.T.L. 

(Neural  Theory  of  Language),  un  gruppo  di  ricerca  dell'International  Computer 

Science  Institute all'Università di Bekerley  in California  in cui collaborano dalla  fine 

degli  anni  '80  diversi  ricercatori,  guidati  da  Jerome  Feldman,  Lokendra  Shastri  e 

Lakoff.

Il  gruppo  N.T.L.  segue  l'idea  di  Feldman  di  creare  una  struttura 

connessionistica  mentale  per  le  funzioni  altamente  specializzate  del  cervello, 

attraverso  una  simulazione  al  computer  del  funzionamento  dei  neuroni.  L'impresa 

centrale del gruppo è stata e continua ad essere tutt'oggi quella di provare la natura 

fisica dei modelli neurali, specialmente l'acquisizione e l'uso del linguaggio secondo la 

“grammatica cognitiva”; il connessionismo, cioè l'elaborazione di modelli basati su reti 

neurali,  diventa  allora  il  collegamento  centrale  fra  struttura  fisica,  linguaggio  e 

pensiero.

La finalità di queste ricerche è di comprendere come sia possibile il funzionamento 

del  cervello  e  non  tanto  quali  sono  le  strutture  nervose  adibite  a  tale  funzionamento, 

perché  è  importante  innanzi  tutto  valutare  la  possibilità  che  si  possa  passare  da  una 

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funzione di basso livello come una percezione senso­motoria ad una d'alto livello come la 

formazione  di  parole,  concetti  e  in  generale  del  linguaggio.  Il  cambiamento  di 

prospettiva che questo gruppo ha evidenziato con il suo lavoro, è riassunto da Lakoff 

nelle seguenti affermazioni:

La mente è interamente fisica.

Il pensiero è in gran parte inconscio.

I concetti astratti sono per la maggior parte metaforici.

Queste  tre  asserzioni  sono  destinate  secondo  l'autore  a  modificare 

notevolmente  la  visione  dell'uomo  e  della  realtà  che  questo  percepisce  e  di 

conseguenza la stessa ragione viene pensata come “incarnata” e resa fisica nel senso 

che le tesi seguenti cercheranno di analizzare:

- La ragione non è più incorporea come una lunga tradizione ha ritenuto, ma deriva dalla 

natura  e  dalla  fisica  del  nostro  cervello;  gli  stessi  meccanismi  neurali  che  ci  fanno 

percepire e muovere nel mondo creano anche il nostro sistema concettuale e i nostri 

modi di ragionare.

- La  ragione  non  è  solo  evolutiva  ma  utilizza  gli  stessi  schemi  di  neuroni  che  sono 

presenti, anche se meno sviluppati, negli animali; esiste in altre parole un darwinismo 

della ragione.

- La  ragione  non  è  universale  in  senso  trascendente;  l'unico  aspetto  d'universalità  è  la 

capacità dei nostri corpi d'avere esperienze fisiche.

- La ragione non è completamente cosciente, ma per la maggior parte incosciente.

- La ragione non è puramente letterale, ma soprattutto metaforica ed immaginativa.

- La ragione non è indipendente dalle emozioni, ma è essa stessa emozionale

1.2 L'inconscio cognitivo

La  scienza cognitiva, per quanto questa disciplina  sia  relativamente nuova (si 

parla di  scienza cognitiva dal  '70) ha aumentato notevolmente  la nostra conoscenza 

dei processi mentali. Una di queste scoperte è che la maggior parte della nostra mente 

è inconscia, non in senso di “repressa”, ma nel senso che opera necessariamente sotto il 

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livello della coscienza. Gestire l'informazione senza il controllo della coscienza, non è 

una qualità della mente, una  sua possibilità, ma è un aspetto  fondamentale del  suo 

funzionamento. Questo indica che gli strumenti che abbiamo utilizzato fino ad ora per 

studiare la parte cosciente, mal si adattano a quell'inconscia. 

Per  fare  un  esempio  pensiamo  agli  automatismi  nei  lavori  complessi,  come 

guidare  la  macchina.  Non  dobbiamo  costantemente  tenere  sotto  controllo  cosciente 

quello  che  facciamo. La pressione esercitata  sul pedale del  freno,  spingere  il  pedale 

della  frizione,  girare  il  volante di  tanti  gradi  quanti necessitano per  fare una  curva, 

accelerare  premendo  il  pedale  con una pressione  adeguata  ad  operare un  sorpasso, 

cambiare le marce in rapporto al rumore di giri del motore.

La nostra guida si presenta fluida e automatica, senza il controllo diretto della 

nostra  parte  cosciente,  che  può  anche  essere  intenta  a  parlare  al  passeggero,  ad 

ascoltare  la  radio,  a  riflettere  sugli  impegni  della  giornata.  In  questo  caso  parliamo 

d'inconscio cognitivo, e vedremo in seguito di definirlo meglio, come opera e qual è la 

metodologia d'indagine più appropriata.

Come  la  maggior  parte  della  nostra  mente  è  inconscia  nell'utilizzo  che  ne 

facciamo  quotidianamente,  lo  è  anche  quando  la  utilizziamo  nella  trattazione  della 

metafisica.  La  nostra  mente  utilizza  la  parte  incosciente  per  descrivere  i  concetti  come 

l'io,  il  tempo  e  lo  spazio,  la  causalità,  l'esistenza,  la  morale  e  lo  fa  attraverso  l'uso  di 

metafore  inconsce,  il  linguaggio  dell'inconscio  cognitivo.  Parlare  di  metafore  inconscie 

significa pensare a relazioni  fra concetti  la cui base è  inconscia e  le cui  implicazioni 

possono risultare anch'esse inconscie.

Mentre,  secondo  una  lunga  tradizione  filosofica,  i  concetti  avevano  una  loro 

realtà  indipendente  ed  oggettiva,  secondo  Lakoff  &  C.  i  concetti  hanno  l'unica 

oggettività di essere utilizzati dagli esseri umani, ma non è dato sapere i perché e i per 

come del loro utilizzo, come spiegheremo nel successivo paragrafo.

Una  delle  vie  possibili  per  indagare  l'inconscio  cognitivo  è  data  dallo  studio 

della struttura neurale in cui si formano i concetti: il punto di partenza di questo studio 

è il modellamento neurale, inteso come lo studio delle configurazioni di neuroni che sono 

necessari  per  sviluppare  una  funzione  umana  (vista,  tatto,  colori,  linguaggio…).  In 

quest'approccio  ci  si  pone  una  domanda  fondamentale:  può  la  ragione  servirsi  di 

pattern  tratti  dai  sistemi  senso­motori?  In  altre  parole,  possono  le  inferenze  razionali 

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essere  computate  dalla  stessa  architettura  usata  nella  percezione  e  nei  movimenti 

corporei? Può una serie di sensazioni formare un concetto? 

La ricerca in questo campo ha suffragato l'ipotesi che è possibile che la ragione 

sia fondamentalmente corporea, che le strutture della coscienza non siano separabili 

dalla percezione sensoriale e più specificatamente dal nostro apparato senso­motorio; 

e  la  struttura del nostro cervello,  formata dall'evoluzione e dall'esperienza, non può 

più essere trascurata dalla scienza cognitiva.

È  importante  introdurre  un  altro  concetto  riguardo  alle  strutture  neurali,  la 

specializzazione. Siamo esseri con un cervello altamente specializzato; l'occhio umano 

ha  100  milioni  di  cellule  fotosensibili,  ma  al  cervello  arrivano  solo  un  milione  di 

connessioni visive, quindi l'alto numero di informazioni in entrata vengono ridotte nel 

trasporto  da  cellula  a  cellula.  La  specializzazione  così  intesa  non  è  indagabile 

direttamente  dalla  parte  cosciente  del  nostro  essere,  ma  dobbiamo  utilizzare 

strumenti esterni.

Se  accettiamo  le  categorie  e  i  concetti,  che  utilizziamo  nel  linguaggio  e  nel 

nostro pensiero, come formati dalla nostra esperienza e dalle connessioni di neuroni, 

dobbiamo  allora  accettare  anche  la  loro  “incoscienza”  e  quindi  ricercare  strumenti 

d'indagine  adeguati.  Quelli  che  noi  chiamiamo  concetti  sono  qui  definiti  come 

prototipi, una struttura neurale e quindi fisica, che ci permette di svolgere la funzione 

dei concetti.

Un  esempio di prototipo  ideale è  quello  capace di  individuare  quelli  elementi 

standard che formano il concetto ideale di marito o di sedia. Il nostro ragionamento si 

basa  sull'uso  dei  prototipi  nelle  loro  diverse  tipologie,  alcune  dei  quali  saranno 

mostrate di seguito; esistono, infatti, dei prototipi di base che sono una sorta di scala 

di misura, come un sistema di riferimento linguistico, prototipi “essenziali” categorie 

primitive, così come intese da Lakoff e da Joe Grady.

1.3 Prototipi essenziali

Le inferenze concettuali possono essere associate ad inferenze sensomotorie, in 

altre  parole  i  nostri  concetti  sono  derivati  dalle  nostre  strutture  neurali,  come  ad 

esempio nella percezione dei colori. La nostra esperienza relativa ai colori è basata su 

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quattro fattori due esterni e due interni a noi: la lunghezza d'onda della luce riflessa, 

le  condizioni  ambientali  della  luce,  i  tre  coni  del  colore  della  nostra  retina  e  il 

complesso circuito neurale connesso a questi coni.

Prendiamo ad esempio un oggetto target come una banana; la luce che riflette 

è  la  combinazione  di  tutte  le  frequenze  d'onda  della  luce  fuorché  quelle  che  sono 

assorbite dal frutto. Se la banana viene però illuminata con una luce fluorescente o la 

esponiamo alla luce del giorno o a quella della  luna piena, cambia il suo colore così 

come  le  condizioni della  luce diffusa nell'ambiente. Tuttavia  il nostro  sistema visivo 

compensa in certa misura queste variazioni permettendoci di vedere lo stesso giallo in 

condizioni ambientali diverse.

Quando le radiazioni elettromagnetiche colpiscono la nostra retina e i coni del 

colore n'assorbono  le  radiazioni, è prodotto un  segnale elettrico che è  elaborato dal 

nostro  cervello  e  ci  permette  di  vedere.  La  percezione  del  colore  rientra  nella 

prototipo  “giallo”  in  una  posizione  che  può  essere  più  o  meno  centrale  o  sfumata 

secondo l'intensità del segnale nel circuito neurale.

Perciò i prototipi dei colori sono derivati: da un'interazione fra gli oggetti che ci 

circondano,  dalla  nostra  percezione  di  questi  oggetti  e  dalla  nostra  elaborazione 

(come  viene  trasportato  il  segnale  all'interno  del  cervello).  La  realtà  non  ha  niente 

d'oggettivo in senso classico, ma esiste solo in questa continua interazione di parti. 

Alcuni  particolari  prototipi,  oltre  che  formati  in  maniera  inconscia,  possono 

relazionarsi,  con  una  specie  di  tessuto  connettivo,  ai  prototipi  più  generali  che 

vengono  utilizzati  consciamente;  questi  sono  i  concetti  di  relazione  spaziale, 

rappresentati  da  ciò  che  dà  conoscenza  allo  spazio,  che  sono  il  cuore  del  sistema 

concettuale di Lakoff (Peruzzi 1997). E'  importante sottolineare che queste relazioni 

spaziali sono date, non dagli oggetti in sé e per sé, ma dalla nostra percezione.

Davanti ad una chiesa

E' una serie d'elementi linguistici in cui “davanti” non si riferisce alla chiesa, ma 

alla nostra percezione che è organizzata attraverso i prototipi di chiesa, di una parte 

che noi reputiamo anteriore alla chiesa, e dalla nostra posizione spaziale nei confronti 

di questi elementi. Così possiamo esserci noi davanti alla chiesa, mentre guardiamo la 

sua facciata, o indicare qualcosa che si trova posizionato davanti ad una chiesa, o può 

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indicare il davanti della chiesa, cioè la sua facciata. Tuttavia in tutti i casi la relazione 

può essere resa con la stessa forma linguistica.

L'uso delle relazioni spaziali è continuo nel nostro linguaggio, non indagabile in 

maniera  cosciente  e  diverso  da  linguaggio  a  linguaggio;  ad  esempio  lo  schema 

gestaltico  container,  in  cui  un  elemento  A  è  contenuto  in  un  elemento  B  che  è 

contenuto  in un elemento C, è uno schema concettuale costantemente applicato (ad 

esempio  quando  pensiamo  al  caffè  contenuto  nella  tazza,  che  è  contenuta  nella 

stanza).

Fig.1.1

Un altro esempio di  schema concettuale usato è  il  source­path­goal­schema,  in 

cui  esiste  una  traiettoria  di  movimento  da  un  punto  iniziale  ad  un  punto  finale  e 

situazione di movimento su questa traiettoria.

Fig.1.2

Pensiamo ad un lavoro da compiere, formato da vari passaggi in cui siamo ad 

un  certo  stadio,  ad  esempio  costruire  una  casetta  per  gli  uccelli,  temperare  una 

matita,  farsi  una  doccia.  Questi  schemi  creano  strutture  che  vengono  utilizzate  in 

modo  continuo  e  costante  nella  costruzione  mentale  del  mondo  e  sono  formati  dai 

concetti base e dalle relazioni che ne definiscono i rapporti. La percezione spaziale del 

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C

B A

A C

B

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nostro corpo è  applicata per  similitudine anche agli oggetti  fuori di noi;  “davanti” e 

“dietro”, ad esempio sono usati per cani, automobili, edifici…

Gli  studi sulle  relazioni  spaziali da parte della  “grammatica cognitiva”, hanno 

mostrato  che  esistono  poche  relazioni  primitive  che  si  combinano  con  funzioni  di 

movimento  nello  spazio  (ad  esempio  l'uso  dei  concetti  verticale  e  orizzontale). 

Tradizionalmente  esiste  una  dicotomia  tra  percezione  e  concetto:  la  percezione  è 

accettata in questa prospettiva come formata dalle strutture neurali e dagli input che 

circolano  in  queste  strutture,  mentre  l'uso  e  la  formazione  dei  concetti  è  vista 

tradizionalmente come distaccata dalle abilità corporee di percepire e muoversi.

Nella visione di Lakoff il corpo forgia i concetti, il corpo non è solo percezione, ma 

anche formazione dei concetti.

1.4 I modelli di T. Regier, D. Bailey, S. Narayanan

Nei  recenti  risultati  della  ricerca  dei  modelli  neurali  sui  meccanismi  della 

percezione e degli schemi motori è stato possibile arrivare a risultati sorprendenti nel 

ragionamento  e  nell'apprendimento  del  linguaggio.  È  stato  provato  cioè  che  la 

struttura neurale, è capace di simulare la realtà percepita e di fissarla in un modello 

fisico.  Questo  è  il  risultato  a  cui  sono  giunti  i  ricercatori  del  gruppo  NTL:  il 

modellamento  neurale  come  prova  dell'esistenza  della  fisicità  della  mente,  perché  un 

modello neurale di percezione o di meccanismi motori è lo stesso meccanismo usato per il 

lavoro concettuale. 

Mostriamo  in  seguito  quali  sono  state  le  applicazioni  di  questi  modelli, 

rimandando per un più tecnico esame direttamente agli autori.

Il modello di Terry Regier per l'apprendimento dei termini di relazione spaziale

Il primo modello che qui presentiamo è quello di Regier (1996), in cui dato un 

modello retinico d'input, con varie configurazioni geometriche in varie configurazioni 

spaziali,  unita  ad una descrizione  dettagliata  in un dato  linguaggio;  il modello  può 

imparare  il  sistema  di  concetti  di  relazione  spaziale  così  che  può  correttamente 

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classificare nuove configurazioni. Questo avviene sia in casi di configurazioni spaziali 

statiche che di movimento.

L'idea di base è di far tradurre al programma i vari termini di relazioni spaziali 

del  linguaggio  con  le  strutture  neurali  visive  del  cervello.  I  meriti  di  questo 

programma  sono  notevolissimi,  perché  le  mappe  topografiche  usate  dalle  strutture 

neurali  del  campo  visivo  possono  essere  usate  nella  computazione  di  schemi 

d'immagine  che  hanno  proprietà  topologiche.  Ovvero,  l'insieme  di  cellule 

d'orientamento sensitivo è capace di computare gli aspetti d'orientamento spaziale dei 

concetti  che  si  riferiscono  all'orientamento  del  corpo.  Così  il  modello  di  Regier  è 

simultaneamente sia concettuale sia percettivo.

Il modello di David Bailey della comprensione dei movimenti delle mani

Questo modello permette, non solo di imparare a categorizzare nominandoli i 

movimenti  delle  mani  nell'ambito  di  qualsiasi  linguaggio,  ma  anche  di  usare 

correttamente quei verbi che indicano un movimento delle mani in una simulazione al 

computer.

Il  cuore  del  modello  di  Bailey  (1997)  sono  modelli  con  schemi  di  controllo 

motorio  ad  alto  livello  che  operano  in  tempo  reale  su  circuiti  neurali  subcorticali, 

azionando automaticamente piccoli movimenti di basso livello. Far svolgere un lavoro 

a  tante  piccole  subunità  gestite  da  un'unità  supervisore  è  un  procedimento  spesso 

usato  in  informatica, che consente di  ridurre  i  tempi e  facilitare  le operazioni  svolte 

mantenendo la stessa complessità di sistema. Queste subunità usano i parametri degli 

schemi di controllo motorio chiamati “X­schemas” (X indica executing).

L'idea del programma è  questa:  i  verbi  di movimento delle mani differiscono 

considerevolmente da linguaggio a linguaggio, quindi anche la loro categorizzazione è 

diversa.  Ma  se  usiamo  gli  schemi  delle  sinergie  motorie,  questo  meccanismo  può 

categorizzare e nominare le azioni, e allora passiamo da un sistema senso­motorio ai 

concetti di movimento delle mani. Il successo del modello di Bailey lo dimostra.

Il modello di Srini Narayanan degli schemi motori e delle metafore

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Narayanan  (1997)  evidenzia  come  tutti  gli  schemi  motori  abbiano  le  stesse 

strutture di controllo agli alti livelli. Il modello è formato dai seguenti passaggi:

Preparazione

Stato iniziale

Inizio processo

Processo principale (sia istantaneo o prolungato)

Opzione stop

Opzione cancella

Opzione per ripetere o continuare il processo principale

Check degli obiettivi

Fine processo

Stato finale

Questo è un semplice modello informatico della struttura generale degli eventi, 

formata  da  una  parte  concettuale  e  una  logica,  usata  per  il  controllo  motorio. 

Narayanan ha scoperto che è possibile usare lo stesso programma, sia per controllare i 

movimenti  del  corpo,  che  per  compiere  inferenze  logiche  e  lo  ha  mostrato  in  un 

modello neurale delle metafore concettuali, trovando i casi in cui le metafore motorie 

sono state usate in un dominio astratto (ad esempio nell'economia internazionale). 

Così  frasi  come:  “L'India  perde  la  sua  forza  nel  commercio”,  “La  Francia 

regredisce mentre la Germania viene su”, evidenziano come le inferenze proprie delle 

metafore siano fondate su una proiezione degli schemi motori sui concetti. La mente 

come Lakoff afferma attraverso questi programmi sembra quindi incarnata. Ognuno di 

questi  modelli  è  una  prova  dell'esistenza  di  una  mente  che  opera  attraverso  una 

struttura neurale. 

Nei  casi  mostrati  non  è  importante  la  corretta  riproduzione  della  realtà 

fisiologica  (come approfondiremo nei  prossimi  capitoli),  quanto  la  possibilità  che  la 

realtà e la mente possano avere un'origine fisica, in quanto formate da un sistema di 

cellule  interagenti.  Se  secondo  Lakoff  le  funzioni  altamente  specializzate  del  cervello, 

come apprendimento,  linguaggio  e  pensiero,  sono  formate  da  il  nostro  sistema nervoso 

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che interagisce con input esterni allora studiando attraverso simulazioni la rete neurale è 

possibile ricreare il collegamento fra la percezione e la formazione di concetti.

1.5 La Teoria Concettuale delle Metafore di Lakoff

Nella teoria delle metafore di Lakoff e Johnson (1980),la metafora “concettuale 

complessa” è analizzata come un tipo di legame tra un dominio concettuale e un altro, 

tipo di  legame che secondo gli autori utilizziamo costantemente, e che ha un valore 

cognitivo oltre che grammaticale. Le metafore sono formate da concetti che si legano 

tra  loro seguendo una precisa direzione,  il  concetto di partenza è  chiamato  source e 

quello d'arrivo target. Un esempio di metafora per Lakoff è:

La vita è un viaggio

In  cui  il  viaggio  è  il  source  e  la  vita  è  il  target.  In  questo  contesto  bisogna 

considerare  la  metafora  concettuale  come  un  modello  cognitivo  e  non  solo  come 

un'unione fra due domini, così possiamo evidenziare i relativi sotto­modelli:

Una persona che vive una vita è un viaggiatore

I successi nella vita sono destinazioni

Il modo di vivere è un itinerario

E'  facile  vedere  come  molti  modi  di  argomentare  sulla  vita  possano  essere 

riportati  ad  un  modello  o  ad  un  suo  sotto­modello,  e  questi  ultimi  siano  formati 

direttamente  dalla  nostra  esperienza  e  dalle  caratteristiche  fisiche  del  nostro  corpo. 

Ogni  metafora  complessa  è  costituita  da  metafore  primitive,  che  derivano 

direttamente  dalla  nostra  esperienza  percettiva  del  mondo,  in  cui  il  dominio 

dell'origine delle metafore (source) deriva dalla struttura del sistema senso­motorio, e 

in particolare secondo Lakoff & C dal peso delle sinapsi nelle connessioni neurali.

Le metafore primitive inerenti all'esempio precedente sono:

Le decisioni nella vita sono destinazioni

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Le azioni sono movimenti

Nella sua ultima versione la teoria concettuale delle metafore proposta da Lakoff 

contiene la teoria integrata delle metafore primitive, che si basa sull'apporto combinato 

di quattro diverse teorie, che spiegano come le metafore complesse siano formate da 

quelle primitive e come quest'ultime abbiano un'origine fisica.

- La Conflation Theory di Johnson (1997)

Un  esempio di  conflation,  fusione,  tra  due o  più  percezioni  sensoriali, è  dato da 

una forma linguistica come:

Vedo quello che stai dicendo

Che  unisce  il  vedere  all’udire  qualcosa.  Secondo  Johnson  questo  processo 

avviene  prima  di  qualsiasi  combinazione  metaforica,  infatti,  presenta  questa  teoria 

suffragandola da uno studio applicato sui bambini, e consiste nella capacità di unire 

due  domini  differenti  fra  loro.   In  chiave  senso­motoria  una  qualsiasi  azione 

complessa  è  formata  da  sotto­azioni:  l'azione  di  camminare  è  formata  da  quella  di 

muovere  i  piedi  in  un  certo  ordine,  l'azione  di  prendere  un  oggetto  su  un  tavolo  è 

formata dalla  sotto­azione di  calibramento d'ogni parte del braccio e del  tronco per 

raggiungere quell'oggetto. 

Per  comprendere  meglio  si  pensi  al  famoso  programma  del  granchio  di 

Churchland (1989) in cui veniva riprodotto il comportamento senso­motorio della sua 

chela unitamente a quello della sua percezione visiva. La percezione visiva “puntava” 

un oggetto che veniva “raggiunto” dalla chela, così il granchio riusciva ad afferrare gli 

oggetti,  e  alla  base  di  quest'elementare  conflation  c'è  un  semplice  programma  di 

simulazione.

Johnson  suggerisce  che questo  tipo di processo  sia applicato  fin dall'infanzia per 

calibrare  i  nostri  concetti,  in  quelle  che  poi  diventeranno  forme  complesse  e 

metaforiche  del  linguaggio,  attraverso  l'unione  di  più  concetti  distanti  fra  loro,  ma 

legati in maniera fisica.

- La Primary Metaphor Theory di Grady (1997)

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Secondo questa teoria, il passaggio dalla realtà fisica e complessa della percezione, 

ad  una  realtà  apparentemente  più  semplice  come  quella  del  linguaggio  e  della 

coscienza,  avviene  attraverso  la  creazione di  forme  atomiche,  in  cui  si  combinano  i 

dati sensoriali, che formano una specie di sfondo in cui si muovono, in un passaggio 

successivo, le metafore più complesse.

- La Neural Theory of Metaphor di Narayanan (1997)

Se  le associazioni metaforiche del periodo della conflation,  realizzate con schemi 

neurali,  creano  il  dominio  concettuale  che  sarà  proprio delle metafore,  nel modello 

costruito da Narayanan, questo processo si traduce attraverso uno stimolo sensoriale 

A che attiva un insieme di neuroni B che è connesso a sua volta con altri neuroni di un 

altro dominio C. Si crea così la base fisica della metafora.

- La Theory of Conceptual Blending di Fauconnier e Turner (1994)

Secondo Faconnier  e Turner due domini  differenti  si  possono unire  a particolari 

condizioni,  attraverso  metafore  primitive  o  relazioni  completamente  nuove  rispetto 

all'esperienza fisica. Ad esempio:

Se un uomo ama una donna, la rispetta

In questo caso non si ha una conflation, bensì un blending, cioè una mescolanza di 

concetti che rimangono ben definiti l'uno dall'altro, in cui:

Un uomo ama una donna

Amare vuol dire rispettare la persona amata

La persona amata viene rispettata

Si uniscono così due concetti “amare” e “rispettare” rimanendo questi ben distinti 

l'uno dall'altro.

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1.6 La Teoria delle Metafore Primitive di Grady

Vediamo  ora  nel  particolare  come  Grady,  collaboratore  di  Lakoff,  propone  la 

struttura di collegamento fra percezione sensoriale e metafora concettuale.

Fig.2.1

Mentre  i  nostri  sistemi  percettivi  funzionano  24  ore  su  24  e  immettono  in 

maniera  continua  informazioni nel nostro  cervello,  le nostre percezioni  sono  filtrate 

dalla soglia della coscienza com'eventi di base (basic event) e si staccano dallo sfondo 

delle percezioni assumendo un senso ben definito (Peruzzi 1996). La continua massa 

d'informazioni,  che  il  nostro  cervello  riceve  continuamente,  è  codificata  in  maniera 

tale  da  essere  percepita  in  strutture  cognitive  ben  definite,  tuttavia  non  le 

controlliamo in maniera cosciente. 

Per  fare  un  esempio,  pensiamo,  ad  un'informazione  fissa  che  noi  riceviamo, 

come  l'informazione  tattile  data  dall'indossare  una  camicia  ruvida  e  stretta;  se  la 

indossiamo per un giorno intero, la nostra coscienza registra  inizialmente il contatto 

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della  pelle  con  il  tessuto  ruvido  e  stretto,  ma  a  fine  giornata,  pur  continuando  ad 

avere gli stessi input tattili, la percezione sarà sparita dalla nostra coscienza.

Un  input  tattile è  dato dalla  soglia d'attivazione dei bottoni  sinaptici  presenti 

nel tessuto epiteliale e la loro continua stimolazione produce sempre lo stesso impulso 

nervoso,  tuttavia  nel  percorso  dalla  pelle  al  cervello  questo  stimolo  può  essere 

cancellato.  Questo  avviene  perché  le  pesature  delle  connessioni  neurali,  sono 

modificabili, come vedremo meglio in seguito.

Gli  eventi  di  base  sono  quindi  soggettivi,  nel  senso  che,  essendo  formati  da 

percezioni  calibrate  sull'esperienza  soggettiva  dell'individuo,  dipendono  dalla  sua 

esperienza, ovvero dalle stimolazioni del suo sistema nervoso. Prendiamo ad esempio 

un sommelier e un normale bevitore di vino da tavola: le percezioni gustative variano 

tra i due pur avendo lo stesso apparato percettivo, così come un guidatore di formula 

uno ed uno normale avranno esperienze diverse legate alla guida, pur avendo anche 

loro lo stesso sistema percettivo.

L'unione degli eventi di base origina le sotto­scene e in seguito le scene primarie. 

Le  scene,  come  anche  i  frame,  così  come  ideati  da  Schank  e  Abelson  (1977)  e  altri 

studiosi  di  sistemi  artificiali,  sono  spazi  pluridimensionali  in  cui  si  definiscono  il 

dominio di un termine e  il campo in cui si muove un determinato elemento. Dato il 

nostro  apparato  percettivo  e  gli  eventi  che  da  esso  vengono  percepiti,  il  prodotto 

cognitivo  tra  i  due  è  l'esperienza  soggettiva  degli  eventi  di  base,  cioè  le  scene 

primarie.  La  correlazione  fra  distinte  dimensioni  dell'esperienza  è  forse  l'elemento 

essenziale delle metafore così intese.

In  questo  senso  le  scene  primarie  sono  episodi  temporalmente  delimitati  di 

esperienza  soggettiva,  caratterizzate  da  un'alta  correlazione  fra  circostanze  fisiche  e 

risposte  cognitive,  come  un'esperienza  traumatica  come  un  incidente  oppure  un 

ricordo  molto  piacevole  come  la  vincita  al  lotto.  Con  il  ripetersi  dell'esperienza,  le 

scene  principale  creano delle  associazioni  tra  concetti  diversi,  e  si  formano  i  vincoli 

concettuali,  relazioni  inconsce  dell'esperienza  che  non  sono  delle  semplici  strutture 

neurali,  come  invece  sono  i  concetti,  ma  formano  un  primo  livello  psicologico  del 

pensiero dato dalla frequenza delle attivazioni neurali dei concetti. In seguito si ha la 

deconflation, che è invece la forma contraria del processo studiato da Johnson, in cui i 

concetti  sono separati dai vincoli concettuali per creare metafore ben definite che si 

staccano dallo sfondo (background).

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A  questo  punto  si  possono  formare  le  metafore  primitive  come  un  vincolo 

(binding), fra due concetti, un concetto target appartenente ad una scena primaria e 

un concetto source di un'altra scena primaria. Nel modello di Grady i concetti source 

sono derivati in maniera diretta dall'esperienza (image content); mentre i target sono 

operazioni definite sulle percezioni e non percezioni dirette. Così le metafore primarie 

uniscono insieme tipi diversi di concetti e questo ha importanti implicazioni anche per 

l'esperienza mentale soggettiva.

Infatti non si tratta di passare da bassi livelli a quelli alti, ma di far interagire 

concetti  basilari,  ma  appartenenti  a  domini  distinti,  come  mattoncini  Lego  che  a 

seconda  di  come  si  combinano  creano  “ponti”  diversi  e  così  significati  diversi. 

Vediamo di concretizzare quanto detto con uno schema:

Fig.2.2

Nella metafora “la vita è un viaggio” abbiamo un collegamento fra due domini, 

in cui esistono concetti principali e subordinati. Un concetto principale, in questo caso 

il  source,  è  “un  viaggio”  e  i  concetti  ad  esse  collegati  sono  che  la  “vita  può  essere 

vissuta”, che “la vita ha degli obbiettivi”, dei “successi”, e che esiste “un modo di vivere”. 

E  così  per  il  target  il  “vita”  esistono  dei  concetti  subordinati  come,  “viaggiatore”, 

“destinazioni”, “itinerari”… 

Quindi la metafora principale (nello schema tra a e b) 

, contiene le altre metafore come collegamenti, relazioni fra le parti subordinate di 

due domini distinti (a2 e b1), creando così:

Una persona che vive una vita è un viaggiatore

I successi nella vita sono destinazioni

Il modo di vivere è un itinerario

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Secondo  Grady  le  caratteristiche  di  queste  relazioni  (primary  source  concept) 

derivano dal fatto che:

- Sono relazioni formate dalle sensazioni corporee e dalle percezioni in ogni modalità.

- L'image content è un particolare  livello schematico di specificità,  in cui ci si riferisce a 

semplici esperienze piuttosto che a complesse, formate da molte scene e concetti. 

- Sono queste esperienze che dirigono le nostre azioni verso finalità inconsce.

- Sono “self­contained” e questo le distingue da altri tipi di rappresentazioni (scene).

- Si riferiscono ad elementi universali dell'esperienza umana.

- Sono puramente relazionali (non includono la percezione fisica di cani, alberi…).

Tutte queste caratteristiche definiscono in maniera chiara quali sono le peculiarità 

di tutti i primary source concept che hanno image content, in altre parole ogni concetto 

del genere è ancorato direttamente ad un input sensoriale, a differenza dei target che 

sono  strutture  d'elaborazione  degli  input,  pur  lavorando  anch'essi  su  base  fisica.  I 

primary  target  concept,  infatti,  sono  definiti  come  più  astratti,  e  si  riferiscono  a 

funzioni  cognitive  di  base  o  a  livelli  con  accesso  conscio.  La  tradizione  linguistica 

voleva  vederli  come  astratti  (si  pensi  ai  concetti  d'ideali  di  spazio  e  tempo),  invece 

sono il  livello più basso della coscienza e utilizzano strutture connessionistiche come 

quelle di Baley (1997).

