engaku taino teisho dell'anno 2001 - zenshinji · 2016. 7. 5. · revisione testo: taino...

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Testo trascritto da Taino Correzioni Massimiliano TO (maggio 2015) Revisione testo: Taino ENGAKU TAINO TEISHO dell'anno 2001 Tempio buddista Zenshinji di Scaramuccia 1

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Page 1: ENGAKU TAINO TEISHO dell'anno 2001 - Zenshinji · 2016. 7. 5. · Revisione testo: Taino ENGAKU TAINO TEISHO dell'anno 2001 Tempio buddista Zenshinji di Scaramuccia 1. HEKIGANROKU

Testo trascritto da TainoCorrezioni Massimiliano TO (maggio 2015) Revisione testo: Taino

ENGAKU TAINO

TEISHO dell'anno 2001

Tempio buddista

Zenshinji

di Scaramuccia

1

Page 2: ENGAKU TAINO TEISHO dell'anno 2001 - Zenshinji · 2016. 7. 5. · Revisione testo: Taino ENGAKU TAINO TEISHO dell'anno 2001 Tempio buddista Zenshinji di Scaramuccia 1. HEKIGANROKU

HEKIGANROKU

33° caso: Il presidente dei ministri Ch’en vede Tzu Fu

SUGGERIMENTO DI ENGO

Non discrimina tra est e ovest, non distingue il sud dal nord, dalla mattina alla sera,dalla sera alla mattina; ma potete dire che è profondamente addormentato? A volte i suoiocchi sono come comete, ma potete dire che è del tutto sveglio? A volte chiama sud il nord;ma ditemi, è memore o immemore? E’ un uomo della Via o è un uomo comune? Se riuscite apassare da qui, per la prima volta conoscerete l’assoluto, e poi saprete in che modo gli antichierano o non erano così. Ma ditemi, che tempo è questo? Per controllare, cito questo. Guardate!

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Ch’en Ts’ao, presidente dei ministri, andò a trovare Tzu Fu. Quando Fu lo videarrivare, disegnò immediatamente un cerchio. (Questo è uno spirito che riconosce unospirito, un ladro che riconosce un ladro. Se non fosse rilassato e a suo agio, in che modopotrebbe distinguere quest’uomo? Ma tu vedi la gabbia adamantina?)

Ts’ao disse: “Arrivare in questo modo da parte mia è già perdere il puntoessenziale; e quanto più lo è continuare disegnando un cerchio!”. (Oggi ha incontratoun uomo profondamente addormentato. Questo vecchio ladro!) Allora Fu chiuse la portadella sua stanza.(Un ladro non irrompe nella casa di un uomo povero. È già entrato nellagabbia dell’altro)

Hsueh Tou (g.=Seccho) disse: “Ch’en Ts’ao ha solo un occhio”. (Hsueh Tou(g.=Seccho) ha un occhio sulla fronte. Ma dimmi, dov’è ciò che intende dire? Dovrebbe dargliun altro cerchio. Chiaramente. Ch’en Ts’ao ha la testa di drago, ma la coda da serpente; inquel momento avrebbe dovuto dare a Tzu Fu una spinta tale che lui non avrebbe avuto unaporta in cui avanzare, e nessuna strada su cui ritirarsi. Ma dimmi, quale altra pressioneavrebbe potuto esercitare su di lui?)

TEISHO

Qualche volta, quando leggo queste cose, ricordo un allievo di tanti anni fa che leggeva

Hekigan roku come se leggesse un libro giallo. Mi stupisco ancora che ne siano state stampate

migliaia di copie e siano state comprate, perché è come se si leggesse una lingua straniera che

non si capisce. Questi dialoghi, che poi ci si intromette Engo con i suoi commenti, e pure

Seccho dice la sua: <Ch’en Ts’ao ha solo un occhio>, sembrano discorsi fra matti, così i

koan sui quali ci esercitiamo tutti: non è possibile spiegarli. Come su un palcoscenico due

persone recitano la propria parte; uno è il presidente dei ministri, non si capisce bene di quale

governo, comunque mettiamo che sia una persona autorevole. Una volta incontrò Yun Men

(g=Unmon), e Yun Men lo ha maltrattato tanto che Ch’en Ts’ao si è inchinato e se n’è andato.

Con altri si poteva prendere delle libertà, probabilmente perché non avevano il livello di

Unmon. Tzu Fu era un successore della linea Kuei-Yang. Sono sul palcoscenico questi due, si

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incontrano ed è come su un ring di boxe oppure di sumo la lotta giapponese, e proprio domani

comincia il torneo di Tokyo. Le due persone si mettono uno di fronte all’altro con i pugni chiusi,

mettono a terra prima un pugno e poi l’altro sulla propria striscia, stando a gambe larghe, e

appena hanno tutti e due i pugni a terra, partono, si scontrano, 150 o 200 chili contro la stessa

massa, e in pochi secondi si risolve la questione. Qui siamo nella stessa situazione.

I maestri di quel tempo andavano in giro, ma cos'era che li muoveva da una parte

all’altra? Se uno è sicuro della propria realizzazione, che bisogno ha di andare a confrontarsi

con gli altri? Per quanto riguarda un incontro di kendo, di sumo, di tennis è certo che la propria

abilità si rivela solo dal confronto con gli altri per decidere chi è il più forte di tutti. Invece, per

l’illuminazione, come si fa a dire chi è più illuminato oppure che s'è fatto un satori migliore di

quello degli altri. Il satori è o non è, ed il confronto, mi azzardo a dire, avviene con l’assoluto.

Il momento in cui si comprende l’assoluto si è nell’illuminazione oltre cui non c’è altro,

non ci sono successivi gradini. Ce ne sono che dicono di essere al primo gradino

dell’illuminazione, fra poco s'arriverà al secondo per giungere infine al diploma. No, non è così!

Si capisce o non si capisce. Invece, per quanto riguarda il tennis, stasera c’è stato un incontro

molto intenso finito al terzo set al tie break. Chi ha vinto domani dovrà fare la finale, ma non è

che poiché ha vinto oggi, vincerà sempre: la vittoria di una partita a tennis non significa che

uno sia il migliore del mondo! Lo è per un momento! Poi dovrà fare un altro torneo e troverà,

prima o poi, qualcuno che lo batterà fino a che, arrivato ad una certa età, ci saranno quelli più

giovani che lo scalzeranno e dovrà ritirarsi.

Nell’illuminazione non è così ed è lecito chiedersi perché questi monaci andavano in giro

per la Cina a fare questa lotta. Forse per avere più discepoli, perché una volta dimostrato di

essere il più bravo di tutti il suo tempio si riempiva? Mangiava di più? Sentiva la sua vanità più

soddisfatta? Se lo vediamo in questo modo, si può dire che andavano in giro a perdere tempo.

Certo, il fatto che sia rimasta una registrazione dei loro incontri e siano diventati dei

koan è servito a qualche cosa. Intanto possiamo vederlo in questa maniera e poi, ammesso

che lo vogliamo, se questi, andavano in giro, vuol dire che si divertivano. Uno può chiedersi:

“Che va a fare la gente in Francia sapendo che a Mentone una frana incombe sull’autostrada e

non si può passare?”. Dice: “Ormai avevo deciso di andare, che potevo fare? Sì, sapevo che

c’era un po’ di fila, però pensavo di meno” Se a qualcuno gli va di stare 10 ore, magari

pensavano solo 5, in fila in autostrada che gli vuoi dire? Va bene, tutto fa parte di un modo di

essere e non possiamo essere noi di Scaramuccia, che scaliamo le montagne, azioni che più

superflue non ci sono, a poter giudicare la superfluità o la gratuità dei gesti degli altri. Ognuno

in fondo si muove e agisce come gli pare!

Torniamo a Engo, che dice una frase che poi ripete spesso, alla quale dobbiamo fare

bene attenzione. A parte la descrizione del praticante che non discriminando tra una cosa e

l’altra non si può ritenere stupido, oppure pur avendo <<A volte i suoi occhi come comete,>>

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non possiamo dire che sia <…del tutto sveglio> si chiede: <È un uomo della via o un uomo

comune?>. Questo è il punto: <Se riuscite a passare da qui, per la prima volta conoscerete

l’assoluto, e poi saprete in che modo gli antichi erano o non erano così>. I maestri usano

spesso dire: “Se comprendi questo capirai l’assoluto, per lo meno avrai un tipo di

illuminazione.” E poi, uno dovrebbe smettere? Dice: “Ho capito l’assoluto, ho fatto

l’illuminazione, adesso non c’è più niente da fare!”. Ha una sua giustezza, perché una volta

capito l’assoluto c’è un punto di riferimento certo che si stabilisce nel proprio cuore e fa avere

una fede inflessibile nella propria capacità di riandare nell’assoluto. Il satori però non è, l’ho

detto, che uno vince una partita di tennis e dice: “Sono il più forte del mondo!” No! Il satori fa

sapere di essere nell’assoluto ma quanto succede nel relativo va imparato giorno per giorno,

attraverso i koan e attraverso l’esperienza che la vita stessa pone di fronte. La comprensione e

soluzione dei koan dà agio di muoversi nel relativo in modo appropriato.

Nel CASO abbiamo Ch’en che incontra Fu. <Quando Fu lo vide arrivare, disegnò

immediatamente un cerchio>. Come lo disegna? Non credo che stesse sempre lì pronto con

la carta e con l’inchiostro in attesa che qualcuno arrivasse. Se si pensa a “Gutei che alzava il

dito”, il dito è attaccato alla mano e si può sempre alzarlo, ma l’inchiostro, il pennello e la carta

come fanno a esserci quando arriva qualcuno? Forse disegnava un cerchio nel cielo con la

mano oppure col ventaglio? Il cerchio è la dimostrazione dell’infinito. Infatti ha avuto uno

sviluppo successivo e tutti i maestri si sono sempre cimentati nel disegnare questo enso

(=cerchio). Sembra che i monaci giapponesi che andavano in Cina, non conoscendo la lingua

cinese, per dimostrare la loro comprensione, spesso, usavano scrivere e scrivevano soprattutto

un cerchio. E in questo modo Fu vuole dimostrare la propria comprensione. Ts’ao disse:

<Arrivare in questo modo da parte mia è già perdere il punto essenziale>. Perdere il

punto essenziale vuol dire che non c’è stato da parte di Fu la risposta che doveva esserci anzi,

questa risposta con il cerchio fa sì che il punto essenziale dell’incontro si perda ancora di più,

tanto che Fu chiude la porta e se ne va. Engo dice: <Oggi ha incontrato un uomo

profondamente addormentato. Questo vecchio ladro!>. Ancora prima Engo nel suo commento

aveva detto: <Se non fosse rilassato e a suo agio, in che modo potrebbe distinguere

quest’uomo? Ma tu vedi la gabbia adamantina?>. In cinese cerchio può significare, in qualche

caso, gabbia e qui c’è un gioco di parole fra la gabbia e il cerchio che è stato fatto. E ancora

Engo alla fine nel suo commento: <Un ladro non irrompe nella casa di un uomo povero. È già

entrato nella gabbia dell’altro> nel cerchio che Fu ha fatto. Fu ha disegnato un cerchio a

dimostrazione dell’Assoluto; Ch’en ci è entrato e lo ha scompigliato.

Seccho, il maestro che ha scelto i CASI, aggiunge: <Ch’en Ts’ao ha un solo

occhio>. Ha aperto, potremmo dire, il terzo occhio. <Seccho ha un occhio sulla fronte. Ma

dimmi, dov’è ciò che intende dire? Dovrebbe dargli un altro cerchio> commenta Engo. E poi:

<Quale altra pressione avrebbe potuto esercitare su di lui?>. Se si va a teatro o si guarda la

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televisione, il cinema o qualunque altro spettacolo, si dovrebbe evitare di immedesimarsi nei

personaggi. Ci sono, come nella vita, delle volte in cui ci si deve immedesimare con ciò che si

ha di fronte, e altre che invece si rimane come osservatori. Nel Hekigan roku, come in altre

raccolte, ci sono le rappresentazioni dei maestri del passato ed in alcuni episodi ci si

immedesima, si fanno propri, ci stimolano ad entrare completamente nell’assoluto, invece altri

episodi si osservano da distanti. In questo CASO due persone si incontrano e si dicono delle

parole per dimostrare all’altro di essere il migliore. Engo le commenta e Seccho ci aggiunge

qualcosa di suo. È una bella storiella, interessante. Tutto qua! E nello stesso tempo, dei

praticanti, devono vedere sempre, in ogni momento, la ricerca per entrare nell’assoluto.

Soltanto dall’assoluto si può decidere se essere spettatori distaccati o se essere

partecipanti della commedia o della tragedia che si sta svolgendo. Se non si ha questa capacità

si è come chi va in un paese straniero e non parla la lingua locale. Certo, si cammina e si

mangia come tutti gli altri, ma non si comunica, non ci si sente liberi di agire in maniera diretta

e rilassata come succede quando si è nel proprio paese. Insomma, entrare nell’assoluto

permette di parlare qualsiasi lingua, in qualsiasi paese ci si trovi, perché in qualsiasi situazione

si riesce a essere in sintonia.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Ogni tanto c'è qualche discepolo che chiede come si possa praticare senza

attaccamento. Per essere senza attaccamento si deve essere liberi dall’egoismo, dalla voglia di

fare qualche cosa, ma se c’è un io che vuole, come si fa a praticare in maniera giusta? La

domanda è giusta, ma nello stesso tempo blocca, fa restare legati al molo senza mai avere il

coraggio di uscire per mare: un giorno c’è da riverniciare la barca o c’è il vento che tira in

senso contrario, un altro giorno il mare è un po’ mosso o l’amico col quale si doveva andare

non è disponibile. Il fatto è che il nascere ha origine da un desiderio, qualcuno lo ha voluto. Il

momento in cui c’è già stato un inizio si continua a utilizzare la volontà, ovvero la spinta per

entrare in uno stato in cui si sia consapevoli di essere senza attaccamento. La pratica in

generale è proprio questa, poi all’interno della grande pratica che è la vita, ci sono le pratiche

specifiche e una è proprio il sedersi su un cuscino, osservare il proprio respiro per comprendere

che non sono io che decido di respirare, e nemmeno è il respiro che decide di respirare. Non

c’è un dio che ci fa respirare, ma le cose avvengono da sé, così e basta, senza voglia di

chiedere spiegazioni e senza che queste spiegazioni vengano date. La piccola pratica specifica

nell’interno della grande pratica generale, che è quella dell’esistenza, rende in grado di

applicarsi nello stesso modo alle altre specificità che formano tutto il quadro generale della

vita. Ecco allora che chi sa sedersi, sa camminare, sa zappare o spaccare la legna. Il resto

viene da sé, senza stare ogni momento a chiedersi quanto egoismo c’è in ogni azione, perché

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nella vita di relazione, come si fa a non metterci una parte di desiderio egoistico? Se stando

seduti in questa sala ho freddo, chi è che mi dice di avere freddo? È il mio corpo, la mia mente

oppure c’è un essere dall’esterno che mi dice: “Ti devi coprire perché sennò hai freddo!” Chi

sente freddo si copre, mica sta ad esaminare se questo viene da un desiderio egoistico o da

chissà quale altro desiderio. Invece quando non sente freddo si toglie qualche cosa. Attenti a

non fare confusione. Ci sono dei momenti in cui il desiderio, la voglia di ottenere è giusta e va

perseguita, altre volte in cui non ci si deve far prendere. Non bisogna stare a domandarsi

troppo e soprattutto si deve essere capaci di portare nel quotidiano quanto s'è appreso nella

pratica specifica di meditazione a gambe incrociate. Bisogna essere capaci di vivere tutte le

altre attività, come pratiche di meditazione, se non tutte almeno quelle che si ha voglia. Ci

saranno dei momenti in cui ci si lascia andare, avendo voglia di lasciarsi andare. Nei koan

risalta spesso l’umanità intrinseca alla nostra natura che induce a lasciarsi andare.

ESORTAZIONE FINALE

Chi ha visto la televisione ieri avrà sentito le innumerevoli volte in cui i telegiornali

hanno annunciato che stava chiudendo l’anno santo. Migliaia e migliaia di fedeli si sono

accalcati per passare sotto la porta santa e così ricevere le indulgenze che questo anno

speciale distribuisce loro senza rendersi conto che chiunque può alzarsi un mattino e decidere

che per lui questo è un anno santo. Dopo circa trenta anni di insegnamento ho compreso che

in Italia sarà difficile, se non impossibile, riuscire a far capire che la vita è adesso e non la

conseguenza degli atti che ci permettono di raggiungere gratificazioni. Purtroppo il tipo di

buddismo che si sta diffondendo, e che secondo l’insegnamento originale avrebbe dovuto

estirpare l’idea che compiendo certi atti uno possa meritarsi il paradiso, aggiunge soltanto

consistenza a questa idea. Si diffonde il buddismo della legge del karma e le rinascite a cui

tutti credono ciecamente, secondo la quale gli essere umani, compiendo certe azioni,

diventeranno più buoni, rinasceranno in condizioni migliori e così meriteranno di accedere al

nirvana, un nome diverso ma è sempre il paradiso. Probabilmente è insito nella natura umana

agire aspettandosi di raggiungere risultati, e da un certo punto di vista è giusto.

Senz’altro la maggior parte degli atti quotidiani si compiono perché portino a dei

risultati e se questo non avvenisse il mondo scoppierebbe. Chi guida l’autobus deve saperlo

fare, così chi guida l’aereo, chi si occupa di centrali elettriche e via dicendo, ma il punto

fondamentale, ciò che dà accesso alla verità, non è in questa dimensione. Non esiste il regno

dei cieli con le porte sante che uno si alza la mattina e le chiama sante come se nell’universo

esistesse qualche cosa che non sia santo, un solo granello di polvere che non sia santo, che

non sia l’assoluto che non sia Dio. Per entrare nel regno di Dio non c’è bisogno di alcuna

acquisizione o sacrificio, nessun martirio o pratica di meditazione, nemmeno superare i koan.

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Ogni millimetro quadrato, ogni atomo dell’universo è assoluto. Perciò va sradicata

completamente dalla mente l’idea che si debba fare qualche cosa per trovare l’assoluto. Il

momento in cui si realizza una fede incrollabile nell’assoluto che ogni essere è, nel Dio che

ciascuno di noi è, non che io sono Dio e gli altri non lo sono come stupidamente pensa o critica

chi non capisce, allora ogni atomo del mio corpo, come del corpo di tutti gli altri, è già di per sé

assoluto, è già di per sé Dio.

Lo sforzo che facciamo è il gioco della ricerca di Dio. Dire gioco può far pensare a

qualche cosa di fatuo. Si inventano le sesshin, le meditazioni, le recitazioni dei sutra e tutto il

resto per riuscirci. Il momento in cui si è consapevoli di questo, si è in grado di godersi il gioco

della vita. Così giocare non sarà il sacrificio che permette di accedere a qualche stato

superiore, ma il godersi la vita momento per momento, così com’è, perché così com’è,

momento per momento, è già l’assoluto ovvero il paradiso.

SESSHIN del 6/7 Gennaio 2001

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HEKIGANROKU

34° caso: Yang Shan chiede: “Da dove sei venuto?”

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Yang Shan chiese a un monaco: “Da dove sei venuto?”. (Tutti al mondo sonouguali. Ma è lo stesso necessario chiedere. [Il monaco] lo interpreterà inevitabilmente in unmodo normale)

Il monaco disse: “Dal monte Lu” (È difficile trovare un uomo veritiero)Yang Shan disse: “Hai visitato la Vetta dei Cinque Anziani?”. (Usa il vento per

soffiare sul fuoco. In che modo avrebbe mai potuto passare oltre?)Il monaco disse: “Non ci sono stato”. (Fa un passo. Un viso rosso non va bene

come un discorso onesto. Sembra non sapere cosa fare)Yang Shan disse: “Allora non hai visitato nemmeno la montagna”. (Troppa

fatica! Dovrebbe stare attento alle sua sopracciglia. Cos’è la fretta di quest’uomo?)(Più tardi) Yun Men disse: “Tutte queste parole furono dette per amore della

compassione; in questo modo fecero una conversazione nelle erbacce”. (La spada cheuccide gli uomini, la spada che dà agli uomini la vita. Due, tre. Se vuoi conoscere la strada dimontagna, devi essere l’uomo che viaggia su di essa)

TEISHO

Il koan termina citando i sentieri di montagna, nei quali dovremmo trovarci a nostro agio,

invece in questo caso la montagna non ha a che fare. La montagna è spesso presente nelle

storie dei maestri zen, proprio perché i luoghi in cui normalmente venivano costruiti i

monasteri erano in montagna. Tutti i monasteri del Giappone hanno un nome di montagna. A

Scaramuccia il maestro Mumon ha messo il nome Zenshinji che è appunto il tempio del

cuore dello zen, ma ha aggiunto Bukkosan. Così Scaramuccia si chiama montagna della

luce di Buddha. Bu vuol dire Buddha; ko luce e san montagna.

Perciò la montagna non è una invenzione di Scaramuccia anche se qualcuno ogni tanto

dice che Taino sta sempre a parlare di montagna: quando sono andato in Giappone si

arrampicavano da secoli prima di me. Il discorso, con le annotazioni di Engo, è un classico. Ce

ne sono molti in cui un monaco va da un maestro e chiacchierano del più e del meno. Qui a

Scaramuccia non succede che io tenda delle trappole come facevano i maestri cinesi di quel

tempo. Neppure in Giappone c’è questa abitudine. Ormai l'incontro che avveniva in Cina in quei

tempi si è formalizzato nella stanza di sanzen dove ogni parola detta ha il suo peso con un

significato specifico. A Scaramuccia, mentre si beve il tè, le chiacchiere sono un

intrattenimento, non come al tempo dei maestri cinesi quando ogni parola era importante.

Questo è un caso classico in cui c’è l’incontro fra un maestro e un monaco ed essi parlano

su livelli diversi. Ormai si dovrebbe sapere che cosa vuole un monaco che incontra un maestro

zen in Cina! Va a parlare di quanti chilometri ha fatto? di quanto costa il riso? dell’inflazione?

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delle stagioni che non sono più le stesse? del traffico o dei parcheggi? Queste sono le

discussioni da bar, magari viaggiando in treno se gli altri non sono occupati col cellulare o

mentre si fa la fila alla posta. Vanno bene per quei luoghi, ma non si andava da un maestro

cinese per queste chiacchiere! Il maestro è in contatto con l’assoluto il monaco si aspetta che

gli dia indicazioni per entrarci anche lui. Nel momento in cui, seduto nel suo posto accetta la

visita del monaco, il maestro parla da maestro.

Sta lì apposta per fare il maestro e agisce da assoluto. Tante volte ho detto che non si

può andare sempre in giro con l’abito del maestro, almeno per quanto riguarda Scaramuccia.

Invece Mumon, pure quando andava a fare il bagno faceva il maestro. Si spogliava tutto

nudo ed entrava nell’acqua calda; io gli lavavo la schiena e lui era sempre il maestro. Se noi

andiamo a farci il bagno alle terme siamo come degli amici che vanno lì non solo per fare il

bagno ma pure per scherzare.

Con Mumon le stupidaggini non si potevano dire mai! Se le avessi dette non so come

sarebbe andata a finire, però io non ci provavo. Il momento in cui il maestro siede sul suo

cuscino, sta facendo il Maestro e il monaco non può permettersi di parlarci come si parlerebbe

a quello che fa la fila alla posta. Engo nelle sue annotazioni lo fa rilevare. <Yang Shan

chiese: “Da dove sei venuto?”. “Dal monte Lu”>. Qui sentite com’è sottile Engo: <È

difficile trovare un uomo veritiero>. Certo, il monaco deve dire da dove viene, e se viene dal

monte Lu mica si può inventare che viene dal monte Solenne! Però c’è un modo zen di dirlo.

Quando si leggono questi dialoghi si dovrebbe avere vicino i Pellegrinaggi di Lin Chi.

Leggendo quelle pagine si può capire chiaramente lo scambio che avveniva quando, al posto

del monaco che abbiamo qui con Yang Shan, c’era un monaco come Lin Chi: le cose non erano

così lisce. Se il maestro chiede da dove sei venuto, possiamo immaginare che gli avrebbe

risposto: “Non sono venuto ma mi ci hanno mandato.” Oppure: “Non lo vedi da te?” Oppure lo

avrebbe preso per la collottola gridando: “Ma che stai a dire?” e lo avrebbe tirato giù dal

seggio.

Qui invece le cose vanno lisce e naturalmente questo fa dire alla fine a Unmon: <Tutte

queste parole furono dette per amore della compassione; in questo modo fecero una

conversazione nelle erbacce>. La conversazione nelle erbacce è il tipo di conversazione che

si può fare nel treno con chi apre il finestrino e l’altro dice di no. Uno chiede: “Si può fumare?”

“No! Perché il fumo fa venire il tumore e la gente non lo ha ancora capito. Gliel’ho detto a mio

figlio ma quello continua a fumare”. E così via. È una conversazione tra le erbacce e, per

compassione, Yang va avanti. <Da dove sei venuto?> <Dal monte Lu>.

Capito, riproviamo: < Hai visitato la Vetta dei Cinque Anziani?> <Non ci sono

stato>. Yang continua: <Allora non hai visitato nemmeno la montagna> e finisce così

perché non c’è due senza tre. Il dialogo riportato qui finisce ma forse Yang avrà pensato:

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“Questo è proprio di coccio!”. Engo nell’annotazione: <La spada che uccide gli uomini, la

spada che dà agli uomini la vita. Se vuoi conoscere la strada di montagna, devi essere l’uomo

che viaggia su di essa> vuole dire che se vuoi scambiare parole di assoluto devi essere

abituato a entrarci, altrimenti non si può parlare di aver scalato una cima senza esserci mai

stato. Così non ci si può addentrare nelle strade dell’assoluto senza mai averle percorse.

All’inizio dice: <Tutti al mondo sono uguali. Ma è lo stesso necessario chiedere. [Il

monaco] lo interpreterà inevitabilmente in un modo normale>. Il maestro che gli può

chiedere? La prima domanda che fanno è sempre: “Da dove sei venuto?” Me lo chiese Mumon:

“Da dove vieni?” Io, tonto o ingenuo come questo qua, risposi: “Da Roma” anzi ci tenevo pure!

Però se avessi risposto alla maniera di Lin Chi mi avrebbe detto: “Ma che sei matto!

Intanto rispondi in modo normale e dopo vedrai che ti raddrizzo in un altro modo. Bevi il tè e

comportati come tutti”. E in effetti tutti quelli che andavano a trovare Mumon parlavano del più

e del meno.

Entrando in questo koan è importante rendersi conto di come mettersi sul piano

dell’assoluto o sul piano del relativo. Se io avessi risposto in maniera strana a Mumon la prima

volta, a proposito del da dove ero venuto, quella sarebbe stata solo confusione. Perché in quel

caso mi sarei dovuto attenere all’etichetta, all’educazione del visitatore che risponde

pianamente. Invece se alla stessa domanda fatta nella stanza di sanzen gli avessi risposto:

“Vengo da Roma” mi avrebbe dato, giustamente, una bella bastonata.

Nella stanza in cui Mumon riceveva i visitatori, bisognava fare i visitatori mentre nella

stanza di sanzen bisognava fare i discepoli: fra visitatori e discepoli c’è una differenza

sostanziale. Nel mondo la confusione avviene, spesso, proprio per l’incapacità di comprendere

il luogo in cui ci si trova, l’abito che si indossa, il ruolo che si sta impersonando. Bisogna fare

molta attenzione. Non si può attraversare il mondo come una palla di fuoco che non si accorge

di quello che c’è intorno. Sapersi adeguare e, con le parole di Lin Chi, entrare e uscire dalle

situazioni in maniera appropriata, ovvero entrare e uscire dall’assoluto al relativo e dal relativo

all’assoluto. Non c’è altro da fare. Nella nostra scuola non si impara che questo: scoprire di

essere assoluto per vivere in modo impeccabile.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Recentemente ha telefonato un’amica di Kiyoka dal Giappone perché la figlia si sta per

sposare e le farebbe piacere ricevere un telegramma o un fax nell’albergo in cui farà il pranzo

di nozze. Naturalmente ha chiesto a Kiyoka notizie dei nostri figli, conosce Alvise che due anni

fa è andato a farle visita. Cosa fanno, se lavorano, se si sposano e Kiyoka trova sempre difficile

spiegare ai giapponesi, compreso il padre che di questi tempi telefona più di una volta l’anno,

che ancora vanno all’università. Oltretutto, data la sua venerabile età di 102 anni, ci sente

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poco. Kiyoka trova difficile spiegare ai giapponesi che i nostri figli pur avendo più di 22 anni

ancora non sono laureati. Siccome in Giappone contano l’età in base agli anni di studi, quando

uno chiede: “Quanti anni hai?”, se rispondi: “Sto al terzo anno di università” si capisce che hai

21 anni. Se dice : “Mi sono laureato quest’anno”, “Allora hai 22 anni”.

