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Rivista Giuridica registrata presso il Tribunale di Milano (Aut. n. 58 del 18.2.2016) │Codice ISSN 2499-846X
Ergastolo “ostativo”: la “presunta” legittimità costituzionale del
“fine pena mai” tra spinte riformatrici nazionali e sovranazionali.
di Francesca Di Caro
Sommario: 1. L’ergastolo “ostativo”, quale oggetto di quotidiane istanze di
revisione della pena. – 2. L’ergastolo in generale: evoluzione normativa e
interpretazione costituzionalmente orientata. – 3. L’ergastolo “ostativo”, l’esigibile
collaborazione e il baratto della propria libertà con quella degli altri. – 4. Alcune
paradigmatiche pronunce della Corte EDU in materia di ergastolo “effettivo”. – 5.
Conclusioni: dal “Progetto Palazzo” ad una necessaria riforma della disciplina
dell’ergastolo “ostativo”.
1. L’ergastolo “ostativo”, quale oggetto di quotidiane istanze di revisione della
pena.
La pena dell’ergastolo ha da sempre interessato l’analisi e la ricerca in vari campi
del diritto, da quello penale, ove essa trova la sua origine, a quello costituzionale,
passando, da ultimo, anche per il diritto europeo.
Nella prassi giudiziaria, quotidianamente, numerosi detenuti, condannati alla pena
dell’ergastolo, ed in particolare a quella dell’ergastolo c.d. “ostativo”, per aver
commesso reati di particolare gravità, legati a fatti di criminalità organizzata o di
terrorismo, propongono istanza di revisione della pena al magistrato competente.
Quest’ultimo, verificata la sussistenza o meno dei requisiti richiesti dalla disciplina,
ha il potere di concedere o negare la liberazione condizionale all’ergastolano che ne
fa richiesta.
Ad ogni nuova istanza, tuttavia, ritorna un interrogativo di fondo: la sanzione
dell’ergastolo “ostativo” è compatibile con l’Ordinamento nazionale e con quello
sovranazionale?
Per risolvere tale quesito è necessario esaminare la disciplina generale dell’ergastolo,
nonché quella speciale dell’ergastolo “ostativo”.
2. L’ergastolo in generale: evoluzione normativa e interpretazione
costituzionalmente orientata.
L’ergastolo è pena stabilita dal nostro sistema sanzionatorio vigente, menzionata
all’art. 17 c.p. e cristallizzata dall’art. 22 c.p., che così dispone: “La pena
dell'ergastolo è perpetua, ed è scontata in uno degli stabilimenti a ciò destinati, con
l'obbligo del lavoro e con l'isolamento notturno. Il condannato all'ergastolo può
essere ammesso al lavoro all'aperto”.
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Venendo alle origini dell’istituto, è opportuno chiarire che l’ergastolo, così come
indica la stessa etimologia, per i Greci era il luogo dove riposavano gli schiavi, dopo
aver lavorato nei campi o dove erano confinati gli insolventi, detenuti per debiti. 1
Ma è nell’antica Roma che può ravvisarsi la prima origine dell’ergastolo come
punizione: il pater familias, infatti, rinchiudeva all’interno di uno spazio, detto
ergastulum, quegli schiavi da lui ritenuti incorreggibili.
Durante il Medioevo, il termine assume una connotazione differente, legandosi
definitivamente al concetto di perpetuità.
Invero, la Chiesa medioevale, concepiva l’ergastolo come ozio perpetuo,
segregazione forzata, attribuendo all’istituto una valenza più rigorosa, dal momento
che a tale “castigo” erano destinati i peccatori, bisognosi di “medicine forti”.
Essi, tuttavia, non erano considerati irrecuperabili, poiché attraverso l’espiazione, il
sincero pentimento e il perdono potevano riottenere la libertà.
Quanto di tale concezione si tramanderà nei secoli successivi, sino ad arrivare ai
nostri giorni?
Per brevità espositiva, si guardi al Codice Zanardelli, dove l’ergastolo occupava il
posto di pena e l’art.11 disponeva la perpetuità della stessa, salvo possibilità di
grazia. 2
A tale trattamento sanzionatorio erano condannati tutti coloro che si rendevano
responsabili di gravi delitti. A titolo esemplificativo si pensi ai reati di attentato
contro l’integrità, l’indipendenza o l’unità dello Stato; omicidio con premeditazione;
omicidio per preparare, facilitare o consumare un altro reato, benché questo non sia
avvenuto.
In seguito, l’entrata in vigore del Codice Rocco e la conseguente introduzione della
pena di morte limitavano le ipotesi di ricorso all’ergastolo, riservando invece la più
grave sanzione ai reati contro la personalità dello Stato e la vita dei cittadini.
Nell’ottica del Legislatore del 1930, la pena aveva funzione retributiva e general-
preventiva, poiché "la funzione di rieducazione e di emenda del colpevole non
costituiva lo scopo essenziale della pena".3
1 Dal greco “ἐργάζομαι”, cioè “lavorare”. 2 La pena dell’ergastolo, scontata in particolari luoghi, denominati “ergastoli”, si componeva
di 7 anni di segregazione cellulare continua, obbligo di lavoro che, una volta scontato, dava
acceso al solo isolamento notturno.
Per completezza, si pensi che gli ergastolani, dopo il periodo di segregazione continua,
potevano andare al passeggio in comune, durante il quale dovevano osservare la regola del
silenzio e camminare in fila uno dopo l'altro alla distanza che veniva loro ordinata. Non
potevano né uscire dalla fila, né fermarsi o sedersi senza avere ottenuto il permesso dagli
agenti di custodia; tale permesso doveva essere chiesto alzando la mano (art. 247). I
condannati all'ergastolo non potevano essere addetti ai servizi domestici prima di avere
scontato venti anni di pena (art. 279). Il prezzo integrale del lavoro da loro compiuto si
divideva in decimi ed erano loro assegnati 3/10 a titolo di gratificazione (art. 287). Durante
il periodo della segregazione cellulare continua, potevano avere un colloquio l'anno e,
compiuto questo periodo, ne potevano avere uno ogni sei mesi (art. 305); potevano infine
scrivere una lettera ogni quattro mesi (art. 317). 3 SALTELLI C., voce Ergastolo, in Nuovo Dig. It., Torino, 1938, 458.
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L’avvento della Costituzione Repubblicana segnava una frattura con l’ideologia
precedente e contribuiva alla modifica della disciplina previgente.
In particolare, punto di partenza della nostra analisi è l’art. 27 del dettato
costituzionale che, dopo aver abrogato la pena di morte, sancisce: “Le pene non
possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla
rieducazione del condannato”.
Già la lettera della disposizione evidenzia marcatamente il mutamento di concezione
del Costituente, poiché introduce un nuovo fine a cui la sanzione penale deve tendere
: la rieducazione del reo e il reinserimento dello stesso nella società. 4
A ben guardare, infatti, l’ergastolo era una pena destinata a coincidere, nella sua
durata, con l’intera vita del condannato e dunque definita con l’espressione “fine
pena mai”.5
Occorre, adesso, chiedersi: ma in un sistema di valori, quali quelli a cui la
Costituzione Repubblicana si ispira e dai quali è permeata, è possibile accettare una
prospettiva come il “fine pena mai”?