In  più  esiste  un'evidenza  neurologica  che  mostra  suddette  relazioni,  perché  uno 

stimolo  (source) può  essere associato ad un  concetto  (target),  così  come  l'azione di 

“uccidere”  può  essere  associata  al  concetto  di  “male  nella  società”.  Secondo  Lakoff 

(1999)  invece,  il  rapporto  fra  source  e  target  (chiamato  il  principio  d'invarianza)  si 

fonda principalmente sulla struttura immagine­schema del dominio del source, come 

nei frame e nelle scene, in altre parole è lo stesso source che crea e indirizza il target.

Nella metafora: 

La vita è un viaggio

Vengono  scartate  dal  dominio  del  source  “viaggio”  tutte  quelle  associazioni  non 

“attinenti” come:

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La vita è uno stivale

 

Ovvero  è  lo  stesso  source  che  delimita  il  dominio  della  metafora  e  questa 

delimitazione  è  descritta  attraverso  i  frame  o  scene.  Per  Grady  invece  le  metafore 

primitive  hanno  il  seguente  schema  di  rete  neurale,  in  cui  i  due  elementi  base 

“quantità” ed “elevazione” si uniscono nella metafora primitiva di “pila” (intesa come 

oggetti sovrapposti verticalmente):

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Fig.2.3

Bisogna  notare  inoltre  che  le  possibilità  d'associazione  fra  concetti  e  più  in 

generale  fra  gli  stimoli  neurali,  possano  seguire  altre  regole.  In  generale  queste 

particolari associazioni di concetti, denominate come non­primary metaphor, sono più 

un'unione  d'atti  linguistici  complessi  che  una  costruzione  legata  alla  nostra 

esperienza.  Pensiamo  a  concetti  come  “gargoyle”  o  come  “unicorno”,  animali 

mitologici che non esistono di cui però ne abbiamo e ne possiamo usare  il concetto. 

Un altro esempio si ha con la frase: 

Achille è coraggioso come un leone

In questo caso si uniscono due concetti distinti, come Achille e leone, attraverso 

un elemento che hanno  in comune (il  coraggio) secondo quella che Grady definisce 

similarity theory of metaphor. Per comprendere meglio lo stesso Grady ne propone uno 

schema neurale:

Fig.2.4

Come ho accennato prima, le operazioni di associazione che possiamo fare, dal 

semplice  stimolo  fino  alla  costruzione  di  concetti  più  complessi,  sono  pressoché 

infinite, è normale allora considerare in maniera indicativa gli aspetti più tecnici della 

teoria  delle  metafore  di  Lakoff  &  C.  Volendo  essenzialmente  questi  cercare  di 

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dimostrare  la  possibilità  si  simulare  con  reti  connessionistiche  il  passaggio  dalla 

percezione alla costruzione delle metafore, sarà opportuno vedere quali sono i  limiti 

teorici di tali simulazioni, e questo sarà il compito del prossimo capitolo.

Capitolo 2Il Connessionismo

“Ogni comportamento è l'espressione di una funzione cerebrale. Quella che noi chiamiamo genericamente mente,

 è l'insieme di funzioni cerebrali.Il cervello è costituito di tante unità, costituite dalle

 cellule nervose (o neuroni) e dalle cellule gliali.”Eric Kandel

I modelli  di  Lakoff e Grady presentati precedentemente basano  la  forza delle 

loro  asserzioni  sulle  simulazioni  al  computer  di  modelli  neurali.  In  questo  capitolo 

analizzeremo  allora  la  simulazione  di  un  modello  neurale,  con  i  suoi  pregi,  i  suoi 

difetti e le sue limitazioni, e introdurremo così alcune problematiche proprie di questi 

sistemi, che saranno affrontate in maniera completa nel prossimo capitolo. 

Nel  far  questo  abbiamo  analizzato  un  particolare  tipo  di  rete  (quella  PDP)  a 

nostro avviso esemplare per tutta la categoria, in quanto tutte le reti connessionistiche 

processano  l'informazione  ricevuta  attraverso  uno  stesso  linguaggio  matematico  di 

medesima complessità.

3.1 Il cervello è un emulatore della realtà

Per  comprendere  appieno  le  motivazioni  di  tali  simulazioni  ci  soffermeremo 

sulla  struttura del  sistema nervoso,  considerandolo come una  rete di neuroni,  senza 

tenere conto della realtà  fisiologica in cui l'informazione viene trasportata anche per 

altre vie. I neuroni all'interno del cervello sono approssimativamente 10¹º. 

La maggior parte dei neuroni non hanno caratteristiche funzionali, cioè non si 

occupano  della  percezione  (vista,  udito  o  tatto…),  ma  sembrano  finalizzati  alla 

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formazione  di  un  sistema  chiuso.  Ovvero  la  maggior  parte  dei  neuroni  non  si 

occupano del mondo esterno  in maniera diretta, ma  si  occupano di un'elaborazione 

dell'informazione che giunge dall'esterno.

Così i neuroni del nostro cervello sono rivolti ad emulare la realtà, come se si 

fossero  evoluti  nel  tempo  per  “imitare”  ciò  che  esiste  al  di  fuori  di  noi,  o,  in  altre 

parole, per costruire una “storia”. Ma gli elementi di questa storia esistono da prima 

della nostra nascita, poiché nessuno c'insegna a vedere i colori, né a sentire il dolore o 

le altre sensazioni. Queste facoltà nascono con noi, proprio come il naso, le orecchie e 

il  corpo.  Noi  siamo  un  corpo  equipaggiato  con  un  sistema  di  sensazioni.  Il  nostro 

cervello  è  un  emulatore  che  genera  una  realtà  e  ne  verifica  l'affidabilità  servendosi 

delle sensazioni.

Per  indagare  il  suo  funzionamento,  sono  stati  fatti  diversi  tipi  di  simulazioni 

della sua struttura attraverso modelli matematici riprodotti con il computer, e alcuni 

di  questi,  elaborati  all'interno  degli  studi  sulle  intelligenze  artificiali,  sono 

riconducibili  al  connessionismo,  un  tipo d'impostazione  sviluppato principalmente da 

James McClelland e David Rumelhart. 

Ovviamente esistono altri modelli di riproduzione del cervello, tuttavia questo è 

quello  che  oltre  ad  essere  il  più  recente,  sembra  mostrare  maggiore  attinenza  alla 

realtà  fisiologica del  sistema nervoso. Da quando è  stato  inventato  il microscopio, è 

diventato evidente che il sistema nervoso non è solo una gran massa gelatinosa, ma 

che esso è effettivamente composto di miliardi di minuscole cellule chiamate neuroni. 

Ciascun  neurone  può  avere  anche  più  di  100.000  connessioni  con  altri  neuroni  del 

cervello. 

Il compito di ciascun neurone è quello di ricevere segnali da molti altri neuroni, 

migliaia  o  centinaia  di  migliaia  in  certi  casi,  e  di  combinarli  in  un  modo 

sufficientemente semplice da decidere se inviare o meno un segnale ai neuroni con il 

quale  esso  è  a  sua  volta  collegato.  Da  questo  emerge  l'idea  che  tutta  la  nostra  vita 

mentale, tutta  la nostra attività cognitiva, è  in realtà  il prodotto delle  interazioni fra 

tutte queste unita d'elaborazione molto semplici. 

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Fig.3.1

Il tentativo di riproduzione di questo modo di operare costituisce il lavoro del 

connessionismo (o PDP, Parallel Distributed Process),  in cui si cerca di riprodurre in 

maniera  computabile,  cioè  trascrivere  in  linguaggio  matematico,  i  legami  neurali, 

come semplici operazioni in parallelo. L'unità di simulazione principale del neurone si 

chiama  perceptron  ed  è  stato  Frank  Rosemblatt  (1957)  a  costruire  per  primo  una 

connessione retinica di queste unità, anche se sicuramente il merito teorico si può far 

risalire agli studi di Donald Hebb (1949).

Fig.3.2

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Il  perceptron  ha  un  funzionamento  molto  semplice  (Jonhson­Laird  1988); 

input di entrata, un valore di attivazione del nodo (chiamato peso), un input in uscita, 

che di solito ha valori sono compresi fra 0 e 1, e la sua formazione si può riassumere 

in tre passaggi. Inizialmente possiamo rappresentare le forze di queste connessioni in 

un diagramma, oppure in una matrice in cui una riga sta per un'unità in un insieme, 

una  colonna  sta  per  un'unità  nell'altro  insieme,  e  il  riquadro  in  cui  riga  e  colonna 

s'intersecano  contiene  la  forza  della  connessione  tra  le  due  unità.  Questi  principi 

possono essere illustrati con un esempio in scala ridotta con solo due unità in ciascun 

insieme, due visive e due uditive:

Fig.3.3

La  forza della  connessione  tra due unità è  la  stessa  in  entrambe  le direzioni. 

Come  McClelland  e  Rumelhart,  assumeremo  che  la  forza  possa  essere  eccitatoria, 

neutra o inibitoria; e possa così avere qualsiasi valore tra + 1 e ­ 1. Un'unità trasmette 

ad un'altra un'attivazione pari alla propria attivazione moltiplicata per  la  forza della 

connessione;  ad  esempio,  un'unità  attiva  +1  con  una  connessione  inibitoria  di  ­0.5 

con un'altra unità, trasmette ad essa un valore di ­0.5.

Il secondo passaggio è introdurre il principio che il livello d'attivazione di un'unità 

è uguale alla somma di tutte le attivazioni che essa riceve da altre unità. Possiamo usare 

questo principio per stabilire la forza delle connessioni in modo tale che, per esempio, 

la configurazione visiva +1 ­1 produca automaticamente la configurazione uditiva ­1 

­1, e viceversa. Ecco le forze di connessione che stabiliscono quest'associazione:

Fig.3.4

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Consideriamo  l'unità  nella  riga  superiore.  Il  suo  livello  d'attivazione è  uguale 

alla somma dei valori (attivazione x forza di connessione) che riceve da ciascun'unità 

della colonna corrispondente:

( +1 x ­0.5) + (­1 x 0.5) = ­1

L'attivazione dell'unità della riga inferiore è determinata nello stesso modo. La 

disposizione è simmetrica: se la configurazione uditiva è l'input, allora quella visiva è 

l'output.  In  generale,  la  forza  della  connessione  tra  due  unità  deve  essere  positiva 

quando  entrambe  hanno  livelli  di  attivazione  dello  stesso  segno;  altrimenti,  è 

negativa. I valori numerici delle forze dipendono dal numero totale di connessioni.

Questi  stessi  principi  possono  essere  usati  per  costruire  una  matrice  che 

stabilisca  un'associazione  tra  un'altra  coppia  di  configurazioni:  la  configurazione 

visiva +1 +1 e la configurazione uditiva ­1 +1:

Fig.3.5

Viene ora il terzo, e più significativo, passaggio. Sommiamo le due matrici delle 

forze di connessione per ottenere:

Fig.3.6

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Questa unica matrice è sufficiente per realizzare tutte e due le associazioni: se 

date  in  input  la  prima  configurazione  visiva,  otterrete  la  prima  uditiva;  se  date  in 

input  la  seconda  configurazione  visiva,  otterrete  la  seconda  uditiva.  Entrambe  le 

associazioni  sono  codificate  in  un  unico  insieme  di  connessioni  tra  i  due  insiemi  di 

unità  e  il  sistema è  ciò  che viene definito dai matematici un  sistema  lineare,  perché 

operazioni  separate,  in  questo  caso  forze  di  connessione,  hanno  effetti  che  possono 

essere combinati in maniera additiva. 

Esiste  ovviamente  un  limite  al  numero  di  associazioni  differenti  che  possono 

essere  rappresentate  in  un  unico  insieme  di  connessioni  e  tale  limite  è  uguale  al 

numero di unità  in uno degli  insiemi. Di conseguenza, con solo due unità  in ciascun 

insieme possono essere stabilite soltanto due associazioni, ma una rete nervosa reale 

nel cervello potrebbe rappresentare milioni di associazioni. 

Configurazioni  di  input  simili  danno  origine  a  output  simili,  e  così  se  si 

desidera evitare l'interferenza, si deve fare in modo che le configurazioni in input non 

siano  in  relazione  tra  di  loro  (questa  nozione  ha  una  formulazione  matematica 

precisa:  le  configurazioni  di  qualsiasi  coppia  di  input  dovrebbero  essere  ortogonali, 

cioè  i prodotti  incrociati della coppia dovrebbe assommare a zero, ad esempio per  i 

due  input  visivi,  +1  ­1  e +1  +1,  il  prodotto  incrociato  (+1 X  +1) +  (­1 X  +1) è 

correttamente uguale a 0).

Diverse proprietà  interessanti  emergono da un grande  sistema di questo  tipo. 

L'attività di qualsiasi unità singola è relativamente poco importante: se funziona male 

o viene distrutta, il sistema non ne sarà drasticamente danneggiato. Analogamente, se 

una piccola parte di un input manca oppure è nascosta, il sistema può ancora fornire 

l'output corretto. Infatti, se una matrice si basa sull'associazione di ciascun input con 

se  stesso,  essa  sarà  in  grado  di  completare  input  frammentari  con  le  loro  parti 

mancanti.

Gli indirizzi numerici sono stati rimpiazzati da un sistema in cui i simboli stessi 

di input attivano la memoria. Una tale memoria ha soltanto confini vaghi tra ricordo, 

ricostruzione e invenzione completa. Probabilmente a questo punto può tornare utile 

un esempio concreto, tratto da uno dei primi lavori di McClelland. Uno dei problemi 

ai  quali  si  è  interessato  fin  dal  principio  è  stato  di  capire  come  mai,  quando 

percepiamo qualcosa,  siamo  in  grado di  servirci della  situazione per  influenzare  ciò 

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che vediamo. Qui, ad esempio, vediamo qualcosa che assomiglia ad una parola e che è 

in parte nascosta da macchie d'inchiostro. 

Fig.3.7

Ora,  il  problema  è:  che  lettera  è  quella  che  è  in  parte  cancellata?  Dagli 

esperimenti di psicologia della scuola gestaltica sappiamo che le persone avranno una 

maggior probabilità di  intravedere una parola piuttosto che un  insieme  indefinito di 

lettere. Se ne deduce allora che  la conoscenza di cui  le persone si servono  in questi 

casi comprende la conoscenza delle sequenze di lettere che costituiscono le parole di 

ciascuna  lingua.  Nel  costruire  un  modello  di  questo  caso  specifico  sono  usate  delle 

unita simili a neuroni, che stanno per le parole; ce ne sono più di un migliaio solo per 

le  parole  brevi  e  comuni  della  lingua.  Inoltre  sono  state  usate  delle  unità 

corrispondenti  a  lettere;  quattro  insiemi  di  tali  unità  per  tutte  le  lettere.  E  sotto  a 

queste  sono  state  usate  delle  unità  per  gli  elementi  visivi  o  le  caratteristiche  delle 

lettere, in modo che la rete sia capace di leggere le lettere.

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Fig.3.8

Quindi, per  far  funzionare  la simulazione si deve assumere che esistano delle 

connessioni,  fra  le  parole  e  le  lettere  che  esse  contengono,  e  fra  le  lettere  e  le  loro 

caratteristiche. Ad esempio, le lettere C, A, S, e O sono tutte legate alla parola CASO 

con connessioni a doppio senso. Perciò, nella nostra simulazione possiamo limitarci ad 

attivare gli aspetti visivi presenti e a consentire all'attività di propagarsi nel sistema, 

per vedere com'esso si stabilizzi su un'interpretazione del segnale. 

In questi casi gli aspetti visivi sono coerenti con le  lettere C, A, S, mentre nel 

quarto  rombo  (l'unità  visiva)  sono  compatibili  con  una  C  o  una  O.  E  queste  lettere 

sono compatibili a loro volta con alcune delle parole che conosciamo, in particolare lo 

sono  in  larga  misura  con  la  parola  CASO.  Ecco  che  cosa  accade  adesso:  quando 

accendiamo la rete, inizialmente vengono attivate C, A, S, e poi, nell'ultima posizione, 

sia l'O che la C. 

Esse a loro volta attivano CASO, e CASC, di rimando, s'innesca un feedback che 

rinforza  l'attivazione  delle  altre  unità.  In  questo  modo  la  simulazione  del  sistema 

percettivo finisce per inserire un'O in questa posizione, rinforzando la sua attivazione. 

In realtà, si pensa che le connessioni di ritorno continuino fino al livello degli aspetti 

visivi  delle  lettere,  in  modo  che  possiamo  in  ogni  modo  inserirli  nella  nostra 

esperienza percettiva, anche se non sono necessariamente tutti presenti nel segnale. 

Concludendo,  attraverso  quest'esempio  abbiamo  potuto  vedere  all'opera  in 

modo molto semplice il lavoro di simulazione: costruire un insieme d'unità (in questo 

caso  abbiamo  unità  esplicite  per  le  parole,  le  lettere  e  le  caratteristiche  visive  delle 

lettere) e inoltre costruire delle connessioni fra di loro. Infine, abbiamo un computer 

con degli algoritmi molto semplici che consentono all'attività di propagarsi da un'unita 

all'altra.  In  questo  modo  possiamo  simulare  l'attività  computazionale  che  riteniamo 

avvenga teoricamente in questi casi nella rete neurale del cervello.

3.2 Come apprende la rete

Vediamo ora come una rete siffatta possa apprendere un compito modificando 

solo il peso delle sue connessioni. Uno degli elementi che più differenziano i modelli 

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connessionisti  dai  modelli  tradizionali  di  rappresentazione  e  d'elaborazione 

dell'attività mentale è costituito dal modo in cui la conoscenza è immagazzinata nella 

rete. Tradizionalmente si pensava che la conoscenza fosse come scritta in un libro, in 

cui  vi  era  una  forma  (indice,  numerazione  di  pagine,  capitoli,  paragrafi,  …e  la 

struttura del libro stesso) e un contenuto (i concetti espressi tramite le parole).

Nei  modelli  connessionisti,  invece,  la  conoscenza  è  direttamente  contenuta  nelle 

connessioni interne, in altre parole è come se noi stessi fossimo il libro, dove non c'è più 

differenza fra forma e contenuto, tra mente e corpo. Questo è un modo interessante e 

innovativo  di  rappresentare  la  conoscenza,  poiché  implica  che  essa  non  sia 

direttamente accessibile da parte dei processi mentali coscienti. Infatti il pensiero non 

è qualcosa che noi consultiamo da un punto di vista obiettivo mentre agisce, in altre 

parole  non  possiamo  tenere  il  libro  in  mano  e  leggerne  il  contenuto,  possiamosolo 

viverne il suo contenuto e descriverne l’esperienza vissuta. 

Le  connessioni  fra  i  neuroni  non  possono  essere  ispezionate;  non  possono 

essere lette o  interpretate per qualcun altro. Possono solo influenzare il modo in cui 

un  neurone  attiva  altri  neuroni.  Ecco  qual  è  la  vera  differenza  tra  i  modelli 

connessionisti  e  l'approccio  tradizionale  di  rappresentazione  della  conoscenza.  Ed 

ancora,  supponiamo che  io  stia pensando a una  tazza da caffè  sulla quale è dipinta 

una scimmia. 

In termini connessionisti si pensa che a questo punto accada questo: il fatto di 

pensare  alla  tazza  con  la  scimmia  attiva  gruppi  di  neuroni  in  diverse  parti  del  mio 

cervello. Uno di questi gruppi si trova in regioni strettamente visuali o, in altre parole, 

in parti del cervello che rappresentano esattamente l'aspetto della tazza, la forma del 

manico  e  il  modo  in  cui  esso  si  congiungono  alla  tazza  stessa.  Un  altro  gruppo  di 

neuroni magari rappresenta il mio pensiero del momento: “Quasi quasi mi faccio un 

caffè”. 

Un'altra parte del mio cervello può contenere un gruppo di neuroni attivi, che 

rappresenta  il  mio  pensiero  sulla  scimmia:  “Che  immagine  strana  per  una  tazza  da 

caffè!” Si arriva, dunque, ad un concetto molto semplice: il contenuto del pensiero è 

rappresentato da una distribuzione d'attività,  la quale specifica, per ciascun neurone, 

se  esso  è  o  non  è  attivo.  E  quando  io  penso,  immagino  che  queste  distribuzioni 

d'attività evolvano e si modifichino ad ogni passaggio dei processi cognitivi.

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Il  modo  in  cui  l'esperienza  modifica  le  connessioni  fra  neuroni  è  uno  degli 

aspetti  più  interessanti  e  importanti  dei  modelli  connessionisti.  I  modelli 

connessionisti cercano di spiegare ciò che accade nello sviluppo comportamentale del 

bambino, immaginando che il cervello usi l'informazione proveniente dalle esperienze 

recenti  come base per  cercare di prevedere ciò  che accadrà,  e  che quindi  il  cervello 

osservi ciò che accade realmente. Immaginiamo che un bambino abbia di fronte uno 

schermo opaco, e che una palla sia fatta rotolare sul pavimento in modo tale da farla 

scomparire dietro lo schermo. 

La domanda è: che cosa dovrebbe aspettarsi il bambino? Se non ha conoscenze 

precedenti,  può  darsi  che  non  si  aspetti  che  la  palla  appaia  dall'altra  parte  dello 

schermo. Se questo è  il  caso, proverà  davvero  sorpresa a  vedere  riapparire  la palla. 

McClelland  pensa  che  sia  proprio  questo  tipo  di  sorpresa  a  spingere  il  bambino  ad 

apprendere che gli oggetti  continuano ad esistere anche quando noi non  li  vediamo 

più. 

L'idea  fondamentale  è  la  seguente:  nel  corso  di  una  qualunque  esperienza  la 

mente continua a cercare di prevedere gli eventi futuri e ciò che accade realmente indica 

alla  mente  ciò  che  essa  avrebbe  dovuto  prevedere.  Il  cervello  segue,  quindi,  una  regola 

d'apprendimento molto semplice: esso corregge i parametri delle nostre attese mentali, in 

modo  che  la  volta  successiva  le  nostre  previsioni  siano  più  precise.  Quando  questi 

parametri sono ben regolati, noi abbiamo a nostra disposizione un modello “interno” 

del mondo che ci circonda. 

Una rete può utilizzare, quindi, un algoritmo, denominato retropropagazione o 

regola delta,  che, partendo dallo  scarto  tra  le  sue previsioni e  il  risultato desiderato, 

modifica  gradualmente  le  forze  delle  connessioni  tra  i  neuroni.  Questa  procedura 

d'apprendimento comporta la presentazione di un insieme di coppie di pattern d'input 

e d'output. 

Il  sistema anzitutto usa  il  vettore d'input per  ricavarne un vettore d'output,  e 

poi  confronta quest'ultimo con  il vettore d'output desiderato, o vettore bersaglio. Se 

tra  i  due  vettori  non  c'è  alcuna  differenza,  non  ha  luogo  alcun  apprendimento. 

Diversamente,  per  ridurre  la  differenza,  vengono  cambiati  i  pesi.  La  regola  per 

cambiare i pesi in seguito alla presentazione di una coppia p d'input/output è data da:

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p wji  =   ( tpj ­ opj ) ipi  =   pj ipi

Dove tpj è l'output desiderato per il j­esimo componente del pattern di output 

per  il  pattern  p,  opj  è  il  j­esimo  elemento  del  pattern  di  output  effettivamente 

prodotto  dalla  presentazione  del  pattern  di  input  p,  ipi  è  il  valore  dell'i­esimo 

elemento del pattern di input, pj =    tpj ­ opj , e   p wji  è il cambiamento del 

peso  della  connessione  dalla  i­esima  unità  alla  j­esima  unità,  che  segue  dalla 

presentazione del pattern p.

L'applicazione  della  regola  delta  generalizzata,  perciò  comprende  due  fasi: 

nella prima fase l'input viene presentato e propagato attraverso la rete per calcolare il 

valore di output opj per ciascun'unità. Questi output sono poi confrontati con i valori 

desiderati,  generando  così  un  segnale  d'errore pj  per  ciascun'unità  d'output.  La 

seconda  fase  comporta  un  percorso  a  ritroso  attraverso  la  rete  (analogo  all'iniziale 

percorso ascendente), durante il quale il segnale d'errore è trasmesso a ciascun'unità 

della  rete,  e  i  pesi  vengono  cambiati  appropriatamente.  Questo  percorso  a  ritroso 

rende possibile il calcolo ricorsivo di  quale è stato descritto sopra. Il primo passo 

consiste  nel  calcolare    per  ciascun'unità  d'output.  Questo  valore  equivale 

semplicemente  al  prodotto  tra  la  derivata  della  funzione  di  schiacciamento  e  la 

differenza  fra  il  valore  d'output  effettivo  e  quello  desiderato  dell'unità.  A  questo 

punto,  è  possibile  calcolare  le  modificazioni  dei  pesi  in  tutte  le  connessioni  che 

conducono allo strato finale. Fatto questo, vanno calcolati  i valori di  per tutte le 

unità del penultimo strato della rete e così via. 

Prima  di  presentare  i  risultati  ottenuti  con  queste  reti,  è  bene  fare  alcune 

considerazioni; anzitutto, va osservato che non tutti i pesi devono essere variabili, un 

numero  qualsiasi  di  pesi  può  essere  fisso,  in  questo  caso,  l'errore  è  propagato 

esattamente come prima, e i pesi con valore fisso non sono modificati. Occorre notare 

anche che non c'è ragione per cui alcune unità d'output non possano ricevere un input 

da altre unità d'output di strati precedenti. 

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In  questo  caso,  queste  unità  ricevono  due  tipi  differenti  di  segnale  d'errore: 

quello ricavato dal confronto diretto con il valore desiderato, e quello trasmesso dalle 

altre unità di output di cui esse influenzano l'attivazione. In questo caso, la procedura 

corretta  consiste  semplicemente  nell'aggiungere  le  modificazioni  dei  pesi  dovute  al 

confronto diretto a quelle trasmesse a ritroso dalle altre unità d'output.

Ricapitolando: alla rete sono presentate delle  informazioni, dalle quali essa fa 

delle  previsioni,  e  di  volta  in  volta  la  rete  paragona  le  sue  previsioni  con  i  risultati 

attesi,  modificando,  per  retropropagazione,  le  forze  delle  connessioni  tra  i  suoi 

neuroni;  progressivamente  questo  processo  consente  alla  rete  di  trovare  quelli  che 

sono i valori corretti  in grado di  indurre le connessioni a modificarsi, producendo le 

risposte attese. C'è una famosa immagine, formata da un gran numero di macchie. Se 

si  osserva,  all'inizio  non  si  vede  niente,  ma  dopo  che  si  fissa  per  un  po',  tutte  le 

macchie e i punti rivelano un cane dalmata che annusa il terreno. 

Fig.3.9

Se  evidenziamo  con  una  curva  ciò  che  è  appena  avvenuto  nell'osservatore, 

rendiamo  ancora  più  evidente  il  processo  descritto  sopra.  Misureremo  i  tempi  in 

termini  di  “cicli  d'insegnamento”.  A  ciascun  ciclo,  alla  rete  sono  presentate 

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contemporaneamente  tutte  le  possibili  combinazioni  di  segnali  d'entrata, 

accompagnate dalla risposta corretta, in modo che essa possa imparare.

Fig.3.10

Risultato: l'errore complessivo è inizialmente abbastanza alto, ma con il passare 

del tempo diminuisce un poco e quindi rimane stabile per un lungo periodo. Alla fine 

raggiunge un punto in cui crolla bruscamente; qui possiamo affermare che la rete ha 

risolto il problema. Il grafico mostra però che vi è un lungo periodo durante il quale, 

dal punto di vista della prestazione della  rete, non sembra succedere assolutamente 

niente:  è  questo  il  periodo  in  cui  la  rete  si  prepara  a  raggiungere  questo  punto  di 

rapida transizione. 

Secondo  McClelland  la  forma  di  questa  curva  è  correlata  ad  un  fenomeno 

studiato approfonditamente da Piaget lungo tutto l'arco della sua carriera (si veda ad 

esempio  Karmiloff­Smith  1995).  Si  tratta  del  fenomeno  della  transizione  fra  stadi, 

ossia  di  transizioni  da  uno  stadio  di  sviluppo  caratterizzato  da  un  certo  tipo  di 

pensiero,  ad  un  altro  stadio nel  quale  è  adottato  un  modo  di  pensare  radicalmente 

diverso. Piaget aveva caratterizzato tali stadi in molti domini diversi.

  Uno  degli  aspetti  che  più  colpiscono  nell'idea  degli  stadi  è  la  presenza  di 

lunghi  stati  stazionari,  durante  i  quali  sembra  che  non  cambi  nulla,  interrotti  da 

transizioni  molto  brusche  che  portano  allo  stadio  successivo.  Questa  fu 

un'osservazione davvero sconcertante per molti psicologi dello sviluppo, perché, da un 

lato,  essi  volevano  credere  che  l'esperienza  influenzasse  lo  sviluppo,  dall'altro  lato 

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sembrava loro (e in verità non solo a loro), che l'impatto dell'influenza sullo sviluppo 

si debba osservare in ogni momento.

 Quello che il comportamento di questi modelli ci permette di comprendere è 

che gli effetti dell'esperienza possono davvero accumularsi “sullo sfondo” durante un 

particolare stadio di sviluppo, consentendo poi all'individuo di raggiungere il punto in 

cui è pronto a cambiare in modo molto rapido e improvviso.

3.3 Pregi e difetti del connessionismo

Dopo  avere  mostrato  il  funzionamento  delle  reti  è  bene  evidenziare  anche  i 

loro limiti nel paragonarle alla struttura cerebrale, in seguito quindi saranno elencati 

punto  per  punto  gli  aspetti  tecnici  di  maggior  contrasto  con  la  realtà,  questo  ci 

permetterà  di  comprendere  meglio  quelle  che  sono  le  limitazioni  nelle  tesi 

precedentemente esposte di Lakoff e Grady.

I neuroni sono lenti

Una  delle  caratteristiche  più  importanti  dei  processi  cerebrali,  dipende  dalla 

velocità  delle  sue  componenti.  I  neuroni  sono  molto  più  lenti  delle  componenti 

computazionali  convenzionali.  Se  le  operazioni  fondamentali  nei  nostri  moderni 

calcolatori  seriali  si  misurano  in  nanosecondi,  i  neuroni  operano  in  tempi  che  si 

misurano  in  millesecondi,  se  non  centesimi  di  secondo.  Così  l'hardware  di  base  del 

cervello è di 10 alla 6 circa più lento di quello dei calcolatori seriali. Immaginiamo un 

rallentamento dei  nostri  programmi  convenzionali di  I.A.  (intelligenza  artificiale) di 

un fattore 10 alla 86. 

Più notevole è il fatto che si sia in grado di eseguire dei processi estremamente 

complessi  in poche centinaia di millesecondi. E'  chiaro  che  il processo percettivo,  la 

maggior  parte  del  recupero  dalla  memoria,  gran  parte  del  processo  linguistico,  del 

ragionamento  intuitivo  e  di  molti  altri  processi  si  verificano  in  questo  quadro 

temporale. Ciò  significa che questi compiti devono essere eseguiti  in non più di 100 

passi circa. E' questo ciò che Feldman (1985) chiama il vincolo del programma in 100 

passi. 

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Si osservi  inoltre, che i singoli neuroni secondo i connessionisti non calcolano 

delle funzioni molto complicate. Sembra improbabile che un solo neurone calcoli una 

funzione molto più complessa di una singola istruzione di un calcolatore digitale.

C'è un grandissimo numero di neuroni

Un  altro  aspetto  autoevidente,  ma  importante,  del  processo  cerebrale  è  il 

grandissimo numero di unità  che  entrano  in gioco.  Le  stime  convenzionali  indicano 

che  nel  cervello  il  numero  dei  neuroni  è  dell'ordine  di  10¹º,  10¹¹.  Per  di  più,  ogni 

neurone è un'unità attiva, ciò, di  fatto,  fa pensare ad un parallelismo su  larga scala. 

Intendere  il  calcolo  in  parallelo  in  termini  di  qualche  centinaio  di  processori 

ragionevolmente complessi conduce a un modello sbagliato. 

E' più che probabile che sia la scala così ampia del parallelismo del cervello che 

gli dà questi prodigiosi poteri. Anche se il cervello dell'uomo è grande, il numero dei 

neuroni  non  è  illimitato.  Può  accadere  che  a  volte  i  modelli  connessionistici  teorici 

vadano oltre i limiti della plausibilità, per il grande numero di unità che richiedono. E' 

questo un vincolo reale di cui dobbiamo tenerne conto nel valutare questi modelli. 

I neuroni ricevono gli input da un gran numero d'altri neuroni

Un'altra  importante  caratteristica  del  processamento  del  cervello  è  il  largo 

ventaglio  di  collegamenti  che  esiste  da  e  verso  ogni  unità.  Le  stime  variano,  ma  i 

singoli neuroni corticali possono ricevere da 1.000 a 100.000 sinapsi sui loro dendriti 

(le  zone  di  connessione  in  entrata  con  gli  altri  neuroni),  e  possono  analogamente 

inviare  da  1.000  a  100.000  sinapsi  ai  dendriti  degli  altri  neuroni.  In  generale,  non 

basta ricevere uno o pochi potenziali d'azione per generarne uno nuovo. 