Nella società giapponese laurearsi in 4 anni è la norma e spiegare che i nostri figli pur

avendo superato i 22 anni non sono laureati è un po’ complicato. Qualche volta, proprio perché

risentiamo dell’influsso giapponese, pensiamo: “Sono forse più imbranati di altri? Perché i

giapponesi si laureano e i nostri no?”. Il discorso che voglio fare però non è sui figli, quanto

sulla comunità. In essa si stabiliscono, senza volerlo, delle graduatorie e un confronto con chi

ha raggiunto un certo obiettivo prima degli altri. La società tende a ingenerare un senso di

competizione e di frustrazione nei confronti di chi riesce a raggiungere un obiettivo, uno scopo,

una meta prima degli altri. In una società ristretta come Scaramuccia non si sta a misurare,

come può succedere in altri luoghi, chi indossa meno giacche di piuma quando fa freddo o chi

usa il cuscino più basso, chi sta nella posizione del loto o chi sta più fermo, chi si inchina

meglio o chi recita meglio i sutra. Queste piccolezze possono generare un po’ di competizione e

magari nel pensare a quelli che sono più avanti nella pratica dei koan, può far pensare che si

sia meno bravi, meno preparati, meno attenti, meno diligenti. Oppure può portare a dire: “Va

bene quello, o quella, è più avanti nei koan, però io sto seduto meglio”.

Tutto questo fa parte del nostro quotidiano, non si può sfuggire, però dei praticanti

devono starci attenti, osservando come ci si possa far prendere da questi giochi della mente e

nello stesso tempo riuscire a viversi la propria sesshin, la propria posizione, il proprio koan, il

proprio freddo e il proprio caldo. Qualunque cosa essa sia, prendere possesso di se stessi per

come si è. Io e Kiyoka possiamo far poco nei confronti dei figli, essi sono così come sono, sono

se stessi e la laurea è un affare loro.

Certo, quando il giapponese ci dice che il figlio si è laureato e ha già dei figli ci può far

pensare: “Ah! e i nostri?”, ma finisce subito. I nostri figli fanno la propria vita, fanno quello che

vogliono, sono sé stessi. Ognuno deve impadronirsi di se stesso, esserci. Il proprio koan è il

koan più importante del mondo, la propria posizione di zazen è quella che ognuno sa fare. E

così la capacità di resistere al freddo e al caldo è la nostra capacità che ognuno ha di resistere.

Nessuno qui chiede di andare in giro a piedi nudi, di stare con la sola canottiera, di

sedere nella posizione del loto e via dicendo. Se c’è da imparare qualcosa dagli altri, va bene,

ma non bisogna lasciarsi accalappiare da questi giochi della competizione. Quando poi ci sono

delle competizioni vere allora sì, bisogna metterci tutto per cercare di vincere.

Qui non ci sono premi, non c’è da lottare contro gli altri, non c’è da superare i propri

compagni di pratica. C’è da stare attenti a se stessi, ed è il massimo.

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ESORTAZIONE FINALE

Nel pomeriggio di ieri, cercando tra vecchie riviste e giornali ed altri scritti che non sono

stati pubblicati, per ricopiarli e trascriverli su dischetto, ho trovato cose che non ricordavo che

mi hanno dato il senso del passare del tempo. Scritti che appartengono ai primi anni ottanta,

forse prima. Uno tratta di un bivacco d’inverno dove considero che a 40 anni sto ancora a

soffrire il freddo, a dare coraggio agli allievi che hanno paura della neve che cade e temono di

non tornare a casa. Sono passati una ventina d’anni e ancora penso di andare a fare i bivacchi.

Vedendo Scaramuccia, ciò che si fa e che si dice, è sempre lo stesso, ma guardando

attentamente, pur essendo sempre tutto uguale, si vede che impercettibilmente si cambia.

Ovviamente il Sole che sorge e la pioggia che cade ci paiono immutati, ma gli esseri

umani non vengono misurati in milioni di anni, ma nei pochi anni dell’esistenza e in questo

breve arco di anni, pur continuando a fare i bivacchi, ci si accorge della differenza. Se a 40

anni pensavo di essere già vecchio, tanto più lo dovrei dire adesso. Invece c’è qualche cosa in

noi, la stessa che dice il Buddha al re Prasenajit, che apparentemente non cambia mai.

C’è un’apparenza, con la quale ci presentiamo nel mondo, che si carica di anni, fa

ingrigire i capelli e ci fa diventare più lenti e più deboli. E nello stesso tempo c’è una fiammella

dentro che continua a bruciare imperterrita e sembra che diventi sempre più luminosa. Le

azioni che compiamo a Scaramuccia, le nostre sesshin, sono sempre uguali non ci sono

differenze: si mangia nello stesso modo, si saluta nello stesso modo, si praticano le stesso

cose. Però tutto quello che si è fatto ha lavorato dentro e ognuno di noi, pur essendo sempre lo

stesso, nello stesso tempo si rinnova in continuazione.

SESSHIN del 2/3 Febbraio 2001

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HEKIGANROKU

35° caso: Il dialogo tra Manjusri e Wu Cho

SUGGERIMENTO DI ENGO

Determinare draghi e serpenti, distinguere gioielli e pietre, separare il profondo el’ingenuo, allontanare ogni incertezza: se non avete un occhio sulla fronte e un talismano sottoil gomito, molto spesso perderete immediatamente il punto essenziale. Proprio in questostesso momento la vista e l’udito non sono oscurati; il suono e la forma sono puri e reali.Ditemi, è nero? È bianco? È contorto? È diritto? A questo punto, in che modo faretediscriminazioni?

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Manjusri chiese a Wu Cho: “Da dove sei venuto?” (È necessario porre la domanda.C’è ancora questa novità.)

Wu Cho disse: “Dal sud”. (Solleva la testa dal suo nido tra le erbacce. Perchédovrebbe issarlo sulle sue sopracciglia? Non c’è nulla al di fuori della grande vastità. Perché c’èlo stesso un sud?)

Manjusri disse: “In che modo l’Insegnamento buddhista viene portato avanti asud?”. (Se avesse chiesto a qualcun altro sarebbe successo un disastro. Indugia ancore suisuoi denti e sulle sue labbra)

Wu Cho disse: “I monaci dell’Ultima Epoca hanno poco riguardo per le regoledella disciplina”.(È difficile trovare un uomo veritiero)

Manjusri disse: “Quanto sono numerose le confraternite?”. (In quel momento ioavrei immediatamente urlato. Lo fa cadere con un solo colpetto)

Wo Cho disse: “Alcune trecento, alcune cinquecento”. (Sono tutti spiriti di volpeselvaggia. Dopo tutto ha lasciato cadere)

Wu Cho chiese a Manjusri: “E come viene portato avanti da queste parti?”. (Haspinto! Dopo tutto agita la lancia e ritorna con essa)

Manjusri disse: “Gli uomini comuni e i saggi vivono insieme; i draghi e iserpenti si mescolano insieme”. (Ha subito una brutta sconfitta. Infatti i suoi piedi sonofrenetici e le sue mani confuse)

Wu Cho disse: “Quanto sono numerose le confraternite?”. (Ridammi le parole.Non può ancora essere lasciato andare)

Manjusri disse: “Davanti, tre a tre; dietro , tre a tre”. (Parole pazze, discorsimalati. Ma dimmi, quanti sono? Nemmeno il Grande Compassionevole dalle mille maniriuscirebbe a contarli)

TEISHO

Abbiamo addirittura un colloquio, naturalmente immaginario, tra Manjusri, il

bodhisattva della grande saggezza, e questo maestro Wu Cho. Manjusri è la statua che nei

monasteri Rinzai si trova nell’interno dello zendo. Nel monastero giapponese le sale sono

diverse, non è come qui che nello stesso posto facciamo tutto. Nello zendo giapponese si

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dorme e delle volte si mangia e si beve il tè, però, per il teisho, c’è la sala delle cerimonie,

hondo, e i pasti si consumano in un’altra sala. E ci sono tante altre sale. Comunque nello zendo

non ci sono statue, non ci sono immagini perché le pareti sono solo finestre e due porte e non

ci sarebbero posti dove appenderle.

C’è un piccolo altare di fronte al quale il jikijitzu fa sampai e l’incenso con i fiori e la

statua di Manjusri che sta con la spada in mano, a cavallo di una tigre. Perciò il bodhisattva

Manjusri è quello della grande saggezza, che con la sua spada taglia in due tutte le

discriminazioni. Cioè, le discriminazioni sono già due, una da una parte e una dall’altra,

Manjusri più che tagliarle risolve le discriminazioni. In questo koan la scena è molto

interessante, sia per il colloquio che c’è tra Manjusri e Wu Cho sia per i commenti, frase dopo

frase, di Engo con nessun rispetto nei confronti del grande bodhisattva del Mahayana. Già

nell’introduzione, il suggerimento di Engo è importante, in quanto dopo aver stabilito tutte le

condizioni nelle quali si accede attraverso la pratica alla risoluzione dei koan e all’illuminazione

a: <Determinare draghi e serpenti, distinguere gioielli e pietre,… allontanare ogni incertezza>,

chiede :< Proprio in questo stesso momento la vista e l’udito non sono oscurati; il suono e la

forma sono puri e reali. Ditemi, è nero? È bianco? È contorto? È diritto? A questo punto, in che

modo farete discriminazioni?>. Insomma il momento in cui ci sono da fare delle scelte,

l’illuminato, il realizzato, il risvegliato passato attraverso tutte le pratiche ascetiche, che cosa

fa? C’è un momento in cui, pur potendo contare sulla realizzazione, ci si deve mettere in gioco.

Entrare nella situazione e affrontarla. Inizialmente Manjusri fa le domande a Wu Cho e

poi è Wu Cho che fa le stesse domande a Manjusri. In fondo potrebbe bastare il primo

commento di Engo. Appena Manjusri chiede: <Da dove sei venuto?> Engo osserva: <È

necessario porre la domanda. C’è ancora questa novità>, è ancora al punto in cui, essendo

oltre le parole, perché entrati nella comprensione diretta si deve utilizzare il linguaggio

comune.

Quando ci sono persone che ripetono situazioni o hanno credenze ormai superate, viene

da dire: “Ma credi ancora alla Befana? o a Babbo Natale?”. Questo è quanto dice la gente

comune ma è come l’inizio di Engo. Manjusri è un bodhisattva, Wu Cho è un grande maestro e

si sente chiedere <Da dove sei venuto?>. Ma come!, i bodhisattva, sono degli esseri

superiori che dovrebbero vedere direttamente la realtà, ancora fanno chiacchiere come gli

uomini comuni? E già è una risposta a quanto Engo chiedeva prima: <Ditemi - una volta che

avete stabilito che avete la vista e l’udito, che sono chiari; - e il suono e la forma sono puri e

reali, è nero? È bianco? È contorto? È diritto?>, vuol dire che c’è ancora bisogno di utilizzare le

parole.

Non si può fare a meno di continuare a comportarsi da esseri umani e quando si

incontra un estraneo si chiede da dove viene, che cosa fa, quanti anni ha, che lavoro fa. Cioè

come Manjusri: <Da dove sei venuto?> <Dal sud> “Al sud che fate?”, ovviamente

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parleranno di buddismo, e Wu Cho dice: “Eh! di questi tempi!” come noi diciamo: “Eh! le

stagioni non sono più le stesse!”, oppure: “La religione! Non c’è nessuno che pratichi come si

praticava un tempo. I monaci dell’ultima epoca hanno poco riguardo per le regole della

disciplina”. Dov’è che non si dicono queste cose? “Eh! un tempo si studiava di più” dicono i

professori. Oppure quelli della FIAT: “Eh! gli operai di una volta, quelli sì che lavoravano zitti e

buoni!” e così via. Le parole usate nella Cina di mille anni fa, pur messe in bocca a Manjusri il

grande bodhisattva, sono le stesse usate nella nostra quotidianità. Manjusri disse: <Quanto

sono numerose le confraternite?> Wu Cho chiese a Manjusri: <E come viene portato

avanti [l’insegnamento] da queste parti?> <Quanto sono numerose le confraternite?

> e Manjusri dà delle risposte. È interessante il punto in cui dice: <Non c’è nulla al di fuori

della grande vastità; perché c’è lo stesso un sud?>.

Se tutto è assoluto e in esso si confonde ogni cosa, perché ancora parlano di sud e di

nord? È fra le domande che vengono fuori spesso: perché c’è il male e il bene, perché c’è chi

muore vecchio e chi muore giovane, perché ci sono tutte queste differenze? Se c’è un assoluto

e tutti siamo nella realizzazione, perché cercare la natura di buddha? Siamo già tutti realizzati!

Siamo già tutti buddha! Alla penultima frase, quando Wu Cho ripete la domanda fatta da

Manjusri: <Quanto sono numerose le confraternite?>, Engo commenta: <Ridammi le

parole. Non può essere ancora lasciato andare>.

C’è un ritorno della domanda, e così una ripetizione perché si rimetta in pari, e in fine:

<Parole pazze, discorsi malati. Ma dimmi, quanti sono?>. Soprattutto questa espressione:

<Parole pazze. Discorsi malati>. È ovvio che le frasi che si scambiano questi due possano far

pensare che siano un po’ pazzi, ma ragionando così, di tutti i koan che si incontrano nella

nostra pratica, se ne salverebbero pochi. Nello stesso tempo, il momento in cui si entra nei

koan si comprende che con le parole si può fare quello che si vuole. Certo, sono pazze, ma

possono essere ugualmente sane, dipende solo dal modo in cui vengono usate. Questo è un

koan, così come tutti gli altri, sebbene ciascuno in maniera diversa, che riporta al nostro vivere

umano.

Engo chiede all’inizio: <A questo punto, in che modo farete discriminazioni?>. Insomma

come si stabilisce se questo è nero o bianco, è contorto o diritto? Perché si può stabilire solo

dipendentemente da dove lo si vede o da come lo si vede. Nel momento in cui si entra nel

relativo, la risposta non può essere univoca, dipende dal punto in cui si è se ciò che si osserva

è di un certo colore o di una certa grandezza, di una certa inclinazione o di una certa

esposizione. Il koan ci riporta alla nostra umanità e cioè alla prima frase di Engo appena

Manjusri chiede a Wu Cho da dove viene. <È necessario porre la domanda. C’è ancora questa

novità>. Per quanto si possa andare avanti nel sentiero della realizzazione, per quanto si possa

essere bodhisattva della più alta classe è ancora necessario porre delle domande. Per cui,

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quando si torna nella vita di tutti i giorni, non si può dire agli altri: “Che vuoi? Io ho fatto la

sesshin, io sono un buddista, un monaco, un maestro di zen, ho fatto il satori, l’illuminazione!”.

Agli altri non interessa. Se uno ti chiede da dove vieni, gli devi rispondere: “vengo da

Roma, da Torino, dall’Italia, abito in questa via, faccio questo lavoro,”, come tutti. Non bisogna

dimenticarlo, pur se certe volte, la spinta alle pratiche ascetiche viene dal desiderio di

diventare eterei come gli spiriti, intoccabili da tutte le domande che possano venire

dall’esistenza.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

È stato detto tante volte che sesshin è strofinarsi gli uni agli altri per lucidarsi. Passando

avanti ad ognuno di voi mentre sedete sul vostro cuscino, ho pensato alle volte in cui ci si

incontra a sciare o a camminare, oppure quando si è insieme a mangiare e a ridere. In ognuna

di queste situazioni si è sempre diversi. Non si può essere seduti immobili mentre si mangia o

si scivola sugli sci, quando si arrampica o si fa il taici. Quando passo davanti a chi è seduto in

zazen, osservo che il corpo sia nella sua posizione migliore. Invece se devo comunicare, come

comunico con chi mi sta seduto di fronte qui o a sanzen, oppure scivola sulla neve, devo

andare a vedere nella pancia, per poter comunicare. Infatti posso comunicare se non sono un

io separato che gira con il bastone ma la figura che esce dallo specchio nel quale, chi mi sta di

fronte, sta guardando. In questo strofinamento lo specchio riesce a riprodurre una o centinaia

di volte la figura che ha di fronte, perché la figura, che viene fuori dallo specchio, siamo noi

che ci guardiamo dentro. Può sembrare strano dire che seduti o mangiando, camminando o in

qualunque altro modo, dobbiamo metterci nella pancia.

Certo, stando in zazen è l’unico sforzo che tocca fare, ma appunto perché questo zendo

è il luogo dell’ascesi si deve essere capaci di portarcelo fuori sempre. Se si esce da qui

riuscendo a stare nella pancia, si potrà essere nella pancia di tutti quelli che si incontrano. È

questa la condizione in cui gli altri hanno una possibilità di comunicare con noi, se ne sono

capaci. Allora, ripetendolo ancora, si comprende il maestro Linci che invita ad entrare in

qualunque situazione liberamente.

ESORTAZIONE FINALE

Le ore e ore che da ragazzo lavoravo nel bar di via Veneto, mi permettevano di osservare

i clienti che sedevano ai tavoli del bar. Così le ore che passo nella stanza di sanzen, oltre che

assolvere al compito per il quale sto la dentro, mi fanno osservare la differenza esteriore di

comportamento di chi entra: chi arriva veloce e chi lento, chi si inchina in un modo e chi in un

altro, chi parla in un modo e chi in un altro. Sono tutti diversi eppure a ognuno è stato detto

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nello stesso modo, di tanto in tanto ripetuto, come si entra e come si saluta. Negli

insegnamenti che si trasmettono attraverso formule matematiche non vi sono deviazioni, non

permettono personalismi. Invece, per l’arte di vivere, ognuno, proprio perché è artista, si

esprime a modo suo. Così l’insegnamento di questa scuola, alle altre scuole ci penseranno altri,

si diffonde e ognuno entra nel mondo, maestro di sé stesso e a sua volta maestro di altri.

Potrebbe sembrare che ne venga una grande confusione, come quando ci si mette in

circolo e si dice una parola all’orecchio del vicino, e quello al vicino e quando quella parola

ritorna da noi è completamente trasformata. Se noi fossimo attaccati all’esteriorità

dell’insegnamento, ci sarebbe da preoccuparsi, ma la sostanza dell’insegnamento non è il come

si cammina e nemmeno come si risponde al koan e come si recitano i sutra: l’insegnamento è

vivere e basta. È capire che tutto sta nel vivere e che l’arte di vivere è proprio esattamente

vivere. Si potrebbe pensare che non ci sia bisogno di venire in luoghi come questo per

impararlo, ma non è così, perché le cose più semplici sono quelle che obbligano a percorsi

tortuosi per poterle capire. Saltare questa tortuosità, per arrivare direttamente al fine che ci si

propone, non è detto che porti a raggiungerlo. Come non è detto che la velocità sia sempre il

modo migliore per arrivare prima dove vogliamo arrivare, oppure soltanto per arrivare dove si

vuole arrivare, senza prima o dopo. Praticare e basta. A un certo punto si scopre, perché lo si è

già, di essere degli artisti che in ogni momento partecipano alla creazione dell’opera che è,

appunto, la vita.

SESSHIN del 3/ 4 Marzo 2001

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HEKIGANROKU

36° caso: Ch’ang Sha passeggia sulle montagne

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Un giorno Ch’ang sha andò a passeggiare sulle montagne. Al suo ritorno ,quando arrivò al cancello, (Oggi, una giornata. È solo caduto nelle erbacce; all’inizio stavacadendo nelle erbacce; poi stava ancora cadendo nelle erbacce) il capo dei monaci glichiese: “Da dove venite maestro?”. (Vuole ancora mettere alla prova questo vecchio. Lafreccia è volata oltre la Corea).

Sha disse: “Da una passeggiata in montagna”. (Non cadere nelle erbacce. Hasofferto una grossa perdita. Un uomo nelle erbacce).

Il capo dei monaci chiese: “Dove siete andato?”. (Un colpo. Se fosse andato daqualche parte, non avrebbe potuto evitare di cadere nelle erbacce. Si trascinano l’un l’altro inuna voragine di fuoco).

Sha disse: “Prima sono andato in cerca di erbe fragranti; poi sono tornatoseguendo i fiori che cadevano”. (Ha lasciato scivolare un bel po’. Sin dall’inizio non ha fattoaltro che sedere in una foresta di rovi).

Il capo dei monaci disse: “Come somiglia al senso della primavera!”. (Vieneseguendo la scia, aggiungendo errore su errore; una mano solleva, una mano abbassa.)

Sha disse: “Sorpassa anche la rugiada d’autunno che gocciola dai fiori di loto”.(Aggiunge fango alla sporcizia. La prima freccia ha colpito in superficie; la seconda è entrata inprofondità. Come finirà mai?).

Hsueh Tou (g.=Seccho) aggiunse l’osservazione: “Grazie per la vostra risposta”.(Un gruppo di uomini che gioca con una palla di fango. Tutti e tre hanno i loro reati elencatisullo stesso capo d’accusa).

TEISHO

Se si desse per scontato tutto quanto, i libri non si scriverebbero e perciò

accontentiamoci di questo fatto. Il capo dei monaci chiese: “Dove siete andato?” e il

maestro rispose: <Prima sono andato in cerca di erbe fragranti; poi sono tornato

seguendo i fiori che cadevano>. Allora <il capo dei monaci disse: “Come somiglia al

senso della primavera!> È primavera! Il capo dei monaci pensa “Oh! Come parla bene dei

fiori il maestro!” e di cos’altro dovrebbe parlare! Lo hai interrogato, ha visto i fiori, ti parla dei

fiori. <Sha disse: “Sorpassa anche la rugiada d’autunno che gocciola dai fiori di

loto”>. Che cos’è tutto questo parlare? La quotidianità delle nostre giornate è tutto qui. Uno

va a scalare in montagna e poi torna a casa. La moglie o il marito, la madre o il figlio chiede:

“Dove sei stato?” Ma come, lo sapevano! Erano tre giorni che diceva: “Dopodomani vado

al Gran Sasso; domani vado al Gran Sasso”, lo sapevano però chiedono lo stesso: “Dove sei

stato?” “Sono stato al Gran Sasso.” “Ah! E che hai fatto?” “Siamo andati in cima e siamo scesi

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per la via normale dove c'era un po’ di neve.” “Ah, che bello! È proprio un viaggio in mezzo alla

natura!”. E che altro dovrebbe essere? Uno va in cima alla montagna, scende giù per un canale

di neve in mezzo alle rocce, certo che è un viaggio in mezzo alla natura!

Però che altro può chiedere il figlio o la moglie o il marito che sia? Di cos’altro possiamo

parlare? Un cantante di tanti anni fa che ancora scrive delle canzoni, diceva: “Sassi che il mare

ha consumato, sono le mie parole d'amore…”. Io non so da quando ha cominciato ha parlare

l’uomo primitivo, eppure quali altre parole si potrebbero usare? Sono sempre le stesse! I fiori e

le montagne sono sempre quelle: quando è freddo abbiamo freddo tutti, quando è caldo

abbiamo caldo tutti.

E allora? Alcuni cercano percorsi alternativi e particolari provando a passare in luoghi in

cui non sono passati altri, perché mica può dire, secondo certi, che è stato in un posto dove ci

sono stati pure altri. Qualcuno deve dire che è passato in un posto particolare, ha visto certi

fiori solo lui, ha attraversato torrenti che più blu di quelli non ci sono, è arrivato in cima a delle

montagne dove altri non ci andrebbero mai. È sceso per pareti che soltanto lui, con manovre

acrobatiche, è riuscito a superare.

A parte i fissati che devono fare qualche cosa di diverso dagli altri affinché la loro

esistenza abbia senso, noi sappiamo che il senso è nel fare quello che c’è da fare, che capita di

fare, o che si ha voglia di fare. Facendolo nel modo che chiamiamo zen, ovvero come si deve,

da buddisti che significa da risvegliati. Perciò è inutile inventarsi nuove parole, nuovi percorsi,

nuovi fiori. Basta quel che c’è da fare tutti i giorni e farlo da buddha, da esseri illuminati quali

tutti quanti noi siamo, scoprendo nelle cose di tutti i giorni la propria qualità di buddha che

viene fuori comunque pure nelle sciocchezze. In fondo che ha fatto questo maestro? È andato

nella collina dietro il monastero, ha seguito le erbe fragranti ed è tornato seguendo i fiori che

cadevano.

Che c’è di speciale? Basta uscire da qua e seguire il sentiero che arriva alla casetta nel

bosco, e poi ritornarne passando sotto la vigna. Se chiedono: “Dove sei stato?” “Ho seguito i

pali della vigna e poi i cipressi che abbiamo piantato venti anni fa. È meraviglioso!”. Chi fa il

giro del mondo in barca a vela da solo, non fa niente di più! Certamente soddisferà il proprio

senso di potenza, perché ci sono persone che hanno bisogno di avere più emozioni di chi si

accontenta di andare da qui fino alla casetta. Non è che chi va fino alla casetta sia migliore di

quello che va in giro per il mondo o il contrario. Voglio dire che lo sforzo vero da fare è

comprendere la propria realtà, altrimenti, che si vada a piedi fino alla casetta o in giro per il

mondo in barca a vela, si sarà soltanto dei fantasmi.

A qualcuno potrebbe piacere fare il fantasma, va bene. Certo, se ciascuno comprendesse

quanto c’è da comprendere e poi gli andasse di fare il fantasma potrebbe farlo a suo

piacimento. Il praticante di Scaramuccia prova a godersi l'esistenza istante per istante, così

come se la godeva il maestro cinese di tanti anni fa.

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ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Quando alla fine di sanzen ho guardato l’orologio e ho visto che ero stato dentro un’ora,

ho pensato che neanche a Mumon toccava di starci tanto. Le nostre sesshin sembra che siano

diventate più che momenti di meditazione, momenti di sanzen. Non che sia criticabile, è una

constatazione, infatti quasi tutti i partecipanti praticano il koan e ovviamente vogliono risolvere

il problema sul quale lavorano. Quei pochi momenti di sola meditazione che rimangono, ma

non sono poi così pochi, in quanto sono io a fare un’ora a sanzen, voi ci venite per i pochi

minuti che vi toccano nell’arco dei quattro sanzen della sesshin, dovrebbero essere di

attenzione al koan e di presenza mentale.

Attenzione al koan sicuramente, perché già fra mezzora bisognerà rientrare nella

stanzetta e dare la propria risposta, però bisogna saper stare con se stessi. È un’abitudine da

riportare a casa e mantenerla, non perché si debbano fare ore di meditazione nelle proprie

stanze ma per portare questa completezza in qualunque momento della giornata. La sesshin va

spesa tutta quando si è qua, ognuno secondo le proprie possibilità e la propria determinazione.

Solo non deve rimanere un fatto isolato di una volta al mese nell’attesa di ritornare il mese

successivo o chissà quando.

Si dovrebbe riuscire ad avere magari soltanto per dieci secondi o per un minuto, tutti i

giorni, la consapevolezza del proprio stato per abituarsi a portarlo con sé in ogni momento.

Cioè non essere chi stando seduto cerca dentro di sé, ma essere uno con la cosa che si

cerca in sé. Insomma riuscire a coltivare la capacità di essere uno nelle varie situazioni che le

giornate dell’esistenza presentano continuamente, senza cercare qualcosa di eccezionale per

esserci completamente in maniera consapevole. Certo sanzen è importante, e una volta iniziato

un percorso viverlo sapendo che una volta partiti si arriva in cima alle montagne più difficili.