Il 16 giugno del 1956, la Suprema Corte, a Sezioni Unite, con una storica ordinanza,
respingeva la questione di legittimità costituzionale dell’ergastolo, attraverso una
motivazione, articolata in alcuni punti chiave.
In primis, la Corte affermava che la rieducazione del condannato non dovesse a
fortiori passare per un recupero sociale dello stesso, essendo, al contrario, sufficiente
la mera redenzione morale.
Tale argomentazione, legata ad una visione puramente giusnaturalistica, identificava
la redenzione morale come <<quel processo attuoso dello spirito, diretto a facilitare
il pentimento, che – liberando il condannato dal peso del delitto commesso – lo porti
a redimersi>>.6
Il secondo aspetto era fondato sull’interpretazione letterale, poiché, se il Costituente
avesse voluto escludere la pena perpetua, avrebbe ben potuto scriverlo in
Costituzione, così come per la pena di morte, abrogata per effetto dell’art. 27, ult.
co., Cost.
In subordine, la Suprema Corte enunciava la tesi della polifunzionalità delle pene,
giustificando l’ergastolo sulla base della deterrenza, della prevenzione generale e
speciale.
La Cassazione, infine, chiosava la sua pronuncia rammentando che l’esistenza della
grazia e della commutazione della pena facevano venir meno, astrattamente, la
perpetuità dell’ergastolo.
4 Molti dei Padri Costituenti, oppositori del regime fascista, avevano potuto sperimentare
l’inumanità delle carceri e dei trattamenti riservati ai detenuti. Tale tremenda esperienza
aveva fatto sorgere in loro l’idea che la pena dovesse avere varie funzioni e tra queste vi era
la rieducazione del condannato. 5 CARNELUTTI F., La pena dell’ergastolo è costituzionale?, in Riv. dir. proc., 1956, I, 1. 6 Cass., SS.UU., sent., 16 giugno 1956, in Rivista italiana di diritto penale, 1956, 485.
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Passi avanti erano fatti alcuni anni dopo, a partire dalla L. 25 novembre 1962, n.1634
che permetteva anche agli ergastolani, che avessero scontato ventotto anni di pena,
di beneficiare della liberazione condizionale. 7
Tale norma contribuiva a rendere la pena dell’ergastolo compatibile con il disposto
dell’art.27, co.3, Cost., introducendo nell’ordinamento un “ergastolo non più
perpetuo” e dunque tendente alla rieducazione del reo.8
Rimaneva, tuttavia, aperta l’ulteriore questione legata alla competenza per la
concessione del predetto beneficio, in quanto il Ministro della Giustizia poteva
disattendere al parere redatto dal giudice di Sorveglianza.
Invero, dovrà attendersi il 1974, quando la Consulta con la sentenza 4 luglio 1974,
n. 204 dichiarava incostituzionale la predetta disciplina, poiché in contrasto con gli
artt. 24 e 111 Cost.
Il dettato costituzionale, infatti, non poteva certamente ammettere che la concessione
della liberazione condizionale dipendesse dal Ministro, organo inidoneo, in quanto
il condannato diventava titolare del diritto a che <<il protrarsi della pretesa punitiva
venisse riesaminato al fine di accertare se in effetti la quantità di pena espiata avesse
o meno assolto positivamente al suo fine rieducativo>>.
Tale progressivo arresto della Corte Costituzionale, tuttavia, veniva superato dalla
sentenza 22 novembre 1974, n. 264, con la quale si ritornava alla tesi della
polifunzionalità della pena, tanto cara alla Suprema Corte.
La Consulta, infatti, affermava che la rieducazione del reo non sempre fosse
raggiungibile e che alla base delle pene ci fossero egualmente la dissuasione, la
prevenzione e la difesa sociale.
Un ultimo argomento veniva infine speso in relazione all’adempimento delle
obbligazioni civili nascenti dal reato.
Nel caso in esame, il remittente aveva sostenuto che soltanto l’ergastolano in grado
di adempiere alle predette obbligazioni avrebbe potuto beneficiare della
condizionale, comportando tale obbligo una manifesta discriminazione nei confronti
degli altri condannati.
A tal proposito, la Corte affermava che il detenuto non abbiente e quindi non in grado
di adempiere alle obbligazioni avrebbe potuto dare prova delle precarie condizioni
economiche e accedere ugualmente ad anzidetto beneficio.
In seguito, la riforma dell’ordinamento penitenziario del 1975, che si poneva come
punto di svolta rispetto al precedente sistema, riconosceva al detenuto una certa
“soggettività giuridica”, in ossequio ai principi sanciti nella Costituzione, ove
l’individuo, all’interno dell’Ordinamento, ricopre ruolo preminente. Tuttavia,
sebbene il detenuto iniziasse ad essere considerato titolare di diritti e aspettative,
7 La liberazione condizionale, già disciplinata nel Codice Zanardelli, era legata a doppio filo
con il ravvedimento del condannato. Il Codice Rocco, invece, riservava tale beneficio ai
detenuti contraddistintisi per una buona condotta. 8 La legge in esame abrogava, altresì, i commi 3 e 4 dell’art.22 cp, che disponevano
l’esecuzione dell’ergastolo in una colonia o in un possedimento oltre mare.
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corrispondenti ai valori costituzionalmente garantiti, il trattamento riservato agli
ergastolani rimaneva assai diverso.
In particolare, gli ergastolani non erano ammessi al beneficio della liberazione
anticipata e non potendo godere degli sconti di pena, era a loro, di fatto, precluso il
beneficio della condizionale.9
A tal riguardo, per consolidata giurisprudenza della Suprema Corte, l’ergastolano
avrebbe potuto accedere alla liberazione condizionale solo dopo aver scontato
“effettivamente” ventotto anni di pena, ex art. 176 ord. penit..
Per la Cassazione, dunque, gli sconti di pena non erano compatibili con tale
disciplina.
La soluzione alla questione arriverà con la sentenza della Corte Costituzionale 27
settembre 1983, n. 274, con la quale la Consulta dichiarava l’illegittimità
costituzionale dell'art. 54 ord. penit. nella parte in cui non prevedeva la possibilità di
concedere anche al condannato all'ergastolo la riduzione di pena, ai soli fini del
computo della quantità di pena così detratta nella quantità scontata, richiesta per
l'ammissione alla liberazione condizionale.
Predetta pronuncia veniva in seguito recepita dal Legislatore, che con la L. 10 ottobre
1986, n.663, c.d. “Gozzini”, abbassava da ventotto a ventisei anni il limite di pena
scontata per accedere alla liberazione condizionale.10
Un’ulteriore pronuncia, destinata a segnare l’evoluzione dell’istituto, era, poi,
rappresentata dalla sentenza della Corte Costituzionale 28 aprile 14, n.168, inerente
alla pena dell’ergastolo comminato ai minorenni.
