dulce et decorum est pro patria mori...parte del territorio da anni sottratto alla sua autorità....

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Page 1: DULCE ET DECORUM EST PRO PATRIA MORI...parte del territorio da anni sottratto alla sua autorità. Compiti, questi, della cui positiva conclusione dubitano seriamente gli osservatori
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DDUULLCCEE EETT DDEECCOORRUUMM EESSTT PPRROO PPAATTRRIIAA MMOORRII

Capitano Carlo OLIVIERISergente Maggiore Marco MATTAMaresciallo Capo Silvano NATALEMaresciallo Capo Fiorenzo RAMACCIColonnello Enzo VENTURINIParacadutista Giovanni STRAMBELLIParacadutista Pasquale BACCAROSottotenente Andrea MILLEVOISergente Maggiore Stefano PAOLICCHIParacadutista Jonathan MANCINELLICaporale Giorgio RIGHETTICaporale Rossano VISIOLISergente Maggiore Roberto CUOMOMaresciallo Maggiore Vincenzo LI CAUSITenente Fabio MONTAGNASergente Maggiore Salvatore STABILELanciere Tommaso CAROZZATenente Giulio RUZZISergente Maggiore Marco DI SARRACaporal Maggiore Gerardo ANTONUCCICaporal Maggiore Carmine CERZABrigadier Generale Roberto PETRUCCICaporale Diego VAIRA1° Maresciallo Massimo GATTICapitano Giuseppe PARISIMaggiore Antonino SGRÒColonnello Carmine CALÒCaporal Maggiore Pasquale DRAGANOCaporal Maggiore Samuele UTZERI1° Caporal Maggiore Luigi NARDONECaporal Maggiore Scelto Giuseppe FIORETTICaporal Maggiore Dino Paolo NIGROMaggiore Stefano RUGGE1° Caporal Maggiore Andrea MUSCELLAMaresciallo Capo Antonio SPARTAMaresciallo Capo Antonio LA BANCA1° Caporal Maggiore Alessandro CARRISICaporal Maggiore Capo Scelto Emanuele FERRAROCapitano Massimo FICUCIELLOMaresciallo Capo Silvio OLLACaporal Maggiore Pietro PETRUCCI1° Maresciallo Adriano CIORBA1° Caporal Maggiore Matteo VANZANCaporal Maggiore Scelto Antonio TARANTINOCaporal Maggiore Giovanni BRUNOMaresciallo Capo Simone COLASergente Salvatore Domenico MARRACINOMaresciallo Capo Massimiliano BIONDINIMaggiore Marco BRIGANTIMaresciallo Ordinario Marco CIRILLOColonnello Giuseppe LIMA

Sergente Davide CASAGRANDECaporal Maggiore Capo Giovanni SANFILIPPO

Maggiore Nicola CIARDELLICapitano Manuel FIORITO

Maresciallo Capo Luca POLSINELLICaporal Maggiore Scelto Alessandro PIBIRI

Colonnello Carlo LIGUORICaporal Maggiore Giuseppe ORLANDO

Caporal Maggiore Scelto Massimo VITALIANOCaporal Maggiore Capo Scelto Giorgio LANGELLA

Caporal Maggiore Vincenzo CARDELLA1° Maresciallo Lorenzo D’AURIA1° Maresciallo Daniele PALADINISottotenente Giovanni PEZZULO

Caporal Maggiore Alessandro CAROPPO1° Maresciallo Gaetano BATTAGLIA

Caporal Maggiore Scelto Alessandro DI LISIOCapitano Antonio FORTUNATO

Caporal Maggiore Scelto Matteo MUREDDUCaporal Maggiore Scelto Giandomenico PISTONAMI

Caporal Maggiore Capo Massimiliano RANDINOCaporal Maggiore Scelto Davide RICCHIUTOSergente Maggiore Capo Roberto VALENTE

1° Caporal Maggiore Rosario PONZIANOCaporal Maggiore Scelto Luigi PASCAZIO

Sergente Maggiore Massimiliano RAMADÙCaporal Maggiore Capo Francesco POSITANO

Capitano Marco CALLEGAROCaporal Maggiore Capo Scelto Pier Davide DE CILLIS

Sottotenente Mauro GIGLICapitano Alessandro ROMANI

Caporal Maggiore Scelto Gianmarco MANCA1° Caporal Maggiore Marco PEDONE

Caporal Maggiore Scelto Francesco VANNOZZICaporal Maggiore Scelto Sebastiano VILLE

1° Caporal Maggiore Matteo MIOTTOCaporal Maggiore Capo Luca SANNA

Capitano Massimo RANZANICaporal Maggiore Capo Gaetano TUCCILLOCaporal Maggiore Scelto Roberto MARCHINI

Caporal Maggiore Scelto David TOBINITenente Riccardo BUCCI

1° Caporal Maggiore Massimo DI LEGGECaporal Maggiore Capo Mario FRASCA

Tenente Colonnello Giovanni GALLOCaporal Maggiore Capo Scelto Francesco CURRÒ

Caporal Maggiore Scelto Francesco Paolo MESSINEOCaporal Maggiore Scelto Luca VALENTE

Sergente Maggiore Michele SILVESTRI1° Caporal Maggiore Michele PADULACaporal Maggiore Tiziano CHIEROTTI

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Lo scorso agosto è ricorso il trenten-nale della Missione «LIBANO 1» cheha visto protagonista il 2° battaglio-ne Bersaglieri «Governolo», in vestedi «Contingente Italiano in Libano»(ITALCON «GOVERNOLO»).Dalla fine della Seconda GuerraMondiale è la prima volta che l’Italiadecide di intervenire fuori dai confininazionali, in armi, in una «Missionedi sostegno alla Pace» (Peace SupportOperations - PSOs) meglio nota comeMissione di «Peacekeeping». A determinare l’intervento ful’esplosiva situazione libanese venu-tasi a creare dopo anni di lotte inter-ne fra le milizie musulmane e cri-stiano-maronite, acuita dalla presen-za sul territorio di migliaia di pale-stinesi e dei militari siriani della For-za di Dissuasione Araba (A.D.F.). Si-tuazione di estrema delicatezza nonsolo per il Libano ma anche per la si-curezza di Israele che, per salva-guardare il proprio territorio dallecontinue incursioni palestinesi pro-venienti dal Paese dei Cedri, nel-l’estate del 1982 dette il via all’ope-razione «Pace in Galilea».

Le Forze israeliane, dopo una tra-volgente avanzata durata 5 giorni,penetrano in Beirut dove si arresta-no asserragliando nella parte Ovestdella città più di 10 000 armati frapalestinesi dell’ O.L.P. (Organizza-zione per la Liberazione della Pale-stina) di Yasser Arafat, del P.L.A.(Armata Liberazione della Palesti-na), e circa 3 000 soldati siriani del-l’A.D.F., sui quali incombe ora il pe-ricolo di annientamento da partedell’ Esercito ebraico.L’assedio dura ormai già da più diun mese e sempre più si teme lapossibile e altamente probabile at-tuazione della «soluzione finale»dell’O.L.P. di Arafat, da tempo pia-nificata dall’Esercito israeliano.La diplomazia internazionale si mo-bilita per scongiurare tale eventoche, in piena «Guerra Fredda», po-trebbe originare l’intervento direttodelle due Super potenze con il ri-schio dell’allargamento del confittoa tutta l’area Mediterranea. La Flot-ta Sovietica è già presente nel Medi-terraneo grazie alla disponibilità delporto siriano di Tartous, da qualcheanno concessole dal Presidente Ha-fiz al-Assad, così come è già nota lapresenza di «Osservatori» dell’Ar-mata Rossa, schierati lungo la fron-tiera siro-libanese.Fallito il tentativo di inviare unaforza dell’ ONU per il veto postodal Consiglio di Sicurezza, nel lu-glio del 1982 il Governo libanese, inaccordo con le parti in lotta, chiedeai Governi italiano, francese e statu-nitense di inviare a Beirut propriContingenti militari.In tale contesto, prende l’avviol’Operazione «LIBANO 1», primo in-tervento del 2° battaglione Bersaglie-ri «Governolo» in Medio Oriente.Il «Secondo» partecipa quale «Contin-

gente Italiano in Libano Governolo»(ITALCON «GOVERNOLO»), al co-mando del Comandante di battaglio-ne e con il Tenente Colonnello LuigiDe Carlo quale Vice Comandante.Il Contingente era strutturato su:una compagnia Comando e Servizi,particolarmente potenziata nei set-tori delle trasmissioni, motorizza-zione e sanità (Capitano Nicola To-ma); una Sezione Mista di Sussi-stenza (Capitano Giuseppe Lupo);due compagnie meccanizzate (Capi-tano Vincenzo Lops, oggi Decanodel Corpo dei Bersaglieri e Coman-dante del 2° Comando delle Forzedi Difesa, e dal Tenente RiccardoMarchiò attuale Vice Comandantedell’«Allied Rapid Reaction Corps»della NATO con sede in Gran Breta-gna); un plotone Carabinieri delbattaglione Carabinieri «Lombar-dia» (Tenente Andrea Cerrato); unplotone rinforzato del genio (Sotto-tenente Mario Rosati). Complessivamente, inquadrava 518uomini (39 Ufficiali, 81 Sottufficiali,398 militari di truppa) e disponevadi oltre 100 mezzi fra cingolati eruotati di vario tipo e di una auto-nomia logistica di 45 giornate.Compito specifico della Forza Mul-tinazionale è quello di: interporsifra gli schieramenti in lotta; liberarele forze asserragliate a Beirut e por-tarle in salvo in Siria; proteggerel’incolumità degli abitanti della cittàda eventuali «rese dei conti»; favori-re il ripristino della sovranità del le-gittimo Governo libanese in quellaparte del territorio da anni sottrattoalla sua autorità.Compiti, questi, della cui positivaconclusione dubitano seriamente gliosservatori intenzionali, specie con-siderando che i Parà della LegioneStraniera francese e i Marines statu-

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ITALCON «GOVERNOLO»TRENT’ANNI FA COL «PIUMETTO» IN LIBANO

CONTINGENTE ITALIANOIN LIBANO

- ITALCON «GOVERNOLO» -Assetti nazionali impiegati

• Personale: 518 uomini;• una compagnia Comando e servizi

rinforzata nelle trasmissioni, moto-rizzazione e sanità;

• due compagnie bersaglieri mecca-nizzate;

• un plotone Carabinieri;• un plotone genio rinforzato;• una sezione mista di sussistenza.

Rivista Militare

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nitensi, invisi alla popolazione mu-sulmana, avrebbero pouto trovarsi aoperare proprio nella parte dellaCapitale dove la popolazione, quel-la sciita, era a loro la più ostile.Proprio per questo motivo il «Comi-tato Politico Militare del Libano»,responsabile dell’intera Operazione,(costituito dall’Ambasciatore itine-rante statunitense Philip Habib, da-gli Ambasciatori delle Nazioni cheforniscono i contingenti e dai Co-mandanti degli stessi), decide che ilcompito principale della Missionevenga affidato ai Bersaglieri.Il «Mandato» (permanenza dellaForza Multinazionale (FMN) in Liba-no, concordata con le Autorità locali)è di un mese ma, secondo la pianifi-cazione del Comitato Militare, la fasedi sgombero possibilmente non devesuperare i 17 giorni. E questo è unproblema tutto «Cremisi».Alle 10.30 del 26 agosto 1982, a soledue ore e mezza dallo sbarco, laCompagnia Bersaglieri del TenenteRiccardo Marchiò raggiunge il biviodi Hazmiye, punto origine della stra-da per Damasco. Attuando la pianifi-cazione messa a «punto» il giornoprecedente dall’Ufficiale alle Opera-zioni del Contingente (Maggiore An-tonio Rotundo), si interpone fra leforze nemiche a contatto lungo la «li-nea verde» rilevando dai palestinesile postazioni e gli appostamenti cheda mesi occupavano a cavallo dell’as-se stradale di «Galerie de Semaan».I bersaglieri creano una fascia smi-litarizzata profonda 1 km e larga400 m, necessaria per consentire,nei giorni successivi, la formazio-ne, il controllo e la partenza dellecolonne dirette in Siria. L’Opera-zione si conclude con pieno succes-so verso le ore 14.30 con la costitu-zione del «Check Point» di St. Mi-chel, il più avanzato verso Ovestdello schieramento italiano.Reparti dell’Esercito libanese, aiquali i palestinesi si erano rifiutatidi consegnare le posizioni, seguonoi Bersaglieri verso Ovest per ripren-dere il controllo del territorio che daoltre cinque anni gli era precluso.

Nei quattro giorni successivi unacompagnia Bersaglieri, rinforzatada nuclei di Carabinieri, percorren-do la valle della Bekaa, in manoisraeliana, sgombera 952 mezzi divari tipo (carri armati, mezzi ruota-ti, artiglierie ecc....) e porta in salvo6 909 palestinesi del P.L.A. e soldatisiriani delle «Hittin Brigade», «Quad-disiyyam Brigade» e della «85th Briga-de» appartenenti all’A.D.F. (Forza didissuasione Araba).Evacuate le Forze musulmane, iBersaglieri rimangono altri undicigiorni a presidio di Galerie de Se-

maan per consentire all’Esercito li-banese di consolidare il controllodel territorio metropolitano ricon-quistato, agevolare il rientro deiprofughi libanesi, che avevano ab-bandonato la città durante il conflit-to, e proteggere le famiglie dei pale-stinesi portati in salvo in Siria daeventuali rappresaglie. Durante tut-to il periodo i feriti, vittime degli ul-timi combattimenti, ricevono le pri-me cure presso il Posto di Medica-zione mobile del Sottotenente medi-co Ferruccio Vio che per tutto iltempo ha stazionato nei pressi delChek Point principale di St. Michel.Sicuro di aver ormai la situazione«in pugno», il neo eletto Presidente

libanese Beshir Gemayel ringrazia econgeda i Contingenti della ForzaMultinazionale ma non avrà il tem-po di pentirsene perché il 14 settem-bre, a soli tre giorni dalla partenzadella FMN, cade vittima di un at-tentato. Il giorno 16, la Falange deiGemayel (Kataeb), vendica l’ucci-sione del suo Capo massacrandocentinaia di vecchi, donne e bambi-ni palestinesi che erano rimasti neicampi di Sabra e Chatila.A gran voce viene richiesto il ritor-no della FMN e, in particolare, delnostro contingente che aveva porta-

to a termine con pieno successo ladifficile e delicata precedente Mis-sione, riscuotendo il plauso genera-le degli Alleati, della popolazionecivile libanese e delle Nazioni cheavevano beneficiato direttamente oindirettamente del suo intervento.Il «Governolo», che aveva lasciatoBeirut l’11 settembre, il 27 dello stes-so mese vi fa ritorno. Questa volta iBersaglieri del «Governolo», rinfor-zati da una compagnia di Bersagliericomandata dal Capitano Marco Ros-si, del 10° battaglione «Bezzecca»,partecipano alla nuova Missione(«LIBANO 2») quale aliquota mecca-nizzata di un contingente di livellogerarchico superiore («Raggruppa-

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mento Italiano in Libano» comanda-to dal Colonnello Franco Angioni)che inquadra anche un battaglionedi Paracadutisti della «Folgore» e iMarò del battaglione «San Marco»della Marina Militare.Il settore italiano, con un perimetrodi circa 30 Km e con una popolazio-ne per il 95% sciita, inglobava i duecampi palestinesi di Chatila e Borj elBrajné abitati complessivamente dacirca 24 000 persone. Compito prin-cipale del contingente è fornire pro-tezione a questa popolazione. Al«Governolo», per l’esperienza ma-turata nella precedente missione, èassegnata la protezione del campopalestinese di Borj el Brajné abitatoda 15 000 palestinesi sui quali in-combe la minaccia di possibili mas-sacri. I Bersaglieri sono ricevuti conle massime dimostrazioni di affetto.Il giorno stesso del loro arrivo infat-ti, il «Nucleo da Ricognizione» en-trando in Borj el Brajné è accoltocon lanci di riso e scritte «ONLYITALY» sui muri.Il 26 ottobre, avvicendati dai Parà

della «Folgore», i Bersaglieri vengonodestinati alla protezione di Chatiladove resteranno fino al termine dellamissione del «Secondo» a Beirut. An-che durante questa missione, i Bersa-glieri del «Secondo» hanno dimostra-to grande efficienza, senso di discipli-na, spirito di sacrificio e la consuetagrande umanità già evidenziata intante altre circostanze in cui il nostroSoldato si era reso protagonista.Di ciò ne è testimone vivente il pic-colo Governolo Hibrain Mustafà AlìZan Zan, cosi chiamato dai genitoriperché venuto alla luce durante unanotte di coprifuoco nel campo diBorj el Brajné, grazie al tempestivointervento di una pattuglia di Bersa-glieri, comandata dal Tenente Ser-gio Cuofano, e del Sottotenente me-dico Ferruccio Vio (figlio del Bersa-gliere Emilio Vio del 3° reggimentoBersaglieri, decorato al Valore Mili-tare sul Fronte Russo quarant’anniprima e recentemente scomparso.Buon sangue non mente!).Il 3 marzo 1983 il «Governolo» rien-

tra definitivamente in Patria mal’opera dei Bersaglieri in Libanocontinuerà fino alla fine di dicembre1983 con l’avvicendarsi di altri no-stri reparti. In particolare: dal 4 mar-zo al 9 giugno è la volta del 10° bat-taglione Bersaglieri «Bezzecca», alcomando del Tenente ColonnelloCorrado Nico; dal 10 giugno ai pri-mi di ottobre tocca alla compagniaBersaglieri del 6° «Palestro», coman-data dal Capitano Paolo Leotta, cheopera inquadrata nel 67° battaglionemeccanizzato «Montelungo» del Te-nente Colonnello Luigi Gaviraghi;infine, nei mesi di ottobre, novem-bre e dicembre 1983, i «Fanti Piuma-ti» a Beirut sono validamente rap-presentati dal 3° battaglione Bersa-glieri «Cernaia», al comando del Te-nente Colonnello Sergio Carnevale.Per il brillante disimpegno del «Se-condo» in terra libanese, la sua Glo-riosa Bandiera di Guerra è stata in-signita con la più alta decorazionemilitare italiana, l’«Ordine Militared’Italia, con la seguente motivazio-ne: «Erede dell’ultracentenario e pluri-decorato 2° reggimento Bersaglieri rin-novava in terra libanese i fasti dei FantiPiumati memori dell’antica gloria con-quistata in terra di Crimea.Durante questi sette mesi di costanteimpegno, lontano dalla Madre Patria, inun contesto difficile, in una terra marto-riata e divisa, con slancio ed abnegazio-ne, operava per assicurare l’evacuazionedei guerriglieri palestinesi e realizzavauna zona cuscinetto lungo la linea di de-marcazione Beirut Ovest-Beirut Est. Ri-ceveva in seguito il difficile compito digarantire la sicurezza dei campi palesti-nesi di Borj el Brajné prima e di Sabra-Chatila poi. In queste circostanze il per-sonale tutto mostrava elevatissima pro-fessionalità, altissima motivazione, con-sapevole coraggio, sempre conscio dellafierezza e dell’orgoglio di portare soccor-so ad una popolazione martoriata da an-ni di guerra riscuotendo il massimoplauso internazionale».Ecco! Sono trascorsi trent’anni daquando i nostri Bersaglieri si sonoresi protagonisti in Libano di unabella pagina di Storia Militare. Era-

no Bersaglieri di Leva, che si sonovalidamente confrontati con i famo-si Parà della Legione Straniera e coni Marines statunitensi. Da loro sonostati ammirati e dai libanesi preferi-ti. È bene ricordare che la «LIBANO1» e la «LIBANO 2» sono le unichedue missioni effettuate all’ombradel nostro Tricolore e solo del Trico-lore! In tutte le altre missioni, infat-ti, incluse quelle in atto, la Bandieraitaliana è sempre stata affiancata daquelle dell’Unione Europea, dellaNATO o dell’ONU. Noi no! Erava-mo solo noi! Le Missioni sono statevolute, gestite e condotte dall’Italia.Significativo quanto in proposito silegge nella relazione dell’On. LelioLagorio - Ministro della Difesa du-rante l’Operazione di Peace Keepingin Libano – pubblicata su «RivistaMarittima» n. 13 dell’ottobre 2003:«... Era la prima volta che l’Italia met-teva il naso fuori dalla porta di casa do-po la Seconda guerra mondiale, la pri-ma volta che usava la sua forza milita-re. E la prova fu positiva. Non è statopiù così, nel senso che non c’è stata piùuna esperienza paragonabile al Libano.In Libano l’Italia era un partner allapari, una potenza protagonista. Nonprestammo i nostri uomini a operazionidecise e comandate da altri. Prendemmol’iniziativa e tenemmo la testa.... Nellesuccessive missioni di pace siamo stati,come altri Paesi europei e no, un vago-ne del convoglio piuttosto che una loco-motiva. In Libano fummo una locomoti-va. Non lo siamo stati più...». Gli encomiabili risultati conseguitinelle riferite missioni altro non sonoche la sommatoria di quei valoripropri del nostro Soldato: coraggio,spirito di sacrificio, altruismo egrande umanità. Valori questi cheancor oggi fanno la differenza fra inostri Soldati, ormai professionisti,e i loro partners internazionali daiquali, per dirla alla bersagliera,«imitati sempre ... uguagliati mai!».

Bruno TosettiGenerale di Divisione (ris.),

«Aquila 1», già Comandantedel contingente «Governolo»

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30 anni fa, esattamente il 29 agostodel 1982, i primi militari italianisbarcavano in Libano per procedere,unitamente a unità statunitensi efrancesi, alla evacuazione da Beirutovest di 3 000 soldati siriani e deicombattenti palestinesi (la qualificadi «combattente» fu concessa soloagli uomini, fu negata alle donneche pure presero parte alle opera-zioni belliche!).Il contingente italiano provvide atrasportare al confine siriano i sol-dati di quella Nazione e un’aliquo-ta di palestinesi. Questa operazio-ne, tradizionalmente denominata«Libano 1», vide impegnata un’ali-quota del battaglione bersaglieri«Governolo», rinforzata da elemen-ti per il supporto tecnico e logisti-

co, agli ordini del Tenente Colon-nello Tosetti.Il Capo di Stato Maggiore dell’Eser-cito dell’epoca affidò al sottoscritto,allora Capo dell’Ufficio Operazionicentrale, il controllo tattico dell’ope-razione.Dopo 12 giorni, il 10 settembre,l’evacuazione dei soldati siriani edei combattenti palestinesi fu con-clusa e le unità (italiani, statunitensie francesi), come da accordi intergo-vernativi, fecero ritorno in patria.Alla partenza delle truppe, comeprevedibile dopo otto anni di cruen-ta guerra civile, si scatenarono levendette incrociate delle numerosefazioni libanesi, che culminarononell’assassinio del neo Presidentedella Repubblica e nella conseguente

«strage di Sabra e Chatila» (due deipiù affollati campi profughi palesti-nesi). Furono trucidati più di 2 000palestinesi, quasi esclusivamentevecchi, donne e bambini.L’opinione pubblica internazionalereagì indignata a tale tragedia e laForza internazionale fu di fatto co-stretta a rientrare precipitosamente aBeirut, con il mandato di «mantenerela pace» (peace-keeping) tra Israele e levarie fazioni libanesi sostenute dallaSiria e di «partecipare alla ricostru-zione» (peace-building) del Libano,proteggendo, nel contempo, tutta lapopolazione, senza distinzione di re-ligione o nazionalità.Il contingente italiano, del livello or-ganico di Brigata, affidato al mio co-mando, era ordinato su uno StatoMaggiore, una compagnia Comando,un plotone trasmissioni rinforzato,per il collegamento con le unità nava-li, i contingenti alleati, il Governo li-banese e l’Italia, un plotone Carabi-nieri per le attività di polizia militare,un battaglione di fanteria meccaniz-

Speciale

«ITALCON»A TRENT’ANNI

DA BEIRUTRAGGRUPPAMENTO ITALIANO

PER LA FORZA DI PACEIN LIBANO

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 2 400 uomini e 10 infer-miere volontarie;

• Stato Maggiore;• una compagnia Comando e servizi;• un plotone trasmissioni rinforzato;• un plotone Carabinieri;• un battaglione fanteria meccanizzata;• un battaglione paracadutisti;• battaglione «San Marco»;• un battaglione logistico rinforzato;• una compagnia Incursori rinforzata

«Col Moschin».;• un nucleo Incursori «CONSUBIN»;• un plotone cavalleria su autoblindo;• un plotone genio rinforzato;• un nucleo Bonifica Ordigni Esplosivi;• un ospedale da campo.

Supporti esterni alla missione

• una Nave da sbarco;• una/due Fregate;• svariate missioni di volo con velivoli

ds trasporto A.M.I. e Alitalia.

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zata (nel tempo si sono avvicendatiquattro battaglioni, di cui tre bersa-glieri), un battaglione paracadutisti(si sono alternati il battaglione Cara-binieri paracadutisti «Tuscania», il 2°e il 5° della «Folgore»), il battaglione«San Marco», della Marina Militare,un battaglione logistico rinforzatoper assicurare la completa autonomiaoperativa, tecnica e sanitaria, con do-tazioni di scorta per 15 giorni di au-tonomia, una compagnia rinforzatadel battaglione Incursori «Col Mo-schin» e un nucleo incursori di

«Comsubin», un plotone di cavalleriasu autoblindo per l’attività di ricogni-zione, un plotone genio rinforzatocon mezzi per movimento terra, carrisoccorso ed elementi per la fortifica-zione campale, un «nucleo bonifica»degli ordigni esplosivi, fornito dallacompagnia incursori, un Ospedaleda campo.Tutte le unità erano completamentemobili, per il personale e le dotazioni,con mezzi ruotati, cingolati e anfibi.La forza totale del contingente eradi 2 400 uomini e 10 Infermiere vo-lontarie.Il 26 settembre 1982 il ContingenteItaliano (ITALCON) sbarca a Beirutper dare vita all’operazione «Libano2». Contemporaneamente affluironoanche un Raggruppamento di Mari-

nes statunitensi (1 100 uomini circa),una Brigata francese (1 000 uominicirca; si alternarono unità della Le-gione Straniera, dei paracadutisti edei «fanti di marina») e, da aprile adagosto 1983, una simbolica unità bri-tannica della forza di 100 uomini.Durante i 18 mesi di permanenzadel Contingente, si avvicendaronocirca 8 500 militari (di cui circa 7 000di leva) e 350 Infermiere volontariedella Croce Rossa Italiana.In quel periodo, sul contingente siconcentrò l’impegno di tutte le For-

ze Armate. L’Esercito produsse unconsiderevole sforzo operativo-tec-nico-logistico, provvedendo all’ad-destramento intensivo delle unitàprecettate e assicurando l’invioquindicinale di 52 containers, chegarantivano la completa autonomiadel contingente per 25 giornate (10in riserva per le emergenze).La Marina Militare fu costantemen-te presente con una nave da sbarcoe una fregata (due nei periodi dimaggiore crisi) per l’eventualeazione di fuoco su obiettivi terre-stri. Da non dimenticare che, alrientro del contingente, tutta laSquadra Navale italiana scortò lenavi dove erano imbarcate le Ban-diere e le formazioni che avevanooperato nella «Libano 2».

L’Aeronautica Militare assicurò il tra-sporto di molti materiali e del perso-nale in avvicendamento con i C-130, iG-222 e con velivoli dell’Alitalia, uti-lizzando gli aeroporti di Cipro neiperiodi di maggiore crisi.Dal settembre del 1982 al luglio del1983 le operazioni, anche se con no-tevole difficoltà, si svilupparono sulterreno secondo la pianificazione.Da agosto la situazione politica ini-ziò a deteriorarsi. Israele continuavaa occupare una parte occidentaledel territorio libanese; le miliziemusulmane, sostenute dall’Iran edalla Siria, iniziarono ad attaccare leformazioni cristiane e druse. Ai pri-mi di settembre Israele si ritira uni-lateralmente dal Libano, facendoaumentare la confusione.Il 23 ottobre, la Forza multinazio-nale subì due feroci attentati: furo-no attaccati gli edifici dove eranoaccasermati il contingente statuni-tense e quello francese. La tecnicasuicida, già sperimentata alcunimesi prima contro l’Ambasciataamericana, provocò molte vittime:240 morti fra i Marines e 89 tra iparacadutisti francesi.La situazione politica degenerò ul-teriormente e sul terreno gli scontritra le milizie cristiane e sciite diven-tarono frequenti. In dicembre il con-tingente americano lascia le proprieposizioni e si ritira sulle navi. Aiprimi di febbraio si ritira il contin-gente francese. Il 19 febbraio il con-tingente italiano si imbarca, lascian-do, su richiesta del Governo libane-se, una compagnia composta da Ca-rabinieri paracadutisti, paracaduti-sti e incursori, quale testimonianzache l’Italia non avrebbe abbandona-to il Libano. La compagnia rientròin Italia a fine marzo.Il 24 febbraio il Contingente Italianosbarca a Livorno accolto dalla testi-monianza di affetto della popolazio-ne e soprattutto del Presidente dellaRepubblica, Sandro Pertini, che de-corò con l’Ordine Militare d’Italia laBandiera del contingente.A conclusione di queste note, vorreiformulare alcune considerazioni.

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Tutti i reparti dell’Esercito, nono-stante le notevoli insidie del settore,si impegnarono con grande deter-minazione, fornendo significativi ri-sultati, tanto da riscuotere l’ammi-razione dei contingenti alleati, dellapopolazione e delle Forze Armatelibanesi. A tutti i reparti che ho avu-to l’onore di comandare va il mioincondizionato plauso.Mi corre l’obbligo di evidenziareche la Brigata paracadutisti «Folgo-re» ha sostenuto il maggior onere intermini di personale. Per l’interamissione la Brigata fornì il 40% delpersonale, a fronte di circa il 30%delle altre unità a livello battaglionee del 20% circa per le unità minori.Ritengo doveroso, inoltre, eviden-ziare la peculiarità di alcune unità:la compagnia incursori fu preziosanell’azione di «contragguato» svi-luppata in alcuni settori in ambien-te notturno, ma soprattutto peraver provveduto alla disattivazionedi 54 000 ordigni esplosivi (mineanticarro e antiuomo, proietti di ar-tiglieria, bombe di aereo, clusterbombs di vario tipo e trappoleesplosive) che tante vittime aveva-no causato alla popolazione e aglialtri contingenti; il battaglione logi-stico, forte di oltre 600 uomini, fu

costituito ad hoc per le specifiche esi-genze, raccogliendo il personale didifferenti unità nazionali (Mecca-nizzati, Alpini, Artiglieri) e da orga-ni territoriali. La difficile opera diamalgama fu realizzata grazie a unavalida azione di comando; i risultatisono stati più che soddisfacenti. Ba-sti pensare, a titolo di esempio, al-l’impegno di garantire la piena effi-cienza dei 600 automezzi del contin-gente - ruotati e cingolati - apparte-nenti a 36 tipi diversi, nonostante ladisastrosa situazione sul terreno;l’Ospedale da campo, che assicurò

non solo la cura del personale mili-tare, ma fornì assistenza continuanei campi palestinesi (i profughinon volevano lasciare i campi) ecurò ambulatoriamente circa 13 000libanesi, la maggior parte dei qualierano bambini; il plotone Carabi-nieri, per gli interventi di polizia, aconcorso della gendarmeria libane-se, ma anche in funzione di poliziastradale nel settore italiano e co-munque per tutti gli interventi checoinvolgevano personale e mezzi ita-liani; infine, un plauso particolare aicirca 25 collaboratori, Ufficiali e Sot-tufficiali disseminati nell’ambito delcontingente, che, responsabili di spe-cifiche attività, accettarono di perma-nere con me ininterrottamente pertutti i 18 mesi dell’operazione.In conclusione, desidero rivolgereun rispettoso pensiero alla memoriadel Marò Filippo Montesi, decedutoa seguito di un conflitto a fuoco e ai75 feriti gravi che sopportano anco-ra le conseguenze del loro impegno.Un sentito ringraziamento alle In-fermiere Volontarie e ai militari chehanno fatto parte del contingente ein particolare ai circa 7 000 soldatidi leva che in quell’occasione hannoscritto una pagina di grande dignitànazionale.

Franco AngioniGenerale di Corpo d’Armata (ris.),

già Comandante di ITALCON 2

Speciale

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Il 28 febbraio 1991 ebbe luogo lacessazione del fuoco tra le forze al-leate e quelle irachene, a conclusio-ne della prima Guerra del Golfo.Pochi giorni dopo avevano inizio,nel sud e nel nord dell’Iraq, due sol-levazioni popolari. A sud gli inte-gralisti filoiraniani presero le armicontro il regime di Saddam Husseinma subirono una pesante repressio-ne e furono in breve tempo sconfitti.A nord si erano sollevati i curdi, rie-vocando la loro antica aspirazioneall’autonomia tuttora inappagata ein vista della possibile formazionedi un nuovo Stato. Questo popoloinfatti, con connotazioni e tradizioniassolutamente diverse da quelle deiPaesi circostanti, non ha mai vissutouna vita propria e, con la cadutadell’Impero ottomano, è stato sud-diviso fra Iraq, Siria, Turchia e Iransenza alcun riconoscimento dellapropria individualità. Anche in que-sto caso la reazione di Saddam fuviolenta e fin dai primi di aprile icurdi, battuti su tutta l’area d’inte-

resse, cominciarono a cercare scam-po sulle montagne. Per sottrarsi apesanti rappresaglie, la popolazionecurda preferiva l’incognita dell’eso-do in massa benché il clima fosse in-clemente e mancassero cibo, acqua emedicinali. L’ostilità della Turchiaverso le mai sopite intenzioni di au-tonomia dei curdi fece sì che ai pro-fughi non fosse consentito di trova-re rifugio in quel Paese. Essi rimase-ro così intrappolati sulle montagne,lungo la linea di confine, in dram-matiche condizioni di vita che susci-tarono l’emozione e la riprovazionedi tutto il mondo. Di conseguenza,il 7 aprile intervenne il Consiglio diSicurezza delle Nazioni Unite perl’istituzione di una missione umani-taria con aviolanci di viveri, medici-nali e materiali vari da parte di veli-voli statunitensi, belgi, francesi e in-glesi. Questa operazione fu denomi-nata «Provide Confort» e vide, a par-tire dal 21 aprile, anche la partecipa-zione di aerei italiani e di un repar-to di aviorifornitori della «Folgore». Non si trattava però soltanto di por-

re in atto un intervento di emergen-za limitato agli aviolanci. Era anchenecessario ristabilire un clima di si-curezza per consentire il ritorno deicirca 500 mila profughi alle propriecase. Prese pertanto consistenza uncontingente multinazionale inteso aoccupare la parte settentrionale del-l’Iraq per consentire, inizialmente,la raccolta dei profughi in campi disosta ove potessero ricevere le do-vute cure e, successivamente, il loroprogressivo rientro nelle città e neivillaggi che erano stati abbandonati. Il Governo italiano decise di parte-cipare anche a questa seconda ope-razione dando vita al contingente«Airone». In relazione alla gravità eurgenza dell’emergenza, il 28 aprileil Comandante del contingente e un

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OPERAZIONE «AIRONE»APRILE-OTTOBRE 1991

ITALFOR «AIRONE»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 1 500 uomini e 8 infer-miere volontarie;

Schierati in turchia• Comando contingente;• un centro trasmissioni;• un plotone aviorifornitori;• un raggruppamento elicotteri dotato

di CH-47 e AB-205 con adeguato re-parto di sostegno tecnico-logistico;

• una Cellula A.M.I dotata di velivoliG-222.

Schierati in Iraq• componente operativa e sanitaria ar-

ticolata su:•• due compagnie paracadutisti;•• una compagnia paracadutisti

Incursori;•• un plotone Carabinieri paraca-

dutisti;•• un’aliquota del battaglione logi-

stico «Folgore»;•• un plotone genieri paracadutisti;•• un reparto sanità;

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nucleo avanzato furono inviati inKurdistan ed entro la fine del mesedi aprile una buona parte dei nostrireparti era già schierata in territorioiracheno. Il contingente «Airone»era inserito in una forza multinazio-nale di circa 20 mila uomini cui par-tecipavano, in misura diversa, undi-ci Stati con il coordinamento degliStati Uniti. La complessa strutturaorganizzativa del contingente pre-vedeva un Comando, di stanza inTurchia, e truppe schierate preva-lentemente nell’area di Zakho, im-mediatamente a sud del confine conla Turchia. La zona di interesse siestendeva su un’ampiezza di cento-trenta chilometri fronteggiando treBrigate irachene, con le quali peral-tro si ebbero solo sporadici episodidi carattere conflittuale. È da ricor-dare altresì che immediatamente anord, nell’adiacente area del territo-rio turco, operavano consistenti for-mazioni del PKK, partito autonomi-sta curdo in Turchia, spesso impe-gnato in attività terroristiche. Taleatteggiamento del PKK, peraltro,non interferì con l’attività del con-tingente multinazionale salvo pocheoccasioni, che interessarono lo stes-so Contingente Italiano.Il contingente italiano (ITALFOR -AIRONE) si trovò ad affrontare unasituazione del tutto nuova, passan-do dall’abituale addestramento aoperare nel territorio nazionale, in

termini di poche decine di chilome-tri, a distanze dell’ordine di duemi-lacinquecento chilometri, da percor-rere via mare fino al porto di Adanain Turchia e poi, per ottocento chilo-metri, via terra fino a Zakho lungoun non facile itinerario che costeg-giava il confine della Siria.La composizione del contingente«Airone» (ITALFOR - AIRONE)comprendeva: un Comando di con-tingente, con sede ad Incirlik (Tur-chia), strutturato su varie cellule(Stato Maggiore, collegamento conil Comando della forza multinazio-nale, movimenti e trasporti, stampae pubbliche relazioni) e con alle di-rette dipendenze un centro trasmis-sioni, costituito da militari del batta-glione «Leonessa», e un plotoneaviorifornitori (lo stesso utilizzatonella prima fase dell’intervento);una componente operativa e sanita-ria (ITALPAR – AIRONE) dislocataa Zakho (Iraq); un raggruppamentoelicotteri (ITALHELY – AIRONE),dotato di elicotteri CH-47 e AB-205,nonché di un adeguato reparto disostegno tecnico e logistico, con ba-se nell’aeroporto di Diyarbakir(Turchia); una Cellula AMI (ITAF -CELL), dotata di aerei G-222 dislo-cati nella base di Incirlik. Tale cellu-la operava sotto il controllo operati-vo della 2a Regione Aerea di Roma

e sotto il controllo tattico del Co-mando del contingente «Airone»per le missioni di sostegno direttoassegnate alle forze italiane.La componente di manovra delcontingente «Airone» era rappre-sentata da: due compagnie del 5°battaglione paracadutisti «El Ala-mein»; una compagnia di incursoriparacadutisti del 9° battaglione«Col Moschin»; un plotone del bat-taglione Carabinieri paracadutisti«Tuscania»; un’aliquota del batta-glione logistico «Folgore»; un ploto-ne della compagnia genio paraca-dutisti; il reparto sanità della Briga-ta alpina «Taurinense», dotato di un

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Ospedale da campo e forte di 30medici, 28 paramedici, 8 infermierevolontarie del Corpo della CroceRossa Italiana e di un congruo nu-mero di militari di leva.In totale, la partecipazione italiana,tenendo conto anche del personaleavvicendato, è stata dell’ordine di1 500 uomini.Da rilevare inoltre la partecipazionedi una compagnia del 325° battaglio-ne paracadutisti statunitense postaper un periodo, circa un mese, se-condo una prassi non comune, alledipendenze del Comando italianoper l’impiego in stretta integrazionecon le nostre forze operative.L’azione del contingente si svolse indue principali direzioni: attuazionedi misure di sicurezza nei riguardidelle forze irachene di SaddamHussein che, come si è visto, eranoschierate immediatamente a suddell’area di competenza; assistenzaalla popolazione mediante la realiz-zazione di tendopoli, la distribuzio-ne di viveri e l’attuazione di consi-stenti misure sanitarie.Ai fini della sicurezza, fin dall’iniziodelle operazioni, tre distaccamentidi incursori furono aggregati alleforze francesi, nel quadro del climadi stretta collaborazione internazio-

nale che caratterizzava l’operazionein tutti i suoi aspetti.ITALPAR realizzò poi in pochigiorni un campo trincerato neipressi della città di Zakho, che co-stituì la base operativa di tutto ilsettore assegnato. Quest’ultimoaveva un’estensione pari a circa 900chilometri quadrati. Il controllo delterritorio fu posto in atto con la si-stemazione di capisaldi nelle posi-zioni chiave dell’area di competen-za, da cui venivano proiettati inavanti posti di osservazione lungoil margine sud, verso la zona presi-diata dalle forze irachene.L’intervallo tra i capisaldi era con-trollato da pattuglie motorizzate diParacadutisti, queste fornivano unarassicurante presenza anche nei nu-merosi villaggi della zona soprattut-to per sedare incidenti fra la partepiù attiva della componente curda, ipeshmerga, e gli abitanti arabi che ilregime iracheno aveva fatto insedia-re in quell’area nel passato per in-crinare l’omogeneità etnica dellapopolazione. Lungo le principali ro-tabili, i Carabinieri paracadutistiavevano il compito di costituire po-sti di blocco per il controllo dei vei-coli civili e di eventuali trasferimen-ti di armi ed esplosivi. Gli stessi

campi profughi erano controllati dasquadre di Paracadutisti per assicu-rare la sicurezza all’interno deglistessi e contro eventuali attacchiesterni. Ci si trovava, infatti, in unasituazione piuttosto confusa cherendeva poco chiari lo schieramentoe l’atteggiamento dei vari gruppi et-nico-politici presenti e operanti nel-la zona.Ai fini dell’assistenza alla popola-zione, furono complessivamenteposti in atto tre campi sosta per iprofughi con la gestione di granditendopoli in grado di ospitare fino a60 mila persone. La dimensione e l’efficacia di questarealizzazione costituì senza dubbio al-cuno la componente di maggior respi-ro dell’intera operazione il cui caratte-re e i cui fini erano, come si è visto,prevalentemente quelli umanitari.In tale contesto, aspetto di rilievo as-solutamente preminente fu quellodell’inserimento del reparto di sanità,con relativo Ospedale da campo, al-l’interno della base operativa di Za-kho. Si trattava di un organismo do-tato di apparecchiature diagnostichedi avanguardia e di un nucleo di spe-cialisti militari particolarmente quali-ficati. Molti furono gli interventi chi-rurgici a seguito di incidenti dovutialla diffusa presenza di mine su tuttoil territorio. Ma notevole impegnoebbero soprattutto le componenti gi-necologica e pediatrica, che suscita-rono grande interesse nella popola-zione affluita per ricevere assistenzae cure anche da distanze di oltre cen-to chilometri. L’attività del Repartodi sanità comportò anche l’opera dinuclei sanitari mobili che visitarono ivillaggi più remoti e isolati per dareun contributo umanitario quanto maiapprezzato.Da ricordare, infine, le numerosemissioni di trasporto effettuate da-gli elicotteri dell’Aviazione del-l’Esercito per il trasferimento deiprofughi dalle montagne ai campiattrezzati, nonché le colonne di au-tomezzi intese a riportarli da questicampi ai villaggi di origine.L’attività di «Airone», dopo la fase