Come è avvenuto ad altri, tutti possono riuscire a superare i koan della nostra scuola, ma

senza renderlo però un esamificio, come in alcuni casi sono le scuole. Ci deve essere il gusto di

starci, il gusto di superare i koan e nello stesso tempo il gusto di star seduti, il gusto di stare

con gli altri e il gusto di portarsi a casa qualcosa che serva poi tutti i giorni.

ESORTAZIONE FINALE

La settimana scorsa al teatro di Orvieto si è esibita una compagnia di flamenco con il

primo ballerino molto bravo e famoso. Lo spettacolo emana una specie di magia e si vorrebbe,

in quel caso come in altri, andare a conoscere personalmente un artista così meraviglioso.

Quando mi è capitato, nel passato, di entrare in contatto con persone che sulla scena

erano degli dei, ho potuto constatare con delusione come, fuori della scena, fossero poca cosa,

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quasi che consumassero tutta la propria energia nel momento della prestazione. Ognuno di

noi, a modo suo, deve stare sulla scena del mondo, qualcuno più esposto degli altri, ma a

differenza degli artisti, si dovrebbe presentare sempre con la stessa capacità, con la stessa

arte perché dovrebbe maturare l’arte di vivere nel mondo.

La capacità cioè di passare da una posizione di esposizione, quella in cui si è sulla

cattedra o sul palcoscenico, a quella in cui ci si ritrova con familiarità con gli altri. Passare dagli

applausi del palcoscenico alla vicinanza della normalità. Perché ogni momento richiede che si

sia capaci di vivere consapevolmente qualunque situazione in maniera appropriata. Purtroppo è

molto difficile che persone abituate ad essere sulla ribalta o sulla cattedra, riescano ad essere

sempre così artiste nella vita di tutti i giorni. Non ci si può aspettare qualcosa o rimanere

delusi. L’importante è essere capaci di esporsi e, nello stesso tempo, di sapersi confondere tra

gli altri.

SESSHIN del 14/15 Aprile 2001

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HEKIGANROKU

37° caso: P’an Shan dice: “Non c’è nulla nel mondo”

SUGGERIMENTO DI ENGO

È uno sforzo inutile indugiare col pensiero sull’azione di un lampo di luce: quando ilsuono del tuono riempie il cielo, difficilmente avrete il tempo per coprirvi le orecchie.

Dispiegare la bandiera rossa della vittoria sulla vostra testa, brandire le spade gemelledietro le vostre orecchie: se non fosse per un occhio discriminante e per una mano familiare,come si potrebbe riuscire? C’è qualcuno che abbassa la testa e indugia nel pensiero, cercandodi capirlo con l’intelletto. Non si rende conto di vedere innumerevoli fantasmi di fronte al suoteschio. Adesso ditemi: senza cadere nell’intelletto, senza esser presi nel guadagno o nellaperdita, quando all’improvviso c’è una dimostrazione tale da risvegliarvi, come risponderete? Per controllare, cito questo affinché vediate.

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

P’an shan pronunciò le parole che dicevano: “Non c’è nulla nel triplice mondo;(Una volta che la freccia ha lasciato la corda dell’arco, non ha il potere di tornare indietro. Laluna risplende e rischiara, rivelando il viaggiatore nella notte. Ha colpito nel segno. Chiconosce la legge la teme. Avrebbero dovuto colpirlo prima che finisse di parlare) dove puòessere trovata la mente? (È meglio non ingannare la gente! Non vale la pena di richiamarel’attenzione su questo. Colpendo immediatamente, io direi: “Cos’è?”).

TEISHO

Se si ripensa ad alcuni episodi della propria esistenza, capita di dover rimpiangere

l’incapacità di non aver saputo rispondere adeguatamente con le parole o uno sguardo, con un

gesto, un dono, oppure il silenzio. Constatare insomma di avere perso l’immediatezza che

richiedeva la situazione nella quale ci si è trovati. Dopo, accortisi della propria inadeguatezza

s’è cercato di riparare, ma si rimane come dice Engo: <Una volta che la freccia ha lasciato la

corda dell’arco, non ha il potere di tornare indietro>. Ci sono persone che riflettendo sul

passato avvelenano la propria vita e si sfogano per mezzo di libri, film o altro. Oppure si

consolano o si fanno aiutare da qualcuno al quale piangere addosso.

Invece basterebbe esserne consapevoli, non sempre si può essere pronti e l'esistenza è

piena di queste inadeguatezze, delle nostre debolezze, altrimenti non ci si ammalerebbe mai, si

sarebbe sempre in forma, senza sbagliare una curva in automobile o in bicicletta. Si

diventerebbe perfetti, come desiderano diventare quelli che si avvicinano alle pratiche di

meditazione. Perché molti pensano che la meditazione e poi l’illuminazione, permetta il

raggiungimento della perfezione. Ogni tanto viene fuori qualcuno, nel passato, come nel

mondo contemporaneo, che si presenta come perfetto, come chi ha ricevuto una grazia

speciale dallo spirito santo. Alcuni si limitano a farlo in famiglia o al bar. La comprensione dello

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zen è altro, e la osservazione minuziosa dei koan, permette di vedere degli esseri umani che si

muovono in modo appropriato nel relativo, sapendo che gli errori, le incertezze, le

incomprensioni e le inadeguatezze fanno parte del mondo. Altrimenti, ripeto ancora, non si

sarebbe nati, rimanendosene nel mondo degli dei, dove tutti sono perfetti. Il mondo degli

esseri umani, non degli animali e delle piante, che hanno già una loro perfezione, per non

parlare dei minerali che penso siano perfettissimi, è stato fatto, come dice Trilussa in una sua

poesia, con la mollaccia, con il fango. È indispensabile che di ciò vi sia una realizzazione, una

presa di coscienza profonda.

Non come chi legge la poesia di Trilussa e dice: “Ah! Interessante! Hai visto? In effetti è

così.” No! Noi seguiamo una pratica che permette una comprensione reale sia della propria

inadeguatezza come della nostra capacità di essere perfetti. Il momento in cui ci si annulla

completamente, in quel momento si è perfetti: essere nessuno è essere perfetti. Entrando nel

relativo si ritorna ad essere qualcuno, chi è basso e chi è alto, bello o brutto, stupido o

intelligente, ricco o povero, di un colore o di un altro, del sud o del nord. La comprensione di

ciò, di essere diversi pur assoluto, è fondamentale.

<P’an Shan pronunciò le parole che dicevano: “Non c’è nulla nel triplice mondo;

dove può essere trovata la mente?>. È un koan molto breve. Se non c’è alcunché dove può

essere trovato qualcosa? Se il Buddha chiede a Subhuti di realizzare una mente che non abbia

alcunché a cui attaccarsi è ovvio che P’an Shan chieda dove possa essere trovata, ammesso

che non ci sia nulla nel triplice mondo. Questo koan è il numero 37.

Per molti di voi la pratica è alquanto avanzata e abbiamo già avuto delle domande simili.

Hakuin chiede qual è il suono di una mano sola, ovvero una mano che si muove nel vuoto

quale suono può fare? Dove si può trovare una mente se non c’è alcunché, se non esiste nulla

nel triplice mondo? A Hui Neng che chiede di mostrare il vero volto prima che nascessero i

genitori, che gli si presenta? Come definire l’indefinibile? Con le parole è possibile? Con un

gesto? Con uno sguardo? Con un grido? I maestri, e voi lo avete potuto sperimentare in molte

occasioni, dicono che si può.

Di fronte ad una domanda di assoluto si può rispondere soltanto con l’assoluto e cioè

diventando nessuno, diventando vuoto. Soltanto in quel momento si può dare una risposta

giusta. A differenza di quanto succede nella vita di relazione, il confronto con il koan pretende

che ci sia, magari solo per un secondo, una espressione di assoluto, altrimenti, come dice Engo

all’inizio nel suo suggerimento, si sta facendo <uno sforzo inutile> indugiando <col pensiero

sull’azione di un lampo di luce>. <C’è qualcuno che abbassa la testa e indugia nel pensiero,

cercando di capirlo con l’intelletto. Non si rende conto di vedere innumerevoli fantasmi di

fronte al suo teschio>. Nel rapportarsi con i compagni e colleghi, con i familiari e gli

sconosciuti, ci sono momenti in cui si deve essere capaci di rispondere, altrimenti ci si pentirà

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che la freccia sia ormai partita senza la possibilità di ritorno. Si dovrebbe saper rispondere, alle

domande profonde, con profondità e nello stesso tempo sapersi accontentare.

Non è possibile saper dare la risposta giusta ogni volta che si va a sanzen! Bisogna

riconoscere l’incapacità di saper dare risposte giuste ad ogni situazione. Saper morire

all’orgoglio che fa talvolta pentire di non essere stati capaci di far ritornare la freccia nell’arco.

Soltanto questo! Il lavoro di questa scuola consiste nel saper riconoscere, sia pure per un

centesimo di secondo, l’assoluto che ognuno di noi è. Il roshi che verrà a trovarci questa sera,

è maestro e direttore del monastero Soghenji, dove è vissuto il patriarca Tekisui. Così come

Tekisui, che vuol dire una goccia di acqua, è riuscito a non consumare la sua goccia d’acqua di

insegnamento, a noi basterà un istante di assoluto per renderci capaci di attraversare la nostra

esistenza a testa alta fino al giorno in cui sarà il momento di uscirne.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Adesso che abbiamo il tosaerba i prati li falciamo con più facilità, o con meno fatica, ma

l’erba cresce ogni settimana. Così nei rapporti con la società, con i familiari o con gli animali, è

comodo pensare che fare o dire una cosa una volta ogni tanto sia sufficiente, non ci sia

bisogno di doverla ripetere. L’erba bisogna tagliarla ogni anno sempre più spesso, tagliare e

tagliare. I gatti se non gli si dà il cibo due volte al giorno, stanno fuori della porta fino che non

mangiano. Sembrerebbe che quando uno dice “buongiorno” alle persone con le quali vive,

dovrebbe bastare per una settimana, tanto l’ho detto ieri.

Ci si affida a un maestro, a un politico o a qualunque altra guida pensando che ci penserà

lui/lei, io non me ne devo occupare più. Invece, così come l’erba che continua a crescere e va

sempre tagliata, dobbiamo ripeterci in continuazione. Quando mettemmo la caldaia nel camino

di casa, che riscalda poco, l’idraulico disse che non serviva molto, non essendo come con la

nafta o il gas che una volta acceso va sempre, ogni dieci minuti bisogna mettere la legna.

La nostra esistenza è proprio così: ogni dieci minuti bisogna mettere la legna. Le cose

non sono dette o fatte una volta per sempre; si taglia l’erba ma non si può dire che fino al

prossimo anno non ci si pensa più. Non è così, si deve continuare a mettere la benzina nella

macchina e alimentare il fuoco del camino. A queste azioni si fa l’abitudine. Mettere la benzina

è un gesto più o meno quotidiano. Invece, ricordarsi che si vive con una persona vicino,

ricordarsi dei figli, dei genitori o degli amici, non è che uno dice: “Gli ho già detto che gli voglio

bene, quante volte lo devo ripetere!”. Tutto va continuamente ripetuto. Così è per la pratica:

“Ormai ho passato un koan e ho risolto un problema, posso fare due mesi di riposo e poi

vedremo il prossimo!”. Certo, ognuno si regola come gli pare, ma se si sta attenti alla dieta,

agli allenamenti sportivi, a seguire le musiche e i film e tutto ciò che riguarda personalmente,

ancora di più si deve stare attenti a chi ci sta intorno. Proprio questa è la pratica. Kosen Daito

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Kokushi dice: “Attenzione! Attenzione!”. Sembra strano! Dice: “Lo so che devo stare attento!”

e poi via, lo si mette da parte. Attenzione, attenzione significa che si deve stare attenti ogni

momento. Non è che: “Va bene, adesso me l’hai detto, me lo scrivo e così non me ne

dimentico”. Non è così! Essere attenti significa vedere l’erba che cresce, le persone che ci sono

vicine, i gatti che vogliono mangiare e la macchina che segna riserva.

Tanto più nei confronti delle persone, così come degli animali e le piante. Se si viene qui

una volta al mese o due mesi o tre mesi, significa che c’è attenzione, si ricorda di una data

scritta sul calendario. Il pensarci richiama l’attenzione sul venire e sul fatto di esserci. Andare

per fare che? Come mi preparo per andare? E adesso che sto a fare? Uno viene alla sesshin e

non può dire: “Va bene, fra un mese ci ripenso”.

Non è che uno taglia l’erba e poi dice: “La primavera prossima la ritaglierò”. L’erba cresce

ogni momento! Domattina quando passiamo sul prato, quella è cresciuta di un centimetro e fra

una settimana bisognerà ritagliarla. Così è per la nostra esistenza. Non c’è, come crede

qualcuno, il momento in cui fatta l’illuminazione, si aspetta che tutto vada avanti da sé. Se si

spinge una carretta bisogna continuare a spingerla.

ESORTAZIONE FINALE

Nella lettera scritta da un allievo qualche giorno fa, che pubblicherò in parte sul prossimo

notiziario, a proposito dei gatti che sono sul prato davanti casa che vengono e vanno a loro

piacimento, dice: “Probabilmente anch’io sono un gatto perché vengo per certi periodi e

improvvisamente sparisco. Quando ritorno ci si saluta, o almeno sono accolto come se ci

fossimo visti poco tempo prima, come se non fosse successo niente”. La vita dei padri e dei

maestri ha fra i suoi scopi far crescere i figli e i discepoli affinché siano liberi e in grado di

lasciare la casa. Come io mi presento da mia madre all’improvviso e dopo dieci minuti mi

prepara una pastasciutta, senza chiedermi dove sono stato fino a quel momento pur non

vedendoci da due mesi, si deve essere preparati agli altri che se ne vanno e tornano quando

vogliono. Se non acquisissero questa libertà non sarebbero figli o allievi cresciuti bene.

Così in ciò che l’allievo vede come una negligenza nei confronti del maestro, c’è la

dimostrazione che non ha ancora capito bene. In fatti non è ancora così sicuro di sé se ha

bisogno di chiedere scusa perché non ha acquisito la capacità di muoversi liberamente. Cioè

sapere da sé ciò che è bene fare per sé senza dimenticare l’educazione e la gratitudine. E si

acquisisce soltanto quando si è maturi. Maturi significa saper agire da noi stessi, lasciando che

agisca il vero uomo che ciascuno di noi è, capire di entrare e uscire liberamente

dall’agglomerato di carne rossa che è il nostro corpo. Soltanto questo, solo di questo ci si deve

preoccupare. Comportarsi educatamente ma liberamente.

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I due comportamenti non si escludono l’un l’altro. Non è che siccome sono libero faccio

come mi pare e mando a quel paese tutti quanti: non è affatto così. Raggiungere la completa

libertà, rende gentili e premurosi nei riguardi degli altri, non è il contrario. Perciò se uno sente

di comportarsi come i gatti, perché è il suo modo di agire, lo faccia. Se invece ci si sente più

vicini ai comportamenti di altri animali, si adotti quell’altro modo. Non ci sono delle

discriminazioni, non ci sono animali buoni e animali cattivi. Ognuno può essere quello che

vuole basta scoprire da sé chi si è in realtà.

SESSHIN del 5/6 Maggio 2001

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HEKIGANROKU

38° caso: Feng Hsueh e il funzionamento del bue di ferro

SUGGERIMENTO DI ENGO

Se discutiamo il graduale, vuol dire andare contro il comune per fondersi con la Via; inmezzo a un mercato affollato, sette vie in alto e in basso e otto vie da una parte all’altra. Sediscutiamo l’improvviso, non lascia un cenno o una traccia; mille saggi non riescono a trovarlo.

E se, invece, non fissiamo né l’improvviso né il graduale, che accade? Per una personalesta, una parola; per un cavallo lesto, un colpo di frusta. In quel momento, chi è il maestro?

Come prova, cito questo affinché vediate.

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Nel quartier generale del governo nello Ying Chou, Feng Hsueh entrò nella salae disse: (Spiega il Ch’an in pubblico; cosa dice?) “Il Sigillo della Mente dei maestripatriarcali è formato come il funzionamento del Bue di Ferro: (Migliaia di persone,decine di migliaia di persone non possono spostarlo. In cosa sta la difficoltà impenetrabile? Ilsigillo delle tre essenze si apre, senza urtare con la punta) quando è tolto, l’improntarimane; (Il vero imperativo dev’essere eseguito. Sbagliato!) quando è lasciato, l’improntasi rovina. (Una seconda infrazione non è permessa. Osserva il momento in cui l’imperativo èeseguito. Un colpo: Io colpisco immediatamente)

Ma se non è tolto né lasciato (Osserva in che modo non c’è un luogo in cui metterlo.Com’è difficile da capire!) è giusto sigillare o è giusto il non sigillare?”. (La testa dichiunque al mondo appare e scompare. L’intenzione si mostra di già. Ma io ti chiedo solo dirovesciare la sedia della meditazione e di disperdere la grande assemblea con delle grida)

In quel momento ci fu un certo anziano Lu P’i che si fece avanti e disse: “Io hoil funzionamento del Bue di Ferro: (Ha pescato uno che è ‘risvegliato nel buio’. In ognicaso, è insolito) vi prego, maestro, di non imprimere il sigillo”. (Buone parole; in ognicaso, è un errore) Hsueh disse: “Abituato a perlustrare gli oceani a pesca di balene, mirammarico di trovare invece una rana che striscia nella sabbia fangosa”. (Come unfalco che afferra un piccione. Il suo gioiello non si estende nello spazio. Il cavallo meravigliosocorre per mille miglia)

P’i rimase a pensare. (Che peccato! Eppure c’è ancora un luogo in cui può mostrarsi,peccato lasciarlo andare.) Hsueh disse gridando: “Anziano, perché non parli ancora?(Cattura la bandiera e ruba il tamburo. Lo scompiglio ribollente è arrivato) P’i esitò; (È mortotre volte. Un caso doppio.) Hsueh lo colpì col piumino. (Colpito bene! Per un uomo così ènecessario eseguire quest’ordine) Hsueh disse: “Ricordi ancora le parole? Cerca di dirle”.(Che bisogno c’è? Aggiunge ghiaccio alla neve) Non appena P’i fu sul punto di aprire labocca, (Una volta morto, non tornerà di nuovo in vita. Quest’uomo fa capire agli altri di esserepazzi. È caduto nella mano avvelenata [di Hsueh Feng]) Hsueh lo colpì di nuovo colpiumino.

Il governatore disse: “La legge buddhista e la legge dei re sono uguali”.(Chiaramente. Dopo tutto, sono stati scrutati fino in fondo da un passante) Hsueh disse:“Che principio avete visto?”.(Anche lui dà un buon colpo. Ha girato la punta della lancia eritorna con essa)

Il governatore disse: “Quando non si regola ciò che deve essere regolato, sicausa del disordine”. (Sembra avere ragione, ma in realtà non ha ragione. Eppure, bisognacapire che il passante ha gli occhi. Quando muore qualcuno nella casa orientale, qualcuno nellacasa occidentale aiuta nel lutto)

Allora Hsueh scese dalla sua sedia. (Aggiunge errore a errore. Vedendo lasituazione si adatta. Adesso il compito dello studio è portato a termine)

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TEISHO

Questo caso, soprattutto letto così, con tutte le annotazioni di Engo che si intersecano, è

sicuramente complicato. Mi ricorda di quando entusiasta della lettura dell’Ulisse di Joyce, di cui

non avevo capito molto, ma mi era piaciuto, comperai un altro suo libro: Finnegan’s wakes. È

uno scritto impossibile e di cui non capii niente. Poi un libro di Jack Kerouac, il cui titolo era il

nome del posto dove viveva lui, Big Sur, scritto in stato di ubriachezza. Cioè uno si ubriaca,

oppure prende una droga, e poi attacca la cosiddetta scrittura creativa. Ovvero scrive quello

che gli passa per la testa: se sono lucciole, scrive lucciole, se passa un aereo, scrive un aereo

passa nei cieli, mi fa male la pancia, sarebbe bene adesso stare sdraiati, e viene fuori un libro.

C’è chi glielo pubblica e c’è pure chi lo compra. Io sono uno che ha comprato questi libri e

adesso sto molto attento a non ricascarci.

Questo è pure un CASO in cui non si capisce molto. Solo che i maestri cinesi del Ch’an

non scrivevano sotto l’influsso di una droga. Parlavano, qualcuno ha raccolto quel che si erano

detti e noi lavoriamo su quanto è rimasto scritto, per arrivare alla loro stessa comprensione.

Per raggiungere il livello di Joyce o di Kerouac bisognerebbe bersi il vino o le droghe,

anche mentali, che possono essersi presi loro. A noi questo metodo non interessa perché la

comprensione dei maestri si ottiene svuotandosi completamente. La comprensione delle frasi e

degli scambi di battute che si fanno i maestri viene dallo svuotamento. Solo quando si è vuoti

le parole escono nel modo giusto per quel momento.

Prendiamo l’ultima frase del governatore, quella che fa scendere dalla sedia Hsueh e fa

dire ad Engo nelle sue annotazioni: <Adesso il compito dello studio è portato a termine> Il

governatore dice: <Quando non si regola ciò che deve essere regolato, si causa del

disordine> Perché? Perché il governatore prende fischi per fiaschi. Nel dire così non voglio

banalizzare.

Il governatore capisce <ciò che deve essere regolato> È ovvio che le regole della

società vanno osservate altrimenti si provoca disordine. Non si può, siccome le parole si

assomigliano, mischiare i fischi con i fiaschi: sono due cose completamente diverse. E proprio

nel CASO di cui ci occupiamo, i fischi e i fiaschi attengono all’affrontare le situazioni del

relativo oppure dell’assoluto: non si può sbagliare.

Se, stando in questo zendo, si stabilisce che il jikijitzu suona quattro colpi di campanello

e poi si deve rimanere immobili, tutti devono sistemarsi rapidamente, in modo che al quarto

colpo di campanello si stia nella posizione fino a quando il jikijitzu, a seconda dei tempi

stabiliti, darà un colpo di campanello e due di taku. Poi il jikijitzu dirà quel che si deve fare:

muoversi, rimanere fermi, bere il thé, andare a sanzen o altro. Nessuno può alzarsi al secondo

colpo di campanello se all’interno di questo zendo c’è questa regola e va osservata. Però, dal

momento del quarto colpo di campanello fino al colpo successivo, ognuno lavora su se stesso

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ed entra in un’altra dimensione, in cui non esistono campanelli, non dovrebbero esistere

pensieri, non dovrebbero esistere altri attaccamenti.

Ovvero una dimensione che non è più quella dei campanelli, delle gambe, dei cuscini, del

mangiare, del camminare, ma è una dimensione in cui, svuotandosi completamente, esiste

soltanto il respiro e infine neanche più quello. Sono degli stati diversi. Allora uno potrebbe dire:

“Il momento in cui sono immerso nel respiro e sono tutt’uno con l’universo e perciò sono

assoluto, se suona il campanello che me ne frega? Io stesso sono il campanello!” Eh no! Non è

proprio così! Non si può infilare un coltello nella pancia del primo che capita dicendo: “Siamo

tutti assoluto, non c’è nascita né morte, non c’è sofferenza né causa della sofferenza”.

La persona che riceve il colpo, in quel momento soffre, proprio in quel momento è

evidente la sofferenza. Questa è una confusione a cui si deve stare bene attenti. In questo

koan, c’è l’incontro fra tre personaggi: il maestro, il governatore e un monaco.

Si parla di un certo sigillo. Pensiamo a un marchio, come abbiamo visto nei film western che si

piglia un ferro rovente, lo si mette sull’animale, la pelle sfrigola e rimane il segno indelebile.

Ammettiamo che sia una cosa del genere, perché sarebbe complicato spiegare il

funzionamento del Bue di Ferro, una figura leggendaria, fatto costruire dal leggendario

imperatore Yu per evitare le frequenti inondazioni del fiume Giallo.

La questione è in come la espongono i maestri zen e come subito dice Engo: “Se

facciamo una cosa succede questo; se non facciamo una cosa succede quell’altro.” Ma se non

facciamo né l’una né l’altra che succede? E se le facciamo tutte e due? Nel Mumonkan c’è un

caso in cui il Buddha, sulla cima dell’Avvoltoio prende in mano un fiore e Mahakasyapa sorride.

Mumon scrive: <Siccome Mahakasyapa sorride il Buddha dice: “Mahakasyapa ha capito e

perciò riceve il sigillo della trasmissione> Mumon chiede: <E se avessero sorriso tutti?> Siamo

sempre lì. Uno risponde: “È nero” e il maestro chiede: “ E se fosse bianco? Perché non può

essere bianco? Come fai ad affermare che sia nero? Un altro potrebbe affermare che sia

bianco”.

Allora c’è sempre un andare oltre con un gesto, un grido, una parola o un sorriso. Il

maestro Feng Hsueh dice: “…quando è tolto, l’impronta rimane; quando è lasciato,

l’impronta si rovina. Ma se non è tolto né lasciato, è giusto il sigillare o è giusto il non

sigillare?”. Ancora queste domande a cui non si può rispondere. Ci sono altri koan così. Non li

dico qui perché chi non li ha fatti o li sta facendo può sentirsi preso in causa. Però ci sono

risposte che non si possono dare. Quando uno chiede, come Feng Hsueh: <…è giusto il

sigillare o è giusto il non sigillare?> qualunque risposta si dia si sbaglia. Una volta un

maestro, ha risposto dando un calcio ad un’anfora che era sul terreno. Il maestro chiedeva:

“Che si deve fare con quest’anfora? Se dite che è relativa è sbagliato, se dite che è

assoluta è pure sbagliato”. Quello ha dato un calcio rispondendo in un modo che non c’entrava

niente con le parole. ha fatto un gesto e il maestro ha preso per buona la risposta. Qua ci

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troviamo di fronte a una domanda analoga. Quando un certo anziano Lu P’i interviene, c’è un

altro punto importante. Può succedere che nella stanza di sanzen il discepolo dia una risposta

che sembra giusta, però il maestro vuol vedere meglio, magari la risposta è venuta

casualmente: cioè l’allievo arriva a sanzen e decide: “Vada come vada gli dico questo e

vediamo.” Invece il maestro gli chiede: “Perché hai detto così?” e quello rimane interdetto.

Ecco la stessa situazione. <P’i rimase a pensare. Hsueh disse gridando: “Anziano,

perché non parli ancora?” P’i esitò> Hsueh gli dice: <Ricordi ancora le parole? Cerca di

dirle”> Appena P’i sta per dirle, Hsueh lo colpisce: è tardi! Questi ritardi dimostrano, che non

c’è la vera comprensione. Se al posto di Lu P’i ci fosse stato Feng Hsueh, che è un discendente

di Lin Chi, o Lin Chi stesso, oppure Obaku o altri, avremmo avuto una risposta immediata.

Invece la risposta immediata non c’è. L’incertezza che impedisce all’anziano di rispondere,

dimostra che il koan non lo ha capito, mentre il governatore con semplicità dice: <La legge

buddhista e la legge del re sono uguali> Perché tutte e due le leggi debbono rispondere

sia a un principio interno che a un principio esterno.

Infatti quando Hsueh chiede: <Che principio avete visto?> il governatore risponde:

<Quando non si regola ciò che deve esser regolato, si causa del disordine>. Questa è

una risposta che si deve avere sempre presente: si deve parlare della terra quando si è in

terra; quando si è in cielo si conversa con il cielo. Ed è il Lin Chi dei tanti episodi indimenticabili

fra cui: “Se vai dal maestro di spada, porta una spada; se vai dal maestro di poesia porta un

libro di poesie”.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Ieri mattina ho spedito all’editore il manoscritto del libro sulle mie scalate negli anni

cinquanta. Ho pure ripreso a scrivere quanto avevo iniziato sugli anni del Giappone e così sto

rileggendo i diari dei primi tempi in cui ero a Shofukuji. Sicuramente in quei primi mesi e anni,

ma soprattutto mesi durante le grandi sesshin di Shofukuji in cui lo stare seduti a lungo era

uno sforzo veramente notevole, mi sono confrontato con la mia debolezza fisica e mentale.