Ciò  indica  che  nell'uomo  il  calcolo  non  implica  circuiti  logici  come  quelli  di  cui 

sono  composti  i  nostri  calcolatori  digitali,  ma  piuttosto  un  processo  statistico  in  cui  le 

singole  unità  non  “prendono  decisioni”,  ma  queste  sono  il  prodotto  dell'azione 

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cooperativa  di  molte  unità  di  processamento  abbastanza  indipendenti.  L'attendibilità 

dipende dalla stabilità del comportamento statistico di un ampio numero d'unità. 

Ancora, questo  livello di connettività dovrebbe esser messo a confronto con  il 

numero  di  “vicini”  immediati  dei  processori  degli  attuali  calcolatori  in  parallelo.  Si 

tratta di numeri che sono abitualmente misurati  in decine (o meno) piuttosto che in 

migliaia.  Per  di  più,  questa  connettività  così  ampia  indica  che  nessun  neurone  è 

distanziato di molte sinapsi da ogni altro neurone. 

Se,  per  amore  di  discussione,  assumiamo  che  ogni  neurone  corticale  sia 

connesso con 1.000 altri neuroni, e che il sistema formi un reticolo, tutti i neuroni del 

cervello sarebbero all'interno di quattro sinapsi al massimo l'uno dall'altro. Un ampio 

ventaglio in ambo i sensi conduce così a una rete poco profonda. Si dovrebbe infine 

rilevare che anche se il ventaglio è ampio, non è illimitato. I limiti possono provocare 

dei  problemi  quando  si  vogliano  estendere  alcune  idee  semplici  sui  magazzini  di 

memoria e sul recupero.

I neuroni comunicano attraverso attivazioni ed inibizioni elettro­chimiche

La comunicazione tra neuroni implica semplici messaggi eccitatori ed inibitori. 

Così, a differenza d'altri messaggi in parallelo che attraversano sistemi come l'ACTOR 

di Hewitt (1985), che consente il passaggio di messaggi simbolici arbitrati tra  le sue 

unità, nei modelli PDP sono richiesti numeri facilmente gestibili, numeri interi o con 

pochi decimali. Ciò significa che quelli che passano in questi sistemi non sono simboli, 

ma  eccitazioni  ed  inibizioni.  Nella  misura  in  cui  sono  necessari  dei  simboli,  essi 

devono emergere da questo livello subsimbolico d'elaborazione (Hofstadter 1979).

Le connessioni nel cervello sembrano avere una chiara struttura geometrica e topologica

I  pattern  delle  connessioni  nel  cervello  presentano  numerosi  fatti  che  per 

quanto  importanti,  ancora  non  hanno  avuto  una  grande  influenza  sui  modelli  in 

esame. In primo luogo, la maggior parte delle connessioni sono abbastanza corte. Ve 

ne  sono  di  lunghe  (e  queste  tendono  ad  esser  eccitatorie),  ma  non  sono  la 

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maggioranza.  E  vi  sono  vincoli  geometrici  e  topologici  abbastanza  forti.  C'è  una 

corrispondenza  approssimativa,  nel  senso  che  i  parametri  dell'input  (come  la 

localizzazione  spaziale  nella  visione  o  la  frequenza  nell'udito)  presentano  delle 

corrispondenze con l'estensione spaziale del cervello.

  Sembra  in  generale  che  le  regioni  prossime  in  una  parte  del  cervello 

corrispondano  alle  regioni  prossime  nell'altra  parte.  Per  di  più,  c'è  una  simmetria 

generale delle connessioni. Se ci sono delle connessioni da una regione cerebrale ad 

un'altra, abitualmente ci sono anche connessioni in direzione inversa. 

Alcune  di  queste  caratteristiche  sono  state  implementate  nei  modelli  di 

McClelland  e  Rumelhart,  anche  se,  e  la  cosa  è  interessante,  di  massima  per  motivi 

computazionali, più che per verosimiglianza biologica. Per esempio, una caratteristica 

del  loro  primo  lavoro  sulla  percezione  delle  parole  è  stata  una  simmetria 

approssimativa (McClelland e Rumelhart 1981).  

La  struttura  geometrica  delle  connessioni  cerebrali  non  ha  esercitato  una 

grande influenza sul loro lavoro. In generale, non si sono preoccupati di dove possono 

essere  fisicamente  le  unità,  le  une  rispetto  alle  altre.  Se  peraltro  immaginiamo 

l'esistenza  di  un  vincolo  per  la  conservazione  della  lunghezza  delle  connessioni,  è 

facile vedere che le unità che interagiscono dovrebbero essere le più vicine tra di loro. 

Se  a  ciò  si  vuole  aggiungere  la  concezione  che  uno  spazio  a  moltissime 

dimensioni  determinato  dal  numero  delle  interconnessioni  dovrebbe  essere 

incorporato  in  uno  spazio  bi  o  tridimensionale  (forse  di  due  dimensioni  e  mezzo) 

corticale,  possiamo  vedere  l'importanza  della  messa  in  corrispondenza  delle  più 

importanti dimensioni fisiche con la geometria del cervello.

 

Le informazioni sono continuamente disponibili

Un'altra caratteristica importante del processamento neurale delle informazioni 

consiste  nel  fatto  che  i  neuroni  sembrano  fornire  degli  output  continuamente 

disponibili (Norman e Bobrow 1975). In altri termini, non sembra che ci sia una fase 

apprezzabile di decisione durante la quale un'unità rifletta l'input in corso. 

Nella misura in cui un'unità rappresenta un'ipotesi, e il suo livello d'attivazione 

(il tasso istantaneo di scarica, o la probabilità di scarica) rappresenta la misura in cui i 

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dati  disponibili  favoriscono  tale  ipotesi,  il  livello  d'attivazione  dell'unità  fornisce 

informazioni  continue  sulla  valutazione  che  si  sta  formulando  dell'ipotesi. 

Quest'ipotesi  faceva  parte  dei  precursori  del  lavoro  sul  processamento  distribuito  in 

parallelo,  specialmente  del  modello  a  cascata  (McClelland  1979)  e  del  modello 

interattivo  di  lettura  (Rumelhart  1977),  ed  è  una  caratteristica  che  possiedono 

virtualmente tutti i modelli PDP. 

Degrado graduale con danno e sovraccarico d'informazioni

Dallo studio delle  lesioni cerebrali e d'altre  forme di danno cerebrale, sembra 

abbastanza  chiaro  che  non  esiste  nessun  singolo  neurone  il  cui  funzionamento  è 

essenziale per le operazioni d'ogni specifico processo cognitivo. Se vi sono regioni del 

cervello  ragionevolmente  circoscritte  che  possono  giocare  dei  ruoli  abbastanza 

specifici,  particolarmente  ai  livelli  inferiori  di  processamento,  sembra  abbastanza 

chiaro  che  all'interno  delle  regioni  la  prestazione  è  caratterizzata  da  un  degrado 

graduale  (graceful  degradation),  in  cui  la  prestazione  del  sistema  si  degrada 

gradualmente  con  la  progressiva  distruzione  di  neuroni,  ma  non  c'è  nessun  punto 

critico specifico in cui la prestazione collassa.

 Un degrado graduale di questo tipo è caratteristico d'alcune sindromi globali 

degenerative come la malattia d'Alzheimer (Schwartz, Marin e Saffran 1979). Ancora 

una volta, abbiamo qui una netta differenza rispetto a molti modelli seriali simbolici, 

in  cui  il  danno  in  un  singolo  passo  di  un  programma  enorme  può  avere  un  effetto 

catastrofico sulla prestazione complessiva del sistema. Immaginiamo un computer che 

sta operando e in cui una certa istruzione non funziona. 

Finché  tale  istruzione  non  viene  usata,  non  ci  dovrebbe  essere  nessuna 

conseguenza, ma quando viene impiegata in qualche processo, questo semplicemente 

non  si  svolge.  Sembra  che  nel  cervello  il  sistema  sia  estremamente  ridondante,  e 

capace di operare con una perdita di prestazione circa simile per entità alla grandezza 

del danno. 

Controllo distribuito, e non centrale 

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C'è un aspetto conclusivo dei nostri modelli, che deriva vagamente da quanto 

sappiamo delle  funzioni  cerebrali.  E'  questo  il  concetto base,  la  non esistenza di un 

central executive, che sovrintenda al flusso generale del processamento. Nella cornice 

della  programmazione  convenzionale, è  facile  immaginare un  sistema  esecutivo  che 

chiami  delle  subroutines,  per  l'esecuzione  dei  compiti  necessari.  In  questi  modelli, 

tutto il processamento è sostanzialmente dall'alto in basso, o guidato dall'executive; se 

non c'è executive, nessun processamento può aver luogo.

Le  ricerche  neuropsicologiche  su  pazienti  cerebrolesi  indicano  che  non  c'è 

nessuna  parte  della  corteccia  dalle  cui  operazioni  dipendano  tutte  le  altri  parti. 

Sembra piuttosto che tutte le parti operino insieme, influenzandosi reciprocamente, e 

che  ogni  regione  contribuisca  alla  prestazione  complessiva  nei  compiti  e 

all'integrazione  in essa di  certi  tipi di vincoli o di  fonti di  informazione. E'  indubbio 

che  i meccanismi del  tronco  cerebrale  controllino delle  funzioni  corporee  vitali  e  lo 

stato  complessivo  del  sistema,  e  che  certe  parti  della  corteccia  siano  critiche  per  la 

ricezione d'informazioni dalle modalità specifiche. Ma le funzioni di livello superiore 

sembrano caratterizzate soprattutto da un controllo distribuito, e non centrale.

Questo punto fu chiarito già dal neuropsicologo russo Lurija (1966; 1973). Le 

sue ricerche hanno dimostrato che per ogni funzione comportamentale integrata (per 

esempio, percezione visiva, comprensione o produzione del linguaggio, soluzione dei 

problemi,  lettura)  sono  molte  le  diverse  parti  della  corteccia  che  giocano  un  ruolo, 

sicché  le  lesioni  di  ogni  parte  influiscono  sulla  prestazione,  ma  non  sono 

assolutamente  cruciali  per  essa.  Anche  i  lobi  frontali,  che  vengono  con  maggior 

frequenza  associati  alle  funzioni  direttive,  non  sono  assolutamente  necessari  nella 

concezione  di  Lurija,  poiché  funzioni  residue  si  osservano  anche  dopo  distruzioni 

estese di  tali  lobi  (e  lesioni  lievi  in questa  sede possono essere addirittura del  tutto 

asintomatiche). 

I lobi frontali devono giocare un ruolo caratteristico, facilitando i cambiamenti 

di  strategia  e  inibendo  le  risposte  impulsive,  ma  il  controllo  complessivo  del 

processamento può essere gravemente danneggiato da lesioni delle strutture del lobo 

parietale,  che  appaiono  responsabili  della  conservazione  di  rappresentazioni 

organizzate, e che fanno da supporto all'attività coordinata e diretta a una meta.

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Il rilassamento è la modalità computazionale dominante 

Anche se nelle neuroscienze non c'è alcun'indicazione specifica che obblighi a 

vedere  la  necessità  del  rilassamento  nei  processi  computazionali  in  stile  cerebrale, 

tutte  le  caratteristiche  sinora  discusse  hanno  indotto  a  credere  che  la  modalità 

computazionale  dominante  nel  cervello  viene  spiegata  nel  modo  migliore  come  un 

sistema  di  rilassamento,  in  cui  il  calcolo  procede  come  un  tentativo  iterativo  di 

soddisfare un ampio numero di vincoli deboli. 

Così  le  connessioni  giocano,  non  il  ruolo  di  fili  in  un  circuito  elettrico,  ma 

rappresentano dei  vincoli  alla  co­occorrenza di  coppie d'unità.  Il  sistema può  essere 

concepito  come  “la  soluzione”,  e  non  tanto  “calcolante”  la  soluzione.  Ancora  una 

volta,  è  questo  un  importante  cambiamento  di  prospettiva  che  deriva  da 

un'interazione  tra  quel  che  capiamo  di  come  il  cervello  opera,  e  di  quali  siano  i 

processi necessari per ottenere il comportamento desiderato.

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I modelli PDP mancano di realismo neurale

Sono  molti  i  fatti  scoperti  nelle  neuroscienze  che  non  rientrano  in  questi 

modelli. Un esempio particolarmente vistoso è dato dal quasi universale assunto che 

le  unità  hanno  delle  connessioni  sia  eccitatorie  sia  inibitorie,  quando  sembra 

ragionevolmente chiaro che la maggior parte delle unità corticali sono o l'una cosa o 

l'altra. 

La  più  evidente  differenza  consiste  nel  considerare  che  le  unità  PDP 

comunichino attraverso numeri, spesso associati con i “tassi medi” di scarica, mentre, 

di  fatto,  i  neuroni  producono  spikes,  che  di  per  sé  potrebbero  avere  un  significato 

computazionale,  ma  come  vedremo  nel  prossimo  capitolo  la  propagazione  degli 

stimoli neurali ha caratteristiche molto diverse. 

Un  altro  esempio  di  mancanza  di  realismo  è  quello  dei  “pattern  diffusi  di 

comunicazione”, che si verificano quando vengono disperse sostanze chimiche in varie 

regioni  del  cervello  attraverso  il  circolo  sanguigno.  In  genere  assumiamo  che  la 

comunicazione  sia  punto  a  punto,  da  un'unità  a  un'altra,  in  questo  caso  invece 

abbiamo  un  sistema  “bagnato”  in  cui  le  informazioni  vengono  trasportate  dai  vasi 

sanguigni (si pensi all'ormone della crescita o all'adrenalina). 

Le  comunicazioni diffuse per mezzo di mediatori  chimici, possono giocare un 

ruolo  importante  nel  determinare  i  parametri  e  modulare  le  reti,  in  modo  che 

quest'ultime  possano  eseguire  compiti  anche  abbastanza  diversi  a  seconda  delle 

diverse occasioni. 

I modelli PDP sono per  la maggior parte omogenei  rispetto al  funzionamento 

delle unità, che sono progettate alcune come eccitatorie ed altre come inibitorie, ma, 

al di  là di ciò, è ben raro che siano differenziate. Sappiamo invece che ci sono forse 

centinaia di tipi di neuroni, e non c'è dubbio che questi tipi diversi giochino un ruolo 

in parte differenziato nel sistema di processamento delle informazioni.

Il problema unità/evento 

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Tra gli ulteriori problemi, per quel che riguarda l'approccio PDP, vi sono anche 

alcuni aspetti  tecnici di calcolo. Se ne può  fare un elenco, ma  i due più  significativi 

sono  rappresentati  dal  problema  unità/evento  (type­token,  Jackendoff  1983)  e  dal 

trattamento delle  variabili.  Il  problema unità/evento  consiste  nell'essere  in  grado di 

tenere conto di diverse occorrenze dello stesso concetto, a volte nel medesimo istante. 

Così,  se  il  sistema è  a  conoscenza del  fatto  che  “Gianni mangia un panino”  e 

che “Elena mangia un panino”,  il  sistema deve trattare  i due panini come differenti. 

Questa  capacità  non  è  semplice  per  i  sistemi  PDP:  le  reti  sono  magnifiche  per 

rappresentare le proprietà generali, che possano valere per classi d'oggetti. E' qui che 

si  mostra  il  loro  potere  di  generalizzare,  di  generare  automaticamente  valori  per 

difetto.  Ma  l'abilità  complementare  di  tenere  le  cose  distinte  sembra  molto  più 

difficile.

La necessità di una struttura valutativa ulteriore 

Un  problema  che  presentano  i  modelli  PDP  consiste  nel  fatto  che  essi  sono 

troppo  specializzati,  preoccupati  così  di  risolvere  i  problemi  del  momento,  senza 

chiedersi come può collocarsi il singolo modello in un insieme complessivo. 

I  vari  modelli  ci  si  presentano  come  versioni  differenti  di  un'unica  struttura 

omogenea,  perfettamente  idonea  a  svolgere  i  suoi  compiti,  ma  secondo  McClelland 

non  sufficiente  per  fare  l'intero  lavoro,  come  se  questi  modelli  fossero  nell'insieme 

esperti  muratori,  tappezzieri,  imbianchini,  gessisti,  posatori,  elettricisti,  che,  in 

assenza di un'organizzazione generale che li sovrintenda, fossero incapaci di costruire 

una  casa.  Una  struttura  PDP  non  può  eseguire  un  compito  così  complesso,  perché 

manca la comunicazione tra i vari sistemi.

E'  un  discorso  che  sembra  particolarmente  pertinente  a  proposito 

dell'apprendimento.  Anche  se  molte  delle  regole  dell'apprendimento  sono 

autocorrettive,  e  tendono  perciò  a  convergere  in  un  modo  o  nell'altro  verso  una 

prestazione  ottimale,  esse  sembrano  insufficientemente  sensibili  agli  scopi  e  alle 

valutazioni gobali dell'organismo in cui sono implementate. 

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Se  oggi  si  ammette  tranquillamente  che  di  per  sé  l'intenzione  di  apprendere 

non è un determinante importante dell'apprendimento, quest'intenzione però mobilita 

le attività cognitive, con il risultato di un migliore apprendimento. 

Non  molto  viene  detto  su  queste  intenzioni,  la  loro  fonte,  o  i  modi  in  cui 

influenzano  l'apprendimento  e  la  prestazione  del  sistema.  Quando  si  passa 

all'apprendimento, è  frequente  il caso che ci sia un qualcosa che deve sovrintendere 

alle  operazioni  e  agisce  come  addestratore.  Ma  questo  addestratore  è  distinto  dai 

meccanismo  di  apprendimento,  e  deve  essere  in  grado  di  valutare  la  qualità  della 

prestazione. 

Tutte  queste  critiche  hai  sistemi  PDP  lasciano  supporre  che  la  rete 

connessionistica sia mancante di qualcosa rispetto alla realtà  fisiologica. L'utilizzo di 

reti  piccole  per  ridotti  insiemi  di  dati  può  ridurre  questa  differenza,  tuttavia  se  si 

dovessero utilizzare reti più grandi avremo problemi di addestramento (regola delta, 

problema  dei  100  passi  di  Feldman,  …)  o  nel  caso  di  più  reti  che  operino 

contemporaneamente  avremo  problemi  di  gestione  e  dovremmo  utilizzare  sovra­

programmi e questo non è possibile per compiti altamente specializzati.

  Utilizzare  quindi  reti  connessionistiche  per  simulare  modelli  neurali  di 

percezione e di meccanismi motori appare allora più complesso di quanto era parso in 

un primo momento. Se è corretto dire che le simulazioni (attraverso le reti ridotte) di 

Bailey, Regier, Narayanan provano che è possibile considerare la mente come “fisica”, 

visto che gli schemi neuronali della percezione e dei meccanismi motori sono gli stessi 

utilizzati per la formazione dei concetti, è altresì valido dire che questi software hanno 

delle  limitazioni  che  ci  impediscono  di  pensare  che  il  cervello  le  utilizzi  per  il 

linguaggio, l'apprendimento, il pensiero,…).

Cercheremo nel prossimo  capitolo di  superare queste difficoltà  analizzando  il 

tipo di informazione che viene processata nei neuroni, e aggiungeremo ciò di cui sono 

manchevoli le reti PDP, dando un nuovo impulso alla teoria delle metafore di Lakoff e 

Grady.

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Capitolo 3La Neurocomunicazione

“L'anima è un'ipotesi inutile:l'uomo è una macchina.”

Julien Offroy de La Mettrie

Dopo  quanto  mostrato  fin  ora,  emergono  delle  domande:  la  realtà  fisiologica 

del cervello è quella che è riprodotta dai sistemi connessionistici o c'è qualcosa che rimane 

fuori? Ciò che viene escluso, perché ne è escluso? E' una realtà riproducibile teoricamente 

con  una  rete  connessionistica?  Le  metafore  primitive  di  Grady  sono  riproducibili  con 

simulazioni informatiche?

Partiremo  dalle  caratteristiche  fisiologiche  del  neurone  descrivendo  la  sua 

neurocomunicazione,  cioè  come  viene  trasportata  l’informazione  elettro­chimica  tra  i 

neuroni, paragonandola in seguito a quella tra  i nodi delle reti PDP e concluderemo 

con  la  proposta  di  un  modello  per  poterla  riprodurre  adeguatamente  non  tanto  dal 

punto  di  vista  strettamente  fisico  (la  creazione  di  un  altro  neurone)  quanto  per  la 

simulazione informatica , i passaggi logico­matematici che in esso avvengono.

3.1 Come trasporta il segnale la cellula neuronale.

I neuroni che compongono il sistema nervoso possono essere diversi per forma 

e dimensioni, ma possono essere schematizzati con un modello unitario.

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Fig.4.1

Ciascuna  cellula  è  formata  da  un  corpo,  il  soma,  che  dà  origine  a  due 

prolungamenti,  i  dendriti  e  l'assone.  Entrambi  i  prolungamenti  terminano  con  le 

sinapsi  ovvero  i  punti  di  contatto  con  altri  neuroni  o  in  alcuni  casi  con  bottoni 

sinaptici. Tra una sinapsi e l'altra scorre l'informazione, che è propagata sia in maniera 

elettrica che elettro­chimica. 

Quell’elettrica  consiste  in  una  carica  che  attraversa  le  pareti  cellulari  in 

entrambi le direzioni, e trasmette lo stimolo in maniera pressoché istantanea, facendo 

interagire gruppi di cellule simultaneamente. 

Pensiamo alla risposta motoria che ha la nostra mano quando tocca qualcosa di 

estremamente caldo o  la reazione classica al colpo del martelletto del dottore su un 

ginocchio.  L'informazione  elettro­chimica  è  invece  modulabile,  si  ha  un  trasporto 

dell’informazione con un flusso di ioni dai dendriti attraverso l'assone fino alla sinapsi 

opposta e da qui agli altri neuroni in maniera unidirezionale. 

Il  passaggio  non  è  più  istantaneo  come  per  la  corrente  elettrica,  ma 

elettrochimico;  ciò  vuol  dire  che  tra  un  neurone  e  un  altro  esistono  particolari 

strutture, i bottoni sinaptici, che possono modulare il segnale con quantità (pacchetti) 

di ioni. 

Questi bottoni aumentano e diminuiscono il segnale da trasmettere e seconda 

della  frequenza  dell'impulso,  permettendo  così  ad  esempio  l’apprendimento  delle 

funzioni psico­motorie (come andare in bicicletta, sbucciare una mela con il coltello… 

) all'inizio sembra un compito impossibile, invece attraverso la pratica impariamo, così 

bene da sembrarci un'azione innata. 

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Questo accade in quanto l'apprendimento sembra consistere nella modifica dei 

pesi  della  rete  neuronale,  cioè  nel  tarare  le  quantità  di  ioni  rilasciati  dai  bottoni 

sinaptici ed è per questa sua caratteristica che ci occuperemo in questa sede solo della 

trasmissione elettro­chimica. 

La cellula neurale, qualsiasi essa sia,  trasmette  il segnale sempre con  la solita 

procedura:

A­ recepisce il segnale d'ingresso

B­ lo integra

C­ lo conduce (potenziale d'azione)

D­ lo fa uscire (potenziale sinaptico)

Fig.4.2

Il segnale d'ingresso si propaga attraverso la membrana del neurone, i tempi e i 

modi  di  questa  propagazione  dipendono  dalle  proprietà  elettrochimiche  della 

membrana.   Nella  figura  4.2  vediamo  le  quattro  sezioni  di  trasmissione 

dell'informazione neuronale: A è il soma a cui giunge la fine delle sinapsi in entrata di 

un  neurone  precedente  o  di  un  bottone  sinaptico  (post­sinapsi),  B  è  l'insieme  di 

segnali  che  da  A  vengono  recepiti  e  trasformati  in  frequenze  di  impulsi  unitari  che 

sono trasportati dall'assone C, e infine D è la parte del bottone sinaptico in uscita (pre­

sinaptica) in cui l’informazione è trasferita ad altri neuroni. 

La  trasmissione avviene  in questo modo:  la membrana  si  eccita  cambiando  il 

suo  potenziale  di  membrana  a  riposo,  cioè  la  differenza  di  potenziale  fra  la  parte 

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interna  e  quell'esterna  della  cellula  (di  solito  ­65mV),  che  viene  mantenuta  con 

concentrazioni chimiche di ioni di sodio, potassio e cloro.

Fig.4.3

Con l'arrivo di una stimolazione, la membrana cambia il suo potenziale, e in 

prossimità  di  una  zona  ben  precisa  del  corpo  della  cellula  (B),  posta  all'inizio  del 

corpo dell'assone, lascia partire una scarica elettrica del tipo tutto o nulla (potenziale 

d'azione), che si propaga attraverso l'assone (C) fino alla parte opposta della cellula.

Fig.4.4

Un  segnale  tutto  o nulla  significa  che nella  zona d'innesco  (B) è  generato un 

segnale elettrico digitale, la cui ampiezza e durata sono sempre le stesse e mantenute 

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tali  dalle  proprietà  elettrochimiche  della  membrana  assonica  (la  sua  ampiezza  può 

essere anche di 110mV ed essere trasportata per un metro). 

Nel  trasporto  (C)  il  segnale  ha  caratteristiche  unitarie,  la  trasmissione  delle 

informazioni  avviene  solo  grazie  alla  frequenza  degli  impulsi  che  attraversano 

l'assone,  e  alla  fine  (D)  il  segnale è  trasmesso alle  altre  cellule  attraverso  le  sinapsi 

(potenziale sinaptico). 

Quest'ultime  attraverso  un  bottone  sinaptico  rilasciano  pacchetti  di  neuro­

trasmettitore,  cioè  modulano  il  segnale  in  maniera  analogica  secondo  il  rapporto 

frequenza impulso/quantità neuro­trasmettitore. 

Fig.4.5

L'informazione  così  trasportata  si  modifica  dal  passaggio  da  un  elemento 

all'altro  del  neurone  e  successivamente  da  un  neurone  all'altro.  Nella  figura  4.6 

possiamo  vedere  come  alla  variazione  dello  stimolo  corrisponde  la  variazione  del 

rilascio di neuro­trasmettitore.

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Fig.4.6

3.1.1 La struttura della membrana (A).

In  questa  descrizione  dobbiamo  poi  tenere  conto  poi  di  altri  elementi  che 

incidono  sulla  trasmissione  del  segnale  come  la  struttura  della  membrana.  Nelle 

sinapsi la cellula che trasmette in quel preciso punto possiede, per usare un’immagine 

un  po’  fantasiosa  ma  efficace,  una  “pistola  a  spruzzo”:  vale  a  dire  un  sistema  che 

spruzza sulla membrana dell’altra cellula delle sostanze chimiche. Esistono molti  tipi 

di  queste  sostanze  chimiche  (aceticolina,  dopamina,  serotonina,  noradrenalina), 

ognuna delle quali provoca reazioni diverse. 

La  cellula  riceve  lo  spruzzo  ,  ha  in  quel  punto  un  ricettore  che  è  sensibile  a 

questo  messaggio  chimico:  e  attraverso  un  gioco  di  eccitazioni  e  inibizioni  questo 

stimolo  può  agire  come  grilletto,  provocando  nella  cellula  nervosa  ricevente  una 

scarica elettrica dovuta alla polarizzazione e depolarizzazione della membrana.

Quest’ultima  non  ha  una  distribuzione  di  potenziale  omogenea,  ma  può 

cambiare da zona a zona e nel tempo, in pratica è più o meno sensibile agli stimoli in 

entrata  e  può  modificare  questa  sua  sensibilità  nel  tempo  con  la  frequenza  degli 

impulsi che la attraversano.

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Allora possiamo descriverla così:

Fig.4.7

Dove  f1,  f2,  f3    sono  la  funzione  che  descrive  la  carica  della  membrana  e  la  sua 

variazione nel tempo t1, t2, t3, quindi avremo una funzione in un tempo distinto per 

ogni carica in entrata m,n,p.

3.1.2 La costante di spazio  .

Inoltre  le  sinapsi  possono  essere  collegate  spazialmente  alla  membrana  cellulare  in 

qualsiasi  punto,  cioè  vengono  suddivise  in  sinapsi  asso­somatiche,  asso­dendritiche, 

asso­assoniche a seconda del loro punto di contatto.

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Fig.4.8

La  disposizione  spaziale  delle  sinapsi  sulla  membrana  corrisponde  a 

caratteristiche  funzionali  ben  precise,  visto  che  il  segnale  trasportato  impiega  del 

tempo a muoversi. Questa variazione temporale non è considerata nelle reti PDP e nei 

computer in generale, perché sono reti elettriche e non elettro­chimiche. Nel neurone 

invece è  rilevante  la costante di  spazio ,  il  rapporto  fra  il  segnale  in  ingresso,  la 

distanza  percorsa  e  il  potenziale  della  membrana,  che  modifica  l'efficienza  della 

propagazione elettronica dei potenziali sinaptici. 

Fig.4.9

Ad  esempio:  il  potenziale  d'azione di  una  cellula a  (Fig.4.9)  evoca potenziali 

sinaptici  nelle  cellule  b  e  c.  Nel  punto  d'origine,  i  due  potenziali  sinaptici  sono  di 

uguale ampiezza e percorrono la stessa distanza sia nella cellula b che in quella c. Ma 

l'ampiezza  del  segnale  d’ingresso,  che  arriva  nella  zona  d'innesco  della  cellula  b,  è 

tuttavia maggiore di quella del segnale che arriva nella cellula c perché la costante di 

spazio dei dendriti di b è maggiore (1 mm) che non quella dei dendriti di c (0,1 mm).

Questo  vuol  dire  che  le  disposizioni  spaziali  dei  bottoni  sinaptici  e  più  in 

generale  la  diversa  propagazione  nel  tempo  del  segnale  tra  i  neuroni,  non  sono 

casuali, ma che, ad una loro precisa descrizione spaziale corrisponde una particolare 

capacità funzionale della rete, che viene tramandata geneticamente. 

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Fig.4.10

Bisogna  tenere  presente  inoltre  come  la  membrana  delle  cellule  nervose  sia 

molto  sottile  e  circondata  da  un  mezzo  conduttore;  essa  ha  perciò  una  capacità 

elevata che rallenta la conduzione dei segnali di voltaggio. 

Inoltre, le correnti che fanno variare la carica elettrica della membrana devono 

propagarsi  lungo  una  sottile  colonna  di  citoplasma  che  in  sostanza,  rappresenta  un 

cattivo  conduttore.  Anche  i  canali  ionici  passivi  che  danno  origine  al  potenziale  di 

riposo, contribuiscono a peggiorare la qualità dei segnali trasmessi dai neuroni. 

Essi  rendono,  infatti,  la  cellula  mal  isolata  e  ciò,  insieme  all'elevata  capacità 

della membrana, limita notevolmente la distanza che i segnali nervosi sono in grado 

di percorrere senza essere amplificati da processi attivi.

3.1.3 La zona d’innesco.

L'evoluzione ha  tuttavia sviluppato nel  sistema nervoso una serie di proprietà 

tese  a  compensare  queste  limitazioni.  La  lunga  costante  di  tempo  dei  neuroni  è 

sfruttata,  a  livello  della  loro  zona  integrativa  (B),  per  fare  una  somma  dei  diversi 

segnali  in  ingresso,  per  i  tempi  dell'ordine  di  millesecondi.  La  zona  integrativa  dei 

neuroni  ha  piccole  dimensioni;  ciò  fa  sì  che  i  potenziali  sinaptici  o  del  recettore 

vengano generati in prossimità della zona d'innesco ottimizzando perciò l'integrazione 

spaziale. 

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Fig.4.11

La zona d’innesco B trasforma il segnale analogico, quantitativamente rilevante 

(valore  della  carica),  in  segnale  digitale  (il  potenziale  d’azione  in  cui  è  rilevante  la 

frequenza),  cioè  trasforma  la  quantità  di  potenziale  sulla  membrana  in  cariche 

unitarie sull’assone.

Il  punto  B  funge  quindi  da  “modulatore  ad  impulsi  unitari”  biologico;  un 

modulatore è un circuito integrato che trasforma in un tempo t l’ampiezza del segnale 

in entrata (A) in frequenza d’impulsi (C).

I segnali d'ingresso che diminuiscono di ampiezza con la distanza (A), vengono 

codificati  in una sequenza di  impulsi adatti alla  trasmissione a  lunga distanza (C).  I 

canali  voltaggio­dipendenti  che  mantengono  la  differenza  di  potenziale  rilasciando 

ioni, danno, infatti, origine a potenziali d'azione, con un carattere di tutto o nulla, che 

possono venire condotti senza decremento. 

Nelle vie nervose in cui è particolarmente cruciale una segnalazione rapida, la 

velocità di conduzione del potenziale d'azione è aumentata dalla mielinizzazione delle 

fibre, dall'aumento del diametro degli assoni o da entrambi questi processi. 