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iniziale di assestamento, fu condot-ta con un ritmo incessante ed ebbeeffetti ben maggiori dell’entità dellanostra partecipazione. Infatti, se laforza di ITALFOR era pari o pocopiù del 5% del contingente multina-zionale, l’area da noi presidiata ri-guardava il 25% del territorio, letende approntate il 20% del totale.Assunse inoltre carattere di assolutaprevalenza il settore sanitario, inquanto il nostro era l’unico ospeda-le operante per la popolazione civilesu tutto il territorio occupato.L’opera di assistenza ai curdi fu in-terrotta quasi all’improvviso, agliinizi del mese di luglio, per il so-pravvenire di problemi di carattereinternazionale riguardanti nella so-stanza il rischio che il ricompattarsidel popolo curdo, dopo questa tra-gica esperienza, portasse alla nasci-ta di un vero e proprio stato autono-mo. Questo avrebbe potuto costitui-re un concreto elemento di attrazio-ne verso le popolazioni della stessaetnia presenti negli Stati limitrofi al-terando così un equilibrio che inve-ce si voleva comunque salvaguarda-re. Di particolare riguardo, in talsenso, l’attività dei due principalipartiti, l’Unione Patriottica Curda(UPK) e il Partito Democratico delKurdistan (PDK), protagonisti an-che delle successive vicende irache-ne e che tuttora rappresentano forzepolitiche quanto mai attive.Arrivava così, il 27 luglio, l’ordine diripiegamento del Contingente Italia-no, ultimo fra tutti quelli della forzamultinazionale. Tuttavia, un’aliquotadi circa 200 uomini rimase sul confi-ne, con base a Silopi, quale nostracomponente di una Brigata interna-zionale intesa a garantire ulterior-mente la sicurezza delle popolazioniin vista del possibile rinnovarsi dirappresaglie irachene. Il 9 ottobre an-che questo reparto rientrò in Patria,concludendo la vicenda del contin-gente «Airone».L’Operazione «Airone» non ha avu-to l’eco che ha caratterizzato altri in-terventi oltremare. Si è trattato, in-fatti, di un impegno limitato nel

tempo, con fini prevalentementeumanitari e, quindi, privo di quellacomponente emotiva che suscitanole situazioni in presenza di unamaggiore conflittualità. Cionono-stante questa operazione ha avutouna notevole rilevanza, all’internodel «Sistema Esercito», dal punto divista sia organizzativo sia funziona-le. Erano passati, infatti, già otto an-ni da quando si era concluso il no-stro intervento in Libano, al qualeperaltro non avevano fatto seguitoconcrete innovazioni strutturali. Lenostre Forze Armate, per il pocotempo trascorso dalla fine dellaGuerra Fredda, avevano ancoraun’organizzazione tutta orientata alconflitto est-ovest senza specifichepredisposizioni per la capacità di

proiezione che si stava rivelando,invece, come il nuovo e prevalentecompito da affrontare.Fu perciò necessario impostare tuttoex-novo, dalla gestione del personale,ancora di leva, ai rapporti con lastampa, dall’organizzazione logisticaalla collaborazione con gli alleati.Questo è certo stato il principale sfor-zo compiuto dallo Stato Maggiore, ilcui positivo effetto si è manifestatonon solo in occasione del successivointervento in Somalia, ma anche intutte le altre operazioni svolte negli

anni a seguire che hanno potuto av-valersi del solco strutturale, organiz-zativo e gestionale tracciato, appun-to, dall’Operazione «Airone». Fonda-mentale in particolare l’organizzazio-ne posta in atto per conseguire la pie-na efficienza in campo logistico. Sipensi, ad esempio, alla notevole di-stanza da superare con non pochedifficoltà per raggiungere l’area diZakho. Per quanto riguarda il perso-nale, la risposta data dai militari dileva fu ampiamente soddisfacentesuperando di gran lunga le preoccu-pazioni e i dubbi che si erano manife-stati per l’impiego di ragazzi conun’esperienza di servizio di soli po-chi mesi. E questo non solo per i Pa-racadutisti, considerati di per sé re-parti di élite, ma anche per tutti gli al-

tri, compreso in particolare il Repartodi sanità, animato da un vivo entu-siasmo per la percezione dell’impor-tanza del proprio ruolo nei riguardidella popolazione civile.A questi aspetti decisamente positivifece riscontro, per il vero, una scarsaeco di opinione pubblica per la pale-se preoccupazione da parte delle piùalte autorità, soprattutto politiche, didare poca rilevanza all’evento per iltimore dei riflessi negativi connessicon questo nuovo impegno delle For-ze Armate, soprattutto in caso di in-

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cidenti. Conseguenza di tale limita-zione è stata la minore attenzione e laricorrente omissione della citazionedi questa operazione in occasione diresoconti storico-culturali o di cele-brazioni ufficiali.Di particolare interesse poi la com-plessa situazione internazionale chevedeva la Turchia, da una parte na-turalmente solidale con la forza mul-tinazionale a guida statunitense edall’altra intimamente preoccupatadi qualsiasi rafforzamento della com-ponente curda, inevitabilmente colle-gata con il terrorismo irredentisticodel PKK operante nella fascia orien-tale del Paese. In non poche occasioniostacoli burocratici e formali poseroin difficoltà l’alimentazione logisticadella popolazione curda per il timoredella possibilità che oltre ai beni diprima necessità affluissero armi emunizioni. La capacità di stabilirerapporti personali amichevoli con ifunzionari turchi operanti soprattut-to nel porto e di suscitare la nostratradizionale simpatia, consentì di su-perare gli ostacoli che via via si frap-ponevano. Questi nostri piccoli suc-cessi spesso lasciavano stupiti gli al-leati, soprattutto americani, il cui piùaccentuato formalismo non riusciva aottenere analoghi risultati positivi.Da rilevare altresì, come già posto inrisalto, la necessità manifestatasi inpiù occasioni di difendere le «encla-ves» arabe presenti nel territorio ed

esposte a loro volta a rappresaglieviolente da parte dei curdi. Si trattò,talvolta, in sostanza di difendere gliarabi dall’aggressività curda, mentrela funzione affidataci era quella digarantire la sicurezza dei curdi dal-l’aggressività degli arabi di Saddam.È da ricordare poi con vanto che i no-stri uomini rientrarono tutti indenniin Patria mentre Forze Armate di al-tri Paesi dovettero lamentare perditeabbastanza sensibili nonostante laqualificazione prevalentemente uma-nitaria dell’intervento.Una volta giunti nell’area di compe-tenza fu necessario affrontare diffi-coltà assolutamente nuove sia per lecondizioni climatiche a cui certo noneravamo abituati (sul termometro diun elicottero in sosta a Zakho si giun-se a leggere l’entità incredibile di 54°centigradi!). Un altro elemento che ri-chiese un particolare impegno fuquello delle condizioni di vita deiprofughi curdi cui davamo soccorsosia per la loro antica povertà sia perle precarie condizioni sanitarie siaper lo stato d’animo di rassegnatoterrore. Resi particolarmente sensibiliper la drammaticità della situazione,dedicammo con entusiasmo le mi-gliori risorse per assolvere il compitoumanitario affidatoci, che si conclusecon il dono alla città di Zakho delledotazioni sanitarie del nostro Ospe-dale da campo. Ampio e quanto mairemunerativo l’affetto e il riconosci-

mento che ricevemmo dai curdi inogni circostanza, ricompensandoci,più di ogni altro giudizio favorevoleemesso dall’alto, dell’impegno profu-so e dei non pochi sacrifici affrontati.Proprio in relazione alle difficili con-dizioni di vita, ai rischi che comun-que si presentavano e all’incertezza,che comunque discendevano dallanecessità di affrontare qualcosa dinuovo, particolare attenzione nel-l’azione di Comando fu dedicata albenessere dei nostri soldati. Da ricor-dare, ad esempio, il collegamento te-lefonico con le famiglie, naturalmenteansiose per la eccezionalità dell’even-to, l’approntamento di una nuova tu-ta mimetica, la cosiddetta «desertica»,adatta al torrido clima estivo del Kur-distan, mentre non mancarono occa-sioni per inviare qualche drappello difortunati a trascorre un breve riposoin riva al mare e a godersi un bagnoristoratore. Analogamente, di pienosuccesso il rapporto interforze e inparticolare con l’Aeronautica il cuinucleo di velivoli da trasporto G-222pose in risalto eccezionale disponibi-lità e piena efficienza. Parimenti dipiena soddisfazione il rapporto con leforze alleate, sia nel Comando Supe-riore ove si respirava un clima di cor-diale solidarietà sia sul «campo» oveil Comandante italiano e quello statu-nitense avevano stabilito un’amiciziaveramente fraterna.Del positivo risultato conseguito intutti i settori in questa operazione èstata conferma, oltre al caloroso sa-luto dei curdi che ci videro partiremal volentieri, l’apprezzamentodelle autorità alleate e soprattuttoquello che al rientro in Patria ci vol-le esprimere personalmente il Presi-dente della Repubblica FrancescoCossiga con la consegna di oltreventi croci al Merito dell’Esercitocui fece seguito, in epoca successi-va, anche una decorazione dell’Or-dine Militare d’Italia.

Mario BuscemiGenerale di Corpo d’Armata (c.a.),

già Comandantedel contingente «Airone»

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Dal 1945, con la riforma agraria, l’Al-bania basò la sua economia sulla col-lettivizzazione. Un’economia imper-niata essenzialmente sull’agricolturae la pastorizia, e solo marginalmentesull’industria, quest’ultima poten-zialmente forte in presenza di risorseidriche e di giacimenti petroliferi digrande interesse. Tuttavia, la carenzadi impianti industriali moderni, lamancanza di sbocchi commercialiadeguati (e questo per gli accordisottoscritti dall’Albania con l’UnioneSovietica e, in seguito, con la Cina)determinarono il cronico passivodella bilancia commerciale e un gra-duale e inarrestabile impoverimentodel Paese.Dopo la morte, nel 1985, di EnverHoxha, padre-padrone del «Paesedelle Aquile», e in seguito ai cambia-menti avvenuti nei Paesi dell’Europaorientale, iniziò anche in Albania unafase di trasformazione che vide que-st’ultimo bastione stalinista aprirsi al-la democrazia.L’isolamento entro cui gli albanesisono stati costretti per circa mezzosecolo è sfociato in gravi agitazioninel 1990; i fattori scatenanti: sono sta-ti, da un lato, il crollo dell’Unione So-vietica e il conseguente rapido avviodel processo di democratizzazionenell’est europeo e, dall’altro, le noti-

zie diffuse dalla televisione italianache forniva agli albanesi l’immagine(in bianco e nero) del mondo esterno,altrimenti sconosciuto nella sua am-piezza e articolazione. Seguirono lefasi dell’esodo verso le coste italiane.Anche in quelle giornate dense ditensione, l’Esercito venne mobilitatoper fronteggiare la crisi: i profughivennero ospitati in nove caserme, perun totale di cinquemila posti letto. Imilitari allestirono, a tempo di re-cord, quindici tendopoli con un im-pegno giornaliero di 1 300 uomini,censirono i profughi, diedero loro as-sistenza sanitaria e cibo garantendol’ordine interno ed esterno.Quando le elezioni dell’aprile 1991in Albania non diedero i risultati at-tesi e il vecchio regime rimase al po-tere, l’esodo divenne ancora piùmassiccio. Anche in quell’occasionel’Esercito intervenne con i reparti di-slocati a Bari e a Siracusa; furono im-piegati 1 600 uomini, in maggioran-za giovani di leva. L’operazione ri-chiese 230 automezzi, 2 fotoelettri-che, 5 complessi campali di illumina-zione, 2 motovedette. I reparti del-l’Esercito fornirono concorso alla Po-lizia di Stato e ai Carabinieri nelmantenimento dell’ordine pubbliconelle città di Bari e Siracusa, provvi-dero al trasporto dei profughi sullabase delle direttive dell’autorità civi-le e approntarono due nuclei di di-sinfezione.Si giunse, infine, al memorandum d’in-tesa tra l’Italia e l’Albania, il 24 ago-sto 1991, preludio all’Operazione«Pellicano».Il Governo italiano, allora, decise diportare in Albania i primi soccorsiumanitari per scoraggiare l’immi-grazione e rimpatriare quanti ille-galmente avevano raggiunto le co-ste italiane.Compito della missione era quindiquello di distribuire ai magazzini diStato albanesi gli aiuti di emergenza

inviati dall’Italia dai porti di Duraz-zo e di Valona e assicurare l’assisten-za sanitaria generica, nonchè la di-stribuzione di farmaci alla popola-zione albanese delle due città. Nella prima fase di svolgimento (set-tembre 1991 - marzo 1992), i mezzidell’Operazione «Pellicano» hannoassicurato il trasporto di 90 659 ton.di generi vari inviati dall’Italia.La seconda fase della missione è con-sistita nella distribuzione di aiuti in-viati dalla Comunità Economica Eu-ropea (marzo-settembre 1993), segui-ti da una ulteriore tranche di aiuti ita-liani («Pellicano 3» settembre-dicem-bre 1993).Durante la prima fase dell’operazio-ne umanitaria a favore dell’Albaniadenominata «Pellicano 1», giunseronel porto di Durazzo 61 navi. La ri-cezione e il trasporto degli aiuti ali-mentari italiani, 140 000 tonnellatecontro le 90 000 inizialmente previ-ste hanno richiesto sei mesi (tre piùdel previsto). Sono state sbarcate,da oltre 130 navi mercantili, più di60 000 tonnellate di viveri.Ultimato il compito relativo agli aiutiitaliani, il Contingente è stato impie-gato nell’ambito del programma diaiuti concessi all’Albania dalla Co-munità Economica Europea, con ilmandato di fornire concorso al tra-sporto. Si è passati, quindi, a «Pellica-no 2» che ha trasportato circa 170 000tonnellate di aiuti CEE, percorrendopoco meno di 6 500 000 chilometri edeseguendo più di 1 000 ore di volocon gli elicotteri. 4 000 autocolonne e 5 000 avvicen-damenti nel contingente, 750 ton-nellate di materiali movimentatiogni giorno e 276 visite medichegiornaliere, forniscono un’immagi-ne sufficientemente eloquente dellamole di lavoro svolta dagli uominidel Contingente «Pellicano». Il Co-mando del Contingente era alle di-rette dipendenze del Capo di Stato

Speciale

CONTINGENTE «PELLICANO»

CONTINGENTE «PELLICANO»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 713 uomini;• Comando contingente con una se-

zione di Polizia Militare;• due battaglioni logistici;• un’aliquota dell’Aviazione Leggera

dell’Esercito;• un’aliquota delle trasmissioni.

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40 Rivista Militare

Maggiore dell’Esercito. Formarono il contingente 67 Ufficia-li, 210 Sottufficiali, 436 soldati di le-va, così ordinati:• Comando contingente con una sezio-

ne di Polizia Militare (unico repartoin armi in seno al Contingente);

• battaglione Logistico «Carso»;• battaglione Logistico «Acqui»; • un’aliquota dell’Aviazione Leggera

dell’Esercito su quattro Elicotteri; • un’organizzazione delle trasmis-

sioni idonea a soddisfare il com-plesso delle esigenze;

• una rete informativa predispostain collaborazione con le forze diPolizia albanesi.

Gli automezzi impegnati furono 465per una capacità di trasporto di circa2 000 tonnellate al giorno e furonopercorsi oltre 10 000 000 di km. Glielicotteri, per una capacità di traspor-to di circa 14 tonnellate a sortita, eb-bero circa 2 000 ore di volo.Nei Poliambulatori di Durazzo e Va-lona furono inseriti due Nuclei dipersonale sanitario militare italiano.Alle due équipes parteciparono inter-nisti, oculisti, ginecologi, dentisti,otorinolaringoiatri, cardiologi, chi-rurghi, dermatologi, farmacisti, comepure Crocerossine e Infermieri dellaCroce Rossa. Nel complesso furonoeffettuati 178 000 interventi sanitari.Operazione «Pellicano» fu una pre-senza concreta, dinamica, razionale,stimolante, psicologicamente indi-spensabile per fronteggiare un’emer-genza oggettivamente drammatica,precipitata nel baratro dell’impossi-bilità strutturale e organizzativa difronteggiare i bisogni primari e tra-mutatasi in un esodo, non sempreclandestino, con risvolti umani toc-canti e implicazioni di elevato ri-schio. Doveva durare tre mesi, dal-l’ultima decade di settembre al di-cembre 1991, ma durò molto di più.Tante furono le difficoltà da supera-re: prima di tutto l’impatto psicolo-gico. I nostri ragazzi non erano deirobot. Apparentemente smaliziati,irriverenti, ipercritici e insofferenti,hanno parlato poco e lavorato mol-to. I nostri Soldati hanno riparato

tetti, scavato fognature, costruitogabinetti, installato gruppi elettro-geni, imbiancato i muri, tolto il gua-no che formava un putrescente tap-peto. Hanno guidato colonne di au-tomezzi pesanti lungo strade privedi segnalazioni, con buche e stretto-ie improvvise, mentre gli albanesicamminavano tra buoi e mucche te-nuti al guinzaglio, e papere e gallineinvadevano la carreggiataGli itinerari delle autocolonne han-no rappresentato l’impegno piùgravoso. Il trasporto delle derratealimentari e dei medicinali avvieni-va su carrabili insidiose, che essen-do a larghezza ridotta, in molti pun-ti non consentivano il transito adoppio senso dei mezzi più pesanti;il piano stradale sconnesso era insi-dioso per la guida in caso di pioggiae gli itinerari tortuosi in qualchetratto richiedevano lunghe devia-zioni; un traffico disordinato, malregolato (in Albania non esistevaCodice della Strada) e imprevedibi-le, obbligava i conduttori e i capi-macchina a un impegno superioreal normale; le banchine non protettenel lato a valle erano poco sicure. Gli aiuti di emergenza sono staticonsegnati a «domicilio» nei Ma-gazzini di Stato dei 27 Distretti incui era suddivisa l’Albania.Differenti fra loro per caratteristichee capacità ricettive, erano spesso ina-deguati alle esigenze di immagazzi-namento: le dimensioni degli ingressinon permettevano un agevole transi-to ai mezzi meccanici; le aree di ma-

novra non erano sufficientementeampie; quelle di sosta erano ristretteo mancavano del tutto, costringendole autocolonne a sostare lungo le car-rabili di accesso; non esistevano pia-nali meccanici di carico e scarico (dicui invece era fornito il contingente«Pellicano»); l’organizzazione internaera inadeguata; la manovalanza loca-le, a cui era assegnato il compito discaricare le autocolonne era numeri-camente insufficiente, demotivata epriva di qualsiasi elemento di vivaci-tà; ne derivò un sovraffaticamentodel personale ed un allungamentodei tempi di carico e scarico.Infine, l’azione della polizia albane-se che precedeva e accompagnavale colonne mitigava solo in modestamisura le oggettive difficoltà.Si devono sottolineare l’ampiezza el’intensità dell’impegno: un impiegoenorme dei mezzi dell’Esercito sustrade sovente impraticabili con laconseguente usura dei mezzi e l’esi-genza di manutenzione e alimenta-zione. A questo si devono aggiunge-re l’entità dei trasporti marittimi eterrestri, l’attività portuale con i mez-zi di movimentazione delle merci,l’organizzazione di un «ponte» cheha dato all’Albania l’ossigeno essen-ziale per sopravvivere, uscire dal co-ma sociale e psicologico e cominciarea guardare avanti con fiducia.

Antonio QuintanaGenerale di Corpo d’Armata (ris.),

già Comandantedel contingente «Pellicano»

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La missione di pace in Mozambicoebbe origine dalla firma degli accor-di di pace tra le Autorità governativedel FRELIMO e la RENAMO stipu-lati a Roma il 4 ottobre 1992 a segui-to della importante opera di media-zione svolta dalla comunità di S. Egi-dio. Gli accordi sottoscritti determi-narono la fine di un conflitto iniziatonel 1976 che, in circa 16 anni, avevaprovocato 4 milioni di morti e profu-ghi e altrettanti sfollati che dallecampagne si erano addensati in ag-glomerati innaturali intorno ai mag-giori centri urbani.Queste circostanze, unite a siccità e aun lungo periodo di carestia, detemi-narono la Risoluzione n. 797 (16 di-cembre 1992) delle Nazioni Unite,con la quale il Consiglio di Sicurezzaautorizzò l’operazione ONUMOZche attraverso un complesso di atti-vità si è proposta lo scopo di favoriree consolidare il processo di pace trale parti contrapposte.

Il Mandato affidato alla componen-te militare è stato molto articolatoed è consistito:• nel monitorare e verificare: «il

cessate il fuoco»; la separazione;la successiva concentrazione esmobilitazione delle forze con-trapposte; la raccolta/stoccaggio edistruzione delle armi; il ripiega-mento fuori dai confini del Mo-zambico di forze militari stranie-re; la smobilitazione dei militari edi gruppi armati irregolari;

• nell’attuare misure di sicurezza afavore di infrastrutture e servizivitali;

• nel fornire sicurezza alle attivitàdelle Nazioni Unite e di altre or-ganizzazioni svolte a sostegno delprocesso di pace.

Per assolvere un mandato così im-pegnativo su un territorio molto va-sto, le forze militari ONU apparte-nenti a diverse nazionalità sono sta-te schierate in tre regioni: Nord,Centro, Sud.All’Italia fu affidata dalle NazioniUnite la responsabilità di comandodella regione centro con alle dipen-denze anche reparti di altre nazionali-tà (Botswana, India, Portogallo, Giap-pone) nonchè la Presidenza dellaCommissione per il «cessate il fuoco».Come contributo alla componentemilitare, l’Italia ha espresso un com-plesso di forze della Brigata alpina«Taurinense» prima e, successiva-mente, della Brigata alpina «Julia»con la costituzione del contingente«Albatros» il quale, schierato nelmese di febbraio/marzo 1993 lungoil corridoio di Beira, oltre a un’orga-nizzazione di Comando e Controllo(Reparto Comando e Supporti Tatti-ci «Taurinense» rinforzato), com-prendeva:• una componente di alpini (batta-

glione Alpini «Susa») e di Alpiniparacadutisti (compagnia alpiniparacadutisti del 4° Corpo d’Ar-mata) capace di assolvere molte-plici, differenziate funzioni;

• un nuleo trasmissioni tratto dal 44°battaglione trasmissioni «Penne»;

• una componente aeromobile (grup-po squadroni dell’Aviazione Leg-gera dell’Esercito) volta a soddisfa-re attività di ricognizione e control-lo del territorio; trasporto tattico,impiego tempestivo e a ragion ve-duta di unità e sgombero sanitario;

• una componente logistica (batta-glione logistico «Taurinense») euna componente sanitaria (repar-to sanità «Taurinense») in grado,entrambe, di conferire spiccataautonomia a tutte le forze impie-gate nella regione Centro, alle Or-ganizzazioni ONU e alla popola-zione civile;

• un nucleo Carabinieri tratto dallaBrigata alpina «Taurinense».

Per molti aspetti, l’importanza delsettore assegnato al ContingenteItaliano, unita alla quantità e qualitàdelle forze impiegate in modo ar-

Speciale

MISSIONE DI PACE IN MOZAMBICO

CONTINGENTE «ALBATROS»

CONTINGENTE «ALBATROS»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 1 100 uomini e 4 infer-miere volontarie;

• Comando e Controllo (Reparto Co-mando e Supporti Tattici «Taurinen-se» rinforzato);

• un reggimento di formazione com-posto da:•• compagnia Comando e servizi;•• tre compagnie fucilieri;•• una compagnia mortai;•• una compagnia alpini paraca-

dutisti;•• un gruppo squadroni dell’Avia-

zione Leggera dell’Esercito;•• un battaglione logistico;•• un reparto sanità.

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monico, hanno fatto della partecipa-zione italiana alla missione unostrumento di sicuro riferimento inun contesto di accentuato rischio inrelazione alla particolare situazioneincerta e imprevedibile esistentenell’area.Nella situazione appena delineata,molteplici sono state le attività svol-te. In sintesi:• scorta armata a convogli ferrovia-

ri e stradali lungo il corridoio diBeira;

• presidio di punti/infrastrutturesensibili per l’alto significato sottoil profilo socio-economico;

• distribuzione di aiuti significativiin relazione all’elevata finalità in-trinseca e trasporto di materiali suitinerari lunghi, affatto agevoli e incondizioni di spinta autonomia;

• costituzione di aree di raccolta(Assembly Areas) in cui concentrarei soldati da smobilitare e disarma-re, che ha richiesto attività orga-nizzative particolarmente com-plesse, pattugliamento per il con-trollo e sicurezza di dette aree, tra-sporto di materiali d’armamentoin centri allestiti dal contingente;

• assistenza sanitaria alla popola-zione, il cui sviluppo incisivo nonsolo ha avuto carattere d’urgenzama anche sistematico, sia sul terri-torio sia presso la struttura sanita-ria campale del contingente.

In questo quadro di attività e dicondizioni generali, a dir poco flui-

de, era insita una obiettiva difficoltàcirca una evoluzione positiva dellamissione. Nonostante ciò, le predi-sposizioni per le elezioni politiche(censimento degli elettori, formazio-

ne e legalizzazione dei partiti politi-ci, ecc.) e la loro effettuazione - siapure in tempi più dilatati - hannopotuto procedere, anche se tra leparti in opposta ideologia era pre-sente una persistente diffidenza te-stimoniata - tra l’altro - dalla man-cata volontà di rinunciare alla di-sponibilità di parte della propriaforza militare. Questa condizione hacostituito in via permanente un po-tenziale destabilizzante in presenzadi una situazione politica molto in-certa e per nulla chiara. Certo è chela pace tra le opposte fazioni è stata

mantenuta con ogni sforzo e tuttoraessa resta un risultato di assoluto ri-lievo e significato a dimostrazioneche i compiti attribuiti al Contin-gente Italiano - diventati sempremaggiori rispetto a quanto stabilito- sono stati egregiamente assolti.Nel mese di novembre 1994, il con-tingente - dopo un precedente con-sistente ridimensionamento - è statocompletamente ripiegato a seguitodello svolgimento delle libere ele-zioni (sancite dagli accordi) chehanno segnato la fine del Mandato.Per concludere, va sottolineato chela missione «Albatros» ha messo inchiara evidenza che le operazioni diPeace Keeping costituiscono per mol-ti versi un modo nuovo di disponi-bilità in cui le forze militari, al pari eforse più di altri organismi, si sonorivelate indispensabili nella compo-

sizione di conflitti e nella pacifica-zione delle parti in causa; un mododi impiego, cioè, volto a creare fatti-vamente un ponte tra emergenza esviluppo attraverso il coordinamen-to di interventi mirati.In tal senso il Mozambico si è con-fermato una delle poche aree delpianeta in cui una missione di paceha mantenuto fede alle promesse.

Luigi FontanaGenerale di Corpo d’Armata (ris.),

già Comandantedel contingente «Albatros»

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Ai primi del 1992, il Segretario Gene-rale dell’ONU, Boutros Ghali, pre-sentava all’Assemblea Generale ilRapporto «Un’Agenda per la Pace».La novità assoluta era il ricorso al-l’uso della forza (cap. VII della Cartadell’ONU) non solo per l’autodifesama anche per l’assolvimento delMandato. Venuto meno il bipolari-smo delle due Superpotenze, dun-que, le Nazioni Unite si proponevanoquale soggetto internazionale attivo,dotato di iniziativa politica, militareed economica, e legittimavano de fac-to il diritto/dovere di ingerenza nellevicende degli Stati per porre fine aemergenze umanitarie (genocidi, ca-restie, calamità naturali).Nello stesso anno, la Somalia, uscitada un’efferata guerra civile, cheaveva provocato la morte di 500 000persone, il dissolvimento di tutte leIstituzioni, l’azzeramento di ogni

servizio pubblico e la distruzione diogni risorsa e capacità produttiva,era, per giunta, afflitta da una tre-menda carestia, che continuava adecimare la popolazione. In tale si-tuazione disperata, le milizie diquindici «Signori della Guerra»continuavano a fronteggiarsi e ban-de di «cani sciolti» spadroneggiava-no impunemente nella savana e nel-la stessa Mogadiscio. La popolazio-ne era allo stremo. Il valore della vi-ta umana, quella altrui ma anche lapropria, ridotto a zero secondo laterribile logica del «non avere piùnulla da perdere».Sembrava il banco di prova ideale perla nuova dottrina del peace-keeping.

LA MISSIONE

Il 3 dicembre 1992, con la Risoluzio-ne n. 794, l’ONU conferiva a unaCoalizione multinazionale, denomi-nata UNITAF (Unified Task Force) esotto comando statunitense, il Man-

dato di «ristabilire in Somalia, al piùpresto possibile e con l’impiego di tutti imezzi necessari, le condizioni di sicu-rezza idonee allo svolgimento di missio-ni umanitarie, allo scopo di porre lepremesse per il ripristino della pace,della stabilità, della legalità e dell’ordi-ne nell’area».Il Governo italiano decideva diprendervi parte nonostante le fortitensioni politiche, interne ed ester-ne e le difficoltà operative da af-frontare. Veniva designata, qualecomponente terrestre della forzanazionale, la Brigata paracadutisti«Folgore», rinforzata con diversisupporti tattici e logistici, per untotale di 2 500 uomini, 800 mezzi divario tipo, 13 elicotteri e 210 contai-ners con 4 200 tonnellate di viveri,carburanti e munizionamento.L’operazione italiana venne deno-minata «Ibis». L’11 dicembre parti-vano i primi elementi di ricognizio-ne. Nei successivi venticinque gior-ni, l’intera componente terrestre ve-niva schierata nell’AOR (Area of Re-sponsibility) di competenza italiana,secondo una pianificazione com-plessa e studiata per garantire l’im-piego immediato di aliquote com-pletamente operative appena sbar-cati i mezzi e i materiali, dalle navi,

Speciale

UNIFIED TASK FORCEIL CONTINGENTE «IBIS»

CONTINGENTE «IBIS»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 2 500 uomini;• Brigata paracadutisti «Folgore»

rinforzata con diversi supporti tat-tici-logistici (unità blindo-corazza-te, trasmissioni, logistica, sanità,Aviazione Leggera dell’Esercito,Carabinieri).

Le opinioni espresse nell’articoloriflettono esclusivamente il pensierodell’autore.

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e il personale, dagli aerei. L’AOR era estesa quanto l’interaPianura Padana ed era attraversatalongitudinalmente da un’unica stra-da, la cosiddetta «Via Imperiale», daMogadiscio ad Addis Abeba, co-struita dagli italiani negli AnniTrenta. Del nostro territorio facevaparte anche la zona nord di Mogadi-scio, controllata dalla fazione di AliMahadi, nemico di Aidid che con-trollava la zona sud. Un Teatro Ope-rativo di 70 000 chilometri quadrati,tutt’altro che pacificato; a 6 000 Kmdalla Madrepatria; condizioni clima-tico-ambientali inconsuete e difficili;caratteristiche antropologico-cultu-rali assai dissimili dalle nostre, conusanze, abitudini, credenze e valoridiversissimi e talvolta incompatibilicon quelli che appartengono al no-stro vissuto. In questo contesto poli-tico-sociale-geografico-operativo do-vevamo assolvere la nostra missioneumanitaria.Sbarcati in Somalia, ci rendemmosubito conto che, per assolvere ilMandato assegnato, avremmo do-vuto necessariamente ricorrere al-l’uso della forza e che dovevamoscegliere tra due opzioni:• trincerarci nelle basi e uscirne solo

per scortare i convogli umanitari,dietro richiesta esplicita delleO.N.G. (Organizzazioni non Go-

vernative) e solo se l’Operazionenon veniva giudicata rischiosa.Come, del resto, facevano pratica-mente tutti i contingenti;

• cercare di porre fine alla lotta fra-tricida e al genocidio per fame, in-terponendoci con fermezza tra lefazioni, combattendo il banditi-smo e prodigandoci nel soccorsoalla popolazione, non soltanto for-nendo le scorte ai convogli delleO.N.G. (come facevano gli altricontingenti) ma anche andando acercare il bisogno di sicurezza e diassistenza là dove nessuno potevaarrivare, aprendo i campi trince-rati alle necessità sanitarie dellapopolazione e aiutando la gente aridarsi un minimo di assetto so-ciale, amministrativo, giuridico edeconomico.

Entro gli estremi rappresentati daqueste due opzioni, ogni contingen-te nazionale poteva scegliere il pro-prio modo di essere e di assolvere ilMandato che, nella sua genericità,consentiva interpretazioni difformi.Noi italiani, senza esitare e fin dal-l’inizio, facemmo la scelta più impe-gnativa: affermare la nostra presen-za in tutto il territorio mischiandocicon la gente, per comprenderne eattenuarne i bisogni, e facendo capi-re bene a tutti le nostre reali inten-zioni, scevre da ogni utilitarismo.

Con tale impostazione di base, in-traprendemmo una quantità straor-dinaria di attività:• operative: lotta al banditismo con

operazioni di interdizione d’area,controllo delle vie di comunica-zione, pattugliamenti a breve emedio raggio, controllo dei siti,rastrellamenti alla ricerca di armi,..., tendenti ad acquisire il control-lo del territorio: esigenza assolu-tamente prioritaria rispetto a qua-lunque altra;

• umanitarie: scorta ai convogli delleO.N.G., trasporto e distribuzionediretta dei viveri, agevolazione delrientro dei profughi e, soprattutto,assistenza sanitaria alla popolazio-ne rivelatasi preziosa, quest’ultimaattività, oltre che per soddisfarel’esigenza primaria etico-umanita-ria anche per l’utilità operativa, inquanto consentiva una notevolepenetrazione psicologica e infor-mativa nella popolazione;

• i Circuiti Operativi Umanitari(COU). Grazie alle ricognizioni amedio e lungo raggio, effettuatefin dai primissimi giorni dai di-staccamenti operativi degli incur-sori, si era ottenuto il doppio ri-sultato di ricognire il territorio econtemporaneamente delineareun quadro informativo delle con-dizioni e dei bisogni dei vari in-sediamenti nella savana, irrag-giungibili con i mezzi delleO.N.G.. Con frequenza pressochéquindicinale, venivano costituiterobuste pattuglie (una cinquanti-na di uomini), composte daun’aliquota sanitaria, un’aliquotaumanitaria, un’aliquota tecnica euna consistente componente ope-rativa. Ogni pattuglia percorreva,in una settimana, uno dei circuitiricogniti e censiti, sostando pres-so gli insediamenti che incontra-va e svolgendovi attività di con-trollo del territorio (sequestro ar-mi, lotta al banditismo, raccoltainformazioni,...) e attività piùprettamente umanitarie (distribu-zione di viveri, assistenza sanita-ria con elisgomberi sanitari, in-

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terventi di manutenzione e picco-le riparazioni meccaniche, cessio-ne di materiali e attrezzi di lavo-ro,...). Per gli insediamenti piùlontani, il rifornimento dei viveriavveniva anche a mezzo aviolan-cio, con i due G-222 a disposizio-ne del contingente, o con elitra-sporto. I COU furono senza dub-bio la migliore iniziativa per ve-nire incontro ai bisogni della po-polazione della savana e svolseroanche una efficace funzione sta-bilizzatrice in tutta l’area di re-sponsabilità. Sono stati il fiore al-l’occhiello dell’intervento italianoin Somalia, perfetta simbiosi tral’aspetto umanitario e quellooperativo;

• di ricostruzione del tessuto con-nettivo sociale: un vero e propriopeace-building ante litteram. Gli in-terventi furono moltissimi e neicampi più disparati: dal contribu-to alla riconciliazione nazionalealla riapertura delle scuole e l’as-sistenza agli orfanotrofi, dalla ri-costituzione e addestramento del-la Polizia alla sistemazione deimercati e la pulizia delle strade,dal riattamento dei pozzi e dei ca-nali di irrigazione al ripristino diun embrione di servizio postaletra Somalia e Italia, all’incoraggia-mento alla ripresa dell’attività la-vorativa,....In queste attività sociali, coinvol-gemmo, dietro compenso dei vi-veri per loro e le loro famiglie (fo-od for work), insegnanti, medici einfermieri, poliziotti, impiegati efunzionari, artigiani, imprenditorie operai sia per garantire la forzalavoro necessaria per la sistema-zione e gestione delle infrastruttu-re e dei servizi sia perchè comin-ciassero a recuperare la dignità diuomini liberi, padroni del propriodestino, e si sentissero partecipi eresponsabili della riabilitazionedel loro Paese.

Complessivamente, una grandemole di lavoro (svolto esclusiva-mente con il personale e con i solimezzi e materiali militari in dota-

zione esigui e inadeguati), che, afronte dell’immenso fabbisogno perla ricostruzione dello Stato somalo,per quantità e qualità, appariva in-finitesimale ma, sul piano psicolo-gico, faceva capire alla popolazionelo spirito che animava l’interventoitaliano: una grande disponibilitànei confronti dei bisogni della po-polazione ma anche l’assoluta de-terminazione nell’assolvere il man-dato, se necessario, anche con l’usodella forza.

L’ORIGINALITÀ DELLA POSI-ZIONE ITALIANA

Con questa filosofia e i comporta-menti conseguenti, dopo quattromesi dal nostro arrivo, la situazionea Mogadiscio e nella savana si erastabilizzata e la vita della popola-zione aveva ripreso un ritmo quasinormale. Poteva essere un modellodi riferimento per tutta la forzamultinazionale; invece la nostra in-terpretazione del Mandato nonpiacque al nuovo vertice di UNO-SOM (subentrato, il 4 maggio, al co-mando americano) che, al contrario,assunse atteggiamento arrogante emuscolare ingerendosi anche nellequestioni più propriamente somale.Ben presto le relazioni con la fazio-ne di Aidid (fino a qualche settima-

na prima, considerato dagli ameri-cani l’interlocutore privilegiato) sideteriorarono fino all’aperto contra-sto, culminato, il 5 giugno, col mas-sacro di 23 pachistani e il ferimentodi altri 56. Da allora la situazioneprecipitò e gli scontri divennero fre-quentissimi, con spiegamenti di for-ze e di mezzi sempre più importanti(cito per tutti i bombardamenti del-le basi di Aidid con i C-130 «Spec-tre» americani).Al contrario di tutti gli altri contin-

genti, continuamente attaccati du-rante gli spostamenti e anche dentrole basi, il nostro godeva di un’im-munità assoluta che gli consentivadi continuare a svolgere il propriolavoro indisturbato e di risolvereanche molteplici situazioni dram-matiche in cui venivano a trovarsialtri contingenti. Evidentemente, ilcomportamento del nostro contin-gente aveva fatto capire, anche ai«Signori della Guerra», la nostrareale volontà di portare aiuto al po-polo somalo senza voler minima-mente interferire nelle questioni af-ferenti alla libertà e sovranità delpopolo ma aveva anche ingeneratonel comando di UNOSOM la con-vinzione che gli italiani se la inten-dessero con i somali e volesseroperseguire un proprio progetto au-

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tonomo.Il 2 luglio, al check point «Pasta», siruppe l’incantesimo. E fu combatti-mento duro: che costò a noi la per-dita di 3 uomini e il ferimento più emeno grave di altri 22 e molto dipiù alla parte somala (stima somala:67 morti e 103 feriti). Nonostante ilgrave vulnus materiale e morale su-bito e le pressioni dei vertici diUNOSOM affinchè il punto strate-gico «Pasta» fosse riconquistato conla forza, il contingente, fedele allasua interpretazione del Mandato,optò per la trattativa riuscendo a ri-pristinare il check point senza colpoferire. Le critiche dei vertici diUNOSOM si inasprirono al puntodi chiedere il richiamo in patria delComandante del contingente, accu-sato di aver minato la coesione del-l’intera coalizione.Fermo qui il resoconto sull’opera-zione «Ibis», ritenendo di avere,sia pure molto sinteticamente, pre-sentato l’essenza del lavoro svoltoe lo spirito con cui è stato svolto, epasso a enunciare alcune conside-razioni su quanto avvenuto ven-t’anni fa in materia di missionifuori area; quando, cioè, dalle ope-razioni di 1a generazione (peacekee-ping passivo) si è passati, senzapreventiva sperimentazione e conscarsissimo preavviso, a quelle di2a generazione (peace-keeping e pea-ce-enforcing attivo) e precorrendo,addirittura, quelle di 3a generazio-ne (peace-building).

CONSIDERAZIONI

Il contingente

Vent’anni fa, lo Stato Maggioredell’Esercito, da poco archiviata lasoglia di Gorizia, era nella fase dielaborazione di una radicale riqua-lificazione dello strumento opera-tivo, alla luce del cambiamentodello scenario internazionale. Lacapacità di proiezione delle forzeera il leit motiv di ogni riflessionema nell’attuazione pratica degli

adeguamenti necessari si procede-va a rilento, tanto che quandoscoppiò la prima guerra control’Iraq, l’Esercito decise di non par-teciparvi perché non si sentivapronto. Anche per la partecipazio-ne alla missione in Somalia nonmancarono le perplessità, ma l’im-pegno non poteva essere eluso e,tutto sommato, sembrava sosteni-bile. Potevamo, infatti, contare sul-le esperienze fuori area in Libano(1982-1984) e in Kurdistan (1991),anche se la missione in Somalia si

presentava con connotati assai di-versi e, soprattutto, con la grossanovità dell’autorizzazione all’usodella forza anche per l’assolvimen-to del mandato. Tra le unità chesembravano idonee fu scelta la Bri-gata paracadutisti «Folgore», allo-ra forte di oltre 10 000 uomini, chepoteva esprimere un’aliquota ope-rativa sostenibile di circa 2 000 uo-mini, aveva un elevato livello diprontezza operativa e particolaredimestichezza con la terza dimen-sione nonché consuetudine con lacooperazione interforze e combined.Ad essa furono affiancati consi-stenti rinforzi tattici e logistici (ungruppo elicotteri, una compagniacarri, due plotoni blindo pesanti,quaranta blindo leggere, un ploto-

ne trasmissioni, gli shelter per ilPosto Comando su ruote, un ospe-dale da campo completo e un nu-cleo chirurgico, moduli abitativi,cucine, bagni, forni,...).Il dispositivo poteva sembrare so-vradimensionato per un’operazionedi carattere umanitario; e, in effetti,nessun altro contingente, eccettoquello statunitense, era consistentecome il nostro. In realtà, lo spiega-mento di tanti mezzi potenti (carriarmati, blindo pesanti, elicotterid’attacco,...) oltre a garantire una

pronta ed efficace risposta a ognieventuale azione ostile, nella conce-zione dello Stato Maggiore, doveva,soprattutto, esercitare un poderosoeffetto dissuasivo semplicementemostrandosi sul campo. E fu pro-prio ciò che avvenne.

L’approntamento

Per configurare il contingente inmaniera adeguata al mandato fucompiuto un grande sforzo concet-tuale, organizzativo e logistico. Funecessario ricorrere al solito pool dimateriali e mezzi provenienti datutta Italia; facilmente e presto fumessa insieme la quantità necessa-ria al fabbisogno organico ma, sulpiano della qualità, l’elenco delle

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carenze risultava piuttosto lungo. Siandava dall’obsolescenza dell’arma-mento e dell’equipaggiamento indi-viduale alla vetustà dei mezzi logi-stici campali, dalla mancanza di unmezzo di trasporto e combattimentoidoneo alle operazioni nei centriabitati all’inadeguatezza dei veicolicorazzati, dalle forti limitazioni del-la capacità operativa notturna allamancanza di contenitori flessibili(per acqua e carburante), alla esigui-tà e inadeguatezza dei mezzi per lamovimentazione dei container (forklift e trailer).... Lo Stato Maggiore dell’Esercito bru-ciò le tappe e, mentre il contingentesi formava e completava la prepara-zione per la partenza, promosse unaserie di provvedimenti di urgenza,correttivi e innovativi, che consenti-rono di completare, compensare, in-tegrare, migliorare e trasformare ledotazioni del contingente, primadella partenza del contingente e an-che dopo, in zona di operazioni (unesempio per tutti: l’arrivo a Moga-discio, nei primi mesi del 1993, dellenuove tute desertiche e del nuovofucile Beretta in sostituzione dell’ar-caico FAL).Dal canto suo, anche la «Folgore»dette fondo a tutte le risorse intellet-tuali e a tutta la capacità realizzatri-ce per aggiornare e mettere a puntol’operatività dei reparti. C’era moltoda fare perché molte erano le novi-tà. Tutti erano chiamati a partecipa-re. E grazie all’adesione corale espontanea allo spirito della missio-ne, in sede e in zona di operazioni,fu un ininterrotto fiorire di idee e diproposte, alcune davvero brillanti eoriginali (la costituzione in seno alloStato Maggiore della Brigata dellecellule G-5, trasmissioni e G-6, ope-razioni psicologiche, il RELOCO, iCOU,...), e di svariate realizzazionipratiche (un affusto per la mitra-gliatrice da montare sul VM, unatronchesina per i fili stesi sugli itine-rari, montata sui mezzi scoperti,...).Il risultato di questi sforzi sinergicidello SME e della «Folgore» fu che,nel giro di tre mesi dall’arrivo a Mo-

gadiscio, il contingente italiano pote-va confrontarsi dignitosamente per-fino con quello americano e vantareanche alcune punte di eccellenza,quali l’elicottero d’attacco «Mangu-sta», la blindo pesante «Centauro» eil modernissimo ospedale da campo.

L’AUTONOMIA DECISIONALEE OPERATIVA

Durante l’approntamento e per tut-ta la durata dell’Operazione il con-tingente ha beneficiato di grandeautonomia decisionale e operativa.Ne ho goduto io e l’ho concessa, ov-viamente, anche a tutti i miei Co-mandanti, nei quali riponevo lamassima fiducia, ritengo ricambia-ta. Del resto, se avessi voluto pilota-re da Mogadiscio ogni azione degliinnumerevoli elementi operativi,anche minuscoli (fino alla coppia diuomini), dispersi su un’area di circa70 000 chilometri quadrati e impe-gnati in decine e decine di attivitàdiverse e contemporanee, oltre arallentare inaccettabilmente il pro-cesso decisionale, oltre a rischiare dicommettere innumerevoli e anchegravi errori di valutazione, oltre ascoraggiare l’iniziativa dei Coman-danti subordinati e smorzare ognislancio spontaneo dei singoli, avreidovuto anche rinunciare alla mag-gior parte del grande lavoro che, in-vece, è stato svolto. Pertanto, dopoaver accertato che tutti i Comandan-ti fino a due livelli sotto il mio aves-sero ben chiari gli scopi da perse-guire e i risultati da ottenere, lascia-vo completa libertà d’azione e mi li-mitavo a controllare gli esiti delleloro iniziative, rilevando, il più del-le volte e con mia grande soddisfa-zione, che erano superiori alle mieaspettative.