Sono riuscito a superare tutte le difficoltà perché mi dicevo: “Mi sono fatto 15mila km

apposta per venire fin qui e voglio vedere come va a finire”. Nel leggere questo mi accorgo che

c’era un’idea finalista, che ci fosse un percorso da seguire, alla fine del quale, come arrivando

in cima alla montagna per me ci sarebbe stata l’illuminazione: “Sono venuto apposta e ci devo

stare”. Nello stesso tempo mi ponevo delle mete molto vicine.

I primi tempi non potevo andare a sanzen, e resistere fino a quando tornavano nello

zendo era un traguardo notevole. Poi mi dicevo: “Adesso finisce un giorno; sono passati tre

giorni ormai manca poco”. Era un modo per sopravvivere, altrimenti, come è successo a tanti

altri stranieri e a qualche giapponese, non sarei riuscito ad andare avanti. Perché alla fine, nel

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monastero ci sono restato e quei problemi iniziali, che erano il mal di gambe e il mal di

schiena, l’incomprensione della lingua e l’incomprensione di certe regole, si sono sciolti. Certo,

stando seduti a lungo il mal di gambe viene fuori lo stesso, però, non era quello il problema.

Nell’esistenza in generale e nella pratica in cui uno si immette, ci dovrebbe essere un

punto di riferimento. Dobbiamo inventarcelo come la carota che sta di fronte all’asino. La

carota davanti all’asino è reale come è reale il satori o l’illuminazione che stiamo perseguendo,

da vedere come il faro per la nave che sta entrando in porto. Nello stesso tempo va gustato. Il

gustare fa pensare al piacere ma talvolta c’è da superare delle sofferenze, gli ostacoli, uno

dopo l’altro. Nell’arrampicata è bello passare a un grado superiore come, in altri ambiti, fare

qualche cosa di più. Così nella pratica è umano, godersi la risoluzione di un koan, rimanere

seduti senza mai muoversi, e concentrati per tutto il periodo.

Tutto ciò è compreso nell’esserci: si sta respirando, sedendo, superando il koan,

camminando. Se si potessero leggere i diari di Bodhidharma, o del Buddha Shakyamuni o di

Rinzai, non è che sarebbero tanto differenti dai nostri. Essi stessi per diventare così, ammesso

che si possa dire diventati, hanno dovuto superare le difficoltà che abbiamo attraversato o che

stiamo attraversando noi.

ESORTAZIONE FINALE

A Roma, martedì scorso, m’è stato presentato il disegno dell’associazione che stanno

costituendo per insegnare le varie attività della nostra scuola. Stamattina verranno consegnati

i certificati che attestano l’ordinazione di aprile. Inoltre è venuto a visitarci il roshi Harada

Shodo. Insomma questo luogo dove sembra che tutto si svolga sempre nello steso modo, è

invece una pentola nella quale ribolle qualcosa che si espande in tutto il mondo. Il Buddha lo

ha enunciato in modo chiaro: “Tutto è in movimento. Non c’è alcunché di permanente”. Quasi

trent’anni fa qui è nata qualcosa, è cresciuta e si sta diffondendo lentamente, come tutto ciò

che cresce su questi terreni.

Non solo nei cuori di chi continua a frequentare e a praticare, ma pure in coloro che fra

una settimana o un mese, fra un anno o fra dieci anni siederà in qualche parte d’Italia o nel

mondo per penetrare nello zen che è partito da questo piccolo posto. Intanto qua si continuerà

a ripetere gli stessi sutra, gli stessi gesti e, più o meno, le stesse parole. Se osserviamo bene,

sebbene tutto sia sempre uguale, nello steso tempo è sempre diverso. Certe volte viene la

tentazione della pigrizia dando per scontato che ormai quello che si doveva fare è stato fatto:

tutti avrebbero dovuto capire e l’insegnamento è stato dato. Invece proprio a Scaramuccia,

dove tutto sembra sempre uguale, tutto è continuamente in discussione cercando le parole per

dire il nuovo che viene fuori in ogni momento. Nel momento in cui ognuno di voi si rivolgerà al

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mondo per esprimere ciò che ha potuto capire a Scaramuccia si renderà conto personalmente

di come realmente tutto sia impermanente.

SESSHIN del 2/3 Giugno 2001

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HEKIGANROKU

39° caso: Yun Men e la siepe in fiore

SUGGERIMENTO DI ENGO

Chi sa intraprendere l’azione sulla strada è simile a una tigre sulle montagne; chi èimmerso nella conoscenza terrena è simile a una scimmia in gabbia. Se volete conoscere ilsignificato della natura di Buddha, dovete osservare i tempi e le stagioni, le cause e lecondizioni. Se volete fondere dell’oro puro già raffinato cento volte, vi servono la fucina e ilmantice di un maestro. Adesso ditemi: quando appare la grande funzione di un uomo, cosa sipuò usare per metterlo alla prova?

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Un monaco chiese a Yun Men: “Cos’è il Puro Corpo di Realtà?”. (Vede il corpodorato [del Buddha] dai sedici piedi in un cumulo di polvere. Chiazzato e mischiato; cos’è?)

Yun Men disse: “Una siepe in fiore”. (Se lo scopo della domanda non è reale, larisposta si presenta rude. Colpire, risuonare [ovunque]. Ciò che è piegato non nasconde ciòche è diritto) Il monaco chiese: “E cos’è quando si procede in questo modo?”. (Ingoia ildattero sano. Perché indulgere nella stupidità?).

Yun Men disse: “Un leone dalla criniera dorata”. (Sta lodando e censurando allostesso tempo; due facce di un solo dado. Aggiunge errore su errore - che succede nella suamente?)

TEISHO

Questo famoso koan, nella traduzione italiana o inglese che sia, non rispecchia, per la

mia esperienza diretta, l’immediatezza dei maestri. Esso viene tradotto Yun Men e la siepe in

fiore mentre in giapponese si dice soltanto Kayakuran. Unmon, come viene chiamato in

giapponese, aveva la caratteristica di dare risposte secche e brevi. Certamente Kayakuran vuol

dire una siepe in fiore, però per Yamada Mumon è Il fiore dietro il gabinetto. I gabinetti nelle

case giapponesi erano contornati normalmente dai fiori i quali abbondano nelle case

tradizionali e ancora di più nei monasteri. A Shofukuji ho lavorato per un semestre nell’orto del

monastero e lo concimavamo con gli escrementi del pozzo nero. Si utilizzava la pipì, diluita con

l’acqua perché l'urea fa crescere meglio le cipolle. Perciò l’accostamento del gabinetto e del

fiore nei monasteri della Cina e del Giappone è molto normale.

In italiano traduciamo puro corpo di realtà con Dharmakaya. È il primo dei Tre corpi in cui

viene diviso il panteon buddista. La domanda che viene posta al discepolo è: “Com’è il puro

Dharmakaya?” e il maestro risponde: “Kayakuran” che traduciamo: “Il fiore dietro il

gabinetto”. Quando entravo a sanzen da Mumon Roshi, mi inchinavo, dicevo soltanto

“Kayakuran” e davo la mia risposta. La domanda è semplice: “Com’è la purezza dell’assoluto?”.

Oppure: “In cosa consiste la purezza dell’assoluto?”. Il monaco fa una domanda molto

diretta e il maestro risponde pure seccamente e senza spiegazioni. Il praticante, nel risolvere il

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koan si accorge che la risposta non poteva essere che così. Unmon avrebbe anche potuto

rispondere in altro modo però questa è perfetta, come sono perfette tutte le risposte dei koan.

Questa perfezione andrebbe utilizzata in continuazione, invece di lasciarsi prendere dalla

cultura che porta a discriminare, vedendo soltanto il fiore come bello e il gabinetto come

brutto. Queste due sono apparizioni della realtà relativa, facenti parte della realtà assoluta. Il

maestro Rinzai esorta in continuazione a esercitarsi per essere capaci di passare dal relativo

all’assoluto e cioè a saper stare nelle due situazioni. ENGO all’inizio: “Chi sa intraprendere

l’azione sulla strada è simile a una tigre sulle montagne”, ovvero si sa muovere, chi è in grado

di agire e passare giustamente da una condizione all’altra, come una tigre che si muove sulle

montagne, libera, capace di andare dove vuole.

Infatti quando il monaco chiede: <E cos’è quando si procede in questo modo?>, il

maestro risponde: <Un leone dalla criniera dorata>. All’inizio si parla della tigre di

montagna e poi di un leone dalla criniera dorata. Sempre però una condizione di assoluta

padronanza delle situazioni. Nella seconda riga quando Unmon risponde “Kayakuran” nelle

annotazioni Engo dice: <Se lo scopo della domanda non è reale, la risposta si presenta rude>.

In effetti la risposta di questo koan è rude, sia quella letterale di Unmon così come è rude la

risposta che il maestro si aspetta nella stanza di sanzen. Ma la domanda è reale e questa

rudezza viene apprezzata perché è la dimostrazione di come il fiore possa crescere dietro al

gabinetto. Può sembrare che si parli troppo di assoluto e di relativo.

Intanto avviene soltanto qua durante la sesshin. Infatti in altre situazioni non se ne parla

mai perché il luogo di pratica, di un certo tipo di pratica, è questo. Poi ci sono i luoghi di altre

pratiche. Si può praticare anche divertendosi, però deve essere chiaro che quando ci si diverte,

ci si diverte.

Quando si parla, si parla. Quando si medita, si medita. Qui si viene per la sesshin che ha

una sua scenografia e una sceneggiatura. Ci sono regole per cui, in questo ambito, si può e si

devono usare le parole della sesshin. Non c’è dubbio che non si può lasciare a casa il proprio

mestiere di avvocato o di medico, di muratore o di insegnante, perché con gli amici, qualche

cosa di quanto si fa nella giornata lavorativa viene fuori.

Ed è appunto la grande sfida che si affronta in continuazione, cioè di sapersi adattare a

qualunque situazione, senza rimanere attaccati al proprio ruolo. C’è chi si presenta in un modo

e lo è per tutta la vita. I personaggi più in vista del mondo si auto-ingabbiano, magari in

gabbie d’oro ma sempre gabbie sono, e sono costretti dalle circostanze o da se stessi,

probabilmente a loro piace, a recitare sempre la stessa parte: il papa fa sempre il papa,

probabilmente anche quando va al gabinetto; il presidente di qualche compagnia o di qualche

stato farà sempre il presidente; l’attore fa l’attore sulla scena e probabilmente continua quando

scende e così alcuni sportivi.

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Si dovrebbe fare, ogni momento, ciò che si vuole fare senza rimanere ingabbiati in una

parte talvolta pateticamente, portandosela dietro pensando che sia essa a darci appartenenza.

Infatti per alcuni il non appartenere significa scomparire. Nella nostra scuola c’è lo sforzo

di scomparire, ovvero fare in modo che l’io che tanti cercano prepotentemente di portare fuori,

si sciolga. Questo permette di vedere l’interconnessione con tutti gli esseri. I koan, in cui si

sperimenta l’interconnessione fra relativo e assoluto possono essere il copione al quale rifarsi

per muoversi liberamente sulla scena del mondo.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

In questi giorni ho avuto il tempo per trascrivere le registrazioni dei mondo. Alcune

domande spesso ritornano, e così le mie risposte. Certo uso parole differenti cercando di far

risaltare di più un argomento ma, in fondo, quanto un essere umano può fare, ammesso che lo

voglia, e chi viene qui è mosso dalla volontà di comprendere ciò che non riesce a capire, non è

tanto. Ad un allievo, come esercizio di attenzione al corpo, a parte il respiro, ho detto di

camminare in punta di piedi e di raddrizzare di più le spalle. Dopo un po’ di tempo mi ha scritto

che aveva ottenuto dei grandi cambiamenti.

Camminare in punta di piedi dentro casa. Somiglia ad andare dalla strega che mescolava

una coda di lucertola, uno spicchio d’aglio, qualche altra erba, e veniva la pozione di Asterix. In

effetti le azioni da fare sono più semplici delle pozioni magiche. Per cambiare la propria

esistenza a qualcuno basta camminare in punta di piedi dentro casa. Nello zen s’è presa la

posizione che aveva il Buddha sotto l’albero dell’illuminazione. Ha deciso di rimanere seduto

fino a che non avesse raggiunto il suo scopo, e si è detto: “In fondo basta questo”.

Così, come per qualcuno basta camminare in punta di piedi, noi abbiamo una posizione e

in più ci abbiamo messo i koan. Si tratta però di stare solo seduti a gambe incrociate? Oggi,

andavo di fretta, mi ha telefonato una signora siciliana, sui settant’anni, che mi chiama ogni

due o tre mesi. M’ha chiesto se zazen si deve fare per forza nel loto o nel mezzo loto, che lei lo

farebbe in siddhasana ma ha paura che sia controproducente farlo così. Ho risposto che può

andare bene. Noi qui non siamo preoccupati come la signora siciliana: chi siede sul panchetto,

chi nel loto, nel mezzo loto, in siddhasana, qualcuno sulla sedia.

Non è importante che il corpo stia in un modo o nell’altro, ma che si stia con la propria

presenza. Il respiro non deve andarsene per conto suo, e ciascuno deve sentirsi a posto seduto

sulla sedia o a gambe incrociate, sul banchetto o comunque sia. Camminando in punta di piedi

ci si accorge di stare a posto, significa voler camminare in punta di piedi, e volendolo, si sta

dicendo a se stessi: cammino in punta di piedi. Come sedendo si pensa: adesso sto seduto a

gambe incrociate e respiro. È un’azione molto semplice, eppure da 2500 anni a questa parte

essa ha trasformato molte persone, molto più di quanto non abbia fatto il camminare in punta

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di piedi, ma sono 2500 anni! Se si sta attenti, il solo fatto di essere attenti già fa essere in

quell’istante Buddha. Non c’è da aspettare di tornare a casa per vedere nella cassetta della

posta se è arrivato il diploma di Buddha. Si è Buddha già qua, in questo istante, basta stare

attenti.

ESORTAZIONE FINALE

In questi giorni sono arrivati a Scaramuccia i moduli di iscrizione per partecipare ad un

grande raduno di buddismo e ho pensato alla sesshin di Scaramuccia, dove sembra che tutto

sia lasciato al caso. È un po’ come l’arrivo di un piccolo circo in una piazza di paese, che da due

o tre camioncini vengono fuori il tendone, le sedie, gli animali, tutto perché alla sera ci sia lo

spettacolo. Il giorno dopo si smonta e si parte per la piazza di un altro piccolo paese. La

mattina, in giro per il paese, si incontra chi la sera prima volteggiava al trapezio oppure

entrava nella gabbia dei leoni e si vede che sono persone normali. Sul trapezio sembravano

degli angeli e nella gabbia dei leoni come degli esseri superiori, grandi, forti, sprizzanti energia.

La mattina dopo sono al bar a fare colazione insieme ai paesani, bevono il caffè e sotto

certi aspetti non sono così speciali.

Ieri sembravano angeli e adesso a sentirli parlare, a vederli vestiti dimessamente,

sembrano dei poveracci qualsiasi. La nostra sesshin comincia talvolta in una maniera confusa

con i lavori da una parte e dall’altra, il tè che si beve chiacchierando, con battute scherzose e

telefoni che squillano, persone che si salutano. A un certo punto si alza il tendone e tutti

diventano nello stesso tempo spettatori e protagonisti. Infine il tendone si deve smontare e

ciascuno risale nella propria roulotte, come succede nei circhi, e si torna alla propria famiglia.

Si deve stare attenti nel giudicare chi volteggia sul trapezio come un angelo e il giorno

dopo sembra un essere comune. Essi sono degli esseri comuni quando volteggiano sul trapezio

così come quando bevono il caffè. Si dovrebbe vedere direttamente nel cuore degli esseri,

come ognuno svolge la propria parte, il proprio compito.

Ognuno al suo posto, a seconda delle situazioni, senza giudicare una persona in una

situazione umile o di disagio, per quello che sta facendo in quel momento. Se lo fa bene, chi

spazza la strada è comunque un bodhisattwa e va visto proprio come un bodhisattwa che

spazza la strada.

SESSHIN del 30 Giugno/1 Luglio 2001

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SESSHIN KOKUHO

A Shofukuji c’era sesshin kokuho ogni dieci giorni, quando iniziava la sesshin di sette

giorni. Potrebbe sembrare che in un luogo di zen come Scaramuccia dove la sesshin di una

settimana si fa una volta all’anno, non ci sia tanto da trovare. Un solo sesshin kokuho in tutto

l’arco di 365 giorni potrebbe dire poco rispetto a quanti se ne fanno in Giappone: ogni mese

almeno tre. E di conseguenza pensare che dove ci sono più insegnamenti c’è più

apprendimento.

Non è sempre così, anzi, forse dove più si insiste, dove più si pressa forse c’è meno

attenzione a se stessi. Se si riuscisse a stare attenti, un solo minuto di zazen è sufficiente per

comprendere completamente. La comprensione non è alla fine di un percorso di una settimana,

di un anno o di una vita: o è possibile comprendere o non è possibile. Se è possibile, e

certamente lo è perché tutta una linea di patriarchi non ha fatto altro che dirlo da 2500 anni,

può avvenire in un istante.

Qualcuno potrebbe dire che una settimana è troppa. Può essere e se quando alzate la

testa realizzate di avere già capito, prendete la vostra roba e andate a casa. Però il senso di

una sesshin non è solo essere qui per l’illuminazione, che è il punto più alto da raggiungere per

l’essere umano, perché qui si viene anche per ritrovarsi e vedere la propria umanità, uguale e

differente da quella degli altri. Uguali e differenti dagli altri si siede di fronte, si mangia di

fronte, ci si lava insieme nella stessa fontana.

La sesshin permette di vedere non solo nella propria realtà di natura di buddha ma nella

propria umanità. Ecco perciò l’importanza di condensare in un periodo seppur breve di

sei/sette giorni occasioni per esperienze di introspezione e di rapporti umani. Tutto è

importante e l’attenzione deve essere accesa in ogni istante.

Potrebbe venire un po’ di stanchezza nel ripetere le stesse parole ed esortazioni come il

sedere con la spina dorsale eretta, diventare respiro, essere sul koan, diventare il koan e

andare nella stanza di sanzen per esprimerlo e realizzare quel piccolo kensho che ogni koan ci

fa avere. Dire di essere attenti però non è mai abbastanza quando tutto intorno induce al

rilassamento. Lavorando, bevendo il tè, andando alla fontana, chiacchierando, mangiando,

servendo, proprio in questi momenti bisogna essere più attenti.

Perché è quanto si farà tornando nelle proprie città e sono proprio queste le azioni che

rendono viva l’esistenza. È vero che il momento fondamentale delle sesshin è l’illuminazione,

ma non significa che si debba vivere in attesa di fare zazen, aspettando di incontrare la

persona amata, sperando nella promozione e nella vincita al totocalcio o all’enalotto. Non si

deve vivere in attesa. Ovvero aumentare il numero di coloro che sono in attesa. La sesshin può

insegnare ad essere esseri che ci sono ora, che vivono l’esistenza istante per istante

godendosela. Se non ci si aspetta alcunché vuol dire che la vita, in quel momento, la si sta

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godendo, altrimenti non ha senso starci. State attenti. Stiamo tutti attenti e viviamoci una

bella sesshin.

Domenica 12 agosto

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Nella rivista Dharma c’è l’articolo di un professore universitario americano che insegna

alla Shambala University. Tratta della pratica della foresta, di cui ha scritto un libro, ovvero

della possibilità per i cittadini di andare a praticare, per periodi più o meno lunghi, da soli o in

comunità. Ha ormai sessant’anni e sia lui che la moglie, nel mese di ferie che hanno ogni anno,

potrebbero girare il mondo, eppure, da venti o trenta anni a questa parte, preferiscono passare

le proprie vacanze facendo un ritiro in un monastero di montagna. Le incombenze della vita di

ogni essere umano sono diverse e molteplici per poter rispondere a tante sollecitazioni. Ora è

certo, e non devo dirlo a chi essendo qui ha fatto già una scelta, che se si riesce a rifiutare le

sirene che attirano in posti più gratificanti di Scaramuccia, si può accedere a un’esperienza

veramente unica.

Il sub-comandante Marcos a chi gli chiedeva quando avrebbero fatto la rivoluzione, ha

detto : “Noi non guardiamo l’orologio ma guardiamo il tempo”, intendendo che non bisogna

farsi prendere dalla fretta di tutti i giorni, ma si deve trovare il tempo. Il tempo in cui riuscire a

fermarsi. Fermandoci si ferma il nostro tempo. Solo fermandosi è possibile vedere quello che

c’è realmente da vedere. A Scaramuccia si evita di dare giudizi e ognuno continuerà a fare

come gli pare, ma si dovrebbe essere capaci di rispondere a una domanda: che cosa è

talmente importante da impedire di trovare una settimana per rimanere da soli con se stessi?

Lunedì 13 Agosto

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HEKIGANROKU

40° caso: Nan Ch’uan dice: “È come un sogno”

SUGGERIMENTO DI ENGO

Cessate e desistete; allora fiorirà un albero di ferro. C’è qualcuno? C’è? Un giovaneintelligente perde i profitti; sebbene sia libero in sette modi in alto e in basso e in otto modi ditraverso, non può evitare che un altro gli fori le narici. Ma ditemi, dov’è il suo errore? Percontrollare, cito questo affinché vediate.

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Mentre il funzionario Lu Hsuan parlava con Nan Ch’uan, disse: “Il maestrodegli insegnamenti Chao ha detto: ‘Il cielo, la terra e io abbiamo la stessa radice; lemiriadi di cose ed io siamo un solo corpo’. È meraviglioso!”. (Sta passando la vita in unagrotta di fantasmi. Una torta dipinta non soddisfa la fame. Questo è anche sminuzzare leerbacce)

Nan Ch’uan indicò un fiore nel giardino. (Cosa dice? Bah! Le scritture hannomaestri delle scritture, i trattati hanno i maestri dei trattati: non sono affari di un monacovestito di pezze. Bah! Un uomo potente in quel caso avrebbe pronunciato una parola ditrasformazione, non solo tagliando la strada a Nan Ch’uan, ma facendo mostrare dell’energiaai monaci)

Si rivolse al funzionario e disse: “Di questi tempi la gente vede questo fiorecome in sogno”. (Quando l’ornamento d’anitra mandarina è fatto, puoi guardarli, ma nondare a nessuno l’ago d’oro. Non parlare nel sonno! Hai tirato giù dal suo ramo di salice ilrigogolo d’oro).

TEISHO

Ecco uno dei koan importanti nel percorso della nostra scuola. Ci sono due risposte e il

maestro è uno dei più grandi. In cinese si pronuncia Nan C’huan ma per noi è Nansen, alla

giapponese. È stato il maestro che ha tagliato il gatto in due quando i monaci litigavano e,

soprattutto, il maestro di Joshu. Era un bel tipo, capace di passare dall’affettare i gatti a dire

che: <…la gente vede questo fiore come in sogno>.

Il funzionario Lu Hsuan si fa bello riportando le parole di qualcuno. Io v’ho fatto leggere

un breve articolo su l’Unita pieno di parole profonde. E tante se ne leggono o sentono da chi

vuole convincere gli altri! Saper dire belle parole non significa che chi le dice abbia realizzato

ciò di cui parla. ENGO dice: <Una torta dipinta non soddisfa la fame>, poi ancora <Le scritture

hanno maestri delle scritture, i trattati hanno i maestri dei trattati> però <non sono affari di

un monaco vestito di pezze> ci sono tanti libri scritti bene e alcune persone parlano molto

bene, ma se si va a stringere sono soltanto maestri di trattati o maestri di scritture.

Perché un monaco si veste di pezze e non di abiti sontuosi con i quali apparire migliore

per le persone che ci tengono all’apparenza? Egli bada alla sostanza, in quanto non ci sono

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giudici a cui dimostrare il proprio valore: ha un tesoro, la sua realizzazione. A Roma si diceva:

“Chi ha i cavalli nella stalla non ha paura di andare a piedi”, ovvero non si preoccupa di quanto

possano pensare gli altri vedendolo andare a piedi.

Chi ha in sé la realizzazione, non sta a sentire le parole dei maestri! Non perché non

senta le parole dei maestri ma non sente le parole copiate dai maestri. Talvolta degli allievi mi

regalano o prestano dei libri in cui hanno trovato qualche cosa di importante. Alcuni sono

interessanti, altri mi tocca dire che è aria fritta. C’è una poesia di Trilussa, pubblicata

sull’ultimo Notiziario, nella quale il soggetto si accorge che il fantasma che esce dal castello è

soltanto un lenzuolo.

Tutti si appecoronano e così fa anche lui. Un monaco vestito di pezze non si mette in

ginocchio di fronte ad un lenzuolo come non si mette in ginocchio di fronte a nessuno. Però ci

sono alcuni bravi nel vendere l’aria fritta e purtroppo c’è chi se la compra. Basterebbe smettere

di comprarla e si smetterebbe di produrla e di venderla. Questo koan ha due momenti che

sono antagonisti. Nel primo il discepolo deve dare dimostrazione dell’assoluto, di essere

davvero come dice Chao: < Il cielo, la terra e io abbiamo la stessa radice; le miriadi di

cose e io siamo un solo corpo. È meraviglioso!>, perché ha scoperto da sé questa

meraviglia. Poi, una volta compresa la sostanza delle parole, vedere che in fondo le parole

possono essere solo parole se dietro non c’è la sostanza. Perciò essere capaci di vedere

l’assoluto e il relativo nella immediata comprensione della non differenza fra il cielo e se stessi

e nello stesso tempo vedere che parlare di cielo è inadeguato.

Si riesce a parlare del cielo soltanto se si è molto leggeri altrimenti ci si accorge subito

della falsità. L’artista può essere solo leggero, lieve. Gli imitatori, i falsi sono pesanti e la loro

pesantezza aumenta col numero delle parole che dicono e con quanto pensano sia la profondità

delle loro parole. Infatti si dice che usano paroloni che evidentemente sono più pesanti delle

parole.

Il funzionario fa sfoggio della propria erudizione di fronte a Nansen il quale è invece così

delicato e leggero. Indica un fiore nel giardino e dice: <Di questi tempi la gente vede

questo fiore come in sogno>. Avrebbe potuto dirgli: “Cosa stai dicendo, non ti accorgi che

sono stupidaggini? Sarebbe stato giusto, forse un po’ brutale, ma non artistico. Invece da

grande maestro, Nansen la prende alla larga, con l'ironia e la levità del grande maestro.

Il fiore lo vedo veramente soltanto se tra me e il fiore non c'é separazione. Le persone

normali vedono sé e il fiore separati e non possono vederlo realmente. Nansen dice al

funzionario: “Osserva bene le parole del maestro Chao e te. Se non diventi realmente quanto

le parole vogliono semplificare, non c’è alcuna comprensione.

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ESORTAZIONE SERALE

Sono circa trent’anni che esiste Scaramuccia e ogni sesshin estiva è stata diversa.

Ognuna caratterizzata dal clima, la quantità e la qualità delle persone, dagli animali, dai

luoghi in cui ci siamo seduti: il vecchio zendo ex stalla, lo zendo che adesso è la sala del taici e

infine questa sala. Ogni sesshin deve essere differente perché non ci si attacchi a qualcosa e

non si diventi stagnanti. Per cui continuamente c’è da spronare, correggere, cambiare.

E questo porta vitalità perché fa uscire dalle abitudini consolidate. Ho osservato

attentamente come è stata trasportata la legna in gruppo, ed è avvenuto proprio secondo il

significato di sesshin, c’è stato lo strofinamento che ha permesso che ognuno utilizzasse

l’energia degli altri per poterci essere in quel momento. Con un tronco sulle spalle o fra le

braccia, in quel momento era l’assoluto che portava la legna, e si vedeva.