In  D  il  potenziale  d’azione  g(i),  dove  i  è  l’impulso,  viene  trasformato  in 

potenziale sinaptico attraverso il rilascio da parte dei bottoni sinaptici di pacchetti di 

neuro­trasmettitore  r,s,v.  In  questo  caso  si  ha  schematicamente  un  modulatore  che 

traduce  la  frequenza del segnale  in ampiezza del segnale cioè  in pacchetti di neuro­

trasmettitore rilasciati g(i)=r,s,v.

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Tuttavia  il  potenziale  sinaptico  può  essere  inibito  o  eccitato  da  sinapsi  asso­

assoniche (Fig 4.8) quindi abbiamo g(i)=h(r) e per ogni bottone sinaptico g(i)=h(r), 

h(s), h(v).

Fig.4.12

Ricapitolando,  nella  trasmissione  dell'informazione  all'interno  del  neurone 

avvengono le seguenti trasformazioni:

1)

In A avviene una propagazione dei segnali d'ingresso dai vari bottoni sinaptici, in 

cui si tiene conto:

- Della frequenza dell'impulso in entrata e della sua carica (eccitatoria o inibitrice)

- Della topologia delle sinapsi, che si possono comunque disporre su tutto il corpo della 

cellula 

- Della  sensibilità  della  membrana  e  quindi  della  costante  di  spazio   fino  al  punto 

d'integrazione B 

- Della  variazione  nel  tempo  della  sensibilità  della  membrana  con  l'aumentare  e  il 

diminuire del le stimolazioni.

2)

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In  B  si  ha  la  traduzione  del  segnale  d’ingresso  (analogico)  in  potenziale  d’azione 

(digitale).

3)

Il segnale digitale attraversa C.

4)

E in D si traduce in un segnale analogico, che viene trasmesso dalla parte pre­

sinaptica al successivo neurone attraverso i bottoni pre­sinaptici. 

3.2 La trasmissione dell’informazione nei nodi delle reti PDP

In una rete informatica qualsiasi, la trasmissione del segnale è assimilabile alla 

trasmissione del segnale neuronale in C, in altre parole del tipo tutto o nulla, perché il 

computer funziona con un segnale digitale 0/1 (Fig.3.1). I sostenitori della possibilità 

di simulare un cervello con il computer (I.A. forte), simulando il funzionamento di un 

neurone  con  un  nodo  di  una  rete,  hanno  sottolineato  eccessivamente  quest'aspetto, 

non considerando la completa natura della trasmissione neuronale.

 La rete PDP usa genericamente delle unità  (i nodi),  formate da un  input, un 

valore di soglia e un output, come illustrato nel diagramma seguente.

Fig.4.13

L'input ha valori di solito decimali tra zero e uno la soglia d'attivazione è una 

funzione  che  si  attiva  solo  per  valori  fissati  e  che  elabora  il  segnale  in  uscita,  il 

dominio  della  funzione,  così  come  il  codominio  è  formato  dall'insieme  dei  numeri 

reali e più precisamente dai valori decimali tra 0 e 1. 

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Una rete usa una serie di queste unità collegate fra loro, dando ad ognuna un 

valore d'attivazione ed un peso diverso, trasformando un valore in entrata  in uno in 

uscita. Matematicamente:

(1) y = f (x)

Nel caso di più entrate (come illustrato sotto):

Fig.4.14

I valori d'input sono sommati così:

(1.1) y = f ( n + m + p  … + q )

Dove  n + m + p … + q  sono  gli  input  provenienti  dagli  altri  nodi  e  f è  la 

funzione di soglia del nodo, quindi per semplicità possiamo considerare il valore x = 

n +…+ q e continuare ad usare la (1). I nodi in questione formano una rete (come 

abbiamo  visto  nel  precedente  capitolo),  in  cui  l'informazione  in  uscita  è  data  dalla 

somma delle varie funzioni (1) dei relativi nodi:

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Fig.4.15

(1.2) y = c ( g(n) + h(m) + l(p) )

Ma  la  somma di più  funzioni può  a  sua volta essere  scritta  come un valore e 

quindi considerando x = n 1 + m1 + p1 si torna alla forma (1). 

Ciò è ovvio in quanto una rete artificiale connessionistica ha dei precisi vincoli; 

la  computabilità.  Per  comprendere  pienamente  il  significato  e  le  implicazioni  di  un 

sistema computabile dobbiamo inserire la nozione di algoritmo. 

Informalmente un algoritmo è  l’indicazione di come si risolve un problema di 

qualsiasi natura: esso consiste nella descrizione dei passi che un esecutore, sia umano 

che meccanico, deve poter interpretare senza ambiguità per raggiungere la soluzione.

Poiché il problema deve poter essere risolto in tutte le sue istanze un algoritmo 

è  definito  per  un’assegnazione  arbitraria  di  dati  d’ingresso  e  deve  produrre  un 

risultato corretto per ciascuna assegnazione. 

Ogni  algoritmo  ha  una  lunghezza  finita,  ma  la  sua  esecuzione  può  non 

terminare  in  un  tempo  finito  per  qualche  insieme  di  dati;  ciò  avviene  se  per  tale 

insieme,  alcuni  passi  dell’algoritmo  devono  essere  ripetuti  illimitatamente  o  nella 

trattazione d’insiemi infiniti.

I  problemi  per  cui  esiste  un  algoritmo  che  termina  in  ogni  caso  sono  detti 

problemi  computabili.  Dire  che  la  rete  qui  descritta  è  computabile  significa  che  noi 

conosciamo i dati in entrata (x) o meglio il loro dominio e la relazione (f) che li lega 

ai dati in uscita (condominio y). 

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Fig.4.16

La rete opera in uno spazio logico­matematico ben delimitato, in cui il dominio 

e il condominio sono dati da un sottoinsieme dei numeri reali e che la relazione che 

lega i due domini opera in un tempo finito.

Inoltre  i  passaggi  che  vengono  operati  tra  nodo  e  nodo  sono  ricorsivamente 

enumerabili. Il paradigma della ricorsività afferma che la soluzione di un problema si 

ottiene attraverso la soluzione del problema stesso per uno o più sottoinsiemi dei dati 

di partenza  e la combinazione dei risultati così ottenuti.

Un algoritmo ricorsivo richiama   dunque se stesso su un sottoinsieme di dati, 

per un’esecuzione  interna alla precedente  e avente anch’essa  forma  ricorsiva,  finché 

opportune clausole consentano l’arresto della catena dei richiami (si noti che ricorsivo 

si  impiega  nella  logica  anche  con  il  significato  di  computabile  con  una  macchina  di 

turing, vedi capitolo 4).

Il  paradigma  di  enumerazione  è  impiegato  per  i  problemi  che  si  risolvono 

attraverso la successione di scelte, eseguite in tutti i modi possibili. Il nuovo costrutto 

linguistico  “scegli  (insieme)”  provoca  la  scelta  di  tutti  gli  elementi  dell’insieme 

specificato, a uno a uno. 

Per  tutti  gli  elementi  l’algoritmo  procede  con  computazioni  indipendenti  che 

possono  nuovamente  incontrare  costrutti  di  scelta  dando  luogo  a  ramificazioni 

successive, in una struttura complessiva ad albero. Quindi ogni relazione da x a y può 

essere letta anche da y a x, questo implica che la rete sia finita e operi  in un tempo 

finito. 

Concludendo, nella rete l'informazione si trasforma ed è trasportata sempre in 

maniera  ricorsivamente  enumerabile,  nel  senso  che  si  può  sempre  associare 

un'informazione in entrata ad un'informazione in uscita. 

Ricapitolando:

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- qualsiasi sia la funzione la risultante del segnale in entrata sarà sempre nella forma (1) 

cioè esisterà sempre un algoritmo che la calcola.

- la rete darà origine sempre ad un sistema ricorsivamente enumerabile.

- il segnale è sempre computabile cioè riproducibile da una macchina.

3.3 Il confronto fra i due modelli (neurone e nodo)

Come abbiamo visto nel  § 4.1  la  trasmissione delle  informazioni nel neurone 

possono essere descritte con una serie di funzioni, che chiariremo ora, approfondendo 

la loro vera natura. 

Nella zona d’ingresso dell’informazione abbiamo la funzione:

f1t1(m)

Questa  funzione  ft  è  lineare  in  quanto  calcola  la  carica  m  che  raggiunge  la 

membrana ne altera il suo potenziale propagandosi fino al punto B; la costante  è 

un  valore  fisso.  Con  lineare  si  intende  in  questo  contesto  che  la  funzione  è 

computabile e ricorsivamente enumerabile, in quanto associa a valori in entrata valori 

in uscita in maniera biunivoca.

Nello specifico ad una carica elettrica in entrata associa una carica elettrica in 

uscita in B. Similmente sappiamo che la zona di integrazione del segnale B funziona 

come un modulatore ad  impulsi unitari  e quindi anch’esso opera  in maniera  lineare 

trasformando la carica risultante f4t4(x)  in frequenza d’impulsi g(i).

La  trasmissione  del  segnale  lungo  l’assone  (C)  non  crea  problemi,  in  quanto  il 

segnale  rimane  immutato.  Infine  nell’ultima  parte  la  carica  viene  riconvertita  in 

analogico  attraverso  h(r)  che  funziona  come  un  modulatore  inverso  al  primo.  Nel 

processo  l’informazione  sembrerebbe  totalmente  computabile  e  lineare  e  può  essere 

riprodotta artificialmente da una rete connessionistica; l’informazione elettro­chimica 

subirebbe delle modifiche nel suo percorso che possono essere simulate attraverso un 

qualsiasi  linguaggio  informatico  in quanto soddisfano  le condizioni di riproducibilità 

logico­informatica (computazione), esiste cioè un algoritmo che descrive l’opera svolta 

dal neurone. 

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Possiamo  programmare  a  piacere  i  vari  nodi  di  una  rete  per  calcolare  le 

funzioni  f 1t1(m),  f4t4(x),  g(i),  h(r)  o  programmare  un  solo  nodo  che  calcoli  la 

funzione  che  esprime  l’algoritmo  formato  da  tutte  queste  funzioni.  Teoricamente 

quindi  la  funzionalità  del  sistema neuronale  potrebbe  essere  riprodotta  da  una  rete 

artificiale,  se  sappiamo  i  vari  parametri  (la  quantità  di  carica  m,  la  disposizione 

spaziale dei dendriti  ,…) ; ipoteticamente potremmo riprodurre l’ intero cervello.

3.3.1 Gli stimoli inibitori

Tuttavia nella neuro­comunicazione c’è di più, in quanto abbiamo volutamente 

tralasciato  alcuni  aspetti;  la  prima  questione,   la  più  importante,  è  la  possibilità  di 

inibizione dei bottoni sinaptici,  in quanto come abbiamo visto nella Fig. 4.8 esistono 

delle cariche negative (pacchetti di ioni) che inibiscono l’informazione trasportata.

Inibire  vuol dire  cancellare una o più  parti  della  carica  trasportata all’interno 

del neurone, grazie alla natura elettro­chimica dell’informazione (ioni negativi che si 

annullano con ioni positivi).

Fig.4.17

Pensiamo  ad  esempio  allo  stimolo  che  ci  fa  ritrarre  la  mano  quando  ci 

avviciniamo a qualcosa di  estremamente  caldo  in quel  caso per  quanto doloroso,  la 

nostra mente può controllare la stimolazione involontaria inibendo lo stimolo che ci fa 

ritrarre la mano in modo che questa si ustioni (come narrano di Muzio Scevola).

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Fig.4.18

In  questo  caso  l’informazione  non  rimane  “da  qualche  parte  nel  sistema”,  ma 

viene  “eliminata”  definitivamente,  un’operazione  che  un  computer  non  può  fare, 

perché viola pesantemente il principio di computabilità.

Un computer può calcolare problemi finiti e problemi infiniti se si rende conto 

che non terminano, ma non può calcolare problemi infiniti  in un sistema che non sa 

qual  è  l’informazione  elaborata.  Cioè  il  neurone  diventa  non  ricorsivamente 

enumerabile poiché associa ad un valore in entrata un non valore, cioè esistono delle 

funzioni che non hanno valore   (e non valore 0 che sarebbe già un valore), perché la 

carica si cancella, non si annulla. Tutto questo non è più simulabile con un calcolatore, 

come vedremo nel prossimo capitolo .

3.3.2 Il caso della sommazione sinaptica

Ed ancora, nel punto d’integrazione del segnale (B) abbiamo trattato il segnale 

come una somma di cariche, tuttavia Bateson (1979), come altri scienziati cognitivi, 

fa notare che nel processo biologico c'è di più: le informazioni in ingresso tra A e B si 

combinano  tra  loro  sulla  membrana  cellulare  a  seconda  dei  messaggi  inibitori  o 

eccitatori e tra questi viene fatta una sommazione sinaptica. 

 “Sommazione sinaptica è  il termine tecnico usato in neurofisiologia per indicare 

quei casi  in cui un neurone è attivato solo dalla combinazione dei neuroni 1 e 2. 1 da 

solo  e  2  da  solo  sono  insufficienti  per  attivare  il  neurone  in  questione  (A/D);  ma  se  i 

neuroni  1  e  2  si  attivano  insieme  entro  un  intervallo  di  pochi  microsecondi,  allora  la 

membrana  viene  eccitata.  Si  noti  che  il  termine  tradizionale  per  questo  fenomeno, 

“sommazione”,  farebbe pensare ad un'assommarsi dell'informazione proveniente da una 

sorgente, all'informazione proveniente da un'altra.

 In realtà, non si tratta di una somma, ma della formazione di un prodotto logico, 

processo  più  affine  alla moltiplicazione.  L'effetto  di  tale meccanismo  sulle  informazioni 

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che  il  neurone  1  potrebbe  fornire  da  solo  è  una  segmentazione  o  ripartizione  delle 

attivazioni di 1 in due classi, cioè le attivazioni di 1 accompagnate da 2 e le attivazioni 

di 1 non accompagnate da 2. Analogamente le attivazioni del neurone 2 sono suddivise 

in due classi: quelle accompagnate da 1 e quelle non accompagnate da 1.” (pp.101­102)

Fig.4.19

Alla  luce  di  questa  osservazione  consideriamo  la  tipologia  del  segnale  in 

entrata,  e  trattiamoli  come  se  fosse  un’operazione  logica  booleana  su  un  circuito 

stampato. Una somma logica e definita secondo la tabella di verità:

  Fig.4.20

Mentre un prodotto logico è definito come: 

Fig.4.21

Quello  che  fa  notare  Bateson  è  che  la  realtà  fisiologica  non  usa  una  singola 

tabella  di  verità,  ma  può  contenerne  molteplici,  perché  non  usa  i  valori  0/1  ma 

cariche  modulabili.  Se  pensiamo  a  cariche  unitarie  in  entrata,  una  inibente  e  due 

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eccitanti,  è  normale  ritenere  che  alla  soglia  arrivi  una  carica  eccitante,  se  invece 

pensiamo a cariche di ­65, +75, +95 mV alla soglia arriva una carica di +105mV.

Cosa vuol dire questo; che dovremo usare delle tabelle di verità basate su una 

logica matematica non booleana,  come vedremo nel prossimo capitolo  con  la  logica 

fuzzy. Se poi pensiamo che i dendriti  in entrata sono anche 100.000 allora abbiamo 

una potenza computazionale del neurone elevatissima, in cui le possibili interazioni di 

carica danno origine ad un segnale sull’assone per diversi valori di carica.

Allora  il  neurone  viene  definito  così  come  una  serie  di  input  in  entrata 

f 1t1(m)  ,  una  somma  di  questi  input  non  computabile  f4t4(x),  il  trasporto  del 

segnale in forma digitale g(i) e un’uscita analogica h(r) che come abbiamo visto può 

essere  anch’essa  non  computabile;  ne  segue  che  la  struttura  neuronale  elabora 

l’informazione  in  maniera  diversa  dagli  attuali  computer   creando  delle  difficoltà 

notevoli per la sua simulazione e di questo ci occuperemo nel prossimo capitolo.

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Capitolo 4 

La non­computabilità e i sistemi aperti 

In  questo  capitolo  chiariremo  quali  sono  le  caratteristiche  che  un  computer 

dovrebbe  avere  per  riprodurre  l’informazione  neuronale,  quelli  che  possono  essere 

considerati i suoi requisiti minimi di sistema. La ferma convinzione che tale processo 

sia  riproducibile  pare  plausibile  vista  l’evidenza  dei  processi  neurali;  che  questo  sia 

possibile  con  una  simulazione  logico­matematica  booleana  usata  da  un  computer  è 

una questione che andremo ora ad affrontare.

4.1 La macchina di Turing non computabile

Abbiamo accennato precedentemente alla nozione di computabilità, algoritmo 

e  alla  proprietà  ricorsivamente  enumerabile,  le  amplieremo  inserendo  il  concetto di 

macchina teorica: la macchina Universale di Turing (Turing 1965). 

La  macchina  di  Turing  è  un  dispositivo  ideale  consistente  in  un’unità  di 

controllo  che  evolve  tra  stati  interni  ed  un  insieme  finito  S,  ed  è  guidata  da  una 

testina di lettura/scrittura che scorre su un nastro infinito su cui sono scritti i dati in 

ingresso  con  i  caratteri  di  un  insieme  infinito  C  (per  simulazioni  di  computer  si 

possono  usare  valori  binari);  la  macchina  legge  sul  nastro  un  carattere  per  volta  e 

decide  in  conseguenza  di  scrivervi  un  nuovo  carattere,  di  muovere  la  testina  sul 

carattere a destra o a sinistra, e di portarsi in un nuovo stato interno.

Fig. 4.1

Una macchina di Turing si descrive mediante un insieme finito di quintuple del tipo 

 sc, cl, cs, m, sp ove    sc  S è lo stato interno corrente, cs  C è il carattere 

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letto dal nastro, m   destra,sinistra  è lo spostamento della testina, sp  S è lo 

stato interno successivo. Tutte le quintuple iniziano con coppie sc, cl distinte, quindi 

la macchina ha funzionamento deterministico; essa si arresta sulle coppie sc, cl, che 

non sono contenute in alcuna quintupla.

Interpretando il contenuto del nastro come descrizione dei dati di un problema 

P  e  il  contenuto  finale  come  descrizione  del  risultato,  la  macchina  di  Turing  è  un 

algoritmo che risolve P; se P è computabile  la macchina s’arresta  in un tempo finito 

per ogni contenuto iniziale del nastro. 

L’I.A.  introduce  l’algoritmo  quale  struttura  interpretativa  intermedia  tra  il 

mentale  e   il  fisiologico  abbandonando  ogni  tentativo  di  imitazione  diretta  del 

substrato materiale del pensiero. Il fondamentale interesse che riveste la macchina di 

Turing è legato alla tesi di Church (Church 1936), universalmente accettata, secondo cui 

tutte le definizioni ragionevoli di algoritmo sono equivalenti. 

In  termini  attuali,  possiamo affermare  che  tutti  i  calcolatori  possono eseguire 

gli stessi algoritmi, che sono poi tutti gli algoritmi possibili, sempre che non eccedono 

i loro limiti di memoria, in tal  senso la macchina di Turing non ha alcuna limitazione, 

perché utilizza un nastro infinito.

La tesi di Church implica che tutti i calcolatori, nonché la macchina di Turing e 

ogni altro modello di computazione, possano simularsi a vicenda. Essi hanno tutti  la 

stessa potenza, anche se i tempi per eseguire lo stesso algoritmo sono diversi. 

La  macchina  di  Turing  è  un  modo  di  definire  meccanicamente  un  algoritmo, 

cioè l'insieme di passi che si devono compiere per risolvere un problema; ed è formata 

in sostanza da un nastro infinito di celle unitarie su cui scorre un cursore che vi incide 

0 o 1.

La massima computabilità per questo tipo di macchine è data dalla macchina di 

Turing  Universale  T(U),  formata  da  tutte  le  macchine  di  Turing,  quindi  formata  da 

tutti gli algoritmi che risolvono tutti i problemi in un tempo finito. 

La  potenza  computazionale  di  questa  macchina  teorica  è  elevata,  perché 

possiamo descrivere,  in un tempo infinito, qualsiasi problema  lineare, cioè risolvibile 

in un numero finito, per quanto lungo, di passi. 

4.1.1 I problemi P e NP

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La  definizione  di  Turing  di  algoritmo  divide  la  funzioni  numeriche  in  due 

classi:  calcolabili  e  non.  Questa  suddivisione  non  costituisce  però  che  una  prima 

approssimazione,  perché  molte  funzioni  che  sono  calcolabili  in  teoria  non  lo  sono 

affatto in pratica. 

Per esempio un algoritmo la cui esecuzione richieda un tempo più lungo della 

durata dell’universo, o anche solo di una vita umana, non può  certo essere  ritenuto 

eseguibile, benché possa esserlo in astratto. 

Da un punto di vista applicativo è dunque necessario restringersi ad algoritmi 

che  abbiano  tempi  di  esecuzione  sufficientemente  veloci.  Nel  1965  Edmonbs  e 

Cobham  proposero,  come  seconda  approssimazione,  la  distinzione  fra  algoritmi 

eseguibili in tempo polinomiale e non. 

Il tempo di esecuzione viene qui misurato mediante il numero di passi eseguiti 

dal calcolatore e la variabile del polinomio corrisponde alla dimensione dei dati su cui 

l’algoritmo opera, per esempio alla loro lunghezza: così un algoritmo quadratico non 

richiede più di cento passi su numeri di dieci cifre, più di diecimila passi su numeri di 

cento cifre e così via. 

Naturalmente  il  tempo di esecuzione di un algoritmo dipende  fortemente dal 

tipo e dalla potenza del calcolatore che viene usato per eseguirlo. Sorprendentemente 

però  se  un  algoritmo  opera  in  un  tempo  polinomiale  su  un  particolare  calcolatore, 

esso  continua  ad  operare  in  un  tempo  polinomiale  su  qualunque  altro:  detto 

altrimenti, la differenza fra i vari modelli di calcolatori e le loro varie implementazioni 

si può sempre contenere in un fattore polinomiale, che può essere combinato con un 

tempo di esecuzione polinomiale senza mutarne la natura. 

L’essere  eseguibile  in  un  tempo  polinomiale  costituisce  dunque  una 

caratteristica intrinseca e non accidentale di un algoritmo. La classe dei problemi per i 

quali una soluzione polinomiale esiste si indica con il simbolo P. Nel 1972 S.Cook, R. 

Karp e L. Levin hanno scoperto una classe potenzialmente più ampia di P, indicata con 

il  simbolo  NP,  i  cui  problemi,  benché  non  necessariamente  risolubili  in  tempo 

polinomiale lo sono quasi: nel senso che, di ogni proposta soluzione, si può verificare 

in tempo polinomiale se essa funziona oppure no. 

La differenza tra P e NP è dunque  la seguente: per stare nella prima classe è 

necessario  che  un  problema  ammetta  un  metodo  per  trovare  la  soluzione  in  tempo 

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polinomiale,  mentre  per  stare  nella  seconda  classe  è  sufficiente  che  un  problema 

ammetta un metodo per verificare la soluzione in un tempo polinomiale. 

Per  esempio  verificare  che  un  certo  numero  di  telefono  corrisponde  ad  una 

certa persona è facile, perché basta consultare l’elenco telefonico in ordina alfabetico; 

ma trovare la persona che ha un certo numero di telefono è difficile perché richiede 

una ricerca esaustiva dell’intero elenco. 

Una  delle  scoperte  sorprendenti  di  Cook,  Karp  e  Livin  fu  che  tutti  questi 

problemi  con  la  sola  possibile  eccezione  della  scomponibilità  così  come  migliaia  di 

altri nelle aree più disparate della matematica pura e applicata, sono sostanzialmente 

equivalenti:  trovare  una  soluzione  polinomiale  per  uno  qualunque  di  essi 

significherebbe  trovarne  una  per  tutti  perché  esistono  traduzioni  polinomiali  di 

ciascuno di essi negli altri. 

Trovare una soluzione polinomiale, oppure dimostrare che essa non esiste, per 

uno qualunque dei problemi equivalenti isolati da Cook, Karp e Livin è risultato finora 

impossibile: il problema se P e NP siano o no la stessa classe ha dunque acquistato il 

sapore di una sfida ed è divenuto il più noto problema per l’informatica teorica.

La  macchina  di  Turing  universale  è  l’equivalente  astratto  dei  moderni 

calcolatori seriali, sui quali può essere eseguito un qualsiasi programma, debitamente 

codificato, su qualsiasi insieme di dati, anch’essi forniti alla macchina nell’opportuna 

codifica: una macchina “calcolatrice” non è limitata  quindi a elaborare dati numerici, 

ma  può  elaborare  qualsiasi  cosa  di  cui  si  possa  fornire  una  rappresentazione 

numerica, e può fornire la soluzione di qualsiasi problema per il quale si sia in grado 

di congegnare un programma e una codifica dei dati. 

In  questo  modo  rendiamo  evidenti  e  concreti  concetti  astratti  come 

computabilità e algoritmo; l’enfasi sulla similitudine fra comportamento intelligente e 

l’elaborazione  di  un  computer  è  stata  indebitamente  accresciuta  da  una  diffusa  ma 

errata  interpretazione  della  nota  tesi  Church­Turing  (Turing 1936):  la  tesi  di  Church, 

secondo  la  quale  “una  funzione  di  interi  positivi  è  effettivamente  calcolabile  solo  se  è 

ricorsiva”  equivale  alla  tesi  di  Turing,  la  quale,  in  una  delle  sue  enunciazioni  più 

informali, ipotizza che “tutto ciò che è descrivibile come procedura puramente meccanica 

equivale ad una macchina di Turing  ”. 

Queste due tesi equivalenti servono a formulare quella che fino ad allora era 

una idea intuitiva nel campo della  logica­matematica, ovvero quella di computabilità 

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effettiva o di procedura meccanica. Troviamo una definizione  informale di procedura 

meccanica  nel  contributo  di  B.  J.  Copeland  (Copeland  1997)  alla  Stanford 

Encyclopedia of Philosophy:

1) deve essere espressa nei  termini di un numero finito di  istruzioni esatte (ogni 

istruzione espressa per mezzo di un numero finito di simboli); 

2)  se  viene  eseguita  senza  errori,  produrrà  sempre  il  risultato  desiderato  in  un 

numero finito di passi; 

3) tale procedura può essere “eseguita”, in linea di principio, da un essere umano 

senza l’aiuto di alcuno strumento tranne carta e penna; 

4)  la  procedura  non  richiede  né  comprensione  né  applicazione  di  “ingegno”  da 

parte dell’umano che la applica.

Questa  definizione  in  nessun  modo  può  essere  estesa  a  significare 

“computabile  da  qualsiasi  macchina”  in  generale.  È  vero  che  le  architetture  della 

maggior parte dei calcolatori oggi in circolazione sono figlie della macchina di Turing 

(in particolare di quella universale,  in grado di  simulare qualsiasi altra macchina di 

Turing),  ma  questo  non  vuol  dire  che  l’attività  di  qualsiasi  macchina  con  qualsiasi 

architettura debba necessariamente equivalere all’attività di una macchina di Turing. 

Possiamo invece trovare, come fa notare con Copeland, che la tesi di Turing 

viene spesso interpretata come se dicesse che qualsiasi procedura finita che opera su 

un  insieme  di  dati  finiti  possa  essere  calcolata  da  una  macchina  di  Turing;  da  cui 

l’indebita  conclusione  che,  se  consideriamo  il  cervello  come  qualcosa  che  esegue 

operazioni  finite  sul  numero  finito  degli  impulsi  neurali,  allora  il  compito  che  il 

cervello esegue è Turing­computabile.

Nel capitolo precedente abbiamo mostrato come il neurone e quindi il cervello 

non segua i principi della macchina di Turing, quindi deve esistere ed essere possibile 

altresì  la  creazione  di  una  macchina  di  Turing  non  computabile:  ma  vediamo  di 

analizzare  i  passaggi  che  compie  la  trasmissione  neuronale  alla  luce  di  una  reale 

procedura meccanica.

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Fig. 4.2

Vediamo come la zona di elaborazione dell’informazione sia situata fra le post­

sinapsi  di  un  neurone  in  uscita   e  la  zona  d’integrazione  dei  segnali  nel  neurone 

successivo,  la  zona  di  trasporto  del  segnale,  l’assone  C,  non  ha  caratteristiche 

funzionali, ma solo di trasporto quindi trascurabile hai fini della nostra analisi.

Riprendiamo allora  le nostre  funzioni descrittive dell’informazione neuronale; 

la carica nella post­sinapsi del primo neurone viene convertita in analogico attraverso 

h(m)  che  funziona  come  un  modulatore  ed  è  quindi  computabile;  abbiamo  una 

quantità m di neuro­trasmettitore che viene rilasciato  in prossimità della membrana 

cellulare del secondo neurone e il segnale si propaga in esso secondo la funzione:

f1t1(m)

Questa funzione ft è computabile secondo Turing  in quanto calcola l’alterazione 

che  la  carica  m  causa  al  potenziale  della  membrana  propagandosi  fino  al  punto  di 

integrazione (B); la costante  è un valore fisso. Similmente sappiamo che la zona di 

integrazione del segnale B funziona come un modulatore ad impulsi unitari e quindi 

anch’esso opera  in maniera computabile  trasformando  la carica  risultante  f4t4(x)   in 

frequenza d’impulsi g(i).

h(m)   f 1t1(m)  g(i)

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Fig. 4.3

Aggiungiamo ora l’elemento non Turing computabile: l’inibizione  dell’impulso a 

livello  della  sinapsi.  Il  neurone  può  essere  simulato  con  una  macchina  di  Turing 

“Neurone”  T(N)  che  ne  descrive  l’algoritmo  di  funzionamento,  mentre  l’inibizione 

dell’impulso può essere simulata con un’altra macchina di Turing “Inibizione” T(I) in 

quanto  risultato  dell’attività  dell’algoritmo  di  un  altro  neurone.  La  loro  interazione 

rende il processo non Turing computabile, non meccanicamente riproducibile.

Fig. 4.4

Ovvero a livello del singolo neurone T(N), la macchina esegue la sua normale 

procedura deterministica, ma la applica ad un insieme di input incompleti, quindi non 

si  ha  più  una  computabilità  effettiva  o  una  procedura  meccanica  ,  si  ha  qualcosa  di 

diverso: una procedura meccanica non­computabile.

È  come  se  il  programma  svolto  dalla  macchina  T(N)  fosse  modificato  “a  sua 

insaputa” dal programma T(I), che come un virus benigno ne altera il funzionamento 

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cancellando  così  le  informazioni  ma  implementando  le  capacità  del  sistema  (come 

vedremo meglio nel prossimo capitolo). 

Questo  significa  che  il  segnale  binario  trasportato  alla  fine  del  processo 

nell’assone è privo di alcune informazioni che si sono perse. Affrontiamo alcuni aspetti 

del modello qui proposto:

1) È possibile che due macchine computabili originino un sistema non­computabile?

Abbiamo  visto  che  due  macchine  che  svolgono  una  procedura  meccanica 

possono  lavorare  in  modo  tale  che  l’una  renda  non­computabile  l’altra,  cosicché 

l’informazione che deriva da quest’ultima sia in ultima analisi non­computabile. 

La  relazione  che  lega  queste  due  macchine  è  una  relazione  particolare  in 

quanto  la  macchina  T(N)  è  una  sotto­macchina,  ha  un  rapporto  di  subordinazione 

logica a T(I), ma è la macchina che elabora l’informazione e che da un output.

La  macchina  T(I)  si  limita  a  dire  quale  informazione  deve  essere  cancellata 

seguendo  il  suo  programma,  quindi  si  comporta  in  maniera  computabile  secondo 

Turing.  È  come  se  un  programma  utilizzasse  un  altro  programma  per  compiere 

un’operazione, ma decidesse lui quali dati lasciare che siano immessi, cancellandone 

altri.

Facciamo un esempio pratico: la macchina T(N) è una macchina che sa giocare 

a “Tetris” allinea i mattoncini che gli vengono dati per costruire un muro secondo un 

suo algoritmo:  la macchina T(I) decide secondo il suo algoritmo quando ci sono dei 

mattoncini che non conviene usare.

Il  muro  sarà  costruito  da  T(N)  con  tutti  i  mattoncini  che  le  sarà  permesso 

usare,  quindi  la  sua  costruzione  non  sarà  più  computabile,  così  l’informazione  in 

uscita dal neurone sarà manchevole di alcuni dati persi  irrimediabilmente e non più 

recuperabili.

Questa procedura rende il programma T(N) non deterministico, non per la sua 

procedura  perché  entrambi  le  macchine  funzionano  secondo  un  algoritmo 

deterministico, ma per i dati in uscita che non sono più ricorsivamente enumerabili.

Le macchine lavorano su due dimensioni diverse: consideriamo una dimensione 

una  serie  quantità  legate  da  una  relazione,  nell’attuale  contesto  pensiamo  ad  una 

dimensione  come  una  macchina  di  Turing  universale,  quindi  formata  da  tutti  gli 

algoritmi che risolvono tutti i problemi in un tempo finito.

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2)   Le due macchine di Turing sono riproducibili da una terza macchina che simuli il 

comportamento di entrambe? 