L’uso della forza

Il sociologo americano Charles Mo-skos, già nel lontano 1976, scriveva:«Il peace-keeping non è un lavoro dasoldati ma solo i soldati possono farlo».

Non senza contraccolpi psicologici,però. È difficile, infatti, pretendereda chi è addestrato alla guerra, pervincerla, che accetti le aggressionidella folla e le perdite provocate daicecchini senza reagire. Oggi sembrascontato che nelle missioni di pace ilricorso all’uso della forza debba es-sere regolato dal principio della«forza minima necessaria»; ma nel1992, all’indomani della prova diforza (non priva di eccessi) dellaprima guerra contro l’Iraq, la men-talità del peace-keeper internazionalenon si differenziava di molto daquella del combattente tout court,pronto a premere il grilletto al mini-mo stormir di fronde. Diversamen-te, il peace-keeper italiano riusciva,direi istintivamente, a modulare ipropri comportamenti in funzionedelle diverse situazioni: ora comecombattente, di fronte a una minac-cia all’incolumità sua e/o della suaunità ovvero pregiudizievole perl’assolvimento del compito; ora co-me gendarme, nei rapporti con lapopolazione e nel controllo dellafolla; ora in veste di operatore uma-nitario, nel venire incontro alle esi-genze della popolazione; ora adope-randosi con spirito d’iniziativa,buon senso ed eclettismo, nel risol-vere ogni tipo di problema contin-gente. Non solo. Il nostro contin-gente, che ha sostenuto circa 230conflitti a fuoco, ha sempre conside-rato il ricorso alla forza quale extre-ma ratio, quando, cioè, fosse preclu-sa ogni possibilità di dialogo, e neha fatto un uso sempre proporzio-nato all’offesa, in obbedienza all’im-perativo categorico di evitare di es-sere considerati come forza di occu-pazione. Gli eventi relativi al checkpoint «Pasta» ne sono l’esempio piùemblematico. Questo nostro mododi essere è stato all’origine del con-trasto, sorto sul campo, tra l’atteg-giamento «duro» della dirigenza diUNOSOM, incapace (o incurante) dimodulare e adattare alle diverse si-tuazioni i propri comportamenti«guerreschi» abituali, e quello rite-nuto «morbido» del contingente e

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del Governo italiano, aperto al dia-logo e alla comprensione delle esi-genze dell’altro. Come noto, la lineaitaliana, ancorchè a posteriori, è sta-ta da tutti riconosciuta la migliore.

Il «soldato di pace»

L’opinione pubblica italiana, che giàseguiva con molto favore i successidel contingente nell’assolvimentodei compiti umanitari, si appassio-nò ancor più per gli eventi relativialla vicenda del check point «Pasta» earrivò a tifare apertamente per isuoi soldati durante la diatriba chesi accese tra il contingente e il Go-verno italiano e l’ONU. Sui giornalicominciarono ad apparire titoli co-me: «E l’Italia scopre che soldato èbello» (Miriam Mafai – «La Repub-blica» del 6 luglio) mentre nell’im-maginario collettivo prendeva for-ma una nuova immagine del solda-to, non più percepito come portato-re di mera violenza bensì come ope-ratore di pace: il «soldato di pace».Uno stereotipo giornalisticamenteefficace ma ambiguo: forse, obbe-dendo all’avversione viscerale delpopolo italiano per il «soldato-che-fa-la-guerra», o forse e più probabil-mente, per legittimare, con un’im-magine pacifica, il coinvolgimento

quasi sempre cruento nel manteni-mento della pace nel mondo, alquale l’Italia, settima potenza eco-nomica del mondo, non può sottrar-si. Questa seconda ipotesi è avvalo-rata dalla puntuale rimessa in di-scussione della decisione di parteci-pare a questa o a quella missione,ogni volta che si siano avute perditedi nostri soldati, ai quali, detto perinciso, non viene neppure ricono-sciuto lo status di combattente.

I nodi tuttora irrisolti

L’operazione «Ibis» ha messo in evi-denza molteplici punti deboli, sianell’azione dell’Onu sia da parteitaliana, da addebitarsi per lo più al-l’inesperienza e all’inadeguatezzaorganizzativa (eterogeneità e impre-parazione della Coalizione; ordina-mento farraginoso delle Forze Ar-mate italiane; armamenti ed equi-paggiamenti adeguati in corsod’opera; carenze giuridiche, dottri-nali, amministrative,...), enfatizzatedalla complessità e difficoltà dellasituazione sul campo. Oggi, alla lu-ce delle numerose esperienze matu-rate e con gli adeguamenti apportatial nostro strumento militare, specienei settori della proiezione delle for-ze e della cooperazione in ambito

multinazionale, molti di quei puntideboli sono stati eliminati ma ne re-stano ancora in agguato alcuni tra ipiù perniciosi, quali:• la difficoltà, da parte dell’ONU, di

conferire al Mandato interpretazio-ne univoca, con conseguente ri-schio di difformità nei comporta-menti dei vari contingenti naziona-li, specie per quanto ha tratto conl’uso della forza. In Somalia, que-sto è successo ed è stato causa digravi conseguenze: il ricorso allarappresaglia, da parte di UNOSM,a seguito dell’eccidio dei pachista-ni; l’uccisione, ad opera dei pachi-stani, di donne e bambini, duranteuna manifestazione di protesta; lapresa di posizione dissenziente delContingente Italiano...;

• la velleità dell’ONU di gestire di-rettamente l’intervento sul campo,che comporta la costituzione di unComando della Forza Multinazio-nale di formazione, eterogeneo,lento nelle decisioni e senza effet-tiva autorità sui vari contingenti.Inoltre l’ONU, non essendo unaPatria ma un coacervo di Paesi perniente integrati, tratta la perdita divite umane come un evento mera-mente contabile e burocratico. Ciòpone un’ulteriore seria ipotecasulla disponibilità dei contingentia obbedire acriticamente, a mag-gior ragione quando i singoli Go-verni non ammettono perdite divite umane nazionali;

• la mancanza (temo endemica perl’Italia) di un progetto politico na-zionale a sostegno dell’interventomilitare, che comporta: per unverso, il rischio di impantanamen-to della missione militare permancanza di un orizzonte di exitstrategy ben definito, e, per altroverso, il mancato sfruttamentodelle eventuali ricadute vantag-giose, politiche ed economiche,successive all’intervento militare(il famoso intervento del sistemaItalia, che è assolutamente manca-to in Somalia ... e non solo là);

• la persistente inadeguatezza delquadro giuridico-legislativo e am-

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ministrativo italiano alle esigenzedel moderno peace-keeping (in So-malia molto più deficitario) che atutt’oggi non soddisfa completa-mente le esigenze e le aspettativedei nostri militari: basta pensareal fatto che si continuano a defini-re «operazioni di pace» missioniin cui si combatte e si muore.

CONCLUSIONI

L’intervento nel Corno d’Africa èstato considerato un fallimento. È in-confutabile il mancato conseguimen-to di buona parte degli obiettivi chela missione UNOSOM si era data,ma non si deve dimenticare chel’Operazione in Somalia è stata laprima applicazione di una nuovadottrina, tutt’altro che semplice. Dalruolo passivo di osservazione e mo-nitoraggio delle situazioni conflittua-li o, tutt’al più, di blanda interposi-zione tra i contendenti senza mai au-torizzare l’uso della forza se non perl’autodifesa (operazioni di 1a genera-zione), l’ONU è bruscamente passataal ruolo attivo di protagonista inter-nazionale e si è lanciata nell’impresasomala con una percezione della re-altà debole e lacunosa e con macro-scopiche carenze culturali, program-matiche e organizzative. Il risultatofinale è stato deludente e ha provo-cato un serio trauma nella comunitàinternazionale, proiettando sullanuova dottrina (operazioni di 2a e 3a

generazione) un’ombra di inadegua-tezza se non proprio di inidoneità.Comunque, è ingeneroso parlare difallimento sia per l’indubbia onestà enobiltà di intenti alla base della mis-sione sia per la grande quantità di le-zioni apprese, che hanno consentitodi apportare modifiche migliorativeal quadro dottrinale e all’organizza-zione di staff nel dipartimento delleoperazioni di peace-keeping, sia, so-prattutto, perché si è riusciti ad arre-stare la morte per fame e ad allegge-rire la pesantissima situazione sani-taria della popolazione somala.Come è fin troppo ovvio, le respon-

sabilità del mancato successo nonsono addebitabili a una sola partené sono da imputare sempre allamalafede. È stata sicuramente eprincipalmente colpa dei somali, omeglio di quella parte di popolazio-ne che ha trovato il proprio torna-conto a perpetuare lo stato di anar-chia in cui era piombato il Paese conla guerra civile. È stata colpa di al-cune decisioni discutibili dell’ONU,frutto di preconcetti culturali, dellascarsa percezione della situazione edi una buona dose di presunzioneda parte dei vertici di UNOSOM, al-lergici alla concertazione con gli al-leati nella formazione delle decisio-ni. Ed è stata colpa anche di qualcheinadeguatezza italiana, cui ho fattocenno più sopra.

Al di là di tutte le manchevolezzedell’ONU, del Governo italiano eanche di quelle dovute ai miei errori(sicuramente molti), in qualità di re-sponsabile dell’operazione «Ibis»,sono fermamente convinto che l’in-tervento in Somalia sia stato ungrande successo per l’Italia. Lo è sta-to sicuramente per le Forze Armate,che hanno fatto un’esperienza ope-rativa straordinaria e, soprattutto,hanno acquistato sicurezza e disin-voltura nella cooperazione interfor-ze e multinazionale, proponendosisenza complessi al confronto con gli

altri e conquistando particolare cre-dibilità internazionale. È stato unsuccesso per il nostro Governo, cheha dimostrato di volere e poterecontribuire significativamente almantenimento della pace nel mondoma senza accettare alcun tipo disudditanza di fronte a posizioni rite-nute errate, quand’anche assuntedall’ONU e/o dal potente alleato eamico americano. È stato un fortestimolo patriottico per tutto il popo-lo italiano, che ha riscoperto la coe-sione nazionale stringendosi intornoai suoi Caduti, ha sentito l’orgoglio,per una prova superata dall’interoPaese con coraggio e dignità e haconcesso ai suoi soldati il consensopieno e incondizionato, per una vol-ta unanime e senza etichette.

E per tutti noi, che l’abbiamo vissutasul campo, l’operazione «Ibis» reste-rà il momento più forte e più impor-tante della nostra vita di soldati siaper il grande arricchimento umano eprofessionale sia per la serena e or-gogliosa certezza del dovere com-piuto per aiutare il popolo somalo,per offrire un contributo sostanzialealla comunità internazionale e, so-prattutto, per onorare l’Italia.

Bruno LoiGenerale di Corpo d’Armata (ris.),

già Comandante del contingente «Ibis»

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È conosciuta con il titolo «Joint En-deavour» la Missione di Pace condot-ta dalla NATO in Bosnia-Herzego-vina a partire dal 20 dicembre 1995.Ad essa prendeva parte un Contin-gente Italiano, incentrato sulla Bri-gata Bersaglieri «Garibaldi» che inTeatro di Operazioni assumeva ladenominazione di Brigata Multina-zionale «Sarajevo Nord» per la pre-senza, nel suo ambito, di un contin-gente portoghese (900 unità) e diuno egiziano (850 unità).

SPECIFICITÀ DELLA MISSIONE

Nel lumeggiare i lineamenti operati-vi della Missione si è indotti ad usaredi frequente l’espressione «per la pri-ma volta». Infatti proprio per la pri-ma volta a livello nazionale: venivaimpiegato solo ed esclusivamentepersonale militare professionista(VFB); si dava mandato alla BrigataBersaglieri «Garibaldi» di: appronta-re, amalgamare e rendere operativo ilcontingente da proiettare in Teatro;reperire, acquisire e rendere agibili

strutture alloggiative e compounds va-ri; condurre operazioni di «peace-kee-ping», avendo alle dipendenze ancheun contingente NATO (portoghese) eun altro non NATO (egiziano).Mentre a livello internazionale: si da-va mandato alla NATO di operarefuori dall’Area di Competenza e concompiti diversi da quelli istituzionali.Per l’esigenza, una componente delComando AFSOUTH (Allied ForceSouthern Europe) e una del Comandodell’ARRC (ACE Rapid ReactionCorps) venivano trasferite a Sarajevo.Alle dipendenze di quest’ultimo ve-niva posta una componente a livelloCorpo d’Armata su tre Comandi diDivisione Multinazionali, uno statu-nitense, uno britannico e uno france-se, alle cui dipendenze era inquadra-to il contingente italiano; si schieravasul terreno uno strumento militarecomposto da 34 Nazioni delle qualialcune NATO, altre inserite nell’am-bito del «Partnership for Peace» e altreancora del tutto estranee all’Allean-za, ma poste alle sue dipendenze; siimpiegava la NATO - anche comedeterrente - per l’attuazione di volon-tà politiche e diplomatiche in virtùdella disponibilità di una forza credi-bile e collaudata.In tale contesto e per tali motivi laMissione «Joint Endeavour» è da con-siderare, senza dubbio alcuno, unamissione storica e conferisce allaBrigata Bersaglieri «Garibaldi» il ti-tolo di antesignana tra le GrandiUnità che in seguito condurrannoOperazioni «Fuori Area».

APPRONTAMENTO IN PATRIA

Le operazioni di amalgama del con-tingente avevano luogo presso la ca-serma di Persano, dove affluivano i

reparti di supporto esterni alla Briga-ta quali: Forze Speciali, Carabinieri,trasmissioni, genio e Guerra Elettro-nica. Nella stessa Sede era previstoavvenisse l’afflusso dei materiali. Seper il personale le difficoltà erano al-quanto contenute e circoscritte alladisponibilità dello stesso, non pari-menti avveniva per i materiali. Perquesti - dislocati presso magazzinidistribuiti sul territorio nazionale – sistabiliva di trasferirli a Persano solo aseguito della decisione ufficiale daparte degli Organi politici istituzio-nali italiani di inviare un contingentein Bosnia-Herzegovina; decisione inparte condizionata agli Accordi In-ternazionali in corso a Dayton. Il ri-tardo dell’afflusso dei materiali e laristrettezza dei tempi di appronta-mento degli stessi davano luogo a se-ri inconvenienti quali: enormi intasa-menti alla rete viaria nell’area dellacaserma di Persano per il concomi-tante arrivo da ogni parte d’Italia de-gli autotreni carichi di materiali; gra-vi disagi (e questo era la cosa peggio-re) al personale addetto al ricevimen-to e all’approntamento degli stessimateriali, costretto a lavori massa-cranti e spesso protratti in ore nottur-ne. Alcuni contrattempi causavanoripercussioni negative anche nel cor-so dell’afflusso in Teatro, che dovevainiziare improrogabilmente entro il18 dicembre 1995.

AFFLUSSO IN TEATRO

Che non fosse una «passeggiata»,ma una missione pregna di rischi eincertezze, e che avrebbe potutocomportare perdite anche elevate,lo si poteva arguire dalla situazionesul campo. Il Comando Brigata se-guiva l’evolversi degli avvenimenti

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OPERAZIONE«JOINT ENDEAVOUR»

CONTINGENTE «IFOR»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 2 500 uomini;• Brigata Bersaglieri «Garibaldi» rin-

forzata da assetti specialistici plu-riarma.

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attraverso gli «INSUM» (sommarioinformativo) e i «SITREP» (rapportodi situazione) che quotidianamentepervenivano in Sede. Il ContingenteItaliano avrebbe operato in una Zo-na d’Operazioni ampia 3 000 Kmqche inglobava, tra l’altro, Sarajevo,Pale (autoproclamatasi capitale del-la Repubblica Srpska di Bosnia),Goradze, Garbavica e altri centri an-cora, noti per conflitti, stragi, eccidi,fatti e misfatti inenarrabili.Ancorché le operazioni di appronta-mento non fossero del tutto ultimate,si doveva raggiungere Sarajevo entroil 20 dicembre, data del «Transfert ofAutority» (trasferimento di Autorità -TOA) tra UNPROFOR (Forza di pro-tezione dell’ONU) in posto e IFOR(Implementation Force - NATO) in af-flusso. Il Nucleo «R» della Brigata (60uomini e 20 automezzi), lasciata Per-sano il 18 dicembre, raggiungevaPloce (costa croata) la mattina del 19dicembre e proseguiva per Mostar-Sarajevo ove era previsto giungessein serata. Un fatto imprevisto scom-bussolava il programma: la colonna,bloccata da agenti della dogana croa-ta al valico di Metkovic, era costrettaa cambiare itinerario e a entrare inBosnia dal valico di Mali Prolog, al-lungando di molto il percorso. Il mo-tivo addotto dai croati era chiara-mente pretestuoso: «Non siete ancoratruppe NATO!»; lo sarebbero diventa-te solo il giorno dopo.L’itinerario Ploce-Mostar-Sarajevo(unico percorribile), pur non supe-rando, 150 km, poneva enormi diffi-coltà di transito per la presenza lun-go il tragitto di: ponti in muratura se-mi distrutti e/o pericolanti dei qualiperaltro non si conosceva la portata;ponti di barche sconnessi sulla Neret-va; tratti di strada a mezza costa sog-getti a frequenti frane; «by-pass» peri-colosi; tratti ghiacciati e alcuni in for-te pendenza. Completavano il qua-dro le condizioni meteo-astronomi-che e ambientali spesso al limite(temperature notturne fino a -28°). Ilfatto che su quell’itinerario fosserotransitati carri armati «Leopard»,blindo corazzate pesanti e leggere,

pezzi di artiglieria semoventi pesanti,cingolati del genio e una vasta gam-ma di mezzi ruotati senza significati-vi incidenti, era da considerare unautentico miracolo, essenzialmentedovuto alla perizia del personale.In sintesi, per dare un’idea della mo-le dell’operazione, basti sapere chedall’inizio della missione venivanotrasportati dal porto di Salerno e dal-l’aeroporto di Napoli - in più fasi e intempi successivi - circa 2 600 uomini,1 098 mezzi da combattimento e logi-stici, 300 containers e un ospedale dacampo con sala chirurgica e 45 postiletto, per un totale di 12 000 tonnella-te di materiali. L’afflusso in Teatro

veniva ultimato nella seconda metàdel mese di gennaio 1996.

QUADRO AMBIENTALE EATTIVITÀ LOGISTICHEPRELIMINARI

Al Nucleo «R» della Brigata Bersaglie-ri «Garibaldi», in quella uggiosa e ge-lida serata del 19 dicembre 1995, Sara-jevo si presentava come una città spet-trale. Sul muro di una casa sventratacampeggiava una scritta: «Welcome toSarajevo». Gli automezzi militari italia-ni, transitando per la via principale«Zmaja od Bosna» – meglio nota almondo come «Snijper Allen» (via deicecchini) – illuminavano fiocamenteedifici demoliti, strutture abitative

crollate o semidistrutte, ovunque car-casse di auto e mezzi pubblici squar-tati, immagini inequivocabili di unafuria distruttiva scatenatasi sulla capi-tale e sui suoi emblemi che avevaspazzato via secoli di storia. Qua e làsi udiva il crepitìo di armi da fuoco eil sordo rumore di esplosioni, alcuneanche a breve distanza, mentre si ve-deva in giro pochissima gente che simuoveva di corsa, una corsa nervosa,dovuta al terrore, all’insicurezza e allavoglia di sopravvivere. Lo sguardofisso nel vuoto testimoniava l’impos-sibilità di scacciare gli orrori di unasporca guerra fratricida. La «Gerusa-lemme dei Balcani» si presentava così

ai primi uomini della «Garibaldi»:uno spettacolo impressionante, inde-scrivibile nella sua desolazione chetrasmetteva tanta tristezza e malinco-nia. Fuori dalla città lo scenario nonera migliore né più incoraggiante: lanatura del terreno era ostica e spessoproibitiva; la rete viaria era rada e incondizioni di usura spaventose; i cam-pi minati erano numerosissimi e unpo’ ovunque, non contrassegnati ocon segnalazioni inattendibili; ovun-que pullulavano enormi quantità diresiduati bellici inesplosi e trappoleesplosive. A complicare ulteriormentela situazione si aggiungevano le pessi-me condizioni meteo che avevano ab-bondantemente innevato tutta la re-gione, nascondendo pericoli di ognigenere.

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In un simile contesto, toccava al Nu-cleo «R» reperire al più presto lestrutture alloggiative e i compoundsove sistemare il contingente che abreve, per scaglioni, sarebbe affluitoin Teatro. Scartata la soluzione piùsemplice e agevole del tipo «campod’arma», si optava per la sistemazio-ne tipo «accantonamento», cioè instrutture murarie che garantissero ilmassimo della sicurezza dall’esternoe un ottimale riparo dai rigori dell’in-verno che già si preannunciava moltorigido. Tale scelta poneva ulteriorigravi problemi di bonifica (ed eranoquelli minori) prima e poi di ripristi-no della funzionalità delle infrastrut-ture. Esse infatti necessitavano di ra-dicali interventi in quanto alcune era-no fatiscenti, altre pressoché distrutte,altre ancora inagibili per i lunghi pe-riodi di inutilizzo. Tutto ciò postulavada parte dei genieri della Brigata in-terventi e lavori di grande mole e alungo termine, che mal si conciliava-no con l’urgenza delle esigenze allog-giative. I gravi disagi e le «sofferen-ze», per il personale già in Teatro eper quello degli scaglioni che sareb-bero affluiti dopo, non tardarono amanifestarsi, ma con essi due fatti di-mostravano le eccellenti qualità spiri-tuali e professionali degli uomini delcontingente. In particolare: il supera-mento - con encomiabile spirito diadattamento e di sacrificio - di tutte ledifficoltà e sofferenze dovute alla pre-caria situazione alloggiativa; l’inter-vento provvidenziale dei genieri che -lavorando senza sosta e senza rispar-mio di energie, ma con dedizione ecompleta disponibilità, spesso anchedi notte - dimezzavano i tempi di ri-pristino delle strutture, rendendo ac-cettabile prima e soddisfacente poi laqualità della vita. Avevano operato,in sintesi, un autentico miracolo!

ATTIVITÀ OPERATIVEPRELIMINARI

Già dall’arrivo in Zona di Operazioni,i trasmettitori e i nuclei BOE (BonificaOrdigni Esplosivi) davano inizio alle

loro attività vitali per il contingente. Iprimi provvedevano a installare pontiradio e linee telefoniche per consenti-re ai vari livelli le attività di Comandoe Controllo; i secondi iniziavanoun’intensa e diuturna attività di ricer-ca e di neutralizzazione di mine e or-digni esplosivi, indispensabile ad as-sicurare la libertà di movimento e agarantire la sicurezza sia al personalemilitare che alla popolazione civile.Particolare cura veniva posta soprat-

tutto nel rendere agibili e sicure learee adibite a check-point fissi, le infra-strutture che sarebbero state occupatedal Contingente italiano, nonché lestrade su cui si muovevano le variepattuglie. Inoltre si rendeva necessa-rio presidiare con continuità le strut-ture (spesso poste in territorio con-trollato da fazione nemica) che assicu-ravano in tutta l’area di Sarajevo l’ero-

gazione di acqua, luce e gas per impe-dire sabotaggi e manomissioni varie.A sottolineare l’ostilità ambientaledel Teatro operativo, il 4 gennaio1996 alcuni sconosciuti esplodevanonumerosi colpi d’arma da fuococontro taluni Bersaglieri di guardiapresso il distaccamento di Vogosca,ferendo in maniera non grave il Ca-poral Maggiore Elio Sbordoni. Mal’evento più grave e doloroso si veri-ficava venti giorni dopo quando,presso i locali del battaglione logisti-co della Brigata, esplodeva acciden-talmente un ordigno (cluster bomb)che procurava il decesso di due Sot-tufficiali portoghesi, del CaporalMaggiore Gerardo Antonucci e il fe-rimento di altri sette Bersaglieri.

ATTIVITÀ OPERATIVEPRINCIPALI

Intanto la Brigata Bersaglieri «Gari-baldi», con la nuova denominazione«Brigata Multinazionale SarajevoNord», iniziava a metà gennaio 1996l’attività operativa principale, in net-to anticipo sulla data fissata dal Co-mando dell’ARRC (3 febbraio 1996).Il Comando si trasferiva da Vogoscasulla collina di Jerzero, periferianord di Sarajevo presso l’ospedalepediatrico di Zedra, reso funzionalein pochissimo tempo dall’ecceziona-le intervento del genio.La prima missione operativa venivacondotta a Praca – un piccolo sper-duto villaggio tra Pale (fazione ser-ba) e Goradze (fazione bosniaca)con l’attivazione di un presidio perporre fine a scontri violentissimi traavverse fazioni, verificatisi nei gior-ni precedenti. Il percorso, insidiosis-simo e innevato, metteva a duraprova l’opera del nucleo BOE.A metà gennaio avevano inizio lescorte ai convogli di rifornimenti eprofughi, affidate dall’ARRC alContingente Italiano. Le scorte dinorma erano costituite da un nucleoBOE (sempre e ovunque!), due blin-do «Centauro», un distaccamentodel «Col Moschin» e una squadra

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bersaglieri su VCC. Tale attività siprotraeva fino al mese di maggio.Nel territorio di Sarajevo venivanoattivati, su punti forti del terreno, al-cuni presidi fissi, che avrebbero con-sentito il continuo controllo della cit-tà. In particolare su: Monte Zuc; De-belo Brdo, un cocuzzolo sopra il ci-mitero ebraico; Old Fort, vecchia for-tezza turca che dominava gli accessida est a Sarajevo, ove era istallato unradar antifuoco che consentiva diidentificare il punto di partenza dieventuali colpi di artiglieria; Garba-vica, il più «caldo» e pericolosoquartiere della città; Ponte di Vrba-nia, accanto al quale le vie e le areeerano letteralmente coperte di minee trappole di ogni genere e i palazzi,luogo di violentissimi scontri corpo acorpo, erano collegati tra loro dacamminamenti e gallerie sotterranee.Creata questa cornice di sicurezza, sipassava all’attuazione del mandatovero e proprio, fissato dagli accordidi Dayton. Mandato chiaro nella for-mulazione, scandito per fasi e tempisuccessivi verificabili con continuità.In particolare, a partire dal Transfertof Autority tra IFOR e UNPROFOR,avvenuto il 20 dicembre 1995: nellaprima fase (D+30=18 gennaio 1996) -veniva effettuato il controllo della Li-nea del Cessate il Fuoco (CFL) e dellarelativa Zona di Sicurezza (ZOS) conpattuglie e check-points; nella secondafase - veniva attuata l’evacuazionedelle Zone da trasferire (D+45=3 feb-braio 1996), il controllo della smilita-rizzazione delle Zone da trasferire(D+90=19 marzo 1996), la realizza-zione della Linea di Interentità(D+91=20 marzo 1996); nella terza fa-se - veniva effettuato l’ammassamen-to del personale armato, dell’arma-mento pesante e dei carri armati insiti predisposti ad hoc e, infine, lasmobilitazione di tutti i combattentidelle varie fazioni.Tutti questi obiettivi venivano dimassima conseguiti alle scadenze fis-sate, in maniera precisa e soprattuttoindolore se si escludono taluni inci-denti verificatisi nella fase iniziale.Nei periodi «caldi» la Brigata Multi-

nazionale «Sarajevo Nord» esprime-va sul terreno l’impiego contempora-neo di 850 uomini. In effetti, in Bo-snia-Herzegovina, le Forze NATOconseguivano in circa 6 mesi quei ri-sultati che UNPROFOR non era riu-scito a realizzare in quasi 4 anni.

ATTIVITÀ UMANITARIE

Particolare menzione meritano lemolteplici attività prestate a favoredelle popolazioni bosniache, fuoridallo schema operativo tradizionale enon previste dalla ortodossia dellemissioni di «peace-keeping». Esse costi-tuiscono prova inconfutabile del pro-fondo e spiccato senso di umanità, digenerosità e di sensibilità d’animoche caratterizzavano gli uomini della«Garibaldi». Pochi esempi: le «ado-zioni a distanza» di tanti bambini ri-masti orfani durante la guerra civile;l’organizzazione e lo svolgimento diuna capillare e intensa attività didatti-ca a favore dei ragazzi delle Scuole,per insegnare loro a riconoscere lemine e gli ordigni esplosivi e compor-tarsi di conseguenza; la stampa digiornali, in lingua serbo-croata, talunicon originali storie a fumetti, che sug-gerivano le più elementari norme dicomportamento; la possibilità di usu-

fruire – per casi urgenti e gravi – del-l’ospedale da campo e dell’assistenzadel personale medico e paramedico.Tantissimi sono stati gli episodi disolidarietà umana – molti custoditinella memoria dei singoli – che han-no dato lustro e onore al «soldatoitaliano» e che gli hanno procuratola stima e la riconoscenza di quellemartoriate popolazioni.

CONCLUSIONI

Il successo della Missione «Joint En-deavour», benché riportato dai gior-nali, dai Mass-media e dalle Memo-rie Storiche, lo si percepisce in ma-niera inconfutabile ritornando inBosnia-Herzegovina e, soprattutto,a Sarajevo. La città è ritornata a vi-vere libera e in concordia. E di que-sto il primo ringraziamento va agliuomini della «Garibaldi» e poi – conpari riconoscenza - a quanti li han-no seguiti nel tempo in quel difficileTeatro di Operazioni.

Agostino PedoneGenerale di Corpo d’Armata (ris.),

già Comandante della BrigataBersaglieri «Garibaldi»

e Comandante della BrigataMultinazionale «Sarajevo-Nord»

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La crisi che ha portato all’interventodi una forza militare in Albania si èsviluppata essenzialmente la secondametà del 1996 e i primi mesi del 1997,mentre era in corso la campagna dellaNATO in Bosnia. I fattori determinan-ti di tale crisi – esplosa in proteste po-polari con motivazioni di ordine ideo-logico e di scontento sociale – sono daindividuare nel grave e progressivodeterioramento della situazione politi-ca interna e nel fallimento del sistemadelle «finanziarie piramidali».Le elezioni politiche del maggio 1996,contestate dall’opposizione per la lo-ro regolarità e non avallate nel risul-tato dagli osservatori internazionali,e le successive elezioni amministrati-ve dell’ottobre dello stesso anno, soloparzialmente omologate dagli osser-vatori internazionali, hanno determi-nato l’insorgere di una grave e persi-stente frattura nella dialettica politicatra governo e opposizione.Le finanziarie a schema piramidale -attive in Albania sin dal 1992 - hannocoinvolto negli anni un consistentevolume di investitori, interessando

tutti gli strati sociali. Il sistema hafunzionato senza problemi fino allaseconda metà del 1996 quando ilmeccanismo ha iniziato a scricchiola-re per il venire meno dei consistentiproventi da un sistema di traffici ille-citi, fortemente ridimensionato conl’avvio del controllo internazionaledella crisi nella ex Jugoslavia.Il 15 gennaio 1997 si manifesta l’iniziodel collasso del sistema con il falli-mento della società «Sudja», episodioche dà origine ai primi scontri di piaz-za a Tirana. La protesta – caratterizza-ta da un crescente malcontento, co-mune a entrambi gli schieramenti po-litici contrapposti, per l’aggravarsidelle condizioni politiche ed economi-che generali - assume l’aspetto di unavera e propria rivolta popolare il 28febbraio a Valona. A cui fanno seguitoepisodi violenti di guerriglia urbana aSaranda, Delvina, Tepelene, Argiroca-stro al sud e l’organizzazione di grup-pi armati al centro e al nord.In particolare, nel mese di marzo laprotesta è degenerata con assalti a ca-serme e a depositi di armi e munizionidell’Esercito e con scontri tra rivoltosie reparti di sicurezza. Di fatto, la dif-fusione massiccia di armi, anche pe-santi, tra la popolazione civile e l’as-sunzione del controllo di vaste areedel Paese – specie al sud – da parte dibande armate, a volte politicizzate, hadeterminato uno stato di emergenzache ha portato – a seguito di pressantie incisive iniziative degli organismiinternazionali e di Paesi limitrofi - allacostituzione di un governo di unitànazionale, necessaria premessa perl’avvio di iniziative politiche ed even-tualmente militari indispensabili perriportare la situazione sotto controllo.

ATTIVITÀPOLITICO-DIPLOMATICA

La comunità internazionale è stata

presente in Albania prima e duranteil periodo che ha preceduto la crisicon rappresentanti sia di organismiinternazionali politici ed economi-co-finanziari (OSCE, UE, FMI, Ban-ca Mondiale) sia con esponenti deivari governi europei nell’ambito direlazioni bilaterali. Ma i primi acomprendere la pericolosità di unosviluppo irreversibile della situazio-ne, sfociata oramai in rivolta popo-lare, sono state l’Italia e la Grecia acui si è unita l’OSCE.Le iniziative urgenti e responsabili in-traprese si possono così riassumere.Il 5 marzo il Presidente in eserciziodell’OSCE, il danese Petersen, no-mina l’ex cancelliere austriaco FranzVranitzky quale suo inviato specialein Albania, al fine di perseguire ilsuperamento delle divisioni politi-che interne, di legittimare un com-promesso per un governo di unità

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OPERAZIONE «ALBA»

OPERAZIONE «ALBA»

Assetti nazionali impiegati

• Personale impiegato a terra: 2 900uomini;

• Brigata meccanizzata «Friuli»;• 18° reggimento bersaglieri;• 187° reggimento paracadutisti;• 151° reggimento fanteria;• rinforzi specialistici:

•• AVES;•• paracadutisti Incursori;•• genio ed EOD;•• trasmissioni;•• sanità;•• EW;•• Carabinieri;

• Unità M.M.;• Unità A.M.I..

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nazionale e di stabilire la data delleelezioni politiche da svolgere entroil mese di giugno.Nei giorni a seguire si intensificanogli interventi dellOSCE e dell’Italiaper conseguire l’istituzione di unnuovo governo (che riceve la fidu-cia del Parlamento il 16 marzo conPrimo Ministro Baschim Fino, sin-daco di Argirocastro), per sensibi-lizzare sulla gravità della situazionel’UE, l’UEO, la NATO e per consi-derare il passaggio da una gestionepolitico-diplomatica della crisi auna di carattere politico-militare,prima che gli eventi degenerino nel-la guerra civile.In definitiva, in assenza di una chia-ra iniziativa da parte delle Istituzio-ni internazionali, questo importante«passaggio» viene compiuto con un«passo» decisivo dell’Italia che ot-tiene di acquisire la disponibilità dialcuni Stati europei per la costitu-zione di una coalizione di Paesi di-sposti a inviare proprie truppe inAlbania, assumendo la responsabili-tà della organizzazione e del co-mando. Nasce la «Coalition of theWilling» che darà corpo alla ForzaMultinazionale di Protezione (FMP)Il successivo iter per il riconoscimen-to giuridico internazionale e l’auto-rizzazione dell’intervento della Forzaè in sintesi: la richiesta del governoalbanese dello schieramento sul suoterritorio di una forza militare volta apredisporre un ambiente sicuro perl’intervento degli organismi interna-zionali di assistenza politica e umani-taria; l’approvazione, da parte delConsiglio Affari Generali dell’UE, il24 marzo, delle linee d’azione in fa-vore dell’Albania, tra cui la costitu-zione di una forza militare compostada Paesi volontari; l’approvazione,da parte del Consiglio Permanentedell’OSCE, il 27 marzo successivo,delle linee d’azione internazionale inAlbania, recependo favorevolmentela disponibilità di alcuni Stati ad ac-cogliere la richiesta del governo alba-nese di assistenza ai fini della sicu-rezza sul suo territorio, precisandoche ogni attività sia conforme con le

iniziative che il Consiglio di Sicurez-za dell’ONU vorrà adottare; la pre-sentazione, al Segretario Generaledell’ONU, il 27 marzo, della letteradel Rappresentante Permanente del-l’Italia con l’offerta di guidare unacoalizione multinazionale in Albania.Il Consiglio di Sicurezza dell’ONUapprova, il 28 marzo 1997, la Risolu-zione 1101 con la quale si autorizza ildispiegamento della FMP in Albaniaper condurre le operazioni previstein modo neutrale e imparziale, sullabase del Cap.VII della Carta delleNazioni Unite, per un periodo di tremesi successivamente esteso - con la

Risoluzione 1114 – di ulteriori qua-rantacinque giorni per consentire losvolgimento delle elezioni. Conte-stualmente viene conferito all’Italia ilcomando della operazione.

ATTIVITÀ POLITICO-MILITARE

Le predisposizioni per l’appronta-mento della FMP sono state avviate,ancor prima del 28 marzo, in ambi-to politico e degli Stati Maggiori deivari Paesi aderenti alla coalizione,per la definizione della consistenzadelle forze assegnate, la loro dislo-cazione sul terreno, le limitazioni alrischiaramento delle stesse in Areadi Operazione (AO) e l’attribuzionedegli incarichi chiave nell’ambito

del Comando della FMP.La guida politico-militare della missio-ne è stata affidata a un Comitato di di-rezione della Forza (Steering Commit-tee) costituito in Roma con alti funzio-nari politici e militari dei Paesi contri-butori e aveva nel suo ambito il Capodi Stato Maggiore della Difesa italianoquale Comandante dell’operazione(COPER) e da cui dipendeva il Co-mandante della FMP (COMANFOR).Il Comitato ha svolto le sue funzionimantenendo un collegamento conti-nuo con il Consiglio di Sicurezzadell’ONU – a cui inviava rapporti si-tuazione quindicinali – con il gover-

no albanese e con gli altri organismiinternazionali interessati agli eventi.Il Comando del 3° Corpo d’Armatadi Milano (3° C.A.) ha costituito ilcorpo di quello che è diventato il Co-mando Integrato Multinazionale«Joint and Combined» della Forza,completato a Tirana «sul campo», aoperazione già in corso, con il perso-nale degli altri Paesi, sulla base di la-boriosi accordi intercorsi a Roma perla definizione dei posti da assegnare.Da considerare che per la prima voltain ambito nazionale è stato inserito ilConsigliere Diplomatico, richiestoespressamente dal Comandante dellaFMP considerata la specificità dello«status» della Forza sul territorio alba-nese. È stata una iniziativa di succes-so sia per i rapporti intrattenuti con il

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governo albanese e con le organizza-zioni internazionali sia perché l’esi-stenza di un referente qualificato delnostro Ministero degli Esteri, parteci-pe della complessa attività operativache si viveva giornalmente, avrebbefornito al suo Ministero valutazioni einformazioni dirette e obiettive. Altranovità assoluta, l’inserimento nel Co-mando della FMP di un nucleo carto-grafico dell’Istituto Geografico Milita-re di Firenze (GEO TAC PRINT) chedal 1° maggio al 12 luglio ha fornitoun supporto cartografico aggiornatoin tempo reale delle aree di maggioreinteresse operativo.Di fatto le attività di pianificazione eorganizzative dell’operazione dicompetenza della FMP sono state av-viate il 20 marzo e condotte in soliventitrè giorni dal Comando del 3°C.A. nel suo assetto nazionale, posto,nella circostanza, alle dirette dipen-denze del Capo di Stato Maggioredella Difesa. Questi, per l’esecuzionedelle funzioni di staff, si è avvalsodello Stato Maggiore della Difesa(SMD) fino alla prima decade dimaggio quando, a operazione già incorso, è subentrato il neo costituitoComando Forze in Albania (COFIA).Il 12 aprile, cioè prima del D-Day (15aprile), l’ordine di operazione è statoconsegnato allo SMD e alle Amba-

sciate in Roma dei Paesi della coali-zione. Ciò è stato possibile avendoadottato l’espediente di procedere al-lo sviluppo della pianificazione dellaFMP sulla base degli elementi che ve-nivano definiti e «via via riconsidera-ti e ridefiniti» a Roma con l’evolveredelle richieste, dei vincoli e dei diver-si atteggiamenti assunti dai rappren-tanti dei Paesi partecipanti alla Coali-zione e comunicati al Comando del3° C.A. dagli Ufficiali di collegamen-to inviati allo SMD. In altri termini siè trattato di una pianificazione «inprogresso a getto continuo» con evi-dente, encomiabile impegno del per-sonale del 3° Corpo.Al termine dell’attività di pianifica-zione politico-militare, la strutturadella FMP e la sua dislocazione ini-ziale in AO hanno visto la partecipa-zione di assetti operativi di varia con-sistenza e tipologia, forniti dai se-guenti Stati: Italia, Austria, Belgio,Danimarca, Francia, Grecia, Portogal-lo, Romania, Slovenia, Spagna e Tur-chia per un totale di 6 200 uomini (2900 italiani) successivamente aumen-tati a 7 215 (3 800 italiani) in occasionedelle elezioni politiche e una disponi-bilità di circa 2 500 (da combattimen-to, del genio, logistici, elicotteri).La decisione politica di non inviarepersonale di leva ha determinato ini-

zialmente l’impossibilità di schierarele unità di supporto del 3° C.A., cioèdella FMP, a quel tempo tutte su per-sonale di truppa di leva. Rappresen-tato il problema con immediatezza edecisione, l’adozione di un decretolegge, che consentiva l’impiego dipersonale di leva che volontariamen-te intendeva partecipare alla opera-zione fino al termine della stessa, haconsentito di salvaguardare in partela funzionalità degli assetti operativiche tuttavia inizialmente hanno risen-tito dell’afflusso di complementi pro-venienti alla spicciolata da vari Enti.È stata l’ultima attività militare fuoridal territorio nazionale a cui ha parte-cipato personale di leva che anche inquella occasione ha dimostrato capa-cità professionali e doti umane insu-perabili, spirito di sacrificio encomia-bile e sano orgoglio nazionale.

ATTIVITÀ OPERATIVA

La missione scaturita dal mandatoONU e assegnata al Comandantedella FMP è stata di «assicurare ladisponibilità dei punti d’ingressonell’Area di Responsabilità, al fine digarantire una cornice di sicurezza alflusso e alla distribuzione degli aiutiumanitari. Garantire la sicurezza perla sede della missione internazionalea Tirana e alle attività delle altre or-ganizzazioni che forniscono assisten-za umanitaria all’Albania».Lo sviluppo dell’operazione può es-sere distinto in due fasi. La prima hariguardato l’immissione delle unità,la loro organizzazione negli accanto-namenti e il contestuale avvio delleattività di ricognizione del territorioper acquisire le informazioni sullostato dell’ordine pubblico, la presen-za di autorità costituite nei centri abi-tati, l’attività delle bande di facinoro-si, la percorribilità e la sicurezza dellerotabili. Si è trattato di un’attivitàgravosa e rischiosa, svolta alacre-mente per acquisire nel minor tempopossibile il quadro di situazione indi-spensabile per intraprendere qualsia-si attività in un ambiente non con-

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trollato dalle autorità governative.Negli interventi di supporto alla pa-ce condotti negli ultimi anni, gli ac-cordi politico-militari relativi all’in-tervento della forza militare pone-vano delle precise garanzie nel con-trollo delle fazioni da parte di strut-ture gerarchiche chiaramente iden-tificate e responsabilizzate. Nel casodell’operazione «Alba», la ForzaMultinazionale si è trovata a opera-re in una situazione costantementeostile per la presenza di bande ar-mate e fazioni autonome, il cui con-trollo non era riconducibile ad alcu-na autorità costituita. Tuttavia, ilcomportamento assunto da Coman-danti e gregari ha consentito di con-trollare l’evolvere della situazionein ogni circostanza specie in quelle,non poche, a elevato rischio.Una volta consolidata la situazionesecondo lo schieramento inizialedella FMP, si è deciso di estendere orafforzare la presenza di unità inzone sensibili ad Est delle Alpi Al-banesi, a Nord verso il Montenegroe a Sud tra Valona e Argirocastro(immagine: FMP Redeployment).In pratica, anche se non enunciatonella missione assegnata, il compitodella FMP, nei suoi risultati, è statoquello di riavviare il regolare, gene-rale funzionamento della società esoprattutto di evitare che una situa-zione di anarchia degenerasse in unconfronto cruento di tutti contro tut-ti. Naturalmente coinvolgendo an-che la Forza, evento quanto mai de-precabile e pericoloso considerata lasituazione di allora in Bosnia, Croa-zia, Serbia – in equilibrio instabile –e i prodromi di eventi cruenti in Ko-sovo, Montenegro e Macedonia. Inquesto ambito va considerato l’ope-rato della FMP che in forza di regoled’ingaggio (ROE) sufficientementeadeguate alla situazione e in virtù dieccellenti doti morali e capacità pro-fessionali di Comandanti e gregari èstata capace di flemmatizzare in viadefinitiva un pericoloso innescoesplosivo per l’intera area balcanica.La fase successiva ha compreso lasicurezza e il supporto logistico per

le Autorità albanesi e per il persona-le dell’OSCE impegnati nella orga-nizzazione e nello svolgimento del-le elezioni politiche tra il 20 giugnoe il 12 luglio. Si è trattato di dare si-curezza a 38 «teams» che hanno se-guito e agevolato l’approntamentodelle elezioni e quindi operato nellungo periodo e ad altri 200 «teams»che hanno controllato la correttezzadelle tornate elettorali. In totale 477operatori per i quali la FMP ha for-nito la sicurezza sul territorio e, nel-le aree a maggior rischio, anche ilsupporto logistico nell’ambito deipropri accantonamenti.Le predisposizioni operative attuate

nella circostanza hanno riguardatoessenzialmente la riarticolazione deldispositivo e i collegamenti per il Co-mando e Controllo con il criterio disuddividere il territorio in precisi set-tori di competenza e responsabilitàdei singoli reggimenti/battaglioni (fi-no ad allora non considerato per evi-tare di far apparire la FMP quale for-za di occupazione) al fine di garanti-re con immediatezza la sicurezza e ilsostegno a ogni «team» che operavain ciascuna area (immagine: FMPElections Deployment).