Seppure con qualche distrazione qualche caduta di attenzione, si vedeva l’energia che

sprizzava da ognuno. Così come nel passarsi i sassi e i tufi, pur tra le parole e le chiacchiere

che si sono dette, c’era l’atmosfera di una sesshin. Vi ho spronati per tanti anni e finalmente si

vede sbocciare qualche fiore. Perché c’è ancora chi insiste sulla parte esotica delle pratiche

cosiddette orientali se la pratica vera è quella degli atti quotidiani? Quando si è seduti in zazen

non c’è altro che stare seduti, con le gambe incrociate o sullo sgabello, arrangiandosi un po’.

Invece fuori a lavorare è più facile distrarsi e ci deve essere l’aiuto di tutti. Se tutti si

sentono partecipi, in quel momento si è sesshin, si è a strofinarsi con gli altri.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Facendo il giro dello zendo c’è un momento in cui, passando davanti alla porta, si entra

nel raggio di sole che viene da est. Se stando in un luogo buio di cui non si vede l’uscita, si

vedesse all’improvviso un filo di luce, si riprenderebbe la speranza di poter andare all’aperto.

Nella nostra esistenza sono numerose le volte in cui ci si trova senza una via di uscita.

Alcune volte ne siamo già usciti, altre ci sono di fronte e ancora se ne presenteranno,

ma è certo che se si è vista la luce una sola volta, si è sicuri che prima o poi la si potrà

rivedere. È ovvio la luce di cui si tratta in questo luogo non è quella del Sole.

Certo se non ci fosse il Sole non ci sarebbero esseri umani, animali, vegetali e

quant’altro, però in questo luogo di pratica c’è lo scopo di mettere le mani su un altro tipo di

luce, adoperando questo termine perché le parole che si possono adoperare non sono

tantissime. Raramente le parole sono adeguate e si è costretti a parlare di luce, di buio, di

bello, di brutto, di buono e di cattivo. Di sicuro c’è una realtà, una assolutezza che vale la pena

andare a scoprire per avere la certezza di essere giusti soprattutto nel momento in cui si pensa

di essere completamente perduti. Può succedere però, che se uno sta in una caverna e sa che

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fuori c’è la luce, potrebbe restare in una situazione di stagnazione. L’esistenza non si vive in

attesa di vincere il superenalotto o di prendere la pensione. Infatti qualcuno potrebbe credere

che si realizzi la reale natura di buddha alla fine di un percorso stabilito.

Oppure si viva in attesa di vincere alla lotteria per mettere i soldi in banca o sotto un

mattone e andare avanti tranquillo per sempre. Non è così, pur se la realizzazione della realtà

vale molto più della vincita all’enalotto o del raggiungimento della pensione. Si tratta di livelli

completamente diversi, che non possono essere paragonati. Bisogna fare attenzione a non

collezionare qualcosa che, proprio perché oggetto di collezione, metta la voglia di collezionarne

ancora.

Martedì 14 Agosto

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HEKIGANROKU

41° caso: Chao Chou e l’uomo che ha vissuto la grande morte

SUGGERIMENTO DI ENGO

Dove il giusto e lo sbagliato si fondono insieme, nemmeno i saggi possono saperlo;quando si va contro e insieme, orizzontalmente e verticalmente, nemmeno i Buddha possonosaperlo. Chi è distaccato dal mondo e trascende le convenzioni, rivela le abilità di un grandeuomo che sta fuori dalla folla. Egli cammina sul ghiaccio sottile e corre sulla lama di unaspada. È come il corno dell’unicorno, come un fiore di loto nel fuoco. Quando vede qualcuno aldi là del paragone, sa di camminare insieme sullo stesso sentiero. Chi è esperto? Come provacito questo vecchio caso: guardate!

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Chao Chou chiese a T’ou Tzu: “Com’è quando un uomo che ha vissuto la grandemorte torna alla vita?”. (Cose così esistono! Un ladro non colpisce un padrone di casapovero. È abituato ad agire come ospite, quindi ha tatto con gli ospiti)

T’ou Tzu disse: “Non deve andarci di notte: deve arrivarci alla luce del Sole”.(Guardando una gabbia , fa una gabbia. Questo è un ladro che riconosce un ladro. Se non erasdraiato sullo stesso letto, come avrebbe potuto sapere che il copriletto è consumato?)

TEISHO

Abbiamo la solita trascrizione dei nomi nell’originale cinese e dei principianti del koan

potrebbero non capire che Chao Chou non è altri che Joshu. Il traduttore dell’Hekiganroku

riporta i nomi soltanto in cinese e invece lo zen, in occidente si è diffuso soprattutto per i

maestri giapponesi. Se un cinese legge Chao Chuo, di cui bisognerebbe conoscere bene la

pronuncia, per i giapponesi si legge Joshu così come Lin Chi(c.) corrisponde a Rinzai(g.). C’è

Joshu che va dal maestro T’ou Tzu (c.). Quando? Perché in Cina non erano i maestri che si

muovevano. In Cina c’era l’abitudine che si muovevano ma chi ancora non era stabilito in un

monastero. Magari venivano a sapere di un maestro molto bravo e lo andavano a trovare

stando via un po’ di giorni, perché andavano a piedi.

Avveniva una specie di duello, nella Raccolta di Linci se ne possono leggere alcuni, e ce

ne sono di molto interessanti. Poi il monaco tornava nel suo tempio. Se qualcuno chiedeva

notizie dell’incontro potevano venirne altri koan. Ovviamente non c’era la radio, tanto meno la

televisione. Penso che di lettere ne scrivessero poche e i viaggi si facevano a piedi. I monaci

nei monasteri erano tanti e tutti uomini e siccome non si può fare zazen dalla mattina alla

sera, facevano pure un po’ di chiacchiere.

Non è che c’era tanto altro da fare, il mangiare non era abbondante e così pure il bere.

Perciò ci sono una gran quantità di aneddoti fra questi uomini che si incontrano e si

scontrano in grandi discussioni. Si dice che la nostra sia una società in cui la possibilità di

accedere alle notizie è così vasta che non si riesce a sapere tutto quello che succede. Così può

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far sorridere pensare che per incontrare una persona si camminava una settimana, giusto per

fare una domanda come Joshu, per poi andarsene a cercare da un’altra parte. Joshu è un

maestro particolare. Intanto è vissuto più di tutti gli altri, pare che sia arrivato a 120 anni. Ha

lasciato il suo maestro Nansen quando è morto, e aveva già sessanta anni quando si mise a

girare a piedi tutta la Cina fino a ottanta anni. In venti anni, per quanto piano può aver

camminato, deve avere incontrati tutti i maestri. T’ou Tzu è uno di loro.

Si dice che T’ou Tzu fosse un tipo un po’ strano, certo di normali non ce ne dovevano

essere tanti, e avesse la peculiarità di rispondere ripetendo qualcosa della domanda. Qualcuno

gli chiese: “Cosa ne è della porta aperta?” e lui rispose: “Aperta!”. “Che fa il leone che

ruggisce?”, “Ruggisce!”. In effetti che fa un leone che ruggisce? Ruggisce. Come è una porta

aperta? È aperta. Certo se queste banali evidenze le dice T’ou Tzu o Joshu, è una cosa, se le

dice uno che vuole imitarli, come ho detto questa mattina, si sente puzza di falso. Nel

Mumonkan c’è un koan in cui Joshu va a visitare due eremiti. Al primo fa una domanda e

quello alza il pugno per tutta risposta. Va dall’altro, gli fa la stessa domanda e anche quello

alza il pugno come risposta.

Del primo dice: “Qui l’acqua è molto bassa” e dell’altro: “Qui l’acqua è profonda, ci

potrebbero navigare delle grandi navi”, volendo dire che uno aveva capito mentre l’altro no.

Eppure il gesto era lo stesso. Abbiamo un maestro come Rinzai, di fronte al quale, chi

andava da lui gridava il kwatz. Rinzai diceva: “No, questo non arriva; no non c’è”. Io stesso, e

ognuno di voi lo può vedere nella propria pratica, quante volte sono andato da Mumon e m’ha

detto: “No, no, non arriva, non arriva!”. Allora se T’ou Tzu risponde “Aperta!” a chi gli chiede

com’è la porta aperta, si sente che c’è lo zen. Poi c’è chi lo copia.

Due monaci hanno sentito quel che dice T’ou Tzu, siedono uno accanto all’altro. Uno

chiede: “Cosa ne è della porta aperta?” e l’altro risponde: “Aperta!”. Passa il maestro e dice:

“Ma che state a fare! Siete diventati stupidi?”. All’inizio del SUGGERIMENTO, ENGO dice: <

Dove il giusto e lo sbagliato si fondono insieme, nemmeno i saggi possono saperlo; quando si

va contro e insieme, orizzontalmente e verticalmente, nemmeno i Buddha possono saperlo>

Né i saggi né i Buddha possono saperlo. Ci sono situazioni contraddittorie e i maestri

zen, quando sono costretti a dare delle risposte, possono darle soltanto nell’ambito della scuola

e soltanto nei confronti di chi è abituato ad ascoltare e parlare lo stesso gergo che c’è nella

scuola. Altrimenti non esistono le condizioni per dare spiegazioni.

Non è che non lo sa, non lo può dire e se lo dicesse non sarebbe compreso. <Chi è

distaccato dal mondo e trascende le convenzioni…cammina sul ghiaccio sottile e corre sulla

lama di una spada. È come …un fiore di loto nel fuoco> che si dice che non venga bruciato.

<Quando vede qualcuno al di là del paragone,…> qualcuno per il quale non ci sono

punti di riferimento, <...sa di camminare insieme sullo stesso sentiero>. Ovviamente vede

qualcuno al di là del paragone, nello stesso tempo vede qualcuno falso e anche di quello non

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può dare una spiegazione: lo vede e basta! Chi cammina sullo stesso sentiero lo percepisce

immediatamente e se ne accorge. Pure l’altro se ne accorge, ma sono comprensioni delle quali

se si dovesse dare una spiegazione non si saprebbe come fare. Infatti dice: <…cammina sul

ghiaccio sottile e corre sulla lama di una spada> perché è un equilibrio precarissimo.

Così quando si arriva al CASO e Joshu chiede: <Com’è quando un uomo che ha

vissuto la grande morte torna alla vita?> T’sou Tzu dice: < Non deve andarci di notte:

deve arrivarci alla luce del Sole> Un uomo che ha vissuto la grande morte e torna alla vita

in quale luogo deve arrivare alla luce del sole e non di notte? Dove? Chi ha vissuto la grande

morte e ritorna alla vita è colui che ha fatto la realizzazione.

Morire alla grande morte o vivere la grande morte, significa realizzare una condizione in

cui i propri attaccamenti, i propri desideri, le proprie paure, le proprie sofferenze e tutto il resto

non esistono più. Muore tutto quello a cui si è attaccati, perché l’essenza non ha ragione di

morire, non perché ci sia un’anima che passa da un corpo all’altro ma perché in essenza non

c’è alcunché che muore. Muore ciò a cui si è attaccati, ammesso che si possa dire morire.

Staccarsi è morire a quanto si è attaccati. Allora Joshu chiede: <Com’è…un uomo…

che torna alla vita?> < Non deve andarci di notte: deve arrivarci alla luce del Sole>. È

ovvio che possa avvenire soltanto nella chiarezza. Insomma nel momento in cui si realizza la

propria realtà, e la si realizza nel momento in cui ci si stacca completamente da ogni

attaccamento, non può esserci che chiarezza e luce.

Che non è certo la luce delle lampade che abbiamo accese perché sta venendo il buio,

ma la luce di vedere chiaramente quello che c’è da vedere. In uno dei due commenti alla

domanda e alla risposta dei due protagonisti, ENGO dice: <Un ladro non colpisce un padrone

di casa povero. È abituato ad agire come ospite, quindi ha tatto con gli ospiti>. Secondo ENGO

Joshu si comporta con molto tatto perché spesso i maestri che andavano in giro a fare queste

domande venivano paragonati a dei ladri che entrano, di soppiatto o a viso aperto, nelle case e

nei templi a rubare.

Il secondo commento dice: <Guardando una gabbia, fa una gabbia. Questo è un ladro

che riconosce un ladro>. Secondo ENGO Tzu è un ladro che riconosce in Joshu un altro ladro:

<Se non era sdraiato sullo stesso letto, come avrebbe potuto sapere che il copriletto è

consumato?>. È come dire: “fra amici si sa il colore delle mutande”. Ci sono molti modi di dire

cinesi che noi non conosciamo ma: “Tra ladri si riconoscono” è come “Fra cani non si mordono”

lo diciamo anche noi.

Questi due riconoscono l’un l’altro la propria capacità di entrare nelle case con

tranquillità così come ci entrano i ladri. Nel trattare questi casi, penso spesso che poteva

essere un modo per passare il tempo e divertirsi. Io non mi ci vedo ad andare in giro a fare

domande di zen, ammesso che in Italia, o in Europa, ci siano una ventina di monasteri con

maestri del livello di Joshu o Rinzai. Preferirei fare una passeggiata in montagna.

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Però l’alpinismo non era ancora stato inventato, non c’erano libri da leggere, niente figli

a cui pensare, nemmeno guadagnarsi da vivere per sé e per la famiglia. Se siamo realisti, non

vorrei dire cinici, ma insomma distaccati e non ci lasciamo prendere dalla religiosità come

comunemente è intesa, vediamo solo degli uomini che non sapevano come passare il tempo.

Perché Joshu andava in giro? Se aveva capito, poteva starsene a casa a leggere i libri

gialli di Conan Doyle, come piace fare a me, di un altro autore o fare altre cose, invece andava

di qua e di là. È vero che a noi sono rimasti i resoconti dei suoi incontri, le sue frasi e i koan e

così c’è stato un arricchimento. Dunque vanno visti sia in un senso che nell’altro.

ESORTAZIONE SERALE

Una recensione de il manifesto parla del libro di una filosofa italiana che citerò nel

prossimo Notiziario. Tratta di una santa cristiana la quale dice che il momento in cui si diventa

niente si diventa Dio; soltanto diventando niente si può diventare Dio. Le persone di sinistra,

che hanno sempre guardato altezzosamente verso l’Oriente, cominciano a dare lievi segni di

interesse. A parte questa considerazione, mi preme sottolineare che in qualunque mistico c’è

una specie di annullamento, per poter ritornare all’origine ed entrare in contatto con la divinità.

Si potrebbe obiettare: “Allora perché stare a gambe incrociate a soffrire di gambe e di

schiena, il caldo, le zanzare e il sonno?”.

Ogni essere umano si confronta prima di tutto con i bisogni del proprio corpo. Certo, il

momento in cui si accede alla comprensione ci si rende conto che essa non dipende da quanto

si è sofferto. Nello stesso tempo, se non si passa attraverso un certo tipo e una certa quantità

di sofferenza autoimposta, non ci si sveglia alla comprensione. Quando andavo in montagna

qualcuno diceva: “Perché andare a piedi in cima alle montagne dove ci stanno le funivie! E

perché da quei versanti così ripidi?”.

In effetti, per capire la montagna non c’è bisogno di andare sulle pareti più ripide.

Tuttavia, se non ci si libera da questo attaccamento non si riesce a diventare il niente di

cui parla la mistica. Stare seduti per lunghe ore in zazen provoca una certa sofferenza fisica a

tutti. Chi non ha male alle gambe magari ha sonno o caldo. E se magari non soffre di questo

ha la mente agitata dal pensiero che starebbe meglio al mare. La liberazione da tutto ciò

avviene soltanto il momento in cui si accetta la sofferenza che viene dalle gambe, il disagio

delle zanzare, l’insofferenza per l’appiccicaticcio del caldo.

Soltanto essendoci tanti disturbi si può imparare a diventare niente. Se si fosse in una

condizione più comoda, si potrebbe essere portati alla pigrizia, senza ricercare di uscire fuori

dallo stato di sofferenza. Si vorrebbe stare comodi ma la comodità rende pigri. Così per riuscire

a godersi la comodità bisogna passare attraverso la sofferenza. Tutto questo può sembrare

molto strano, ma una sesshin ha in sé tante stranezze le quali vanno comprese per renderla, è

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banale dirlo, comprensibile e accettabile. Così come si rende accettabile la sesshin, si può

riuscire a rendere soddisfacente la propria vita. Altrimenti, nulla sarebbe più strano e

schizofrenico dell’esistenza. Una volta compresa la sesshin, si comprende il senso

dell’esistenza, e così, come dicono i maestri, si cammina liberamente tra la terra e il cielo.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Nel leggere un testo come Hekiganroku, ritenuto una delle più alte espressioni della

religiosità buddista, si potrebbe rimanere sconcertati dalle frasi fatte e dalle banalità di cui è

pieno. Eppure, se si osserva la propria esistenza, tutto è ripetitivo e banale.

Per esempio, durante la sesshin di agosto, tutti i partecipanti fanno kinhin a piedi nudi,

invece a quella di dicembre tutti camminano con le calze. Fra le regole dello zendo non c’è

scritto che a dicembre si devono mettere le calze e in estate si deve andare a piedi nudi.

Ognuno, autonomamente, quando ha caldo si toglie i vestiti pesanti e quando ha freddo

si copre di più. A leggere Hekiganroku sembra che questo lo facciano solo gli illuminati. No, lo

fanno le persone normali.

Pure le macchine, ché in salita si mette la marcia più bassa se no si ferma. Si pensa che

il mistico vada alla ricerca di chissà quale realizzazione meravigliosa e quando i maestri dicono

che ciò di cui si va alla ricerca è dietro l’angolo, che basta girarlo e si trova, tutti pensano: “Sì,

dice dietro l’angolo perché vuole farlo sembrare facile però chissà cosa intende veramente per

angolo”. ll momento in cui si riesce a cogliere, momento per momento, istante per istante, le

banalità di cui i maestri hanno riempito i libri che trattiamo, si è come il Sole che è sempre lo

stesso, come i fiori che quando è il momento sbocciano e quando non piove da tanto tempo si

rinsecchiscono.

Chi vive nell’attesa di qualche cosa di meraviglioso dimentica di vivere. Il meraviglioso è

nel comprendere che adesso è meglio andare a piedi nudi che con le calze. Di per sé può

sembrare una sciocchezza eppure l’esistenza è tutta in questo istante, non c’è da andare a

cercare lontano.

Mercoledì 15 Agosto

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HEKIGANROKU

42° caso: Il laico P’ang e i bei fiocchi di neve

SUGGERIMENTO DI ENGO

Metterlo in evidenza unico e solo [ è ancora ] grondare acqua, trascinarsi nel fango.Quando il bussare e il rispondere avvengono insieme, [è ancora come] una montagnad’argento, un muro di ferro.

Se descrivete e discutete, vedete dei fantasmi di fronte al vostro cranio. Se cercate nelpensiero, siete seduti dietro la montagna nera. Il limpido sole illumina il cielo. Il puro vento ,sussurrando, circonda la terra.

Ma ditemi, gli antichi avevano qualche oscurità? Per controllare cito questo vecchio caso:guardate!

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Quando il laico P’ang prese commiato da Yao Shan, (Questo vecchio agisce in modostrano)

Shan ordinò a dieci viaggiatori ch’an di scortarlo fino al cancello. (Yao Shan nonla prende alla leggera. Che regno è questo? Solo un monaco vestito di pezze che conosce lacosa fino in fondo avrebbe potuto [trattare P’ang in questo modo])

Il laico indicò la neve nell’aria e disse: “Bei fiocchi di neve – non cadono innessun altro posto”. (Agita le onde dove non c’è vento. Il dito [con cui indica] ha gli occhi.C’è un’eco nelle parole di questo vecchio)

In quel momento uno dei viaggiatori ch’an chiamato Ch’uan disse: “Dovecadono?”. (Sul bersaglio. Egli arriva dietro P’ang. Ovviamente è salito sull’uncino di P’ang)

Il laico gli diede uno schiaffo. (Un colpo! Come si vedrà, il ladro che Ch’uan ha tiratodentro a messo a soqquadro la sua casa)

Ch’uan disse: “Nemmeno un laico deve essere così rude”. (Occhi spalancati in unabara)

Il laico disse: “Per quanto tu possa dirti un viaggiatore ch’an di questa via, il Redella Morte non ti lascerà andare”. (Il secondo mestolo d’acqua sporca è stato versato sudi lui. Perché solo il Re della Morte? Nemmeno qui lo avrebbe lasciato andare.)

Ch’uan disse: “E a voi, laico?”. (La sua rozza mente non è cambiata. Sta chiedendoancora un colpo. Dall’inizio alla fine questo monaco non sa che fare)

Il laico gli dette un altro schiaffo (Naturalmente. Aggiungere ghiaccio in cima allaneve. Dopo aver preso un colpo, rivelare la verità) e disse: “I tuoi occhi vedono come uncieco, la tua bocca parla come un muto”. (Fa un’altra affermazione conciliatoria. Legge dinuovo il verdetto per lui)

Hsueh Tou (g.=Seccho) disse inoltre: “Quando P’ang parlò per la prima volta, ioavrei subito fatto una palla di neve e l’avrei colpito”. (Hsueh Tou ha ragione, ma lanciala freccia quando il ladro se n’è già andato. Ciò è ancora piuttosto indulgente. In ogni caso,vorrei vedere le punte delle loro frecce incontrarsi. Ma come possiamo fare? Hsueh Tou ècaduto nella grotta del fantasma)

TEISHO

Il maestro di questo CASO, Yao Shan seguiva le cinque condizioni della scuola Soto

inserite da Hakuin come koan goi nella scuola Rinzai. Sono le varie interconnessioni tra

apparente e reale. Per quanto riguarda la neve, quando dice: <Bei fiocchi di neve>, è come

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se dicesse: “Che bell’aria di assoluto in questo posto! Non si sente in altri luoghi”. <Bei fiocchi

di neve – non cadono in nessun altro posto> ma la neve in Cina non è come in tutti gli

altri posti? P’ang era un personaggio con una qualche realizzazione dello zen e andava in giro a

visitare i maestri dell’epoca. Uscendo, accompagnato da dieci monaci, prende lo spunto per

fare una battuta e uno di quelli che lo accompagna ribatte alla sua affermazione.

ENGO dice: <Agita le onde dove non c’è vento> e poi <C’è un’eco nelle parole di questo

vecchio> che rimanda a qualche altra cosa. Proprio questo fatto invece, indica l’assoluto.

Allora Ch’uan, uno dei dieci, disse: <Dove cadono?> e qui, come può costatare chi

pratica i koan, il linguaggio è speciale. Si sa che i giornalisti e i politici italiani parlano il

politichese e spesso quello che dicono è tutt’altro di quanto veramente pensano. Il linguaggio

di questi monaci è un gergo specialissimo ristretto al proprio circolo. Se si aggiunge che erano

cinesi, si può capire quanto sia difficile comprenderli. Certo, quando si risolve il koan, si trova il

bandolo e si comprende l’essenza di ciò che si dice. <Bei fiocchi di neve – non cadono in

nessun altro posto> e allora <Dove cadono?>

Se uno venisse a Scaramuccia e dicesse: “È un bel posto, c’è una bell’aria” gli si potrebbe

chiedere: “Quando dici che c’è una bell’aria lo dici perché adesso c’è il vento di nord? Se

venisse il vento da sud o sud-est, dove sta la discarica pubblica, l’aria non sarebbe così bella!”

È invece ovvio che l’aria di cui parla non è certo l’aria atmosferica ma si riferisce all’aria

spirituale che si respira qui. Si gioca sulle parole, lo si fa spesso, in ogni ambiente e paese. Si

può dire che stiano giocando.

Poi dà uno schiaffo e l’altro dice che un laico dovrebbe essere più rispettoso nei riguardi

di un monaco. <Nemmeno un laico dovrebbe essere così rude> Il laico nei confronti del

monaco è molto più in basso e allora non potrebbe assolutamente permetterselo e perciò

vedete come gli risponde Ch’uan. Il laico P’ang disse: <Per quanto tu possa dirti un

viaggiatore ch’an di questa via, il Re della Morte non ti lascerà andare> ed ENGO:

“Eccolo qua che gli ha buttato un altro secchio di acqua sporca addosso”. Sono due: prima gli

ha dato uno schiaffo poi dice “il Re della Morte non ti lascerà andare, ti acchiapperà, non

riuscirai a venirne fuori tranquillamente” e allora Ch’uan che era proprio tignoso lo incalza: “E a

voi, laico, vi lascia andare?”.

Il laico gli dà un altro schiaffo e qui ENGO dice: <Aggiungere ghiaccio in cima alla neve>

P’ang aggiunge: <I tuoi occhi vedono come un cieco, la tua bocca parla come un

muto> cioè non sei in grado di capire. SECCHO nel sapere questo disse: <Quando P’ang

parlò per la prima volta, io avrei subito fatto una palla di neve e l’avrei colpito>

Quando ha detto “I bei fiocchi che cadono qui non cadono da nessuna altra parte” lo avrei

colpito con una palla di neve. Le risposte dei maestri sono tante. Sappiamo del maestro che di

fronte a una brocca esorta a dire una parola di zen e un monaco dà un calcio alla brocca.

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Sappiamo di Nansen che vuole una parola di zen oppure taglierà il gatto. I monaci non la

dicono e quando torna Joshu gli chiede: “Se ci fossi stato tu che avresti fatto?”. Joshu si mette

un sandalo sulla testa e se ne va.

Vedete come agisce l’assoluto in ciascuno di questi maestri. SECCHO invece avrebbe

tirato una palla di neve. Questo koan può sembrare tanto complicato, da un dialogo insensato,

come se vedessimo uno di quei dibattiti TV dove non si capisce niente! Quando lo guardo avrei

bisogno di un interprete, parlano di cose che non riesco a seguire e avrei bisogno di qualcuno

che mi spiegasse di volta in volta di che parlano.

Non è più semplice parlare chiaro? Invece no, dicono tutto il contrario di ciò che,

razionalmente, dovrebbe essere detto o fatto. Così questi maestri zen si comportano in

maniera strana. Fanno affermazioni strane e alcuni dicono il contrario di quello che ci si

aspetterebbe che dicessero. Uno parla di fiocchi di neve e l’altro gli tirerebbe una palla di neve.

Mah! Però è così, perché ogni essere si muove all’interno di un gruppo di persone per le

quali le parole hanno un significato diverso per chi è al di fuori di quel gruppo.

È molto difficile spiegare all’esterno comportamenti che sono spontanei, come le battute

che si dicono nei confronti di persone con le quali si hanno rapporti quotidiani. Si dovrebbero

fare spiegazioni lunghissime e l’estraneo capirebbe fino a un certo punto. Tutta l’esistenza

umana è così. Ognuno di noi sceglie di entrare in certi ambienti.

Finita la sesshin tornando a lavorare nell’ufficio ci sarà un modo di parlare specifico che,

per quanto possa essere descritto, una persona esterna non capirebbe completamente. Si

tornerà nella propria famiglia e le parole che si dicono tra familiari, per ogni famiglia sono

diverse. Si andrà dai genitori e anche lì sarà un altro ambiente. Si va a nuotare con gli amici

del nuoto e ad arrampicare con gli amici dell’arrampicata.

Ognuno di questi ambienti è diverso ed ognuno di questi ambienti richiede le relative

parole. Infatti quando si è fuori da un ambiente per un certo tempo, al momento del rientro ci

si trova spaesati. Ma che centra con lo zen di questo caso? Lo zen non è qualche cosa di

astruso, o monopolizzato da persone che vivono in luoghi separati, come erano i monasteri

cinesi e come lo sono ancora alcuni monasteri giapponesi e, forse, europei, dove la vita è

limitata a quell’ambiente e si parla soltanto di ciò che riguarda il monastero e la religione.