Una siffatta macchina T(S) avrebbe  in entrata  i dati disponibili, un algoritmo 

costituito dalla  somma dei  due  algoritmi  delle  due macchine  e  in uscita  alcuni  dati 

non  ricorsivamente enumerabili, quindi  la macchina non è deterministica. Sommare 

gli algoritmi vuol dire descrivere quando l’algoritmo T(I) debba intervenire su T(N), è 

cioè un algoritmo dimensionale; non si tratta di sommare parti di codice, quanto più 

dire quando il codice di una macchina debba intervenire su quello dell’altra.

Vuol dire che le due macchine lavorano indipendentemente su due dimensioni 

diverse, ma quando avviene un determinato evento  in un  tempo  tı   in T(N), T(I)  lo 

cancella. Tenendo conto di questa differenza, una macchina che simuli le altre due è 

una macchina che non è turing computabile.

3) Qual è la massima potenza computazionale di una siffatta macchina?

La potenza massima ideale che un computer può raggiungere non è più la macchina 

universale  di  Turing,  ma  una  macchina  formata  da  infinite  macchine  universali  per 

infinite  dimensioni,  ed  è  di  quest’ordine  la  massima  potenza  computazionale  del 

nostro cervello. 

Ovvero  una  dimensione  ha  la  sua  massima  potenza  computazionale  in  una 

macchina  di  turing  universale;  due  dimensioni  hanno  la  loro  massima  potenza 

computazionale non nella somma di due macchine di Turing universali, che darebbe 

un’altra  macchina  di  turing  universale,  ma  nella  somma  delle  due  dimensioni  che 

originano  una  macchina  di  turing   sovra­dimensionale  non  computabile  da  una 

singola macchina.

Se  una  retta  infinita  è  una  dimensione  ovvero  una  macchina  di  Turing 

Universale allora uno spazio pluri­dimensionale è pensabile come intersezione di più 

macchine  tra loro.

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Fig. 4.5

Per infinite dimensioni avremo infinite macchine di Turing universali, collegate 

come  scatole  cinesi  fino  ad  una  macchina  di  turing  sovra­dimensionale  che  le 

racchiude tutte.

Se  il  neurone  opera  su  una  dimensione,  due  neuroni  possono  crearne  tre,  si 

pensi a quante dimensioni possono essere generate da 10¹º, 10¹¹  neuroni; si pensi a 

quante altre possono essere generate da 5 miliardi di cervelli, e se consideriamo anche 

solo  2000  anni  di  storia  si  pensi  a  qual  è  la  potenza  computazionale  del  genere 

umano.

4.2 I sistemi aperti 

4.2.1 La logica fuzzy

Affrontiamo ora il caso della sommazione sinaptica. Abbiamo mostrato alla fine 

del precedente capitolo come sulla membrana operi una matematica speciale derivata 

dall’interazione delle cariche, una matematica non booleana ma dimensionale;   negli 

ultimi anni nel campo delle intelligenze artificiali si è utilizzato molto un modello di 

matematica  dimensionale,  la  logica  fuzzy  (Cammarata  1994,  Zadeh  1992,  Kosko 

1993). 

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Questo non è  l'unico modello di matematica dimensionale, ma è  sicuramente 

molto facile da gestire, soprattutto per sistemi semplici con poche variabili. Facciamo 

un esempio, secondo la logica bipolare vero/falso la frase:

il bicchiere è mezzo pieno e mezzo vuoto

dà  origine  a  paradossi  e  contraddizioni  in  un  sistema  logico  a  due  valori  di  verità, 

perché  quando  cerchiamo  di  descrivere  la  frase  in  maniera  lineare,  partendo  dalla 

condizione del bicchiere, abbiamo la coesistenza di due stati “mezzo pieno” e “mezzo 

vuoto” contemporaneamente. 

Nella  logica  fuzzy  invece  gli  input  sono  elaborati  in  uno  spazio  particolare 

chiamato  appunto  fuzzy,  dove  i  valori  di  verità  sono  infiniti,  cioè  ci  sono  infinite 

sfumature  fra  vero  e  falso.  La descrizione  che  viene  fatta del  bicchiere è  facilmente 

definibile con una funzione su un piano cartesiano, in cui colleghiamo i due concetti 

fra loro, su un asse poniamo i valori di verità possibili e sull'altro la quantità d'acqua, 

avremo quindi delle funzioni che rappresentano le seguenti affermazioni:

il bicchiere è  pieno

Fig. 4.6

il bicchiere è vuoto

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Fig. 4.7

il bicchiere è 1/2 pieno e 1/2 vuoto

Fig. 4.8

Le  tre  funzioni  prendono  il  nome  di  funzioni  membership  e  la  superficie  che 

delimitano  definisce  un  insieme  fuzzy  (i  due  trapezi  e  il  triangolo).  L'utilità  di  una 

simile  rappresentazione  è  che  se  le  applichiamo  alle  frasi  relative  ai  bicchieri  pieni 

d'acqua, possiamo gestirle con insiemi fuzzy. 

Possiamo  vedere  ad  esempio  che  il  bicchiere  è  mezzo  pieno  e  mezzo  vuoto 

corrisponde geometricamente ai punti interni al triangolo della figura 4.21, e che ha 

parti in comune con il concetto di bicchiere è pieno e di bicchiere è vuoto. 

Questo passaggio tra la dimensione lineare delle rette e l’area da loro definita è 

un passaggio di dimensione tra la logica bipolare e quella fuzzy.

Quindi non solo coesistono più dimensioni in uno stesso punto senza paradossi, 

ma  anche  il  passaggio  da  una  dimensione  all'altra  non  subisce  sbalzi  logici,  infatti 

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come  vedremo  nella  figura  sottostante,  se  prendiamo  un  mezzo  bicchiere  d'acqua, 

poco  cambia  se  ne  aggiungiamo  una  piccola  quantità  in  più  o  in  meno,  rimarrà 

sempre descrivibile come un mezzo bicchiere.

Fig. 4.9

E'  interessante  notare  che  se  vogliamo  estrarre  da  questo  insieme  fuzzy  un 

valore preciso e non ambiguo, come la determinazione della quantità d'acqua esatta 

per  avere  un  bicchiere  che  appartenga  a  tutte  e  tre  le  frasi  suddette,  possiamo 

compiere una specie di media, calcolando il baricentro degli insiemi. 

Quest'operazione  si  chiama  defuzzificazione  ed  è  presumibilmente  quello  che 

succede  nel  neurone  al  punto  B.  Infatti,  possiamo  pensare  che  sulla  membrana  del 

neurone  e  nella  zona  d’innesco  successiva,  si  abbia  una  fuzzificazione  e  una 

defuzzificazione, in maniera tale che l'informazione viene operata in uno spazio pluri­

dimensionale e trasportata attraverso il segnale digitale.

Questo  tipo di matematica  presuppone  che  gli  insiemi utilizzati  siano  insiemi 

aperti  cioè  in  qualche  misura  infiniti  nei  loro  valori  di  verità  e  che  i  sistemi  che 

originano dalle loro aggregazioni siano sistemi aperti, cioè non delimitati da una sola 

dimensione  ma  agenti  su  più  dimensioni.  Tutto  ciò  è  ancora  più  facilmente 

comprensibile se facciamo simulare il teorema di Gödel una macchina di Turing.

4.3 Il teorema di Gödel come prova dell’esistenza di altre dimensioni

4.3.1 Entscheidungsproblem

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Negli anni ’20 in mondo matematico era sotto l’influsso del programma di 

Hilbert che proponeva un quadro concettuale di riferimento per i fondamenti della 

matematica centrato sulla formalizzazione delle teorie e del ragionamento all’interno 

di sistemi logici rigorosi. 

L’obiettivo specifico era quello di dimostrare la non contraddittorietà della 

teoria dei numeri e dell’analisi; lo scopo più generale era quello di studiare 

matematicamente le teorie matematiche.

 Il prerequisito necessario era che le formule, i teoremi e le loro dimostrazioni, 

fossero presentati come oggetti finiti e strutturati in modo tale da poter svolgere su di 

essi ragionamenti matematici combinatori e induttivi. 

Il programma di Hilbert prende corpo nel momento dell’irruzione nella 

matematica dei metodi infiniti, sullo sfondo di una generale resistenza a essi e 

dall’accettazione piena e sicura del solo finito. 

L’intenzione di Hilbert era quella di giustificare l’uso dell’infinito in 

matematica, attraverso una dimostrazione del suo carattere strumentale: una finzione 

utile per le dimostrazioni ma senza una realtà autonoma. Sarebbe stato sufficiente 

provare che l’uso dell’infinito non poteva portare a dimostrare cose false almeno tra 

quelle verificabili.

Spostata l’attenzione dai contenuti e dai significati alle espressioni formali, 

finite e alle teorie irreggimentate nei calcoli, non è difficile vedere con qualche 

passaggio tecnico che l’obiettivo sopra indicato è equivalente alla dimostrazione di 

non contraddittorietà delle teorie in questione. 

Nei dettagli, quello che si richiede, dopo aver descritto le teorie in un 

linguaggio dalla sintassi rigorosamente precisa, è che l’insieme degli assiomi 

costituisca un insieme decidibile, cioè tale che esista un algoritmo per riconoscere gli 

assiomi, e questo in vista di una richiesta più generale, cioè che la nozione di prova 

sia decidibile. 

Gli oggetti su cui si ragiona devono essere individuabili in modo non ambiguo; 

risulta quello che oggi chiamiamo teoria formalizzata o sistema formale: le prove sono 

successioni finite di espressioni ottenute l’una dall’altra applicando un numero finito 

di regole di trasformazione effettive. 

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L’interesse del problema stava nel fatto (problema della decisione) che le varie 

branchie della matematica si possono uniformemente presentare attraverso sistemi di 

assiomi da cui i teoremi si derivano mediante la sola logica. 

Un  algoritmo  come  quello  richiesto  da  Hilbert  avrebbe  dunque  permesso  ai 

matematici di concentrarsi sulla formulazione di assiomi e l’enunciazione di enunciati 

interessanti e di lasciare all’algoritmo la parte più faticosa cioè la dimostrazione degli 

enunciati a partire dagli assiomi. 

Il problema fu risolto indipendentemente nel 1936 da Church negli Stati Uniti e 

da  Turing  in  Inghilterra.  La  soluzione,  come  si  può  prevedere  dal  fatto  che  le 

dimostrazioni hanno continuato a essere la parte centrale dell’attività matematica, fu 

negativa.

Un algoritmo come quello richiesto da Hilbert non esiste ma la dimostrazione 

di questo fatto presuppone un progresso sostanziale: mentre infatti una dimostrazione 

di  esistenza  di  un  algoritmo  richiede  semplicemente  la  sua  esibizione,  una 

dimostrazione  di  non  esistenza,  richiede  l’esclusione  di  ogni  possibile  algoritmo  e 

dunque la caratterizzazione completa della nozione stessa di algoritmo. 

Il  fatto  che  una  tale  nozione  vaga  e  intuitiva  ammetta  effettivamente  una 

caratterizzazione precisa e formale, fu una scoperta sorprendente, alla quale si arrivò 

mediante una serie di tentativi di definizione che risultarono, a posteriori, essere tutti 

equivalenti. 

Ma  fu  proprio  l’approccio  di  Turing  a  convincere  definitivamente  che  si  era 

arrivati  alla  soluzione  del  problema:  oggi  la  sua  definizione  si  può  riformulare  in 

maniera  quasi  banale,  dicendo  che  un  algoritmo  è  ciò  che  si  può  tradurre  in  un 

programma per  calcolatore,  in uno qualunque dei  linguaggi detti universali  (Pascal, 

Lisp, Prolog). 

Turing derivò la soluzione negativa del entscheidungsproblem traducendo, nel 

linguaggio  della  logica,  il  cosiddetto  problema  della  fermata:  decidere  se  un  dato 

programma si ferma su un dato argomento. 

Che  questo  problema  sia  indecidibile,  nel  senso  che  non  esista  nessun 

programma che  lo possa decidere,  si  può dimostrare  facilmente mediante  il  classico 

metodo diagonale, introdotto da Kant in teoria degli insiemi, e poi sfruttato da Russel 

per il suo paradosso e da Gödel per il suo teorema di incompletezza: metodo che era 

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dunque  ben  noto  a  Turing  e  a  Church  (che  risolse  il  problema  in  maniera  analoga 

usando però la sua equivalente definizione di algoritmo in termini di lambda calcolo). 

Dal punto di vista matematico, l’applicazione più interessante del metodo fu la 

soluzione negativa del decimo problema di Hilbert: trovare un algoritmo per decidere 

se  un  polinomio  (in  una  o  più  variabili)  ha  coefficienti  interi  (positivi  o  negativi) 

ammette  zeri  interi;  o  in  altri  termini  se  la  cosiddetta  equazione  diofantea  che  si 

ottiene uguagliando il polinomio a zero ammette radici intere.

4.3.2 Una porta su altre dimensioni

Il primo teorema di  incompletezza di Gödel afferma che ogni  teoria adeguata 

per un minimo di aritmetica è incompleta, nel senso che esiste una proposizione tale 

che  né  essa  né  la  sua  negazione  sono  teoremi.  Una  simile  proposizione  di  dice 

indecidibile  nella  teoria.  Al  momento  della  dimostrazione  1931,  questo  risultato 

apparve sconvolgente perché tutti si aspettavano in contrario e per ragioni di fondo. 

Tale risultato infatti sembrava mettere in discussione nozioni fondamentali del 

pensiero matematico, come quelle di teoria, dimostrazione, verità.

Spostata  l’attenzione  dai  contenuti  e  dai  significati  alle  espressioni  formali, 

finite  e  alle  teorie  irreggimentate  nei  calcoli,  non  è  difficile  vedere  con  qualche 

passaggio  tecnico  che  l’obiettivo  sopra  indicato  è  equivalente  alla  dimostrazione  di 

non contraddittorietà delle teorie in questione. 

Veniva  così  anche  dato  un  significato  più  pregnante  all’esigenza  della  non 

contraddittorietà  aldilà  della  diffusa  posizione  che  equiparava  esistenza  e  non 

contraddittorietà in matematica.

Nei  dettagli,  quello  che  si  richiede,  dopo  aver  descritto  le  teorie  in  un 

linguaggio  dalla  sintassi  rigorosamente  precisa,  è  che  l’insieme  degli  assiomi 

costituisca un insieme decidibile, cioè tale che esista un algoritmo per riconoscere gli 

assiomi, e questo in vista di una richiesta più generale, cioè che la nozione di prova 

sia decidibile. 

Gli oggetti su cui si ragiona devono essere individuabili in modo non ambiguo. 

E  risulta quello  che oggi  chiamiamo  teoria  formalizzata o  sistema  formale:  le prove 

sono  successioni  finite di  espressioni ottenute  l’una dall’altra applicando un numero 

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finito  di  regole  di  trasformazione  effettive.  Adesso  bisogna  spiegare  in  che  senso 

questo non è vero, perché infatti alla luce del teorema di Gödel qualcosa non torna. 

I  fenomeni  negativi  di  incompletezza  e  di  impossibilità  legati 

all’autoriferimento  si manifestano per  un motivo naturale  e  convincente.  I  problemi 

riguardanti  i  calcoli  ed  i  processi  meccanici  che  richiedono  una  risposta  si,  no, 

presentano una simmetria tra le due risposte; una di solito è data dal verificarsi di una 

situazione  completa,  l’apparizione  ad  un  certo  punto  di  un  simbolo  sul  nastro,  che 

mette fine alla computazione; l’altra è data dalla realizzazione che un simile fatto non 

accadrà mai.

Quindi,  bisogna  dimostrare  o  comunque  accorgersi,  in  un  numero  finito  di 

passi,  di  un  fatto  che  involve  una  quantità  infinita  di  informazioni.  Affrontiamo   a 

grandi  linee  la  parte  più  importante  del  ragionamento  di  Gödel  (Nagel,  Newman 

1958). 

Gödel mostrò come fosse possibile assegnare un unico numero a ciascun segno 

elementare,  a  ciascuna  formula  e  a  ciascuna  dimostrazione  del  calcolo  aritmetico; 

questi numeri vengono chiamati godeliani.

Se si prendono gli assiomi di Peano­Dedekin come teoria, dal momento che 

questi hanno un'unica realizzazione, le loro conseguenze logiche sono le proposizioni 

vere in N (insieme dei numeri naturali) e se le dimostrazioni logiche danno tutte le 

conseguenze logiche degli assiomi, i teoremi potrebbero essere tutti enunciati veri in 

N, quindi non dovrebbe esserci nessun enunciato indecidibile. 

Una volta effettuata l’aritmetizzazione dei linguaggi scatta il fenomeno 

dell’autoriferimento. Autoriferimento vuol dire che i termini della teoria numerica 

denotano anche elementi del mondo linguistico in cui si svolge la teoria e le formule 

aritmetiche fanno affermazioni sulle formule attraverso i loro gödeliani.

I gödeliani degli assiomi dell’aritmetica di Peano formano un insieme decidibile 

e ricorsivo, quindi rappresentabile; le dimostrazioni sono sequenze finite il cui 

carattere di derivazione, per i legami interni tra i singoli passi, è decidibile quindi, 

esiste una relazione rappresentabile.

1) Gödel  mostrò  in  che  modo  sia  possibile  costruire  una  formula  artimetica  G  che 

rappresenti  la  proposizione  metamatematica:  “la  formula  G  non  è  dimostrabile”. 

Questa formula allora evidentemente afferma la sua non dimostrabilità.

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2) Gödel dimostrò anche che G è dimostrabile se e solo se la sua negazione formale ¬G 

è dimostrabile. In base a ciò  il calcolo è autocompatibile, sia G che la sua negazione 

formale ¬G sono formalmente deducibili dagli assiomi dell’aritmetica.

3) Gödel  dimostrò  che  sebbene  G  non  sia  formalmente  dimostrabile,  tuttavia  è  una 

formula aritmetica vera. E’  vera nel  senso che afferma che ogni  intero possiede una 

certa  proprietà  aritmetica  che  può  essere  esattamente  definita  ed  è  posseduta  da 

qualsiasi intero assegnato.

4) Dato che G è vera e insieme formalmente indecidibile, gli assiomi dell’aritmetica non 

sono completi. In altre parole non possiamo dedurre tutte le verità aritmetiche dagli 

assiomi.

Inoltre  Gödel  dimostrò  che  l’aritmetica  è  essenzialmente  incompleta  anche  se  si 

supponessero  altri  assiomi  aggiuntivi  tali  da  permettere  la  formale  deduzione  della 

formula vera G dall’insieme più ampio si potrebbe costruire un’altra formula vera ma 

formalmente indecidibile.

5) Gödel descrisse  la maniera in cui costruire una formula aritmetica A che rappresenti la 

proposizione matematica: “l’aritmetica è autocompatibile” e dimostrò che la formula è 

formalmente  dimostrabile.  Ne  segue  che  l’autocompatibilità  dell’aritmetica  non  può 

essere stabilita con argomenti rappresentabili nel calcolo aritmetico formale.

Quindi il primo teorema di incompletezza di Gödel afferma che ogni teoria 

adeguata per un minimo di aritmetica è incompleta, nel senso che esiste una proposizione 

tale che né essa né la sua negazione sono teoremi. Una simile proposizione di dice 

indecidibile nella teoria. 

Tuttavia il teorema di Gödel è in linea con quanto detto precedentemente sulla 

macchina di Turing sovra­dimensionale; esistono dei dati che sono veri e autentici ma 

che non sono riconducibili ad un processo ricorsivamente enumerabile, in quanto 

“dimensionalmente enumerabile”.

I problemi riguardanti i calcoli ed i processi meccanici che richiedono una 

risposta si/no, presentano una simmetria tra le due risposte; una di solito è data dal 

verificarsi di una situazione completa, l’apparizione ad un certo punto di un simbolo 

sul nastro, che mette fine alla computazione; l’altra è data dalla realizzazione che un 

simile fatto non accadrà mai.

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E’ evidente la simmetria tra le due risposte; nel primo caso si può pensare che 

un algoritmo universale simuli la macchina, e se e quando questa si ferma ne prende 

atto;  nel  secondo  caso,  occorre  accorgersi,  dopo  un  numero  finito  di  passi,  che  il 

calcolo andrà avanti all’infinito, e che in ogni istante successivo la macchina avrà del 

lavoro da svolgere. 

Quindi,  bisogna  dimostrare  o  comunque  accorgersi,  in  un  numero  finito  di 

passi, di un fatto che involve una quantità infinita di informazioni. 

Fisicamente  immaginiamo una macchina di Turing  che  computa,  ad un  certo 

punto parte del suo nastro si sovrappone a quello di un’altra macchina di Turing,  in 

quello istante si sovrappongono due dimensioni e i dati di una dimensione scivolano 

nell’altra.  In  entrambe  le  dimensioni  i  processi  sono  computabili,  tuttavia  una 

macchina in una dimensione non può calcolare i dati anche nell’altra dimensione.

Il teorema di Gödel mostra come esistano in matematica proposizioni vere ma 

che  non  sono  state  definite  nella  dimensione  del  linguaggio  sorgente;  il  teorema 

simbolicamente è una porta verso altre dimensioni, tutte contenute nella matematica; 

Gödel dimostra così come la matematica sia dimensionale.

Ed ancora, gli  insiemi ricorsivi sono quelli generati da un processo meccanico 

che uno dopo  l’altro  espelle  gli  elementi dell’insieme.  Il  processo  si  può  identificare 

con  una  funzione  ricorsiva,  di  cui  l’insieme  è  l’immagine;  oppure  l’insieme  si  può 

identificare  con  il  dominio  di  una  funzione  parzialmente  definita:  quando  i  calcoli 

terminano, l’input sta nell’insieme; quando i calcoli non terminano, la funzione non è 

definita e l’elemento non sta nell’insieme.

La famiglia di questi insiemi ha una ricca struttura. Un insieme ricorsivamente 

enumerabile  è  ricorsivo  se  è  l’immagine  di  una  funzione  ricorsiva  strettamente 

crescente; un insieme è ricorsivo se sia lui sia il suo complemento sono ricorsivamente 

enumerabili.  Esistono  insiemi  ricorsivamente  enumerabili  non  ricorsivi;  i  problemi 

indecidibili.

Un insieme siffatto è l’insieme degli indici delle macchine che applicate al loro 

indice  si  fermano  in un numero  infinito di passi. Una  forma di auto  riferimento del 

tutto analoga a quella di Gödel. Il fenomeno è infatti  intimamente legato al teorema 

di Gödel.

Le teorie per cui vale il teorema sono quelle per cui si rappresenta fedelmente i 

fatti  delle  computazioni  meccaniche;  se  l’aritmetica  di  Peano  fosse  completa,  allora 

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per decidere il problema della fermata basterebbe aspettare che arrivi l’affermazione 

che la macchina si ferma o arriva la sua negazione.

4.4 Il sistema nervoso come un flipper, il cervello come un’orchestra.

Quanto qui ipotizzato è coerente con la realtà fisiologica, perché in un sistema 

siffatto  non  è  importante  l’informazione  trasportata  quanto  il  percorso  che  essa  fa. 

Avevamo visto come le sinapsi si comportassero come pistole a spruzzo che sparano 

scariche elettro­chimiche. 

Queste scariche elettriche correranno lungo le ramificazioni e provocherà a sua 

volta altri spruzzi sui punti di contatto con altre cellule nervose e così via. Tutto ciò 

probabilmente lascia qualche traccia nel sistema. Infatti il passaggio del segnale mette 

in moto una serie di meccanismi che interessano le membrane, i punti di trasmissione 

e ricezione, la produzione di sostanze chimiche, il loro riassorbimento.

È  in  questo  modo  che  vengono  immagazzinate  le  informazioni,  cioè  queste 

modificazioni  rappresentano  per  così  dire  una  nuova  messa  in  forma  dei  circuiti  e 

quindi costituiscono una traccia del passaggio dei precedenti stimoli.

La  memoria  allora  potrebbe  essere  il  frutto  di  queste  alterazioni  strutturali  e 

chimiche, la memoria è il prodotto di queste modificazioni delle sinapsi; o magari in 

certi  casi,  il  prodotto  dell’emergere  di  nuove  sinapsi.  In  altre  parole  pensiamo  che 

l’attività mentale, l’apprendimento, o i ricordi, siano impulsi che viaggiano attraverso 

questa rete di comunicazione. 

Ad esempio nella famosa associazione del cane di Pavlov tra rappresentazione 

della carne e il suono del campanello. Il fatto che dopo un certo numero di ripetizioni, 

basti  il  suono  del  campanello  per  provocare  la  salivazione  nel  cane  significa  che  è 

stato  stabilito  o  rafforzato  un  collegamento  tra  sistema  uditivo  e  neuroni  che 

controllano le ghiandole salivari; un’associazione che prima non esisteva. 

Gli  impulsi  nervosi  diventano  capaci  di  percorrere  sentieri  che  prima  non 

avevano mai percorso e questo rappresenta un apprendimento. Quando ricordiamo o 

impariamo qualcosa vuol dire  che gli  impulsi nervosi hanno preso  strade che prima 

non avevano mai percorso. Inoltre  è  stato  dimostrato  che  in  certi  tessuti  di  coltura 

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possono stabilirsi nuove connessioni nervose in tempi rapidissimi: da qualche minuto a 

mezz’ora. Quindi un’efficace sinapsi si può stabilire in 10­15 minuti. 

Partendo  dall’idea  che  un  processo  mentale  superiore  non  può  essere 

ovviamente il frutto di una sola connessione o di un solo tracciato, bensì di un insieme 

di tracciati, si sta cercando di vedere se un certo stimolo, anziché passare come una 

meteora nel cervello  e scomparire, non rimbalzi per così dire nella rete analogamente 

a  quanto  avviene  per  la  pallina  di  un  flipper  che  va  a  colpire  con  un’elaborata 

geometria vari punti e torna magari sui rocchetti già toccati.

Naturalmente  questi  esperimenti  che  richiedono  l’introduzione  di  sottilissimi 

elettrodi  nel  cervello,  non  possono  essere  fatti  sugli  uomini.  Alcuni  ricercatori 

giapponesi  studiano  però  animali  impegnati  in  processi  cognitivi,  osservando  il 

comportamento di certe cellule della corteccia cerebrale durante l’apprendimento.

Ebbene  hanno  scoperto  che  l’attività  incerte  cellule  aumenta  dopo  qualche 

secondo dallo  stimolo. Ciò  sembra  indicare  l’esistenza di un processo d’elaborazione 

dell’informazione attraverso una serie di rimbalzi nel sistema interessato. 

È come se la cellula attraverso tutti i suoi punti di contatto ricevesse un’onda di 

ritorno  che  riflette  l’attività  della  complessa  rete di  cui  fa parte. È  questa  forse una 

delle chiavi di accesso alle attività superiori del cervello.

Si è  scoperto che oltre alle  sinapsi  ci  sono altri  rubinetti  chimici nel  cervello: 

dalle zone profonde salgono infatti altre ramificazioni nervose che non sono collegate 

direttamente ai neuroni della corteccia ma che durante gli stati emotivi inietta in delle 

sostanze chimiche nella zona interessata così come può fare una siringa. 

L’ipotesi  è  che  siano  proprio  queste  iniezioni  che  provengono  dalle  parte 

primitiva  del  cervello  a  influire  nelle  zone  nobili  della  corteccia.  Seymour  Katy  usa 

una delle immagini più efficaci per visualizzare questo concerto chimico che avviene 

nel cervello: quello dell’orchestra. 

“In  passato  pensavamo  che  ogni  sostanza  chimica  trasmettitrice  producesse  un 

particolare  stato emotivo:  la noradrenalina  l’eccitazione,  la serotonina  la  sonnolenza… 

ma  ci  siamo  resi  conto  che  questa  concezione  era  molto  semplicistica.  Un’analogia 

migliore è quella dell’orchestra, in un’orchestra possono esserci cento musicisti e magari 

25 strumenti diversi.

Ebbene,  l’orchestra  è  in  grado  di  produrre  una  vasta  gamma  di  stati  d’animo: 

felicità, tristezza, eccitazione, noia…ma non crea questi stati d’animo con un particolare 

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strumento bensì attraverso il modo in cui gli strumenti sono in relazione gli uni con gli 

altri. Taluni strumenti  suonano più  forte, altri più piano, alcuni più  in  fretta, altri più 

adagio.”

Ora  possiamo  capire  meglio  le  differenze  fra  i  modelli  presentati  e  le  loro 

relazioni  con  le  funzioni  alte  del  cervello.  Seguendo  la  linea  critica  di  Smolensky 

(1986)  secondo  cui  “una  singola  unità  (un  sub­simbolo,  un  neurone)  non  costituisce 

una rappresentazione, ma è soltanto un elemento che permette alla rappresentazione di 

emergere  ad  un  livello  più  astratto”  (pp.56),  le  nostre  considerazioni  sembrano 

dirigerci  verso  un  quarta  dimensione  nel  cervello  che  va  oltre  le  tre  dimensioni 

percepite sensorialmente.

Questa  è  derivata  dall'elaborazione  delle  percezioni  sensoriali  (Amit  1989)  o 

addirittura  sembra  che  le  dimensioni  interne  al  cervello  siano  molteplici  se  non 

infinite. Se  il modello PDP mantiene  tutte  le caratteristiche negative e  le  limitazioni 

viste nel precedente capitolo, il modello reale del neurone opera in maniera più varia 

e completa. 

La conseguenza è che mentre il modello PDP dà origine a reti che sono in grado 

di apprendere compiti facili, ma con dei limiti, nella realtà  invece il singolo neurone 

funziona  già  in  modo  talmente  ricco  che  il  sistema  nervoso  che  deriva 

dall'associazione di queste cellule è immensamente più potente.

Questo  è  possibile  come  si  è  visto  precedentemente,  perché  l'informazione 

computata  è  su  due  livelli  completamente  diversi.  Un  nodo  può  calcolare  x 

informazioni secondo una funzione f (x) e dare come risposta y  informazioni, ma le 

entrate non sono così elevate come nel neurone, altrimenti il sistema collassa e non è 

addestrabile, e soprattutto è possibile applicare solo un'operazione per volta. 

Il neurone può calcolare normalmente 100.000 funzioni diverse  in entrata,  in 

uno spazio pluri­dimensionale che le combina tra loro secondo più operazioni logiche, 

teoricamente  tutte  le  loro  possibili  combinazioni,  in  realtà  in  quanto  potenziali 

modulabili le loro combinazioni aumentano ancora.

Un'interessante critica in questa direzione viene da J.Fodor e Z.Pylyshyn (1981) 

secondo  cui  “il  connessionismo  è  impossibilitato  nella  creazione  di  sistemi  di 

rappresentazione  che  godono  della  proprietà  di  "composizionalità",  tali  cioè  che  un 

numero potenzialmente illimitato di rappresentazioni complesse possa essere generato da 

un  insieme  finito  di  rappresentazioni  atomiche,  in  maniera  che  il  significato  delle 

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rappresentazioni  complesse  dipenda  sistematicamente  dal  significato  delle  loro 

componenti” (pp.139).

Ma quello che dobbiamo tenere presente in questo caso è  la particolare ottica 

con  cui  si  osserva  il  trasporto  dell’informazione;  non  conta  tanto  la  quantità 

dell’informazione, ma la sua qualità. Per qualità  intendo che il nodo può trasportare 

sempre e  solo  l’informazione su una dimensione; nel neurone  invece,  l’informazione 

può essere creata ex­novo all’interno della membrana cellulare su più dimensioni.

Ma dov’è  che si  rende evidente questa pluri­dimensionalità? Non sicuramente 

nel  singolo  neurone  quanto  nelle  caratteristiche  del  sistema  nervoso.  Pensiamo  alla 

differenza  fra  una  formica  e  il  formicaio;  è  stato  osservato  dagli  etologi,  come  il 

comportamento del formicaio abbia caratteristiche simili a quello di un essere vivente 

dotato  di  un’elevata  intelligenza  a  differenza  della  semplice  formica  (Hofstadter  e 

Dennett 1981). 

Il  formicaio è  capace di prendersi  cura di  se, meglio di quanto  sappia  fare  la 

formica singola, data la sua alta specializzazione nei compiti. 

Ovviamente  il  formicaio  non  esiste  come  “essere”,  ma  come  “insieme  di 

formiche”,  tuttavia  quando  lo  indichiamo  intendiamo  qualcosa  di  più  della  semplice 

unione di formiche, data la sua alta funzionalità. 

Un altro esempio di questa nuova prospettiva dimensionale, cioè di come siano 

trasmesse informazioni su più dimensioni, è dato dai famosi quadri di Escher.

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Fig. 4.10

Qui  le  molte  dimensioni  coesistono  in  un’unica  realtà  (cioè  in  un’unica 

dimensione: quella del quadro) così come le molte dimensioni delle sinapsi coesistono 

all'interno della cellula nervosa. 

Questa  capacità  di  operare  come  una  scatola  cinese  su  diversi  livelli  appare 

evidente nelle  funzioni cerebrali, ma è  impossibile  in quelle PDP, una rete non sarà 

mai  in  grado  di  comprendere  questo  quadro,  perché  non  glielo  permette  la  sua 

struttura. 