Per l’immediato e continuo controllodella situazione il COMANFOR ha,inoltre, stabilito un affiancamento fi-sico, nell’ambito delle sale operativedel Comando FMP e dei singoli reg-gimenti/battaglioni, di funzionariOSCE con relativo operatore radio inmodo da far convivere H+24 le duelinee funzionali per il Comando eControllo – quella della Forza e l’al-tra dell’OSCE – garantendo in talemodo il raddoppio dei collegamenti,la immediatezza delle comunicazionie delle informazioni, la pronta e sicu-ra diramazione delle decisioni adot-tate dal Comandante della Forza cheaveva alle dirette dipendenze tutti gli

assetti operativi schierati. Il provve-dimento si e rivelato determinanteper intervenire tempestivamente econ efficacia nelle situazioni critichead alto rischio che si sono verificatein alcuni distretti elettorali dove l’in-tervento delle pattuglie per la sicu-rezza dei nuclei osservatori ha evita-to sopraffazioni e in alcuni casi sven-tato attacchi ai seggi.Il corretto esito delle votazioni è sta-to convalidato dal rapporto finaledella Trojka composta dal Coordina-tore Speciale Catherine Lalumiere,

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dal Presidente del Consiglio d’Euro-pa Sir Russel JHonston, dal Presi-dente dell’Assemblea OSCE JavierRupurez. Madame Lalumiere, pri-ma di lasciare l’Albania, ha chiestoal Dottor Vranitzky di fare visita diringraziamento al Comandante del-la FMP per «esprimerle tutta la miaammirazione, Generale, per un aspettoparticolare del vostro lavoro. Non è af-fatto facile riuscire a esercitare in modocostante e incisivo una presenza come lavostra, restando al tempo stesso rispet-tosi della popolazione civile e del conte-sto in cui vi dovevate muovere. Lei e isuoi uomini siete stati perfetti anchesotto questo punto di vista».Con la costituzione del Parlamentoemerso dai risultati elettorali, si pro-cede alla elezione del Presidente del-la Repubblica Reczet Mejdani (24 lu-glio), del Primo Ministro Fatos Nano(28 luglio) e viene proclamata la ces-sazione dello stato di emergenza.La FMP ha terminato il suo compitoavendo consentito il conseguimentodi un risultato completo, insperato elusinghiero, oltre ogni legittimaaspettativa. L’impegno profuso dal-la FMP nei quattro mesi di sviluppodell’operazione può essere riassun-to con alcuni dati che tuttavia nonriescono a esprimere il sacrificio,l’abnegazione e il valore di tutti gli

uomini della Forza: 151 attività diricognizione del territorio; 1 137 at-tività di scorta a «teams» OSCE; 260scorte a convogli umanitari; 69 atti-vità per la ricognizione e sicurezzadi tratti di itinerari; 27 interventi perla sicurezza delle piattaforme di di-stribuzione aiuti umanitari; 37 inter-venti del Nucleo Bonifica Ordigni;17 interventi del nucleo NBC per ac-certare l’eventuale tossicità o peri-colo di contaminazione presso de-positi e fabbriche abbandonate; kmpercorsi: 2 500 000; km per attivitàoperative: 1 350 000; km per attivitàlogistiche: 1 150 000; ore di volo eli-cotteri: 705; aiuti umanitari distri-buiti: 5 800 tonnellate; MEDEVAC:51 (21 militari, di cui 11 feriti da pal-lottole, e 30 civili); 15 000 vaccina-zioni per patologie pediatriche.Il 12 agosto 1997, con il rientro inPatria del Comandante della FMP,l’Operazione ha avuto termine.Il 14 agosto successivo il Consigliodi Sicurezza dell’ONU approvavauna Dichiarazione Presidenzialenella quale si encomiava la ForzaMultinazionale di Protezione.

CONCLUSIONI

È stata una esperienza esaltante ma

tutt’altro che semplice e facile daportare a compimento. Alcunispunti di meditazione.Il Comando della Forza – costituitooperazione durante – è stato piena-mente operativo nel suo assettomultinazionale dopo circa un mesee mezzo. Nel frattempo tutto l’oneredel funzionamento ha gravato sullacomponente italiana delle varie cel-lule il cui personale ha svolto turnidi venti ore al giorno.L’allineamento tra il Mandato politi-co, la missione militare e le regoled’ingaggio non è stato nel suo insie-me soddisfacente. È necessario defi-nire in modo preciso e completo ilcompito (missione) assegnato al Co-mandante sul campo. La realtà ope-rativa che il Comandante della Forzaha dovuto vivere, a 360° e per 24 oreal giorno, è stata totalmente coinvol-gente sotto la sua responsabilità.La limitazione imposta al Coman-dante nell’impiego dei contingentidi altre nazionalità ha creato alcunesituazioni che hanno imposto diffi-cili e pericolose soluzioni.In conclusione, la prima e fino ad oraunica operazione militare multina-zionale con responsabilità di coman-do italiana ha ottenuto, per il risulta-to conseguito, riconoscimenti inter-nazionali di grande prestigio. Traquesti si riporta – per la sua sostan-ziale valenza politica – la dichiara-zione resa da William Jefferson Clin-ton, Presidente degli Stati Unitid’America: «Nei Balcani l’Italia staesercitando una leadership straordina-ria e in Albania sta compiendo uno sfor-zo senza precedenti. La mia previsione èche nel futuro guarderemo allo sforzoitaliano in Albania come a una eccezio-nale svolta storica nella capacità delleNazioni europee di promuovere la pace».Forse è giusto ritenere che la «vitto-ria» militare sul campo è stata de-terminante per il successo politicodell’iniziativa dell’Italia.

Luciano ForlaniGenerale di Corpo d’Armata (ris.),

già Comandante del 3° Corpo d’Armatae della FMP

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«Siamo arrivati in FYROM! Ma cos’èquesta FYROM?».Il 14 dicembre del 1998 arrivandoall’aeroporto di Petrovec, a pochichilometri dalla capitale Skopje, eraquello che ancora qualcuno di noi siandava chiedendo.Avevamo imparato, infatti, chel’acronimo identificava la FormerYugoslav Republic of Macedonia il no-me, ancora provvisorio, con cui lacomunità internazionale individua-va la Macedonia per via della dispu-ta sul nome avviata dalla Grecia.Al gruppo tattico «Garibaldi» (gtG)avevano riservato l’angolo nordovest dell’area aeroportuale di Pe-trovec: un grande prato con 7 han-gar corazzati, collegati da un nastrodi asfalto alla pista dell’aeroporto,che avevano ospitato fino a qualchetempo prima altrettanti MIG del-l’Aviazione iugoslava. È lì che avremmo dovuto organiz-zare il nostro campo per passarel’inverno ancora in ritardo.La ricognizione era stata fatta 10giorni prima con un P-180 partitoda Ciampino. Una volta arrivati al-l’aeroporto, e con l’aiuto del perso-nale della nostra piccola Ambascia-

ta, eravamo stati costretti a scaval-care la recinzione dell’aeroporto. Lazona ci era sembrata «molto ido-nea»: mancava tutto! Tranne queibellissimi hangar.Il gtG era stato schierato in FYROMper far parte di un’unità multina-zionale a livello Brigata sotto co-mando NATO denominata «Extrac-tion Force» (EF). La Brigata, coman-data dal Generale francese MarcelValentin, poteva contare su 4 grup-pi tattici (in nostro, il francese schie-rato con il Comando Brigata a Ku-manovo, il britannico a Skopje e iltedesco a Tetovo) più vari assettidel genio, di elicotteri e delle tra-smissioni. Il compito dell’EF eraquello di dare sicurezza indiretta e,se necessario, diretta agli osservato-ri dell’OSCE dispiegati in Kosovoper controllare una situazione cheda qualche tempo preoccupava ilmondo: i continui dissidi, spessosfociati in violenti contrasti, che sta-vano dividendo la popolazione amaggioranza di origine albanesecon la minoranza serba, sostenutadall’autorità centrale di Belgrado. IlKosovo, allora, era una delle regionidi quello che era rimasto della Iugo-slavia e la maggioranza albanesechiedeva a Belgrado maggiori auto-nomie. I contrasti si erano acuiti do-po il rifiuto netto serbo.La protezione degli osservatori, tracui alcuni italiani, poteva esseremessa in atto, in caso di necessità, ocon un intervento via terra, entran-do in Kosovo attraverso il passo Ge-neral Jakovic (in questo caso noi in-sieme ai britannici ci alternavamo inprontezza con i gr. tat. francese e te-desco), ovvero con un’azione avio-portata sviluppata da noi italiani,

congiuntamente ai francesi, metten-do insieme gli elicotteri e a turnol’unità di fanteria.Il gtG su base 8° bersaglieri eracomposto da: Comando (su base 3°battaglione bersaglieri «Cernaia» rin-forzato da elementi degli altri reggi-menti della Brigata «Garibaldi») S1Capitano Diodato Abbagnara, S2 Ca-pitani Domenico D’Isa e AlessandroLuminiello, S3 Capitano ClaudioMinghetti, S3 air Capitano RobertoMinini, S4 Capitano Fausto Troisi,Direttore del CAI Colonnello France-sco Guglielmo, addetto stampa Te-nente Fabrizio Centofanti; compa-gnia Comando e Servizi (tratta dalbattaglione logistico «Garibaldi» diPersano, con importanti capacità ditrasporto avendo 20 APS in dotazio-ne), Capitano Michele Lombardi;10a compagnia bersaglieri in confi-gurazione motorizzata-avioportata,Capitano Massimiliano Fadda; squa-drone blindo pesanti dei «Cavalle-geri Guide» (19°) (dapprima uno

Speciale

JOINT GUARANTORIL GRUPPO TATTICO «GARIBALDI» COMPONENTE ITALIANA

DELLA EXTRACTION FORCE IN FYROM

GRUPPO TATTICO«GARIBALDI»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 300 uomini;• Comando;• una compagnia Comando e servizi;• una compagnia bersaglieri in confi-

gurazione motorizzata/avioportata;• uno squadrone blindo;• una compagnia genio;• un nucleo EOD;• uno squadrone elicotteri;• un plotone trasmissioni.

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squadrone di formazione poi sosti-tuito dal 3° squadrone, su 18 blindo«Centauro»), inizialmente TenentiPietro Guglielmi e Stefano Blandiniquindi Capitano MassimilianoQuarto; compagnia genio (la com-pagnia genio della Brigata «Garibal-di», specializzata soprattutto nellacomponente lavori) e nucleo EOD,Capitano Ivan Cioffi; squadrone eli-cotteri (4 A-129 «Mangusta» da Ca-sarsa e 2 AB-412 da Viterbo), Tenen-ti Colonnelli Pellegrino Bellino eAngelo Sellaretti; plotone trasmis-sioni dell’11° «Leonessa», TenenteCarmelo Andronico;per un totale di circa 300 uomini.Delle 4 Task Forces la nostra era lapiù articolata e ... potente, e Valen-tin lo sapeva bene! Compagniaavioportata, Centauro, elicotteri dacombattimento e da trasporto: pri-ma di allora non avevamo mai mes-so insieme un’unità simile.Al comando della Extraction Force,l’Italia era rappresentata da unaventina fra Ufficiali e Sottufficiali.La posizione pregiata era quella diCapo di Stato Maggiore, affidata al-l’allora Colonnello Marco Bertolini.Io ero il Comandante del contingen-te nazionale.I lavori di adattamento della basesono partiti in breve tempo. Nelfrattempo avevamo trovato ospitali-tà, a similitudine degli altri contin-genti, in semplici strutture presentiin zona quali colonie estive, vuotenel periodo invernale, e alberghiisolati in periferia.Gli elicotteri sono giunti in volo dal-l’Italia nel giro di pochi giorni e ab-biamo fatto in tempo ad allestire lepiazzole per il loro ricovero.A questo momento si riferisce unodei ricordi più particolari di tutta lamissione: il fornitore della ghiaia perla costruzione delle piazzole è venu-to a trovarmi e mi ha «cortesemente»comunicato che se l’indomani nonavessi saldato il debito di 8 000 mar-chi si sarebbe rivolto ai giornali (eroarrivato in FYROM senza disporre diassegnazioni di denaro, il CAI loavrebbero istituito per la prima volta

di lì a qualche settimana).Ho fatto adunata a tutto il personalee ho raccolto dalle loro tasche (edalle mie) quanto necessario persaldare il debito! Beninteso, dopoqualche settimana, con l’arrivo deldirettore del CAI, l’efficientissimoColonnello Guglielmo, tutto è statorestituito, senza interessi!Il periodo è volato via alternandoattività addestrative, molto proficuee intense, a periodi di prontezza.Con l’unità britannica si instaurò unottimo rapporto che le esercitazionicondotte congiuntamente a partiticontrapposti e le attività ricreativeorganizzate in comune avevano raf-

forzato.In una delle esercitazioni propedeu-tiche avremmo dovuto liberare degliosservatori tenuti in ostaggio da ma-nifestanti, questi ultimi rappresenta-ti da valenti soldati britannici. Dellafase finale dell’esercizio ricordo unsimpatico episodio: fra i valenti bri-tannici-scalmanati manifestanti vene era uno alto quasi due metri tra-vestito da donna con, fra le braccia,un bambino, simulato da un bambo-lotto. I nostri bersaglieri erano deter-minati a portare a termine la missio-ne ma i manifestanti opponevanouna resistenza piuttosto accanitatanto da sfociare in dura contrappo-sizione fisica. Era chiaro che quelladonnona con bambino ben esibito,«fulcro del sistema difensivo avver-sario», non poteva essere presa dimira dai nostri che dalla stessa rice-vevano calci e spintoni. Questo ri-

spetto è durato qualche minuto al-meno sino a quando la donnona nonriuscendo più ad arginare «l’arrem-bante assalto dei bersaglieri» non hainiziato a usare il bambolotto a mo’di clava. L’evidenza e bastata ad aiz-zare più i nostri che, forzando anco-ra di più, hanno rotto gli indugi edopo aver assestato qualche buoncolpo al donnone, sono riusciti apassare il blocco. L’esercitazione si èconclusa con successo, con diversicontusi da ambo le parti ma soprat-tutto con «pacche sulle spalle» finaliin sede di commenti!Qualche giorno dopo, altra esercita-zione: si simulava un blocco stradale

da parte di elementi paramilitari; ibritannici sempre a fare da attivatori.Questa volta avevano bloccato un iti-nerario mettendo sulla sede stradaleanche una serie di mine anticarro. Ilblocco era stato organizzato in unpunto in modo tale da non poter es-sere aggirato, ad esempio andandofuori strada. Sotto gli occhi attenti delvalutatore, le abbiamo provate tutteper riuscire, con le buone, a far to-gliere il blocco. Non restava, qualeunica soluzione, che quella di forzareusando la forza. L’elemento critico,invalicabile, restava comunque lastriscia di mine che risultavano, co-munque, solo appoggiate al terrenosenza dispositivo antirimozione. Eb-bi un’idea: al mio ordine la riga dibersaglieri che fronteggiava i britan-nici fece un repentino spostamento inavanti andando oltre le mine, checontemporaneamente alcune nostre

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Guide portarono via. La sorpresa futale che riuscimmo a superare il bloc-co in pochi minuti.Chiaramente abbiamo ripagato conla stessa moneta i britannici quandoè toccato a noi fare da attivatori, mala cosa importante è che questi epi-sodi hanno rinsaldato moltissimo lacoesione fra di noi e con i britannici.L’operatività di EF doveva esseregarantita per il 31 dicembre. E cosìè stato.Per due volte, quando gli osservato-ri sono stati realmente minacciati,abbiamo ricevuto l’ordine di prepa-rare l’ingresso. Nel braccio di ferrogiornaliero con i serbi, anche in que-ste due occasioni di alta tensione, laNATO è riuscita ad averla vinta egli osservatori hanno potuto conti-nuare l’opera di controllo.Intanto avevo trovato un accordocon i dirigenti di una colonia estivaper bambini nei pressi di Katlano-vo. A un prezzo estremamente fa-vorevole avevamo ottenuto la con-cessione del villaggio per alloggiaretutto il personale. Il trasferimento èavvenuto alla fine di gennaio 1999.Il campo di Petrovec era stato nelfrattempo, completato e costituivala nostra base operativa. Al termi-ne dei lavori ce la invidiavano tutti,avevamo anche l’acqua corrente.Infatti i Genieri avevano fatto ungrande lavoro: le temperatureoscillavano fra i –10 di giorno e i–24 di notte. La malta doveva esse-re amalgamata tenendo la cariolasu un bidone con il fuoco acceso!L’abbassamento repentino delletemperature aveva colto di sorpresaun po’ tutti nella EF: soprattutto al-l’inizio del mal tempo il gasolio sen-za additivo (era fornito dai francesi)aveva creato non pochi problemi aimezzi. Tutto è stato risolto nel girodi qualche giorno (con l’aggiuntadel 30% di benzina al gasolio!).A febbraio, i Paesi della NATO hannoiniziato a far affluire in FYROM leunità che avrebbero formato la futuraKFOR. L’idea era che, dopo aver rag-giunto un accordo con Belgrado, unaforza, su base Corpo d’Armata di Rea-

zione Rapida della NATO (ARRC), alcomando del Generale Mike Jackson,sarebbe entrata come forza di pace inKosovo. L’entry force sarebbe stata co-stituita dalla EF che avrebbe mandatoi suoi 4 gruppi tattici a occupare pre-ventivamente, altrettante aree che sa-rebbero diventate settori di Brigata.La Brigata «Garibaldi» del nostro Ge-nerale Mauro Del Vecchio, in que-st’ottica, si stava preparando e, pur ri-manendo sotto comando nazionale,aveva iniziato il ri-schieramento inKosovo dalla fine di febbraio occu-pando, man mano, le basi di Petrovece Katlanovo, che noi avevamo prepa-rato nelle settimane precedenti.L’auspicato progetto della NATOnon si realizzò: con il fallimento deicolloqui organizzati nel castello diRambouillet, vicino Parigi, il pianointernazionale di pacificazione nonriuscì per gli irrigidimenti delle parti.Quindi, la NATO decise di iniziare ibombardamenti degli obiettivi serbia partire dalle 00.00 del 24 marzo.In questo periodo abbiamo ricevutodiverse visite. Una di queste da par-te dell’advance party delle forze spe-ciali britanniche che, evidentemente«innamoratisi» della nostra efficien-te e funzionale base di Petrovec,avevano avanzato formale richiestaal comando dell’ARRC di poternevenire in possesso per le proprie at-tività. Grazie all’intervento del Ge-nerale Valentin, che mi aveva confi-dato l’episodio, siamo riusciti adevitare il ... passaggio di consegne.Il 23 marzo alle 12.00 lasciai il co-mando della «Garibaldi», che intan-to si era installato completamente aKatlanovo, dove avevo ricevuto no-tizia che alle 14.00, con lo sciogli-mento della EF, sarei ripassato alledipendenze dell’8° reggimento delColonnello De Pascale. Alla stessaora avrei dovuto lasciare Petrovec eschierarmi con la 10a e il 1° squadro-ne delle «Guide» a nord di Skopje, acavallo della statale che portava ver-so nord al posto di frontiera di Ge-neral Jakovic. Tenendomi a distanzadal confine avrei dovuto fornire si-curezza alla capitale e alle forze NA-

TO schierate in FYROM (l’area eraquella di Stenkovec, un aeroportomilitare con pista semipreparata). Ildispositivo era completato daun’unità tedesca nel settore a destra,una francese a sinistra, una britanni-ca in riserva. Avevamo inoltre cer-tezza che una Marine ExpeditionaryUnit (MEU) era in afflusso.Alle 14.00 del 23 marzo 1999, dopoaver fatto un breve rapporto all’ora-mai ex gruppo tattico «Garibaldi»della Extraction Force, dopo aver datopoche disposizioni ai Comandantidella 10a, del 1° squadrone e alloStaff che mi avrebbe seguito, lasciam-mo Petrovec per la zona di Stanko-vec, che preventivamente avevamogià ricognito per altri scopi.Nella notte fra il 23 e il 24 iniziaronoi bombardamenti.Contemporaneamente la FYROM fufunestata da una serie di disordini: icittadini di origine serba iniziarono aprotestare vigorosamente anche conattentati sanguinosi. In quei giorni,lo si poteva notare soprattutto dinotte, noi a Stankovec eravamo tra ibagliori causati dai bombardamentiin Kosovo e quelli degli attentati di-namitardi e dei disordini a Skopje.La storia dell’Extraction Force e delgruppo tattico «Garibaldi» finiscequi. Da quel momento e prima del-l’ingresso in Kosovo saremmo statiprotagonisti di altri episodi: l’arrivoal Piper Camp insieme al battaglionedi genieri britannico, l’afflusso di 20mila profughi albanesi dal Kosovo ela conseguente organizzazione delcampo nell’area di Stankovec e ilmontaggio della nostra più bellatenda quale moschea, l’assistenzaspontanea alle ONG, gli incontricon i Comandanti serbi per definirele fasi dell’ingresso in Kosovo, la vi-sita del Presidente della Repubblica,spetta ad altri raccontarlo!

Giuseppenicola TotaGenerale di Brigata,

Comandante dell’Accademia Militare,già comandante

del gruppo tattico «Garibaldi»

Speciale

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Il dramma del Kosovo, negli anni1998 e 1999, si presta a interpretazio-ni diverse in relazione alle chiavi dilettura di volta in volta utilizzate: sto-rica, religiosa, sociale, economica,ecc.. Peraltro, pur nella varietà degliapprocci, l’opinione pubblica mon-diale è stata fortemente coinvolta dal-le vicende che hanno caratterizzato ilperiodo immediatamente successivoal termine della guerra, quello cioèdel passaggio dal conflitto alla pace.È quindi opportuno ricordare gliaspetti più significativi delle attivitàdel Contingente militare italiano, im-pegnato in un’operazione di suppor-to alla pace in una regione in cui lapace sembrava, in realtà, non essereancora arrivata.Era proprio una sensazione di pacelontana quella che percepivano i sol-dati italiani, durante la notte tra il 12 eil 13 giugno, allorché con una lun-ghissima autocolonna – quasi 10 kmdi profondità – entravano in Kosovodalla FYROM. Il percorso, che liavrebbe portati nell’area più occiden-tale della regione, fino alla città di Pec(ora si chiama Peja perché i serbi nonci sono più), era tortuoso ed estrema-mente lento. Perché legato alle pocherotabili ancora utilizzabili dopo le di-struzioni della guerra e condizionatodalla inagibilità di molte strutturestradali (il passaggio di alcuni pontidoveva avvenire un mezzo alla voltae i mezzi in movimento erano oltreseicento) e perché spesso interrottodalla presenza di mine antiuomo eanticarro che andavano distrutte oneutralizzate prima di procedere ol-tre. Ma, soprattutto, perché si svolge-va in un territorio sconosciuto, in unasituazione di grande indeterminatez-za operativa e in un’atmosfera di for-te tensione, con le forze contrapposterappresentate dalle milizie albano-ko-sovare e dalle fazioni serbe che si con-frontavano minacciosamente. I nostrimezzi si trovavano spesso a percorre-

re aree nelle quali ancora avvenivanoscontri a fuoco. Il movimento incon-trava notevoli ostacoli. La progressio-ne era difficile e pericolosa. In sostan-za la guerra, formalmente terminata il9 giugno alle ore 21.00 con gli accordidi Kumanovo tra i Comandanti deicontingenti della NATO e i rappre-sentanti dell’Esercito serbo, ancoracontinuava.Mano a mano che ci avvicinavamo aPec, cuore dell’area assegnata all’Ita-lia, chiari indizi confermavano laprosecuzione del conflitto. Erano gliatteggiamenti sprezzanti e arrogantidei miliziani serbi in ripiegamentoverso nord, che ostentavano il segnodella vittoria (le prime tre dita dellamano aperta) e minacciavano un ra-pido ritorno in Kosovo. Ma erano an-che i comportamenti dei milizianidell’UCK (la struttura militare alba-no-kosovara), che si mostravano for-temente ostili e contrari a ogni formadi collaborazione o dialogo con l’et-nia avversaria. Chilometro dopo chi-lometro, percepivamo sempre piùchiaramente le dimensioni di ungrande dramma che si era compiutoe si stava ancora compiendo in quellaregione. Capivamo, dalle distruzionie dalle scene di morte che ci accoglie-vano, come in quel territorio fossescomparsa ogni forma di giustizia edi convivenza civile.A voler essere precisi, una indica-zione, chiara ed evidente, dell’enor-mità della tragedia l’avevamo giàavuta, la sera del 5 aprile (giornatadel lunedì di Pasqua). In quellafredda notte, migliaia e migliaia diprofughi provenienti da ogni partedel Kosovo fuggivano in FYROM ein Albania, mettendo a dura provale capacità di accoglienza delle dueNazioni balcaniche e dei contingen-ti della NATO (italiano, inglese,francese, tedesco e statunitense) ri-schierati in FYROM, che si dimo-strarono le uniche strutture in gra-

do di intervenire con immediatezza. Alla base dell’esodo dal Kosovo ditanti uomini, donne e bambini, lette-ralmente spinti oltre confine dalle mi-lizie serbe, c’era presumibilmente unastrategia diretta a scompaginare l’ap-parato militare della NATO, coinvol-gendolo totalmente nei compiti di ac-coglienza e sostegno delle popolazio-ni. L’impegno per le Forze internazio-nali risultava effettivamente elevatis-simo. I contingenti dell’Alleanza rea-lizzavano, organizzavano e gestivanooltre 10 campi di accoglienza per untotale di circa 300 000 profughi e ilContingente Italiano assumeva laresponsabilità di quello più vicino aSkopje, arrivato a contenere quasi35 000 profughi, naturalmente abbi-sognevoli di tutto. Quelli erano statii segnali del dramma che si svolge-va all’interno del Kosovo. Drammache non potevamo vedere ma di cuiprendevamo coscienza attraverso iracconti e le testimonianze dei profu-ghi, che, esausti e sofferenti, giunge-vano in FYROM e in Albania, dopoaver vissuto all’addiaccio per giorni egiorni e dopo essere stati spostati piùvolte in varie località del Kosovo.Ma torniamo all’operazione iniziatail 12 giugno. L’area del Kosovo affi-data al controllo italiano era di di-mensioni pari a quelle assegnate aifrancesi, agli statunitensi, ai tedeschie agli inglesi, ma era la più delicata

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KOSOVO FORCE

CONTINGENTE «KFOR»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: circa 5 000 uomini;• un contingente a livello Brigata su

base Brigata Bersaglieri «Garibaldi»rinforzata con i supporti: genio, tra-smissioni, logistici, Forze Speciali,AVES, NBC e Carabinieri.

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sotto l’aspetto operativo perché piùaspri erano stati i combattimenti du-rante il conflitto e più elevate le di-struzioni. Circa il 70% delle abitazio-ni risultava totalmente o parzialmen-te danneggiato al momento dell’in-gresso del contingente italiano. An-che sotto l’aspetto naturale, il settoreaffidato all’Italia era il più complessoper la presenza di un’area montana aovest e per la notevole estensione deiconfini da controllare, con l’Albania,il Montenegro e la Serbia. Inoltre, perla contiguità con l’Albania, la compo-nente albanese era fortemente radica-ta nell’area. Conseguentemente, piùnumerosa, più sentita e più determi-nata che non in altri settori era statal’adesione della popolazione localeall’UCK. Ma la regione rivestiva e ri-veste tuttora grandissima importan-za anche per i serbi, profondamentelegati per ragioni storiche e religioseal Kosovo, regione ricca di chiese or-todosse, e, in particolare all’area po-sta sotto il controllo italiano, dove so-no dislocati i più importanti luoghidi culto (Pec, Decani).Immagini molto crude accompagna-vano il nostro ingresso. Tutte le loca-lità attraversate erano quasi comple-tamente deserte. Non era visibile al-cuna attività. Un terribile odore dimorte, di cui ben presto avremmo

scoperto la provenienza, permeavaogni luogo. Le città, spettralmentevuote, ci accoglievano silenziose coni loro quartieri sistematicamente ab-battuti. Immagini dolorose, che rag-giungevano il massimo della dram-maticità quando nei campi o nelle ca-se scoprivamo cadaveri da tempo ab-bandonati o individuavamo fosse co-muni. Immagini in parte mitigate dalsorriso delle pochissime persone dietnia albanese, rimaste nascoste dachissà quanto tempo nei propri vil-laggi e che ora uscivano per salutarel’arrivo dei soldati italiani. Immagini,comunque, che evidenziavano unagrande tragedia.Quanti albanesi sono stati uccisi du-rante la guerra? Non si sa esatta-mente. 2 500, come risulterebbe dalrapporto di una società americana diintelligence? Oppure gli 11 000 ini-zialmente dichiarati dalla NATO?Probabilmente il valore reale si ponein posizione intermedia. Comunque,numeri elevatissimi di vittime, perlo più rappresentate da civili.Altri valori numerici grandissimi, perfortuna questa volta associati a unaspetto positivo, caratterizzavano inquei primi giorni l’attività del contin-gente italiano. Erano quelli relativi alrientro dei profughi (o dei deporta-ti?) che, in un brevissimo intervallo

di tempo – appena due settimane –tornavano alle località di origine delKosovo. Nel settore occidentale dellaregione, nelle circoscrizioni di Pec,Decani, Dakovica, Klina e Istok con-trollate dagli italiani, questo rientroera ancora una volta più accentuatoche in altre parti. Oltre 400 000 profu-ghi – ossia il 95% della popolazionepreesistente – raggiungevano i villag-gi di origine, molte volte, peraltro,senza più trovare le proprie abitazio-ni, distrutte dalle milizie serbe. Ma inquesto momento, allorché il rientrodei profughi stava avvenendo conuna rapidità che andava ben oltreogni più rosea previsione, allorché sipoteva pensare di aver collocato allespalle la sofferenza e l’ingiustizia, cirendevamo conto amaramente comela guerra, che ritenevamo ormai con-clusa, in realtà purtroppo continua-va. A cosa, infatti, attribuire la re-sponsabilità dei circa 400 assassiniiverificatisi in Kosovo dopo il 9 giu-gno – ossia dopo il termine ufficialedel conflitto – se non alle vendette diguerra e all’odio tra le etnie che rima-nevano immodificati? Come giudica-re l’incendio delle case dei serbi e deivillaggi rom, se non come manifesta-zioni di ritorsione degli albanesi neiconfronti di coloro che sentivano co-me rappresentanti della vecchia op-pressione? Come motivare il feroceaccanimento contro luoghi di culto edi preghiera, se non come assurdemanifestazioni di ferocia e inciviltà?Come valutare, infine, se non comeuna pulizia etnica al contrario, il nuo-vo, triste esodo dal Kosovo di altriprofughi, questa volta di etnia serbae rom, che lasciavano la regione suglistessi poveri trattori che avevano ac-compagnato qualche mese prima lafuga degli albanesi? L’odio interetni-co rimaneva fermo nelle sue dram-matiche manifestazioni. Nel Kosovodel dopo guerra, erano tantissimi co-loro che si opponevano violentemen-te anche alla sola presenza nella pro-vincia dei serbi.Non si trattava, quindi, almeno inquella fase iniziale, di un’operazionedi peace keeping. Quella svolta dal

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Contingente Italiano era qualcosa didiverso, sicuramente di più difficilegestione, che richiamava prepotente-mente l’interesse dell’opinione pub-blica. Ciò avveniva in una situazio-ne, inoltre, in cui risaltava l’assenzanell’area di un qualsiasi organismointernazionale in grado di colmare ilvuoto di potere determinatosi al ter-mine del conflitto e di ripristinareuna struttura politica e sociale.Il contingente militare era solo. E dasolo, quindi, si faceva carico dei com-piti di tutte le componenti assenti:svolgeva attività di polizia per ilmantenimento dell’ordine e il rispet-to delle leggi, procedendo al seque-stro di grandi quantitativi di armi edesplosivi; garantiva la sicurezza deiluoghi di culto, evitando che veri epropri tesori artistici fossero distruttisulla base di folli progetti; organizza-va i servizi basilari per il funziona-mento della città; proteggeva le areepopolate dai serbi e dai rom, garan-tendo la permanenza di etnie diversedall’albanese; regolava e imponeva ilprocesso di trasformazione dell’UCKda struttura militare a organismo disoccorso civile. Non era agevole, peril contingente italiano, svolgere nu-merosissime funzioni diversificate,molto spesso non attinenti alla sferamilitare. Ma è stato necessario farlo.Non era certamente facile e privo didubbi e di ripensamenti, per il Co-mandante del contingente, assumeredecisioni proprie dell’autorità giudi-ziaria per reprimere i gravi reati chetrovavano spazio nel quadro di di-sgregazione sociale che caratterizza-va l’area. Ma è stato necessario farlo.Tutto questo cercando di mantenereun’assoluta equidistanza, cercandodi non lasciarsi condizionare da alcu-na posizione preconcetta nei confron-ti delle popolazioni coinvolte. Cer-cando, in sostanza, solo di ristabilire ivalori della giustizia e della convi-venza pacifica.Quali sono stati i risultati?In alcuni casi molto brillanti, comenel caso del rientro dei profughi al-banesi. In altri parzialmente positivie abbisognevoli di successive verifi-

che: mi riferisco alla riorganizzazio-ne dell’UCK, al controllo dell’ordinepubblico e alla ripresa dell’economialocale. In altri casi, quelli connessi al-l’esodo dei serbi, sicuramente nonpositivi.Quali erano, in quel momento, leprospettive?

Appariva chiaro che il processo di ri-costruzione avrebbe richiesto un im-pegno continuo ed incessante. Il Con-tingente Italiano, così come gli altri,avrebbe dovuto porre particolare at-tenzione ai fattori di instabilità chepermanevano numerosi. Tra di essic’era anche il rientro dei serbi, chenon era una lontana ipotesi ma cheveniva esplicitamente menzionatonella risoluzione dell’ONU che avevadato avvio all’operazione in Kosovo.Ripercorrere, quindi, l’impegno delcontingente italiano in Kosovo vuoldire ricordare i momenti più signifi-cativi di un periodo essenziale per ilfuturo della regione: quello della fi-ne della guerra e del ritorno alla pa-ce. Vuol dire rivivere i difficili rap-porti con l’UCK, le preoccupazioniper l’ampiezza e la diversificazionedei compiti, l’amara sorpresa nel co-statare la profondità dell’odio tra leopposte etnie, la rabbia per l’impos-sibilità di evitare tutti gli atti di vio-lenza ma anche la soddisfazione divedere rifluire quasi normalmentela vita e l’attività commerciale nella

città e nelle campagne, la felicità diaver avviato la ricostruzione dellestrutture e delle abitazioni, l’orgo-glio di aver salvaguardato, proprionel settore italiano, una enclave dipopolazione serba con la quale av-viare un progetto di coesistenza pa-cifica tra le diverse etnie. Vuol direanche ricordare gli sforzi per realiz-zare una radio del Contingente Ita-liano, denominata «Radio West»,che avrebbe sostenuto poi, nei lun-ghi mesi di lontananza, i soldati del-la missione, trasmettendo messaggidi pace e di concordia nelle lingueitaliana, francese, inglese, spagnola,portoghese, serbo e albanese.Le operazioni nel Kosovo hannoquindi visto un forte coinvolgimen-to del Contingente nazionale che,insieme agli altri, ha rappresentatol’unica struttura in grado di gestireil passaggio dalla fase della guerra aquella della ricostruzione della nor-malità sociale ed economica anchese non ancora politica. I 6 000 italia-ni che operavano in quella regionelo facevano convinti che la loro pre-senza era essenziale per riportare alcentro i valori della giustizia e dellaconvivenza pacifica. Dovevamo es-sere fiduciosi e perseguire con de-terminazione queste finalità di giu-stizia e convivenza, traendo slancioe forza dai grandi risultati ottenuti.Dovevamo e dobbiamo credere inquesti obiettivi perché in essi era edè l’unica speranza di non rivederein un futuro più o meno prossimo,in quella o in altre aree balcaniche,le stesse scene di sofferenza, le stes-se povere colonne di profughi, pri-ma albanesi e poi serbi, che hannocaratterizzato questa triste circo-stanza storica. Dovevamo e dobbia-mo, in sintesi, continuare a darequesta presenza di solidarietà e diaiuto perché solo con essa può esse-re veramente ripristinata la pace.

Mauro Del VecchioGenerale di Corpo d’Armata,

Senatore della Repubblica,già Comandante

della Brigata Bersaglieri «Garibaldi»

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«La missione è stata lanciata in 8giorni e condotta per 5 mesi a 16 000chilometri dalla Madrepatria, senzache si sia reso necessario adottare cor-rettivi o provvedimenti urgenti per sa-nare errori commessi in fase di pianifi-cazione/approntamento».Così riassumevo i risultati della par-tecipazione italiana all’Operazione«Stabilise» nell’ambito dell’«Interna-tional Force East Timor» (INTERFET),nel momento in cui si dovevano trar-re le conclusioni dell’impiego di uncontingente nazionale interforze dasettembre 1999 a marzo 2000 in quellontano Paese.

BACKGROUND

La colonizzazione dell’isola di Ti-mor è cominciata nel XVI secolo conlo sbarco dei primi portoghesi; suc-cessivamente la parte occidentale ètransitata sotto dominio olandese,

tant’è che i confini ancora oggi esi-stenti tra Timor Est e Timor Ovestrisalgono a un trattato stipulato traOlanda e Portogallo nel 1859.Durante la Seconda guerra mondia-le, l’isola è stata occupata dai Giap-ponesi, ma è ritornata sotto domi-nio delle potenze coloniali al termi-ne del conflitto.La storia recente di Timor Est inizianel 1974 quando - a seguito della «ri-voluzione dei garofani» - il Portogal-lo avvia un rapido processo di deco-lonizzazione dei possedimenti d’ol-tremare. Nei primi mesi del 1975, imovimenti indipendentisti riesconoad arrivare alle elezioni, dalle quali ilFRETELIN (Frente Revolucionária deTimor-Leste Independente) di XananaGusmao esce con la maggioranza as-soluta. Il Partito perdente (UnioneDemocratica di Timor), sostenutodall’Indonesia, scatena tre settimanedi Guerra Civile, nel corso della qua-le i Portoghesi - che continueranno amantenere giuridicamente il control-lo del territorio fino alla fine del 1999- abbandonano frettolosamente e dinotte Timor Est al suo destino. IlFRETELIN vincitore comincia a orga-nizzare il Paese. L’Indonesia iniziasubito le incursioni paramilitari lun-go la fascia di frontiera, partendodalle basi di Timor Ovest. L’Occiden-te non interviene, preoccupato dallacrescente presenza comunista nelsud est asiatico (ricordo che si teme-va l’effetto «domino», in tutta l’area,teorizzato da Kissinger dopo la cadu-ta dei Governi sostenuti dagli StatiUniti in Vietnam, nel Laos e in Cam-bogia nel mese di aprile dello stessoanno). Il 7 dicembre del 1975 Giakar-ta invia una forza di «volontari» a Di-li e Baucau (a Dili viene anche effet-tuato un lancio di paracadutisti; il ca-so vuole che i primi paracadutisti che

i timoresi hanno visto scendere dalcielo dopo di allora sono stati quellidella «Folgore», che 24 anni doponella stessa data hanno effettuato unlancio in occasione di una riuscitamanifestazione sportiva). Inizia cosìl’occupazione da parte dell’Indone-sia, che nel luglio 1976 annette uffi-cialmente Timor Est quale 27a Pro-vincia con il nome di Timor Timur,annessione mai riconosciuta dalleNazioni Unite e senza prese di posi-zione internazionali.Nei 6-7 anni successivi si registrò lamorte di più di 300 000 timoresi (pa-ri al 44% della popolazione). Forsenon tutti sanno che Timor Est (cheaveva già subito 65 000 morti -13,5% - durante l’occupazione giap-ponese) è stata definita il «genoci-dio dimenticato», tenuto conto cheper la sua dimensione percentuale(precede nella triste graduatorial’Olocausto 33% e i Khmer in Cam-bogia 28,5%) è stato il più grandedella storia umana.La comunità internazionale comin-cia a sollevare la questione di TimorEst verso la metà degli anni ’90,quando il Vescovo di Dili (Mons.Belo) e Ramos Horta, l’altro leaderdel FRETELIN (ora diventato FA-LINTIL - Forças Armadas da Liberta-ção Nacional de Timor-Leste) che con-duceva la guerriglia contro l’Indo-nesia dopo l’incarcerazione di Gu-smao nel 1992, ricevono il Premio«Nobel» per la pace.Gli eventi che hanno portato all’in-tervento della Coalizione interna-zionale hanno origine nel maggio’98 con la caduta, in Indonesia, delPresidente Suharto e la ripresa degliscontri a Timor Est. Nel febbraiodel’99, Gusmao viene scarcerato e amaggio Indonesia e Portogallo si ac-cordano per il voto di autodetermi-

Speciale

L’INTERVENTO ITALIANOA TIMOR EST

INTERNATIONAL FORCEEAST TIMOR(INTERFET)

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 570 uomini;• un gruppo tattico paracadutisti rin-

forzato con elementi dei paracaduti-sti Incursori e dei Carabinieri para-cadutisti;

• Nave «San Giusto»;• due velivoli G-222;• elementi specialistici delle trasmissio-

ni, della logistica e del genio;• Personale per i Comandi della Coa-

lizione.

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nazione.L’ONU fissa il referendumsotto il suo controllo per agosto. Ilrisultato, 78,5% favorevole all’indi-pendenza, rende più cruenti gliscontri già iniziati da qualche tem-po da parte dei miliziani - sostenutidalle Forze Armate regolari indone-siane - contrari all’autonomia. Si ve-rificano massacri e deportazioni dimassa. Il 10 settembre, il Consigliodi Sicurezza delle Nazioni Unite,con la Risoluzione 1264, autorizzal’impiego di una forza militare mul-tinazionale per il ristabilimento del-le condizioni di pace.Le prime unità di INTERFET sbar-cano a Dili il 20 settembre e inizianole operazioni di controllo della capi-tale estendendole progressivamentea tutto il territorio di Timor Est.Alla formazione della Coalizionecontribuiscono i Contingenti di 20Nazioni, per complessivi 12 000uomini circa nel momento di mas-sima espansione della Forza, di cui10 000 dell’Esercito, 1 500 della Ma-rina e 500 dell’Aeronautica.In questo contesto si inserisce l’in-tervento del contingente nazionale.