Nel caso di specie, un minore era imputato di omicidio volontario aggravato, in
danno di un ascendente, per il quale l’Ordinamento stabilisce la pena dell’ergastolo
e per tale motivo il remittente si doleva della lesione di numerose norme
sovranazionali e, in riferimento alla materia che qui ci occupa, lamentava la
violazione dell’art. 27, co. 3, Cost.
Preliminarmente, è questo il caso di rammentare che il nostro Ordinamento prevede,
in ipotesi di ergastolo comminato ad un minorenne, la possibilità di accedere alla
condizionale, indipendentemente da un numero di anni già scontati.
Tornando, dunque, alla pronuncia, la Consulta dichiarava fondata la questione di
legittimità in riferimento all’art. 31, co. 1, Cost. in relazione all’art. 27, co. 3, Cost.,
in quanto, sebbene l’ergastolo astrattamente considerato fosse stato giudicato
compatibile con la Costituzione, l’art. 31 Cost. sanciva un’incisiva diversificazione
del trattamento penalistico riservato al minore.
9 Più nel dettaglio: l’art. 54 della L. 26 luglio 1975, n. 354 Norme sull’ordinamento
penitenziario e sull’esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, non
prevedeva che gli sconti di pena , ossia le detrazioni, pari a giorni venti per ciascun semestre
di pena scontato, per gli ergastolani non potevano concorrere al raggiungimento della soglia
minima di pena per procedere all’istanza di liberazione condizionale. 10 La legge Gozzini, inoltre, alzava da venti a quarantacinque giorni a semestre il “quantum”
della liberazione anticipata, disciplinando anche il metodo di calcolo “frazionato”.
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Ed in particolare, nei confronti del condannato minorenne doveva essere ribadita e
confermata la funzione rieducativa della pena: quest’ultimo è infatti <<un soggetto
ancora in formazione e alla ricerca della propria identità>>, per cui doveva rilevarsi
un’assoluta incompatibilità tra la disciplina codicistica, priva di distinzione tra
detenuti maggiorenni e minorenni e accentuarsi la preminente funzione rieducativa
della pena, nel caso di detenuti minorenni.
Ma se la Corte, con tale pronuncia, aveva rilevato il necessario bisogno di
adattamento della legge ordinaria ai valori costituzionali, nello stesso tempo aveva
rinvigorito il dibattito sulla differenza di trattamento accordata al condannato
minore. In quest’ottica, infatti, tanto i minorenni quanto i maggiorenni avrebbero
dovuto accedere, in qualsiasi momento, alla condizionale, pena la violazione dell’art.
3 Cost.
La risposta non tardò ad arrivare, poiché con la sentenza 4 giugno 1997, n. 161 la
Corte Costituzionale era chiamata a giudicare sulla legittimità costituzionale dell’art.
177, co. 1, c.p., nella parte in cui non ammetteva che l’ergastolano, a cui era stata
revocata la liberazione condizionale, potesse fruire nuovamente della stessa, attesa
la “riviviscenza” dei presupposti di legge.
In primo luogo, la Corte ripercorreva la nascita e l’evoluzione dell’istituto e
sosteneva, infine, che il rifiuto di nuova concessione tornava a rendere la pena
dell’ergastolo incompatibile con il dettato costituzionale, poiché perpetua, fatta salva
sempre l’astratta possibilità di chiedere la grazia.11
La Corte, richiamando la sua giurisprudenza precedente in materia di ergastolo, 12
affermava che non poteva non essere rilevata l’illegittimità costituzionale dell’art.
177, co. 1, c.p., in quanto escludeva il reo in modo permanente ed assoluto dal
processo di rieducazione e di reinserimento sociale, laddove vietava la riammissione
del condannato alla libertà condizionale.
11 La revoca della liberazione condizionale era già presente nel codice Zanardelli e la sua
disciplina rimaneva immutata anche con l’entrata in vigore del Codice Rocco. Presupposti
della revoca erano la commissione di un reato che importava una pena restrittiva della libertà
personale, oppure l’inadempimento delle condizioni imposte con la concessione della
condizionale stessa. Conseguenze della revoca erano, invece, il divieto di computare il
periodo trascorso in libertà nel calcolo della pena residua e il divieto assoluto di riammissione
alla condizionale. Occorre ribadire che sino al 1962 la liberazione condizionale poteva essere
concessa solamente ai condannati ad una pena temporanea. Dal 1962 in poi le riforme
parlamentari riguardarono anche la revoca della condizionale, poiché il Legislatore stabilì
che, a seguito dell’esperimento positivo del periodo di liberazione condizionale, il detenuto
potesse essere liberato definitivamente, trascorsi cinque anni. Infine, con la sentenza Cost. n.
282 del 1989 era dichiarato incostituzionale il sistema della revoca nella parte in cui vietava
alla Magistratura di Sorveglianza di sottrarre alla pena detentiva ancora da espiare, il periodo
di tempo trascorso in libertà condizionale, atteso che il condannato in ogni caso aveva subito
delle restrizioni di libertà personale. 12 S. v. Le cc. dd. Sentenze gemelle, Corte cost., sent., 24 giugno 1974, n. 264 con nota di
PAVARINI M., in Riv. it. dir. proc. pen., 1976, 262. ; Corte cost. sent., 21 settembre 1983,
n. 274.
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Infine, con l’ordinanza del 5 marzo 1998, n. 48, ancora in materia di revoca della
condizionale, la Corte completava quanto precedentemente affermato con l’anzidetta
pronuncia.
Nel caso di specie, l’analisi della Consulta si indirizzava nei riguardi dei presupposti
della revoca, in relazione alle violazioni del principio di rieducazione della sanzione
penale, nonché di quello di uguaglianza.
Il sistema normativo, infatti, poneva a fondamento della revoca la condanna per ogni
tipologia di delitto, tralasciando la possibilità di valutare la compatibilità, de facto,
tra la nuova condanna e la condizionale, concessa in regime di libertà vigilata.
La Corte, in conclusione, affermava la fondatezza della questione, poiché la revoca
della condizionale nel caso di commissione di un qualsiasi delitto o nell’ipotesi di
trasgressione degli obblighi imposti dalla libertà vigilata determinava un rigido
automatismo legislativo, tuttavia, chiosava la Corte che non poteva essere preclusa,
al Legislatore, la facoltà di assumere determinate condanne quali parametri per
escludere l’ammissione del condannato ad alcuni benefici o per revocare quelli già
ottenuti.
3. L’ergastolo “ostativo”, l’esigibile collaborazione e il baratto della propria
libertà con quella degli altri.