Nel  prossimo  capitolo  troveremo  un'applicazione  pratica  nella  trattazione  del 

linguaggio metaforico e del “pensare dimensionale”, oltre ad un maggior chiarimento 

delle  capacità  delle  macchine  sovra  dimensionali  e  dell’utilità  di  cancellare 

l’informazione nel sistema nervoso.

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Capitolo 5La scuola di Palo Alto.

Granchio: Capire l'olismo è la cosa più semplice del mondo. E' semplicemente credere che

“l'intero è maggiore della somma delle sue parti”. Nessuna persona sana di mente

 oserebbe rifiutare l'olismo.Formichiere: Capire il riduzionismo è la cosa più semplice del mondo.

E' semplicemente credere che“l'intero può essere completamente capito

 quando si capiscono le sue parti e la natura della loro “somma””.Nessuna persona sana di mente

 oserebbe rifiutare il riduzionismo.Douglas R. Hofstadter 

Vediamo allora quali sono le peculiarità di funzionamento del sistema nervoso, 

analizziamo  cioè  le  caratteristiche   che  permettono  ad  un  tale  sistema  fisico  la 

creazione e gestione delle metafore e del relativo linguaggio metaforico. 

Se da una parte esiste una ricerca “tecnologica” induttiva, come abbiamo visto 

con  il connessionismo e del modellamento neurale, che  indaga sulla riproduzione di 

funzioni  hight­level  del  cervello  umano,  parallelamente  si  è  sviluppata  una  ricerca 

“psicologica” deduttiva che tende al solito fine utilizzando l'osservazione empirica dei 

comportamenti umani: è il caso della Programmazione Neurolinguistica che seguendo 

una via diversa è giunta a considerazioni simili a quelle di Lakoff & C. 

Il modello usato dalla PNL (Neurolinguistic Programming)  ha molti riscontri in 

casi clinici ed è suffragato da un'esperienza più che ventennale nella cura di disturbi 

psichici  e  comportamentali  in  genere,  basandosi  su  un  modello  di  linguaggio 

chomsckiano e di cura attraverso le metafore.

5.1 Gli uomini e le idee di Palo Alto

Il termine “Scuola di Palo Alto” è una comoda etichetta per designare un gruppo 

di ricercatori di differenti prospettive scientifiche che, in un dato momento della loro 

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esistenza, hanno lavorato a Palo Alto, San Francisco, orientando il  loro lavoro lungo 

tre grandi direzioni di ricerca: una teoria della comunicazione, una metodologia del 

cambiamento, una pratica terapeutica. 

Ma l'unità di queste ricerche è la visione sistemica del problema uomo, in altre 

parole come questo riesca a svolgere funzioni molto complesse come comprendere e 

comunicare  con  gli  altri  uomini,  ovvero  come  agente  in  un  sistema  dinamico. 

L'ispiratore del gruppo è Gregory Bateson che, dal 1949, ha lavorato presso l'ospedale 

psichiatrico della Veterans Administration a Palo Alto. 

Bateson non ha “inventato” l'approccio sistemico, il suo merito è di aver cercato 

di  applicarlo  in  maniera  metodica  e  rigorosa,  al  terreno  delle  relazioni  umane  e  in 

particolare alle alterazioni psichiche di natura traumatica. 

E'  questo  che  costituisce  la  vera  innovazione  rispetto  ai  precedenti 

procedimenti  della  psicologia.  L'approccio  sistemico  non  è  una  nuova  scienza  e 

neppure una nuova disciplina; è un punto di vista originale  sulla  realtà, un metodo 

per affrontare i fenomeni complessi (Peruzzi 1981). 

Consente una visione sintetica dei problemi, a differenza della visione analitica; 

infatti,  laddove  l'analisi  scompone  un  fenomeno  in  molte  parti  elementari,  di  cui 

studia  le  proprietà  e  va  dal  semplice  al  complesso,  la  sintesi  cerca  di  pensare  la 

totalità nella sua struttura e nella sua successione; invece di “dissociare”, “ricompone” 

l'insieme  delle  relazioni  espressive  che  legano  gli  elementi  in  interazione,  facendo 

corrispondere a queste la nozione di sistema.

Facciamo ora un rapido excursus storico per chiarire queste nozioni e mostrare 

a quali preoccupazioni concrete abbia risposto l'approccio sistemico e quale ne sia la 

portata operativa. La nozione di sistema non è nuova. 

Tuttavia, il modo di procedere sistemico ha conosciuto un nuovo slancio negli 

Stati  Uniti  negli  anni  Quaranta,  quando  ha  potuto  utilizzare  strumenti  di  grande 

efficacia  come  la  cibernetica  e, un po'  più  tardi,  l'informatica  e  la  robotica.  Il  padre 

della cibernetica Norbert Wiener, matematico che, prima dell'ultima guerra insegnava 

al MIT (Massachusetts  Institute of Technology),  lavora nel 1940 alla messa a punto 

d'apparecchi di guida automatica per cannoni antiaerei.

  Scopre  allora  che  simili  servomeccanismi  presentano  talune  analogie 

sorprendenti con il funzionamento del sistema nervoso; dimostrando in particolare che 

per  controllare un'azione orientata verso un  fine,  il  flusso delle  informazioni necessarie 

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deve  formare  un  “ciclo”  chiuso  in  cui  la  macchina  valuta  gli  effetti  delle  sue  azioni  e 

corregge  il  suo  comportamento  futuro  utilizzando  le  prestazioni  passate:  questo 

procedimento è designato con la nozione di feedback (o retroazione). 

Da allora il procedimento cibernetico consiste sempre più nell'applicare a tutti i 

terreni di condotta e di gestione d'organismi complessi, i modelli nati dall'incontro tra 

la meccanica e la biologia. 

Nello stesso tempo, questo nuovo procedimento si estende ad altre discipline, 

come l'economia, la gestione aziendale, la sociologia o l'antropologia; in quest'ultimo 

settore Margaret Mead e Bateson si mostrano molto interessati alle ricerche di Wiener 

e si sforzano di applicarle alla comprensione dei processi culturali. 

Negli anni cinquanta, una nuova invenzione va a dare un impulso decisivo alle 

ricerche sull'intelligenza artificiale e i robot: il computer.

Uno  dei  più  efficaci  per  l'epoca  è  costruito  nel  1951  al  MIT  da  un  giovane 

elettronico  che  si  occupava  del  laboratorio  dei  servomeccanismi,  Jay  Forrester, 

utilizzava una memoria magnetica ultrarapida. 

Poco tempo dopo, Forrester è incaricato dai servizi della Difesa di studiare un 

sistema  di  allerta  per  proteggere  il  territorio  americano;  progetta  una  rete  che 

accoppia  radar  con  computer  e  coglie,  in  questa  circostanza,  l'importanza 

dell'approccio  sistemico per  concepire e  controllare degli  insiemi molto complessi di 

interazioni che comportano l'intervento di uomini e macchine. 

Nel 1952, Bateson, anche lui in una prospettiva sistemica, lancia il suo progetto 

di  ricerca  sulla  comunicazione  a  Palo  Alto  e  nel  1954,  un  biologo,  Ludwig  Von 

Bertalanffy,  crea  un'équipe  di  ricerca  che  tenta  di  inglobare  la  cibernetica  in  una 

pratica più vasta: lo studio generale dei sistemi. 

Appare  così  chiaro  come  si  siano  unite  tra  loro  discipline  distanti  e  come 

quest'unione  abbia  avuto  come  sfondo  la  comune  volontà  di  comprendere  il 

funzionamento dell'uomo.

5.2 La nozione di sistema

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La nozione di sistema è una nozione generale di cui sono state date numerose 

definizioni.  La  più  usuale  è:  “Insieme  d'elementi  talmente  in  interazione  che  una 

qualsiasi modificazione di uno di loro comporta una modificazione di tutti gli altri”. 

Si  tratta  di  una  definizione  estremamente  ampia,  che  può  essere  applicata 

praticamente  ad  ogni  fenomeno.  Portiamo  subito  un  esempio:  la  cellula  di  un 

organismo  vivente  può  essere  considerata  come  un  sistema;  costituisce  una  totalità 

che  obbedisce  a  delle  regole  precise,  mantiene  la  sua  organizzazione  interna 

nonostante il flusso d'energia e di materiali che la attraversano. 

Per assicurare la permanenza della sua struttura e delle sue funzioni la cellula 

ricorre  a  degli  agenti  di  trasformazione,  gli  enzimi,  che  sono  dei  catalizzatori  che 

controllano  l'attività  cellulare,  e  agli  acidi  nucleici  che  contengono  le  informazioni 

necessarie  all'assemblaggio  delle  proteine  e  degli  enzimi  e  alla  riproduzione  della 

cellula. E' anche provvista di molecole­segnali che permettono le comunicazioni. 

Una membrana assicura il filtro della comunicazione con l'esterno e controlla le 

entrate e le uscite di energia e di informazioni. Il meccanismo di controllo dell'attività 

cellulare  è  realizzato  da  “repressori”  che  bloccano  o  sbloccano  l'informazione  che 

proviene dagli acidi nucleici. 

Così  la  cellula  appare  come  un  sistema  autoregolato,  trasformatore  d'energia, 

capace  in  ogni  momento  di  equilibrare  la  sua  produzione  in  funzione  del  consumo 

interno e all'energia di cui dispone. 

Da quest'esempio si possono ricavare le caratteristiche essenziali di un sistema:

­ Anzitutto presenta una  struttura composta di un  limite,  che  separa  il  sistema dal 

suo ambiente, e da elementi che possiedono certe proprietà e che sono legati tra loro 

da  una  rete  di  comunicazione  che  consente  la  circolazione  d'energia,  di  materie  e 

d'informazioni tra gli elementi.

- Un  sistema  ha  anche  un  aspetto  funzionale.  Il  funzionamento  è  assicurato  da  alcuni 

flussi  d'energia,  d'informazioni  o  d'elementi  che  percorrono  il  sistema  e  assicurano  la 

sua  conservazione,  la  sua  autoregolamentazione,  la  sua  riproduzione  e  il  suo 

adattamento all'ambiente. 

La maggior parte di queste funzioni implica lo scambio d'informazioni e in particolare 

un'informazione sullo stato del sistema stesso e del suo ambiente; questo ruolo è svolto 

da cicli di retroazione (o feedback) che assicurano l'ordinamento dei processi funzionali. 

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Vi  sono  delle  “entrate”  (input),  che  sono  il  risultato  dell'azione  dell'ambiente  sul 

sistema  e  delle  “uscite”  (output),  che  corrispondono  alle  azioni  del  sistema 

sull'ambiente. I cicli di retroazione rinviano anche delle informazioni che, a loro volta, 

provocheranno  in uscita altre azioni o  trasformazioni  rivolte verso  l'interno o  l'esterno 

del sistema.

Fig. 5.1

Queste  caratteristiche  possono  essere  generalizzate  per  ogni  sistema,  sia  si 

tratti di una cellula, che di una vettura, di un'azienda o di una città. 

La  teoria  generale  dei  sistemi  non  riguarda  soltanto  i  sistemi  meccanici, 

biologici o  sociali, ma può  essere applicata anche alle  relazioni di un  individuo con 

l'ambiente esterno, senza per questo significare una visione meccanicista dei fenomeni 

umani.

Se, quindi, ci si propone di elaborare un'analisi sistemica delle relazioni umane, 

gli  oggetti  che  costituiscono  gli  elementi  del  sistema  saranno  gli  individui  in 

interazione, e i loro attributi saranno le loro azioni e le loro reazioni. 

E  le  relazioni  tra  gli  oggetti  saranno  le  interazioni  che  si  sviluppano  tra  gli 

individui  presi  in  considerazione.  La  nozione  d'interazione  è,  dunque,  una  nozione 

centrale di un procedimento sistemico. 

Suggerisce l'idea di un ciclo in cui le reazioni di B influenzano a loro volta A e 

dove ciascun comportamento dei protagonisti svolge, secondo il punto di vista che si 

adotta, il ruolo di stimolo/risposta (o di rinforzo) in rapporto al comportamento degli 

altri. 

L'interazione  implica  la  comunicazione,  ma  quest'ultima  va  intesa  in  senso 

ampio: può essere verbale o non verbale; in una situazione di presenza simultanea e 

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di relazione, ogni comportamento, sia esso vocale, essenziale o posturale, assume un 

valore comunicativo.

In  questa  prospettiva,  si  può  definire  l'interazione  come  una  sequenza  di 

messaggi  scambiati  da  alcuni  individui  in  relazione  reciproca.  Un  sistema  non 

s'individua  soltanto  per  le  sue  caratteristiche  interne,  ma  anche  per  l'ambiente  nel 

quale si situa, che si designa con la nozione di situazione. La situazione è l'insieme di 

quegli  elementi  dell'ambiente  i  cui  attributi  interagiscono  col  sistema  o  ne  sono 

influenzati. 

Così,  l'interazione  all'interno  di  un  gruppo  di  persone  non  sarà  la  stessa  a 

seconda che queste persone si trovino in una situazione professionale, in casa di una 

di loro o in un locale. Quest'esempio non deve suggerire che la situazione si riduce ad 

un quadro materiale; è altresì un quadro simbolico, un  insieme di norme culturali e 

sociali, un'istituzione nel senso antropologico del termine (vale a dire, l'insieme delle 

regole che governano questa o quest'altra situazione d'interazione).

I sistemi umani sono, in generale, dei sistemi aperti, che comunicano in modo 

costante  con  il  loro  ambiente.  Pertanto  l'insieme  formato  da  un  sistema  e  il  suo 

contesto  può  essere  considerato  esso  stesso  come  un  sistema;  per  esempio,  se  si 

considerano come sistema  le  interazioni  tra due “contabili”  di un'azienda,  inserendo 

questo “servizio” (la contabilità) nel quadro dell'azienda esso diventa un sottosistema 

in rapporto alla totalità. 

Vale  a  dire  che  abbiamo  a  che  fare  con un  sistema gerarchico  in  cui  ciascun 

livello serve da situazione per  il  livello  inferiore (La “contabilità” è  il contesto in cui 

s'inscrive, per esempio, la relazione tra i due “contabili”) e da elemento per il  livello 

superiore (il sistema “azienda” è colto come un'interazione di servizi, tra cui anche la 

“contabilità”). 

Nella  figura  sottostante ogni ellisse è un sistema ed è  colta  la  relazione  fra  il 

contabile  A,  il  contabile  B  e  l'ambiente.  La  conclusione  metodologica  di  queste 

osservazioni  è  che  lo  studio  di  un  sistema  d'interazioni  include  l'assunzione  della 

situazione in cui queste interazioni s'inscrivono.

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Fig.5.2

5.3 La Programmazione Neurolinguistica

Il  lavoro  iniziato dalla  scuola di  Palo Alto negli  anni  '50 ha dato  interessanti 

sviluppi  teorici  con  i  suoi  successori, Richard Bandler  e  John Grinder,  sia  in  campo 

neurofisiologico che linguistico, come testimonia Bateson:

“E'  uno  strano  piacere  scrivere  l'introduzione  a  questo  libro  [La  Struttura  della 

Magia] perché John Grinder e Richard Bandler hanno fatto qualcosa di simile a ciò che i 

miei  colleghi  ed  io  abbiamo  cercato  di  fare  quindici  anni  fa.  Il  compito  era  facilmente 

definibile: dare origine ad una base teorica appropriata per la descrizione dell'interazione 

umana (…).Sono riusciti a fare della linguistica una base teorica e al tempo stesso uno 

strumento terapeutico.

 Ciò assicura loro un duplice controllo sui fenomeni psichiatrici; essi hanno capito 

qualcosa  che  noi,  come  vedo  oggi,  siamo  stati  sciocchi  a  farci  sfuggire  (…).Questa 

scoperta  sembra  ovvia  quando  l'argomentazione  muove  dalla  linguistica,  (…),  anziché 

muovere dal contrasto culturale e dalla psicosi, come facevamo noi (…) nel 1955 (…) ” 

(pp.9­11).

L’utilizzo  della  linguistica,  e  più  in  particolare  della  grammatica 

trasformazionale di Chomsky, per la definizione delle relazioni umane, ha avuto esiti 

chiarificatori  in  questo  campo.  Con  l'espressione  programmazione  neurolinguistica 

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s'indica  il procedimento  fondamentale usato da  tutti  gli  esseri umani per  codificare, 

trasferire, guidare e modificare il comportamento. 

Per  Bandler,  un  linguista,  e  Grinder,  un  matematico,  il  comportamento  è 

programmato  con  la  combinazione  e  la  disposizione  in  sequenza  delle 

rappresentazioni  del  sistema  neurale  ­  visioni,  suoni,  sensazioni,  odori  e  sapori  ­ 

indipendentemente dal tipo del comportamento stesso.

Neuro  sta  ad  indicare  il  principio  fondamentale  secondo  cui  ogni 

comportamento  è  creato  attraverso  processi  neurologici.  Linguistico  indica  che  i 

processi  neurali  sono  rappresentati,  ordinati  e  disposti  in  sequenza,  in  modelli  e 

strategie, attraverso il linguaggio e i sistemi di comunicazione. 

Programmazione  si  riferisce  al  processo d'organizzazione degli  elementi  di  un 

sistema (in questo caso le rappresentazioni sensoriali) per il conseguimento di risultati 

specifici.

Gli uomini hanno elaborato molti sistemi o modelli per capire l'universo in cui 

vivono e operare con lui. Tipicamente ciascun modello si sovrappone in qualche punto 

ad altri e può comprendere, al suo interno, modelli minori: così la scienza comprende 

la fisica, la biologia, l'oceanografia, la chimica, ecc. 

Ogni modello differisce dagli altri per la parte dell'esperienza umana che esso 

rappresenta  e  alla  quale  dà  rilievo,  e  per  il  modo  in  cui  organizza  e  usa  il  proprio 

insieme  selezionato  di  rappresentazioni.  Tutti  sono  simili  sotto  il  profilo  del 

fondamentale  interesse  che  ciascuno  presenta  per  i  risultati  del  comportamento 

umano. 

Ogni  modello  ha  lo  scopo  di  individuare  schemi  costanti  d'interazione  tra  il 

comportamento e l'ambiente, affinché il comportamento dei singoli esseri umani possa 

essere reso sistematico nella situazione prescelta per conseguire nel modo più efficace, 

completo e coerente i risultati adattivi auspicati.

Come  organismi  costruttori  di  modelli,  noi  escogitiamo,  tramandiamo  ed 

estendiamo  i  nostri  schemi  culturali,  non  operando  direttamente  sul  mondo,  ma 

attraverso  interpretazioni  codificate  dell'ambiente,  sperimentando  nei  nostri  sistemi 

rappresentazioni  sensoriali  attraverso  la  vista  il  suono,  l'odore,  il  sapore  e  la 

sensazione. 

Le  informazioni  sull'universo  esterno  (come  pure  sui  nostri  stati  interni)  sono 

ricevute,  organizzate,  unificate  e  trasmesse  per  mezzo  della  nostra  rete  neurale.  Tali 

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informazioni  sono  quindi  trasformate  mediante  le  strategie  d'elaborazione  interne  che 

ogni individuo ha appreso. Il risultato è ciò che chiamiamo comportamento.

Fig.5.3

Nella  PNL,  si  definiscono  come  comportamento  tutte  le  rappresentazioni 

sensoriali  sperimentate  ed  espresse  interiormente  ed  esteriormente,  di  cui  vi  sia 

evidenza da parte di un soggetto o di un osservatore umano di quel soggetto. 

Ossia,  l'atto di sciare lungo un bel pendio montano coperto di neve e  l'atto di 

immaginarsi di farlo vanno considerati entrambi comportamenti nella situazione della 

programmazione  neurolinguistica.  Così  tanto  il  macrocomportamento  quanto  il 

microcomportamento,  naturalmente,  sono  programmati  attraverso  il  nostro  sistema 

neurologico. 

Il  macrocomportamento  è  palese  e  facilmente  osservabile,  come  guidare 

l'automobile,  parlare,  lottare,  mangiare,  ammalarsi  o  andare  in  bicicletta.  Il 

microcomportamento  implica  fenomeni  più  sottili,  anche  se  egualmente  importanti, 

come il battito cardiaco, il tono di voce, le alterazioni del colorito, la dilatazione delle 

pupille ed eventi come vedere mentalmente o avere un dialogo interno.

Certo, non tutti i modelli di comportamento trasmessi culturalmente sono stati 

incorporati  da  tutti  i  membri  della  specie  umana,  ma  la  maggior  parte  di  noi  ne 

dispone  nei  propri  sistemi  rappresentazionali,  così  come  l'elaborazione  di  questi 

modelli e il comportamento che ne consegue, costituiscono strategie utili alla propria 

sopravvivenza. 

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In definitiva,  i modelli  si  conservano o si eliminano  in base alla  loro capacità 

d'adattamento  o  alla  loro  utilità  come  guide  di  comportamento  dei  membri  della 

specie, costituendo un particolare “genoma umano”. 

5.4 Un nuovo modello

La  programmazione  neurolinguistica  è  una  naturale  estensione  di  questo 

processo evolutivo con un nuovo modello. E' importante rendersi conto che i modelli, 

come quelli sopra citati, non sono qualcosa che sta “laggiù” in qualche luogo, esterno 

a noi come individui. 

La  PNL  differisce  da  altri  modelli  di  comportamento  per  il  fatto  di  costituire 

esplicitamente un modello del nostro comportamento di costruttori di modelli. E' ciò 

che chiamiamo un metamodello, un modello dello stesso processo di modellamento. La 

costruzione d'ogni modello richiede l'individuazione e la rappresentazione: 

1) di un insieme di elementi strutturali

2) di una sintassi

In questo caso gli elementi strutturali sono i dati sensoriali percepiti.La sintassi è 

invece l'insieme delle regole che descrivono il modo di unire gli elementi strutturali. 

Nei  modelli  linguistici,  per  esempio,  gli  elementi  strutturali  tipici  sono  le  parole:  i 

vocaboli scritti e parlati. 

La  sintassi  è  il  complesso  delle  regole  grammaticali  che  stabiliscono  in  che 

modo  si  possano  associare  le  varie  parole.  La  lingua  italiana  ha  un  vocabolario 

relativamente  esiguo,  ma  nel  corso  della  storia  dei  parlanti  italiani  sono  state 

pronunciate milioni di frasi diverse e milioni d'idee diverse sono state messe in parole. 

Ciò  è  possibile  perché  le  parole  possono  essere  riunite  in  ordini,  sequenze  e 

forme  diverse  che  forniscono  contesti  particolari,  in  cui  esse  possono  evocare  un 

significato e una significatività unici. Tutti i libri in lingua italiana che mai siano stati 

scritti sono composti dalle stesse parole usate più e più volte in ordini diversi; a loro 

volta  le  parole  sono  ricavate  dalle  stesse  lettere  dell'alfabeto,  quindi  da  un 

determinato alfabeto e da determinate regole. 

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Secondo la grammatica generativa chomskyana (Chomsky 1957) il significato è 

relativo alla forma grammaticale con cui si presenta la frase, e  la PNL sottolinea ciò 

considerando  la  forma  comunicativa  (non  solo  la  grammatica  del  linguaggio,  ma 

anche la postura, il tono della voce, …) come retta da regole precise ed esplicite. 

Grazie al  lavoro di Chomsky (1982) e di altri  trasformazionisti (Wall 1972) è 

stato possibile elaborare un modello formale per descrivere gli schemi regolari con cui 

esprimiamo la nostra esperienza. 

I  grammatici  trasformazionali  hanno  elaborato  un  metamodello  del  nostro 

linguaggio,  che  funge  da  sistema  di  rappresentazione  per  le  nostre  esperienze,  che, 

com'essere  umani,  sono  enormemente  ricche  e  complesse.  Se  il  linguaggio  deve 

adempiere in modo adeguato la propria funzione di sistema rappresentazionale, esso 

deve  procurarsi  una  ricca  e  complessa  serie  d'espressioni  per  rappresentare  le 

esperienze che possiamo avere.

 I grammatici trasformazionali si sono accorti che un approccio semantico allo 

studio dei  sistemi delle  lingue naturali  attraverso  lo  studio diretto di  questa  ricca  e 

complessa serie d'espressioni sarebbe stato un compito troppo arduo. 

Hanno quindi deciso di studiare non già le espressioni in sé, ma le regole per la 

formazione  delle  espressioni  stesse  (sintassi).  Per  esempio,  tutti  coloro  che  parlano 

italiano come loro lingua nativa, fanno una distinzione coerente fra:

(1) Pallide idee verdi hanno il sonno agitato

(2) Agitato sonno il hanno verdi idee pallide.

Anche se  il primo gruppo di parole  sembra un po' bizzarro,  lo  si  riconosce come 

grammaticale  o  ben  formato  in  qualche modo  in  cui  non  sembra  esserlo  il  secondo 

gruppo. Ciò che stiamo mostrando qui è che le persone hanno intuizioni coerenti circa la 

lingua  che  parlano,  ovvero  riescono  ad  organizzare  la  loro  esperienza  in  forme 

comunicative al di là del significato. 

Descriveremo  in  che  modo  le  intuizioni  coerenti  che  individuiamo  nella  nostra 

lingua  siano  rappresentate  nel  metamodello,  attraverso  la  grammatica 

trasformazionale.  I parlanti nativi hanno due specie d'intuizioni coerenti su ogni frase 

della loro lingua. 

Essi  sanno  stabilire  come  le  unità  più  piccole,  quali  le  parole,  si  combinino  per 

formare  la  frase  (intuizioni  sulla  struttura  a  costituenti)  e  anche  quale  sarebbe  la 

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rappresentazione  completa  della  frase  (la  completezza  della  rappresentazione  logica). 

Per esempio, di fronte alla frase:

Io amo Denis

un parlante nativo è in grado di raggruppare le parole in costituenti o unità di 

livello più ampio come:

/io / ­ / amo/ ­ / Denis/

Il  linguista  rappresenta  queste  intuizioni  su  ciò  che  si  combina  all'interno  di 

una frase disponendo  le parole, che  formano un costituente,  in quella che si chiama 

una struttura ad albero e che si presenta così:

Fig.5.4

La regola è  che  le parole, che come parlanti nativi  raggruppiamo in un unico 

costituente, si colleghino allo stesso punto o nodo della struttura ad albero. E' quella 

che  si  chiama  struttura  superficiale.  Il  secondo  tipo  d'intuizioni  coerenti,  riguarda 

quella che sarebbe la rappresentazione completa della sua struttura. 

Denis è amato da me

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Fig.5.5

E' quella che si chiama la struttura profonda. Stiamo mostrando come seguendo 

l'idea di Chomsky si possa passare da una forma comunicativa all'altra nell'ambito del 

modello  trasformazionale,  concentrandoci  per  ora  sulla  possibilità  di  analizzare  il 

linguaggio su diversi livelli e sulle relazioni che li legano. 

L'intuizione  dei  sostenitori  della  PNL  è  quella  di  associare  queste  trasformazioni 

grammaticali  ad  un  corrispettivo  significato  nel  soggetto  parlante,  senza  curarsi  nel 

contempo del significato che il soggetto associa hai modelli che utilizza, ma osservando le 

relazioni usate.

Nel momento  in cui associamo  le  trasformazioni grammaticali(sintassi) ad un 

significato(semantica)  creiamo  un  legame  logico  molto  forte.  Si  passa  così  da  una 

grammatica  generativa  chomskyana  ad  una  semantica  generativa  di  Lakoff  in  cui  i 

significati  associati  alla  struttura  profonda  possono  essere  derivati  con  regole  da 

quella superficiale e viceversa. 

Così ogni frase viene analizzata a due livelli di struttura che corrispondono ai 

due  tipi  di  intuizioni  che  hanno  i  parlanti  nativi:  la  struttura  superficiale  di  tipo 

deduttivo,  in  cui  le  loro  intuizioni  sulla  struttura  a  costituenti  ricevono  la 

rappresentazione di una struttura ad albero, e una struttura profonda induttiva, in cui 

sono  date  le  loro  intuizioni  su  quella  che  è  la  rappresentazione  completa  delle 

relazioni semantiche logiche. 

Poiché  il  modello  dà  due  rappresentazioni  per  ciascuna  frase  (la  struttura 

superficiale e la struttura profonda), spetta ai linguisti stabilire esplicitamente come i 

due livelli si colleghino. Il modo in cui essi rappresentano questo collegamento è un 

processo, o derivazione, che consiste in una serie di trasformazioni. 

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Una  trasformazione  è  l'enunciazione  esplicita  di  un  certo  tipo  di  schema 

costante  di  cui  i  parlanti  nativi  riconoscono  l'esistenza  tra  le  frasi  delle  loro  lingue. 

Confrontiamo per esempio le due frasi:

Io amo Denis

Denis è amato da me

I  parlanti  nativi  riconoscono  che  sebbene  queste  strutture  superficiali  siano 

diverse,  il messaggio comunicato, o la struttura profonda delle due frasi, è  lo stesso. 

“Quando gli uomini desiderano comunicare  la  loro rappresentazione,  la  loro esperienza 

del mondo, formano della loro esperienza una rappresentazione linguistica completa, che 

è  chiamata  struttura  profonda.  Quando  cominciano  a  parlare,  effettuano  una  serie  di 

scelte (trasformazioni) relative alla  forma in cui comunicheranno la  loro esperienza.  In 

genere  queste  scelte  non  sono  scelte  coscienti.  La  struttura  di  una  frase  può  essere 

considerata il risultato di una serie di scelte sintattiche effettuate nel generarla. Tuttavia, 

quando  operiamo queste  scelte,  il  nostro  comportamento  è  regolare  e  conforme a  certe 

norme. Il procedere a questa serie di scelte porta alla struttura superficiale, che può essere 

considerata  la  rappresentazione  della  “rappresentazione  linguistica  completa”  della 

struttura profonda” (Gentner 1983, pp.162). 

Come possiamo indagare la struttura profonda se ciò che ci viene mostrato è un 

risultato  finale  di  una  serie  di  trasformazioni  secondo  regole  a  noi  sconosciute? 

Bandler  e  Grinder  hanno  utilizzato  una  semplice  regola  di  scomposizione  della 

grammatica superficiale e l’hanno applicata alle frasi dei soggetti, notando che le frasi 

erano logicamente incomplete, quasi una forma sintetica della struttura profonda.

Nelle  seguenti  trasformazioni  linguistiche  fra  terapeuta  e  paziente  notiamo 

come da una  forma grammaticale  superficiale passiamo ad una  forma grammaticale 

profonda che è associabile ad un significato semantico proprio del paziente.

P­ Io sono confuso

T­ Chi ti confonde? (o cosa ti confonde?)

P­ La gente mi confonde

T­ Chi ti confonde in particolare? (o quale tipo di persone ti confondono?)

….

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Il significato proprio del paziente non è interessante hai fini delle 

trasformazioni, così se il paziente rispondesse “Sono confuso dai ragni” il terapeuta 

non deve concentrarsi sul significato ma sulla forma della frase e preoccuparsi che 

questa sia resa in ogni sua parte esplicita con una struttura profonda (“come ti 

confondo i ragni o cosa fanno per confonderti?”). 

Se il soggetto rispondesse dopo alcune trasformazioni: “Una volta un ragno mi 

ha morso quando ero ad un campeggio estivo”, secondo Bandler e Grinder ciò 

corrisponde alla struttura profonda della frase “io sono confuso”, in quanto non più 

trasformabile. 

Appare evidente che la teoria della PNL sebbene muova da quella chomskyana 

non vi coincide, visto che ha qualsiasi livello di struttura grammaticale abbiamo anche 

un corrispettivo semantico, ovvero il modello neuronale di percezione e di meccanismi 

motori è lo stesso usato per il linguaggio (Cap.1).

 In ogni modello dobbiamo considerare il significato che il soggetto lega a quel 

modello, non nel senso di comprenderlo, ma nel senso di tenerlo in considerazione 

come significante per quel modello. 

Riepilogando, il sistema neurale (e in particolare il linguaggio umano) è un 

modo di produrre rappresentazioni del mondo. Esiste un legame tra ciò che prova un 

individuo e ciò che comunica esteriormente; non è importante per noi osservatori il 

significato dell'informazione comunicata, quanto la forma con cui viene comunicata.

 Questa forma è un modello e può essere trasformato attraverso opportune 

regole, che qui non mostrerò, in altri modelli più completi e precisi; la trasformazione 

non è semplicemente solo grammaticale, ma contemporaneamente semantica nel 

senso che la forma è strettamente legata al significato. 

Ed ancora il sistema nervoso, responsabile della produzione del sistema 

rappresentazionale del linguaggio, è lo stesso sistema nervoso che produce altri 

modelli come il pensiero, la vista, il movimento, ecc). 

In ciascuno di questi modelli operano gli stessi principi della struttura nervosa. 

Pertanto i principi formali che i linguisti hanno individuato nell'ambito del sistema 

rappresentazionale chiamato linguaggio ci offrono un approccio esplicito alla 

comprensione di ogni sistema di modellamento umano. 