ITALCON

Venerdì 10 settembre 1999, nel cor-so di una riunione di Stato Maggio-re a Roma, era stata esclusa la possi-bilità di un intervento italiano nella

crisi di Timor, che da molte settima-ne occupava le pagine dei giornali eteneva alte la tensione dell’opinionepubblica mondiale e l’attenzione deiGoverni. Tanto che - a livello milita-re nazionale - era iniziata da qual-che giorno una fase di studio e pia-nificazione per un eventuale inter-vento che avrebbe dovuto interessa-re le Forze Armate italiane inun’area che comunque si collocavamolto al di fuori delle Regioni in cuisi pensava potesse esserci un coin-volgimento nazionale.Invece domenica 12, quale Capo Uf-ficio Operazioni dello Stato Maggio-re dell’Esercito, in tarda mattinata,fui convocato per una riunionepresso la Difesa.Lo scenario era cambiato, si partiva!Ancora non sapevo, lo seppi 5 gior-ni dopo, che sarei stato designato aricoprire l’incarico di Senior NationalRepresentative della missione.L’ordine di approntamento delleforze partì subito e già il 16 settem-bre un primo Nucleo Avanzato diricognizione atterrava in Australiaper stabilire i contatti iniziali con iComandi locali, che avevano assun-to la leadership dell’operazione.Complessivamente furono mobilita-ti 570 uomini (l’arruolamento delpersonale femminile nelle Forze Ar-mate iniziò solo l’anno successivo)delle tre Forze Armate e in partico-lare: un gruppo tattico della Brigata

Paracadutisti «Folgore», su base187° reggimento con rinforzi del 9°reggimento «Col Moschin» e del 1°reggimento Carabinieri «Tuscania»(allora l’Arma era ancora nei ranghidell’Esercito), Nave «San Giusto»della Marina Militare e 2 velivoli G-222 della 46a Brigata Aerea dell’Ae-ronautica Militare, cui si unironoelementi specialistici (trasmissioni,genio, logistica) e Ufficiali per i Co-mandi della Coalizione.L’area di intervento, per quanto diinteresse italiano, si estendeva dalterritorio di Timor Est al nord del-l’Australia. In particolare, in unabase militare australiana di Darwin(a 720 km in linea d’aria da Dili, lacapitale di Timor Est, 2 ore di voloe 36 ore di navigazione con gli as-setti nazionali) erano dislocati, e lìrimasero stanziati per tutta la dura-ta dell’operazione, il Distaccamen-to dell’Aeronautica con i due veli-voli e il Nucleo di Supporto Logi-stico amministrativo del Contin-gente (il Centro Amministrativod’Intendenza e il Reparto Logisticodi Contingenza).Ma ritorniamo alle prime fasi di av-vio dell’operazione. Il problema sipresentava complesso. I tempi di in-tervento non consentivano di acquisi-re tutte le informazioni necessarie allasoluzione delle problematiche opera-tive in maniera puntuale. La rapiditàdi schieramento faceva premio sullascelta dello strumento più adeguato.Tuttavia, le Forze Armate, e in parti-colare l’Esercito che più degli altri ècondizionato dallo scenario operativoper la composizione del proprio di-spositivo, erano ormai sufficiente-mente sperimentate nelle cosiddetteoperazioni «fuori area» per affrontarequesta nuova sfida nei tempi impostidalle circostanze. Quasi tutti i Quadridella «Folgore» avevano maturato giàallora notevole esperienza in numero-se missioni, non ultima la Somaliadove il 187° era stato impiegato qual-che anno prima.Non sapendo quale sarebbe statal’area di operazioni, la foresta tropi-cale o un centro urbano, si pensò al-

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lora di portare al seguito una dop-pia dotazione di mezzi ruotati e cin-golati, oltre ovviamente a un ade-guato supporto logistico, tenutoconto della distanza del Teatro nonsolo dalla Madrepatria, ma anchedall’Australia, unico luogo ove sa-pevamo avremmo potuto reperirequanto logisticamente necessario.I vettori aerei e navali, civili e militari,che avrebbero portato dall’altra partedel globo il contingente, iniziaronosubito le attività di caricamento cheproseguirono freneticamente nellegiornate successive e, dopo appena10 giorni da quella prima riunionepresso lo Stato Maggiore della Difesa,i primi elementi avanzati della «Fol-gore» e Nave «San Giusto» partironoper l’Australia. Anche oggi, nono-stante le numerose e difficili esperien-ze maturate in tante nuove missioniin Teatri complessi e lontani e il pas-saggio a Forze Armate professionaliallora nelle fasi iniziali del processo,un simile calendario credo faccia tre-mare le vene nei polsi dei pianificato-ri militari e degli uomini e donne del-le unità chiamate a intervenire.Uno degli aspetti che più preoccu-pava nelle fasi di approntamentoera quello sanitario. Gli studi rapi-damente condotti fecero emergereche numerose e pericolose erano lemalattie endemiche presenti sul-l’isola. Si iniziò subito, pertanto,una profilassi ad ampio spettro,che comprendeva - tra le altre - levaccinazioni contro il colera, la feb-bre gialla, la malaria e, soprattutto,l’encefalite giapponese, i cui vacci-ni risultavano disponibili solo inalcune Nazioni, ma non certo inEuropa, e che era ritenuta portarealle estreme conseguenze qualoracontratta. Le scelte adottate dallaSanità militare risultarono all’esa-me dei fatti sicuramente vincenti,se si considera che il Contingentenazionale registrò complessiva-mente solo alcuni casi di febbreemorragica (la dengue), contro cuinon esiste profilassi preventiva,mentre altre Nazioni subirono per-dite più significative, soprattutto

per la malaria e altre infezioni.Quanto agli equipaggiamenti indi-viduali specifici, l’Esercito avevanella sua disponibilità le zanzariere,sperimentate in Somalia e Mozam-bico, per difendersi dalle punturedegli insetti durante il riposo, manon molto di più per quei climi tro-picali in cui non aveva mai operatoa livello di unità organiche (e forseallora non pensava avrebbe maiavuto questa necessità). Si trattòdunque di acquisire sul mercato al-cuni capi di corredo anche sulla ba-se delle esperienze e dei suggeri-menti di altri Eserciti, segnatamentei neozelandesi e gli australiani, concui ci saremmo confrontati, ma que-sto lo vedremo più avanti.Al fine di un inserimento gradualein Teatro che tenesse anche contodei tempi di effettiva efficacia dellevaccinazioni (quella contro l’encefa-lite giapponese fu possibile effet-tuarla solo in Australia) e di un mi-nimo di acclimatamento preventivoalle temperature e alle difficoltà am-bientali che avremmo incontratonell’area e per le quali non era stata

possibile alcuna preparazione, fudeciso di stazionare alcuni giorni inAustralia, consentendo così anche diconfrontare e verificare le procedured’impiego con i colleghi australiani,che costituivano l’ossatura dellaCoalizione con cui non avevamomai operato prima. Così i Paracadu-tisti della «Folgore» furono schieratiper la prima settimana a Townsville,sulla costa nord orientale dell’Au-stralia e poi trasferiti a Darwin per

l’ultimo balzo verso Timor.

LE OPERAZIONI

L’Area di Operazioni assegnata alContingente italiano era incentratasulla parte orientale della città diDili e le zone limitrofe a est e a suddella Capitale. Da quel momentotutta la pianificazione e l’organizza-zione delle attività passò nelle manidel Contingente.Il periodo passato in Australia fuutile anche per una verifica degliequipaggiamenti e per l’acquisizio-ne degli elementi delle dotazioni in-dividuali necessari per quel Teatro.Fu così che con il CAI acquistammoun cappello a larga tesa, per difen-derci dal sole ma anche dai copiosie frequenti acquazzoni tropicali, an-fibi leggeri e adatti a essere impie-gati a quelle temperature e in terre-ni acquitrinosi, un combatjacket (poidiventato di uso comune in tutte lemissioni) per incrementare la fun-zionalità del trasporto del munizio-namento, del pacchetto di medica-zione individuale e di altri piccolioggetti (le buffetterie allora in usorisalivano concettualmente a primadel Primo conflitto mondiale), unfoulard per consentire di ovviareparzialmente agli effetti della sudo-razione (le sciarpe a rete di lana indotazione mal si confacevano alletemperature locali), un machete per imovimenti nella giungla.E finalmente fu il momento di tra-sferirci in Zona di Operazioni. Lanostra, seppure in piccola scala, fuprobabilmente (io credo certamen-te) la prima vera operazione inter-forze italiana che coinvolse tutte etre le Forze Armate contemporanea-mente in maniera sinergica, almenodopo il Secondo conflitto mondiale.In particolare, nelle fasi di deploy-ment e re-deployment sull’isola. Pia-nificammo una presa di terra che -sebbene in ambiente non ostile (madi questo si ha piena consapevolez-za solo a posteriori) - comportava ilcontemporaneo impiego dei G-222

Speciale

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sull’aeroporto di Dili e di Nave«San Giusto», alla fonda di frontealla Capitale, da cui rapidamentesbarcammo uomini, mezzi e mate-riali con l’aiuto delle unità da sbar-co e degli elicotteri SH3D. L’opera-zione destò l’ammirazione dei Co-mandi della Coalizione, in partico-lare tenendo conto che venivamodall’altra parte del mondo. Ma ciòche più di tutto meravigliò il Co-mandante di INTERFET (il Genera-le di Divisione Cosgrove, dell’Eser-cito australiano) fu la rapidità con laquale i Paracadutisti del 187° reggi-mento occuparono e organizzaronol’area assegnata, arrivando a dichia-rarsi pronti per l’attività operativacon più di 24 ore di anticipo suitempi pianificati, unitamente allacompletezza delle dotazioni e allaperfetta autonomia logistica di cuidisponevano.In altri termini, nessun Contingente- se si escludono australiani e neoze-landesi che comunque partivano da«poco» lontano - disponeva di uncomplesso di forze di terra, di maree dell’aria così articolato e completocome quello italiano e questo il Co-mandante della Coalizione non omi-se mai di sottolinearlo.Lo scenario che accolse i militari ita-liani al momento dello sbarco appar-ve subito terribile. La città di Dili ap-pariva completamente distrutta e leimmagini riprese dagli elicotteri era-no evidenti. La popolazione era ine-sistente e ci spiegarono che si era ri-fugiata sulle montagne per sfuggireai massacri e alle devastazioni. Co-minciò nuovamente a tornare in cittàsolo dopo alcuni giorni, quando sirese conto che il controllo del territo-rio acquisito dalla Coalizione erapressoché totale, almeno nei centriabitati, e la forza dispiegata tale dascoraggiare ogni iniziativa violenta.La condotta delle operazioni in queldifficile e non usuale scenario va atutto onore dei Soldati, dei Marinai,degli Avieri e dei Carabinieri che viparteciparono. Raccontarlo oggi èsemplice, ma altrettanto non fu allo-ra. Operare in quei climi particolar-

mente ostili, con il pericolo sempreimminente di contrarre gravi malat-tie, navigare in quelle acque daifondali insidiosi e spesso molto agi-tate, volare in quei cieli in stagionicaratterizzate da frequenti e violentitifoni (si pensi che nel 1974 la cittàdi Darwin fu praticamente rasa alsuolo da uno di questi fenomeni na-turali), senza una preparazione pre-ventiva e uno specifico addestra-mento, perché mancò la possibilitàdi realizzarlo, è stato un risultato

che solo chi ha vissuto quei momen-ti può realmente apprezzare.Le operazioni a terra si svolserocome è consuetudine delle ForzeArmate italiane. Controllo del ter-ritorio, aiuti umanitari, l’«italianway» trovarono un ambiente parti-colarmente favorevole tenuto con-to che la religione cattolica profes-sata dalla stragrande maggioranzadella popolazione faceva apprez-zare più di altri gli uomini venutidall’Italia. In ciò il contingente fuaiutato in particolare da una Co-munità di Suore Canossiane cheavevano subito perdite nel corsodegli scontri e che ci accolsero conentusiasmo diventando anche lefacilitatrici dei nostri primi contatticon gli abitanti dell’isola. Questi,se ci accolsero con qualche cautelaall’inizio, visto che uomini conuniformi simili alle nostre avevanosparso il terrore fino a pochi giorniprima, ci salutarono in lacrime al

momento della nostra partenza.Ma questa non è una eccezione peri Soldati italiani!Le operazioni sul terreno termina-rono il 14 febbraio e dopo tre giorni,con un’operazione di re-deploymentanaloga allo schieramento, il contin-gente si imbarcò a Dili su Nave«San Giusto» diretto a Darwin dovegli uomini della «Folgore» rientra-rono in aereo a Pisa. Nella stessadata i velivoli e la nave mosseroverso l’Italia.Nave «San Giusto» attraccò al portodi Livorno il 27 marzo, accolta dalPresidente della Repubblica AzeglioCiampi. Il Contingente al completosi riunì per l’ultima volta e con que-sto atto si dichiarò conclusa la mis-sione di ITALCON a Timor Est.

CONCLUSIONI

La missione a Timor Est è stata unbanco di prova importante per le For-ze Armate italiane, che da quasi undecennio erano costantemente impie-gate in vari Teatri Operativi, ma chemai prima di allora si erano spintecosì lontano e con un preavviso diimpiego così ridotto. Dopo di alloramolte altre storie sono state scritte,molti militari italiani sono caduti neiTeatri di Operazioni, ma credo chechi è stato a Timor ricordi con parti-colare orgoglio quella missione e iosento il dovere di ringraziarli ancorauna volta per quello che hanno fatto.Oggi Timor Est è una Nazione,membro delle Nazioni Unite, chesiede a pieno titolo nel consesso in-ternazionale e se questo è stato pos-sibile è anche grazie al contributodell’Italia, che seppe affrontare congrande consapevolezza e senso diresponsabilità quell’impegno che laComunità internazionale reclamava.

Giorgio CornacchioneGenerale di Corpo d’Armata,

Consigliere Militaredel Presidente del Consiglio dei Ministri,

già Comandantedel Contingente Italiano di INTERFET

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LA MISSIONE INTERNAZIONALE

Dopo l’attacco alle torri gemelle diNew York, dell’11 settembre 2001 e aseguito della caduta del Regime tale-bano, causata dall’intervento di unaCoalizione internazionale a guidastatunitense, l’Italia ha aderito allaForza multinazionale dispiegata inAfghanistan, denominata ISAF (In-ternational Security Assistance Force).Questa, nel quadro degli accordi diBonn del 5 dicembre 2001 e su man-dato ONU (Risoluzione n. 1386 del20 dicembre 2001, del Consiglio di Si-

curezza), si è schierata allo scopo diassistere l’Interim Authority afghanaa: realizzare un Governo di riconci-liazione multietnico; stabilizzare lasituazione nella capitale e aree limi-trofe; creare le condizioni atte a rein-tegrare il Paese quale membro re-sponsabile della Comunità interna-zionale; condurre attività di pattu-gliamento; garantire il supporto alGoverno afghano nella ricostruzionedel Paese (anche nel campo umanita-

rio); garantire assistenza nella costi-tuzione di nuove strutture di sicurez-za, incluse le Forze Armate e il loroaddestramento.I contingenti di ISAF operano conregole d’ingaggio che si richiamanoai principi del Capitolo VII dellaCarta delle Nazioni Unite.Iniziata come Missione Multinazio-nale è passata successivamente sot-to il comando della NATO.La missione iniziale è a guida in-glese e comprende circa 4 600 uo-mini e donne provenienti da 18Nazioni.

ITALFOR

Il Contingente Italiano, con una for-za di circa 360 uomini e 200 mezzivari arriva in Afghanistan tramite25 missioni di C-130, 15 di Iliushin76 e 15 di Antonov 124. Il trasferi-mento in Teatro si completa il 4 feb-braio 2002.ITALFOR, al comando dell’allora Co-lonnello Giorgio Battisti, è articolatoin assetti tattici, specialistici e logistici

di diversa capacità e si compone di:• Comando contingente;• un vice Comandante per le unità

dell’Esercito e un Comandanteper il reparto Carabinieri;

• una compagnia di sicurezza per ilComando ISAF, tratta dal reggi-mento Cavalleggeri «Guide» (19°)con inserito un plotone Carabinie-ri, tratto dal 1° reggimento Cara-binieri paracadutisti «Tuscania»;

• un reparto Carabinieri formato daun nucleo di Polizia Militare e dalcitato plotone;

• una compagnia genio guastatori,tratta dal 10° reggimento genioguastatori con due nuclei EOD;

• una compagnia C4, tratta dall’11°reggimento trasmissioni;

• un Gruppo di Supporto di Aderen-za, a livello compagnia, costituitoda moduli tratti dal 1° reggimentodi manovra, dal 6° reggimento dimanovra, dal 10° reggimento tra-sporti, dal battaglione logistico«Ariete» e dal reparto mezzi mobilicampali della Scuola di Ammini-strazione e Commissariato;

• un plotone NBC, tratto dal 7° reg-gimento Difesa NBC;

• un distaccamento operativo incur-sori, tratto dal 9° reggimento para-cadutisti d’assalto «Col Moschin».

ITALFOR si schiera in tre diverselocalità nell’area di Kabul:• il Comando del contingente pres-

ISAFCONTINGENTE «ISAF»

Assetti nazionali impiegati

• Personale impiegato a terra: 360 uo-mini;

• Comando contingente;• una compagnia di sicurezza;• un reparto Carabinieri;• una compagnia genio guastatori;• una compagnia C4;• un G.S.A. a livello compagnia;• un plotone NBC;• un distaccamento operativo incursori.

L’INIZIO

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so il comprensorio dell’Ambascia-ta d’Italia;

• la compagnia di sicurezza in unastruttura del compound del Co-mando ISAF, «Fortino Italia»;

• i supporti tattici e logistici, unita-mente ad aliquote dei contingentibritannico, greco e spagnolo, nellaex caserma sovietica alla periferiaEst di kabul, «caserma 57».

IL COMPITO DI ITALFOR

La compagnia di sicurezza ha il com-pito di garantire la sicurezza del Co-mando della missione ISAF e parteci-pare alla sicurezza degli obiettivisensibili all’interno dell’Area di Re-sponsabilità della Force Protection.La compagnia genio provvede a for-nire supporto diretto al contingente

nazionale e alla Forza multinazionalecon lavori di protezione, di migliora-mento della viabilità, di manutenzio-ne specializzata su strutture di pub-blico interesse in ambito cooperazio-ne civile-militare, nonchè di bonificada ordigni esplosivi.La compagnia C4 gestisce i servizidi telecomunicazione.Il plotone NBC svolge, in cooperazio-ne con un’analoga unità del RegnoUnito, attività di rivelazione chimicae radiologica delle aree, strutture elocali di interesse di ISAF, nonchè de-ve fornire il concorso agli organi sa-nitari nelle operazioni di disinfesta-zione e igienizzazione degli accanto-namenti nazionaliIl mandato iniziale della missionesuccessivamente modificato, vedeoggi ampliato l’impegno della NA-TO nel Paese, in tale ottica l’Italiaha assunto la responsabilità del Re-gional Command West.

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AFGHANISTAN:UNA MISSIONE DIFFICILE

Tra le situazioni di crisi internazio-nale che si sono determinate nelmondo negli ultimi trent’anni, quel-la in Afghanistan ha suscitato forseil maggiore coinvolgimento emotivonell’opinione pubblica mondiale, inrelazione agli eventi che l’hanno de-terminata (attacco alle due Torri ne-gli USA e altri episodi terroristici indiversi Paesi), a causa delle elevaterisorse finanziarie e di personale mi-litare impiegate e considerati i pocorassicuranti precedenti storici, chehanno sempre evidenziato le grandidifficoltà delle operazioni militari inquel Paese asiatico.La Missione in Afghanistan è stataed è tuttora il principale impegnonelle aree di crisi della Comunità in-ternazionale, che esprime in quelPaese, su mandato dell’Organizza-zione delle Nazioni Unite, il mag-giore contingente militare mai di-spiegato nelle operazioni di stabiliz-zazione (circa 140 000 uomini ap-partenenti a 50 Nazioni).L’Italia, che ha partecipato sin dal-l’inizio alla Missione denominataISAF (International Security AssistanceForce), ha offerto un significativo con-tributo in termini di uomini e risorsefinanziarie, ma ha avuto anche il pri-vilegio di assumere la responsabilità

del comando dell’Operazione.Infatti, il Corpo d’Armata di Rea-zione Rapida («Nato Rapid Deploya-ble Corps») di Solbiate Olona, di cuisono stato il Comandante dall’iniziodel 2004 a settembre del 2007, è sta-to chiamato a svolgere per circa unanno (agosto 2005 - maggio 2006) lefunzioni di Comando e Controllo ditutte le Forze militari impegnate inquella Missione di stabilizzazione.

LA «SFIDA» E LA PREPARAZIONE

All’inizio del 2005, l’impegno che ilCorpo d’Armata si accingeva ad af-frontare nel Paese asiatico apparivacome un sfida esaltante, ma pienadi difficoltà.Personalmente, ero consapevole diquelle difficoltà, ma mi inorgogliva ilpensiero che avremmo rappresentatol’Italia in un contesto internazionaleai massimi livelli. Quale Comandan-te dell’Operazione della NATO, avreiavuto alle dipendenze Comandi eForze militari di decine di Paesi di-

versi, nella più complessa operazionesvolta dall’Alleanza, e avrei assuntofunzioni operative nel Teatro, a stret-to contatto con Autorità internazio-nali e con quelle del Paese.Iniziammo, quindi, insieme agli ap-partenenti al Corpo d’Armata, unintenso lavoro di preparazione e diapprontamento, che ci portò a stu-diare a fondo le caratteristiche dellaMissione e che si concluse conl’esercitazione per Posti Comando«Eagle Action». Le procedure d’im-piego da mettere in atto nel Teatroafghano erano finalmente acquisite.

L’IMPATTO CONLE CARATTERISTICHE DEL PAESEE LA SITUAZIONE OPERATIVA

Il confronto con la realtà ci dimo-strò, sin dal nostro primo giorno diattività in Afghanistan (4 agosto2005), come fosse appropriata lascelta di svolgere una preparazionemolto approfondita e giustificata lanostra preoccupazione in merito al-

ISAFUN COMANDANTE ITALIANO A KABUL

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la difficoltà dell’impegno.Il primo aspetto, che ritrovavamonelle attività di tutti i giorni, erarappresentato dalle caratteristichedella popolazione e dalla sua parti-colare suddivisione etnica. Constatammo come fossero misere lecondizioni della gente comune, cheviveva in grande povertà, era colpitain molti casi da gravi malattie, avevaun bassissimo livello di istruzione,aveva patito menomazioni o infermi-tà legate alle vicende belliche.Percepimmo immediatamente inquella gente un senso di forte soffe-renza e quasi di rassegnazione, lega-te ai trent’anni di guerre che il Paeseaveva ininterrottamente vissuto.Ci rendemmo conto immediata-mente come il grande numero delleetnie (oltre 10), dei clan, delle linguee degli idiomi fosse causa di un’ac-centuata differenzazione socialedella popolazione e di uno scarsosentimento di unità nazionale.In questa difficile situazione sociale,economica ed etnica, si inserival’opera disgregatrice dell’estremi-smo religioso che, attraverso i «mo-vimenti talebani», interpretava inmodo strumentale il «Corano» perfini di lotta politica e contro la pre-senza degli stranieri, inducendo tal-volta, in frange di popolazione, at-

teggiamenti circospetti nei confrontidelle Forze internazionali.Un’altra caratteristica del Paese simanifestò subito in tutta la sua deli-catezza e complessità: il traffico del-la droga, di cui avevamo già cono-sciuto gli aspetti durante il periododi preparazione in Italia, ma la cuigravità ci risultò chiara appena arri-vati in Afghanistan.Constatammo come, sul territorioafghano, operasse una ramificata or-ganizzazione criminale dedita a queltraffico, che condizionava la vitadella popolazione e lo sviluppo eco-nomico della Nazione. Una organiz-zazione spesso collusa con le strut-ture criminali locali e con personag-gi di spicco delle diverse regioni, icosiddetti signori della guerra.Tutto ciò determinava, per le Forzeinternazionali, la necessità di contra-stare con determinazione la crimina-lità che alimentava quel traffico, con-trollando le aree dove la droga veni-va coltivata e dove - si immaginava -avrebbe potuto essere successiva-mente raffinata. Al Comando del-l’Operazione, a sua volta, spettava ilcompito di concordare con le Autori-tà afghane le attività di sradicamentodelle coltivazioni di oppio e di coor-dinare con i Comandi subordinati leoperazioni di ricerca e repressione

delle basi dei trafficanti.Ma il rischio a cui, nelle attività ope-rative e nelle situazioni di stasi, do-vemmo immediatamente rivolgerela maggiore attenzione era rappre-sentato dalle minacce e dagli attac-chi terroristici.In Afghanistan, nelle impervie con-trade di confine con il Pakistan enelle aree più inaccessibili del Pae-se, si erano costituite basi di Al Qae-da, composte da afghani e da stra-nieri, che operavano con una moda-lità d’azione fino ad allora scono-sciuta nel Paese: l’attentato suicida.Ad essa si sommavano, in una tragi-ca «escalation» di violenza, gli attenta-ti perpetrati dagli stessi talebani edalla criminalità comune, utilizzandoordigni improvvisati e artigianali.Erano tutte minacce difficilissimeda contrastare e le Forze internazio-nali di ISAF dovettero prendere im-mediata coscienza del fatto che ope-ravano contro un nemico multifor-me, in presenza di rischi continua-mente incombenti.Nel quadro delineato, il mandatodell’ONU stabiliva di sostenere ilGoverno centrale costituito a segui-to delle elezioni del 2004 e agevola-re il consolidamento della sua auto-rità su tutto il Paese. Il PresidenteHamid Karzai doveva poter svolge-re in maniera reale e concreta le suefunzioni.Per assolvere il mandato dell’ONU,la responsabilità della MissioneISAF venne estesa, durante il perio-do del mio comando dell’Operazio-ne, dall’area di Kabul a tutto il Pae-se, che venne ripartito in aree regio-nali assegnate a Comandi a livelloDivisione/Brigata dei maggioriPaesi contributori.La prima area a Nord, con Comandoa Kunduz, era a guida tedesca; la se-conda a Ovest, con Comando a He-rat, a guida italiana; la terza a Sud,incentrata su Kandahar, a guida bri-tannica; la quarta a Est, con Coman-do a Bagram, a guida statunitense.Ad esse si aggiungeva il settore dellaCapitale, a Kabul, in quel periodo an-ch’esso a guida italiana.

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LA FORMAZIONE DELLE FORZEDI SICUREZZA E IL SOSTEGNOALLA POPOLAZIONE

Ma il mandato assegnato alle Forzeinternazionali poneva anche l’accen-to sulla necessità di sostenere le ri-forme essenziali per il progresso de-mocratico del Paese. Di condurre, insostanza, a fianco delle operazionimilitari tradizionali (cinetiche), atti-vità con caratteristiche diverse (noncinetiche), ma ugualmente essenzialiper il pieno successo della Missione.Tra le riforme, una delle più impor-tanti e di esclusiva competenza delComando ISAF era quella relativaalla crescita della capacità operativadelle forze di sicurezza afghane. Eraun compito non facile quello di for-mare l’Esercito e la Polizia, conside-rato che quelle strutture erano statericostituite praticamente dal nullanel 2002 e che, per ottenere i risulta-ti auspicati, bisognava disporre diistruttori preparati e forniti dalleNazioni contributrici.Il Comando dell’Operazione avviòrapidamente la costituzione delle pri-me unità internazionali destinate atale scopo, gli OMLT («OperationalMentoring and Liaison Team») perl’addestramento dell’Esercito, i nu-clei di polizia per la formazione delleomologhe unità afghane e quelli del-la Guardia di Finanza per l’addestra-mento del personale addetto al con-trollo delle Dogane e dei passi confi-nari. Il risultato delle attività di que-sti Organismi per l’addestramento ela formazione fu immediatamenteevidente e grazie a essi le struttureafghane di sicurezza elevarono sensi-bilmente la loro capacità operativa.L’altro aspetto, insito nel mandato esempre ricorrente nelle operazionidi stabilizzazione di aree fortementecolpite dai conflitti, era rappresenta-to dalle attività di ricostruzione del-le infrastrutture e di sostegno allapopolazione. I PRT «Provincial Recostruction Te-am»), unità destinate alla ricostru-zione della società locale impiegan-do sinergicamente potenzialità mili-

tari e delle organizzazioni civili, so-no stati i terminali operativi attra-verso i quali l’Operazione ISAF harealizzato efficacemente il concretoaiuto alla ricostruzione. Un aiutoche si è configurato nella costruzio-ne di scuole e nella realizzazione distrade, pozzi, secondo le esigenzeevidenziate dalle comunità locali.Per quanto attiene al sostegno dellapopolazione, decisi di incentivare leiniziative della cooperazione, otti-mizzando gli aiuti provenienti dal-l’estero e in particolare dall’Italia. Ibeni raccolti, stoccati, controllati espediti in Afghanistan venivanoquindi distribuiti, in un’ottica dioculata ripartizione delle risorse di-sponibili e rispettando chiare priori-tà (scuole, ospedali, famiglie parti-colarmente bisognose).

CONSIDERAZIONICONCLUSIVE SULL’IMPEGNONAZIONALE IN AFGHANISTAN

In conclusione, credo si possa affer-mare, senza tema di smentite, chel’assunzione da parte dell’Italia, perquasi un anno, del comando del-l’Operazione ISAF, una delle mis-sioni più difficili mai condotte dallaNATO, abbia assicurato al nostroPaese grande rilievo, elevandonel’immagine internazionale.Basti al riguardo ricordare che, pro-prio nel periodo di quella «Leader-

ship» italiana e grazie alla sicurezzafornita dalle Forze di ISAF, è avve-nuto l’evento più significativo e piùseguito dall’opinone pubblica mon-diale della storia del «nuovo» Afgha-nistan: le elezioni parlamentari chehanno permesso al Paese di avere,dopo oltre trenta anni, un Parlamen-to democraticamente eletto.Credo ancora che il Comando dellaMissione, espressione del modo dioperare italiano, abbia fortemente in-fluito, pur nel pieno rispetto dei com-piti assegnati dalla NATO, sulla con-dotta dell’Operazione, a cui parteci-pavano uomini e donne di 40 Paesidiversi. Una condotta caratterizzatadal peculiare «approccio» nazionale aidifficili compiti della stabilizzazionedi aree di crisi. Un «approccio» che sicontraddistingue per la grande atten-

zione alla cultura dei Paesi ospitanti,alle loro tradizioni e ai loro costumi e,soprattutto, per il riguardo della di-gnità delle persone con cui si viene acontatto. Un «approccio» che tanti ri-conoscimenti ha sempre assicurato al-l’Italia, da parte delle popolazioni del-le aree da stabilizzare e delle Autoritàmilitari e civili internazionali.

Mauro Del VecchioGenerale di Corpo d’Armata,

Senatore della Repubblica,già Comandante

dell’Operazione ISAF in Afghanistan

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L’Italia ha partecipato alle operazioniterrestri in Afghanistan nella lottacontro il terrorismo internazionale,nell’ambito dell’Operazione «Endu-ring Freedom», con un Contingente,«Nibbio», di 1 000 uomini (e donne)nel periodo febbraio-settembre 2003.La durata della missione è stata di180 giorni dal Trasferimento di Auto-rità (ToA – Transfer of Authority), av-venuto il 15 marzo 2003, con una tur-nazione delle forze a metà periodo.Al Contingente «Nibbio 1», su baseBrigata Alpina «Taurinense», si è al-ternato il 15 giugno 2003 il Contin-gente «Nibbio 2», su base BrigataParacadutisti «Folgore».Il Contingente «Nibbio 1» è rientra-to in Patria alla fine di giugno 2003,

dopo oltre quattro mesi di perma-nenza in Afghanistan e dopo tremesi di controllo della Provincia diKhost al confine con il Pakistan, aragione considerata una delle piùturbolente del Paese.

ORIGINE DELLA MISSIONE

L’Operazione «Enduring Freedom» èstata avviata dagli Stati Uniti nell’ot-tobre 2001, a seguito degli attacchiterroristici dell’11 settembre 2001,sulla base di una serie di Risoluzionidel Consiglio di Sicurezza delle Na-zioni Unite (1) che ne focalizzavanogli scopi alla stabilizzazione e alla ri-costruzione dell’Afghanistan sotto illegittimo Governo.L’Operazione s’inseriva nel quadrodella guerra globale contro il terrori-smo internazionale (Global WarAgainst Terrorism/GWAT) e impegna-va una Coalizione di oltre 70 Paesi.Il Comando dell’Operazione era affi-dato al Central Command USA(USCENTCOM) (2) in Tampa (Flori-da, USA), dove erano rappresentaticirca 40 Paesi dei 70 della Coalizione,mentre oltre 20 erano presenti contruppe o altri assetti nell’Area di Re-sponsabilità (AoR) di CENTCOM.L’Operazione «Enduring Freedom»prevedeva quattro fasi: FASE I: pia-nificazione e schieramento delle for-ze nell’AoR di U-SCENTCOM; FA-SE II: campagna aerea in Afghani-stan contro obiettivi d’interesse, at-tività umanitarie, sup-porto all’Alle-anza del Nord e capitolazione delregime talebano; FASE III: impiegodi unità a terra per neutralizzare leformazioni terroristiche ancora pre-senti in Afghanistan, dichiarazione di

«cessate il fuoco», avvio della pacifi-cazione e stabilizzazione del Paese;FASE IV: impiego di unità a terra perprevenire il riemergere del terrorismo,supportare le operazioni umanitarie eprovvedere all’addestramento del-l’Esercito Nazionale Afghano (AfghanNational Army/ANA).In Afghanistan era stato costituitodagli USA un Comando di Teatrodel livello di Corpo d’Armata consede a Bagram (60 km a NE di Ka-bul), denominato Combined JointTask Force (CJTF) 180.L’intervento italiano si è inseritonella fase di transizione tra la III e laIV fase dell’Operazione.La fase IV è stata dichiarata dal Se-gretario per la Difesa statunitense il1° maggio 2003 a Kabul che, nell’oc-casione, aveva formalmente annun-ciato il termine della guerra in Af-ghanistan.In Afghanistan, oltre ai contingentiimpegnati nell’Operazione «Endu-ring Freedom», era presente nellostesso periodo una Forza Multina-zionale di circa 5 600 militari dellamissione ISAF (International SecurityAssistance Force) che, in ottemperan-za alla Risoluzione 1386 del 20 di-cembre 2001 del Consiglio di Sicu-rezza delle Nazioni Unite (3), si eradispiegata nell’area di Kabul (4).Il trasferimento in Teatro, effettuatoesclusivamente per via aerea, è ini-ziato il 9 gennaio 2003 con un’ali-quota di personale (Advance Party)incaricata di porre in essere l’attivi-tà organizzativa necessaria per lasuccessiva immissione del grossodelle forze.Lo spiegamento, supportato dal tra-sporto aereo strategico statunitense,si è concluso il 27 febbraio con 16

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IL VOLO DEL NIBBIOLA MISSIONE DEL CONTINGENTE «NIBBIO 1»

IN AFGHANISTAN, NEL 2003

CONTINGENTE «NIBBIO»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 1 000 uomini e donne;• Comando contingente nazionale;• Task Force «Nibbio 1» articolata su:

•• Comando Task Force;•• un battaglione alpini articolato su:

••• due compagnie alpini;••• una compagnia alpini para-

cadutisti;••• una compagnia mortai pe-

santi da 120 mm;••• una compagnia controcarri;••• un plotone Forze Speciali;••• un Gruppo di supporto di

aderenza;••• una compagnia genio con

capacità EOD;••• una batteria acquisizione

OBJ;••• un plotone NBC;••• un plotone Carabinieri.

Rivista Militare

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missioni di C-130 J italiani e 68 mis-sioni di C-17 USA.Il 15 marzo 2003 il Contingente, do-po circa un mese dedicato all’am-bientamento e alla familiarizzazionecon le procedure statunitensi, ha as-sunto la responsabilità della provin-cia di Khost, rilevando un battaglio-ne di paracadutisti statunitense, edè passato alle dipendenze operativedel Comandante US della CJTF 180.

L’AREA DI OPERAZIONI

Il Comando Contingente era situatoa Bagram, in una delle due princi-pali basi USA nel Paese (unitamentea Kandahar nel sud), con una com-ponente logistica e una limitata ri-serva operativa, mentre la compo-nente operativa – Task Force (TF)«Nibbio» – era dislocata a Khostnella parte orientale dell’Afghani-stan, al confine con il Pakistan, nellacosiddetta «Sanctuary denial area».Khost risultava il principale avam-posto della Coalizione in territoriopotenzialmente ostile, da doveesercitare la presenza e condurreoperazioni finalizzate al controllodel confine pachistano, utilizzatodai terroristi per infiltrarsi in Af-ghanistan.L’AoR della TF «Nibbio» compren-deva la Provincia di Khost e granparte di quella di Paktya (5), avevauna superficie di circa 9 000 km2

(pari alle Marche) e con 506 000 abi-tanti (orientativamente).La Provincia di Khost è un’area pre-valentemente montuosa, già seded’importanti centri di addestramen-to di Al Qaeda che, confinando conil Pakistan, si prestava a dare rifu-gio ai leaders ricercati.L’AoR era caratterizzata da una no-tevole complessità per l’aspra confi-gurazione del territorio, le notevolidistanze, il pessimo stato delle lineedi comunicazione (caratterizzate daforti pendenze, strettoie, gole e trattiin soggezione di quota), che deter-minavano una spinta compartimen-tazione della regione.

La regione è contraddistinta da dueampi bacini intermontani posti aquote differenti (Gardez, 2 300 m eKhost, 1 200 m), separati da unaprofonda barra montuosa con rilieviche superano anche i 3 000 m (quotamedia 2 270 m).L’area è attraversata dalle direttricidi collegamento con il Pakistan, al-ternative a quelle principali più asettentrione della valle del Kabul(Jalalabad-Khyber pass).

Il clima è di tipo continentale, secco,caldo in estate e con inverni freddi. Khost (detta anche Matun in lingualocale) è collegata via terra con Ba-gram, via Gardez-Kabul, daun’unica rotabile di difficile per-corribilità per le sue limitate capa-cità (specie d’inverno) e per il per-corso che si snoda in fondo valli oa mezza costa, rendendo molto ri-schioso il suo utilizzo da parte dicolonne militari (6).

COMPOSIZIONEDEL CONTINGENTE

Il contingente «Nibbio», di circa 1 000uomini e donne, si articolava su: Co-mandante del contingente nazionale(National Contingent Commander –NCC), che agiva come massima au-torità nazionale per l’intero Teatroafghano, dal quale dipendevano leforze italiane schierate sia per

l’Operazione «Nibbio» sia per ISAF;Comando contingente nazionale,basato sul Comando Brigata Alpina«Taurinense»; TF «Nibbio 1», incen-trata sul 9° reggimento Alpini(L’Aquila) della Brigata Alpina«Taurinense», con capacità operati-ve diversificate grazie alla presenzadi vari assetti specialistici.La TF «Nibbio 1» era articolata, asua volta, su: Comandante del 9°reggimento Alpini; Comando 9° rgt.Alpini; battaglione Alpini «L’Aqui-la» su 2 compagnie fucilieri, 1 com-pagnia Alpini Paracadutisti, 1 com-pagnia mortai pesanti da 120 mm, 1compagnia controcarro, 1 plotoneAlpieri, reparto di Forze Speciali,Gruppo Supporto di Aderenza(GSA), 1 compagnia trasmissioni, 1compagnia genio con capacità Ex-plosive Ordnance Devices (EOD), 1batteria acquisizione obiettivi, 1plotone NBC (7), 1 plotone di Poli-zia Militare.Per il Contingente, per la prima vol-ta dal dopoguerra (ad eccezionedella prima missione in Libano -1980), era in vigore il Codice PenaleMilitare di Guerra (CPMG), ulte-riormente adeguato al dettato costi-tuzionale con la conversione in Leg-ge del Decreto Legge 4/2003.

COMPITIDEL CONTINGENTE «NIBBIO»

La TF «Nibbio» (circa 750 uomini)era schierata in una Base OperativaAvanzata del dispositivo della Coa-lizione, sita ad alcuni chilometridalla città di Khost, denominata Fo-ward Operative Base (FOB) «Salerno»(dal nome della località campana incui hanno combattuto i reparti della82a Divisione Paracadutisti statuni-tense nel settembre 1943) (8).La FOB «Salerno», provvista di stri-scia di atteraggio, era isolata, tatti-camente e logisticamente, dai rima-nenti presidi della Coalizione, so-prattutto dalla Base arretrata italia-na di Bagram, distante circa 300 km(2 giorni di viaggio).

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A circa 3 km dalla FOB il contin-gente presidiava un’altra basepresso l’ex aeroporto (russo) diKhost, denominata «Chapman»,dove esiste una seconda striscia diatterraggio.Annessa alla Base era dislocata la«fire base» con la componente a tirocurvo, costituita dalla 119a compa-gnia mortai del 9° reggimento alpi-ni, che con 6 mortai ThomsonBrandt da 120 mm RT-F1 concorre-va alla sicurezza sia della FOB siadel distaccamento di «Chapman»,fornendo il sostegno di fuoco a girod’orizzonte.Il reparto doveva, inoltre, assicurareanalogo supporto alle pattuglie che simuovevano in aree o lungo itinerarientro il raggio d’azione del munizio-namento disponibile, nonché sup-portare i reparti della Task Force im-pegnati in attività operative/umani-tarie nell’AoR.La missione assegnata al contingenteera di concorrere con gli altri Paesidella Coalizione alla neutralizzazioneed eliminazione delle residue forma-zioni terroristiche, delle loro possibilibasi logistiche e dei centri di adde-stramento ancora presenti nell’areadi responsabilità, al fine di creare lecondizioni di sicurezza e stabilità ne-cessarie alla riedificazione dell’ordi-namento afghano e al ristabilimentodel suo legittimo ordine interno.Ancorché l’intervento italiano si sia

inserito nel momento di transizionedalla III alla IV fase della Operazio-ne «Enduring Freedom», quando lapresenza di terroristi era ridotta asacche di combattenti senza soluzio-ne di continuità, il compito assegna-to alla TF presupponeva la condottadi operazioni di controllo del terri-torio e d’interdizione d’area, me-diante attività sia dinamiche sia sta-tiche di temporaneo presidio di areesensibili, per negare la libertà dimovimento agli avversari e impedi-re infiltrazioni dal Pakistan.Le attività dinamiche miravano, conuna diffusa presenza sul territoriodi pattuglie e complessi di forze iti-neranti, da un lato, a raccogliere in-formazioni e a ostacolare la libertàdi movimento dei gruppi armati,dall’altro, a intensificare il contattocon la popolazione, anche attraver-so la distribuzione di aiuti e inter-venti di ricostruzione e di sostegnoalle istituzioni locali.Le attività si sono sviluppate spessoin ambienti particolarmente aspri,su valichi e sentieri che raggiunge-vano anche quote di 3 000 m, dovel’altitudine rallentava i movimenti erendeva difficile la respirazione.

L’AVVERSARIO

Le forze ostili, definite genericamen-te ACM (Anti Coalition Militant), era-no composte da differenti gruppinon omogenei tra loro quali contrab-bandieri, trafficanti di droga e di al-tro (armi, ecc.), nonché banditi co-muni dediti alla rapina e al sequestrodi persone per ottenere il riscatto, e –naturalmente – da residue formazio-ni di Talebani e di Al Qaeda.Queste ultime erano composte siada elementi locali sia da altri prove-nienti dai Paesi abituali fornitori di«manovalanza», quali mercenari,ceceni e «arabi» (termine con il qua-le in maniera generica venivano in-dicati i mediorientali).La tattica adottata dall’avversarioera quella della guerriglia e l’azionepiù ricercata era l’imboscata, che

meglio si adattava al territorio, al-l’armamento e alle tecniche utilizza-te dal nemico (mitragliatrici pesanti,armamento leggero, attentati).Per il contingente la minaccia piùimmanente era costituita da azionicondotte contro forze impegnate inmovimenti esterni con armi leggere,lanciarazzi controcarro RPG 7, lan-cio di bombe a mano e/o ordigni at-tivati a distanza lungo le rotabili el’uso di razzi da 107/122 mm e mor-tai contro le Basi della Coalizione.La maggiore letalità del nemico eranelle fasi iniziali degli ingaggi/com-battimenti per la sua agilità tattica acolpire e sganciarsi rendendosiobiettivo estremamente dinamico edifficile da agganciare.La presenza, entro il raggio di 30km dalla FOB «Salerno», dei santua-ri dei terroristi in Pakistan alzava illivello di minaccia poiché era alta-mente remunerativo lanciare un at-tacco con la quasi certezza di nonsubire una ritorsione.L’incremento della minaccia localeera potenzialmente più aggressivanella stagione estiva, quando gli av-versari risultavano agevolati nei mo-vimenti appiedati anche in alta quo-ta, e ha richiesto l’adozione di op-portune contromisure, quali evitarel’individuazione da parte del nemicodelle differenti specialità componen-ti della TF, effettuare un piano dipattugliamento aperiodico, ridurreper quanto possibile le attività diroutine, esercitare un maggior con-trollo nelle aree prossime alla base,incrementare l’osservazione dell’am-biente circostante ai presidi.

CONSIDERAZIONI

Il contingente, oltre a pattugliarequotidianamente l’AoR di compe-tenza, sia di giorno sia di notte, neitre mesi di responsabilità ha con-dotto diverse Operazioni di control-lo del territorio, spesso congiuntecon reparti statunitensi, in un terri-torio dove la guerriglia è praticataper secoli.