Lo zen invece è in tutti gli atti quotidiani della nostra esistenza se si è in grado, come

appunto il laico P’ang di riconoscere: “Qui c’è lo zen, qui c’è il reale, qui c’è l’assoluto”, in ogni

luogo in cui si transita o si risiede. In ogni luogo, usando la metafora del laico P’ang c’è un

diverso tipo di neve e di aria, e così una diversa capacità di accedere al reale. Basta stare

attenti. Dovunque c’è la giusta aria da respirare, basta saper respirare

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ESORTAZIONE SERALE

Questo pomeriggio, mentre s’arrampicava qua sotto, osservando il modo di comportarsi

dei giovani che s’incontrano in roccia, soprattutto quelli che vanno spesso in palestra, si vede

che essi si dedicano alla risoluzione di una via andandoci tantissime volte. Quando è risolta

passano ad un’altra via, cancellando quella che è già stata salita dalla lista dei propri desideri e

dei propri programmi. Ho detto che si potrebbe chiamare la mentalità di Casanova. Però l’idea

di conquista, sebbene Casanova fosse un uomo e la rivolgesse nei confronti delle donne, mi

pare che sia estesa a tutti i sessi, proprio tutti.

C’è il senso di conquistare una persona dell’altro sesso o del proprio sesso, e poi, una

volta ottenuta soddisfazione, lasciarla da parte e andare a cercarne un’altra. Nei problemi di

sesso non voglio entrare, io voglio parlare dei koan. Perché pure nei confronti del koan, e

ognuno può vederlo da sé in tantissime altre situazioni, si manifesta questa mentalità, cioè

l’idea di dover raggiungere una meta. S’è iniziato con la scuola, finita la prima media c’era la

seconda poi la terza con l’esame. A seguire il liceo, per chi c’è andato, e l’università, il lavoro e

poi che? Nella nostra scuola ci sono i koan che possono indurre questa sindrome di conquista e

di consumo: l’ho risolto, adesso un altro. Del koan come delle altre conquiste, se si hanno tanti

rapporti, è probabile che qualcosa rimanga. Come delle scuole le rispettive classi, pur

lavorando, qualcosa gli rimarrà.

Così avviene per i koan se si sa stare attenti. In tutte le situazioni che ho detto e le altre

migliaia che non ho detto e che si possono bene immaginare, bisogna stare attenti, perché

soltanto stando attenti c’è la risoluzione a ogni problema. Le stesse identiche cose possono

essere fatte con un’attitudine diversa e cioè senza la brama. Così ritorna fuori la brama,

quando si dice che non esistono le quattro verità.

Però quando fa comodo, si tirano sempre fuori. Si dovrebbe riuscire ad agire senza la

brama che in uno dei quattro voti si dice di voler estirpare. Senza la bramosia dell’ottenimento

si potrebbe praticare il koan con un atteggiamento di devozione e nello stesso tempo di

distacco. Per trovare l’equilibrio che consiste nell’avere l’atteggiamento attento. Ricordo un

libro di Huxley ambientato su un’isola immaginaria, nella quale vorrebbero vivere tutti, dove

ogni tanto si sentiva volare un uccello che faceva il verso: “Attenzione, attenzione!”.

Bisognerebbe riuscire a sentire risuonare dentro di sé il grido di questa cornacchia:

“Attenzione, attenzione!”. Ogni passo, ogni respiro.

Mumon roshi diceva: “Pur essendo attenti durante il respiro, fra l’inspirazione e

l’espirazione c’è un istante infinitesimale nel mezzo del quale si insinua la disattenzione”, come

i topi nella falegnameria, che si infilano appena trovano un piccolo varco. Stare attenti. Non si

dovrebbe dire, è banale, che l’attenzione chiude i varchi della disattenzione.

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ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Su il Manifesto di qualche giorno fa, uno scrittore ha riferito di aver rinunciato a

mangiare la carne da alcuni mesi. Inoltre per disinteresse e per resistenza, fa a meno dei

prodotti che vengono pubblicizzati in televisione. Invita poi i suoi lettori a segnarsi tutti i

prodotti che vengono pubblicizzati in televisione per evitare di acquistarli.

Fa piacere vedere che altri comprendono che l’essere umano deve impegnarsi nel lavoro

di fare a meno. Il primo impegno del praticante buddista è riuscire a riconoscere l’anatta, cioè

che non c’è alcuna essenza, non c’è alcun io, e perciò niente a cui attaccarsi. Il primo esercizio,

nel primo istante in cui il praticante si siede sul cuscino, è concentrarsi sul respiro e far cadere

i propri pensieri. Nessun altro lavoro è così fondamentale nello zen come il liberarsi da

qualunque attaccamento, compreso l’attaccamento a sé.

Nella filosofia occidentale si fa risalire al “io penso” il fatto di essere. E cioè io penso

dunque sono. Nello zen invece, si comincia a conoscere la propria vera essenza il momento in

cui si riesce a non pensare.

Entrando nello zendo già si lascia fuori tutto ciò che si è portato dalla città. Sedendosi sul

cuscino si deve lasciare tutto quello che ci si è portati dalla nascita fino a ritornare alla propria

origine. Per arrivare all’origine c’è bisogno di staccarsi da tutto per vedersi completamente

nudi. Quando si entra nella fontana si ha ancora tutto addosso. Invece, come dice Huineng,

bisogna vedersi come si era prima che i genitori fossero nati. Ecco che parlando di non

mangiare la carne e di boicottare la televisione, si richiama al praticante il proposito di riuscire

non solo a eliminare alcuni prodotti superflui ma a eliminare tutto per sentirsi uno con il vuoto

assoluto.

Giovedì 16 Agosto

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HEKIGANROKU

43° caso: Tung Shan dice: “Né caldo né freddo”

SUGGERIMENTO DI ENGO

Diecimila saggi dimorano presso la frase che determina il cielo e la terra. Nemmeno imille saggi possono giudicare l’abilità di catturare tigri e rinoceronti. Senza ulteriori tracce diostacolo, l’intero essere appare equamente ovunque.

Se volete capire il martello e le tenaglie della trascendenza, vi sono necessari la fucina eil mantice di un adepto.

Ma ditemi: sin dai tempi antichi c’è mai stato o no un simile stile di famiglia? Percontrollare cito questo vecchio caso: guardate!

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Un monaco chiese a Tung Shan: “Quando arrivano il caldo e il freddo, comepossiamo evitarli?”. (Non è questa stagione. [Caldo e freddo] sono là sul tuo volto, là sullatua testa. Dove sei?)

Shan disse: “Perché non andare nel luogo in cui non c’è caldo né freddo?”. (Lagente del mondo non riesce a trovarlo. Lui nasconde il corpo ma rivela un’ombra. Una spiavede un’immaginaria città d’argento)

Il monaco disse: “Qual è il luogo in cui non c’è né caldo né freddo?”. (Tung Shantruffa interamente tutti. Il monaco si volta seguendolo. Non appena Tung Shan lascia cadere ilsuo uncino il monaco si arrampica su di esso)

Tung Shan disse: “Quando è caldo, il caldo vi uccide; quando è freddo, il freddovi uccide”. (Il vero non nasconde il falso, il piegato non nasconde il dritto. Guardando inbasso dalla rupe vede tigri e rinoceronti – è davvero occasione di tristezza. Tung Shancapovolge il grande oceano e fa crollare con un calcio il monte Sumeru. Ma dimmi, dov’è TungShan?)

TEISHO

Non erano messi male questi maestri cinesi se potevano cavarsela con certe risposte.

Se durante il mondo di Scaramuccia, me ne uscissi con risposte simili, e certe volte mi viene di

rispondere così, sarei troppo stravagante.

Sembra che chi diventa maestro di zen sia come quando si è bambini o si è vecchi, che

si può fare quello che si vuole: “Tanto sono bambini, tanto è vecchio!”. Qui si potrebbe

pensare: “Tanto è un maestro di zen!” Come accade ai folli del villaggio: “Tanto è matto!

Lasciaglielo dire, mica succede niente!”. Sembrerebbe possibile dirle a chiunque, basta

mandare le parole in libertà. Una volta ho ricevuto un libro nel quale erano raccolti degli haiku

generati dal computer.

Erano state immesse un certo numero di righe: la luna fresca, il vento caldo, il mare

agitato, eccetera. Il computer le mescolava, le invertiva e le metteva in altri contesti e ne

venivano tanti haiku, tutti diversi e, potremmo dire interessanti. Su internet, come sui libri, e

nelle riviste di buddismo che mi arrivano, si leggono proprio parole in libertà.

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E che ci vuole? Uno chiede: <Quando arrivano il caldo e il freddo, come possiamo

evitarli?> e l’altro gli dice: <Perché non andare nel luogo in cui non c’è caldo ne

freddo?> e il monaco: <Qual è il luogo in cui non c’è né caldo né freddo?> e Tung Shan:

<Quando è caldo, il caldo vi uccide; quando è freddo, il freddo vi uccide> La volta

precedente un maestro diceva: “Com’è quando la porta è aperta?”, “È aperta!”. “Com’è quando

la porta è chiusa?”, “È chiusa!” Alé! Sono di una sveltezza incomparabile. Però quando poi si va

a cimentarsi con i koan che derivano da questi incontri. di fronte a certe domande, che si può

dire? Nell’introduzione del libro Mondo ho scritto che ad alcune domande non si può

rispondere altro che: “È così perché è così”. A certe domande che si può rispondere? Un

monaco va da Joshu e gli chiede: “Secondo te il cane ha la natura di Buddha?”.

Joshu non era un tipo manesco ma se fosse stato Rinzai avrebbe risposto con un calcio.

Joshu è stato gentile e ha risposto MU e noi stiamo ancora qui, con profitto, a gingillarci

con la sua risposta. Il calcio di Rinzai come risposta alla domanda sul cane sarebbe stato

veramente duro riproporlo come koan. È sicuramente meglio MU.

In un certo senso sono comunque domande impossibili da rispondere. Esse possono

essere solo stravaganti come le risposte che compaiono su queste raccolte. Il monaco chiede:

<Quando arrivano il caldo e il freddo, come possiamo evitarli?> La risposta di Tung

Shan (g=Tozan) è quasi banale: “Ma dov’è il posto dove non c’è né caldo né freddo?”. Se si

prende caldo e freddo in senso metaforico cioè: “Quando ti arriva una disgrazia che fai?”, uno

può dire: “Non si può fare altro che provare a prenderla nella maniera meno dolorosa possibile,

capendo magari che può essere l’occasione per capire quello che ti è arrivato. <Il monaco

disse: “Qual è il luogo in cui non c’è né caldo né freddo?”> A saperlo! Forse non c’è! O

c’è, perché il momento in cui non esiste la mente non esiste né il caldo né il freddo. Però

possiamo andare in giro senza mente? C’è un koan che dice: “Se non c’è mente non c’è

sofferenza”. Certo! Però non si può andare sempre in giro senza la mente, ci sono tanti

momenti della giornata in cui si deve utilizzare la mente. In quei momenti il caldo e il freddo lo

si sente così come si sente il dolore.

Quando il monaco chiede qual è il luogo, ENGO annota: <Tung Shan truffa interamente

tutti. Il monaco si volta seguendolo>. Il monaco pensa: “Questo m’ha detto di andare nel

posto dove non c’è né caldo né freddo”, abbocca subito e gli chiede dov’è il posto. ENGO

annota: <Non appena Tung Shan lascia cadere il suo uncino (l’amo) il monaco si arrampica

(abbocca subito) su di esso>. <Tung Shan disse: “Quando è caldo, il caldo vi uccide;

quando è freddo, il freddo vi uccide”> Se non si vede cosa siano effettivamente il caldo e il

freddo è ovvio che se ne possa rimanere uccisi. Se si riesce a vedere queste avversità con

l’occhio dello zen, se ci si può spogliare, quando è caldo ci si spoglierà, se si può vestirsi,

quando è freddo ci si coprirà.

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Comunque sia si sarà in grado di sapere che il freddo così come il caldo passano. Lo si

accetta, sia il caldo che il freddo, sapendo che passerà. Altrimenti si lotta contro qualche cosa

di invincibile. Il caldo è caldo, nulla si può fare e così per il freddo. Ugualmente è per la sorte

avversa che potrebbe capitare. C’è da risvegliare la chiarezza che fa vedere la realtà del freddo

e del caldo, ovvero la realtà dei problemi che si hanno di fronte. All’inizio dice: <Diecimila

saggi dimorano presso la frase che determina il cielo e la terra>. È una frase che fa vedere la

legge che regola il cielo e la terra e <Nemmeno i mille saggi possono giudicare l’abilità di

catturare tigri e rinoceronti>, metaforicamente le tigri e i rinoceronti sono i problemi contro i

quali districarsi nel corso dell’esistenza. <Senza ulteriori tracce di ostacolo, l’intero essere

appare equamente ovunque>.

Se si riesce a rimanere nello stato di comprensione si è l’intero essere che appare

equamente ovunque. Questa frase ricordatevela perché potrebbe ritornare. Certo: <Se volete

capire il martello e le tenaglie della trascendenza, vi sono necessari la fucina e il mantice di un

adepto>, ma la fucina e il mantice di un adepto non sono altro che la capacità di praticare.

La sesshin è la fucina nella quale si forgiano gli adepti, è banale sfruttare questo

esempio. Sicuramente è una grande occasione ritrovarsi insieme in un luogo di pratica, starci e

insieme tirare fuori le erbacce dal laghetto mentre ognuno compie il suo lavoro. Nello stesso

tempo da questo stare insieme scaturisce la capacità di essere soli e di vedere da se stessi

nella propria realtà. Si può perciò affermare che è veramente una grande fucina dalla quale

vengono fuori il martello e le tenaglie della trascendenza.

ESORTAZIONE SERALE

Durante i campionati del mondo di atletica svoltisi nei giorni passati, uno dei partecipanti

ha detto: “Purtroppo non sono andato bene perché non avevo fatto un buon riscaldamento”. Si

dice spesso così ad a arrampicare se la via che si sale all’inizio non viene bene: non ci si è

scaldati abbastanza. Quando ero in Giappone, soprattutto nel periodo in cui servivo Mumon

roshi, avevo spesso giornate affannose e dopo qualche minuto che eravamo rientrati al

monastero, dovevo essere nella stanza di sanzen, che era separata dalla casa del maestro,

accendere il senko, tirare fuori la campana e suonarla per entrare subito.

L’injisan, il servitore, entra per primo. Avrei potuto dire, come l’atleta dei campionati del

mondo, che non avevo potuto fare abbastanza riscaldamento. Eppure, spesso, le migliori

risposte mi venivano senza il riscaldamento di lunghi periodi di zazen per pensare al koan.

Insomma, la risposta del koan non è dipendente dai muscoli come la prestazione sportiva.

I muscoli come i motori e altri macchinari hanno bisogno di un periodo di rodaggio e di

riscaldamento. Il koan non dipende dai muscoli, esso va messo nella pancia perché lavori da

sé. È importante richiamarlo e rimetterlo lì in continuazione. Quando si va a dare la risposta, se

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si è lavorato così, ovvero ci è stata dedicata la giusta attenzione, senza fare zazen, la risposta

viene. Ogni tanto telefona qualcuno che non conosce Scaramuccia perché vuole stare dei giorni

a meditare. Alcuni vorrebbero risiedere al di fuori delle sesshin per godersi un luogo di

spiritualità. Hanno bisogno di tranquillità e immaginano che sia un convento con dei monaci

che camminano con le loro tonache svolazzanti, mentre leggono il breviario, in silenzio, avanti

e indietro, campane che risuonano ogni tanto come a Camaldoli dove sono stato due\tre volte.

Scaramuccia non è affatto così, anzi è tutto il contrario, soprattutto nei periodi in cui ci

dovrebbe essere la concentrazione, ovvero durante un seminario di meditazione. Si pensa che

in un seminario di meditazione si mediti a lungo!

Per meditare si medita, ma le occasioni in cui si lavora sul riscaldamento per avere il

rodaggio giusto che dia la risposta al koan, non ci sono o sono poche. Se si vede bene, rispetto

ad altri posti di zen, qui di zazen se ne fa poco. Si fa tanto altro di importante e interessante,

la giornata è piena eppure facendo così poco zazen uno potrebbe pensare: “Come fanno a

risolvere i koan se non ci pensano mai?”. Non è affatto così perché le risposte si danno e io

non regalo niente a nessuno.

Magari qualche volta ci vuole un calcione, come si diceva a scuola: “È passato?” “Sì, ma

col calcio dei professori”. In certi momenti si può avere bisogno di questo, ma state attenti. Un

giorno ci saranno luoghi in cui alcuni di voi, se non tutti, avranno la responsabilità

dell’insegnamento e di mantenere la linea fondamentale della nostra scuola. Se a Scaramuccia,

pur non facendo tanto zazen si riescono a risolvere i koan, e i praticanti qualche cosa la

capiscono, vuol dire che la libertà, seppure attenta, è meglio della costrizione. Senza

costringersi a sedere ore e ore, a stare in silenzio o altre pratiche severe, perché le persone

intelligenti sanno trovare in qualsiasi occasione la possibilità di lasciar venire fuori la realtà che

è nel profondo.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Girando durante junkei e colpendo col keisaku si scopre, se pure ce ne fosse bisogno,

che le schiene sono tutte diverse. Sono diverse le schiene, è diverso il modo di presentarsi per

ricevere i colpi, sono diverse le teste sopra le schiene. Da noi il keisaku non è una punizione, è

soltanto la richiesta di un colpo che dia lo stimolo per mantenere la posizione, la

concentrazione. Eppure, in questo semplice gesto di inchinarsi e di mettere a disposizione la

propria schiena per essere colpiti, ci sono tanti atteggiamenti.

Non è il mio campo quello della psicologia e così non mi avventuro in giudizi avventati.

Come avviene nei confronti della vita, ognuno si pone con più o meno fiducia e lascia che

quanto deve accadere accada. In quel momento non si può fare altro e si accetta quanto sta

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succedendo perché si svolga nel miglior modo possibile: si lascia ben distesa la propria schiena

perché il colpo raggiunga il punto preciso e abbia il suo effetto per riprendere zazen.

Tante volte c’è la schizofrenia di voler fare un passo e nello stesso tempo, appena si

comincia a camminare, voler tornare indietro, cioè l’incapacità di buttarsi decisamente in

quanto si è deciso di fare. Questo piccolo momento della nostra giornata di sesshin, che nella

lunghezza della vita rappresenta la miliardesima parte di quanto abbiamo vissuto, pure così

piccolo mostra l’incertezza, cioè l’incapacità di lasciarsi andare. Quanto dico non è una critica

per come vi disponete a ricevere il keisaku.

Quanto fate è giusto, va bene così, ma ci sono delle minime differenze e queste minime

differenze fanno proprio la differenza generale che c’è tra ogni essere umano. Inchinarsi e

ricevere il keisaku sembrerebbe un atto che tutti dovrebbero fare nello stesso modo. Dalla

constatazione di questa differenza si deve accettare che ognuno possa essere diverso dall’altro.

Constatata questa diversità ognuno potrà accettare oltre che sé anche gli altri.

Venerdì 17 Agosto

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HEKIGANROKU

44° caso: Ho Shan e il saper battere il tamburo

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Ho Shan pronunciò alcune parole che dicevano: “Coltivare lo studio è detto‘sapere’. Cessare lo studio è detto ‘vicinanza’. (I monaci vestiti di pezze del mondo nonriescono a superare chiaramente ciò. Un martello di ferro senza il foro per il manico. Una puntadi ferro)

Andare oltre ciò dev’essere considerato il vero andare oltre”. (Cosa fai con l’unicoocchio sulla fronte?)

Un monaco si fece avanti e chiese: “Cos’è il vero ‘andare oltre’?”. (Cosa dice? Iolo cancellerei con un solo colpo di spazzola. C’è una punta di ferro)

Shan disse: “Saper battere il tamburo”. (Una punta di ferro. Rovi di ferro. Duro,duro)

Chiese ancora: “Qual è la vera verità?”. (Cosa dice? Un caso doppio. C’è un’altrapunta di ferro)

Shan disse: “Saper battere il tamburo”. (Una punta di ferro. Rovi di ferro. Duro,duro)

Chiese ancora: “ ‘La mente è il Buddha’ – non interrogo su questo. Cos’è la non-mente e il non-Buddha?”. (Cosa dice? Questo cumulo di rifiuti! Le tre sezioni non sonouguali. C’è un’altra punta di ferro)

Shan disse: “Saper battere il tamburo”. (Una punta di ferro. Rovi di ferro. Duro,duro)

Chiese ancora: “Quando arriva un uomo trascendente, come lo ricevete?”. (Cosadice? Questo monaco incontra un quarto mestolo della sua acqua sporca. C’è un’altra punta diferro)

Shan disse: “Saper battere il tamburo”.(Una punta di ferro. Rovi di ferro. Duro, duro.Ma dimmi, cosa significa realmente questo? Di mattina va in India, di sera torna in Cina)

TEISHO

Un monaco va da Hoshan e gli fa quattro domande: <Cos’è il vero ‘andare oltre’?>,

<Qual è la vera verità?>, <La mente è il Buddha (ma) la non-mente e il non-Buddha

(che cosa sono) ?>, <Quando arriva un uomo trascendente, come lo ricevete?> Ho

Shan risponde sempre: <Saper battere il tamburo>.

Non è che sia tanto strano questo Ho Shan, se andiamo indietro abbiamo Gutei (c.= Chu

Ti) che era molto più semplice: alzava il dito. Uno gli chiedeva: “Com’è il tempo oggi?”, Gutei

alzava il dito, “Com’è la mente-Buddha?”, alzava il dito, “Com’è quando i Buddha escono nel

mondo?”, alzava il dito. Ho Shan risponde: <Saper battere il tamburo>. Una volta chiesi al

monaco più anziano di Shofukuji qual era l’attività più importante del monastero e per tre volte

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mi rispose: “Fare le pulizie”. Perciò vedete che dopo Gutei, Ho shan e chissà quanti altri,

attaccati al loro rispondere allo stesso modo, ce ne sono stati anche nei tempi recenti.

Quando si fa una domanda, indipendentemente dal significato delle risposte come saper

battere il tamburo o fare le pulizie, alzare un dito oppure dare trenta colpi di bastone, ciò che è

che è fondamentale è la domanda e chi la fa. Nel Mondo appena pubblicato scrivo che la

domanda ha in sé la risposta. Le domande rimangono sempre perché non vengono cancellate

dalle risposte. Le domande rimangono perché sono esse i problemi. Le risposte non sono i

problemi. Il problema è la domanda.

Il praticante veramente intenzionato a comprendere quanto sta domandando, se è

attento, si accorge che la risposta lo riporta alla domanda che ha fatto e da quella cerca di

arrivare alla comprensione. <Ho Shan pronunciò alcune parole che dicevano: “Coltivare

lo studio è detto ‘sapere’. Cessare lo studio è detto ‘vicinanza’>. Mi ricorda una poesia

di Montale che dice ad un certo punto: “Non è il sapere l’escogitazione perché la nostra testa

non è fatta per quello”. Quando cessa lo studio e avviene il conseguimento della saggezza, c’è

la vicinanza. Quando ci si applica a una domanda, c’è lo studio, il sapere e quando la domanda

si scioglie ecco la vicinanza. La domanda si può sciogliere perché la risposta che si riceve

dovrebbe far tornare sulla domanda per vederla bene. Oppure si lavora talmente tanto sulla

domanda che essa da sé diventa la risposta. Nello zen ci sono scuole che praticano la domanda

continua, in cinese hua tou.

Ci si chiede continuamente chi sono io? così come si ha l’attenzione al respiro e

successivamente l’attenzione verte sul koan, soprattutto il primo koan che ha la funzione del

chiedersi chi sono io. Non solo nello zen, ma anche nel Vedanta se si pensa a Nisargadatta. La

sua illuminazione è scaturita dal ripetere continuamente, come gli aveva detto il suo maestro,

“Io sono Brahma”, “Io sono l’assoluto”. Gli espedienti sono domande che diventano

affermazioni come nel caso di Nisargadatta. All’inizio, pure se lo dice, mica ci crede! Potrebbe

chiedere: “Io sono Brahma?”.

Quando è Brahma stesso che gli risponde la domanda viene esaudita. Qui la funzione di

Ho Shan è proprio la stessa. Non può farci niente tanto che anche ENGO nelle sue annotazioni

ripete sempre le stesse cose. <Cosa dice (il monaco)? C’è una punta di ferro>, <Cosa dice (il

monaco)? Questo cumulo di rifiuti!>,<Cosa dice (il monaco)? Questo monaco incontra un

quarto mestolo di acqua sporca>. Sono modi di dire. In Italia, quando non c’erano i gabinetti e

si usavano gli orinali, si rovesciavano dalla finestra. In Cina si parla di mestolo di acqua sporca

ma non si capisce bene di cosa sia sporca. Proprio perché continua a rivolgere la stessa

domanda. Di tutte le domande che fa gli basterebbe risolverne una e il resto verrebbe da sé.

Mi ricordo che a Shofukuji c’era un vecchietto laico, vissuto per un certo periodo nel

monastero insieme a noi. Aveva una certa saggezza, e ripeteva: “Non è importante risolvere

tanti koan, se ne risolvi bene uno solo quello basta e avanza per tutto il resto”. In queste

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quattro domande del monaco: “Cos’è il vero ‘andare oltre’?”, il vero andare oltre è fare

l’illuminazione. Non c’è altro da chiedere per sapere “Qual è la verità”, “Cos’è la non-mente e il

non-buddha”, “Quando arriva un uomo trascendente, come lo ricevete?”. Pensate a

quest’ultima domanda: <Quando arriva un uomo trascendente, come lo ricevete?> gli

faccio la pasta asciutta o la minestra? gli metto il tappeto rosso, suono il tamburo o gli metto

una musica classica? Che domanda è questa? Basterebbe che risolvesse la prima e già se ne

potrebbe andare a casa tutto contento stropicciandosi le mani e dicendo ce l’ho fatta, come

qualcuno di voi quando torna dalla stanza di sanzen avendo risolto un koan.

ESORTAZIONE SERALE

Nel Notiziario di qualche mese fa è stata pubblicata una poesia di Montale molto breve.

Il titolo è “Come Zaccheo”: Zaccheo è un personaggio del vangelo. Un giorno Cristo è

passato in un villaggio e Zaccheo s’è arrampicato su un albero di sicomoro per riuscire a

vederlo ed è stato encomiato per questo. Montale dice: Si tratta di arrampicarsi sul

sicomoro/per vedere il Signore semmai passi/Ahimè non sono un rampicante e anche/stando

in punta di piedi non l’ho mai visto. Penso che la trascrissi sul notiziario, dove si parla spesso di

arrampicate, per far sapere a chi non arrampica, che va bene lo stesso.

Invece stasera m'ha fatto pensare che per vedere il Signore uno debba arrampicarsi.

Arrampicarsi è metaforico e significa fare qualche cosa di straordinario. Anche il Buddha

Shakyamuni a un certo punto decise di mettersi nella posizione del loto senza più muoversi

fino a che non fosse riuscito a vedere il Signore: “Adesso vediamo chi è più tignoso. Io non mi

muovo”. È come il gatto che aspetta i topi davanti al pollaio. Ai topi a un certo punto viene

fame, si affacciano e il gatto ne acchiappa uno. Questa cocciutaggine, quando era ancora

Siddharta, 2500 anni fa lo ha fatto accedere alla buddità.

Se non fosse stato così determinato, sarebbe rimasto Siddharta e noi non lo avremmo

conosciuto. La testardaggine di Siddharta è arrivata fino a noi che invece di arrampicarci sul

sicomoro ci sediamo sul cuscino. Attenti, sguardo socchiuso, concentrati sul respiro, se passa

non ci sfuggirà. Come la gatta aspetta il topo noi aspettiamo il passaggio del Signore e

dovrebbe passare, perché nelle altre sesshin c’è stato chi lo ha visto.

Sicuramente c’è da parte di molti una brama positiva, ammesso che la brama possa

essere definita positiva o negativa. Insomma si compie una certa azione per arrivare a un

risultato, e non si può fare altro. Sono questi gli strumenti che abbiamo, e che ci faranno

arrampicare quando questa sera staremo fuori con le stelle sopra la nostra testa. Chiaramente

esse ci stanno da sempre e magari verrà la voglia di arrampicarsi in cima a una stella per

vedere se si arriva più vicini al Signore. Per capire che non c’è da arrampicarsi da nessuna

parte, né sul sicomoro o sulle montagne, sui cuscini o sulle stelle.