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La programmazione neurolinguistica mostra come si possano ridurre le 

complessità del comportamento umano (al pari del numero infinito delle possibili frasi 

ben formate di una lingua) ad un numero finito d'elementi strutturali e ad una sintassi. 

Così ogni comportamento è il risultato di sequenze sistematicamente ordinate di 

rappersentazioni sensoriali. 

Considerando che gli uomini non operano direttamente  sul mondo attraverso 

continue trasformazioni sensoriali, ci rendiamo anche conto che la “verità” è più una 

metafora  piuttosto  che  un  criterio  di  misura  assoluto  della  realtà  esterna.  I  modelli 

culturali non esprimono la “verità”, ma prescrivono campi d'esperienza nel cui ambito 

il comportamento è organizzato secondo determinanti schemi. 

Nella  misura  in  cui  si  selezionano  e  si  definiscono  arbitrariamente  gli  elementi 

strutturali,  la  sintassi  e  i  limiti  di  ciascun modello,  potremmo  considerare  i modelli  in 

genere come metafore.

5.5 L'eleganza del modellamento

Il  termine “eleganza” qui si riferisce al numero delle regole e delle distinzioni 

che un determinato modello richiede per poter assicurare tutti i risultati per i quali è 

stato concepito. Il modello più elegante sarebbe quello che impiega il minor numero 

di distinzioni pur riuscendo a garantire una gamma di risultati uguale o superiore a 

quella conseguita con modelli di maggiore complessità. 

Il passaggio ad una maggiore eleganza di modellamento avviene in due modi:

1)  Focalizzando  l’attenzione  sugli  elementi  primitivi  dell’esperienza,  per 

esempio,  nella  PNL  le  cinque  categorie  dell'esperienza  sensoriale  (vista,  udito,  tatto 

olfatto e gusto, a cui viene aggiunta anche quella cenestesica, o propriocettiva) sono la 

base delle strategie con le quali originiamo e guidiamo il comportamento.

2)  Il  modello  si  orienta  assai  più  nel  senso  della  forma  che  del  contenuto 

(intendiamo per  “forma”  i  principi  o  regole  d'interazione  tra  gli  elementi  strutturali 

che  generano  i  possibili  stati  o  interazioni  del  sistema).  Conoscendo  gli  elementi 

fondamentali e le regole generative di un dato modello di comportamento, qualunque 

siano  i  suoi  contenuti,  non  occorre  dedicare  anni  allo  studio  dei  particolari  del 

comportamento nell'ambito di ciascun modello per essere in grado di padroneggiarlo. 

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Difatti,  con  lo  sviluppo  di  modelli  più  eleganti,  si  è  sempre  avuto  un  progresso 

nell'efficacia e nella potenzialità didattica.

Il  nostro  postulato  è  che  ogni  nostra  esperienza  in  atto  può  essere  utilmente 

codificata  come  composta  da  qualche  combinazione  di  queste  categorie  sensoriali. 

Prendiamo ad esempio una quadrupla ordinata (4­pla) d'input sensoriali come forma 

generale della nostra esperienza:

Le  maiuscole  sono  le  abbreviazioni  delle  principali  fonti  sensoriali  o  sistemi 

rappresentazionali che usiamo per la costruzione dei nostri modelli del mondo:

A = Auditivo

V = Visivo­immaginativo

C = Cenestesico 

O = Olfattivo ­ Gustativo

Gli  esponenti  “e”  e  “i”  indicano  se  le  rappresentazioni  provengono  da  fonti 

esterne  (“e”),  come  quando  guardiamo,  ascoltiamo,  odoriamo  o  gustiamo  qualcosa 

che  è  fuori  di  noi,  o  se  sono  invece  interne  (“i”),  come  quando  ricordiamo  o 

immaginiamo una figura, un suono, una sensazione, un odore o un sapore. Possiamo 

anche presentare la 4­pla così:

Fig.5.6

Supponendo che in questo momento il lettore stia seduto comodamente in un 

posto tranquillo e stia leggendo da solo, si può usare la 4­pla per rappresentare così la 

sua attuale esperienza del mondo:

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Fig.5.7

La specifica 4­pla rappresenta l'esperienza del lettore, dove lo spazio vuoto (0) 

indica  la  mancanza  d'esperienza  in  quella  modalità.  In  altri  termini,  l'attuale 

esperienza del mondo del lettore è rappresentata da una descrizione dell'input visivo 

originato  dalle  parole,  dalle  sue  attuali  sensazioni  cenestesiche  e  dalle  sensazioni 

olfattive disponibili. 

Poiché  supponiamo  che  il  lettore  si  trovi  in  un  luogo  esterno,  il  valore  della 

variabile  V,  C  e  O  sono  specificati  da  una  descrizione  dell'input  proveniente  dal 

mondo che in questo momento si sta ripercotendo sul lettore. 

Possiamo servirci della 4­pla per rappresentare la sua esperienza totale ossia la 

sua attuale esperienza in corso indipendentemente dal fatto che essa abbia origine o 

meno  nel  mondo  esterno.  La  distinzione  può  essere  fatta  agevolmente  con  la 

collocazione  di  un  esponente  su  ogni  elemento  della  4­pla:  una  “i”  (per  l'origine 

interna) o una “e” (per l'origine esterna). 

Supponendo  quindi  che  in  questo  momento  il  lettore  stia  leggendo  con  un 

dialogo interno, e ricorrendo agli esponenti che distinguono le componenti di origine 

interna da quelle di origine esterna, la 4­pla del lettore assumerà questa forma:

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le parole stampate (e),                     la sensazione (e),                    le qualità  (i),               l'odore  (e),

del libro, i giochi                              della sedia,                            di ritmo e tono             della stanza,

di luce                                              la temperatura                        del dialogo                   la freschezza

della stanza…..                                la stanza……                         interiore…..                 dell'aria

Nella PNL i sistemi sensoriali hanno una rilevanza funzionale assai maggiore di 

quella a essi attribuita dai modelli classici  in cui i sensi sono considerati meccanismi 

passivi di input. Le informazioni o distinzioni sensoriali ricevute attraverso ciascuno di 

questi  sistemi  mettono  in  moto  e  adattano  i  processi  comportamentali  e  l'output 

dell'individuo. 

Ogni  categoria  percettiva  forma  un  complesso  sensomotorio  che  diviene 

responsabile, nel senso di capace di dare certe risposte, per classi di comportamento. Tali 

complessi sensomotori sono chiamati  in PNL sistemi rappresentazionali. Ogni sistema 

rappresentazionale forma una rete tripartita:

1) Input

2) Rappresentazione/elaborazione

3) Output

Il  primo  stadio,  l'input,  riguarda  la  raccolta  delle  informazioni  e  la  ricezione  di 

feedback  da  parte  dell'ambiente,  tanto  interno,  quanto  esterno.  Lo  stadio  di 

rappresentazione/elaborazione comprende la costruzione della mappa dell'ambiente e 

l'instaurazione  delle  strategie  comportamentali,  come  l'apprendimento,  la  presa  di 

decisioni, l'accumulo delle informazioni, ecc. 

L'output  è  la  trasformazione  causale  del  processo  di  rilevamento 

rappresentazionale.  In  questo  ambito  s'intende  per  comportamento  l'attività  in 

qualunque di questi stadi che rientra in qualsiasi sistema rappresentazionale. 

Gli atti di vedere, ascoltare o avere sensazioni sono comportamento. Lo è anche il 

“pensare”  che,  se  scomposto  nelle  sue  parti  costituenti,  comprenderebbe  specifici 

processi  sensoriali  come  vedere  mentalmente,  ascoltare  un  dialogo  interno,  avere 

sensazioni su qualcosa e così via. 

Ogni  output,  naturalmente,  è  comportamento:  da  microcomportamenti,  come  i 

movimenti  laterali degli occhi,  il  cambio di  torno di voce e del  ritmo del  respiro, ai 

macrocomportamenti, come un litigio, una malattia o un calcio al pallone. 

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Nella programmazione neurolinguistica chiamiamo strategie gli  schemi  formali di 

queste sequenze.

Fig.5.8

Immaginiamo un giovane in camice bianco, seduto comodamente, con la  luce 

del sole che si riversa da un'alta finestra sul suo lato destro e alle sue spalle. Alla sua 

sinistra un libro con la copertina a carattere in argento. 

Guardandolo meglio, ne vediamo lo sguardo assorto su un gran foglio bianco, 

le pupille dilatate, i muscoli facciali sciolti e immobili, quelli delle spalle leggermente 

tesi mentre  il resto del corpo è  in riposo. Respira poco profondamente, di petto e  in 

modo regolare. Chi è questa persona?

Stando a questa descrizione, potrebbe essere un fisico nell'atto di osservare una 

serie di complesse espressioni matematiche riguardanti i fenomeni fisici che egli vuole 

capire. Ma quanto si è detto potrebbe altrettanto bene riferirsi ad un artista che stia 

creando delle vivide fantasie visive per la preparazione di un quadro ad olio. 

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Oppure  quest'uomo  potrebbe  essere  uno  schizofrenico,  talmente  preso  in  un 

mondo di fantasticherie interne da aver perduto ogni contatto con il mondo esterno. 

Ciò  che  accomuna  i  tre  uomini  è  il  fatto  di  impiegare  lo  stesso  sistema 

rappresentazionale, di seguire delle immagini visive interne. 

Ciò  che  li  distingue  l'uno  dall'altro  è  il  modo  di  utilizzare  questa  ricca 

esperienza interiore d'immagini. Può darsi che ad un certo momento il fisico vada da 

un collega e traduca le proprie immagini in parole, comunicando attraverso il sistema 

auditivo  di  costui  qualche  nuovo  schema  scoperto  nelle  proprie  visualizzazioni. 

L'artista può afferrare  il  foglio bianco e cominciare a  tracciarvi col pennello  forme e 

colori, molti dei quali tratti direttamente dalle proprie immagini interiori, traducendo 

l'esperienza interna in esperienza esterna. 

Lo  schizofrenico  può  continuare  il  suo  sogno  ad  occhi  aperti  lasciandosene 

assorbire  completamente,  tanto  che  le  immagini  che  crea  lo  distoglieranno  dal 

rispondere alle informazioni sensoriali che giungono dal mondo esterno.

  Il  fisico  e  l'artista  differiscono  dallo  schizofrenico  per  la  funzione  delle  loro 

visualizzazioni  nel  contesto  della  sequenza  delle  attività  del  sistema 

rappresentazionale che influiscono sul risultato del loro comportamento: nel modo di 

utilizzare le visualizzazioni. 

Il fisico e l'artista possono scegliere di seguire visivamente il mondo esterno o 

quello della  loro esperienza  interna. Sotto  il profilo neurologico,  il processo  con cui  si 

crea l'esperienza visiva interna è identico per i tre uomini. 

Di per sé una rappresentazione visiva può essere tanto una limitazione quanto 

una risorsa per la potenzialità umana, secondo il modo in cui si adegua al contesto e 

di come si usa. Il fisico e l'artista controllano il processo; mentre lo schizofrenico n'è 

controllato. 

Per il fisico e per l'artista il fenomeno naturale della visualizzazione appartiene 

alla  categoria  delle  variabili  di  decisione;  per  lo  schizofrenico,  alla  categoria  della 

variabili ambientali.

5.6 La sinestesi

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L'esistenza di sequenze ordinate di rappresentazioni, che chiamiamo strategie, 

presuppone  delle  reti  interconnesse  di  attività  a  livello  neurologico.  Le  connessioni 

incrociate  fra complessi di  sistemi  rappresentazionali, per  cui  l'attività di un  sistema 

dà l'avvio all'attività di un altro sistema, sono chiamate sinestesi. 

Udire  un  tono  di  voce  aspro  e  sentirsi  a  disagio  è  un  esempio  di  sinestesi 

auditivo­cenestesica. Vedere il sangue e provare nausea sarebbe una sinestesi visivo­

cenestesica.  Essere  arrabbiati  e  rimproverare  verbalmente  qualcuno  dentro  di  sé 

sarebbe una sinestesi cenestesico­auditiva. 

Ascoltare  della  musica  e  immaginare  una  bella  scena  sarebbe  una  sinestesi 

auditivo­visiva.  Se  cerchiamo  nella  letteratura  troviamo  molti  esempi  di  sindromi 

sinestesiche, una per tutte quella descritta da O. Sacks (1985) in L'uomo che scambiò 

sua moglie per un cappello.

Gli schemi sinestesici costituiscono gran parte del processo con cui gli uomini 

rendono  significativa  la  loro  esperienza.  Le  correlazioni  tra  le  attività  dei  sistemi 

rappresentazinali sono alla radice di processi complessi come la conoscenza, la scelta 

e la comunicazione. 

La capacità e la perizia che gli uomini dimostrano nei settori e nelle discipline 

più  vari  sono  il  risultato diretto delle  connessioni  incrociate  che  si  stabiliscono  tra  i 

complessi rappresentazionali neurali. 

Le maggiori differenze  tra  individui  in possesso di  capacità,  ingegno e abilità 

diversi sono dovute alle correlazioni sinestesiche nell'ambito dei loro particolari campi 

d'esperienza.  Appare  evidente  allora  come  il  nostro  comportamento  a  livello 

macroscopico, sia formato dall’interagire di precise sequenze d'input sensoriali, che si 

relazionano tra loro. 

Nel  precedente  capitolo  abbiamo  mostrato  come  questo  relazionarsi  sia  non 

computabile. Questo vuol dire che tentare di comprendere il nostro comportamento come 

una  serie  ricorsivamente  ordinata  di  elementi  strutturali  e  di  regole  ricorsive  che  li 

relazionano è scorretto. 

La PNL mette ben in mostra quest'aspetto sviluppando la nozione d'inconscio. Il 

nostro comportamento è solo  la punta di un iceberg della nostra attività; è vero che 

utilizziamo  un  determinato  linguaggio,  ma  questo  è  solo  una  forma  sintetica  della 

nostra attività mentale. 

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Infatti, sebbene la PNL consideri molte varianti metodologiche per la soluzione 

dei  problemi  dei  pazienti  da  parte  degli  psicoterapeuti,  non  si  può  negare  che  una 

parte essenziale viene svolta dall'ipnosi. 

 In questo caso l'ipnosi è uno strumento che permette un contatto con la parte 

incosciente del soggetto e con la sua struttura profonda (Erickson M., Rossi E., Rossi 

S. 1979, Bandler 1981). 

Come abbiamo visto una strategia, è una serie di 4­ple che si sovrappongono, 

nella quale, in ciascuno stadio, agisce su ogni 4­pla un operatore attraverso i segnali 

d'accesso e gli  schemi sinestesici,  conferendo ad un dato  sistema  rappresentazionale 

più significatività comportamentale che agli altri.

Gli esiti di questo processo determinano quale sarà la 4­pla successiva che verrà 

innescata  o  ancorata,  quale  la  sequenza  delle  4­ple  e,  in  definitiva,  quale  risultato 

comportamentale ne conseguirà. Possiamo illustrare tale processo così:

Fig.5.9

La  precisione  con  la  quale,  passando  per  i  vari  stadi  di  una  strategia, 

sintonizziamo  o  calibriamo  i  nostri  sistemi  neurali  e  fisiologici  per  accogliere  le 

informazioni provenienti da un particolare sistema rappresentazionale determinerà la 

misura della sovrapposizione o interferenza degli altri sistemi rappresentazionali. 

Certo,  talvolta  la  sovrapposizione  delle  informazioni  provenienti  da  sistemi 

rappresentazionali  diversi  può  essere  utile  e  importante,  come  nei  test  pluri­

rappresentazionali. 

Molte  persone  sovrappongono  i  segnali  d'accesso  per  agevolare  la 

combinazione  sinestesica  di  due  sistemi  rappresentazionali  o  il  processo  sinestesico 

del  passaggio  dall'uno  all'altro  sistema.  Può  accadere  però  che  questo  genere  di 

sovrapposizione porti ad ostacolare o  trascurare  informazioni  importanti provenienti 

da un particolare sistema rappresentazionale.

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Non  è  affatto  necessario  avere  coscienza  di  tutte  le  fasi  di  una  particolare 

strategia perché esse entrino in azione. Avviene, anzi, il contrario: quanto più abituale 

e inconsapevole diventa un comportamento, tanto più sicuro è il fatto che lo abbiamo 

incorporato completamente. 

Nella  programmazione neurolinguistica  la  coscienza è  considerata  il  semplice 

risultato  dell'intensità  relativa  all'attività  che  ha  luogo  nei  nostri  sistemi 

rappresentazionali.  Più  che  un'entità  in  se  stessa  (come  altri  la  concepiscono),  è 

un'indicazione  della  misura  in  cui  viene  usato  un  particolare  sistema 

rappresentazionale. 

La PNL la tratta come una proprietà emergente dell'attività del sistema neurale, 

non come un iniziatore di tale attività. Dire che la nostra coscienza o consapevolezza 

ha  controllato  o  influenzato  il  nostro  comportamento  sarebbe  come  dire  che  le 

proprietà di “umidità” o “formazione del ghiaccio” hanno controllato o influenzato le 

combinazioni delle molecole di HO da cui le proprietà stesse derivano. 

La coscienza è piuttosto un effetto collaterale, l'indicazione di parte di ciò che sta 

avvenendo durante il processo rappresentazionale. 

Abbiamo  messo  in  rilievo  che  la  significatività  comportamentale  di  una  data 

rappresentazione  sarà  stabilita  dalla  sua  intensità  rispetto  a  quella  di  tutte  le  altre 

rappresentazioni in atto. Sosteniamo che una rappresentazione diventa cosciente solo 

se  raggiunge  un  certo  livello  d'intensità.  Tuttavia  questo  ci  dice  ben  poco  sulla  sua 

significatività comportamentale. 

Fig.5.10

Il diagramma rappresenta delle ipotetiche fluttuazioni d'intensità nel tempo dei 

tre  sistemi  rappresentazionali  fondamentali.  A  provocare  tali  fluttuazioni 

contribuiscono i segnali d'accesso e i collegamenti neurali sinestesici. 

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La linea centrale indica la soglia della coscienza. Le rappresentazioni diventano 

coscienti  solo  se  la  loro  intensità  supera  quel  valore.  Il  diagramma  indica  che  nel 

punto  1  il  sistema  rappresentazionale  auditivo  ha  il  più  elevato  valore  relativo  di 

segnale ed è cosciente. 

Nel  punto  2  l'intensità  relativa  più  elevata  è  quella  del  sistema 

rappresentazionale cenestesico. Nel punto 4 il sistema rappresentazionale auditivo ha 

di  nuovo  la  massima  intensità  relativa  e  quindi  la  maggiore  significatività 

comportamentale, ma non ha raggiunto il livello della coscienza. 

Analogamente, nel punto 5 il sistema cenestesico assume il controllo principale 

ma resta al di sotto del livello cosciente. 

Nel punto 6 sono nella coscienza i sistemi visivo e auditivo, ma poiché il primo 

ha un segnale leggermente più elevato sarà il più valutato in questa fase. Nel punto 7 

riprende il controllo principale il sistema visivo, che resta però fuori della coscienza. 

Nel punto 8 i sistemi rappresentazionali visivo e cenestesico si sovrappongono 

fuori della coscienza, forse per l'esecuzione di un test pluri­rappresentazionale.

In sostanza il diagramma riporta parte di una strategia, che abbiamo suddiviso 

o articolato in otto fasi:

Fig.5.11

Quattro fasi sono tuttavia al di sotto della coscienza: la 4, la 5, LA 7 E LA 8. Ma 

ciò  nulla  toglie  alla  significatività  comportamentale  di  queste  fasi.  E'  importante 

sottolineare  che  la  significatività  comportamentale  è  determinata  dall'intensità  relativa 

delle rappresentazioni e di come queste emergono nelle interazioni con il sistema nel suo 

complesso. 

Una  rappresentazione  subliminale  di  bassa  intensità  in  un  certo  istante 

contribuirà  pur  sempre  a  stabilire  le  condizioni  generali  del  sistema  e  ci  potrà 

provocare  alterazioni,  che  nell'istante  successivo  la  faranno  salire  o  faranno  salire 

qualche altro sistema rappresentazionale alla più elevata intensità relativa. 

Se  i  valori  di  segnale  sono  sufficientemente  ravvicinati,  si  può  avere  una 

risposta  multipla.  Ciò  accadrebbe  nel  caso  di  chi  dicesse:  “Sì”,  ma  al  tempo  stesso 

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scuotesse  inconsciamente  la  testa  in  un:  “No”.  Due  strategie  possono  avere  luogo 

simultaneamente, provocando, se nessuna di esse ha abbastanza forza, risposte scisse 

e incongruenze di comportamento. 

E'  qui  che  assume  importanza  la  calibrazione.  Siccome  la  significatività 

comportamentale è funzione di valori di intensità, può anche avvenire che l'attività di 

un sistema rappresentazionale, pur raggiungendo la coscienza, resti relativamente non 

significativa. E' il caso illustrato da questo diagramma:

Fig.5.12

Esso  ci  mostra  che  il  sistema  rappresentazionale  cenestesico,  cioè  il  senso 

legato all'equilibrio fisico e alla percezione corporea in generale, pur avendo raggiunto 

un  livello  d'intensità  sufficientemente  elevato  per  entrare  nella  coscienza,  si  è 

stabilizzato con variazioni minime rispetto agli altri sistemi rappresentazionali. 

Poiché  in questo caso i segnali dei sistemi rappresentazionali visivo e auditivo 

presentano variazioni di maggiore ampiezza, sia reciprocamente sia nei confronti del 

sistema cenestesico, sarà la loro attività ad avere il maggiore effetto comportamentale 

relativo. 

L'individuo che si trovi in questo stato sarà pienamente cosciente delle proprie 

sensazioni, ma i suoi principali processi interni avranno luogo per la maggior parte al 

di sotto del livello della consapevolezza. 

Le  strategie  e  le  rappresentazioni  che  avvengono  al  di  sotto  di  tale  livello 

costituiscono  quello  che  spesso  viene  definito  l'inconscio.  Ciascun  essere  umano  è 

sottoposto continuamente a una quantità enorme di informazioni,  in parte dovuta al 

nostro contatto con le parti del mondo esterno che riusciamo a percepire con i nostri 

canali sensoriali. 

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La mole delle  informazioni  forniteci dalla nostra  esperienza  in atto  supera di 

gran lunga la nostra capacità di percepire la regolarità o le costanti insite nella nostra 

esperienza e di elaborare dentro di noi programmi per far fronte al mondo a livello di 

comportamento inconscio. 

Per  esempio,  la  capacità  di  leggere  e  capire  proprio  questa  frase  è  un 

programma che in una certa epoca della nostra vita non riuscivamo a eseguire. 

Abbiamo  dovuto  imparare  a  riconoscere  dapprima  le  lettere,  poi  le  parole  e 

infine  i  sintagmi  e  le  frasi.  Ciascuna  di  queste  fasi  comportava  appropriati  schemi 

specifici  di  scansione  oculare.  Imparare  ad  associare  un  certo  input  visivo  con 

l'insieme dei significati da esso rappresentati è stato un compito relativamente lungo e 

arduo. 

La capacità di  leggere  rapidamente e di  cogliere  il  senso del  testo dipende  in 

gran  parte  dalla  capacità  di  porre  inconsciamente  in  azione  questi  schemi  di  basso 

livello della scansione oculare e del riconoscimento delle lettere. 

La maggior parte della nostra esistenza quotidiana è  occupata dalla messa  in 

atto  di  schemi  di  comportamento  inconscio  estremamente  complessi.  La  nostra 

capacità di impegnarci nelle attività che ciascuno di noi trova interessanti e piacevoli 

andrebbe in gran parte perduta se non fossimo in grado di programmarci per attuare 

un'esecuzione,  a  livello  comportamentale  inconscio  di  schemi  di  comportamento 

complessi (pensiamo all'ingombro enorme della nostra esperienza se fosse necessario, 

per esempio, mantenere consciamente il ritmo e l'ampiezza della respirazione, il tono 

muscolare, il livello di zucchero nel sangue…).

Il  processo  di  creazione  dei  programmi  che  ci  sono  utili,  cioè  il  processo 

d'apprendimento,  è  un  processo  di  cambiamento  in  corso,  e  lo  definiamo 

modellamento.  Esso  avviene  ad  un  livello  di  comportamento  tanto  cosciente  quanto 

inconscio. 

Il  processo  di  apprendimento  con  cui  capiamo  e  parliamo  la  nostra 

madrelingua  è  un  esempio  di  processo  di  modellamento  inconscio.  Il  processo  di 

apprendimento attraverso  il quale  impariamo a  leggere e a scrivere è un esempio di 

modellamento cosciente. 

Osserviamo  tuttavia  che anche nel  caso del modellamento  cosciente molto di 

ciò che si impara riguarda la disposizione sequenziale e l'organizzazione di schemi di 

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comportamento di  livello  inferiore di cui già disponiamo sul piano comportamentale 

inconscio. 

Per  esempio,  ai  bambini  che  imparano  l'ortografia  non  si  insegna 

esplicitamente a formare immagini mentali delle parole che stanno imparando, cioè a 

impiegare le loro strategie di visualizzazione, eppure gli scolari che sanno compitare 

meglio usano inconsciamente questa facoltà. 

L'atleta  che  si allena  sui 100 metri  sta  imparando a disporre  in  sequenza e a 

utilizzare  schemi  di  movimento  muscolare  che  già  possiede  a  livello  di 

comportamento inconscio. La sua capacità di correre i 100 metri alla massima velocità 

dipenderà  in gran parte dalla sua capacità di rendere inconsci gli schemi con i quali 

dispone  in  sequenza  proprio  gli  schemi  del  comportamento  inconscio  che  già 

possiede.

La  coscienza  è  un  fenomeno  limitato.  Specificamente,  come  uomini,  siamo 

limitati  a  rappresentarci  nella  coscienza  un  numero  finito  ed  esiguo  d'elementi 

d'informazione.  Nel  suo  ormai  classico  articolo  "Il  magico  numero  sette  più  o  meno 

due", Miller (1956), traccia un accurato profilo dei limiti della coscienza. In sostanza 

la  sua  ricerca  lo  porta  alla  conclusione  che  noi  siamo  in  grado  di  ospitare  nella 

coscienza 7 più o meno 2 pezzi (chunk) di informazione alla volta. 

Una delle  implicazioni  di maggiore  interesse dell'articolo è  che  le  dimensioni 

del pezzo sono variabili. In altre parole, il  limite del 7 più o meno 2 non riguarda il 

numero dei bit di informazione, ma quello dei pezzi. 

Pertanto,  con  l'oculata  selezione  del  codice  con  cui  organizziamo  la  nostra 

esperienza  cosciente,  abbiamo  un'ampia  latitudine  entro  la  quale  aumentare  la 

quantità  dei  bit  d'informazione  che  ci  possiamo  rappresentare  consciamente.  Molto 

abilmente Miller resta nel vago quando esamina che cos'è un pezzo d'informazione. 

Se assimiliamo il termine pezzo alla nozione di uno schema di comportamento 

che non abbia ancora raggiunto lo status d'inconscio, diventa utile l'interazione tra la 

funzione  della  coscienza  nel  processo  d'apprendimento  e  la  scomposizione  in  pezzi 

(chunking). 

Quando  impariamo  a  identificare  il  modellamento  (patterning)  che  avviene 

nella nostra esperienza e a rispondervi con sistematicità, riusciamo a rendere inconsce 

parti della nostra esperienza che prima dovevano trattare al livello della coscienza.

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 Un pezzo presente nella coscienza è un modellamento o regolarità che è nella 

nostra esperienza e che non siamo ancora riusciti a rendere inconscio. Pertanto, agli 

inizi  dell'apprendimento  di  un  dato  compito,  le  dimensioni  del  pezzo  saranno 

piuttosto esigue, in quanto abbracceranno nella nostra esperienza un modellamento o 

regolarità relativamente corto. 

Quando il pezzo di queste dimensioni consegue lo status di inconscio, la nostra 

coscienza è libera di applicarsi a schemi di più ampio livello, che sono costituiti dalla 

disposizione sequenziale e dall'organizzazione dei TOTE (Test­Operazione­Test­Uscita) 

(Miller,  Galanter  e  Pibram  1960),  dai  quali  sono  composti,  o  di  applicarsi  al 

modellamento in altri sistemi rappresentazionali o settori d'esperienza.

Facciamo un esempio tratto dalla nostra esperienza personale. Quanti di noi a 

suo  tempo  abbiano  imparato  ad  andare  in  bicicletta  ricorderanno  come  siano  stati 

complessi gli  inizi. Trovatici per  la prima volta  in  sella,  siamo  stati  quasi  sopraffatti 

dalla quantità delle cose a cui badare: tenersi in equilibrio, spingere i pedali su e giù, 

girare il manubrio tenendo d'occhio la direzione era più di quanto non riuscissimo a 

padroneggiare e forse nostro padre o un amico ci reggeva la bicicletta per il sellino in 

modo da permetterci di badare soltanto a pedalare e a sterzare. 

Se poi eravamo  tra  i  fortunati  che erano già  in possesso di un programma di 

“pedalamento”  inconscio,  dovuto  al  precedente  possesso di  un  triciclo,  il  compito  si 

riduceva a imparare a coordinare la sterzata e la pedalata con l’equilibrio. 

Una volta inserite nel nostro comportamento, queste capacità di manifestavano 

automaticamente,  tanto  che,  senza  neppure  accorgerci  che  nostro  padre  ci  lasciava 

andare  limitandosi  a  correrci dietro, proseguivamo  imparando a  coordinare  l'atto di 

pedalare e di sterzare con quello di tenerci in equilibrio. 

Trascorso un certo tempo, ci eravamo a tal punto programmati per azionare la 

bicicletta da escludere dalla coscienza tutti gli aspetti di questo compito, restando così 

liberi di goderci il paesaggio o conversare con un compagno di viaggio. 

Anche se abbiamo passato moltissimo  tempo senza  inforcare una bicicletta,  il 

programma  rimane,  e  se  risaliamo  in  sella  ricomincerà  a  funzionare,  e  saremo  in 

grado di  riprendere  la  corsa  senza pensare neppure per  un  istante  a  tutte  le  fasi di 

questo complesso processo. 

Esse sono state suddivise in vari pezzi e disposte in sequenza a livello inconscio 

lasciandoci liberi di godere della passeggiata. Se fossero consce dovremmo pensare in 

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ogni  istante  a  pedalare,  sterzare,  mantenerci  in  equilibrio  e  la  nostra  coscienza 

n'avrebbe un tale ingombro da farci persino cadere o sbattere contro qualcosa. 

Vi  sono  individui  che  nelle  loro  strategie  possiedono  test  che  li  obbligano  ad 

assicurarsi  che  ogni  rappresentazione  presente  nei  vari  stadi  delle  strategie  stesse, 

raggiunga il valore di segnale necessario per l'accesso alla coscienza.

  In  qualche  caso  l'esigenza di  segnali  così  elevati  può  essere  appropriata, ma 

essa tende troppo spesso a rallentare il processo perché l'individuo deve continuare ad 

operare per aumentare il valore di segnale. 

Altri invece si distraggono consciamente per essere sicuri che la strategia abbia 

luogo  a  livello  inconscio.  Citiamo  l'esempio  della  strategia  messa  in  azione  da  un 

provetto matematico, il quale dava prova di possedere l'insolita capacità di sommare 

regolarmente  e  senza  errori  lunghissime  colonne  di  numeri  (si  veda  anche  Lurija 

1979).

Richiesto  di  spiegare  come potesse  avvenire  una  prodezza  del  genere  rispose 

che, quando gli veniva presentata una serie di numeri,  lui non faceva assolutamente 

nulla.  Si  limitava  a  farsi  l'immagine  mentale  di  una  lavagna  e  a  guardarla,  sino  a 

quando su di essa non compariva una mano per scrivere  la  risposta che egli doveva 

semplicemente leggere. 

Con  questo  non  vogliamo  dire  che  nel  processo  d'apprendimento  l'attività 

interna cosciente non abbia  importanza. Nella maggior parte dei casi  l'alto valore di 

segnale di un particolare sistema rappresentazionale è  importantissimo per fissare la 

fase iniziale della strategia. 

Ma  una  volta  fissato  lo  schema,  la  strategia  si  snellisce  se  il  segnale  diviene 

abituale.  Quanto  si  è  imparato  ad  andare  in  bicicletta,  per  esempio,  continuare  a 

occuparsi  consciamente  di  mantenere  l'equilibrio,  pedalare,  sterzare,  ecc.  è  più 

d'impaccio che d'aiuto. 

Riassumiamo ora  ciò  che  abbiamo esposto  in  questo  capitolo.  Innanzitutto  la 

trattazione  del  problema  uomo  come  sistema  aperto  sottolinea  l'importanza  della 

comunicazione;  questa  avviene  attraverso  la  creazione  di  modelli  e  metamodelli, 

definiti come l'organizzazione dei dati sensoriali percepiti dall'essere umano. 