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Particolarmente significative sonostate due grandi operazioni effet-tuate con le unità USA della TF «De-vil»: la «Unified Venture» e la «Dra-gon Fury». Catalogate come «CombatOperations», ovvero pianificate erealizzate tenendosi in misura dipassare a una fase cruenta, con esse,per la prima volta, truppe italianesono tornate a operare a quote ele-vate, sui 2 500-3 000 metri di altitu-dine, allo scopo di «sigillare» il con-fine con il Pakistan e interdirne i va-lichi di montagna.Nelle stesse operazioni, inoltre, èstata utilizzata per trasferimenti sugrandi distanze la tecnica delGround Assault Convoy (convogliod’assalto terrestre) derivante dalleesperienze sovietiche nello stessoTeatro operativo (9).Con l’Operazione «Unified Venture»,condotta durante i primi giorni delmese di maggio 2003, è stato effet-tuato il primo avioassalto a livellobattaglione nella storia dell’EsercitoItaliano (10).Uno dei protagonisti della missione«Nibbio 1» è stato il mortaio Thom-son Brandt da 120 mm RT-F1, il cuiimpiego nel Teatro afghano è statoil primo in operazioni per quanto ri-guarda l’Esercito Italiano.La «relativa» leggerezza dell’arma,abbinata alla potenza derivante dalcalibro e dalla varietà di munizio-namento nonché alla possibilità diricorrere all’elitrasporto, hanno fat-to del mortaio la sorgente di fuocoa tiro curvo più appropriata per lamissione del contingente, in gradodi raggiungere con estrema preci-sione obiettivi posti fino a 13 km didistanza.Un altro protagonista della missio-ne «Nibbio 1» è stato il C-130 J del-l’Aeronautica Militare Italiana che,per la prima volta, è atterrato in zo-na di operazioni su di una pista interra battuta semipreparata, comeera quella di Khost per garantiredalla metà del mese di maggio i volidi resupply da Bagram a Khost (e vi-ceversa).In questa attività si sono particolar-

mente distinti per perizia professio-nale, determinazione e ragionatavalutazione del rischio gli equipag-gi dell’Aeronautica Militare, chehanno sempre garantito un soste-gno aderente alle esigenze.Le Regole d’Ingaggio (RoE) e le mi-sure di protezione (Force Protection)adottate hanno assicurato la correttacornice comportamentale entro laquale i militari hanno potuto agirecon chiari riferimenti normativi e disicurezza.La missione era stata preparata concura in Patria sotto ogni aspetto percercare di ridurre al minimo gli im-previsti in Teatro.La scelta del personale, la prepara-zione individuale e dei reparti è sta-

ta accurata e approfondita.I militari hanno effettuato in Patriaun programma addestrativo finaliz-zato sia al potenziamento dell’effi-cienza fisica e delle capacità operati-ve individuali sia alla preparazionedi reparto all’ambiente e al compitoda assolvere sia, infine, all’amalga-ma tra i vari assetti per raggiungereuna adeguata omogeneità nel Con-tingente.La disponibilità di equipaggia-mento tecnologico all’avanguar-dia, soprattutto quello individuale,ha consentito di conseguire la ca-pacità di muovere e combattere«ognitempo», senza interruzionedel ritmo delle operazioni, sfrut-

tando, soprattutto, l’incapacità del-l’avversario di fare altrettanto afronte di una sua maggiore cono-scenza del terreno.Se è vero che nella guerra sovietico-afghana, i «padroni» della notte era-no i mujhaeddin, la situazione di og-gi si è ribaltata; i veri «padroni» del-la notte sono gli uomini che possie-dono gli strumenti per vedere ecombattere causando perdite al ne-mico prima di essere individuati.Per assurdo, è l’ambiente diurno aessere più insicuro perché negaquelle capacità tecnologiche metten-do i guerriglieri sullo stesso pianodei reparti occidentali.I rapporti con gli Alleati, sostanzial-mente limitati agli statunitensi, sisono sempre mantenuti su un pianodi reciproca fiducia e rispetto: gliuomini e le donne di «Nibbio 1»,hanno riscosso la stima e la conside-razione dei soldati statunitensi con iquali hanno operato fianco a fianco.Sono risultati di fondamentale im-portanza, oltre al grado rivestito, al-la professionalità, la conoscenzadelle procedure e della lingua ingle-se, date per scontate in ambito mul-tinazionale, la capacità di instaurarebuoni rapporti interpersonali a tuttii livelli.Il Contingente ha subito nell’arcodei tre mesi di responsabilità dellaProvincia di Khost numerosi attac-chi che, comunque, non hanno pro-vocato nessun danno al personale,infrastrutture e mezzi: FOB «Saler-no»: 3 attacchi, con lancio di razzida 107/122 mm e con ordigni radio-comandati; base di «Chapman»: 7 at-tacchi, con lancio di razzi da 107mm e con un’autobomba; personaledella TF «Nibbio 1»: 2 attacchi conarmi automatiche e lancio di bombea mano.

CONCLUSIONI

La missione «Nibbio» ha costituitouna «svolta» nell’impiego delle For-ze Armate, in quanto i Soldati italia-ni hanno partecipato per la prima

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volta dalla fine della Seconda guer-ra mondiale a una missione combatdi controguerriglia, risultata (sinoad allora) una delle più complesse erischiose affrontate per il livello diminaccia costantemente elevato,l’aspra configurazione del territorio,le notevoli distanze dalla madrepa-tria, il pessimo stato delle linee dicomunicazione.I risultati non si sono misurati nel-la quantità di avversari neutraliz-zati o nel numero di armi seque-strate, ma bensì nel numero dieventi negativi che non si sono ve-rificati nell’area sotto il controllodella Task Force «Nibbio 1», qualeconferma del livello di stabilizza-zione conseguito.Coscienti della missione assegnata econsapevoli dei rischi e della minac-cia da affrontare, i soldati hanno as-solto i propri compiti con grandeprofessionalità e determinazione,dando prova di non comune capaci-tà di adattamento in un ambienteostile e non solo per la presenza av-versaria, senza mai registrare cali ditensione.Consapevoli dei rischi da affronta-re, sono andati giornalmente sul ter-reno per verificare la situazione, in-contrare la popolazione, guada-gnandosi la loro fiducia e il rispetto,mostrando un’elevata capacità dicombattimento e una credibile forzadissuasiva.Lo strumento a disposizione perfronteggiare queste difficoltà è statola preparazione, la forza di volontà,la fierezza e l’onore di rappresenta-re l’Italia in ambito internazionale:le situazioni affrontate hanno richie-sto coraggio fisico, fermezza d’ani-mo ed equilibrio interiore.Essi hanno provato emozioni forti esi sono confrontati con un ambienteostile, e non solo per i rigori deltempo o per l’asprezza dei luoghi,ma anche e soprattutto per le situa-zioni affrontate.Le sei «Alpine» presenti nel contin-gente (primo impiego di donne al-l’estero), non hanno manifestato al-cuna difficoltà d’ambientamento e

di assolvimento dei compiti loro as-segnati, caratterizzandosi per unamotivazione sicuramente al di so-pra della media.Gli Alpini del contingente, che co-stituivano oltre la metà della forzae la componente principale dei re-parti di manovra, hanno dimostra-to, nella missione «Nibbio 1», laconsueta versatilità d’impiego e ac-centuata autonomia operativa dellaspecialità, che li ha portati a opera-re negli oltre 140 anni di storia intutti gli scenari dove è stato prota-gonista l’Esercito Italiano: dal-l’Africa Orientale a quella Setten-trionale, dalle Alpi ai Balcani, dallaCina alla Russia.

Giorgio BattistiGenerale di Corpo d’Armata,

Comandante del NATORapid Deployable Corps (Italy),

già Comandantedel contingente «Nibbio 1»

NOTE

(1) Tra cui la n. 1368 (12 settembre 2001)e la n. 1373 (28 settembre 2001).(2) L’area di responsabilità di USCEN-TCOM comprendeva: Afghanistan,Egitto, Sudan, Gibuti, Kenya, Etiopia,Eritrea, Somalia, Seychelles, Arabia Sau-dita, Giordania, Bahrein, Kuwait,Oman, Qatar, Emirati Arabi Uniti, Ye-men, Iran, Iraq, Kazakistan, Kirghizi-stan, Tagikistan, Turkmenistan, Uzbeki-stan e Pakistan.(3) Risoluzioni n. 1378 e n. 1383 relative,rispettivamente, all’accordo di Bonnsull’istituzione di un’Autorità ad Interime all’impegno internazionale ad assicu-rare protezione e sicurezza territoriale eRisoluzione n. 1386, che autorizzava ildispiegamento dell’ISAF.(4) ISAF agiva sotto il capitolo VII dellaCarta delle Nazioni Unite, con il compi-to di assistere l’«Autorità Afghana ad In-terim», insediata a Kabul il 22 dicembre2001, a mantenere un ambiente sicuronella città di Kabul e nelle aree limitro-fe, nel quadro degli Accordi di Bonn (5dicembre 2001). Il Comando dell’opera-

zione ruotava su base semestrale.(5) La suddivisione in due province diquesta regione del Paese è la stessa at-tuata al tempo dell’invasione sovietica;durante il regime talebano, infatti, lestesse furono unificate nella Paktya conGardez capoluogo.(6) All’epoca dell’occupazione sovieticala provincia di Khost è stata scenario diprolungati e violenti scontri, dove laguarnigione russa/afghana era presso-ché isolata dalla guerriglia. La rotabiledi collegamento con Gardez era quasicostantemente non agibile per le consi-stenti interruzioni effettuate dai mujha-eddin alla sede stradale.(7) La presenza del plotone NBC è unacostante in ogni contingente impegnatoall’esterno del territorio nazionale, so-prattutto a scopo precauzionale, per lapreventiva verifica delle aree di schiera-mento dei reparti da qualsiasi tipo dicontaminazione ambientale di naturasia bellica sia industriale, in luoghi dinorma particolarmente degradati da an-ni di conflitto, per attività di rivelazionechimica e radiologica di tutte le aree,strutture e locali d’interesse militare,con particolare attenzione agli accanto-namenti e alle aree presidiate dal perso-nale nazionale.(8) La FOB è un campo fortificato concondizioni di estrema rusticità dove laqualità della vita e le comodità sonotrattate in subordine rispetto alle priori-tarie esigenze di sicurezza che, secondola concezione statunitense, le unità oc-cupano a rotazione per un periodo ditempo limitato per condurre operazionisul territorio circostante.(9) Pattuglie motorizzate in grado dimuovere in piena autonomia su lunghipercorsi, nella generalità dei casi nonstradali, in territorio ostile o potenzial-mente ostile.(10) L’avioassalto, quando effettuato inscenari caratterizzati da difficoltà dimovimento via terra, tipici di regionimontagnose e prive di rete stradale co-me l’Afghanistan, è una delle tattichemigliori per condurre azioni indipen-denti e di sorpresa contro avversari checonoscono il territorio e hanno le lorobasi in località remote e difficilmenteraggiungibili.

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A seguito degli agghiaccianti atten-tati suicidi dell’11 settembre 2001,considerati dalla comunità interna-zionale un vero attacco al cuore de-gli Stati Uniti, si dava inizio alla co-siddetta «Global War On Terrorism»(GWOT), complesso di iniziative at-te a combattere e debellare il terrori-smo internazionale. Tra queste, di ri-lievo per gli effetti che ne sono deri-vati, la lotta ai cosiddetti Stati cana-glia che, dopo l’intervento in Afgha-nistan, nel 2003 spinse gli Stati Unitia dare avvio all’operazione «IraqiFreedom» per destituire SaddamHussein, accusato di possedere armidi distruzione di massa e di appog-giare il terrorismo internazionale.Dopo l’aspro dibattito accesosi in se-no alla comunità internazionale perle forti perplessità sulla reale utilitàdi un simile intervento, gli Stati Unitiriuscirono a coagulare intorno a lorouna coalizione militare internaziona-le che, in tempi brevissimi, portò allacaduta del regime. Gli Alleati, primaancora di quanto previsto nelle loropiù ottimistiche previsioni, si trova-rono, quindi, di fronte, al problemadella ricostruzione del Paese e del ri-pristino di condizioni di vita accetta-bili per una popolazione oramai stre-

mata da oltre trent’anni di dittatura,costellati, tra l’altro, da numerosiconflitti, alcuni dei quali estrema-mente cruenti.È questo il contesto in cui si inqua-dra l’intervento militare italiano,motivato dalla consapevolezza delGoverno italiano di non poter esi-mersi dall’obbligo di unirsi all’azio-ne degli Organismi Internazionaliimpegnati nella rinascita dell’Iraq enella pacificazione dell’area.L’8 giugno 2003, i primi militari delContingente nazionale si schieraro-no nella Provincia di Dhi Qar (ilcontrollo della Provincia passò defi-nitivamente sotto la responsabilitàitaliana il successivo 15 luglio) peraffrontare la nuova sfida che si pre-sentava di estrema complessità connotevoli insidie sia di carattere ope-rativo sia culturale.

IL COMANDODEL CONTINGENTE

La decisione nazionale fu quella dicostituire un contingente joint (di-

verrà combined con l’inserimentodelle truppe rumene nell’ambitodella stessa Provincia di Dhi Qar),senza avvalersi di una strutturapreesistente. Il Comando, con com-piti di Senior National Rappresentati-ve (SNR), costituiva l’interfaccia conil Quartier Generale della Divisionebritannica schierata a Bassora, re-sponsabile della MultiNational Divi-sion South East (MND-SE).Al SNR facevano capo le responsa-bilità del supporto logistico ammi-nistrativo della Brigata, schierata adAn Nasiriyah, che, su base Brigatabersaglieri «Garibaldi», comprende-va unità terrestri e aeree, come pureun reggimento Carabinieri e assettispecialistici della Croce Rossa.Dal Comando Joint, inoltre, dipende-vano nave «San Giusto», integratanel dispositivo alleato operante nelmare arabico, oltre a due dragaminee, per alcune settimane, due pattu-gliatori.Come accennato, il comando joint fucostituito ad hoc con personale dellediverse Forze Armate che, concen-trato inizialmente presso il Coman-

«ANTICA BABILONIA»

«ANTICA BABILONIA»

Assetti nazionali impiegati

• Personale: circa 3 000 uomini e donne;• una Brigata rinforzata con elementi

interforze, specialistici, pluriarma,sanitari e della Croce Rossa;

• una componente aeromobile cuihanno partecipato Marina, Aero-nautica ed Esercito;

• una componente navale della Mari-na Militare.

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do Operativo di Vertice Interforzeper un breve periodo di amalgama,si schierò in Teatro il 27 giugno2003, inizialmente a bordo di Nave«San Giusto» e, appena ultimate lestrutture a terra, in un’area deserticanei pressi dell’aeroporto di Bassora,inserita nel dispositivo di sicurezzabritannico.

STRUTTURA DEL CONTINGENTE

La forza comprendeva: un ComandoBrigata schierato nella base di «WhiteHorse»; un’unità di manovra di livel-lo gruppo tattico su base 18° reggi-mento bersaglieri, il cui Comandoera schierato a «White Horse», mentrealcune unità minori erano schieratesu numerose basi distribuite sul ter-ritorio. Il gruppo tattico includeva:una compagnia del reggimento «SanMarco», una Compagnia del reggi-mento lagunari «Serenissima», unosquadrone blindo «Centauro» delreggimento «Guide» (19°); un reggi-mento MSU dei Carabinieri; un’uni-tà di supporto logistico su base 6°REMA, schierata a «Family Quar-ters»; un’unità genio su base 21° reg-gimento, anch’essa schierata a «Fa-mily Quarters»; una compagnia di di-fesa NBC; un reparto elicotteri (nelle

fasi iniziali dell’operazione, la com-ponente elicotteri fu fornita alternati-vamente dall’Aeronautica Militare edalla Marina Militare); un’unità CI-MIC, su base Cimic Group South.Si è trattato di un contingente che,per una serie di ragioni, presentavasostanziali differenze rispetto alleprecedenti, recenti esperienze opera-tive delle Forze Armate italiane. Inprimis la composizione interforze, tal-volta inusualmente adottata ancheper formazioni di livello inferiore aquello del reggimento.Anche la concentrazione degli sfor-

zi nazionali in un’unica Provinciacostituiva una novità operativa, mo-tivata dall’esigenza di garantire unamaggiore visibilità nazionale ed evi-tare il frazionamento degli sforzi.

LINEE OPERATIVE

La missione ricevuta: «IT JTF will con-duct security and stabilization operations(SASO) within assigned AoR, accordingto UNSCR 1483, in order to create thenecessary condition of security and stabi-lity to allow the incoming and distribu-tion of HA and the country reconstruc-tion», comprendeva una serie di «li-nee di operazione», inizialmente assi-curate in toto dalle forze militari atte-sa l’assenza del preposto Coalition

Provisional Team (CPA), indiscutibil-mente tutte orientate allo sforzo perconsentire alle autorità locali di rag-giungere al più presto condizioni diautonomia gestionale, parallelamen-te a migliori condizioni di vita.La zona risultò fra le più stabili del-l’Iraq, almeno fino al tragico atten-tato del 12 novembre che comportòuna profonda revisione dell’approc-cio del contingente nazionale.

Hite Horse nella sua fisionomia iniziale(luglio 2003).

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LA MINACCIA

La situazione nel Paese era alta-mente dinamica. Gli attacchi terro-ristici all’Ambasciata giordana (7agosto 2003), all’edificio dell’ONUin cui perse la vita il rappresentan-te a Baghdad (16 agosto 2003) e al-l ’Ambasciata turca (14 ottobre2003), scossero la comunità inter-nazionale e rappresentarono lachiara evidenza che il livello ditensione poteva estendersi a mac-chia d’olio.Anche la componente sciita venneduramente colpita con sanguinosi at-tentati, quali l’autobomba di An Na-jaf (29 agosto 2003) alla moschea del-l’Imam Ali, in cui perse la vita l’Aya-tollah Baqr Al Hakim al termine del-la preghiera settimanale, e l’attentatoad Akila al Astemi (che morì il 25 set-tembre 2003 ) neo eletta nel GovernoProvvisorio iracheno.Erano tutti indizi che il sentimentodi opposizione alle forze occidentalistava crescendo e che le capacità or-ganizzative delle forze dell’insor-genza stavano affinandosi sempredi più.Nelle Provincie del Sud, e in parti-colare a Dhi Qar, la situazione erasempre stata relativamente sottocontrollo (anche se con il passaredel tempo le condizioni di sicurez-za si andarono a deteriorare), piùche nel Nord, ove in particolare siricordano i cruenti combattimentinel cosiddetto triangolo della mor-te di Falluja-Baghdad-Tikrit.È questa la classica situazione cheavvalora il noto concetto britannicodi «battle for hearts and minds». Allorché era stato possibile garan-tire idonee condizioni di sicurezzae il funzionamento dei servizi es-senziali, il consenso della popola-zione si era mantenuto su livellielevati. Quando le condizioni di si-curezza, deteriorandosi, avevanolimitato lo sviluppo delle lineeoperative più propriamente CI-MIC, tale consenso si è rapidamen-te ridotto, favorendo il riemergeredelle forze insorgenti.

SECURITY SECTOR REFORM

La «linea di operazione» security pre-vedeva, tra l’altro, la riforma del si-stema di sicurezza e, soprattutto,l’addestramento delle forze di sicu-rezza locali.In particolare, la previsione eraquella di costituire ex novo l’Esercitoe le forze di polizia, nonché di rior-ganizzare le molteplici compagniedi sicurezza.Il progetto, di strategica rilevanza inquanto avrebbe consentito di reim-piegare proficuamente i resti delledisciolte Forze Armate irachene li-mitandone il passaggio nei ranghidell’insorgenza, fu possibile solograzie alla versatilità del contingen-te nazionale.Fondamentale fu, al riguardo, il ruo-lo del reggimento Carabinieri che fe-ce conseguire alle locali forze di poli-zia ottimi standards di efficienza eoperatività grazie a un programma,sviluppato su più livelli, che preve-deva il mentoring presso i maggioricentri di comando, come pure un’at-tività di prossimità presso le differen-ti stazioni di polizia sul territorio.Lo stesso sforzo condotto dalle uni-tà dell’Esercito nei confronti del co-stituendo Esercito iracheno costituìmotivo di vanto nel contingente

multinazionale e rappresentò l’ele-mento cardine della successiva exitstrategy nazionale nel 2006, allorchègli fu affidata la responsabilità ope-rativa della Provincia di Dhi Qar.Quello della riforma e dell’aderentesostegno nella crescita dell’apparatodi sicurezza locale costituirà una del-le costanti dell’operato delle ForzeArmate nazionali in operazioni dipace. Avviato embrionalmente già inKosovo a favore delle milizie cheavevano operato contro le forze ser-be, in Irak il progetto iniziò ad assu-mere quella sistematicità che risultòdi altissima efficacia nell’ambito dellastrategia posta in essere dall’Italianelle operazioni.

ATTIVITÀ CIMIC

Anche la linea di operazione «servi-zi essenziali» rivestiva una crucialeimportanza per l’operato del contin-gente nazionale, in quanto funzio-nale al soddisfacimento dei servizibasici al popolo iracheno che, spes-so, confrontava il livello di qualitàdi vita garantito dalla Coalizionecon quello dei tempi del regime diSaddam Hussein.Molteplici furono i campi che ri-chiesero l’impiego dei militari; fra i

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tanti giova ricordare quelli del-l’energia elettrica, della distribuzio-ne dell’acqua potabile e della sanità.Un esempio particolare fu quello deicombustibili. Nonostante possa sem-brare assurdo per la grande quantitàdi petrolio grezzo esistente nel Paese,uno dei problemi più seri da affron-tare fu quello dei combustibili, tantoper uso domestico quanto per il fun-zionamento delle infrastrutture pub-bliche. La mancanza di un sistema diapprovvigionamento e distribuzioneefficiente costituiva una delle princi-pali cause di malcontento della popo-lazione, anche per l’espandersi delmercato nero che portava i prezzi alivelli assolutamente insostenibili concode interminabili presso i distribu-tori di benzina.Per cercare di porre un freno a tale si-tuazione, gli organi CIMIC avviaro-no un piano di approvvigionamentodi special benzene dalla raffineria diShaiba (Bassora), pur in presenza dielevati rischi per le interminabili au-tocolonne di carburanti che transita-vano per la non breve tratta, per con-sentire un approvvigionamento re-golare della raffineria di An Nasi-riyah, che riuscì in breve tempo ariavviare una produzione regolare dibenzina sufficiente a soddisfare leesigenze della Provincia.

Tale esempio è emblematico perrappresentare la complessità delleoperazioni da porre in essere daparte delle strutture CIMIC del con-tingente nazionale, che si trovarono,in condizioni di sicurezza talvolta allimite, ad affrontare compiti desti-nati ad avere un impatto determi-nante nell’assolvimento del compitoglobale del Contingente.

CONCLUSIONI

L’Iraq di Saddam Hussein ha rappre-sentato, dopo l’Afghanistan, l’obietti-vo della cosiddetta politica di preven-zione degli Stati Uniti, sia per il peri-colo rappresentato dalla possibile de-riva verso armi di distruzione di mas-sa sia per i legami con gruppi terrori-stici altamente temibili e con evidentisentimenti anti-americani.Il dibattito internazionale che ne sca-turì non fu privo di contrasti, inquanto l’efferato attacco di NewYork era stato invocato a gran vocein occasione della campagna in Af-ghanistan e riconosciuto quasi una-nimemente dalla comunità interna-zionale essendoci la certezza cheOsama Bin Laden trovasse rifugionel Paese. Di contro, tale tesi risulta-va decisamente più debole nei con-

fronti dell’Iraq ed erano numerosi gliautorevoli pareri internazionali cheritenevano le motivazioni degli StatiUniti eccessivamente enfatizzate.La dura opposizione di Francia, Ger-mania, Russia e Cina non consentìagli anglo-americani di ottenere unarisoluzione inequivocabile da partedel Consiglio di Sicurezza dell’ONUche avrebbe legalizzato l’interventoagli occhi del mondo intero.Il Parlamento italiano autorizzò l’in-tervento, nell’immediato periodopost bellico, con compiti di sicurezzaal fine di garantire la distribuzione diaiuti umanitari e agevolare la rivita-lizzazione delle infrastrutture vitalidel Paese e la sua ricostruzione.Nell’ambito di tale mandato, l’am-pia gamma di compiti assegnativenne efficacemente assolta da unContingente spiccatamente interfor-ze e altamente versatile, soprattuttonei momenti in cui la comunità in-ternazionale risultava assente perl’inerzia delle fasi iniziali. La riorga-nizzazione dell’insorgenza portò aun deciso deterioramento delle con-dizioni di sicurezza, fino al cruentoattacco alle stesse forze nazionali,causando alla Nazione perdite mairegistrate dai tempi del Secondoconflitto mondiale.Il contingente e la Nazione tutta fu-rono però in grado di reggere il col-po e di reagire efficacemente.L’exit strategy, posta in essere nelle suefasi conclusive, solo 3 anni dopo la tra-gedia di An Nasiriyah, risultò vincen-te come pure ammirata e imitata incampo internazionale, a iniziare dallestesse forze britanniche a Bassora.Il duro tributo di sangue non risultòversato invano.

Adriano SantiniGenerale di Corpo d’Armata,

già Comandantedel Contingente Italiano in Iraq

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Hanno collaborato alla stesura del-l’articolo il Generale di Brigata Enri-co Pirastru, già Capo di SM della Bri-gata «Garibaldi» e il Maggiore Kon-rad Azzarelli, già Military Assistant.

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Delle molte esperienze che ho vissutonei tre anni da Comandante delleForze di Pace e Capo Missione UNI-FIL nel Libano, ce n’é una che mi tor-na spesso alla mente. Specie la notte,anche perché gli incidenti, le violazio-ni, ma anche le cose più importanti, eforse anche quelle più belle, in MedioOriente avvengono sempre dopo ilcalar del sole. La magica notte medio-rientale. Forse è vero. È una storia alieto fine che ha rappresentato il pun-to più alto di credibilità di UNIFIL edè pertanto nel racconto di quella notteche cercherò di condensare il signifi-cato e le attività di UNIFIL.UNIFIL (United Nation Interim ForceIn Lebanon) era, ed è ancora oggi,schierata nel Sud del Libano, inun’area collinare, a volte aspra, deli-neata a Nord dal profondo confinedel fiume Litani e a Sud dalla LineaBlu (Blue Line). Una linea immagina-ria che corre in larga parte lungo ilvecchio confine tra il Libano, all’epo-ca del protettorato francese, e la Pale-stina allora inglese. Una linea che ibaschi azzurri stanno materializzan-do da tre anni con alti segnali blu (icosiddetti blue barrels) e che rappre-senta la linea di demarcazione tra Li-bano e Israele: quella che un giorno,se ci sarà la pace, potrà diventare unconfine. Per il momento è il riferi-mento che segna il ripiegamentoisraeliano dal Libano del 2000.Uno dei compiti dei soldati di UNIFILè quello di monitorare le attività nel-l’area e presidiare la Linea Blu, perevitare violazioni e sconfinamenti.Naturalmente l’attenzione è prevalen-temente rivolta a evitare sconfinamen-ti illegali dal Libano in Israele. Ne ab-biamo avuti alcuni, pochi a opera ditrafficanti di droga, ma la maggiorparte di contadini. Questi ultimi scon-

finavano, spesso involontariamente,per lavorare le loro terre rimaste aSud della Blue Line; se sfuggivano alcontrollo dei baschi blu, venivano fer-mati dai soldati delle IDF (Israeli De-fence Force – l’Esercito israeliano), trat-tenuti e sempre rilasciati dopo le no-stre richieste e negoziazioni.Anche i pastori talora attraversavanola Blue Line seguendo le loro greggi.Qualcuno di loro, in verità, faceva ildoppio o triplo mestiere: quello dipastore certamente, ma se magaric’era qualche affare da fare dall’altraparte, perché no? Se poi potevano

raccogliere informazioni meglio an-cora. Le informazioni sono semprestate ben pagate in Medio Oriente,oggi come 2000 anni orsono.Quel giorno, nell’agosto del 2009,però avvenne il contrario.Fu il Capo della Direzione Strategicadelle IDF a chiamarmi sul «telefonorosso» da Tel Aviv, dove operava co-me responsabile dei rapporti conUNIFIL. Oggi è un mio caro amico.Mi diceva che i sensori israeliani ave-vano avvistato un individuo prove-niente da Israele entrare in Libanonell’area Sud del settore di UNIFIL,

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UNA NOTTE D’AGOSTOA NAQOURA

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ai margini tra il battaglione italiano equello ghanese, dandomi i riferimen-ti cartografici. Le operazioni di peace-keeping si fanno anche al telefono. Hochiamato il Colonnello Biagini, Capodella Sala Operativa di UNIFIL, di-sponendo di diramare l’ordine, per leunità italiane e ghanesi, di avviare laricerca, chiedendo altresì al Coman-dante libanese del Sud di inviare leproprie unità per collaborare alle ri-cerche. In alcune ore l’individuo ven-ne fermato da una pattuglia libanesesupportata da un reparto italiano dei«Lancieri d’Aosta». I fanti libanesipresero in custodia il pover’uomo.Dico pover’uomo perché si seppe su-bito che era in brutte condizioni, im-paurito, spaesato, coperto di stracci.Non parlava, ed era senza documen-ti. Nessuno sapeva chi era. Non gliisraeliani, a cui avevo comunicato diaver intercettato l’individuo ora incustodia delle autorità libanesi. Nonavevano nessuna segnalazione dipersone scomparse. Non i libanesi, acui non risultava nessun contadino opastore sparito e ricercato dai fami-liari. Però poteva essere un lavorato-re siriano che aveva cercato di scap-pare in Israele e si era smarrito. Unisraeliano che voleva entrare in Liba-no per fuggire da Israele? Questo insessant’anni non era mai successo. Nel frattempo le autorità libanesi,dietro nostra richiesta, avevano fattopervenire le fotografie dell’uomo, poiinviate agli israeliani per effettuare lericerche tra le persone scomparse.Passarono credo un paio di giorni.L’individuo era trattenuto in unospedale sotto osservazione dellapolizia militare libanese. Noi con-trollavamo che fosse ben trattato,mantenevamo i contatti con le auto-rità libanesi, ma nessuna novità.Nel frattempo una pattuglia del Gha-na aveva intercettato un importantecarico di eroina, destinato a Israele,fermando tre trafficanti; destandol’ammirazione dei militari libanesi edegli israeliani. Ma del poveretto nonsi sapeva ancora nulla. Era il tramon-to del terzo giorno. Il dolce tramontolibanese, con il sole che scende dietro

le colline del confine, mandando i ri-flessi argentei sul mare cristallino, co-lorando di rosa le scogliere tra RoshHanikra e Naqoura, a 2 km dalla ba-se, già in territorio israeliano.Era il tramonto, dunque, quando suo-nò il «telefono rosso» e le IDF mi in-formarono che, finalmente, sapevanochi era il pover’uomo. Un individuomentalmente instabile fuggito da unacasa di cura nel Sud di Israele, di cuisolo oggi era giunta, tramite la poliziaisraeliana, la conferma della sparizio-ne. Si prospettava una lunga notte dinegoziazione. Tra Libano e Israele c’èancora oggi formalmente lo stato diguerra. Un individuo non autorizzatoche attraversa il confine può rischiaredi essere accusato di spionaggio. LeIstituzioni libanesi si erano sempredimostrate aperte e cooperative conUNIFIL in generale e con il suo ForceCommander in particolare. Rapportiottimi erano stati istaurati con l’Eser-cito, disciplinato, multiconfessionale,leale al Paese. Qui però il caso, anchesotto l’aspetto del diritto internazio-nale, poteva risultare complesso. Co-me minimo c’era il rischio di incorre-re in qualche ritardo burocratico. Epoi c’era Hezbollah. Certamente Hez-bollah era schierato a supporto delprocesso di pace lanciato nel 2006 conla Risoluzione 1701, ma si trattavapur sempre di un’organizzazione ar-mata non controllata dalle Istituzionilibanesi, apertamente ostile a Israele.Avrebbero accettato di vedere un cit-tadino israeliano rientrare dal Libanosenza difficoltà, senza pretenderequalcosa in cambio? Bisognava farein fretta, anche perché gli israeliani,adesso che sapevano trattarsi di unloro concittadino, premevano, lo vo-levano entro la mattina successiva.Lasciavano capire che loro avevanosempre rilasciato rapidamente i pa-stori libanesi, che pure potevano es-sere sospettati di essere spie. Siaspettavano un gesto di buona vo-lontà dei libanesi. Avevamo pocheore dunque per risolvere la cosa sen-za complicazioni.Nella notte erano arrivate da Israeleanche le copie dei documenti del po-

ver’uomo. Anche la cartella clinica,che però l’IDF mi chiedeva di esibiresolo se necessario per ragioni di priva-cy. La privacy nella notte medio-orien-tale tiepida e serena. Strana richiesta,ma non ci fu bisogno di usarla.Avevo già telefonato al Capo delleoperazioni delle LAF, un Ufficiale scii-ta molto intelligente, che sapeva muo-versi bene anche nelle stanze della po-litica libanese. Poi il Generale Kahwa-ji, Comandante in Capo delle LAF,maronita. Altro Ufficiale brillante, benconsapevole del ruolo fondamentaledelle Forze Armate libanesi nel man-tenere la coesione del Paese. A lui dis-si che il successo della missione diUNIFIL nel Sud del Libano, le possibi-lità di creare un rapporto costruttivofra le parti, rendeva importante quelloche sarebbe successo quella notte. Laguerra del 2006 era cominciata con ilrapimento di due soldati israeliani daparte di Hezbollah.Circa un anno dopo c’era poi stato loscambio tra Israele e il Libano deicorpi dei due poveri soldati israelianie i resti dei numerosi libanesi cadutinel corso degli anni e sepolti in Israe-le. Una pagina tragica, al momentochiusa, che certo non andava riaper-ta. Era stato informato il PresidenteSuleiman, anch’egli maronita, il Pri-mo Ministro Hariri, sunnita, e il Pre-sidente del Parlamento Berri, sciita,buon amico dell’Italia e politico digrande esperienza. (Il Presidente Ber-ri ha la foto del Papa in bella mostranel suo ufficio. Lo appella, parlandodi lui, «Santo Padre». Posto interes-sante il Medio Oriente).A un certo punto della notte, eraforse all’una o poco prima, la situa-zione non procedeva completamen-te bene. Avevo capito che qualchesettore, probabilmente di Hezbol-lah, stava cercando di ritardare ilrientro dell’uomo. Ultime telefona-te, alternando diplomazia a fermez-za. Rammentando che l’individuoera stato fermato da una pattuglialibanese supportata da UNIFIL, difatto guidata dagli israeliani, dall’al-tra parte della Blue Line (adesso checi penso a mente fredda, anche que-

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sto è un fatto interessante. Una pat-tuglia libanese, guidata sull’obietti-vo dal «nemico». Posto interessanteil Medio Oriente). Nel frattempo,giusto per inviare un segnale, unitàblindate di UNIFIL prendevano po-sizione in corrispondenza di puntisensibili lungo la Blue Line. Era mol-to buio quella notte, la luna stenta-va a fare capolino sopra il Mediter-raneo e si sentiva ancora più forte larisacca battere sulla scogliera.Il Maresciallo Gugliotta, responsabi-

le della mensa italiana nella base delComando UNIFIL a Naqoura, conti-nuava a mandare nel mio Ufficio pa-nini e caffè per gli Ufficiali e i fun-zionari dell’ONU che andavano evenivano. Il Maggiore Sandri, miobrillante Aiutante di Campo, conti-nuava a passarmi telefonate.Intanto erano ormai quasi le due.L’alba era intorno alle cinque e mezzadel mattino. Dal «telefono rosso» ve-nivo informato formalmente chel’Esercito libanese, ricevuta l’autoriz-zazione politica, aveva dato l’ordinedel rilascio. Bisognava fare in frettaprima che ci fossero ripensamenti osuccedesse qualcosa. Due ore da Bei-rut a Naqoura sotto scorta libanese.Inserimento delle pattuglie e del con-trollo di UNIFIL a sud del Litani. Pre-sa in consegna da parte di UNIFIL alcheck point di Naqoura. Apertura dellasbarra al punto di controllo con Israe-le. Consegna agli israeliani. Bisognava

fare in fretta. La strada principale daBeirut a Naqoura corre lungo la lito-ranea, spesso a pochi metri dal mare,e attraversa numerosi abitati. Il puntodi ingresso nel settore di UNIFIL sulponte Qasmiyeh, che attraversa il Li-tani, è uno dei passaggi più pericolo-si. Infatti, un posto di blocco della Mi-litary Police tanzaniana di UNIFIL erastato attaccato con un IED mesi pri-ma. Solo danni e nessun ferito, perfortuna. Poi, attraversato il Litani, ini-zia il breve settore affidato ai coreani,

a cui fa seguito il settore di uno deidue battaglioni italiani, quello respon-sabile della cosiddetta «Tiro Pocket».All’epoca l’area era affidata all’11°reggimento bersaglieri dell’«Ariete».Infine il settore più avanzato che siestende sino al confine, affidato all’al-tro battaglione italiano, come detto al-l’epoca i «Lancieri d’Aosta». Questeunità dovevano subito spedire pattu-glie per aumentare il controllo lungola rotabile, predisporre unità di pron-to intervento e inviare nuclei di colle-gamento con le unità UNIFIL conter-mini. Anche se tutto avveniva nelmassimo segreto, poteva esserci stataqualche fuga di notizie. Bisognava fa-cilitare il movimento dei veicoli chevenivano da Beirut. Anche gli elicot-teri erano pronti al decollo, sia dallabase di Naqoura sia dalla Fregata ita-liana al largo, che intanto era stata fat-ta avvicinare precauzionalmente allalinea di costa.

Intanto gli uomini della Military Poli-ce di UNIFIL, in particolare il nucleocarabinieri di Naqoura, si predispo-nevano al punto di rendez vous perprendere in consegna l’individuo. Letre e trenta, verificato che i mezzi li-banesi con l’uomo fermato avevanoattraversato il Litani, chiamo il Capodella Divisione Strategica israeliana.Scambio fra le 04:00 e le 05:00.Ringrazia. Quasi non ci crede. Nonera mai successo. Un israeliano entrainavvertitamente, perché non in gra-do di intendere e volere, comunqueillegalmente, in Libano e viene resti-tuito, magari non subito, ma eraquello che stava accadendo. Il Colon-nello Lucia, Capo del mio GeneralStaff, si reca al punto di ingresso traNaqoura e Rosh Hanikra per control-lare il transito. Con lui il Colonnellofrancese responsabile del collega-mento tra le LAF e IDF. L’ultimo trat-to di strada tra Naqoura e il confine,circa tre chilometri, corre proprio sul-la scogliera. A sinistra le montagne, adestra il mare. E siccome si tratta diuna zona sotto controllo UNIFIL, sulmare c’erano le nostre unità navali aevitare incidenti. Il mare in quella zo-na è di cristallo, incontaminato. Inpiù è molto pescoso. Soprattutto cer-niotte da un paio di chili.Sul mare, quella notte d’agosto, c’era-no anche le luci dei pescherecci liba-nesi che qualche volta si avvicinava-no un po’ troppo alle acque sottocontrollo israeliano. Per intimidirli, lenavi pattuglia dell’IDF, sempre pron-te, lanciavano normalmente qualchebombetta di profondità. I libanesi ar-restavano le loro barche, aspettavanoche la corrente portasse verso di loroqualche pesce morto a causa della ca-rica subacquea e, quindi, potevano fi-nalmente fare ritorno ai porticcioli diNaqoura e Tiro. Senza avere violatole leggi e con un buon pescato. Postointeressante il Medio Oriente.La strada da Naqoura alla sbarra diconfine conduce all’ultimo presidiodi UNIFIL. Tripla recinzione e, acontatto con il limite Ovest della no-stra unità avanzata, passa il confineisraeliano. A presidio un plotone

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italiano. All’interno della base c’èuna piccola villa, su una collinetta,con due sole stanze: una al pianoterra e una al primo piano. È il luogo dove mensilmente si ten-gono i cosiddetti incontri tripartiti.Da un lato alti Ufficiali israeliani edall’altro Ufficiali libanesi. In mezzoai due, negoziatori, facilitatori, inruolo diplomatico, Ufficiali e funzio-nari di UNIFIL guidati dal Coman-dante di UNIFIL, al tempo io stesso.Gli incontri tripartiti si sono dimo-strati uno dei mezzi più efficaci a di-sposizione di UNIFIL al fine di man-tenere la cessazione delle ostilità ecreare basi negoziali tra le parti. At-traverso questo strumento sono statirisolti cento problemi pratici, chehanno evitato la spiralizzazione degliincidenti. Come il posizionamento diindicatori sulla Blue Line con il con-senso delle parti. Come aver risoltoin gran parte il problema dello scon-finamento dei contadini libanesi. Inuna delle ultime riunioni che avevopresieduto, era stato concordato diautorizzare i contadini che fossero le-galmente proprietari di terreni a Suddella Blue Line, a recarsi, sotto con-trollo UNIFIL, a lavorare i loro terre-ni e i loro campi di tabacco.Anche l’installazione del «telefonorosso», che mi metteva direttamentein contatto con le autorità libanesi eisraeliane, era stata decisa nel corso diun incontro tripartito. Senza quel col-legamento, quella notte sarebbe statamolto più difficile. Sarebbe anche sta-to impossibile, nel febbraio del 2009,far sì che Monsignor Cappucci, ferma-to dalla Marina Israeliana su un bat-tello di aiuti umanitari partiti dal Li-bano e destinati a Gaza, venisse con-segnato dalle Forze di Sicurezza Israe-liane ai colleghi baschi blu di UNDOFsulle Alture del Golan, per poi entrarein Siria. Ma questa è un’altra storia.Anch’essa avvenuta di notte.Ore 04:00 circa. L’individuo, scorta-to dai militari libanesi arriva al checkpoint di UNIFIL. Passaggio di con-segna. L’intelligence militare libane-se consegna l’individuo, stanco, vi-sibilmente provato ma in buona sa-

lute, ai Carabinieri italiani con il ba-sco azzurro.Ancora pochi minuti e si apre il can-cello dalla parte israeliana. Il Capodegli Ufficiali di collegamento diUNIFIL, il Colonnello FranceseEgnell, dirige questa fase, che peròormai è tranquilla. Il territorio dovesono realizzate le basi di UNIFIL èsovranazionale e inviolabile. Dall’al-tra parte l’Ufficiale di collegamentoisraeliano. Efficiente come al solito.Alcune firme sui verbali di passag-gio di consegne e alle 04:30 circal’israeliano, involontario violatoredella Blue Line, ritorna nelle manidegli israeliani.La notte era ancora buia vista dallegrandi vetrate del mio ufficio a Na-qoura, ma scendendo la scala metal-lica per raggiungere la mia abitazio-ne, intorno alle 05.00, si vedevano aEst, subito dopo l’altura ribattezzata«Mistery Hill» (collina del mistero), iprimi chiarori dell’aurora. Un alonedi luce che schiariva i contorni dellacollina, separando il nero del cielo eil brillio delle stelle dal terreno sot-tostante. Pochi minuti prima il Ge-nerale israeliano mi aveva detto cheancora non ci credeva. Che per laprima volta dalla guerra del 1948un israeliano tornava illeso, in po-che ore e senza dover dare nulla incambio. La villetta prefabbricata incui ho abitato tre anni in Libano era

collocata proprio a ridosso dellescogliere di Naqoura, in un puntostupendo. A destra le luci di Tiro,antica città fenicia e romana, con lapenisola protesa sul mare come ildito di un gigante. A sinistra la co-sta verso Israele. Dalla veranda sivedevano alcune luci fisse sul mare.I pescherecci di cui ho raccontato,ma anche le luci delle boe luminoseisraeliane a indicare la Buoy Line (li-nea delle boe). Una linea da non ol-trepassare, in verità collocata unila-teralmente dagli israeliani e non ri-conosciuta dal Libano e dalla comu-nità internazionale, ma anche que-sta è un’altra storia.Il giorno dopo, saranno state le 10.00del mattino, mi ero recato in un pae-sino vicino alla base principale dellaBrigata italiana, all’epoca l’«Ariete»del Generale De Cicco, situata a Ma-raka, nel Sud del Libano, per un’atti-vità umanitaria del Contingente Ita-liano a favore di un asilo di bambinipoveri libanesi, quando il centralinomi passò al telefono un alto Generaleisraeliano, il Generale Gadi Eisenkot,mio pari grado e Comandante delFronte Nord.Con lui ci conoscevamo da moltotempo. Dal 1996 al 1997 avevamofrequentato insieme, da giovani Co-lonnelli e da studenti, l’US ArmyWar College, in Pennsylvania negliStati Uniti ed eravamo diventati

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87Speciale

buoni amici. Il destino; dopo 14 an-ni eravamo i Comandanti, lui ditutte le forze israeliane al confinesiriano-libanese, io dei 13 000 mili-tari e più di mille civili di UNIFIL.Il destino. Gadi era molto allegro:«ho detto al Ministero di Tel Aviv:avete visto la differenza tra la vecchia ela nuova UNIFIL? Adesso tutti sannoperché è importante avere i caschi az-zurri nel sud del Libano».Sì, era stata una bella nottata. Chissàperché mi ricordo soprattutto le not-ti. Sembrava quasi che la notte, quan-do solo pochi si muovevano e deci-devano, quando il telefono lo usavasolo chi doveva davvero dire qualco-sa, fosse più facile risolvere i proble-mi. Aggiustare i guasti del giorno.Oggi UNIFIL è ancora là, nel Suddel Libano, tra le montagne e il ma-re, tra le pendici di Monte Hemon ela fertile pianura di Fatima Gate.A est la Brigata a leadership spagnola,con nepalesi, indonesiani, indiani ealtri ancora. A ovest quella italiana,con ghanesi, francesi, coreani, malesie naturalmente il contingente più nu-meroso: quello italiano. In riserva ilcontingente francese con i carri pe-santi «Leclerc», l’artiglieria semoven-te e la contraerea. 30 Nazioni schiera-te, una decina quelle principali.Quando c’ero io, il ContingenteItalia-no contava circa 2 400 unità. Una pic-cola flotta al largo, lungo tutte le co-ste libanesi, per proteggere le vie diaccesso ai porti da traffici illegali econtribuire alla crescita della piccolamarina libanese.Pattuglie lungo il confine, posti dicontrollo sulle strade di accesso al-l’area di UNIFIL, attraverso il fiumeLitani. Posti di osservazione per evi-tare incidenti nell’area di responsabi-lità. Attività continue in cooperazionecon le Forze libanesi per evitare inci-denti, controllare il territorio, impedi-re il lancio di razzi contro Israele.Circa 1 100 notti in Libano. Sia daComandante Militare sia da CapoMissione e Inviato Speciale delleNazioni Unite. Sono stato davverofortunato a essere selezionato dalleNazioni Unite per quell’incarico dal

2007 al 2010. Non so cosa succederànel futuro, ma credo che UNIFIL ri-marrà ancora per alcuni anni a pre-sidio di un’area difficile, tra duePaesi ancora in guerra anche se cer-cano, di fatto, di non spararsi più.Per raggiungere la pace servono tan-te cose. Serve buona volontà da unaparte e dall’altra. Certo, Hezbollahdovrebbe rinunciare al ruolo sinoragiocato di «resistenza armata», comesi autodefiniscono, o «gruppo arma-to», come sono definiti dalle NazioniUnite, ma comunque fuori dalle Isti-tuzioni libanesi. Un ruolo che di fat-to influenza sia il Libano sia il pro-cesso di pace. A sua volta Israele do-vrebbe con più impegno operare perrestituire al Libano gli ultimi territo-ri occupati, segnatamente la città diGajar, e cominciare a risolvere ilproblema delle Sheba Farms, che pe-rò richiede anche il coinvolgimentodella parte siriana. Insomma, si trat-ta di risolvere un classico quadro diambiguità medio-orientale.Non per niente, su quella che poi sichiama Terra Santa si trovano torri fe-nicie, teatri romani, castelli crociati,moschee dell’Islam, chiese bizantine,donne velate e ragazze in minigonna.Non per niente, gli abitanti musul-mani di Cana, presso Tiro, sono fieriassertori che il primo miracolo diGesù sia avvenuto lì, che l’acqua di-venti vino in Libano e non altrove.I soldati italiani, prevalentementedell’Esercito, sono in Libano dal1978, con lo squadrone elicotteriITALAIR.Nel 1982 poi, arrivò il Generale An-gioni con il contingente multinazio-nale a Beirut. Ancora se li ricordanoi nostri soldati a Beirut, a protezionedei campi Palestinesi e a protezionedegli inermi.Dopo il 2006 gli italiani sono tornatiin forze. Di più, l’Italia ha assunto conautorevolezza, subito dopo la guerradel luglio 2006, la leadership della mis-sione UNIFIL, di una UNIFIL cresciu-ta nelle capacità operative e con unmandato più ampio e robusto.Come dicevo, la missione continua.Alla fine dei miei tre anni di coman-

do, ho avuto la soddisfazione di sen-tirmi dire, da un giornalista israelia-no, «con Lei al comando, per tre anninessun israeliano è morto per attentatiprovenienti dal Libano». Purtroppo,qualche libanese invece è morto. Co-me il contrabbandiere di eroina ucci-so dal fuoco di una pattuglia israelia-na sulle pendici delle colline di Gajar.Anche alcuni soldati di UNIFIL sonocaduti per l’esplosione di una bombaimprovvisata, collocata lungo la stra-da all’ingresso del campo spagnolo e6 paracadutisti spagnoli nella bonifi-ca di bombe a grappolo per restituirei terreni ai contadini libanesi, oltre asminatori francesi e belgi. Altri perincidenti di vario tipo. Per non di-menticare che, senza contare le mis-sioni di imposizione della pace, comequelle in Iraq o in Afghanistan, UNI-FIL è la missione delle Nazioni Uniteche ha avuto più caduti nella storiadel Paecekeeping. Duecentosettantabaschi azzurri di UNIFIL hanno per-so la vita tra le colline rocciose delSud del Libano, tra le montagne e ilmare, per difendere la pace e dareuna speranza agli uomini di buonavolontà della Terra Santa, dove i cri-stiani ortodossi, durante la Quaresi-ma, non toccano carne e mangianosolo verdura. Con grande rispetto deicompatrioti musulmani.Onore ai miei baschi azzurri di tuttele Nazioni. In particolare al Contin-gente Italiano che, nel solco di unatradizione ormai consolidata, si èguadagnato il rispetto delle autoritàe dei militari degli altri Paesi contri-butori per la fermezza e le capacitàin operazioni e l’affetto delle popo-lazioni per l’umanità e l’altruismodei militari a favore dei civili.Spero che il racconto di una notteabbia potuto dare un’idea dellaMissione UNIFIL, di come agisce ilComandante di una grande Missio-ne di Pace. Un giorno scriverò delle1 100 notti. Un giorno.