Partendo, adesso, dall’assunto secondo cui non tutti gli ergastoli sono uguali, resta
indispensabile chiarire che nel caso di condannato all’ergastolo “ostativo”, l’art. 4
bis, L. 26 luglio 1975, n. 354 ord. penit. prevede il divieto di concessione dei
benefici e l’accertamento della pericolosità dei condannati per taluni delitti di
particolare gravità, di matrice mafiosa o terroristica, cc.dd. “reati ostativi”.13
Siffatta pena esclude in prima battuta la possibilità di usufruire dei benefici carcerari,
riservandosi di concedere questi ultimi solo ai condannati che collaborino con la
giustizia o nei casi in cui tale collaborazione sia impossibile o irrilevante, fatta salva
l’acquisizione di elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la
criminalità terroristica o eversiva.
La disposizione di cui all’art. 4bis ord. penit. era introdotta all’indomani delle stragi
di Capaci e Via D’Amelio ed era volta a inasprire il trattamento sanzionatorio di
coloro che erano condannati per gravi fatti di mafia, ponendosi, altresì, quale
incentivo alla collaborazione con la giustizia, ove possibile.14
Tale previsione normativa, da subito, destava clamorose critiche, poiché si ricadeva
in una nuova ipotesi di pena perpetua e quindi in contrasto con il dettato
costituzionale.
13 S.v. il testo dell’art. 4 bis, ord. penit. 14 Con la L. 12 Luglio 1991, n.203 , Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità
organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa, il Legislatore
intendeva inasprire il circuito trattamentale di quei soggetti resisi autori di gravi reati legati
alla criminalità organizzata di stampo mafioso. Gli interventi principali riguardavano
l’esclusione o la limitazione all’accesso delle misure alternative e degli altri benefici
penitenziari.
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La Carta Costituzionale, infatti, aveva sancito a chiare lettere che la sanzione è volta
principalmente alla rieducazione del reo, poiché <<puniamo qualcuno per poi
riaverlo indietro, possibilmente cambiato>> e il percorso rieducativo tende a far sì
che la pena non sia solamente pena. 15
La giurisprudenza della Cassazione, tuttavia, sosteneva e continua a farlo la
perfetta compatibilità dell’ergastolo ostativo con il dettato costituzionale,
degradando l’astratta incompatibilità dell’istituto ad una mera quaestio facti : la
perpetuità della sanzione dipende soltanto da una libera scelta del detenuto, atteso
che la legge, a determinate condizioni, concede a quest’ultimo il beneficio della
liberazione condizionale.
Invero, svariate questioni giuridiche affastellano il tema dell’ergastolo ostativo e
proveremo, adesso, a dare loro rilievo.
In primo luogo, problema di non poco momento è quello legato alla disparità di
trattamento tra gli ergastolani comuni e i detenuti condannati all’ergastolo ostativo,
nonché quella interna anche a quest’ultima categoria.
Ed in particolare, solitamente i detenuti in regime di ergastolo ostativo erano divisi
in due categorie, a seconda dei delitti commessi, e segnatamente si era soliti
distinguere tra cc.dd. reati di prima fascia, a cui appartenevano i condannati per
delitti di criminalità organizzata, e cc.dd. reati di seconda fascia, di cui facevano
parte i condannati per i delitti di grave allarme sociale, pur se non di matrice mafiosa
o terroristica.
Nei confronti dei condannati per i reati di prima fascia, la concessione dei benefici
penitenziari e delle misure alternative era subordinata alla prova dell’assenza di
collegamenti con le associazioni criminali e all’espiazione di una parte di pena più
consistente rispetto al regime ordinario.
Gli autori dei delitti di seconda fascia, invece, potevano accedere alle misure
alternative e ai benefici penitenziari dopo l’espiazione di una parte di pena più lunga
rispetto a quella richiesta agli altri condannati, fatta salva la verifica
dell’insussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata.
In seguito, il disposto dell’art. 58 ord. penit., parificava il trattamento penitenziario
tra le due categorie di condannati all’ergastolo ostativo, subordinando le predette
concessioni alla collaborazione “esigibile” con la giustizia.
La novella del 1992, inoltre, equiparava l’utile collaborazione ex art. 58 ord. penit.
con le ipotesi di collaborazione oggettivamente irrilevante, in virtù dell’applicazione
delle circostanze attenuanti di cui al n. 6 dell’art. 62 c.p., all’ art. 114 e al n.2 dell’art.
116, fermo restando l’accertamento della mancanza di attualità di collegamenti con
l’associazione criminale.
Il Legislatore ordinario, successivamente, con la L. 23 dicembre 2002, n.279,
estendeva la disciplina della collaborazione inutile a tutti i casi in cui l'integrale
15 A. PUGIOTTO, Quando la clessidra è senza sabbia. Ovvero: perché l’ergastolo è
incostituzionale, in F. CORLEONE – A. PUGIOTTO (a cura di), Il delitto della pena, Roma,
2012, 126 ss.
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accertamento dei fatti e delle responsabilità, operato con sentenza irrevocabile,
rendeva comunque impossibile un'utile collaborazione con la giustizia.
A ben guardare, la collaborazione si traduceva in un comportamento produttivo di
vantaggi, altrimenti non conseguibili. 16
Ma se molti condannati decidevano di “pentirsi”, quasi barattando la propria con
l’altrui libertà, molti altri ritenevano di non poterlo fare, allegando, nelle loro istanze
di revisione della pena, che «nessun pentimento può esservi per chi è innocente e
vittima di un errore giudiziario».
Ed invero, attualmente, alcuni di loro, attraverso la predetta istanza, chiedono al
giudice dell’esecuzione di verificare la legittimità costituzionale dell’art. 22 c.p. e
dell’art. 4bis ord. penit., in relazione agli artt. 2, 3, 25 e 27 Cost. e chiedono, di
conseguenza, la conversione della pena dell’ergastolo nella pena della reclusione a
trent’anni.
Tale istanza trova fondamento nella presunta illegittimità costituzionale
dell’ergastolo ostativo, poiché in contrasto con i principi rieducativo e riabilitativo,
cristallizzati nell’art. 27 Cost., nonché nelle recenti pronunce della Corte EDU.
In secondo luogo, a fondamento dell’istanza, vi è la disparità di trattamento tra i
condannati all’ergastolo ostativo e gli ergastolani comuni, atteso che l’accesso ai
benefici e alla liberazione condizionale passa a fortiori per la collaborazione con la
giustizia.17
Siffatta prospettiva, a detta dei proponenti, configura una «ulteriore responsabilità
penale personale del soggetto per il solo fatto di non collaborare con la giustizia,
trasferendo il presupposto della responsabilità penale e della pena dal fatto,
all’essere del soggetto».
Ciò premesso, giova precisare che vari orientamenti si sono consolidati nel tempo,
tuttavia, per concisione è questo il caso di enunciare i due opposti.
Il primo di essi, legato a doppio filo al principio della polifunzionalità della pena,
ritiene l’ergastolo, rectius dell’ergastolo ostativo, legittimo poiché astrattamente non
perpetuo. 18
L’art. 4 bis ord. penit., infatti, prevede una serie di ipotesi nelle quali la causa
ostativa, sebbene la sussistenza di reati particolarmente gravi, può essere superata
con la conseguente “riviviscenza” del regime comune dell’ergastolo e la possibilità
di accedere ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale.