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Poiché non ci sono luoghi privilegiati dai quali poter vedere il Signore: sta lì. Come hanno

ripetuto tanti maestri: basta aprire gli occhi e si vede il Signore che passa. Perché il Signore

che passa sono io che vado a passeggio, come sono il Signore seduto, il Signore che mangia, il

Signore che va al gabinetto. Senza arrampicarsi sui sicomori. Quest’ultima notte c’è una

sesshin nella sesshin. Si starà seduti più a lungo e nell’arrampicarsi, da qualunque parte capiti

di farlo, si provi a vedere il Signore che è in noi perché è l’unico modo di incontrarlo.

ESORTAZIONE FINALE

La mia prima sesshin in Giappone, ho pensato che suicidarsi sarebbe stato meglio. Sono

comunque arrivato alla fine e tutto contento sono andato insieme agli altri a fare un bagno

caldo. Poi la voglia di suicidarsi è tornata di tanto in tanto, ma l’avventura è proseguita

felicemente. Quando le sesshin finiscono noi siamo diversi da quando abbiamo incominciato.

Piano piano questa piccola realtà di Scaramuccia cresce. Può sembrare talvolta che da parte

mia ci sia l’idea di lasciare, aspettandomi che qualcuno prenda il mio posto, ma non è così,

perché non ci si stacca mai dai figli, come non ci si ci distacca dai discepoli.

Certo si diventa padri, i figli diventano grandi e si diventa nonni. E come i figli, piano

piano si prende coscienza dei propri mezzi, non solo che si può stare seduti a lungo, non solo

che i koan che sembravano insormontabili rivelano la loro chiarezza, ma si diventa capaci di

andare nel mondo per insegnare quanto si è imparato. È vero che tante volte ho detto che il

mondo così com’è è perfetto, e non ci dovrebbe essere bisogno di crescere. Nello stesso tempo

però, c’è il piacere di imparare e il piacere di insegnare, perché la vita è soltanto questo.

Sabato 18 Agosto

SESSHIN del 12/18 Agosto 2001

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HEKIGANROKU

45° caso: Chao Chou e la camicia di panno di sette libbre

SUGGERIMENTO DI ENGO

Quando deve parlare, parla: nel mondo intero non ha avversari. Quando deve agire,agisce: la sua abilità non si sottomette [a nessuno]. È simile alle scintille emesse da unapietra, simile al chiarore di un lampo di luce, simile a un fuoco impetuoso attizzato dal vento,simile a un torrente in corsa che attraversa la lama di una spada. Quando solleva il martello ele tenaglie della trascendenza, non potete evitare di perdere le vostre caratteristiche e di averela lingua legata.

Egli apre una singola strada continua. Per controllare cito questo: Guardate!

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Un monaco chiese a Chao Chou: “Le miriadi di cose ritornano all’uno. Doveritorna l’uno?”. (Sta mettendo alle strette questo vecchio. Ammucchiato in montagne,accumulato in serie. Dovrebbe evitare di andare a passare la vita nella grotta degli spiriti)

Chou disse: “Quand’ero nel Ch’ing chou feci una camicia di panno. Pesava settelibbre”. (Dopo tutto Chou va in ogni direzione, tirando una rete che riempie il cielo. Ma tu vediChao Chou. Ha perforato le narici dei monaci vestiti di pezze)

TEISHO

Il nome di Joshu a Scaramuccia è stato ripetuto tante volte pure dai presenti e sulle sue

risposte è stato pubblicato un libro intitolato “Zen Radicale”. Perché è uno che, come dice

all’inizio ENGO: <Quando deve parlare, parla: nel mondo intero non ha avversari>. Fare un

teisho nella scuola zen significa parlare delle stesse persone per tantissime volte. Certo, i

cantanti che si esibiscono ogni sera, non cambiano repertorio continuamente. La ragazza che

cantava alla festa de l’Unità, domenica scorsa, ogni sera va alle feste che ci sono durante

l’estate, e le canzoni che canta sono sempre le stesse. Il buongiorno e il buonasera che

diciamo anche alle persone a cui vogliamo più bene, non cambiano di giorno in giorno: sono

sempre gli stessi.

Non è che il primo dell’anno si dice buongiorno con una certa intensità e poi si riesce a

graduare il buongiorno in modo che il 2 lo si dica un pochino di più, un centesimo di intensità

maggiore, per arrivare al massimo al 31 dicembre. Poi si ricarica e ricomincia? Nell’ascoltare i

teisho di Mumon, per quanto ne capivo, non è che ne capissi tanto, diceva sempre le stesse

cose. Joshu fino a sessanta anni è stato con Nansen poi per vent’anni è andato in giro da solo

di qua e di là, e da ottanta a centoventi è stato nel suo posto ad insegnare.

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Perciò di monaci che gli hanno chiesto: “Le miriadi delle cose ritornano all’uno.

Dove ritorna l’uno?” quanti ce ne saranno stati? Perché, sennò che gli potevano chiedere?

Uno gli poteva chiedere: “L’uno diffonde le miriadi di cose, dove ritornano le miriadi di cose?”.

Si può fare la domanda e il contrario della domanda. Joshu gli avrebbe potuto

rispondere: “Quand’ero nel Ch’ing Chou mi sono fatto un paio di pantaloni di panno e pesavano

quattordici libbre.”

Domanda e risposta sarebbero entrate, pari pari, in un altro Hekiganroku perché nel

nostro già ci sta questo, oppure poteva andare a finire in un altro zen radicale. Tutti

dobbiamo confrontarci in continuazione con le stesse cose e persone, i semafori e le

automobili, i colleghi, le mogli e i mariti, i figli e i genitori. Tutto uguale.

Il Sole sorge e tramonta nei soliti posti da milioni di anni. Gli alberi mettono le foglie e le

perdono. Tutto uguale. Si potrebbe dire: “Ma che gusto c’è?”. Se uno la vede in questa

maniera non resta che spararsi. Se approfondendo la pratica e acquisendo un occhio così cinico

nei confronti della realtà relativa si portasse all’estrema conseguenza questo approccio, l’unica

soluzione che rimarrebbe sarebbe quella di uscirsene oppure fare ciò che facciamo noi.

La maggior parte dell’umanità non arriva a nessuna delle due opzioni, perché non riesce

ad arrivare all’estremo di vederle in questa maniera. Invece pensa che tutto sia reale e si

lascia prendere da questa pseudo realtà. Un praticante non vede così, perché sperimenta o il

massimo del cinismo o del pessimismo, se vogliamo chiamarlo così.

Ossia vede la piattezza della quotidianità e va a cercare il nuovo che c’è all’interno di sé.

Non cerca il nuovo nelle cose che ci sono intorno perché esso decade. Certo gli alberi

mettono e perdono le foglie in continuazione. Si possono comprare i fiori freschi tutti i giorni,

ma non si cambia moglie o marito tutti i giorni. Neanche ogni mese o ogni anno. Oppure si

cambiano i figli quando non sono più piccolini? Il gattino che abbiamo in casa ha un mese ed è

così carino!

Quando diventerà grande che faremo? Lo butteremo e ne prenderemo un altro piccolino

ché i gattini più sono piccoli e più sono graziosi? Non potendo cambiare il mondo intorno a sé

il praticante di zen cambia se stesso.

Più che un cambiamento è un trovare all’interno di sé il nuovo, la capacità di vedere il

nuovo che c’è in ogni momento della sua giornata. Solo questo! Sembra l’uovo di Colombo, l’ho

detto già altre volte, ma tutti i maestri, a cominciare dal Buddha Shakyamuni, hanno solo

scoperto l’acqua calda. Non potendo cambiare il mondo circostante, anche se la maggior parte

della gente cerca di farlo e come Don Chisciotte lotta contro i mulini a vento, basta cambiare

se stesso per vedere il mondo in maniera differente e così viverci liberamente.

Ecco Joshu che <Quando deve agire, agisce: la sua abilità non si sottomette a nessuno.

È simile alle scintille emesse da una pietra>. Se sono io a scintillare non mi preoccupo

dell’oscurità che vedo nelle cose che sono intorno. Sono io la luce e movendomi porto la luce

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dove altrimenti si vedrebbe soltanto oscurità, monotonia e noia. Essere colui che porta il gusto

di vivere a ciò che, visto in un altro modo, non ne avrebbe. Questo koan ha l'ironia come tanti

altri di Joshu, il quale era dotato per certe risposte. Egli non risponde in modo diretto a certe

provocazioni, non si lascia prendere in trappola da una risposta che si contrapponga alla

domanda che gli viene fatta. Al monaco che chiede: “Le miriadi di cose ritornano all’uno.

Dove ritorna l’uno?”, risponde: “Sta dove sorge il Sole, o dove tramonta il Sole”, “Sta sul

monte Sumeru”, “Sta nella galassia più lontana dal mondo”. Oppure potrebbe rispondere come

un maestro di Palestina centinaia di anni prima: “Il regno dei cieli, l’uno, è dentro il tuo cuore;

cerca dentro di te e ci troverai l’uno”. Ma ti pare che Joshu possa dire queste banalità? A chi gli

chiede “Qual è il significato della venuta di Bodhidharma dall’occidente”risponde: “Il cipresso

che c’è nel cortile”. Un altro: “Sono venuto per l’insegnamento” Joshu gli chiede: “Hai

mangiato?”, “Si”, “Allora metti a posto le tazze”.

Tutto quello che c’è da fare, quando si è mangiato, è mettere a posto le tazze, quando si

va al gabinetto, c’è da pulirsi e scaricare l’acqua, quando si arresta la macchina, si leva la

chiave e si chiude, quando si va a letto, si tirano su le coperte e si chiudono gli occhi. Non c’è

altro da fare, è tutto qui! Se si va da Joshu aspettandosi che dica di fare qualche cosa di

speciale si rimane delusi.

Perché il maestro di zen non sta lì per indicarti di fare qualche cosa di originale. Non

avrebbe senso, ci sono altri maestri per questo. Infatti ci sono maestri per le buone maniere,

chi scrive libri per migliorare il proprio aspetto fisico, per guarire il mal di schiena e per avere

successo con le donne. Si va da uno di questi professionisti delle situazioni ed essi insegnano

quello che si vuole. Il maestro di zen non dà risposte a questo tipo di problemi.

Le sue risposte devono bloccare la domanda dell’interlocutore per farlo arrivare sul

precipizio dal quale precipitare nell’assoluto. Gli dà una spintarella, in modo che chi stava già in

bilico, credendo di essere un bravo equilibrista, cada giù. Joshu gli dice: “Quando stavo lì mi

sono fatto un paio di pantaloni che pesavano sette libbre”. Al monaco gli prende un colpo.

Pensa: “Ma che centra, io parlavo dell’uno. Dice sette libbre, i pantaloni, la camicia, che

c’entrano?”. Deve essere una risposta in cui non ci sia alcunché a cui attaccarsi. Il momento in

cui non ha appigli, precipita. Precipitando si sbriciolano tutte le sicurezze che aveva. Se è

pronto, viene fuori niente altro che la realtà.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Questa sera durante il tè mondo, prima che ci fosse una domanda sono passati alcuni

minuti. Nel silenzio, come già altre volte, mi sono accorto che si può stare bene mentre nulla

accade, stando lì apposta, in attesa delle domande, come Nisargadatta la cui vita era proprio

aspettare che le persone gli andassero a casa per fare domande.

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Avrei potuto passare la mezz’ora in silenzio, con la mente vuota, con lo stesso gusto con

il quale rispondo alle domande, pure se il termine gusto può far pensare a qualcosa di più

legato ai sensi, come mangiarsi un gelato o altro. Stare seduto in silenzio, che le domande ci

fossero o no, era già tutto. È ovvio che l'ho scoperto adesso, ma l’ho voluto dire stasera perché

questa scoperta cambia completamente l’esistenza. Si sa che c’è un serbatoio, che si può

chiamare di energia, nel quale ritirarsi in qualunque momento. Prima di uscire da casa, per

andare a sanzen, ho guardato dove dorme il gattino e non l’ho visto nella ciotola nella quale

sta normalmente. Guardando bene, ho visto che s’era messo in una ciotola un po’ più grande,

adesso è cresciuto, acciambellato e tranquillo.

Così giovane non ha ancora idea dei pericoli che ci possono essere. La tranquillità del

gattino è legata al fatto di essere ancora così giovane e a una ciotola che lo contiene bene.

Anche ognuno di noi ha, e chi è qui può scoprirlo, una ciotola giusta nella quale andarsi

ad acciambellare tranquilli senza paura. Scoprire l’imperturbabilità è la scoperta che ogni

praticante deve fare. Ci possono essere dei momenti nei quali si è presi da altri avvenimenti,

ma basta un momento per riacciambellarsi impeccabili sicuri che nulla di male possa accadere.

Perché è importante non aspettarsi qualcosa, sapendo che così come si è, si ha già tutto

ESORTAZIONE FINALE

Questa mattina venendo verso lo zendo, vedendo il cielo così scuro ho pensato alla

pioggia. Da agosto, siamo quasi a metà settembre, non c’è stata ancora la pioggia. Fa venire

un po’ d'ansia, quasi che gli alberi non ce la possano fare. Si scruta il cielo, si seguono le

previsioni meteorologiche con una attesa spasmodica aspettando che la natura faccia quanto è

capacissima di fare. Invece vorremmo che lo facesse in maniera diversa da come ha sempre

fatto per milioni di anni, perché ci preoccupa che un mese senza pioggia possa distruggere

qualche alberello di quelli che abbiamo piantati. Solo che chi tiene in ordine il mondo, fra i tanti

problemi, non può preoccuparsi di due ciliegi messi a Scaramuccia.

Nelle proprie cose, giustamente ognuno è il centro del mondo, intorno al quale ruota

tutta l’esistenza. Nello stesso tempo, si deve comprendere che l’esistenza in generale, il mondo

e tutto l’universo continua a girare, qualunque mal di denti può succedere a noi. È giusto stare

in ansia per quanto succede a sé e alle persone intorno, si potrebbe dire che si vive proprio per

preoccuparsi di sé e degli altri.

Dal'altro canto si dovrebbe comprendere che questa preoccupazione, come quella che

abbiamo per la pioggia, non smuove l’ordine del mondo. La natura decide di piovere quando gli

pare, così i problemi che abbiamo, relativi al nostro essere e generali rispetto a tutto quanto ci

sta intorno, si risolvono quando si devono risolvere. Certo, lottiamo e ci agitiamo affinché tutto

vada nel modo che riteniamo migliore.

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Solo che in questa ricerca, come per la pioggia che non viene, si dovrebbe essere capaci

di eliminare l’ansia che fa stare in apprensione per le cose che non vanno come si vorrebbe che

andassero. Non è il dispiacere ma è l’ansietà che impedisce di vedere chiaramente quello che

c’è intorno a noi per gustarsi anche un’estate senza una goccia di pioggia. Gustarsela momento

per momento, così che potrebbe essere piacevole ricordarsi di essere stati capaci, insieme agli

alberi, di attraversare un momento così asciutto della nostra esistenza e della natura.

SESSHIN del 8/9 Settembre 2001

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HEKIGANROKU

46° caso: Ching Ch’ing e il suono delle gocce di pioggia

SUGGERIMENTO DI ENGO

Con un colpo solo lo porta a termine e passa oltre il comune e il santo. La sua parola piùsottile può frantumare le cose, slegando ciò che è legato e liberando ciò che è attaccato. Comese camminasse sul ghiaccio sottile o se corresse sulle lame delle spade, siede dentro gliaggregati del suono e della forma, e cammina in cima al suono e alla forma.

Per il momento lascio da parte il funzionamento meraviglioso in tutte le direzioni. Com’èquando lascia quell’esatto momento? Per controllare cito questo vecchio caso: guardate!

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Ching Ch’ing chiese a un monaco: “Cos’è quel suono fuori del cancello?”.(Casualmente cala un amo. Non è malato di sordità: cosa chiede?)

Il monaco disse: “Il suono delle gocce di pioggia”. (È innegabilmente onesto. Sonoanche buone notizie)

Ch’ing disse: “Gli esseri senzienti sono capovolti. Si perdono e si mettono aseguire le cose”. (Nasce una preoccupazione. Ch’ing è abituato a prendere la sua strada.Colpisce d’infilata il monaco. Dipende dalle proprie capacità)

Il monaco disse: “E voi maestro?”. (Come si vedrà, il monaco subisce una sconfitta.Ha brandito la lancia: per Ch’ing sarà inevitabilmente difficile affrontarla. Invece [di Ch’ing, ilmonaco] afferra la lancia e colpisce l’uomo)

Ch’ing disse: “Io quasi non mi perdo”. (Bah! Non riesce proprio a spiegarlo)Il monaco disse: “Cosa significa ‘io quasi non mi perdo’?”. (Mette alle strette

questo vecchio e lo frantuma. La sua prima freccia ha colpito solo in superficie, ma la secondaè entrata in profondità)

Ch’ing disse: Pur dovendo essere sempre facile esprimersi, dire la cosa interadev’essere difficile”. (Provviste per nutrire un figlio. Sebbene sia così, dove sono andati TeShan e Lin Chi? Se non lo chiama suono delle gocce di pioggia, come dovrebbe chiamarlo? Nonpuò proprio essere spiegato)

TEISHO

Alla fine delle sue annotazioni ENGO rimprovera nella maniera solita dei commentatori

dei maestri. Si appella a Te Shan (g.=Tokusan) e a Lin Chi (g.=Rinzai) perché essi, a

differenza di Ching Ch’ing (g.=Kyosei), avrebbero risposto: Tokusan con trenta bastonate e

Rinzai con un calcio, un pugno o un grido, insomma qualche cosa di più eclatante di Kyosei.

ENGO domanda: <Se non lo chiama suono delle gocce di pioggia, come dovrebbe

chiamarlo?>. Quando un caso arriva sull’Hekiganroku di solito quel maestro si è già espresso

così in altre occasioni. Kyosei era solito chiedere : <Cos’è quel suono fuori del cancello?>

e ogni monaco dava una risposta diversa.

La risposta di questo caso è: <Il suono delle gocce di pioggia>. Probabilmente la

risposta è buona visto che ENGO nel suo commento dice: <È innegabilmente onesto. Sono

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anche buone notizie>. Può darsi che, come è successo in agosto da noi, dopo tanto tempo che

non pioveva si è messo a piovere. In questo senso la risposta poteva soddisfare, <Ch’ing è

abituato a prendere la sua strada, colpisce d’infilata il monaco> e dice: <Gli esseri

senzienti… si perdono e si mettono a seguire le cose>. Il monaco dà una risposta giusta,

in effetti fuori del cancello c’è il rumore delle gocce di pioggia ma al maestro non va bene.

Quante volte il monaco va dal maestro, il quale gli chiede da dove viene, e risponde:

“Vengo da Frascati” il maestro pensa: “Proviamo con un’altra domanda”; “E quando sei

partito?”, quello dice: “Il 25 ottobre”, “Ah! Ancora!”.

Fino a quando il maestro sbotta e gli dà due bastonate perché non si possono dare delle

risposte ovvie e cioè che effettivamente uno sia partito da Frascati il 25 Ottobre. Se si va da un

maestro di zen, ci si va, ammesso che si possa dire, per parlare di zen e non per parlare come

in ascensore o in treno, del tempo, di come le stagioni sono cambiate, dei prezzi che non si

tengono più, del più e del meno. Da un maestro di zen a quel tempo s’andava per parlare di

zen. Invece quando io sono andato da Mumon le cose erano diverse, i colloqui zen avvenivano

soltanto nella stanza di sanzen.

Ch’ing dice che le cose sono capovolte, però il monaco, che non è sciocco dice: <E voi

maestro?>. Un modo normalmente adottato in altre situazioni, non soltanto nell’ambito dello

zen, per cavarsela da qualche condizione di impaccio, è rivolgere la stessa domanda a chi ce la

fa. “Secondo te, se non sono gocce di pioggia cosa sono? Se io ho dato una risposta sbagliata,

qual è quella giusta?”, e questo potrebbe mettere in imbarazzo chiunque, ma non ovviamente

un maestro di zen.

Però alla fine ENGO si chiede: “Dove sono andati a finire Tokusan e Rinzai? Non gliela

avrebbero fatta passare così liscia a questo monachello”. Ormai molti di voi si sono addentrati

abbastanza nella pratica dei koan e sanno che i koan, questi colloqui dei maestri, intendono

portare alla luce un comportamento che ci lasci agire come assoluto nel quotidiano. È ovvio

che sente gocce di pioggia, pur sapendo che le gocce di pioggia sono vuoto come tutto quello

che c’è intorno a noi. Se il monaco andasse dal maestro a rispondere direttamente: “C’è il

rumore del vuoto”, il maestro chiederebbe, dandogli una bastonata in testa: “Come è questo

vuoto secondo te?, non è affatto vuoto!”. Da parte del monaco deve esserci la capacità di

intendere immediatamente quale risposta dare al maestro.

Se il maestro, alla domanda “Da dove vieni” si aspetta la risposta “Vengo da Frascati”

oppure se chiede “Che c’è fuori del cancello?”, che risponda: “Il rumore delle gocce di pioggia”

lo sa da sé, perché lo chiede al monaco? Se glielo chiede, il monaco deve capire che il maestro

gli sta tendendo una trappola. Guardo fuori dalla finestra e vedo che il cielo è sereno, se chiedo

ad uno com’è il cielo, se fossi nell’ambito di un colloquio dell’Hekiganroku, quello dovrebbe

inventarsi qualche cosa. Ancora di più se uno dice: “Com’è il cielo sereno fuori della finestra?”.

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E come vuoi che sia! Il cielo sereno è sereno, se piove, il rumore che si sente è il rumore

della pioggia.

Delle gocce di pioggia una per una, dello scroscio delle gocce tutte insieme? Sempre

rumore di pioggia è. Il problema, sia in ambiti ristretti come possono essere quelli della

famiglia e degli amici, o più ampi come possono essere con persone più o meno sconosciute, è

di capire con chi si ha a che fare e come dare la risposta giusta al momento giusto rispetto alle

persone presenti.

Uno potrebbe dire: “Va bene, ma allora facciamo gli opportunisti?”. No, non in senso

negativo almeno. I maestri zen non avevano certo paura di affrontare qualunque situazione,

non cercavano scappatoie. Si deve comprendere però che nelle situazioni si può agire in modi

diversi, dall’assoluto oppure dal relativo.

Comunque, talvolta, conviene parlare del più e del meno, come avviene con le persone

che si incontrano nello scompartimento del treno. ENGO dice: <Con un colpo solo lo porta a

termine e passa oltre il comune e il santo…Come se camminasse sul ghiaccio sottile o se

corresse sulle lame delle spade,…> e <Per il momento lascio da parte il funzionamento

meraviglioso in tutte le direzioni. Com’è quando lascia quell’esatto momento? Per controllare

cito questo vecchio caso: guardate!>. Insomma la sostanza di questo caso qual è? Sono le

parole finali sia di ENGO: <Per il momento lascio da parte il funzionamento meraviglioso> e

chiede: <Com’è quando lascia quell’esatto momento?>, sia di Kyosei: <Pur dovendo essere

sempre facile esprimersi, dire la cosa intera dev’essere difficile>.

Talvolta è difficile! Un essere illuminato, un maestro di zen come nel caso di Kyosei, è

capace di agire meravigliosamente in tutte le direzioni, però <Com’è quando lascia quell’esatto

momento>>, quando deve entrare nella vita normale? Secondo Kyosei <Pur dovendo essere

sempre facile esprimersi> come quando si è nel proprio campo, cioè nella stanza di sanzen

e si può parlare di astrusi problemi in maniera libera.

Perché si sa ciò di cui si parla, che si sia compreso oppure no dall’allievo, si è d’accordo

nel trattare casi di questo genere. Se si vuole parlare di zen al di fuori di questo ambiente, non

si può fare. <Pur dovendo essere sempre facile esprimersi>, ovvero avendo la capacità di

usare il <funzionamento meraviglioso>, ci sono momenti in cui dire <la cosa intera> è

difficile se non impossibile. Insomma non si può comunicare con tutti. Potrebbe sembrare che,

fatta l’illuminazione, basta parlare e ti capiscono tutti. Invece è il contrario, perché il parlare da

illuminato lo rende incomprensibile ai più.

Per farsi capire si deve parlare da uomo qualunque, soltanto in quel modo si riesce a

comunicare qualcosa. Può sembrare strano, altrimenti si sarebbe costretti a vivere soltanto nel

proprio ristretto ambiente e soltanto con pochi adepti. Ma ci muoviamo nel mondo e dobbiamo

sapere che nella maggior parte dei casi gli altri potrebbero non capirci.

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ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Qualche volta, soprattutto quando c’è da trattare un koan, mi viene da pensare a come si

siano divertiti, i maestri cinesi, nell’inventarsi le loro chiacchierate stravaganti. Perché per fare

qualcosa che abbia un valore e che rimanga nei secoli, così come sono rimasti i loro

insegnamenti e i loro koan, bisogna metterci il piacere. Non credo a chi dice che le grandi

opere, che rimangono, siano quelle che hanno richiesto sofferenza. Penso che i grandi artisti

abbiano goduto nell’estrinsecare le proprie qualità artistiche.

I grandi maestri sono stati capaci di costruire qualche cosa che è arrivato fino a noi, che

ci permette di giocare, nel senso più completo di questa parola, nell’esistenza. Se non si

giocasse non ci sarebbe nessun gusto nel vivere. Basterebbe essere artisti nell’arte della vita e

si troverebbe, in ogni occasiono della giornata, l’occasione di godere. I maestri del passato, si

sono inventati queste stravaganze perché nel giocare a risolverle si fosse capaci di giocare nel

gioco vero, grande, continuo che è il nostro esistere nel mondo.

Non esiste nessun’altra scuola che come la scuola Rinzai permetta al praticante di

diventare uno con l’intero universo per mezzo della pratica meditativa e dei koan kensho, e

nello stesso tempo, per mezzo degli altri koan riuscire a immedesimarsi e perciò saper giocare

in tutte le situazioni. Se i koan che si risolvono fossero come i giochi della settimana

enigmistica, che una volta esaurito il giornaletto si butta, non avrebbero senso, pur

divertendosi a risolverli.

È vero pure che arrampicare in montagna, giocare a tennis, veleggiare sul mare non ha

senso eppure si fa. Invece, questi non-sense che sono i koan che tocca risolvere, sono quelli

che hanno veramente senso, perché il gioco non è solo nel risolverli, ma nel saperli utilizzare.

È proprio questo da fare, ovvero saperli riconoscere per utilizzarli in ogni momento della

giornata. Perciò ecco lo stare seduti, diventare uno con il respiro e con l’intero universo e poi

prendere i giocattoli per tornare a giocare sulla sabbia come i bambini.

ESORTAZIONE FINALE

Dovrebbe essere ovvio che nel momento di maggiore confusione c'è da fare la massima

chiarezza nel proprio cuore per riuscire a muoversi nell’aggrovigliato mondo che si ha di fronte.

Siccome qualcuno ha fatto domande su quanto è successo nei giorni passati, ovvero dei

crolli e delle uccisioni, è bene chiarire che la sofferenza non è nel morire ma nel vivere. Il

Buddha Shakyamuni ha esposto le Quattro Nobili Verità alle persone che sono sul cuore della

Terra e stupisce, soprattutto nel mondo occidentale in cui si crede che la vita futura sia la vita

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vera, quella meravigliosa durante la quale si sarà al cospetto di Dio, che non si sia contenti di

raggiungerlo immediatamente ad opera di qualcuno che si diverte a buttare giù dei grattacieli.

La sofferenza è nella vita, nell’esistere, questa è la sofferenza. Il momento in cui si

decide di sparire dal palcoscenico della vita e si va chissà dove, alcuni sono sicuri di

raggiungere praterie meravigliose, dovrebbe essere un problema che non ci interessa. Il

problema è vivere e si vive bene solo se non c’è la paura di morire. Il nostro corpo così come i

nostri sentimenti hanno paura di morire, ma se si riesce a fare chiarezza, la paura di morire si

può comprendere.