Claudio GrazianoGenerale di Corpo d’Armata,

Capo di Stato Maggiore dell’Esercito,già Comandante di UNIFIL 2007-2010

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88 Rivista Militare

La seconda metà della storia del Liba-no moderno (1) è costellata da nume-rosi conflitti sia interni sia con gli Sta-ti confinanti. L’impegno della Comu-nità internazionale per sostenere il le-gittimo Governo libanese, per allevia-re le sofferenze delle popolazioni ci-vili e per interrompere le frequentiostilità con i Paesi limitrofi è statosempre significativo, nella consape-volezza del ruolo che il Libano giocanello Scacchiere medio-orientale.Tale ruolo deriva, più che dalla posi-zione geografica del Paese, dalla sin-golarità del sistema sociale e politicolibanese, basato sul confessionalismo(2). Tale sistema ha garantito al Liba-no, pur tra varie traversie, la soprav-

vivenza di uno Stato che riconosceufficialmente 3 Religioni principali eben 18 diverse Confessioni religiose(3). Come tale, il Libano va considera-to un esempio unico nel mondo ara-bo in termini di tolleranza e convi-venza tra religioni differenti.

L’OPERAZIONE UNIFIL

Dal febbraio 2007 al gennaio 2010, ilcomando della missione, con sede aNaqoura, è stato guidato dal Genera-le Claudio Graziano, poi dal Generalespagnolo Alberto Asarta Cuevas, dal28 gennaio 2012 è al comando il Ge-nerale di Divisione Paolo Serra.UNIFIL è oggi composta da circa 12000 militari, provenienti da 38 Paesimembri delle Nazioni Unite, da circa1 000 civili (4) e ha alle dipendenze«operative» una cinquantina di os-servatori militari della Missione UN-TSO (5). Tutte queste componenti as-sicurano l’implementazione delmandato della missione, delineatonella Risoluzione 1701 del Consigliodi Sicurezza dell’ONU. Oltre ad assi-curare il coordinamento tra questecomponenti «interne» alla Missione,UNIFIL, come previsto nel suo Man-dato, opera in stretta collaborazionecon le LAF, conducendo con esse inmaniera congiunta circa il 10% delleproprie attività operative.La superficie dell’Area di Operazio-

ni di UNIFIL può essere consideratarelativamente piccola (circa 1 026Km2) ed è delimitata a Sud e a Estdalla cosiddetta Blue Line, a Norddal fiume Litani e a Ovest da circa34 chilometri di costa del mare Me-diterraneo. La natura aspramentecollinosa del terreno rende difficileun controllo capillare. L’Area diOperazioni di UNFIL è suddivisa indue settori del livello Brigata (Ovesta guida italiana ed Est a guida spa-gnola) ai quali si aggiunge un’unitàin riserva, alle dirette dipendenzedel Force Commander.Oltre all’appena descritta parte ter-restre, UNIFIL ha anche la respon-sabilità di una AMO (Area of Mariti-me Operations). L’AMO della Mariti-me Task Force (MTF, componentenavale di UNIFIL che ha il compitodi prevenire, in concorso alla Mari-na Militare libanese, la condotta ditraffici illeciti attraverso le linee dicomunicazione marittime) si esten-de per circa 110 miglia nautiche daNord a Sud (lungo tutta la costa li-banese) e per circa 45 miglia nauti-che da Est a Ovest, per un totale dicirca 5 000 miglia quadrate. L’MTFè attualmente costituita da 8 navi di6 Peasi diversi (1 brasiliana – flag-ship – 2 del Bangladesh, 1 greca, 1indonesiana, 2 tedesche e 1 turca).Alla luce dei risultati conseguiti dallaMissione, il Department of Peacekee-ping Operations (DPKO) dell’ONU ha

IL COMANDODELL’OPERAZIONE

UNIFILLA CONDOTTA DI UN’ORGANIZZAZIONE COMPLESSA

PER IL CONSEGUIMENTO DI OBIETTIVI OPERATIVI CONDIVISI

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89Speciale

avviato, a partire dalla fine del 2011,una revisione politico-strategica dellaMissione (Strategic Review) al fine diassicurarne una configurazione piùidonea all’assolvimento del Mandatoe di identificare le priorità strategicheper l’implementazione dello stesso.Nel marzo di quest’anno, il Segreta-rio Generale dell’ONU ha approvatoalcune raccomandazioni per ilDPKO, circa il prosieguo della Mis-sione. Sulla base di esse il DPKO, co-ordinandosi con lo Staff della Missio-ne, ha avviato e portato a termine unMilitary Capability Study (MCS) il cuifine è ridurre numericamente la for-za di UNIFIL senza diminuirne, pe-raltro, le capacità di assolvimento deicompiti connessi con il Mandato.UNIFIL ha approntato un piano diimplementazione (18-24 mesi a parti-re da giugno 2012) del MCS che pre-vede una riduzione delle forze im-piegate (dalle 1 000 alle 2 000 unità),conseguita attraverso:• il ripiegamento di assetti ritenuti

non più essenziali ai fini del con-seguimento dei compiti assegnati(es. unità di artiglieria);

• la chiusura di alcune basi (nonpiù necessarie dal punto di vistaoperativo, con conseguente recu-pero del personale logistico e diForce Protection impiegato);

• la riduzione del personale di Staffdel Comando della Missione e deiComandi di Settore.

Guidare una Missione così articola-ta presenta indubbiamente alcunesfide. Le più importanti sono di se-guito riportate e descritte.Prima di tutto l’aspetto relativo allamultinazionalità. È sicuramente diffi-cile condurre e coordinare truppe epersonale civile provenienti da 117Paesi diversi. Basti pensare ai proble-mi linguistici e procedurali. Per quan-to attiene alla sola componente mili-tare, costituita da truppe di 38 Paesidiversi, la multinazionalità può rive-larsi una criticità sul terreno, quandobarriere culturali e differenti espe-rienze professionali possono generaredifficoltà di comunicazione con la po-polazione locale. Per mitigare tale ri-

schio è necessaria la presenza di un«corpo dottrinale» standardizzato,comprensivo di manualistica, diretti-ve di policy e procedure operative. Dicontro, la multinazionalità può essereconsiderata un valore aggiunto, qualeespressione della volontà internazio-nale di promuovere la stabilità e lapace nel Sud del Libano.Altro elemento da considerare, sem-pre nell’ambito della multinazionali-tà, è riferito alla composizione e arti-colazione delle unità di manovra ter-restri. Attualmente, UNIFIL inqua-dra 10 unità di manovra di livellobattaglione/reggimento, 8 delle quali

«mononazionali» e 2 che possono es-sere considerate multinazionali (bat-taglione irlandese-finnico e battaglio-ne spagnolo, nell’ambito del qualeopera un plotone di El Salvador).Sulla base dell’esperienza maturatain questa come in altre operazionimilitari multinazionali, si ritiene cheil battaglione/reggimento «monona-zionale» sia la soluzione ideale. Tut-tavia, anche un’unità multinazionalecon compagnie mononazionali po-trebbe risultare gestibile e operativa-mente efficace. Sotto questo livello, lamultinazionalità può essere efficace,ma solo per unità specialistiche (6).

Da ultimo, sempre nel contesto dellamultinazionalità, non va sottaciuta laproblematica legata alla MTF (unicaforza navale schierata in un’opera-zione di peacekeeping dell’ONU). An-corché le procedure operative navalinon differiscono in maniera sostan-ziale da Paese a Paese, l’efficacia del-la componente navale è influenzata,ancor più di quella terrestre, da diret-tive e procedure maggiormente det-tagliate, da equipaggiamenti peculia-ri e da requisiti addestrativi estreme-mente settoriali. A titolo di esempiosi evidenzi la situazione relativa allacapacità «scambio dati». Poiché le di-verse Nazioni che contribuiscono allaMTF impiegano differenti sistemi eprocedure per le comunicazioni, lacomponente navale non dispone disistemi interoperabili relativi a que-sta capacità. Per ovviare a tale limita-zione, il ricorso ai satelliti commer-ciali costituisce attualmente la solu-zione prioritaria per soddisfare i mi-nimi requisiti militari in termini di si-tuational awareness. Tale criticità po-trebbe essere superata attraverso lastipula di accordi dedicati con altreorganizzazioni coinvolte nel control-lo marittimo dei traffici commerciali.Intimamente legata alla precedente,un’ulteriore sfida è costituita dall’in-teroperabilità di mezzi e materiali,essenziale per ottimizzare l’efficienzaoperativa della Missione. A tal fine, ènecessario che la generazione delleforze sia effettuata sulla base di unapproccio capacitivo che non pre-scinda dalla ricerca di un correttoequilibrio tra equipaggiamento forni-to dall’ONU ed equipaggiamento indotazione ai contingenti delle Nazio-ni contributrici.Per quanto riguarda il personale, ungiusto connubio di capacità profes-sionali e linguistiche e di esperienzadovrebbe costituire il requisito preli-minare per la selezione del persona-le, soprattutto per quello di Staff.Atal fine, la definizione di standardoperativi di riferimento sarebbed’ausilio per una più efficace prepa-razione del personale.Una terza sfida risiede nell’integra-

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zione, intesa a due differenti livelli: • uno interno, tra le componenti civi-

le e militare della Missione. Perquesto specifico problema sonostate realizzate due soluzioni: laprima, che ha visto la nomina, daparte del DPKO, di un Vice CapoMissione civile e la seconda attra-verso la costituzione di un team dipianificazione integrato (civile-mi-litare) cui è richiesto di individuaresoluzioni operative alle problema-tiche a livello Missione preveden-do l’impiego sinergico di tutte le ri-sorse disponibili, siano esse militario civili;

• uno esterno, finalizzato a coordina-re gli sforzi di UNIFIL con quellidelle altre entità ONU operantinella Regione (UN Country Team),primo fra tutti UNSCOL (UnitedSpecial Coordinator for Lebanon).

L’obiettivo più importante da con-seguire, tra quelli previsti dalla Ri-soluzione 1701 (2006), è il cessate ilfuoco permanente tra Libano eIsraele e una soluzione a lungo ter-mine del conflitto tra i due Stati.

L’integrazione civile-militare e l’uni-tarietà di intenti a livello direzionedella Missione sono altresì garantitedal doppio ruolo del responsabiledella Missione stessa: esso è infatticontemporaneamente Head of Missione Force Commander, avendo l’oppor-tunità di perseguire sia gli obiettivioperativi militari veri e propri (sicu-

rezza) sia quelli che vedono coinvol-te le autorità governative libanesi(governance). In tale contesto, due so-no gli strumenti a disposizione delloHead of Mission/Force Commander perla soluzione delle problematiche del-la Missione: il Tripartite Meeting e loStrategic Dialogue.Il primo è un forum in cui siedono al-lo stesso tavolo UNIFIL e i rappresen-tanti militari libanesi e israeliani (pro-babilmente unico al mondo che vededialogare, ancorché a livello militare,due Paesi formalmente in regime dicessazione delle ostilità). È riunito acadenza mensile nel formato ordina-rio (con un’articolazione standard) oad hoc per esigenze urgenti (coinvol-gendo, eventualmente, specialisti delsettore d’interesse contingente). È uti-lizzato per risolvere, grazie all’inter-mediazione di UNIFIL, questioni tec-

nico-militari che, qualora non risolte,potrebbero portare a un incrementodella tensione fra le parti.Il secondo, Strategic Dialogue, siestrinseca in un progetto/processodi sostegno alle Forze Armate liba-nesi finalizzato a incrementarne lecapacità operative affinché possanoessere in grado, in futuro, di assolve-re autonomamente i compiti connes-si con il Mandato di UNIFIL, in pre-visione di un suo possibile ripiega-mento (End State). In questo ambitola funzione di UNIFIL è quella disupporto e indirizzo nei confronti

delle LAF per la stesura della piani-ficazione del caso. Gli attori coinvoltinel processo sono, oltre a UNIFL ealle LAF, il Governo libanese e i do-nor internazionali. Nei confronti diquesti ultimi la funzione di UNIFILè quella di catalizzatore/facilitatoredegli accordi bilaterali (tra il Libanoed i singoli donor) che si renderannonecessari per il conseguimento del-l’End State.Nel contesto del progresso economi-co e sociale del Sud del Libano, nonva dimenticata la cooperazione civi-le-militare (CIMIC), condotta in col-laborazione con le organizzazioni ci-vili e deputata alla ricostruzione del-le infrastrutture danneggiate, all’ag-giornamento scolastico, alle campa-gne ecologico-sanitarie, alle attivitàsportive e alla valorizzazione am-bientale e storica del Paese. A tal finela Missione dispone (a integrazionedei fondi resi all’uopo disponibili daiPaesi contributori) di un piccolo bud-get per i cosiddetti Quick Impact Pro-ject. Si tratta, in pratica, di un porta-foglio, a disposizione dello Head ofMission/Force Commander, per la rea-lizzazione di progetti nei settori de-scritti.

PROSPETTIVE E CONCLUSIONI

A sei anni dall’adozione della Risolu-zione 1701, il Sud del Libano sta at-traversando il periodo più calmo del-la sua storia recente, nonostante laturbolenta situazione regionale, re-centemente influenzata dalla crisi si-riana. Questo si deve alla politica dinon coinvolgimento attuata dal Go-verno libanese e alla deterrenza e allamediazione esercitate da UNIFIL. Iproblemi più urgenti cui si dovrà da-re risposta sono senza dubbio legatialla citata crisi siriana che rischia peri-colosamente di espandersinel Libanosettentrionale e che già vede la migra-zione di centinaia di migliaia di pro-fughi verso i Paesi viciniori. Nel soloLibano, secondo stime recenti del-l’UNHCR (United Nations High Com-missioner for Refugees), sarebbero già

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presenti 65 000 profughi siriani.Altra problematica di stringente at-tualità è quella legata allo sfrutta-mento dei giacimenti petroliferi e digas naturale situati a largo delle costelibanesi e israeliane. Il ruolo di UNI-FIL in questa vicenda, qualora richie-sto ufficialmente dalle parti e appro-vato dall’ONU (che dovrà necessa-riamente definire le aree di rispettivacompetenza, al fine di evitare conflit-ti di interessi e nuovi motivi di con-flittualità), potrebbe essere quello digarantire la sicurezza marittima inun’area di separazione tra le parti,entrambe fortemente interessate allosfruttamento dei giacimenti. A tal fi-ne si renderebbe necessario estendereil Mandato UNIFIL alla sicurezzamarittima, non contemplata nell’at-tuale formulazione.In questo scenario, la forza di UNI-FIL è garantita dal fatto che la suapresenza nel Libano meridionalee leattività da essa svolte, sono forte-mente accettate e supportate dai Go-verni di Libano e Israele. La Missio-ne, pertanto, non opera per imporreuna propria idea di pace, bensì perfavorire un clima di stabilità, idoneoal raggiungimento di un accordo trale parti, nel rispetto del MandatoONU. L’attività di UNIFIL è pertantolegittimata oltre che dalla Comunitàinternazionale che ha sostenuto la Ri-soluzione 1701, soprattutto dai dueGoverni direttamente interessati allasoluzione della vertenza.In un organismo complesso e delica-to come una missione internazionaledi pace, sotto l’egida ONU, la com-posizione multinazionale e multietni-ca non deve essere considerata unfattore di debolezza o di rischio, ben-sì un valore aggiunto per l’assolvi-mento del Mandato, sempre che gliattori sul terreno, sia pur con convin-zioni, esperienze e culture diverse,sappiano operare con piena onestàintellettuale, assoluta dedizione e in-dispensabile rispetto delle realtà so-ciali, politiche e religiose del Paeseche li ospita.L’applicazione di tali principi, ben ra-dicati negli animi dei soldati di pace

italiani, rappresenta il motivo del cre-scente successo, universalmente rico-nosciuto in campo internazionale, edella stima guadagnata sul campodalle Forze Armate italiane impegna-te nelle missioni di pace dell’ONU.

Paolo SerraGenerale di Divisione,

Comandante di UNIFIL

NOTE

(1) Dalla Dichiarazione di Indipendenzadalla Francia (Governo di Vichy) del 22novembre 1943.(2) Elemento più importante del sistemapolitico libanese. Secondo tale principiol’appartenenza religiosa di ogni singolocittadino diventa il principio ordinatoredella rappresentanza politica e il cardinedel sistema giuridico. Anche gli incarichiamministrativi sono suddivisi tra le diffe-renti confessioni religiose secondo unmeccanismo predeterminato di quote ri-servate, che sono attribuite a ciascungruppo in funzione del suo peso demo-grafico e sociale (in esito a un censimentoeffettuato nel 1932). In base a una con-venzione costituzionale siglata informal-mente come Patto Nazionale (al-mīthāq al-watanī) nel 1943, che integra o interpretala Costituzione del 23 maggio 1926, le più

alte cariche dello Stato sono assegnate aitre gruppi principali: il Presidente dellaRepubblica è maronita, il Primo Ministroè sunnita e il Presidente del Parlamento èsciita. Tale Suddivisione si rispecchia an-che nelle Forze Armate e in quelle di Si-curezza dove il Capo di Stato Maggioredella Difesa è maronita.(3) Religioni e Confessioni religiose pre-senti in Libano:• Religione cristiana, Confessioni: ma-

ronita, greco-ortodossa, greco-cattoli-ca (melchita), armena, apostolica, ar-meno-cattolica, siriaco-ortodossa, si-riaco-cattolica, protestante, copta, as-sira, caldea e cattolica di rito latino;

• Religione musulmana, Confessioni:sunnita, sciita ismailita e, in aggiunta,le comunità alauita e drusa;

• Religione ebraica.(4) Di cui il 34% dipendenti internazio-nali dell’ONU e il 66% cittadini libanesiassunti dalla Missione.(5) United Nations Truce Supervision Orga-nization. L’operazione, iniziata nel mag-gio del 1948, è la prima operazione di pea-cekeeping del’ONU. Gli osservatori con-trollano il cessate il fuoco e il rispetto del-l’armistizio, prevengono l’escalation dellatensione e forniscono assistenza alle altremissioni dell’ONU nella regione per ilconseguimento dei rispettivi mandati.(6) Un esempio è costituito dal distaccca-mento Human Terrain sloveno (11 unità)operante nel Settore Ovest di UNIFIL.

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Il Libano è un Paese piccolo mamolto affascinante, affacciato perdecine di chilometri sul Mediterra-neo. A Beirut la Repubblica nasceprima che in Italia, esattamente nel1943, al termine del Protettoratofrancese. Da allora le massime ca-riche dello Stato sono ripartite tra irappresentanti delle grandi comu-nità religiose: quella cristiana ma-ronita (che esprime il Presidentedella Repubblica), la sciita (il Pre-sidente del Consiglio) e la sunnita(il Presidente del Parlamento).Per comprendere però come vive ilLibano di oggi, testimone della mira-colosa «tregua» di cui parla il Presi-dente Suleiman nel suo discorso allaNazione, occorre concentrarsi sul po-polo libanese: mix interreligioso emulticulturale unico al mondo.Quando nel 1932 si indice il primocensimento nazionale, la popolazionecristiana del Libano rappresenta il50,4% del totale, quella sunnita il22,5% e quella sciita solo il 19,8. Pro-

prio sulla base di queste proporzioni,si stabilisce l’equilibrio del nuovoStato. Ma le cose cambiano presto:nel ’48 il Sud del Paese è inondato daalmeno 100 mila palestinesi in fuga;comunità ingombrante che, chiusa incampi profughi, si accresce negli an-ni, senza integrarsi. La questione pa-lestinese porta a ripetuti conflitti traBeirut e Tel Aviv, ma, soprattutto, èla miccia che fa esplodere una san-guinosa, interminabile guerra civile(1975-90), a cui si aggiunge l’invasio-ne israeliana e, successivamente, lapresenza delle truppe siriane sul ter-ritorio dello Stato. Decenni di odio eviolenza tra Stati confinanti, tra con-cittadini musulmani e cristiani, maanche tra fazioni diverse della stessacomunità religiosa.La cosiddetta «Svizzera del MedioOriente» si trasforma in un campodi macerie e, chi può, scappa. Pren-de forza una diaspora che, alla lun-ga, ribalta demograficamente il Pae-se: oggi i libanesi che vivono al-l’estero (4 milioni e 470 mila) hannosuperato quelli che risiedono in pa-tria (4 milioni e 100 mila), secondo ilLebanese Emigration Research Centerdell’Università «Notre Dame diLouzane», Beirut.Ma la massiccia emigrazione è cau-sa di instabilità: le proporzioni tracristiani, sciiti e sunniti indicate dalcensimento del 1932 - proporzioniche giustificano l’attuale divisionedei poteri dello Stato - oggi sonoanacronistiche. A ottant’anni dalprimo censimento, per paura dicompromettere il pur fragile equili-brio raggiunto, nessuno si azzarda aproporne un altro. All’inizio del se-colo scorso, il 75% dei neonati eracristiano, oggi i cristiani rappresen-tano poco più del 24%. Se nel 1920 i

cristiani erano il 69% della popola-zione, nel 2006 non erano più del35%. Se nel 1990, alla fine dellaguerra civile, il 45% dei lavoratoridel pubblico impiego era cristiano,nel 2007 non superava il 15%.Le differenze religiose, pur descri-vendo con i numeri una situazioneframmentata e sempre più sbilan-ciata verso le confessioni islamiche,nella realtà appaiono meno proble-matiche; benché nel sud del Libanola quasi totalità delle comunità ri-sulta sciita, il dialogo interconfes-sionale avviene sotto i nostri occhi,favorito da legami profondi con ilterritorio e dal reciproco rispetto. Iproblemi più evidenti sono dovutialla mancanza di energia elettrica eacqua corrente nei villaggi, condi-zione che avvilisce la popolazione ecausa frequenti proteste nei riguar-di dell’autorità centrale.I mesi scorsi ho incontrato tutte lemaggiori cariche religiose presentinel Sud, avvalendomi degli ottimirapporti favoriti negli anni dai mieipredecessori. Con ognuno di loroho avuto facilità di dialogo e massi-mo supporto nella cooperazione ci-vile e militare, stupendomi di quan-to fosse moderno il loro rapportocon le altre confessioni. Ogni reli-gioso ha il massimo rispetto per ilcorrispettivo di un’altra confessionee il dialogo interconfessionale è difatto una realtà.Sul territorio della mia area di re-sponsabilità, ho realizzato progetti dicooperazione condivisi da sciiti e cri-stiano maroniti come a esempio la ri-strutturazione della chiesa di S. Tom-maso a Naffhakie, un villaggio di 400abitanti, quasi tutti musulmani, incui il Moktar (sciita) aveva avanzatoalla mia cellula CIMIC la richiesta di

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LIBANO 2012IL�CONTINGENTE�ITALIANO�OGGI

JOINT TASK FORCE LEBANON

Assetti nazionali impiegati

• Personale: 1 100 uomini e donne;• un Battle Group;• un Gruppo di supporto di aderenza;• un battaglione di supporto alle atti-

vità operative;• un’unità di riserva;• assetti dell’Aviazione dell’Esercito

e della Marina;• una componente Carabinieri con

compiti di Polizia Militare.

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miglioramento della chiesa, per poterdare un luogo di culto ai suoi concit-tadini cristiani. Vedere nella stessapiazza un campanile e un minaretonon è raro qui in Libano ed è la testi-monianza di quanto sia evoluto ilconcetto di rispetto reciproco e con-divisione del territorio.Proprio questi giorni ho assistito al-la riapertura di diverse scuole, in-contri alquanto usuali per il coman-dante di un settore della missioneUNIFIL (United Nation Interim Forcein Lebanon). Spesso sono stato invi-tato negli istituti in cui i miei uomi-ni hanno attivato progetti di coope-razione civile e militare volti all’in-fanzia e alla didattica. Quest’annotali inviti hanno avuto per me e peri miei uomini un sapore particolare,poiché quelle classi, composte dabambini di sei anni al primo giornodi primaria (il sistema scolastico li-banese è molto simile a quello italia-no), rappresentano la generazione,la prima da oltre 40 anni, che nonha ricordi vivi di conflitti armati,guerre civili, occupazioni e violenzee che potrebbe essere la chiave perrisolvere gran parte dei dissidi cheancora animano i popoli confinantiin questa area del mondo.Sei anni fa, e non è certo un caso, do-po 34 giorni di conflitto e senza la fir-ma di alcun armistizio, il Libano eIsraele hanno consentito il dispiega-mento di un contingente militare del-le Nazioni Unite. A partire dal 16agosto 2006, in accordo alla Risolu-zione 1701 (2006), le IDF (Israel Defen-ce Forces) hanno iniziato il ritiro dalSud del Libano verso la Blue Line; taleritiro, verificato da UNIFIL, è coinci-so con il parallelo dispiegamento, de-ciso dal Governo libanese il 7 agosto2006, di quattro Brigate delle LAF(Lebanese Army Forces) a sud del fiu-me Litani, per iniziare a prendere ilcontrollo delle aree precedentementeoccupate dalle IDF. In tale contesto leunità di UNIFIL, su richiesta del Go-verno libanese, hanno agito come«forze cuscinetto» tra le IDF e le LAF.Il Consiglio di Sicurezza delle Na-zioni Unite, nel richiedere la cessa-

zione delle ostilità fra Hezbollah elo Stato di Israele e sollecitare l’in-tervento delle Nazioni per assume-re una vasta gamma di responsabi-lità di carattere politico, umanitarioe militare, ha previsto il potenzia-mento del contingente militare diUNIFIL (che a quel momento con-tava circa 2 000 uomini) fino a unmassimo di 15 000 uomini, daschierare in Libano in fasi successi-ve, espandendo l’area di operazioni

a tutto il territorio libanese a Suddel fiume Litani.Il 29 agosto 2006, al termine delleoperazioni di imbarco dei materiali edegli assetti del reggimento «SanMarco», del reggimento lagunari«Serenissima», unità di supporto(NBC, EOD, genio) dell’Esercito edel plotone di Polizia Militare deiCarabinieri, partiva dall’Italia ilGruppo Anfibio interforze (JATF-L).Il 1° novembre 2006, il Comandantedella neonata Joint Landing Force -Lebanon assumeva la responsabilitàdel Settore Ovest dell’AoR (Area diResponsabilità) di UNIFIL e, conte-stualmente, della Brigata Ovest del-la forza ONU, composta da due bat-taglioni italiani, uno francese e unoghanese. Il 2 febbraio 2007, il Gene-rale italiano Claudio Graziano, dan-do il cambio al Generale di Divisio-ne francese Alain Pellegrini, assu-meva il Comando della forza ONUin Libano (UNIFIL).

In questi sei anni la fisionomia dellaBrigata Ovest di UNIFIL si è modi-ficata nei numeri, nella dislocazionedelle basi e nella composizione del-le bandiere che sventolano sul piaz-zale dinanzi il Quartier Generale diShama.Il contributo italiano è molto impor-tante, e assicura alle Nazioni Unite laleadership della missione con la nomi-na del Generale di Divisione PaoloSerra, lo scorso 28 gennaio, e il Co-mando di uno dei due settori in cui èdivisa l’area terrestre di responsabili-tà. L’Italia infatti partecipa alla mis-sione «Leonte» (antico nome del fiu-me Litani) con un contingente milita-re di circa 1 100 militari.Dal 9 maggio 2012, il Comando delSettore Ovest di UNIFIL e del Con-tingente nazionale è composto damilitari della 132a Brigata corazzata«Ariete», al terzo mandato in questaoperazione, che costituisce la JointTask Force italiana in Libano (JTF -L).Nella Joint Task Force Lebanon sonopresenti i seguenti assetti nazionali:un Battle Group di manovra (ITAL-BATT dislocato presso la base di AlMansouri), su base 32° reggimentocarri «Ariete» di Tauriano (PN) neicui ranghi operano unità del 132°reggimento artiglieria e dell’11° reg-gimento bersaglieri della Brigata«Ariete», oltre a uno squadrone delreggimento «Lancieri di Novara»(5°). ITALBATT contribuisce con glialtri Battle Groups stranieri al control-lo della Blue Line e del territorio delSud del Libano in supporto alle For-ze Armate libanesi; un Gruppo sup-porto di aderenza (CSS BN dislocatopresso la base di Shama), su basebattaglione logistico «Ariete» di Ma-niago (PN), che garantisce il soste-gno logistico al contingente attraver-so le proprie componenti trasporti,rifornimenti, mantenimento, assettisanitari, nuclei di disinfezione e spe-cialisti NBC e dirige i transiti doga-nali attraverso un’unità di gestionetransiti (JMOU) dislocata a Beirut;un battaglione di supporto alle atti-vità operative (CS BN dislocato pres-so la base di Shama), composto da

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unità tecnico- specialistiche del 10°reggimento genio guastatori di Cre-mona, dell’11° reggimento trasmis-sioni di Civitavecchia e dal RepartoComando e Supporti Tattici «Ariete»di Pordenone; un’unità di riserva(SMR dislocata presso la base di Sha-ma e posta alle dirette dipendenzedel Comandante della Sector West)tratta da uno squadrone pesante delreggimento «Nizza Cavalleria» (1°)di Pinerolo (TO); assetti dell’Avia-zione dell’Esercito, della Marina euna componente di Polizia Militaredell’Arma dei Carabinieri.Il Comando del contingente è stan-ziato nella base «Millevoi» pressoShama (sede anche del Comandodel Settore Ovest di UNIFIL), men-tre l’unità di manovra e i supportisono suddivisi tra le basi di Al Man-suri, Shama e basi operative avan-zate stanziate lungo la Blue Line.Nell’ambito del Contingente nazio-nale operano unità del Brunei, Gha-na, Corea del Sud, Slovenia, Irlan-da, Finlandia, Malesia e Tanzania.La componente dell’Aviazione del-l’Esercito (Task Force «Italair»), subase 2° reggimento AVES «Sirio» diLamezia Terme, è costituita da eli-cotteri AB-212, con compiti d’eva-cuazione sanitaria, ricognizione, ri-cerca e soccorso e collegamento. Es-sa è stanziata a Naqoura, alle dipen-denze del Comandante di UNIFIL,e ha la memoria storica della mis-sione in Libano essendo stata schie-rata sin dal 1979.Il Libano è un Paese sovrano e lanostra presenza si è intersecata neltempo con il contemporaneo dispie-gamento delle Forze Armate libane-si nel Sud del Paese, in un area dovel’occupazione israeliana prima el’assenza di Istituzioni poi avevanonegato la minima presenza di forzemilitari regolari, o di polizia, fino al2006. La presenza di Forze Armateregolari libanesi, le uniche autoriz-zate dalla Risoluzione 1701 a opera-re nel Sud del Libano nell’area dioperazione dell’ UNIFIL, ha facilita-to il nostro compito, permettendocidi penetrare in maniera sempre più

evidente nei territori e nei villaggisituati nelle aree più colpite dallaguerra del 2006 e dimostratesi piùostili alle truppe ONU nelle fasi ini-ziali del dispiegamento.Dal canto loro le LAF, operando coni Caschi Blu, hanno acquisito mag-giori capacità operative e hanno so-prattutto migliorato la loro credibi-lità nel Paese, assumendosi la re-sponsabilità di garantire la sicurez-za del Libano e la salvaguardia del-le Istituzioni centrali.Vedere i Caschi Blu italiani operare

in stretto coordinamento con le For-ze Armate libanesi è il modo mi-gliore per misurare gli effetti delnostro lavoro; pattuglie e checkpoints congiunti completano lospettro delle attività cinetiche con-dotte sul territorio per assicurarneil controllo ed evitare il trasporto ela circolazione di qualsiasi elemen-to armato e armamento diverso daquelli autorizzati.Il secondo compito che il mandatodelle Nazioni Unite ci assegna èproprio quello di supportare le LAFnello svolgimento dei compiti istitu-zionali a cui si ispirano, e coadiu-varle su loro richiesta, nell’imple-mentazione di capacità, assetti eprocedure in cui risultano ancoradeficitarie. A tal proposito sono sta-ti molto importanti i momenti ditraining on job in cui il nostro perso-nale tecnico ha favorito la familia-rizzazione dei paritetici libanesi ri-guardo il mantenimento di mezzi emateriali ceduti con accordi bilate-rali dal nostro Paese al Libano, e i

corsi attivati dal contingente italia-no volti a creare nuove professiona-lità tra le LAF. Tra questi, è operati-vo in questi mesi l’addestramentocongiunto delle squadre NBC e siriattiverà a breve quello relativo alcontrollo della folla, necessario aformare in tale ambito il personalelibanese.Per conoscere il Libano del 2012 ènecessario conoscere le vicissitudinilegate alla Blue Line, la linea di de-marcazione che insiste tra la «Terradei Cedri» e Israele. Una linea indi-viduata tra campi minati, macchiamediterranea e quote elevatissime eche corre dal Mediterraneo al Golanper 119 km, 51 dei quali cadono al-l’interno dell’area di responsabilitàdel Settore Ovest, sotto il mio diret-to controllo.Il controllo della Blue Line è basilareper garantire il rispetto della cessa-zione delle ostilità, ed è svolto dalcontingente italiano, al pari dei con-tingenti stranieri posti alle dipen-denze del Settore Ovest, con conti-nui pattugliamenti, posti di osserva-zione fissi e mobili e presidiando al-cune basi avanzate poste in prossi-mità del territorio israeliano.Evitare violazioni territoriali volon-tarie e casuali è necessario soprat-tutto ad abbassare le tensioni escongiurare dissidi ulteriori tra leparti, condizione fondamentale inmomenti in cui il contesto interna-zionale non consente facilità di dia-logo e non aiuta il confronto pacifi-co tra i contendenti.Negli occhi di ognuno dei miei smi-natori, la Blue Line è il limite entrocui termina il corridoio da bonificaredalle mine antiuomo e anticarro dis-seminate sin dagli anni ’70 dall’Eser-cito israeliano; lo sminamento è uncompito oneroso e svolto in condi-zioni ambientali spesso proibitive,ma è fondamentale affinchè si possaprocedere al completamento del-l’Operazione «Blue Line Marking Pro-ject», che consentirà, con il posizio-namento di circa 500 piloni (Blue Pil-lar), di segnalare e rendere visibile illimite territoriale che intercorre tra

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Libano e Israele.Il ritrovamento di una mina, e ilsuccessivo brillamento è sinonimodi una vita salvata, ma un ordignobonificato in Libano nei pressi dellaBlue Line è la sintesi del dialogo trale parti e dell’accordo raggiunto inmaniera lunga e complessa tra duePaesi.Le bonifiche di corridoi larghi circa2 metri nei campi minati israelianisono il prodotto di un lungo lavoro,nato dalla volontà espressa delleparti, dal dialogo intavolato dalladiplomazia della missione UNIFIL eanche dal paziente lavoro dei Ca-schi Blu italiani che per mesi, avan-zando di 5 centimetri per volta, ope-rano seguendo procedure rigidissi-me, utilizzando equipaggiamentiprotettivi e attrezzature specifiche emettendo soprattutto cuore e sacri-ficio su ogni lembo di terreno cheattaccano.Le attività che vengono svolte gior-nalmente dal contingente italianogarantiscono un efficace controllodel territorio e svolgono un impa-reggiabile compito di deterrenza ri-guardo a qualsiasi violazione terri-toriale e trasgressione dei vincoliimposti dalla Risoluzione 1701. Essesi realizzano all’interno di un conte-sto sociale consolidato e per questomotivo ogni soldato sul terreno hala necessità di interagire con la po-polazione, favorendo o peggioran-do l’efficacia delle attività operativecinetiche in base alla propria capaci-tà di comprendere il popolo libane-se, il suo ambiente, la sua cultura, lesue abitudini e le sue aspirazioni. La chiave di volta del successo del-l’operazione UNIFIL sul terreno èsenza dubbio l’aver compreso subi-to l’importanza strategica della con-divisione degli scopi e l’importanzadel dialogo con coloro che abitanoquesto territorio; il consenso è allabase di ogni operazione di pace;averlo ottenuto e saperlo manteneresignifica poter implementare le atti-vità operative e radicarsi sempre dipiù nel tessuto connettivo del Paese.La testimonianza migliore del con-

senso raggiunto negli anni dal con-tingente italiano è il rapporto con lastampa e i media libanesi, oramaigiunto a livelli di collaborazionigiornaliere. Le nostre attività sonoquotidianamente annoverate nellecronache locali, al pari di notizie ge-nerate da fonti istituzionali o reli-giose, confermando la nostra auto-revolezza e il rispetto che i libanesici accordano.Lo sviluppo di microeconomie trai-nate dapprima dalla domanda di-rettamente connessa al dispiega-mento delle forze UNIFIL e, succes-sivamente, dal rientro nel Sud diemigranti provenienti dal Nord delLibano o dai Paesi della regione, èstato la causa-effetto di un virtuosoprocesso di crescita infrastrutturale,reso possibile dagli investimentidella comunità internazionale e dalrientro di capitali locali, favoritodalla proverbiale stabilità del Paesenegli ultimi 6 anni.Anche il contingente italiano haoperato e continua a operare con leautorità locali, favorendo la realizza-zione di progetti condivisi, che miri-no, nel medio termine, allo sviluppodelle aree depresse e, nel brevissimoperiodo, a migliorare le condizionidi vita della popolazione residente.Importanti e decisive sono le campa-gne sanitarie e veterinarie condottedagli assetti nazionali nei villaggidel sud, dove sono del tutto assentiambulatori medici, cliniche e ospe-dali. La sanità in Libano ha costi nonaccessibili ai più, e le capacità sani-tarie rese disponibili nei villaggihanno permesso di trattare negli an-ni diverse migliaia di persone, conmemoria di diversi interventi salva-vita molto apprezzati dalla popola-zione e campagne informative pres-so scuole e villaggi.I progetti CIMIC realizzati hannoabbracciato vari ambiti di interven-to, coinvolgendo tutta l’area di re-sponsabilità del Settore Ovest: coo-perazioni rivolte all’infanzia, alla di-dattica, alle infrastrutture, all’am-biente e qualsiasi altra area tematicarichiesta. Alla base della cooperazio-

ne civile e militare deve esserci lacondivisione dei progetti, la respon-sabilità dei soggetti richiedenti e ladisponibilità dei donatori. La gene-rosità del popolo italiano ci permet-te di realizzare progetti volti al mi-glioramento della vita dei cittadinidel Libano del sud che devono, peril tramite dei loro rappresentanti po-litici e autorità locali, diventare, do-po esserne stati i promotori, i garan-ti della conservazione del progettorealizzato.I media libanesi mostrano una cre-scente sensibilità rispetto alle temati-che ambientali, facendosi sempre piùi portavoce del recupero, della prote-zione e prevenzione ambientale edello sviluppo sostenibile. Ne conse-gue che parte delle nostre coopera-zioni civili e militari gravitino su te-matiche ecologiche inerenti il control-lo e la bonifica di discariche abusivee progetti di differenziazione dei ri-fiuti solidi attraverso la realizzazionedi impianti di compattazione che ser-vissero più comunità limitrofe.Il Libano del 2012, visto dalla basedi Shama, è un Paese vivo, energicoe orgoglioso, che sta assaporando ifrutti della stabilità e ne apprezza ibenefici. I Caschi Blu della 132a Bri-gata corazzata «Ariete», al terzomandato nella «Terra dei Cedri»,sono testimoni dell’evoluzione edel miglioramento delle condizionidi vita avuti nel Sud del Paese dal2006, avendo il ricordo vivo dellostato in cui versava questo Paesenelle fasi iniziali della missioniUNIFIL 2. L’irreversibilità di que-sto nuovo corso dipende molto dal-la volontà di questo popolo di ve-dere ogni anno nuove generazioniavviarsi alla vita scolastica e socialesenza avere i segni della guerra edelle violenze nel fisico e, soprat-tutto, nella mente.