Ne discende che in questi casi l’ergastolo non è più pena perpetua e, pertanto,
conforme ai principi previsti dalla Costituzione e dalla C.E.D.U., secondo
l’interpretazione fornita dalla Corte Costituzionale e dalla Corte EDU.
16 A. PRESUTTI, Alternative al carcere , regime delle preclusioni e sistema della pena
costituzionale, in A. PRESUTTI (a cura di), Criminalità organizzata e politiche
penitenziarie, Milano, 1994, 81 ss. 17 RUGA RIVA C., Il premio per la collaborazione processuale, Milano, 2002, 12. 18Cfr. CARNELUTTI F., La pena dell'ergastolo è costituzionale?, in Rivista di diritto
processuale, 1956, I, 1 ; BERNARDI A., Ergastolo: verso un'effettiva pluridimensionalità
della pena perpetua?, in Archivio Giuridico Serafini, 1984, 391 ss
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Deve, infine, ribadirsi che la causa ostativa viene meno nell’ipotesi in cui il
condannato collabori con la giustizia, purché siano stati acquisiti elementi tali da
escludere l'attualità di collegamenti con la criminalità organizzata.
Quindi, la collaborazione con la giustizia e l’accertata inesistenza dei collegamenti
con la criminalità organizzata determina la mutatio dell’ergastolo ostativo in
ergastolo comune, con il conseguente accesso alla liberazione condizionale dopo
ventisei anni di reclusione.
Un secondo orientamento, invece, condiviso da quanti considerano la pena
dell’ergastolo in re ipsa incompatibile con l’ordinamento interno, prende le mosse
dall’art. 27 Cost. e passa per il disposto dell’art. 3 della C.E.D.U., secondo cui
“Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o
degradanti”.19
Il primo argomento, a sostegno di tale prospettiva, è strictu sensu letterale, nonché
costituzionalmente orientato : l’ergastolo ostativo equivale ad una condanna
intramuraria perpetua, determinando un vulnus del dettato costituzionale,
concretizzandosi nell’impossibilità del reinserimento sociale del reo.20
A tal proposito, è opportuno ribadire che a poco rileva la sliding door offerta dalla
collaborazione con la giustizia, poiché il problema dell’ergastolo ostativo occupa nel
nostro Ordinamento la preminente posizione di quaestio facti, prima che di quaestio
iuris.
Se, infatti, così come affermato dalla Consulta con la pronuncia 4 giugno 1997, n.
161, la collaborazione rappresenta l’unico mezzo in grado di rendere l’ergastolo
ostativo compatibile con la Costituzione, cosa dire nell’ipotesi di ergastolani non
collaboranti per scelta o perché vittime di errori giudiziari? 21
Ed ancora, atteso che il percorso rieducativo del reo non occupa alcun parametro nel
giudizio volto alla concessione della condizionale, poiché ciò che in realtà conta è la
collaborazione con la giustizia, come argomentare tale scelta legislativa, se la
<<finalità rieducativa presuppone la messa a valore dei risultati dell’osservazione,
della partecipazione all’opera rieducativa, dell’adesione al trattamento da parte del
detenuto>>?22
In riferimento alla fattispecie che ci riguarda, infatti, il sistema interno è
caratterizzato dall’assoluta rigidità edittale: la pena, così come comminata nel
giudizio di cognizione, è immutata e immutabile.
19 Ex multis FIANDACA G., Commento all’art.27, comma 3° Cost., in Commentario alla
Costituzione, a cura di BRANCA e PIZZORUSSO, Bologna, 1991, 222. 20 PUGIOTTO A., Una quaestio sulla pena dell’ergastolo, in www.penalcontemporaneo.it,
5 marzo 2013. 21 Corte Cost. sent. 4 luglio 1997, n.161, la pronuncia in esame riconosceva all’ergastolano,
cui era stata revocata la liberazione condizionale, il diritto di richiedere predetto beneficio,
ricorrendone nuovamente i presupposti. Il divieto sancito dall’art. 177, co. 1, c.p., infatti,
precludeva tale possibilità, privando di fatto la rieducazione e il reinserimento sociale del reo,
violando l’art. 27, co. 3, Cost. 22 PUGIOTTO A., op. cit.
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11
In senso contrario, si rintracciano alcune pronunce, che attribuiscono valenza
rieducativa alla incentivazione alla collaborazione con la giustizia, poichè la scelta
del condannato di collaborare è indice legale di ravvedimento. 23
A tal riguardo, l’equazione secondo cui la collaborazione con la giustizia si traduce
nel “sicuro ravvedimento” sembra difettare di una logica di fondo, poiché non
mancano casi in cui si ha collaborazione priva di ravvedimento e ravvedimento senza
collaborazione.24
Invero, la decisione di collaborare attiene esclusivamente ad una visione oggettiva,
in quanto depone a favore del distacco del reo dal sodalizio criminale, ma non può,
altresì, considerarsi indice di ravvedimento, né di assenza di pericolosità sociale.25
È giocoforza che il meccanismo di previsione legale assoluta si presterebbe anche a
“collaborazioni” di comodo, di scambio della propria libertà con quella di altri. 26
Inoltre, nell’analisi testé condotta non deve tralasciarsi il fatto che l’impalcatura, che
regge il sistema normativo di cui sopra, è incardinata su una serie di presunzioni
legali.27
E più nel dettaglio, dall’integrazione della fattispecie criminosa di cui all’art. 4bis
ord. pen. derivano due presunzioni: la prima relativa alla pericolosità sociale e la
seconda legata alla permanenza dell’adesione al sodalizio criminale.
Le predette presunzioni sono infine accompagnate da una terza, ossia la condotta
collaborativa, indice iuris et de iure di ravvedimento.28
Siffatto sistema normativo finisce con il tradursi in un rigido automatismo, che
innumerevoli volte è stato definito, dalla giurisprudenza della Corte Costituzionale,
contrario alla Carta fondamentale, poiché impeditivo o limitativo della verifica
dell’adeguatezza della sanzione rispetto al fatto concreto.29
A ben guardare, diversi comportamenti del reo potrebbero essere eletti a parametri
indicativi della rescissione del vincolo che il condannato aveva con il sodalizio
criminale, quali ad esempio le pubbliche esternazioni contro l’organizzazione
criminale di appartenenza, il nuovo interesse nei confronti delle persone offese dal
reato, o delle di loro famiglie, il pagamento delle obbligazioni sorte dalla condanna,
l’aver intrapreso un percorso di studi ispirato a modelli di legalità e correttezza.
Questi ultimi, tuttavia, non assumono alcuna rilevanza per le argomentazioni
precedentemente analizzate.