La creazione di linguaggi, permette all'individuo di comunicare con se stesso e 

con i suoi simili, attraverso l'uso e la creazione di nuovi modelli, così da utilizzare le 

proprie risorse in maniera costruttiva. 

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Un  modello  è  una  metafora,  e  ha,  rispetto  alla  realtà,  lo  stesso  rapporto  che 

esiste  tra  la  mappa  e  il  territorio,  serve  cioè  a  muoversi  in  una  realtà  altrimenti 

difficilmente  definibile  e  gestibile  (Lankton  1980).  Il  linguaggio  come  metamodello 

tiene in considerazione non tanto l'esperienza vissuta, quanto la semantica della sua 

organizzazione attraverso rapporti fra le varie esperienze. 

Questo  avviene  perché,  data  la  mole  dei  dati  sensoriali  e  il  loro  continuo 

ingresso  nel  sistema  uomo,  hanno  bisogno  di  una  loro  interpretazione  per  essere 

utilizzati,  e  come  abbiamo  visto  l'interpretazione  è  formata  dall'insieme  di  4­ple 

percepite. 

Il legame fra la struttura profonda e quella superficiale è dato da una prospettiva 

dimensionale.  Infatti,  se  le  relazioni  fra  i  dati  sensoriali  sono  dimensioni  non 

computabili,  qualsiasi  altro  rapporto  successivo  fra  i  modelli  e  i  metamodelli,  come 

formati da dati sensoriali, è sempre di tipo non computabile.

Come abbiamo visto nel precedente capitolo esistono delle matematiche (come 

quella  fuzzy,  ma  non  solo),  che  trattano  i  concetti  come  insiemi  aperti  che  si 

sviluppano su più dimensioni permettendo così di applicare quelle operazioni logiche 

proprie  di  un  linguaggio  naturale,  come  la  coesistenza  di  più  concetti  nello  stesso 

termine e il passaggio da un concetto all'altro senza contraddizioni, ma anzi con una 

certa fluidità del sistema. 

Non conta che la nostra realtà sia per la maggior parte inconscia, e che questi 

processi  avvengano  oltre  la  soglia  della  nostra  coscienza,  così  da  non  essere 

controllabili;  quello  che  è  importante,  come  sottolinea  Lakoff,  è  che  sia  possibile 

indagare il  linguaggio in questa direzione, quella cioè che esista un possibile legame 

tra le percezioni sensoriali e i concetti usati nel linguaggio. 

Vedremo allora nel prossimo capitolo di concludere questo nostro viaggio nella 

mente dell'uomo, riassumendo le nostre conclusioni nel quadro generale della teoria 

concettuale delle metafore.

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Capitolo 6Lakoff, una visione d'insieme

Solo lo sciocco guarda il dito che indica la luna.Proverbio cinese

Nel  primo  capitolo  avevamo  esposto  la  tesi  di  Lakoff  riguardo  la  sua  visione 

della “mente incarnata” e la teoria “concettuale delle metafore”. Le tematiche sviluppate 

riguardavano  la  possibilità  di  riprodurre  con  strumenti  informatici  la  complessità  di 

un linguaggio metaforico, seguendo il ragionamento che l'informazione elaborata dal 

cervello attraversa il sistema nervoso e quindi simulando questo con reti informatiche 

è possibile ricreare il passaggio tra la sensazione corporea e il concetto (come hanno 

mostrato i modelli di Regier, Bailey e Narayanan). 

Questa  prova  della  “fisicità”  della  mente,  in  quanto  modello  di  rete  neurale, 

subisce  però  le  stesse  limitazioni  a  cui  è  soggetto  questo  tipo  di  software  come 

abbiamo  mostrato  nel  secondo  capitolo;  allora  abbiamo  cercato  di  superare  queste 

limitazioni con un nuovo punto di vista (coerente con la teoria di Lakoff e Grady) in 

cui, dopo aver descritto  il  funzionamento del neurone e di conseguenza del  sistema 

nervoso,  abbiamo  concentrato  la  nostra  attenzione  sui  concetti  di  computabilità 

effettiva e di sistemi aperti.

Appurato che la nostra rete nervosa funziona in maniera pluri­dimensionale, si 

è  tenuto  conto  delle  caratteristiche  del  linguaggio  metaforico,  cercando  una 

matematica  adatta  alla  sua  descrizione  (la  logica  fuzzy)  e  un  modello  fisico  in  cui 

fosse applicata (la PNL). 

Riprenderemo ora le tre principali intuizioni di Lakoff e Johnson in Philosophy 

in  the  Flesh  e  le  arricchiremo  alla  luce  delle  considerazioni  esposte  nei  capitoli 

precedenti.

6.1 La mente è interamente fisica

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La mente è  interamente fisica nel senso che il passaggio dell'informazione dal 

mondo esterno attraverso il sistema nervoso è da intendersi come l'insieme di regole 

fisiche e biologiche con cui la nostra rete neurale interagisce con se stessa e il mondo 

esterno. 

Fisiologicamente  è  riduttivo  pensare  che  la  “mente”  sia  formata  solo  dal 

sistema  nervoso  centrale  (il  cervello),  perché  questa  è  formata  anche  dal  sistema 

nervoso periferico che si estende per tutto il corpo.

Ci  sono molte  prove   del  forte  legame  tra  cervello  e  corpo ne  citerò  una per 

tutte; Hamer (Hamer 1998) ha dimostrato che non esiste alcuna prova dell'esistenza 

di sostanze cancerogene in quanto non è possibile provocare tumori su organi le cui 

connessioni  nervose  con  il  cervello  sono  state  tagliate  (organi  trapiantati)  e  che  le 

sostanze  inoculate  agli  animali  per  indurre  il  cancro non  inducono nulla  se  non  c'è 

l'intervento del cervello. 

Esse possono distruggere, avvelenare ma non  indurre  il  tumore. Le radiazioni 

distruggono le cellule ma non provocano i tumori.

Fig.6.1

Quest'interazione  fra  sistema  nervoso  e  l’ambiente  in  cui  agisce  porta  a  un 

cambiamento  di  prospettiva  secondo  Lakoff  &  C:  una  prospettiva  “fisica”  in  cui  il 

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soggetto umano è ciò che il suo corpo sperimenta del mondo a qualsiasi livello, sia nel 

compiere un'azione sia nel pensare un'idea. 

Il  termine  “oggettivo”  quando  ci  riferiamo  alle  funzioni  inerenti  il  sistema 

nervoso  (linguaggio,  pensiero,  apprendimento,  …)  è  inadatto  e  sostituibile  secondo 

Lakoff con “fisico”, perché ogni uomo nella sua esperienza è solo e irripetibile, sia per 

gli input che riceve dal mondo esterno sia per come li organizza. 

Dal punto di vista dei singoli neuroni la percezione sensoriale di input esterni è 

soggettiva,  in  quanto  pertinente  trasporto  dell’informazione  propria  di  ogni  singolo 

individuo;  è  inoltre  legata  all'interazione  dell’informazione  con  se  stessa,  con  il 

sistema  nervoso  (il  flipper  neuronale)  e  con  l’ambiente  attraverso  l'esperienza  e  il 

tempo (§ 1.4 esempio percettivo della banana). 

Fig.6.2

Così  anche  la  percezione  delle  funzioni  superiori  del  sistema  nervoso  è  “fisica”, 

perché  formata  da  “sommazioni”  d'informazioni.  Ciò  non  toglie  che  tutti  gli  esseri 

umani, utilizzando lo stesso apparato percettivo, abbiano le medesime percezioni, ma 

consente di dire che l'organizzazione interna al sistema nervoso dell'informazione ha 

la possibilità di essere gestita diversamente da individuo ad individuo, aumentando la 

possibilità di creare nuovi modelli. 

Questo passaggio da oggettivo a fisico è secondo Lakoff da intendere come un 

salto di qualità nella visione filosofica dell'uomo; la mente è interamente fisica, la sua 

struttura è comune a tutti gli esseri con lo stesso sistema nervoso, ed è comune il suo 

funzionamento, ma non è comune la sequenza di input che vengono inseriti e la loro 

organizzazione. 

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Essendo i concetti derivati dalle percezioni fisiche e formati attraverso strutture 

neurali,  anche  il  linguaggio  e  i  concetti  in  esso  usati  vengono  creati  e  influenzati 

dall'esperienza soggettiva. 

Cerchiamo  di  focalizzare  l'attenzione  su  quest'aspetto,  quando  parliamo  con 

un'altra  persona  noi  utilizziamo  un  linguaggio  formale  che  contiene  una  serie  di 

concetti  e  di  metafore  il  cui  significati  profondo  non  è  condiviso  dall'ascoltatore  e 

difficilmente  può  esserlo  anche  se  quest'ascoltatore  ha  convissuto  con  noi  la  stessa 

esperienza,  perché  il  suo  modo  di  viverla  cioè  di  percepirla  sensorialmente  e  di 

“sommare” le percezioni tra loro è diverso da persona a persona.

Lakoff  sottolinea  come  la  rete  neurale  “costruisca”  o  faccia  “emergere”  dalle 

percezioni  che  riceve  dall'ambiente  una  struttura  di  relazioni,  una  mappa  per  il 

territorio percettivo. Questa mappa è al  tempo stesso neurale e semantica, nel senso 

che,  come  mostrato  nel  §  1.6,  si  formano  quelle  scene  primarie  che  creeranno  le 

metafore primitive, e queste creeranno a loro volta metafore d'ordine superiore. 

Contemporaneamente  abbiamo  la  formazione  di  modelli  in  quanto 

l'informazione è trasportata dalle medesime strutture nervose; questo significa che la 

differenza  fra  una  metafora  per  Lakoff  e  un  modello  della  PNL  consiste  solo 

nell'ambito in cui le utilizziamo, sia questo il linguaggio o un ambito cognitivo. 

Un esempio di quanto mostrato applicato alle intelligenze artificiali è contenuto 

nell'ultimo  libro di Hofstadter (1995)  in cui si affrontano  i  temi dei concetti  fluidi e 

delle analogie creative, attraverso la creazione di sistemi con una struttura linguistica 

profonda e una superficiale, sviluppato al CNR di Trento.

Il  COPYCAT  è  un  programma  progettato  per  essere  in  grado  di  scoprire 

analogie  penetranti  in  modo  realistico,  dal  punto  di  vista  psicologico.  La  sua 

architettura è emergente nel senso che il suo comportamento emerge da una miriade 

di  piccoli  atti  computazionale  attraverso  la  variazione delle  attivazioni  dei  nodi  e  a 

loro  volta  la  variazione  di  stimolazione  ai  nodi  vicini,  in  questo  modo  la  rete  si 

comporta  in  maniera  attinente  alla  situazione,  in  misura  maggiore  delle  reti  PDP 

classiche.

Anche se questo modello rimane ancorato ad una concezione connessionistica 

della  rete,  si evidenzia come un  funzionamento ad alto  livello possa essere derivato 

dall'interagire di parti tra loro, così similmente dovrebbe accadere nel nostro sistema 

nervoso; l'informazione viene organizzata in modelli che non sono rigidi e controllati 

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da sovra programmi, ma fluidi e derivati direttamente dalla struttura che li registra e 

li contiene. 

L'informazione, così  inserita nel sistema, è paragonabile ad un'onda sul mare, 

che  si  somma  alle  altre  onde  del  mare  con  continuità,  formando  il  sistema  mare. 

Quando  comunichiamo  ognuno  di  noi  ha  delle  “onde”  ed  un  “mare”  proprio  pur 

tuttavia avendo una struttura neurale comune.

Fig.6.3

Ogni persona si costruisce una mappa del territorio diversa da quella di un'altra 

persona  a  seconda  dell'organizzazione  delle  sue  percezioni  (la  sua  esperienza)  e  di 

come queste sono state organizzate in metafore (a seconda dell'importanza che gli è 

stata  data  nella  situazione  vissuta);  così  ad  esempio  osservando  il  linguaggio 

matematico possiamo dire che tutti siamo portati a recepire i numeri e le operazioni 

attraverso un'esperienza simile, tuttavia accade che alcune persone siano portate più 

di altre. 

Secondo  una  spiegazione  coerente  con  la  PNL  e  il  linguaggio  metaforico,  la 

ricezione dei dati, cioè delle leggi della matematica, crea modelli (o metafore) alcuni 

dei  quali  sono  migliori  di  altri.  Se  ad  esempio  uno  studente  cerca  di  risolvere  un 

calcolo  utilizzando  un  modello  non  adeguato,  come  quello  usato  per  compiere  uno 

sforzo fisico, cercando di sentire i numeri dentro di lui, compierà uno sforzo maggiore 

rispetto a quello che li immaginerà visivamente come scritti su una lavagna (§ 5.6).

Così  può  accadere  che  ad  un  certo  punto  della  storia  della  matematica,  pur 

avendo tutti lo stesso background, ci sarà un modello adatto per risolvere l'equazione 

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di Fermat e questo lo avrà un matematico che avrà organizzato i suoi dati in maniera 

innovativa. 

Ricapitolando:  secondo  Lakoff  &  C.  l'uomo  utilizza  la  struttura  neurale  per 

organizzare e gestire i dati in entrata dall'ambiente in cui s'inserisce, e lo fa attraverso la 

costruzione di  schemi, modelli, metafore  che poi utilizza per muoversi nel mondo e per 

gestire  i  nuovi  dati  che   implementano  così  questi  schemi.  Inoltre  le  metafore  sono 

formate dalle stesse strutture senso­motorie del sistema nervoso, ovvero si utilizzano 

le stesse strutture per creare sia azioni sia concetti.

6.2 Il pensiero è in gran parte inconscio

Il  pensiero  è  in  gran  parte  inconscio.  Un  altro  aspetto  sviluppato  da  Lakoff 

riguarda  la non  indagabilità dei nostri processi neurali.  Infatti,  i  vari  stadi necessari 

per  la  creazione  delle  metafore  non  sono  direttamente  accessibili  nell'uomo;  se 

vogliamo andare a ritroso fino ad arrivare ad una sua forma primitiva e continuando, 

se volessimo capire quali sono i dati che hanno fatto emergere questa forma primitiva, 

ciò risulterebbe impossibile. 

Ovvero  il  nostro  sistema  nervoso  fa  emergere  delle  mappe  per  il  territorio 

d'input che riceve, ma questa “emersione”  è data da un'interazione  fra piccoli  sotto­

sistemi (gruppi di neuroni) che a loro volta ne contengono degli altri e degli altri fino 

ad ogni singolo neurone. 

Ma  come  abbiamo  visto  nel  capitolo  quarto  la  logica  del  neurone  non  è 

ricorsivamente enumerabile, quindi non lo è l’intero sistema.

La  nozione  di  inconscio  diviene  allora  una  “caratteristica  di  sistema”,  resa 

possibile  dalla  grande  capacità  di  conduzione  dell'informazione del  neurone  e dalla 

struttura  dell'intero  sistema  nervoso.  Possiamo  dire  allora  che  in  un  sistema 

pluridimensionale  siffatto  si  dà  maggior  risalto  al  “risultato”  e  non  al  processo  di 

“creazione del  risultato”. Tale processo di  “creazione”  rimane di  fatto sconosciuto al 

sistema stesso a differenza dei processi coscienti dove l'intero processo è computabile 

e algoritmico.

La  mole  di  lavoro  che  svolge  la  parte  inconscia  è  notevolmente  superiore  a 

quella  cosciente  in  quanto  implica  oltre  alle  funzioni  di  mantenimento  vitale  (dalla 

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frequenza del battito cardiaco al rilascio degli ormoni della crescita, …), anche quei 

compiti che, svolti con continuità per un certo tempo, possono passare la soglia della 

coscienza ed essere svolti inconsciamente. 

Similmente, in quanto relativo a tale sistema, il linguaggio metaforico e tutto il 

pensiero in generale è in gran parte inconscio, e non possiamo averne cognizione fino 

a quando non si manifesta coscientemente.

Sembra evidente allora che la rete neuronale funzioni in maniera indipendente 

anche nelle sue parti; non solo l'“incoscienza” è una caratteristica del sistema, ma la 

rete  è  formata  da  parti  così  indipendenti  tra  loro  che  anche  un  trauma  o  una 

distruzione  di  parte  del  sistema  o  dei  suoi  singoli  componenti  non  influenza  entro 

determinati limiti la risposta cosciente (come mostrano gli studi su lesioni cerebrali di 

Damasio 1989). 

Un modello matematico di riferimento per tale sistema può essere quello della 

matematica  fuzzy, che aiuta a vedere  le percezioni e  i  concetti  come disposti su più 

livelli. Non è l'unica matematica dimensionale, ma l' ho citata perché la tradizione di 

ricerca sviluppatasi negli ultimi 20­30 anni in Giappone sulle intelligenze artificiali e 

non solo (Lakoff 1972) ha evidenziato che utilizzando sistemi misti di funzioni fuzzy e 

reti connessionistiche si origina un comportamento semantico della rete.

Ciò  equivale  a  trattare  i  concetti  come  strutture  logicamente  aperte  e  non 

chiuse,  come  insiemi  non  delimitabili  ma  infiniti.  In  un  concetto  aperto  possono 

essercene  infiniti  e  quindi  ad  esempio  possono  coesistere   nel  concetto  di  “sedia” 

infinite  sedie,  inoltre  posso  passare  da  una  “sedia”  al  “mobilio  di  una  casa”,  da 

“mobili” a “casa”…, o ancora più facilmente smettendo di pensare in maniera lineare, 

possiamo  passare  da  un  concetto  all'altro,  come  nel  quadro  d'Escher  (Fig.4.18)  si 

passa  da  un  piano  all'altro  cambiando  contemporaneamente  tutti  i  punti  di 

riferimento.

Cosa vuol dire questo? Abbiamo visto nel § 4.2 che la possibilità di  transitare 

da  un  dominio  all'altro  in  maniera  fluida  è  precluso  alle  forme  di  pensiero 

computabile, in quanto troppo limitate per compiere tali operazioni senza incorrere in 

contraddizione. 

Allora  la  parte  cosciente  del  nostro  cervello  sembra  comportarsi  come  se 

operasse  principalmente  in  maniera  computabile,  su  un  substrato  inconscio  fuzzy  o 

comunque in ambiente pluri­dimensionale. 

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Sappiamo  che  gli  input  in  entrata  vengono  recepiti  come  variazioni 

dell'informazione percepita, ovvero il flusso di input è continuo e noi notiamo solo le 

alterazioni che vengono registrate dai nostri sensi. 

Ma  la  struttura  che  registra  tutto  ciò  è  a  sua  volta  implementata  da  una 

continua  attività  cerebrale  (pensiero,  sogni,  linguaggio  interiore,  stati  emotivi, 

mantenimento delle funzioni vitali) di cui possiamo esserne coscienti solo attraverso 

le alterazioni dei normali stati mentali. 

Come ho mostrato nel § 5.6 la percezione dei mutamenti ha delle limitazioni, noi 

possiamo cioè percepire solo poche variazioni per volta, e ciò  fa si che  la maggior parte 

del  nostro  pensare  e  più  in  generale  del  nostro  vivere  sia  a  noi  precluso  sotto  forma 

cosciente, ma sia attivo sotto forma incosciente. 

6.3 I concetti astratti sono per la maggior parte metaforici 

I  concetti  astratti  sono  per  la  maggior  parte  metaforici  in  quanto  modelli 

cognitivi. Il nostro flusso di pensieri è la conseguenza della nostra attività nervosa, che 

si organizza per la maggior parte inconsciamente. 

Sappiamo però che questa utilizza delle mappe, delle metafore, e dei modelli, 

che ci permettono di gestire la serie d'input che continuamente riceviamo dal mondo 

esterno. 

Il nostro pensare segue quindi le caratteristiche del sistema nervoso e quindi la 

creazione  delle  metafore  è  parte  di  questo  sistema.  Una  metafora  è  da  considerarsi 

come una forma aperta e non chiusa e definita; quest'apertura deriva dalla sua intima 

natura nervosa, in cui l'informazione viene tradotta continuamente ad ogni passaggio 

da un neurone all'altro e su più dimensioni.

Abbiamo  visto  che  il  transito  dell'informazione  avviene  attraverso  domini 

aperti, e abbiamo mostrato come le metafore utilizzate siano derivate da componenti 

primitive,  che  si  combinano  tra  loro.  Il  concetto  di  metafora  di  Lakoff  e  Grady  può 

essere allora definito come un insieme di input che si “sommano” fra loro in maniera non 

computabile,  le  cui  componenti  sono  date  dagli  input  sensoriali,  e  la  loro  unione  crea 

“relazioni” fra sistemi aperti. 

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La natura di queste  relazioni è  lasciata volontariamente vaga  in quanto a noi 

preclusa  perché  è  lo  stesso  sistema  neurale  che  decide  quali  sono  le  modalità  di 

relazione dei concetti, sia perché sono operazioni inconsce e sia perché è la struttura 

stessa dei neuroni nella sua “fisicità” che relaziona i concetti. 

Quindi cercare di ricreare le metafore attraverso modelli connessionistici è un 

errore  di  impostazione  teorico,  nel  senso  che  se  si  vuole  ricreare  dei  collegamenti 

metaforici  primitivi  ciò  è  possibile  in  quanto  le  reti  possono  simulare  funzioni 

cerebrali  semplici;  ma  esistono  dei  limiti  strutturali  e  di  gestione  (§  2.3),  che  non 

permettono loro di simulare le funzioni elevate del cervello. 

I  modelli  di  Regier,  Narayanan  e  Bailey,  in  quanto  simulazioni  di  funzioni 

semplici, sono modelli attendibili, ma pensare che le metafore complesse, come quelle 

utilizzate nel linguaggio, possano essere formate dall'aggregazione di questi modelli o 

di simili è un errore d'impostazione.

L'aggregazione  di  scene  primarie  fino  alla  formazione  di  metafore  attraverso 

quelle primitive è possibile solo se utilizziamo delle simulazioni basate su un ambiente 

di  sistemi  aperti.  Questo  risulta  ancora  più  evidente  se  analizziamo  il  processo  di 

creazione delle metafore alla luce delle considerazioni della PNL. 

E' evidente,  infatti, che i primi mattoni dell'esperienza, sia per  la PNL che per 

Grady,  sono  formati  dalle  4­ple  e  dalle  metafore  primitive  ovvero  i  modelli. 

Riprendiamo allora lo schema di Grady (Fig.2.1):

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Fig.6.4

Il  flusso  di  percezioni  continue  che  immettiamo  nel  nostro  corpo,  viene 

strutturato  in  forme  dal  nostro  sistema  nervoso  attraverso  le  4­ple,  come  abbiamo 

visto nel capitolo precedente. Inoltre avevamo descritto le scene primarie come spazi 

pluridimensionali che definiscono il dominio di un termine o il campo in cui si muove un 

determinato elemento; vediamo che questo coincide con la definizione delle 4­ple che 

sono  pluridimensionali  perché  il  segnale  è  trasportato  attraverso  la  rete  neurale,  e 

definiscono  il  dominio  di  un  termine  perché  contengono  tutte  quelle  informazioni 

relative al determinato oggetto. 

In seguito  l'interazione fra  le scene primarie crea una strategia (insieme di 4­

ple) e successivamente dall'insieme di strategie (deconflation) si originano le metafore 

primitive ovvero i modelli. 

Analizziamo ora la metafora:

La vita è un viaggio

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Questa si pone come l'interazione fra più modelli, quello della vita e quello del 

viaggio e il  loro dominio aperto è dato dall'insieme di dati sensoriali percepiti che si 

“combinano” inconsciamente. A loro volta i nuovi dati creano un modello o recepiti da 

uno  già  esistente  s'inseriranno  in  un  insieme  di  modelli  ancora  più  vasto  (fino  ai 

modelli inerenti la vita e il viaggio) e potrà essere accessibile direttamente dai macro­

modelli (la metafora “la vita è un viaggio”). 

Il linguaggio metaforico è questo relazionarsi di metafore e di modelli tra loro, 

che permette  di  creare delle  inferenze,  in  cui  i  contenuti  delle  metafore  sono parte 

integrante del sistema e della relazione stessa; non ha senso in questo caso parlare di 

contenuto  di  una  metafora  in  quanto  è  la  stessa  struttura  neuronale  che  contiene 

l'informazione e che è al contempo dominio della metafora e definisce la relazione che 

questa ha con le altre metafore. 

Se  vogliamo  comprendere  appieno  il  linguaggio  metaforico  che  usa  il  nostro 

cervello,  sembra  riduttivo  pensare  alle  metafore  come  formate  da  una  forma  e  un 

contenuto relazionati in maniera ricorsiva tra loro, mentre queste sono relazioni non 

computabili fra sistemi aperti. 

Ovvero  la  metafora  è  formata  sì  dall'architettura  della  rete  che  elabora 

l'informazione  che  trasporta,  tuttavia  nell'istante  precedente  e  successivo  alla 

metafora, la rete era occupata in altri compiti o era inutilizzata.

L'informazione  sembra  allora  emergere  dallo  sfondo  (Jackendoff  R.  1983), 

essere  utilizzata  e  ritornarvi  successivamente;  una  metafora  come  intesa  da  Lakoff, 

dispone dell'informazione pari a quella del  sistema, mentre  in una metafora classica 

come relazione tra forma e contenuto, viene automaticamente definito il dominio. 

Per chiarire con un esempio informatico è come se il nostro cervello, risolvesse 

un  problema  costruendo  ogni  qualvolta  un  software  e  un  hardware  adatto  alla 

soluzione,  e  smantellasse  i  componenti  per  risolvere  il  problema  successivo, 

memorizzando solo la soluzione.

 

6.4 Una macchina di Turing Universale sovra dimensionale.

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Concludiamo con una riflessione generale sul  linguaggio metaforico. Abbiamo 

visto come  i  software attuali  siano  inadatti alla riproduzione delle reti neurali (Cap. 

4),  e  abbiamo  mostrato  una  possibilità  alternativa  per  implementare  la  capacità 

d'elaborazione dei computer così da poter simulare un linguaggio metaforico.  

Riprendiamo  ora  un  aspetto  tecnico  a  cui  avevamo  accennato  nel  §  4.5.  I 

computer si sono sviluppati seguendo le teorie matematiche di Turing, secondo cui la 

massima potenza computazionale è data da una macchina di Turing Universale. 

Le generazioni di computer che si sono succedute fino all'attuale quarta (quella 

dei  personal  computer),  hanno  fatto  passi  da  gigante  nella  ricerca  tecnologica 

(miniaturizzazione  dell'hardware  e  incremento  della  velocità  di  elaborazione) 

cercando  di  raggiungere  così  quelle  qualità  di  sistema  proprie  di  una  macchina  di 

Turing  Universale  come  il  nastro  infinito  su  cui  scrivere  e  il  tempo  infinito  di 

elaborazione. 

Ma sebbene più  veloci  e potenti degli  anni  '50  fa  la matematica  (il  software) 

che li governa ha ancora il limite posto da Turing. Una possibilità di superare questo 

limite  è  data  dall'utilizzo  di  matematiche  non­computabili  che  operano  su  più 

dimensioni relazionate fra loro. 

Tali  matematiche  equivalgono  ad  una  macchina  Universale  di  Turing  che  ne 

gestisce altre e può,  seguendo  il  suo programma, cancellare gli  input provenienti da 

atre macchine. 

Possiamo allora immaginare una siffatta rete formata da macchine di Turing; si 

noti  che  una  macchina  di  Turing  che  cancella  il  segnale  di  un'altra  macchina  compie 

un'operazione  computabile,  è  il  sistema  (come  prodotto  logico  fra  più  macchine)  che 

diventa non computabile.

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Fig.6.5

Abbiamo mostrato come nella matematica fuzzy si possano legare due concetti 

fra  loro,  due  insiemi  aperti,  attraverso  semplici  regole  geometriche;  similmente una 

macchina di Turing Universale è un sistema aperto  in quanto  infinito e  l'unione con 

altre macchine, come detto sopra, origina la non computabilità del sistema. 

Così  abbiamo  un  primo  esempio  di  simulazione  di  un  linguaggio  semantico 

attraverso  la  relazione  su  due  distinte  dimensioni  di  due  macchine  di  Turing 

Universali  (il  “bicchiere  mezzo  pieno”  e  il  “bicchiere  mezzo  vuoto”),  legate  da  una 

macchina di Turing Universale che opera in una sovra dimensione che ha la possibilità 

di  cancellare  i  risultati  dell'altre  macchine  e  questo  equivarrebbe  alla  potenza 

computazionale della frase il “bicchiere mezzo pieno e mezzo vuoto”. 

La  figura  4.9  mostra  quali  sono  i  punti  geometrici  significativi  e  quali  no, 

similmente  la  macchina  di  Turing  Universale  che  codifica  la  frase  completa  può 

cancellare  i  punti  che  non  sono  significativi,  mentre  una  sola  macchina  di  Turing 

Universale si bloccherebbe di fronte alla contraddizione.

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Fig.6.6

Se  questo  avviene  per  una  semplice  espressione,  pensiamo  allora  alla 

complessità  di  un  intero  linguaggio:  la  sua  potenza  computazionale  appare 

enormemente elevata. 

Quindi  se  superare  la  potenza  computazionale  teorica  di  una  macchina  di 

Turing  Universale  sembra  possibile,  allora  ci  si  prospetta  un  nuovo  limite  teorico, 

quello  formato  da  una  rete  di  macchine  di  Turing  universali  (e  quindi  da  sistemi 

aperti  con  infiniti  valori  di  verità)  che  si  relazionano  infinitamente  su  infinite 

dimensioni, entro tale limite opera il nostro cervello.

Una possibilità di descrizione di questo nuovo territorio non computazionale è 

dato dalla matematica reticolare, una versione più complessa della matematica fuzzy 

dove esiste solo una dimensione con infiniti valori di verità. 

Sebbene la creazione d'intelligenze artificiali abbia originato notevoli progressi 

tali  da  rendere  reali  computer  come  Al  del  film  di  Stanley  Kubrick  “2001:  Odissea 

nello  spazio”,  tuttavia  qualcosa  sembra  ancora  mancare  per  poter  parlare  di 

un'effettiva  intelligenza;  si  pensi  allora  alle  potenzialità  che  si  svilupperebbero 

dall'utilizzo della matematica reticolare nei software attuali. 

Riassumendo,  abbiamo  mostrato  nel  primo  capitolo  cosa  s'intendesse  per 

linguaggio  semantico metaforico,  attraverso quella  che  secondo Lakoff è  la prova più 

importante della sua teoria, il passaggio simulato in rete dalla sensazione al concetto 

utilizzando  le  strutture  senso­motorie  e  abbiamo  analizzato  come  le  metafore  che 

operano  nel  linguaggio  si  formino,  e  si  aggreghino  tra  di  loro,  secondo  una 

grammatica semantica. 

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Nel  secondo  capitolo  abbiamo analizzato  la  consistenza della  rete  PDP,  quali 

sono i suoi punti critici (tra cui i problemi di addestramento e il limite dei 100 passi di 

Feldman), e quali sono le restrizioni che s'imponevano al linguaggio metaforico basato 

sulle reti neurali così come concepito da Lakoff.

  Nel  terzo  capitolo  abbiamo  esposto  le  caratteristiche  funzionali  della  rete 

nervosa (principalmente la sua non computabilità, attraverso un paragone diretto con 

la  rete  PDP)  e  nel  quarto  una  sua  possibile  simulazione  da  parte  di  un  computer; 

mentre nel  quinto  capitolo  è  stato  esposto un  esempio di  linguaggio metaforico  non 

computazionale,  il  metalinguaggio  della  PNL  che,  pur  partendo  da  una  base  clinica 

può orientarsi nella direzione di una grammatica delle metafore “alla Lakoff”. 

In quest’ultimo capitolo abbiamo ripreso la teoria concettuale delle metafore di 

Lakoff e Grady rivisitandola alla luce delle considerazioni fatte, non tanto per trarne 

delle conclusioni categoriche, quanto per mostrare come le intuizioni di Lakoff, della 

PNL, e dell'ultimo connessionismo convergano tutte in un quadro più generale, quello 

delle matematiche dimensionali con sistemi aperti.

Tale  quadro  teorico  ritiene  valida  la  possibilità  di  creare  un  linguaggio 

metaforico attraverso  i  computer. Tuttavia, per  farlo  in accordo con  le ultime  teorie 

dell'intelligenza artificiale, è necessario apportare innovazioni sostanziali, in quanto il 

software  precedentemente  usato  non  ha  dato  i  risultati  sperati  di  simulazione  delle 

funzioni cerebrali. 

Bisogna quindi utilizzare un nuovo software che abbia caratteristiche “umane”, 

caratteristiche  che  sono  ben  diverse  da  quelle  attualmente  usate  dai  computer.  Il 

limite imposto dalla macchina di Turing Universale sembra poter essere superato con 

macchine  di  Turing  sovra  dimensionali,  in  cui  l'utilizzo  di  una  matematica  reticolare 

rende possibile quelle caratteristiche funzionali proprie del sistema nervoso. 

E'  auspicabile  che  una  volta  che  un  computer  utilizzerà  un  software  con  tali 

caratteristiche, si potrà parlare di vera intelligenza artificiale.

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