Gaetano ZaunerGenerale di Brigata,

Comandante della Brigata corazzata«Ariete»,

Comandante del Settore Ovest di UNIFIL e del contingente nazionale

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L’iconografia ufficiale che per più diun decennio ha accompagnato l’im-pegno dell’Esercito Italiano in Koso-vo nell’ambito dell’odierna operazio-ne «Joint Enterprise» contiene, preva-lentemente, immagini di soldati ita-liani posti a protezione del Monaste-ro di Decani; non a caso, centinaia diAlpini, Bersaglieri, Cavalieri, sinoagli attuali Artiglieri controaerei, sisono dati il cambio nel difendere ilsimbolo per eccellenza della presen-za cristiano-ortodossa serba in terrabalcanica. Ma l’opera delle donne edegli uomini della Forza Armata nel-l’ambito della Kosovo Force, la ben no-ta KFOR, non è solo quella rappre-sentata nelle foto o nei filmati ripresiattorno allo splendido monumentomedioevale della Metohija (1), a unadecina di chilometri dalla città di Pec.Alla costante, diuturna azione milita-re italiana di protezione degli ultimiPRDSS (2) sotto la responsabilitàmultinazionale, al pattugliamentodelle zone a criticità interetnica cheinsistono nell’area di responsabilitàoperativa del Multinational BattleGroup West, a leadership italiana, si èaggiunta, dal 2008, la guida della Mi-litary Civil Advisory Division (MCAD)

nell’ambito del Comando della Koso-vo Force e, unicum operativo, attuatoquest’anno da aprile a ottobre, l’im-piego nel Teatro kosovaro dell’ItalianORF Battalion, su framework 11° reggi-mento bersaglieri.

IL KOSOVO E KFOR

Dal 1999, anno di ingresso della NA-TO nell’allora provincia serba delKosovo, 17 Generali, di cui 4 italiani,si sono avvicendati alla guida dellaKosovo Force, forza multinazionale co-stituita nel giugno dello stesso annosulle basi della risoluzione n. 1244del Consiglio di Sicurezza dell’ONU.Durante questi anni, il ruolo diKFOR è cambiato, adeguandosi e ri-configurandosi in maniera sistemati-ca percorrendo una strada parallelaagli sviluppi politici locali e, più ingenerale, strategici che hanno carat-terizzato tutta l’area balcanica in que-sti ultimi due decenni.Nonostante siano passati tredici annidall’inizio della sua missione el’odierno Kosovo si sia autoprocla-mato indipendente dalla Serbia il 28febbraio 2008, molte sfide ancora per-mangono. Il processo di normalizza-zione verso un Kosovo democratico,multietnico, politicamente e social-mente stabile, si muove in un conte-sto balcanico ancora troppo fluido: leonde anomale del terribile maremotoche ha sconquassato la ex Jugoslaviasi sono sì ritirate, portandosi via unaguerra atroce e fratricida, ma hannodepositato nel tessuto culturale e so-ciale delle popolazioni di quest’areaforti e radicate discordie. Il Kosovo,piccola isola in un grande mare fattodi storia antica, di contrapposizionetra Oriente e Occidente, risente conti-nuamente delle mareggiate politicheed economiche che ancora agitanoquesto spicchio di Europa e, pertan-to, non può fare «storia a sè». Anche

se l’aperto antagonismo tra Belgradoe Pristina ha ceduto il passo al dialo-go tra le due Nazioni, sostenuto dal-l’Unione Europea e dalla NATO, lasituazione nel settentrione del Koso-vo è ancora instabile e vede la mag-gior parte della popolazione di que-sta piccola regione a nord della cittàdi Mitrovica riluttante ad accettare leistituzioni kosovare. Malgrado la for-za militare oggi si sia ridotta a un de-cimo di quella che era tredici anni fa,la presenza di KFOR è ancora essen-ziale, ferma e imparziale garante del«safe and secure environment» (SASE) edella «freedom of movement» (FOM) intutto il territorio e per tutti gli attoripresenti, siano essi singoli cittadiniche organizzazioni internazionali.Questo ruolo di KFOR quale prota-gonista reale e attuale della costru-zione dello Stato kosovaro è stato re-centemente ribadito dai Ministri del-la Difesa della NATO, riunitisi il 10ottobre scorso a Bruxelles assieme aicolleghi delle «Non-NATO troop con-tributing nations». Dopo aver discussodella situazione in Kosovo e del rela-tivo livello di sicurezza, i Capi di Di-castero hanno riaffermato, tutti assie-me, l’indispensabilità di KFOR in Ko-sovo. «KFOR has done an excellent jobin maintaining a safe and secure envi-ronment for all people in Kosovo. And itwill continue to fullyimplement its man-date», ha affermato al termine il Se-gretario Generale della NATO.Sebbene il ruolo di KFOR sia statoriaffermato, il contesto in cui l’impe-gno militare della coalizione si muo-ve è radicalmente cambiato: il 10 set-tembre 2012, è stato ufficialmente de-cretato il termine della supervisioneinternazionale sull’Indipendenza delKosovo da parte dell’Ufficio CivileInternazionale (ICO). Tale strutturaorganizzativa multinazionale, creatail 28 febbraio 2008 dal Gruppo diorientamento europeo, ha avuto co-me fine quello di supportare il gover-

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KOSOVO 2012

KFOR

Assetti nazionali impiegati

• Personale: circa 600 uomini e donne;• un complesso di forze specialistiche,

pluriarma e interforze.

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no kosovaro nell’implementazionedella «Comprehensive Status Proposal».Si tratta di un progetto politico, eco-nomico e sociale che prevede – ap-punto - l’indipendenza del Kosovo inparte controllata dalla comunità in-ternazionale ed è meglio conosciutocome «Piano Ahtisaari» (3), dal nomedell’Inviato Speciale pro-tempore delSegretario Generale delle NazioniUnite Kofi Annan. Il piano rappre-senta, probabilmente, l’unica «pietraangolare» su cui si sta tentando di co-struire, in una visione comprensiva,pacifica e rispettosa delle parti in cau-sa, la soluzione definitiva della «que-stione kosovara». Tuttavia, sebbenenel documento sia trasversalmenteindividuata la maggior parte delleproblematiche che caratterizzavano ilKosovo nel 2007 – e che lo caratteriz-zano ancor oggi -, quali, ad esempio,la rappresentazione democratica del-le diversità etniche, la protezione deisiti culturali e/o religiosi, l’ammini-strazione della Giustizia e della Pro-prietà, il settore Sicurezza e la presen-za civile e militare internazionale,l’applicazione pratica delle «guidan-ce» ha trovato non pochi ostacoli. Seda un lato, infatti, l’atteggiamentoserbo nei confronti di Pristina è stato,nel tempo, altalenante, oscillando traproclami nazionalistici (nei quali ilKosovo è marchiato, senza alternati-va, come una provincia di Belgrado)e posizioni di apertura (proponendo-si quale interlocutore moderno e libe-ro dal passato per assicurarsi l’ingres-so nella Comunità europea), dall’al-tro il rifiuto del Piano stesso rappre-senta una nota costante nell’approc-cio di Belgrado alla questione koso-vara. Tale approccio lo si può ritrova-re nei kosovari serbi che vivono nelnord del Kosovo, che non hanno maismesso di ritenersi esclusivamenteparte della Serbia e, per questo, si so-no sempre opposti all’implementa-zione del Piano. Purtroppo, questacomunità di circa 40 000 serbi rappre-senta, di fatto, l’attore principale conil quale si è dovuta confrontare la Co-munità Internazionale e il governo diPristina nel percorso verso un Koso-

vo stabile e pacifico. In definitiva,l’area delimitata dal corso naturaledel fiume Ibar fino alla AdministrativeBoundary Line (ABL) che separa il Ko-sovo dalla Serbia, è diventata la verasfida con la quale misurarsi; un picco-lo territorio di un Paese di per sé nonvasto rappresenta ancora il problemada risolvere. Nel nord del Kosovo,dove le 4 maggiori municipalità (Mi-trovica, Zubin Potok, Zvecan, Lepo-savic) sono amministrate da rappre-sentanti serbi kosovari, sulla popola-zione locale, già di per sé caratteriz-zata da una culturale negazione perl’identità nazionale kosovara, è tutto-ra forte l’influenza del governo di

Belgrado, radicata la presenza di fun-zionari del Ministero degli Interniserbo, attiva l’opera di gruppi eversi-vi e del crimine organizzato e, non ul-tima, vincolante la «parola» dellaChiesa Serbo-Ortodossa. In un siffat-to contesto di riferimento, KFOR nonsi raffigura più come una presenzamilitare di routine; le operazioni con-dotte dalla Kosovo Force nell’imple-mentare il SASE e la FOM sono dive-nute un indicatore di progresso, o diregresso, nel raggiungimento degliobiettivi fissati dal «Piano Ahtisaari».Infatti, anche quando ci sono statipassi in avanti nella normalizzazionedelle relazioni tra Pristina e Belgrado,eventi anche cruenti hanno spessofatto da contraltare e le azioni diKFOR hanno permesso di valutare il

grado di sicurezza dell’area e lo statodell’arte per quanto riguarda l’accet-tazione della presenza di Pristina sul-l’intero territorio.

KFOR E IL KOSOVO

KFOR è ancora ritenuta l’organizza-zione internazionale di riferimentoper ambo le parti contendenti. Ben-ché il mandato del Comando diFilm City sia circoscritto al manteni-mento di un ambiente sicuro e allagaranzia della libertà di movimentoper tutti e in tutto il Kosovo, la coa-lizione è sempre presente nei mag-

giori consessi internazionali dove illento dipanamento della problema-tica socio-politica locale necessitadelle esperienze e delle percezioniproprie della componente operativamilitare. Il differimento della pro-grammata diminuzione delle forzedi KFOR (passaggio alla MinimumPresence, originariamente previstonel 2011) fino a quando non saran-no presenti le condizioni per garan-tire un SASE e una FOM sostenibilenel tempo e con assetti militari ri-dotti, evidenzia come la componen-te militare di pace sul terreno sia di-venuta uno dei motivi, non la con-seguenza, delle scelte che la Comu-nità Internazionale deve assumere.EULEX, l’organizzazione europea chedal 2004 supporta il governo Kosova-

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ro nell’ambito dell’amministrazionedella giustizia, che opera principal-mente presso il Tribunale di Mitrovicae supporta la Kosovo Police nella ge-stione della Pubblica Sicurezza, nonsembra avere ancora ottenuto la fidu-cia da parte dei serbi kosovari delnord. Se nel resto del Kosovo le enclavea maggioranza serba mostrano una re-lativa pacifica accettazione del gover-no di Pristina e non sono più percepi-bili come possibili focolai di rivoltae/o violenza, a nord hanno sempremanifestato la propria intolleranzacolpendo in maniera diretta (anchecon scontri a fuoco) e indiretta (bloc-cando il transito) non solo i rappresen-tanti delle Istituzioni kosovare ma an-che la polizia di EULEX. In tale conte-sto, le azioni del governo kosovaro so-no state sempre e duramente contesta-te dalla popolazione a nord dell’Ibar,anche con atti di inaudita violenza.Gli ultimi diciotto mesi sono statiuna sfida continua per KFOR. Glieventi di luglio 2011 sono l’originedelle tensioni che ancora sostanzial-mente delineano il quadro operativoin cui la coalizione si sta muovendo.Il casus belli è stato l’istituzione deltimbro doganale kosovaro, riportantela scritta «Repubblica del Kosovo»che la United Nations Mission In Koso-

vo (UNMIK) nel 2009 aveva definiti-vamente approvato, a seguito delladichiarazione compatibilità con lalegge internazionale della proclama-zione sull’indipendenza del Kosovoformulata dalla Corte Internazionaledi Giustizia e in linea con quantosancito nel Central European Free Tra-de Agreement (CEFTA). A seguito del-l’implementazione dell’uso del tim-bro ai valichi di frontiera tra Serbia eKosovo, Belgrado ha risposto conl’imposizione dell’embargo dei pro-dotti riportanti lo stampo doganalekosovaro, innescando analoga rea-zione del governo di Pristina sui pro-dotti provenienti da Belgrado. L’em-bargo incrociato ha, tuttavia, genera-to la violenta risposta dei serbi koso-vari del nord che usufruiscono quoti-dianamente delle merci di importa-zione serba. I posti di frontiera neipressi delle città di Jarinie e Brniaksono stati assaltati e devastati e, negliscontri con la polizia kosovara, unpoliziotto delle forze speciali di Pri-stina è rimasto ucciso. A ristabilirel’ordine alle frontiere è intervenutoKFOR ma la protesta serba ai valichisi è trasformata in una fitta rete diblocchi stradali sulle principali vie dicomunicazione che da Mitrovica con-ducono verso il confine, rendendo

praticamente impossibili i movimentidi EULEX e della polizia doganalekosovara. La risposta della NATO èstata incisiva e determinata: per man-tenere il «safe and secureenvironment»e la «freedom of movement», Bruxellesha deciso di schierare in Teatro il Bat-taglione austro-tedesco in riservaORF (Operational Reserve Force), cosìda garantire una presenza più effica-ce sul territorio, una deterrenza piùmarcata e una capacità di reazione intermini di controllo della folla pres-soché immediata. Solo a settembre2011, a seguito di un ulteriore sessio-ne di dialogo tra le parti, accordan-dosi sulla dicitura «Dogana Kosovo»,l’embargo incrociato è stato rimosso.Nel frattempo, la mancata rimozionevolontaria dei numerosi blocchi stra-dali eretti dai serbi kosovari ha ne-cessariamente generato l’interventodi KFOR per assicurare la FOM. Insostanza, ad azioni più marcatamen-te cinetiche, volte allo smantellamen-to dei blocchi e al controllo dei prin-cipali incroci stradali, che purtroppohanno provocato la reazione – anchearmata – di frange di oltranzisti koso-vari serbi con numerosi feriti da en-trambe le parti, si sono alternate atti-vità di mediazione e di controllo in-diretto delle azioni di protesta. Dasettembre 2011 sino a giugno 2012,KFOR ha dovuto smantellare blocchistradali, controllare punti nevralgicidel traffico verso la Serbia, affrontarela protesta anche violenta degli estre-misti serbi kosovari, garantire la sicu-rezza dei punti di frontiera, chiuderei numerosi sentieri creati dal nulla evolti a bypassare i controlli doganalialla frontiera, senza comunque di-menticare di proseguire sulla via del-la normalizzazione, procedendo - adesempio - nel processo di «unfixing»delle forze della coalizione devoluteal controllo dei già citati PRDSS, pas-sando la responsabilità della sicurez-za del monastero di Devic alla poli-zia kosovara. La Coalizione ha con-tato numerosi feriti tra le proprie fi-la ma è sempre riuscita ad esserepaziente nella mediazione, determi-nata nell’azione, proporzionata nel-

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la reazione.In tale difficile e complesso conte-sto, i soldati italiani hanno fatto laloro parte e «in prima linea», da Mi-trovica a Decani, da Pec a Zubin Po-tok, con gli assetti del Battle GroupWest, quelli del Joint Regional Deta-chment West e dell’Italian ORF Batta-lion. Associando disponibilità aldialogo con tutte le etnie presenti erisolutezza nell’esecuzione dei com-piti assegnati, i Bersaglieri dell’11°,gli Artiglieri del 21° e del 2° damontagna, i controaerei del 17°, iGenieri del 10°, i Trasmettitori del7° e dell’11°, nonché tutti gli assettiche hanno operato per integrare lecapacità operative espresse dalleunità italiane sul terreno (185° RAO,6° e 10° RETRA, 7° NBC, 28° Pavia,reggimento lagunari, Reparto MezziMobili Campali), hanno onorato lamissione evidenziando flessibilitàdi impiego e grande adattabilità allasituazione. Ancora una volta, la di-namicità e la multilateralità nell’ap-proccio alla missione costituisce lavera «chiave di volta» per la risolu-zione dei problemi operativi in unTeatro, come quello kosovaro, carat-terizzato dalla estrema permeabilitàe interconnessione tra l’aspetto tec-nico-militare e i fattori strategici,politici, storici, culturali e sociali.

LA MILITARY CIVILADVISORY DIVISION (MCAD)

La credibilità di KFOR è fondata sul-la capacità di dialogare con tutte leparti in gioco. Oltre agli assetti tipica-mente operativi e alla suddivisioneortodossa del Comando in branche«J», KFOR mantiene alcune compo-nenti organizzative peculiari, focaliz-zate proprio sul dialogo a vari livelli.Tra queste, degni di menzione sono:il Joint Execution Component (JEC), cheè il referente per i rapporti con le co-munità kosovare serbe e albanesi at-traverso l’azione quotidiana dei Liai-son and Monitoring Teams (2 dei qualisono italiani), definiti «gli occhi e leorecchie di KFOR» nel cuore delle

municipalità, tra la popolazione econ le autorità locali; il Joint Imple-mentation Component (JIC), che so-vrintende ai numerosi contatti traKFOR e le Forze Armate Serbe per lequestioni afferenti all’ABL; infine, laMilitary Civil Advisory Division(MCAD), la struttura organizzativadi KFOR Headquarters più numerosain termini di personale, costituita allafine del 2007 a seguito dell’assunzio-ne, da parte di KFOR, di una nuovamissione derivante dal Piano Ahti-saari, cioè la creazione di un’organiz-zazione istituzionale kosovara di ri-sposta alle emergenze, la Kosovo Se-curity Force (KSF). Dalla sua costitu-zione, la MCAD è sempre stata rettada un Generale di Brigata italiano,che ha contemporaneamente ricoper-to l’incarico di Deputy Chief of Staff(DCOS) di KFOR e Italian Senior Na-tional Representative. L’end-state attua-le fissato dalla NATO per la KSF èrappresentato dal raggiungimentodella full operational capability (FOC)nelle «core missions» (ricerca e soccor-so, capacità EOD, antincendio e trat-tamento dei materiali tossici), in mo-do da essere autosufficiente e in lineacon gli standards fissati dalla NATO.La MCAD, strutturata su sei Diparti-menti direttamente «agganciati» al-l’architettura organizzativa della KSFe, trasversalmente, al Ministero per laKSF, addestra, consiglia e valuta laKosovo Security Force in tutti i suoiaspetti: dalla gestione del personalealla formazione del corpo dottrinale;dalla logistica alle operazioni; dall’or-dinamento all’impiego; dalle infra-strutture agli aspetti relativi alla sicu-rezza fisica e informativa. A tal fine,la Divisione ha creato gli strumentidi analisi e di verifica dei migliora-menti raggiunti attraverso ciclici pro-cessi di valutazione congiuntaKFOR/KSF. I progressi raggiuntidalla KSF, che non può essere ritenu-ta la Forza Armata del Kosovo maun’organizzazione a guida civile ingrado fronteggiare situazioni di crisinazionali (anche in virtù dei vincoliposti dalla Costituzione kosovara fi-no a giugno 2013, quali la dotazione

organica complessiva di 2 500 unitàtra Ufficiali, Sottufficiali e Militari ditruppa, l’assenza di capacità offensi-ve e la disponibilità di solo arma-mento leggero in ridotte quantità),può ritenersi anche un successo ita-liano, tenuto conto che, oltre alla lea-dership della MCAD, l’Italia è la Na-zione maggiormente rappresentatanell’ambito della stessa Divisione.Gli obiettivi strategici da raggiunge-re nella costruzione della KSF sonoprofessionalità e multietnicità, sele-zione del personale trasparente esostenibilità finanziaria. Ad oggi, laKosovo Security Force e il suo Mini-stero rappresentano la miglioreespressione di organizzazione go-vernativa kosovara, seppur con lesue «fisiologiche» lacune e inespe-rienze; è il paradigma istituzionalesul quale la comunità internazionaledeve continuare a indirizzare e in-vestire, per dimostrare che, anche inKosovo, si può raggiungere la civileconvivenza tra le etnie locali, la cor-retta amministrazione della «cosapubblica», il rispetto delle diversitàlocali (religiose, politiche e sociali).

L’ITALIAN ORF BATTALION

Il lavoro e gli sforzi fin qui condottidal personale militare italiano ope-rante nell’ambito di KFOR Headquar-ters sono risultati determinanti e, percerti aspetti, vincenti, se messi in si-stema con quelli raggiunti sul pianooperativo, in particolar modo dal-l’ORF italiano durante la sua perma-nenza in Teatro Operativo. L’unità,logisticamente dislocata presso la ba-se francese di Novo Selo, circa 20 kma sud di Mitrovica, ha assunto la re-sponsabilità della zona di operazionia maggioranza etnica serba-kosovararappresentata principalmente dallavalle di Zubin Potok, nel Nord-Ovestdel Kosovo, percorsa dal fiume Ibar edelimitata a sud-est dall’abitato diZupce e a nord ovest dal punto diconfine con la Serbia di Brnjak, me-glio noto come DOG 31.Le attività dell’11° reggimento bersa-

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glieri sono state caratterizzate da unimpiego a 360° gradi, rappresentatodal continuo e intenso pattugliamentoa piedi e motorizzato dell’area dicompetenza, compresa quella a ridos-so dell’ABL Kosovo-Serbia. Inoltre, lostesso ORF è stato impegnato nell’at-tivazione di numerosissimi VehicleCheck Points (VCPs), nel monitoraggiodelle aree densamente popolate, nellagiornaliera scorta ai convogli di EU-LEX, nella rimozione dei principaliblocchi stradali, anche ricorrendo al-l’impiego degli assetti del genio eNBC organicamente in rinforzo, nel-l’acquisizione e nel presidio di key ter-rains, molto spesso individuati in stra-tegici nodi stradali. In più di una cir-costanza, allorquando ai teams di EU-LEX veniva impedito il movimentoverso i valichi di frontiera, o in occa-sione di azioni cinetiche volte a rista-bilire la freedom of movement, i bersa-glieri, attuando anche misure diCrowd Riot Control (CRC), implemen-tate dal fattore deterrente costituitodai cannoni ad acqua resi disponibiliall’Esercito dalla Polizia di Stato, han-no messo in sicurezza l’area attraver-so l’attivazione di VCPs temporanei ecreando boxes di manovra chiusi altraffico locale, al fine di impedire agliestremisti kosovari serbi di rinforzare,all’occorrenza, i presidi esistenti nellazona interessata dall’operazione.Un’altra peculiarità operativa del-l’Italian ORF Battalion è stata la pre-senza, nell’articolazione delle forze,di un assetto fornito dal reggimentolagunari «Serenissima». Il team,equipaggiato con i barchini asse-gnati alle forze da sbarco dell’Eser-cito Italiano, ha integrato il disposi-tivo schierato dall’11° a ridosso dellago di Gazovide, a valle del citatoDOG 31, assicurando ai Bersaglieriuna capacità pressoché immediatadi ridislocazione e reazione da unasponda all’altra dello specchio d’ac-qua insistente nell’area d’interesse.In definitiva, l’approccio organizzati-vo finalizzato all’assolvimento di unamissione complessa che ha visto l’in-serimento anche di piccole e differen-ti componenti capacitive in un defini-

to contesto ordinativo-organico di ri-ferimento, è stato estremamente effi-cace. La variabilità degli assetti di-sponibili, innestati in un frameworkcapacitivo di fanteria leggera, unita-mente alla rapida comandabilità e al-la visione d’insieme derivante dal li-vello ordinativo reggimentale, hapermesso all’unità di Orcenico Supe-riore di rispondere a tutta la gammadei compiti individuati nell’ambitodella più ampia manovra di KFOR.

CONCLUSIONI

Il termine della Supervisione di Indi-pendenza dello scorso mese di set-tembre, benché si identifichi come unpasso importante verso la futura sta-bilizzazione dell’area in questione,non può essere considerato come lafine delle tensioni interne né il mo-mento per distogliere lo sguardo at-tento da un Paese che rimane unasorta di «pentola a pressione», prontaad esplodere e a vanificare in pochiistanti i progressi faticosamente rag-giunti dalla comunità internazionalenel corso di 13 lunghi anni.Il Kosovo è una terra dai panoramimozzafiato, ma anche erede storicodi ricordi ritenuti quasi ancestrali. Lapiana di Kosovo Poljeri evoca fasti efantasmi che ancora possono confon-dere le menti, che possono rievocarecontrapposizioni che, in realtà, do-vrebbero appartenere al passato o algià vissuto. Integrazione e sguardo alfuturo sono le vie di uscita, soprattut-to se si va a considerare che il Koso-vo è terra principalmente di giovani.Questo è il grande tesoro da custodi-re, la vera occasione di cambiamento,se si osserva che l’età media della po-polazione è di 25 anni e il tasso dicrescita demografico è il più altod’Europa. La ricerca dell’integrazio-ne tra le varie componenti etnichevede l’Italia, grazie anche all’impe-gno dei propri soldati, in posizioneprivilegiata, tenuto conto che sin dal-l’inizio della missione di KFOR gliitaliani hanno dialogato sia con i ser-bi sia con gli albanesi. Infatti, da una

parte proteggono Decani, dall’altrahanno la leadership nella creazionedella Kosovo Security Force, che a ra-gione si può considerare come l’uni-ca istituzione kosovara ad avere lamultietnicità come obiettivo fonda-mentale da raggiungere. Tuttavia,non va dimenticata la peculiarità so-ciale e culturale di questa terra: il Ko-sovo rappresenta troppo per troppepersone e necessita di una soluzionea sé. Non a caso, già nel 2007 MartiAthisaari concludeva così il suo rap-porto: «Kosovo is a unique case that de-mands a unique solution. It does notcreate a precedent for other unresolvedconflicts. In unanimously adopting reso-lution 1244 (1999), the Security Councilresponded to Milosevic’s actions in Koso-vo by denying Serbia a role in its gover-nance, placing Kosovo under temporaryUnited Nations administration and envi-saging a political process designed to de-termine Kosovo’s future. The combina-tion of these factors makes Kosovo’s cir-cumstances extraordinary».

Francesco DiellaGenerale di Brigata,

Capo di SM del 1° FOD,già Italian Senior Representative e

Capo della Military Civil AdvisoryDivision in Kosovo

NOTE

(1) Parte del territorio kosovaro a ovest,durante il medioevo era coperto da «me-tos» – tenute parrocchiali della Chiesa or-todossa serba, da cui ne deriva il nome.(2) Properties with designated special status.(3) Marti Athisaari, diplomatico finlan-dese, dopo quasi un anno trascorso neiBalcani a intessere numerosi contatti di-retti sia con Belgrado che con Pristina,nel marzo 2007 presentò all’ONU unaproposta dettagliata, comunemente de-nominata «Piano Athisaari», dove veni-vano indicate le disposizioni da attuarein Kosovo per la costituzione di un Paesestabile, in grado di sopravvivere e multi-etnico, il quale avrebbe generato, conse-guentemente, la stabilità nell’intera re-gione balcanica.

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Quella delle forze ISAF in Afghani-stan è sicuramente la più complessae per certi versi difficile missionecondotta dalla NATO sin dalla suacostituzione, per altro al di fuoridella tradizionale area di responsa-bilità euro-atlantica. Il compito delle forze della Coali-zione è essenzialmente quello disupportare le forze di sicurezza lo-cali (le Afghan National Security For-ces) per assicurare una situazione disicurezza e garantire stabilità alPaese, facilitandone così il processodi ricostruzione e sviluppo.Trattasi di una tipica Counterinsurgen-cy Full Spectrum Operation (COIN),una miscela di sforzi civili e militaridestinata a contenere contemporanea-mente l’insurrezione e le sue cause.A differenza della guerra conven-zionale, i mezzi non militari e leazioni non-cinetiche costituisconospesso gli elementi più efficaci, conle forze militari che svolgono un

ruolo abilitante degli stessi. Un’im-presa estremamente articolata, cherichiede da parte dei decisori politi-ci e militari una conoscenza detta-gliata del proprio campo specifico,ma anche la comprensione di unavasta gamma di discipline correlate.La strategia è incentrata principal-mente sulla popolazione (Centro digravità) piuttosto che sull’avversa-rio e ha come fine ultimo (End State)il rafforzamento della legittimità delGoverno locale riducendo l’influen-za degli insorti. In tal senso, il suc-cesso della campagna spesso dipen-de dalla volontà del Governo di in-traprendere i cambiamenti politicinecessari. Infatti, per quanto ecce-zionali possano essere l’impegno ela capacità di attori esterni (in Af-ghanistan le forze ISAF), essi nonpotranno mai compensare la man-canza di volontà, l’incapacità o ilcomportamento negativo da partedel Governo sostenuto.

Quando il 23 marzo 2012 ci siamoschierati in Afghanistan, maiavremmo pensato di dover soffriredopo soli due giorni per la perditadi un nostro commilitone, colpitoda fuoco vile nella Valle del Guli-stan. Il Sergente Michele Silvestri ciha lasciati così, all’improvviso, do-nando la sua giovane vita alla Pa-tria. Un duro colpo che avrebbestordito chiunque ma non certo laBrigata bersaglieri «Garibaldi», chegià nel suo nome rievoca forzad’animo, intraprendenza e corag-gio. È iniziata così la prima missio-ne in terra afghana di questa Unità,a sostegno di una serie di risoluzio-ni del Consiglio di Sicurezza delleNazioni Unite, a partire dallaUNSCR 1386 del 2001.L’avventura della «Garibaldi» nellamissione ISAF in realtà ha avutoinizio con la fase di approntamento,già nel mese di settembre 2011, ed è

ISAF 2012LA VIA ITALIANA ALLE COUNTERINSURGENCY OPERATIONS:

LA BRIGATA BERSAGLIERI «GARIBALDI» IN AFGHANISTAN

CONTINGENTE «ISAF»

Assetti nazionali impiegati

• Personale impiegato: circa 4 000 uo-mini e donne;

• Brigata bersaglieri «Garibaldi» or-dinata su:•• Comando;•• quattro reggimenti di manovra;•• un Provincial Reconstruction Team;•• un reggimento genio;•• un Aviation Battalion;•• varie unità specialistiche di rin-

forzo;•• assetti aerei;•• assetti per il sostegno logistico.

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proseguita, praticamente senza so-luzione di continuità, fino agli inizidi marzo 2012, quando i teams divalidazione hanno dato il «prontiall’impiego» per il Comando e i reg-gimenti. Civitavecchia, Capo Teula-da, Monteromano, Brunico, SanGiorgio a Cremano, Vittorio Vene-to, Brunssum in Olanda, Persano:queste le tappe che hanno scanditol’addestramento e l’amalgama delpersonale della Brigata e delle altreunità costituenti il contingente na-zionale. Determinazione, impegno,dedizione, spirito di sacrificio, lequalità profuse da tutti durante ilunghi e duri mesi che hanno prece-duto la partenza. Ma in tutti c’era laconsapevolezza che solo un adde-stramento duro ed efficace avrebbeconsentito di potersi presentarepronti a un appuntamento così im-portante e difficile.Il 16 marzo, a Caserta, la cerimoniadi saluto al contingente, presente ilCapo di Stato Maggiore dell’Eserci-to, Generale Graziano, ed il Coman-dante del 2° FOD, Generale di Cor-po d’Armata Lops. In quell’occasio-ne ho letto negli occhi di tutti la fie-rezza di appartenere a questa splen-dida Unità, l’orgoglio di rappresen-tare l’Italia nel mondo e la convin-zione di potersi rendere utili, aiu-

tando un popolo violentato da de-cenni di conflitti.Il 31 marzo la cerimonia del passag-gio di responsabilità a Herat che hadi fatto sancito, alla presenza delMinistro della Difesa, AmmiraglioDi Paola, e del Capo di Stato Mag-giore della Difesa, Generale Abrate,il passaggio della responsabilità delRegional Command West dalla Briga-ta Sassari alla Brigata bersaglieri«Garibaldi».Un contingente interforze di circa 4 000uomini e donne, a cui si aggiunge-vano ulteriori 4 000 soldati di altre 9Nazioni, con responsabilità su 4Province (Herat, Farah, Badghis eGhor), con una popolazione di circa3 200 000 abitanti distribuiti su un ter-ritorio difficile, esteso più dell’Italiasettentrionale, con un ambiente natu-rale diversificato che andava dalle ci-me impervie e alte fino a 7 000 metridell’Hindu Kush nell’est, alle collinespoglie e aride del nord, ai desertiriarsi e ventosi dell’ovest e del sud.Un impegno gravoso, in un contestooperativo impegnativo e denso dipericoli. Una missione da affrontarecon coraggio, determinazione, atten-zione e intelligenza, per ridurre alminimo i rischi.Per raggiungere tale scopo il contin-gente ha operato su tre direttrici (le

cosiddette linee di operazione): la si-curezza, attraverso un capillare con-trollo del territorio e il supporto alleAfghan National Security Forces(ANSF), la governance, volta a coadiu-vare le autorità locali e far riacquisireloro il consenso della popolazione, ela ricostruzione, per migliorare sem-pre di più le condizioni di vita degliafghani e porre le basi per uno svi-luppo socio-economico sostenibile.Integrando capacità civili e militari so-no state individuate le soluzioni piùidonee per assistere nella maniera piùefficace un popolo fiero di una terrasfortunata. I Contingenti Italiani che sisono succeduti in Afghanistan neglianni hanno percorso la strada giusta ei risultati sono sotto gli occhi della co-munità internazionale: nel 2012 la fase4 della «Transizione», cioè il passag-gio della responsabilità della sicurez-za e della governance alle autorità af-ghane è in pieno svolgimento e sta ri-spettando le scadenze temporali fissa-te nel summit di Lisbona del novem-bre 2010. È un processo articolato cheè stato concordato e condiviso con gliAlleati e il Governo afghano. E questocambio di ruolo è la più chiara dimo-strazione del successo che ha riscon-trato la nostra missione. Nell’area dioperazione circa il 75% dei distrettisono già transitati sotto la responsabi-lità delle autorità governative locali; ilprocesso di transizione è di previstaconclusione alla fine del 2014 e i pro-gressi che si stanno registrando nelPaese fanno a buon diritto ritenere dipoter rispettare le tempistiche previ-ste. Al termine di ogni fase della tran-sizione sarà comunque assicurata unapresenza internazionale, con un mag-gior peso sulla governance, sullo svi-luppo e sul supporto alle forze di si-curezza afghane. Il termine della mis-sione ISAF nel 2014 non significheràun abbandono dell’Afghanistan, macostituirà un cambio di ruolo, da unamissione «attiva», con forze di mano-vra operanti sul terreno, a un compitodi sostegno essenzialmente politicoed economico nei confronti dello Sta-to afghano.Nel Regional Command West gli

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obiettivi di proteggere la popolazio-ne afghana, neutralizzare l’insurre-zione ed estendere la legittimità delGoverno eletto dal popolo afghanosono stati raggiunti. Il messaggiodella propaganda avversaria è che,una volta partite le forze di ISAF, icosiddetti insorti, un miscuglioesplosivo di estremisti (come taleba-ni e appartenenti ad Al Qaeda) ecriminali comuni, potranno vincere.Al contrario, la realtà dice che que-sti nemici dell’Afghanistan sono giàsconfitti e non sono più capaci disfidare apertamente la forze di sicu-rezza afghane. Al momento sonosolo in grado di compiere atti orribi-li, posizionando ordigni esplosivi (ifamigerati Improvised Explosive Devi-ces), mandando a suicidarsi ragazziinconsapevoli, terrorizzando la po-polazione, ad esempio tagliandomani e teste di donne e bambini.Questi ribelli non sono in grado dioffrire un futuro al popolo dell’Af-ghanistan bensì solo una vita dipaura e speranze infrante.Gli insorti hanno una sola scelta:unirsi ai più di 2 000 uomini chenella regione ovest dell’Afghanistanhanno già abbandonato la lotta ar-mata e hanno aderito al programmadi reintegrazione.A seguito dell’avvio del ridimen-sionamento delle forze ISAF, le for-ze di sicurezza afghane stanno di-mostrando di poter gestire la situa-zione in autonomia. È un dato difatto: il nuovo Esercito afghano staconducendo con successo operazio-ni di sicurezza sia nel Sud, in Guli-stan, che nel nord, a Bala Murghab,dove non ci sono più forze ISAFdopo la condotta di operazioni de-cisive come «Securing Lithium» e«Shrimps Net». Tutti i distretti pas-sati sotto la piena responsabilitàdelle forze governative afghane so-no al momento sicuri. La vita non èancora un paradiso per la gente diquella terra sfortunata, ma la spe-ranza di una vita migliore sta sicu-ramente nascendo molto forte nel-l’ovest dell’Afghanistan.In quel territorio inospitale hanno

operato incessantemente 4 reggimen-ti di manovra (di cui due bersaglieri,uno di fanteria ed uno di cavalleria),un Provincial Reconstruction Team(PRT), un reggimento genio, un Avia-tion Battalion (fondamentale in uncontesto operativo come quello af-ghano) e vari altri assetti (paracaduti-sti, rangers, unità delle trasmissioni,

aerei, unità per il sostegno logistico).Uno sforzo che l’Italia non esercitavadalla fine della Seconda guerra mon-diale e che tutti hanno affrontato conil consueto spirito ardimentoso e de-ciso, consentendo il raggiungimentodi tutti gli obiettivi fissati dal Coman-do NATO ISAF di Kabul.L’impegno italiano è stato quindi diassoluto rilievo e si è estrinsecato innumerosi ambiti, accomunati da ununico fine: garantire stabilità al Pae-se, facilitandone il processo di rico-struzione e sviluppo. Tale sforzo lo siè attuato attraverso un capillare con-trollo del territorio, unitamente alleneo–costituite forze di sicurezza af-ghane, e con l’operato del PRT peravviare lo sviluppo socio-economico,migliorando così la governance e au-mentando la fiducia della popolazio-ne nei confronti delle istituzioni.Nel campo della sicurezza, il pas-

saggio di responsabilità dei Distrettidi Murghab e del Gulistan alleANSF è stato possibile non solo gra-zie al successo di operazioni com-plesse come le menzionate «Secu-ring Lithium» e «Shrimps Net», maanche dal lavoro, sempre più fonda-mentale, svolto dai Military AdvisorTeams (MAT) con la formazione e

assistenza militare a favore deiQuadri ed i soldati delle unità del-l’Esercito afghano, unitamente allosforzo profuso dai Police Advisor Te-ams (PAT) e da un nucleo dellaGuardia di Finanza per l’addestra-mento delle Forze di Polizia e dellaPolizia di Frontiera locali.A oggi le Forze dell’Esercito e dellaPolizia afghana, addestrate e piena-mente operative sul territorio del Re-gional Command West, ammontano acirca 30 000 unità; hanno acquisitobuona capacità di pianificare e con-durre operazioni in piena autonomia,tanto che le forze di ISAF sono sem-pre più spesso essenzialmente disupporto.Ma, come detto, in una COIN non èsufficiente profondere tutti gli sforzinel campo della sicurezza. Serve uncosiddetto Comprehensive Approach,cioè uno sforzo esercitato da struttu-

Page 79: DULCE ET DECORUM EST PRO PATRIA MORI...parte del territorio da anni sottratto alla sua autorità. Compiti, questi, della cui positiva conclusione dubitano seriamente gli osservatori

re militari e civili, organizzazioni go-vernative e non governative, in tutti icampi. Anche la ricostruzione dellestrutture governative e di quelle so-ciali e infrastrutturali risulta un fatto-re chiave per avere successo in unasituazione post-conflittuale.Il PRT italiano ha in corso di realizza-zione per il 2012 ben 44 progetti perla ricostruzione e lo sviluppo dellaregione ovest, in tutti i campi (sanità,educazione, infrastrutture, agricoltu-ra, sociale e governance) con l’edifica-zione di pozzi, scuole, strutture me-diche, opere per l’aeroporto interna-zionale di Herat, edifici pubblici, ca-nali, strade.Un pozzo o un ambulatorio in unpiccolo villaggio di alcuni dei piùinaccessibili distretti può significareun grande salto nella qualità della vi-ta della popolazione afghana, nono-stante richieda un piccolo investi-mento economico. Sono queste le at-tività che, unitamente alla fiducia neipropri governanti, più avvicinano icittadini afghani al loro Paese che co-sì potrà procedere gradualmente ver-so lo sviluppo economico, politico esociale.Non solo il PRT, ma anche le TaskForces hanno operato nell’assistenzaumanitaria, avendo curato circa 5 000persone con interventi sanitari di di-versa tipologia e portato a termine uncentinaio di progetti di impatto im-mediato (i cosiddetti Quick impact pro-jects) a sostegno di comunità locali bi-sognose di aiuto.Come detto, però, è ora il momentodi pensare a programmi strategicidi più ampio respiro. Nella regioneoccidentale dell’Afghanistan i prin-cipali progetti da ultimare, primadel completo ritiro delle forze dimanovra di ISAF, sono in particola-re: una rete stradale adeguata, persottrarre da un deleterio isolamentotanti villaggi ancora dislocati in areedifficilmente raggiungibili, ma an-che per consentire in futuro alleANSF di poter rinforzare e sostene-re logisticamente, in autonomia, leproprie basi posizionate nei distrettipiù periferici ed isolati; altre opere

strategiche come la diga di Salma,attualmente in costruzione, per for-nire energia elettrica e costruire unarete di canali d’irrigazione indi-spensabili per uno sviluppo socio-economico armonico e sostenibile.Se si volesse fare un consuntivo de-gli obiettivi raggiunti nei sei mesi dipermanenza nel Teatro operativoafghano, frutto anche degli sforziprofusi da tutti i contingenti nazio-nali succedutisi negli anni nellamissione ISAF, i principali risultatinel Regional Command West a guidaitaliana potrebbero essere riassuntinei seguenti: gli insorti sono statisconfitti, sicuramente a livello tatti-co; le Afghan National Security For-ces, a parte alcune carenze capaciti-ve che dovranno essere colmate neiprossimi due anni (cioè prima deltermine della missione ISAF nellasua configurazione attuale), sono ingrado di pianificare e condurre au-tonomamente operazioni di contro-insurrezione e, pertanto, sono pron-te ad assumere la responsabilitàdella sicurezza nella maggior partedelle Province; il processo di transi-zione, a parte pochi distretti ove piùforte è la presenza di insorti ideolo-gicamente orientati, sta procedendosecondo i piani; il programma direintegrazione continua ad averesuccesso e sta drenando sempre dipiù le file degli insorti; le Autoritàdel Governo afghano a livello cen-trale e periferico, a parte alcuni casidi malgoverno, appaiono semprepiù idonee a governare il Paese.È in tale situazione che la Brigata«Garibaldi» il 14 settembre 2012 haceduto la responsabilità alla Brigata«Taurinense», nel corso di una ceri-monia alla presenza del Sottosegre-tario di Stato alla Difesa, dott. Gian-luigi Magri, il Comandante di ISAF,Generale John R. Allen, il Coman-dante del Comando Operativo divertice Interforze, Generale MarcoBertolini, il Comandante dell’ISAFJoint Command, Generale James L.Terry, e tutte le autorità civili e mili-tari afghane. In quell’occasione hodetto: «In una delle lingue parlate in

Afghanistan, il Pashtun, si dice:“Pusht-e Hor Taareekee, est rosha-nee”, che significa: “Dopo ogni tene-bra, arriva la luce”. Questa è la speran-za, da me condivisa, del popolo afghano.Un popolo sfortunato che rimarrà nelcuore dei soldati della “Garibaldi”,sempre». La cerimonia di rientro in Madrepa-tria si è svolta il 28 settembre 2012 al-la presenza del Sottosegretario allaDifesa, Dott. Gianluigi Magri, e delCapo di Stato Maggiore dell’Esercito,Generale Graziano, nel maestosopiazzale antistante la Reggia di Ca-serta, nel ricordo commosso dei com-pagni, compresi quelli delle forze af-ghane e della coalizione, caduti e fe-riti sul campo «che porteranno sul cor-po» - come ha detto il Capo di SME -«il segno del loro incommensurabile con-tributo per un mondo migliore».Il lavoro di squadra, la flessibilità, ladeterminazione, unitamente al mas-simo rispetto per gli usi, i costumi,la cultura e la religione locale, sonostati la ragione del successo del con-tingente italiano su base Brigata«Garibaldi» che, come fatto in pas-sato anche dalle altre Brigate del-l’Esercito Italiano succedutesi in Af-ghanistan, hanno indicato la «viaitaliana alle COIN». Ormai Herat, Farah, Shindand, BalaMurghab, Bakwa, le basi avanzate, ipattugliamenti sul territorio, le atti-vità di cooperazione civile-militare,la polvere, il caldo, il sudore, ognigiorno, ogni notte, sono solo un ri-cordo per i soldati della «Garibal-di», consapevoli però che la missio-ne ISAF è stata solo una tappa nellaloro storia e che la Nazione si aspet-ta ancora il loro contributo per lacondotta di attività operative sia sulterritorio nazionale che oltremare. Ela «Garibaldi» si farà trovare ancorauna volta pronta.

Luigi ChiapperiniGenerale di Brigata,

Comandante della Brigatabersaglieri «Garibaldi»,

già Comandante del RegionalCommand West

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