23 Cfr. ex multis, Cass., Sez. V, 10 gennaio 2011, n.273, in C.E.D. Cass. 24 MANTOVANI F. Diritto penale, Parte generale, Cedam, Padova, 1992, 56. 25 SAMMARCO A. A., La collaborazione con la giustizia nella legge penitenziaria, in Riv.
it. dir. proc. pen., II, 871 ss. 26 PRESUTTI A., Alternative al carcere , regime delle preclusioni e sistema della pena
costituzionale, in PRESUTTI A. (a cura di), Criminalità organizzata e politiche
penitenziarie, Milano, 1994, 81 ss. 27 LA GRECA G., Liberazione condizionale e criminalità organizzata nella giurisprudenza
costituzionale, in Foro It., I,2002 24. 28 DE MINICIS F., Ergastolo ostativo: un automatismo da rimuovere, in Dir. pen e proc.,
11, 2014, 1273 ss. 29 Cfr. Corte Cost. ord., 28 ottobre 2013, n.253; Corte Cost., sent., 23 luglio 2015, n. 185;
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Resta da indagare un ulteriore profilo, cioè quello legato alla possibile violazione del
diritto alla difesa esercitabile nella fase di esecuzione della pena.
Il meccanismo dell’art.4bis ord. penit., infatti, sembra astrattamente retroagire già
alla fase del giudizio di cognizione, poiché lascia intravedere all’imputato quali
potranno essere le certe conseguenze di una non collaborazione con la giustizia nel
caso di eventuale condanna.30
Se tale sistema è espressione del principio di prevedibilità dell’illecito e della sua
sanzione, si trasforma altresì in strumento di scelta tra il silenzio e una possibile
confessione.
Ma anche il silenzio è esercizio del diritto di cui all’art. 27 Cost., laddove
quest’ultimo eviti all’imputato di fornire elementi a proprio danno o di mentire.
Per contra, la Corte Costituzionale con la pronuncia 8 luglio 1993, n. 306
evidenziava come il diritto alla difesa dovesse esercitarsi entro i limiti e le condizioni
stabilite dalla legge, destando con tale decisione numerose critiche, legate al rispetto
della gerarchia delle fonti, secondo cui la legge ordinaria non può in alcun modo
derogare al dettato costituzionale.
Infine, non può e non deve trascurarsi un’ultima censura, relativa al divieto di tortura,
consacrato dall’art. 13, co. 4, Cost., nonché obbligo internazionale pattizio ex art.
117, co. 1, Cost.
Invero, l’ergastolano ostativo è sottoposto ad un regime carcerario caratterizzato da
una restrizione dei colloqui e delle conversazioni telefoniche, sottoposto ad una
sorveglianza rafforzata, non può intrattenere rapporti con gli altri detenuti, collocati
in circuiti di media sicurezza o di custodia attenuata e non può essere ammesso alla
modalità detentiva di custodia aperta.31
Tali modalità di detenzione verosimilmente integrerebbero anche il disposto di cui
all’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura e altri trattamenti e pene crudeli,
inumane e degradanti CAT, firmata a New York il 10 dicembre 1984, ratificata ed
eseguita in Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 489, che vieta tutti gli atti con cui si
infligge in modo intenzionale, ad una persona, grave sofferenza mentale o fisica al
solo fine di estorcerle una confessione.
L’ergastolano, infatti, è sottoposto ad un regime di costrizione psico-fisica,
caratterizzata da una detenzione intramuraria perenne, finalizzata, dunque, ad una
collaborazione con l’Autorità giudiziaria.
La disposizione in esame, per quanto lecita, poiché stabilita con legge ordinaria,
sarebbe illegittima, poiché contraria al dettato costituzionale, in relazione agli artt.
13, co.4 e 117, co.1, Cost.
Tuttavia, giova precisare che dal punto di vista giuridico vi è un’apprezzabile
differenza tra il sanzionare la non collaborazione e il premiare la medesima,
30 PUGIOTTO A., Come e perché eccepire l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, in
www.penalecontemporaneo.it, 4, 2016. 31 PRESUTTI A., Alternative al carcere , regime delle preclusioni e sistema della pena
costituzionale, in PRESUTTI A. (a cura di), Criminalità organizzata e politiche
penitenziarie, Milano, 1994, 81 ss.
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ricollegandole un vantaggio aggiuntivo, poiché intesa sempre quale condotta
premiale.32
Invero, nella predetta ipotesi, la collaborazione si traduce nel risultato del regime di
tortura, a cui l’ergastolano è sottoposto.
Per contra, tale interpretazione è stata rigettata dalla Consulta, che ha posto l’accento
sulla reale possibilità di scelta lasciata al detenuto, libero anche di non collaborare
con la giustizia.
La norma, secondo l’interpretazione datale dalla Corte, dunque, non rappresenta un
invito alla <<delazione attraverso la minaccia di un trattamento punitivo
deteriore>>, rimanendo espressione del diritto di difesa. 33
In definitiva, sebbene le molteplici critiche mosse nei confronti di un “fine pena mai”
lecito, ma illegittimo, appare evidente che tutte siano state respinte dalla Corte
Costituzionale, avendo quest’ultima, nel corso degli anni, ribadito la legittimità
costituzionale dell’istituto, pur essendo intervenuta con varie pronunce e avendo
offerto, ad ogni singola censura, un’interpretazione costituzionalmente orientata,
anche se, in alcune ipotesi, al limite della costituzionalità.
4. Alcune paradigmatiche pronunce della Corte EDU in materia di ergastolo
“effettivo”.
L’ergastolo ostativo, così come disciplinato nel nostro Ordinamento interno, è
istituto non rintracciabile in altri Ordinamenti, essendo una peculiarità italiana.
Tuttavia, anche in altri Paesi i condannati ritenuti pericolosi sono sottoposti ad un
regime carcerario che non prevede la concessione della liberazione condizionale.34
Per tale motivo, numerose sono le sentenze della Corte di Strasburgo che hanno ad
oggetto un ergastolo “effettivo”.
In particolare, la Corte ha indirizzato le sue pronunce sulla violazione dell’art. 3
C.E.D.U., esaminando due profili: il primo inerente alla pena dell’ergastolo
“effettivo” senza la previsione di liberazione anticipata o condizionale; il secondo
relativo all’estradizione di detenuti, condannati all’ergastolo senza possibilità di
liberazione anticipata, che nello Stato richiedente potrebbero essere sottoposti a
trattamenti violativi dell’art. 3 C.E.D.U.
La Grande Camera si occupava per la prima volta dell’istituto nel 2008 con la
sentenza Kafkaris c. Cipro, destinata a diventare il leading case nella materia che ci
occupa.
Nel caso di specie, un cittadino cipriota aveva proposto ricorso, poiché condannato
alla pena dell’ergastolo, senza la possibilità di accedere alla liberazione anticipata o
condizionale, fatta salva la facoltà di ottenere un provvedimento di grazia, concessa
a discrezione dal Presidente della Repubblica.
32 PUGIOTTO A., op.cit. 33 Corte Cost., sent., 17 febbraio 1994, n.39 . 34 Cfr. VIGANO’ F., Ergastolo senza speranza di liberazione condizionale e art. 3 CEDU:
(poche) luci e (molte) ombre in due recenti sentenze della Corte di Strasburgo, in
www.penalecontemporaneo.it, 4 luglio 2012.