Ci si può staccare da questo proprio realizzando quanto il Buddha spiega per mezzo delle

Quattro Nobili Verità, ovvero comprendere che qualunque attaccamento compreso

l’attaccamento alla vita porta alla sofferenza. Chi riesce a morire facilmente è chi ha niente da

perdere, perché ridotto in una condizione di estrema sofferenza e povertà, oppure chi crede in

un mondo futuro. In questo momento noi non apparteniamo a nessuna di queste due

categorie, ma possiamo realizzare attraverso la nostra pratica, a differenza di chi, per ragioni

in alcuni casi comprensibili, si comporta in questo modo, che non c’è alcuna cosa a cui

attaccarsi.

Questo permette di vivere nel mondo, prendendosi le sofferenze che il corpo e tutto il

resto di cui si è composti può procurarci, ma nello stesso tempo sapendo che la morte non può

toglierci quello che già ci siamo tolti da noi stessi. Se la pratica non ci rende capaci di questa

comprensione, abbiamo realizzato molto poco. Solo questo permette di andare impeccabili nel

mondo senza abbandonarsi alle stupidaggini che si ripetono continuamente. Purtroppo in alcuni

casi siamo nelle mani di questi doppiopettuti con le mascelle quadrate che dicono stupidaggini

in continuazione. Anche questo fa parte dell’esistenza e del suo dolore.

SESSHIN del 6/7 Ottobre 2001

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HEKIGANROKU

47° caso: Yun Men dice: “In sei non lo capiscono”

SUGGERIMENTO DI ENGO

Cosa dice il cielo? Lì scorrono le quattro stagioni. Cosa dice la terra? Lì nascono le miriadidi cose. Là dove scorrono le quattro stagioni, egli può vedere l’essenza; là dove nascono lemiriadi di cose, può vedere l’azione.

Ma ditemi, dove vedete un monaco vestito di pezze? Dopo aver abbandonato le parole, idiscorsi e il funzionamento attivo, dopo esservi ostruiti la gola nel camminare, nello stare inpiedi, nello stare seduti e nello star sdraiati – potete ancora distinguerlo?

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Un monaco chiese a Yun Men: “Cos’è il Corpo di Realtà?”. (In molti hanno deidubbi riguardo a ciò. I mille saggi non riescono a balzarne fuori. Ha indugiato un bel po’)

Men disse: “In sei non lo capiscono”. (Taglia le narici e penetra il ferro. “Un mortaiodagli otto angoli vola nell’aria”. La tartaruga di spirito trascina la coda)

TEISHO

Yun Men noi siamo abituati a chiamarlo Unmon alla giapponese. È presente in qualche

koan della nostra pratica ed è conosciuto per le sue risposte molto concise. In questo koan il

monaco chiede: <Cos’è il Corpo di Realtà?> Che è un altro modo di definire il Dharmakaya.

Unmon risponde: <In sei non lo capiscono>. Adesso non so come si dice in cinese o in

giapponese, ma sicuramente sarà una parola secca, come quando gli chiesero del Puro

Darmakaya e rispose: “Kayakuran”. Su questi sei ci sono molte interpretazioni.

Possono essere i sei sensi, secondo la terminologia buddista, oppure i sei patriarchi da

Bodhidharma fino a Hui Neng. Ma sappiamo ormai, essendo arrivati al koan numero 47, che i

maestri pur dando risposte di per sé esatte, erano talvolta influenzati da accadimenti

estemporanei. Perché al monaco che chiede “Cos’è il corpo di realtà” Unmon risponde che

“In sei non lo capiscono”? Uno chiede a Tosan: “Che cos’è il Buddha?” e quello gli risponde

“Tre etti di miglio”. Se lo chiedesse a Joshu, potrebbe rispondergli: “Il cipresso che è nel

cortile”.

Un altro potrebbe dire: “Il Buddha è la mente” e un altro ancora che “Il Buddha non è la

mente”. Si potrebbe rimanere spiazzati se non si fossero già risolti dei koan. Questo

spiazzamento, che i maestri provocano nei propri interlocutori e successivamente nei praticanti

dei koan, è indispensabile. Altrimenti, se a una domanda che attiene all’assoluto, il maestro

desse una risposta dal relativo sarebbe fuori luogo, non andrebbe bene.

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Uno chiede al maestro: “Che cosa è Dio?”. Soltanto chi appartiene a tradizioni

monoteistiche o integraliste può essere sicuro di sapere cos’è Dio. Lo studiavamo al

catechismo: “È l’essere perfettissimo, onnipresente, creatore del cielo e della terra”. Con

questa definizione lo mettevamo dentro una bella cornicetta. Ecco, Dio è questo! Con questa

risposta per dimostrare al prete che ci interrogava che eravamo pronti per fare la cresima e la

prima comunione, avevamo risolto il problema di Dio.

I maestri zen sanno che è impossibile una definizione del corpo di realtà, dell’assoluto, di

Dio, del Buddha in quanto illuminazione e che attiene all’assoluto. Dicono: “Vattelo a vedere da

te” Ma allora i maestri che ci stanno a fare? Basterebbe che all’entrata del monastero ci fosse

una grande targa con scritto: “Se fai una domanda al maestro quello ti risponde vattelo a

cercare da te”. Il visitatore se ne va e pensa: “Va bene, vado da un altro”.

Il fatto è che tutti i maestri zen potrebbero affiggere all’ingresso del proprio monastero la

stessa targa perché essi, nei modi che sono loro possibili, possono solo costringere i propri

discepoli ad andarselo a vedere da sé. Se non fosse così ciò che il maestro può dire non ha

assolutamente valore. Se Unmon si riferisse ai sei sensi sarebbe troppo ovvio perché non si

può capire l'assoluto per mezzo dei sensi.

I sensi sono indispensabili per muoversi nel mondo, ma non sono adeguati per penetrare

l'assoluto. Invece all’inizio ENGO dice: <Là dove scorrono le quattro stagioni, egli può vedere

l’essenza; là dove nascono le miriadi di cose, può vedere l’azione>. È interessante vedere che

l’essere realizzato sa riposare nell’essenza e nello stesso tempo è capace nell’azione. Sta con i

piedi sulla terra e con la testa nel cielo, potremmo dire.

Ha cioè la capacità di vedere il cielo e nello stesso tempo di camminare sulla terra.

Monaco vestito di pezze è un modo di dire che risale al Buddha stesso il quale andò nel

cimitero, prese i vestiti abbandonati dei morti, li tagliò a pezzi e li indossò a significare il suo

assoluto distacco dal mondo. Così i monaci, nei loro abiti religiosi, hanno voluto ricordare

questa consuetudine. Il rakusu stesso è fatto di tanti piccoli pezzi.

I giapponesi, maestri dei giardini in miniatura, con il rakusu hanno cucito l’abito bonsai

dei monaci. ENGO dice: <…dove vedete un monaco vestito di pezze? Dopo aver abbandonato

le parole, i discorsi e il funzionamento attivo, dopo esservi ostruiti la gola nel camminare, nello

stare in piedi, nello stare seduti e nello star sdraiati – potete ancora distinguerlo?>. Cioè come

si distingue il monaco dal non monaco, che sia vestito di pezze o con un abito firmato? Come

può essere distinguibile chi è realizzato mentre compie azioni comuni, che tutti fanno nello

stesso modo: camminare, stare in piedi, stare seduti, stare sdraiati? Tutti compiono queste

quattro azioni fondamentali.

Che differenza c’è fra l’illuminato e la persona normale? Forse si può vedere una

differenza nel camminare e nel correre fra un podista e una persona sedentaria. Nello stare

seduti noi riusciamo a stare a gambe incrociate, qualcuno nella posizione del loto, mentre ce

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ne sono ai quali le gambe fanno troppo male. Comunque, seduti su una sedia o su una

poltrona, oppure sdraiati: “Qual è la differenza?” si chiede ENGO. Come può essere

distinguibile? I praticanti di Scaramuccia non vanno tra la gente con l’idea di fare dei proseliti,

cioè non vanno a vantare la propria illuminazione cercando di interessare il numero più alto di

persone possibile.

Pur non dicendolo però, e pur camminando per la propria strada, senza cercare gli altri, il

momento in cui viene chiesto: “Tu che pratichi e che sei illuminato, che fai di diverso da me?

Tu mangi e dormi come me, e così tutto il resto. In che cosa sei differente?”. Come si può

rispondere? Il monaco vestito di pezze è facilmente distinguibile perché non si vuole

distinguere. Egli va nel mondo senza aspettarsi che gli altri lo reputino differente.

Il monaco vestito di pezze sa fare tutto come le altre persone, sa riconoscere da sé la

propria capacità di entrare nell’assoluto a piacimento, e sa perciò essere nel mondo come un

attore che si muove sulla scena.

Ecco dov’è la differenza dagli altri. Siccome gli altri ci tengono a distinguersi, egli riuscirà

a camuffarsi senza far vedere le proprie effettive capacità. Sarà nell’assoluto e nello stesso

tempo si muoverà nel relativo senza farsi notare. Se poi qualcuno lo vorrà potrà mostrarsi,

altrimenti, il monaco vestito di pezze, tende a muoversi nel mondo il più silenziosamente e

discretamente possibile, senza interferire minimamente con l’andamento del mondo.

Egli sta alle situazioni e non si aspetta che gli altri riconoscano la sua illuminazione e la

sua capacità di entrare in contatto con l’assoluto nei momenti in cui gli fa comodo esserlo. Alla

domanda di ENGO se possiamo ancora distinguerlo rispondiamo che non vuole apparire

distinto: la sua diversità non deve apparire.

Il monaco vestito di pezze vuole entrare in contatto con l’assoluto. Ecco allora il

maestro zen che può scrivere all’ingresso del monastero: “Se fai una domanda al maestro

quello ti risponde vattelo a cercare da te”. Una volta che si è in grado di capire da sé di cosa

altro si ha bisogno?

Chi ha bisogno di distinguersi, di ricevere diplomi, è chi non ha in sé la capacità di

comprendere, ovvero di attingere all’assoluto e cerca il conforto degli altri. Se per una sola

volta si è entrati in contatto con l’assoluto, di quello che dicono gli altri non importa niente.

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Sia dal teisho di questa sera, che dalle domande del Mondo, potrebbe derivare la

convinzione che i praticanti di zen evitino di pronunciarsi nei confronti dei problemi del mondo.

E così dicano banalità sull’11 settembre come tutti. Non è affatto così. Quante volte

abbiamo sentito la banalità che dopo l’11 settembre il mondo non è più lo stesso? Solo che il

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mondo non sarà più lo stesso tra un’ora e oggi non è il mondo che era ieri né quello che sarà

domani.

Ci lasciamo prendere facilmente dalle banalità che vogliono convincerci che il mondo

abbia senso, così se crollano degli edifici grandi sono più importanti di quelli piccoli. Se la

pratica ha un senso è perché si riconosce che questi crolli, e tutti i cambiamenti del mondo,

appartengono a un sogno che ognuno sta sognando momento per momento.

È certo che quando si discute coi compagni dell’ufficio bisogna adeguarsi al modo di

parlare degli altri. Altrimenti si è presi per pazzi, anzi, per come stanno andando le cose, si

potrebbe fare una brutta fine. Se la pratica zen ha un senso, se la comprensione che permette

la pratica zen e la risoluzione di koan ha un senso, si comprende che il mondo è nuovo di

momento in momento. Si muore ogni istante e l’istante successivo non è più quello di prima.

Allora non ci si può far coinvolgere da questa isteria collettiva perché due palazzi sono

stati fatti crollare.

Specialmente quando non è chiaro se sono stati solo dei pazzi integralisti e

fondamentalisti oppure siano stati pagati o addestrati dagli stessi che hanno ricevuto il danno.

Qualcuno ha detto: “Sembra di vedere un cartone animato, un gioco virtuale”. In questa

frase c’è molta verità, perché quello che appare sulla scena del mondo è tutto virtuale. Certo,

possiamo farci prendere da questo gioco, infatti siamo venuti apposta per giocarci, però

sappiamo che è un gioco. Se non si comprende questo, qualunque pratica non ha alcun senso,

altrimenti si cade tutti in preda all’isteria delle banalità. Il momento in cui si è seduti sul

cuscino si è uno con tutto l’universo. Che può fare un aereo se in questo momento si

abbattesse su questa sala e distruggesse tutti? Il momento in cui si è completamente immersi

nel proprio respiro, nel koan, nel MU non c’è altro.

Si è completamente vivi e nello stesso momento completamente morti. Cosa può farci

l’aereo che distruggesse lo zendo che abbiamo costruito con tanta fatica e ancora non è finito?

Se siamo presenti ad ogni istante della vita, qualunque cosa ci possa accadere non ci

troverà impreparati. Saremo sempre pronti, pur lasciandoci prendere dalle chiacchiere che

cercano di stabilire se hanno ragione gli uni o gli altri, se è stata una certa fazione oppure

un’altra a fare l’attentato, se la vendetta che si sta scatenando porterà alla ragione o no.

Tutte le chiacchiere fanno parte del gran calderone delle chiacchiere, le stesse che la

domenica sera si fanno sulle partite di calcio o sulla formula uno. Noi siamo qui alla sesshin,

con i koan, per comprendere che il mondo nel quale agiamo esiste, come no!, ma nello stesso

tempo non esiste.

Se si arriva alla profonda comprensione che il mondo nel quale siamo non esiste, come

possiamo preoccuparci che qualcuno con un giocattolino butti giù qualcuna delle costruzioni

che abbiamo fatto? Qualcuno dei castelli di sabbia che ci siamo divertiti a costruire? Comunque

sia, il mare se li porterà via inesorabilmente. Noi abbiamo il compito di partecipare

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individualmente, con le nostre famiglie, con la nostra comunità, con il nostro paese al

miglioramento e alla pace nel mondo con tutte le nostre forze, e secondo le nostre idee. Nello

stesso tempo, vedere che tutto ciò a cui si sta lavorando è soltanto un sogno.

ESORTAZIONE FINALE

(non è stata registrata)

SESSHIN del 3/ 4 Novembre 2001

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HEKIGANROKU

48° caso: Rovesciare il bricco del tè a Chao Ch’ing

CASO scelto da SECCHO e annotazioni di ENGO

Quando il ministro Wang entrò a Chao Ch’ing, stavano facendo il tè. (Una riunionedi adepti: dev’esserci per forza qualcosa di straordinario. Casuale e disinteressato. Ognuno dialoro uno sguardo. Wang ha cercato guai)

In quel momento l’anziano Lang stava tenendo il bricco del tè per Ming Chao.(Un gruppo di persone che giocano con una palla di fango. Lang non sa fare il tè, così trascinaa forza qualcuno)

Lang rovesciò il bricco del tè. (Dopotutto è successo qualcosa)Accortosene, il ministro chiese all’anziano: “Cosa c’è sotto il fornello del tè?”.

(Come si vedrà è un problema) Lang disse: “Lo spirito sostiene i fornelli”. (Dopotutto corre nella freccia di Wang. In

ogni caso è straordinario). Il ministro disse: “Se c’è lo spirito che sostiene i fornelli, perché avete

rovesciato il bricco del tè?”. (Perché non gli dà qualche vera provvista? È successoqualcosa)

Lang disse: “Servire da funzionario per mille giorni, perdere tutto in un solomattino”. (Un’indicazione errata. Che discorso è questo? I falsi uomini ch’an sono [numerosi]come i semi di canapa, i semi di miglio) Il ministro si tirò giù le maniche e uscì.(Ovviamente è un adepto. Ammetto che ha un occhio)

Ming Chao disse: “Anziano Lang, tu hai mangiato il cibo di Chao Ch’ing, ma vaiancora oltre il fiume a far rumore raccogliendo legna carbonizzata”. (Io continuereidandogli trenta colpi. Questo drago dall’occhio unico ha solo un occhio. Eppure serve un uomodall’occhio chiaro per esaminarlo sino in fondo)

Lang disse: “E voi maestro?”. (Lo mette alle strette – anche lui merita di esservimesso. Non avere mai idee morte e senili come questa!)

Ming Chao disse: “Lo spirito ha preso vantaggio”. (Dopo tutto, ha solo un occhio.Riuscì a parlare solo a metà. Una mano abbassa; un’altra solleva)

Hsueh Tou (g.= Seccho) disse: “In quel momento avrei solo capovolto con uncalcio il fornello del tè”. (Che ci si poteva fare? Tira la freccia dopo che il ladro se n’èandato. In ogni caso può essere ancora chiamato membro della scuola di Te Shan. Tutti loro[Wang, Lang e Ming Chao] sono plebei e farabutti – solo Hsueh Tou fa eccezione)

TEISHO

Sembra tanto complicata, soprattutto per i commenti che ci fa ENGO, ma è una scena

semplice, molto semplice. Dei praticanti e dei maestri del monastero Chao Ch’ing stanno

bevendo il tè.

Uno di questi prende il bricco e gli cade. L’ultimo arrivato, il ministro Wang dice: <Cosa

c’è sotto il fornello del tè?> vuol dire: “Com’è che ti cade?”. L’anziano Lang disse: <Lo

spirito sostiene i fornelli> Il ministro: <Se c’è lo spirito che sostiene i fornelli, perché è

cascato il tè?>. È come se, stando noi in questa stanza fredda, uno dicesse: “Com’è che in

questa stanza di zen, sostenuta dallo spirito del fuoco, si sente freddo?”. È la stessa domanda.

Dice: “Come! Il fornello è sostenuto dallo spirito del tè e tu lo fai cadere!”.

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Come non dovrebbe succedere che, in una sala in cui ci sono trenta praticanti di zen a

fare meditazione, ci sia freddo. Allora un maestro di zen alla guida dell’automobile non

dovrebbe andare a sbattere: “Ma come! Lo spirito dello zen dove sta! Nella tua macchina non

c’è lo spirito dello zen?”. È la stessa confusione del ministro Wang. È un praticante, fa le

domande per mettere in difficoltà i maestri Lang e Ming Chao, però rimane ancorato a una idea

di perfezione che non ha niente a che vedere con la realtà. La perfezione è fuori da questo

mondo, è nel mondo dell’assoluto. Certo, siamo nel mondo dell’assoluto pure stando qui, ma ci

si deve comunque confrontare con la natura esterna e interna in continuazione.

Può essere che un praticante di zen guidi la macchina con più attenzione di chi non

pratica. Si incontrano tanti imbranati e vedendoli non mi sembrano praticanti di zen. Magari

con lo zen potrebbero andare meglio, almeno essere meno egoisti e meno disattenti di quanto

siano normalmente. Questo però non vuol dire niente! Quando qualcosa deve succedere,

succede, sia al praticante zen che al non praticante.

Il praticante di zen, se gli cade il bricco del tè come è successo a Lang magari fa una

risata: “Guarda che stupido! Chissà a cosa stavo a pensare, mi è caduto ma non si è rotto.

Meglio così, adesso rimettiamo su l’acqua e lo rifacciamo”. Altri potrebbero pensare: “Ma

come! Un maestro come Lang si fa scivolare il bricco del tè. Ma allora questo pratica, pratica e

rimane sempre imbranato?”.

Ieri sera mi ha telefonato un ragazzo di 19 anni di Torino che dovrebbe avere cominciato

a leggere un sacco di libri di tutti i tipi. Fa un gran miscuglio fra yoga, taoismo, tantra, zen. Ad

un certo punto ha detto: “Ma poi lei, scusi, è illuminato?”.

Queste domande telefoniche sono peggiori di quelle dei sondaggi. Ho detto: “Dopo tanti

anni che pratico qualche cosa dovrei aver capito. Però non si sa mai. Pure tu, se leggi tutti

codesti libri, qualche cosa vorrai acchiappare no? Non vuoi rimanere sempre come sei, hai

voglia di raggiungere qualche cosa”. Però se appena detto questo mi avesse chiesto: “Ma lei

non sbaglia mai?” avrei dovuto dire: “No! Di stupidaggini ne faccio tante anch’io”. “Allora,

scusi, se uno è illuminato come fa a fare stupidaggini?”. E dagli a spiegare per telefono.

Non ho spiegato niente, e gli detto di telefonare al responsabile di Torino che se la vedrà

lui. Soprattutto chi inizia a praticare la meditazione, e il buddismo zen soprattutto, che

permette di realizzare l’illuminazione e di risvegliarsi alla propria realtà, pensa che

conseguentemente sarà in grado di fare dei miracoli.

Perché siamo cresciuti e viviamo in una cultura religiosa miracolistica. Infatti per stabilire

che qualcuno sia santo o beato si deve accertare che abbia fatto un certo numero di miracoli. E

la santità per molti equivale a illuminazione. L’equivalenza santità=miracoli è immediata: se

uno è illuminato è anche santo, se è santo evidentemente fa dei miracoli e perciò non sbaglia

mai. Non è così! Questo koan mostra proprio l’errore nel quale si incorre pensando una cosa

del genere. Addirittura SECCHO: <In quel momento avrei solo capovolto con un calcio il

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fornello del tè> se quello avesse detto una cosa del genere. Quello di risolvere certi problemi

per mezzo di calci, agli oggetti o alle persone, fa parte della tradizione zen cinese, soprattutto.

Oppure compiere gesti stravaganti, perché una domanda del genere non si può spiegare:

se uno capisce, capisce, se non capisce bisognerà aspettare che capisca. Possiamo magari, così

come avviene durante il teisho, prendendo in esame uno di questi CASI, cercare di portare alla

luce dove agisce l’assoluto e, come SECCHO, dare un calcio al fornello.

Altrimenti c’è bisogno che qualcuno provi, per mezzo delle parole, di altre dimostrazioni

più intelligibili, a far capire a chi fa la domanda, che si parla di cose diverse. Fare il tè,

accendere un fuoco, andare a raccogliere la legna nel bosco, sono azioni umane. Il praticante o

il monaco che arriva al monastero, se incontra un famoso maestro come Nansen, e gli chiede

che cosa fa, il maestro risponde che sta tagliando l’erba: “La falce taglia molto bene. È tanto

tempo che ce l’ho e ancora taglia bene”. Che cosa gli avrebbe dovuto dire Nansen? Stava

tagliando l’erba e gli ha parlato della falce.

Se incontra un altro maestro e chiede: “Che cosa fa lei?”, “Eh! tiro su l’acqua dal pozzo e

poi, appena ho finito, c’è un po’ di legna da spaccare, spaccherò la legna”. Che cosa altro c’è

da dire! Queste sono le risposte nelle quali, se si ha l’occhio, si vede. Engo dice: <Io

continuerei dandogli trenta colpi. Questo drago dall’occhio unico ha solo un occhio>, e perciò

non vede <Eppure serve un uomo dall’occhio chiaro per esaminarlo sino in fondo>.

Se si ha l’occhio chiaro, per esaminare fino in fondo, in quello chi gli risponde: “Tiro su

l’acqua dal pozzo e poi vado a spaccare la legna” vede l’assoluto, vede il MU che tira su l’acqua

dal pozzo e che spacca la legna. Se è capace di vedere, lo vede, altrimenti cosa gli si può dire?

Se quello non è in grado di vedere il MU dentro di sé come può vederlo nel maestro che

sta tirando su l’acqua e spaccando la legna? Questi dialoghi, aneddoti, accadimenti

dell’Hekiganroku sono koan, e il koan può essere compreso realmente soltanto da chi è entrato

completamente nel mondo di MU

ESORTAZIONE DOPO JUNKEI

Nel calendario cinese e giapponese, ogni anno viene rappresentato da un animale. Il

prossimo, 2002, sarà l’anno del cavallo. Ho pensato a lungo alla poesia di quest’anno che

leggerete sul Notiziario. In essa è scritto che, comunque sia, la nostra esistenza è un viaggio.

Sembra talvolta che si possa andare con mezzi molto più comodi del camminare a piedi e del

camminare in salita, ma per quanto l’esistenza di ciascuno di noi sia faticosa, la scoperta di

potersi sedere a gambe incrociate per entrare nel proprio respiro permette di scoprire migliaia

di mondi. Quest’anno a Scaramuccia sono morti molti animali.

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Avevamo già scoperto di avere dei topi in casa da qualche giorno e proprio stasera,

prima di entrare nello zendo, siamo riusciti ad acchiappare dei topolini che avevano fatto una

colonia.

Chissà se ce ne stanno ancora, cosa hanno mangiato, dove hanno bucato. I topi, i gatti

e i cavalli in sé non sono il male. La natura dice loro di procreare e naturalmente mette loro la

voglia di mangiare. Fuori della nostra casa non è scritto che non possono entrare. La natura li

spinge a mangiare e quando hanno mangiato a fare figli.

Osservando, come mi è capitato, i cani, i gatti, le galline, i topi e altri animali selvatici,

ci si accorge di come non ci sia scampo. Può sembrare che conducano una vita tranquilla.

Leopardi dice che le pecore sono tranquille mentre l’uomo si annoia. Sicuramente

appena finito di mangiare e chiuse nel recinto dove nessuno gli può far niente, saranno

tranquille.

Vengono all’esistenza per fare le pecore, brucare l’erba e stare tranquille? Invece pure

l’esistenza degli animali è crudele. Sentono impellente il bisogno di procreare, di procurarsi da

mangiare e un riparo per non essere assaliti da altri animali più forti di loro; la loro esistenza è

tutta qui. E pure gli esseri umani, se si osserva la nostra società, malgrado gli ordinamenti e le

regole che ci siamo dati, si trovano in condizioni simili.

Se ne può uscire soltanto lottando, affinché l’animalità di chi vuole sfruttare le

debolezze degli altri, possa essere perlomeno delimitata. Per quanto ci riguarda, si deve

riconoscere l’ineluttabilità di questa condizione e trovare in se stessi, sedendo, immersi nel

respiro, il modo di vivere nella giungla in maniera tranquilla, sapendo che non ci può succedere

niente. Se si è topi ci sarà un gatto che a un certo momento ci mangerà, o qualche trappola in

cui cadere. Se si è gatti ci toccherà mangiare i topi e stare attenti che una macchina non ci

schiacci mentre attraversiamo la strada. Non c’è una condizione dalla quale scappare.

Anche il leone, re della foresta, il momento in cui invecchia, arriva il giovane leone che

lo scaccia e dovrà procurarsi il cibo da solo e poi morire. Non c’è scampo per nessuno. L’unica

condizione che ci rende veramente umani, quella in cui noi di Scaramuccia crediamo, è

risvegliarsi alla buddità.

In quel momento, ci riconosciamo in ogni animale, e vediamo come ognuno partecipa al

proprio gioco. Tutti attenti alla propria parte e noi alla realizzazione della buddità che permette

di non prendersela troppo. Quando c’è da mangiare, mangiamo e quando c’è da essere

mangiati…eeh!

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ESORTAZIONE FINALE

Nella stanza di sanzen, come nelle risposte che si danno in questa sala, alcune volte

penso di essere come una vecchia madre che continua a ripetere le stesse banalità ai propri

figli, nonostante siano cresciuti e capaci di andare in giro con le proprie forze. Osservando

bene però, tutte le parole che diciamo possono essere interpretate in modi diversi: una

profonda verità oppure una superficiale banalità.

Talvolta, nel confrontarci con problemi enormi, pensiamo che ci voglia poco a stabilire ciò

che è giusto e ciò che è sbagliato. Poi, andando avanti, ci accorgiamo che le cose non sono così

semplici come avevamo pensato e allora, di fronte a tutto questo, ci potremmo domandare

dove sta la verità.

Nello zen si parla di chi è in grado di ottenere l’ultima verità, di comprendere la parola

fondamentale come di chi riesce a trovare la pietra filosofale. È vero, in mezzo a tutte le

banalità che possiamo dire c’è la scoperta dell’assenza di banalità, della realtà ultima. Ciò non

toglie però che si torni nel mondo a comportarsi come tutti gli altri, proprio perché si è nel

mondo, come tutti gli altri ad avere i dubbi che attanagliano tanti momenti della nostra

giornata.

Non si può andare in giro senza aver visto, almeno una volta, la realtà. Dopo si sarà noi

stessi, capaci di ridere di sé, magari non proprio ridere, ridere è troppo, di sorridere di se

stessi, nel accorgersi, di fronte a certe situazioni, come si debba dire o fare cose che si sa

sbagliate. Nello stesso tempo, nel mondo così com’è, possono essere appropriate.

SESSHIN del 1/ 2 Dicembre 2001

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