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La Corte EDU, con la sua pronuncia, escludeva l’incompatibilità tra l’ergastolo e il
divieto di trattamenti inumani o degradanti di cui all’art. 3 C.E.D.U., ma affermava
che l’inesistenza, nella legislazione nazionale, di una prospettiva di liberazione
anticipata avrebbe potuto determinare l’incompatibilità con la predetta norma.
Sebbene tali premesse di principio, la Corte considerava la legislazione cipriota
compatibile con la Convenzione, poiché la previsione del meccanismo della grazia,
concesso dal Presidente della Repubblica, rendeva la pena dell’ergastolo
astrattamente non perpetua e rappresentava, quindi, una concreta possibilità per
l’ergastolano di essere scarcerato anticipatamente.35
Il principio affermato con tale sentenza si prestava a varie interpretazioni, tuttavia
l’unica prediletta dalla Corte sembrava essere molto restrittiva, in quanto la remota
possibilità di una liberazione anticipata veniva considerata compatibile con la
Convenzione, indipendentemente dall’inesistenza nell’ordinamento interno di un
meccanismo di revisione del regime carcerario, cui era sottoposto l’ergastolano.
Con la successiva sentenza Vinter c. Regno Unito, la Corte precisava i criteri usati
nell’ambito della precedente pronuncia, sebbene tale caso venisse affrontato
dapprima dalla IV Sezione della Corte, con pronuncia del 17 gennaio 2012 e
successivamente, con un netto ribaltamento, dalla Grande Camera, con sentenza del
9 luglio 2013.36
In primo luogo, è opportuno precisare che nell’Ordinamento del Regno Unito, con
l’abrogazione della pena di morte avvenuta nel 1965, l’omicidio è punito
tassativamente con la sanzione dell’ergastolo, ciò nonostante il giudice,
nell’emanare la sentenza ha l’obbligo di stabilire, tenuto conto di varie circostanze,
un periodo minimo di carcerazione.
Decorso tale lasso temporale, si apre la fase di revisione della pena che, in presenza
di determinati presupposti, può concludersi con un rilascio anticipato del
condannato.
Tuttavia, così come accade nel nostro Ordinamento, anche il sistema legislativo del
Regno Unito prevede che, in determinate ipotesi, tassativamente indicate dalla legge,
il giudice possa condannare il reo ad un ergastolo “effettivo”, c.d. whole life order.
Passiamo, adesso, ad esaminare alcuni snodi tematici prospettati dalla Corte,
partendo dalla distinzione tra la fase dell’inflizione della pena e quella della sua
esecuzione.
In riferimento alla prima fase, la Corte Edu propugnava la tesi della “grave o
manifesta sproporzione”, stabilendo che la pena senza possibilità di liberazione
anticipata non era incompatibile con la disposizione dell’art. 3 C.E.D.U., laddove
gravemente o manifestamente sproporzionata rispetto alla gravità del fatto di reato.
Conseguentemente, dall’analisi dei ricorsi, la Corte concludeva che non vi era stata
alcuna grave o manifesta sproporzione in relazione ai fatti di reato.
35 Corte EDU, sent., Grande Camera, 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro. 36 Corte EDU, sent., Grande Camera, 9 luglio 2013, Vinter e a. c. Regno Unito.
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Secondo i giudici della IV Sezione, infatti, poteva ravvisarsi una violazione dell’art.3
C.E.D.U. solo se i ricorrenti fossero riusciti a dimostrare in primis la mancanza di
giustificazioni, quali la retribuzione, la prevenzione special-generale o la
rieducazione, nella protrazione della detenzione e in secundis che non vi fosse reale
possibilità di liberazione anticipata.
Nel caso di specie, i ricorrenti non riuscivano a dimostrare il primo profilo, per cui
la Corte escludeva de plano la sussistenza di violazione dell’art.3 C.E.D.U.
In seguito, come precedentemente accennato, il 17 gennaio 2012 la Grande Camera,
riesaminato il caso, affermava la violazione da parte del Regno Unito dell’art. 3
C.E.D.U., dichiarando che l’impossibilità di scarcerazione equivaleva ad un
trattamento inumano e degradante per il detenuto.
La Corte, poi, chiosava ribadendo che l’ergastolo sarebbe stato astrattamente
compatibile con il disposto dell’art. 3 C.E.D.U., laddove l’Ordinamento interno
avesse previsto un meccanismo giurisdizionale o amministrativo di revisione della
necessità attuale di esecuzione della pena, che includesse il percorso di rieducazione
intrapreso dal reo.
Siffatto sistema di revisione doveva offrire sicure possibilità di liberazione al
condannato, decorso un lasso di tempo minimo di detenzione, che la Corte suggeriva
di venticinque anni, ma che precisava dovesse essere lasciato al libero
apprezzamento dei singoli Stati.
In ultimo, la Grande Camera dichiarava che ogni Stato doveva disciplinare
chiaramente le modalità e le tempistiche della revisione, di modo che ergastolano, in
qualsiasi momento, fosse a conoscenza di quando chiedere il riesame del proprio
trattamento sanzionatorio.37
Tale pronuncia ha rappresentato il paradigma di riferimento per i singoli Stati in
materia di ergastolo, sancendo, di fatto, la compatibilità di tale sanzione nelle ipotesi
in cui: essa non sia “gravemente o manifestamente sproporzionata” rispetto al reato
commesso; la protrazione della sua esecuzione sia ancora funzionale a uno dei
molteplici scopi legittimamente ascrivibili alla pena (indicati dalla Corte di
Strasburgo nelle funzioni di retribuzione, prevenzione generale, difesa sociale,
risocializzazione del reo); il condannato possa essere rimesso in libertà anticipata.38
Inoltre, con la sentenza Vinter, la Corte EDU, per la prima volta, ammetteva il
“diritto alla speranza”, ricompreso nell’art. 3 C.E.D.U.
Tale diritto è per i Giudici di Strasburgo insito nella persona umana, in quanto, se è
vero che i condannati all’ergastolo “effettivo” sono responsabili di gravi reati e le
loro condotte hanno inflitto ad altri indescrivibili sofferenze, tuttavia, essi
conservano un’umanità fondamentale ed hanno la capacità intrinseca di cambiare.
37 VIGANO’ F., op. cit. 38 Cfr. Corte EDU, sent., 12 febbraio 2008, Kafkaris c. Cipro; Corte EDU, sent., sez. IV, 17
gennaio 2012, Vinter e altri c. Regno Unito; Corte EDU, sez. IV, sent., 17 gennaio 2012,
Harkins e Edwards c. Regno Unito; Corte EDU, sent. ,sez. IV, 10 aprile 2012, Babar Ahmad
e altri c. Regno Unito.
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Ne consegue che, indipendentemente dalla quantità della pena loro inflitta, essi
conservano al speranza di riscatto per gli errori commessi. 39
I suddetti principi, affermati dalla Corte, si ritrovano, altresì, nelle sentenze attinenti
alle procedure di estradizione, ossia nelle ipotesi in cui uno Stato, non aderente alla
Convenzione, richieda l’estradizione di un detenuto, con il rischio che quest’ultimo
possa essere sottoposto a trattamenti penitenziari contrari all’art. 3 C.E.D.U, tra i
quali rientra la condanna all’ergastolo senza possibilità di revisione della pena ed
eventuale liberazione anticipata.
Contemporaneamente alla pronuncia Vinter c. Regno Unito, era altresì emessa la
sentenza Harkins e Edwards c. Regno Unito, riguardante un’ipotesi di estradizione.
Nel caso in esame, la Corte confermava la decisione, assunta dal Governo inglese,
di estradare due detenuti negli Stati Uniti, sebbene nell’Ordinamento statunitense
fosse contemplata la possibilità che questi potessero essere sottoposti ad un ergastolo
senza possibilità di liberazione condizionale.40
I giudici di Strasburgo partivano dal domandarsi se sussistesse o meno il diritto a
non essere estradato in presenza di un rischio effettivo del detenuto di essere
sottoposto a trattamenti contrari all’art. 3 C.E.D.U.41
A tale interrogativo di fondo, la Corte rispondeva, sulla scorta delle argomentazioni
espresse nella sentenza Vinter, escludendo la sussistenza di una grave sproporzione
tra il fatto di reato commesso dai due condannati e la sanzione loro comminata ed
affermava l’inesistenza di una violazione dell’art. 3 C.E.D.U., poiché ai due
ricorrenti, a determinate condizioni, poteva essere concessa la grazia, in esecuzione
di una decisione discrezionale del Governatore dello Stato.42
A questo punto della nostra analisi, è necessario chiedersi: quale linea seguirebbe la
Corte EDU se chiamata a decidere sulla compatibilità tra la disciplina inerente
l’ergastolo ostativo e il divieto di cui all’art. 3 C.E.D.U., interpretato alla luce della
sua giurisprudenza?
A tale quesito, cercheremo di dare una qualche soluzione nel prosieguo.
5. Conclusioni: dal “Progetto Palazzo” ad una necessaria riforma della
disciplina dell’ergastolo “ostativo”.
Tornando, dunque, al nostro Ordinamento interno, anche alla luce della
giurisprudenza precedentemente esaminata, deve evidenziarsi che il meccanismo
previsto dall’art. 4bis ord. penit. sarebbe, de iure e de facto, incompatibile con
principi della Convenzione.
39 POWER-FORD A., Concurring opinion, in Corte Edu, Grande Camera, 9 luglio 2013,
Vinter e altri c. Regno Unito. 40 PARODI C., Ergastolo senza liberazione anticipata, estradizione e art. 3 CEDU, in
www.penalecontemporaneo.it, 3 novembre 2014. 41 D. FALCINELLI, L’umanesimo della pena dell’ergastolo Ideologia e tecnica del diritto
dell’uomo ad una pena proporzionalmente rieducativa, in www.federalismi.it, febbraio 2013. 42 PARODI C., Ergastolo senza possibilità di liberazione anticipata e art. 3 CEDU: meno
rigidi gli standard garantistici richiesti in caso di estradizione, in
www.penalcontemporaneo.it, 14 maggio 2012.
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Non deve, infatti, tralasciarsi che esso rimane un ergastolo privo di possibilità di
liberazione, indipendentemente dall’effettivo distacco dall’organizzazione criminale
di appartenenza.
La sentenza Vinter c. Regno Unito, per prima, ha sancito che ciascun Ordinamento
deve prevedere un meccanismo tale per cui ogni ergastolano possa conoscere in
qualsiasi momento quando e come richiedere la revisione della propria pena.
A ben vedere, il nostro sistema difetta di tale previsione, poiché poggia sulla
presunzione assoluta di collaborazione con la giustizia, che assicura l’accesso ai
benefici, escludendo da tale disciplina ogni pentimento o ravvedimento del
condannato, nonché ogni progresso conquistato con un percorso di recupero.
Le predette argomentazioni e la progressiva giurisprudenza della Corte di Strasburgo
inducevano, quindi, il Ministro della Giustizia italiano, nel 2013, a istituire una
commissione per elaborare proposte di interventi in tema di sistema sanzionatorio
penale, c.d. Commissione Palazzo, che concludeva i lavori relazionando sulla
modifica dell’art. 4bis ord. penit..
In particolare, il Progetto Palazzo tendeva alla revisione della preclusione assoluta
dell'accesso ai benefici penitenziari da parte dei soggetti autori di reati di cui all'art.
4bis, co. 1, ord. penit., per la sola mancata “collaborazione” ed era volto al
superamento del regime dell’ergastolo ostativo, nonché alla trasformazione
dell'attuale presunzione di non rieducatività, in assenza di collaborazione, da assoluta
in relativa. 43
Tale proposta, tuttavia, rimaneva priva di attuazione a causa delle dimissioni del
Governo, ma il suo contenuto e il fine a cui essa tendeva sono attualmente oggetto
di numerose istanze provenienti dalla dottrina e da una più lungimirante
giurisprudenza.
Una riforma costituzionalmente orientata dell’art. 4bis ord. pen. rappresenta, infatti,
un obiettivo irrinunciabile, tenendo bene a mente che la nuova via perseguibile non
comporterebbe la concessione della liberazione condizionale in virtù del tanto
criticato automatismo legislativo, ma ancorerebbe predetto beneficio al rispetto di
determinate condizioni.
L’ergastolano ostativo, quindi, potrebbe beneficiare della liberazione condizionale
solo se siano stati acquisiti elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con
la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e se, dopo aver scontato 26 anni
della pena, nel tempo di esecuzione di quest’ultima, abbia mostrato un
comportamento indicativo di un inequivocabile e sicuro ravvedimento.
Spinte riformistiche costanti arrivano dalla maggior parte della dottrina, che da
sempre propugna il rispetto della persona umana nell’esecuzione della pena, fine
primario e ineludibile della sanzione penale.
43 Cfr., Superamento dell'ergastolo ostativo: la proposta della commissione Palazzo:
proposta di modifica dell'art. 4bis, co. 1-bis, l. 26 luglio 1975, n. 354 e dell'art. 2, co. 1 d.l.
13 maggio 1991, n.152, conv. in l. 12 luglio 1991, n. 203, in www.penalecontemporaneo.it ,
19 febbraio 2014.
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Per contra, istanze opposte sembrano provenire dalla società civile, che vede
nell’istituto dell’ergastolo il mezzo unico e precipuo di punizione per gravi ed
efferati delitti, nell’ottica più ampia della certezza della pena.
Così operando, tuttavia, la sanzione finirebbe per coincidere meramente con le
funzioni retributiva e general preventiva, comprimendo quella rieducativa che, nel
nostro Ordinamento, rende ogni pena giusta, poiché conforme a Costituzione.
Soltanto perseguendo quest’ultima via, infatti, si realizzerebbe l’umanità di un diritto
penale che, davanti ai crimini più gravi, voglia differenziarsi, con vigore, dal suo
proprio oggetto. 44
44 PUGIOTTO A., op. cit.