due diverse interpretazioni - giorgio roverato · 2018. 7. 20. · centralmente, bensì spartiti...
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Capitolo IX
IMPRESA ED INDUSTRIALIZZAZIONE
IN GIAPPONE
1. Due diverse interpretazioni
Lo studio delle origini e dell’evoluzione dell’impresa giapponese, ha visto nel tempo contrapporsi due letture della industrializzazione giap-
ponese. L’una, che si sviluppò a partire dagli ultimi anni Venti del XX secolo e che raggiunse la sua maturità nel corso del riassetto postbellico
dell’economia, propone una interpretazione – definita in seguito “orto-
dossa” grazie alla condivisione maggioritaria degli ambienti accademici – che esalta, con argomentazioni anche suggestive ed apparentemente
avvalorate da un imponente apparato documentale, la determinante spinta modernizzatrice della “restaurazione Meiji” e dei funzionari e-
spressi dalla classe dei samurai che la supportarono. Finendo tuttavia
per concentrarsi più sulla riscoperta dei valori tradizionali (da un in-trinseco “spirito dei samurai” all’etica confuciana, il cui progressivo ab-
bandono nel periodo dello shogunato1 avrebbe determinato la decadenza
del paese), che sui fenomeni innovativi che nell’economia comunque si
stavano manifestando, indipendentemente dalle opzioni del restaurato
governo imperiale e della sua burocrazia a base nobiliare. L’altra – detta “revisionista”, e cresciuta a partire dagli anni Sessanta – accentua l’ana-
1 Lo shogun (o generalissimo) era il capo militare-feudale cui in Giappone, tra il
1191 e il 1868, fu delegato con poteri assoluti (ma in realtà quasi mai gestiti
centralmente, bensì spartiti clientelarmente tra grandi e piccoli feudatari) il governo
del paese, mentre alla figura divinizzata dell’imperatore era riservata solo un ruolo
simbolico. La carica, ereditaria, fu detenuta da tre successive casate (i Minamoto,
gli Ashikaga e, ultimi, i Tokugawa) fino a quando l’imperatore Mutsuhito non
riuscì (appunto nel 1868) a ristabilire l’autorità imperiale e a liquidare i potentati
feudali.
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lisi sul ruolo delle distinte classi sociali, giungendo a negare il primato dei samurai nel processo di industrializzazione e valorizzando invece la
spinta dal basso, della gente comune, alla trasformazione dei processi economici tradizionali.
Probabilmente, entrambe le letture estremizzano fenomeni più arti-
colati e tra loro interdipendenti. Che, tuttavia, trovarono il loro punto di coagulo (e di esplosione) proprio nella citata restaurazione dell’autorità
imperiale (1868), e nella fine quindi della lunga età di anarchia feudale. Subito dopo tale restaurazione, infatti, il nuovo governo imperiale
cominciò a incoraggiare lo sviluppo di attività industriali di tipo occi-
dentale sia importando macchinari e tecnologie straniere per dotarne gli stabilimenti pilota che esso creò, sia chiamando tecnici occidentali in
grado di fornire l’adeguata assistenza. Ma avviò anche una politica di
incentivi o sussidi per i privati cittadini interessati ad intraprendere attività manifatturiere: che emersero numerosi, tanto che al volgere del
secolo appariva ormai chiaro che il Giappone stava entrando nel novero dei paesi industriali.
Gli studi degli anni Venti e Trenta, primogenitori della c.d. interpre-
tazione “ortodossa”, posero l’accento su questa rapida industrializ-zazione individuandone le cause nel carattere “peculiare” (e quindi
distintivo rispetto ai paesi occidentali) dell’imprenditorialità giapponese,
considerata quale prodotto del particolare patrimonio culturale e storico del paese.
2. L’interpretazione “ortodossa”
L’interpretazione “ortodossa”2 sostiene che la caduta dell’ultimo sho-gun della casata Tokugawa, non infranse le rigide barriere di classe pog-
gianti da un lato sui samurai (i guerrieri) e gli heimin (la gente comune,
o in altri termini i contadini, i mercanti, gli artigiani), ma finì per af-
fidare ai primi – che quasi mai avevano condiviso la degenerazione del
potere feudale dello shogunato, e che anzi rappresentavano l’élite morale
del paese, impregnati com’erano di etica confuciana e di senso del do-
vere e devozione assoluta nei confronti dell’autorità costituita, ovvia-
2 Cfr. la sintesi che ne fa K. YAMAMURA, L’industrializzazione del Giappone. Impresa,
proprietà e gestione, in Storia economica Cambridge, vol. VII, tomo II, Torino, Einaudi,
1980 [1a ediz. inglese, 1978].
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mente a beneficio dell’intera società3 – un ruolo di guida nel nuovo as-setto di potere centrato sull’autorità imperiale. Così, dopo la restau-
razione imperiale, a reggere le redini del governo furono i samurai. Secondo la tesi affermatasi nel Giappone prebellico, i samurai furono
perciò destinati ad assumere il ruolo di guida, mentre i chonin – i mer-
canti, che stando al modello occidentale, avrebbero potuto legittima-mente aspirare alla leadership economica (e fors’anche politica) – ne
accettarono la supremazia in sintonia con la tradizione della loro so-cietà.
Il ceto mercantile sarebbe perciò rimasto passivo, attaccato ad una
concezione statica dell’intermediazione minuta. Mentre sarebbe stato dalle file dei samurai di basso o medio rango ad uscire – oltre che il
personale politico – i mercanti di nuovo tipo, i banchieri, gli industriali.
Con tali premesse, due generazioni di storici economici giapponesi si prodigarono a fornire le prove che il ruolo di imprenditori venne as-
sunto in modo largamente predominante dai samurai: che divennero burocrati-imprenditori in quanto posti a capo degli stabilimenti pilota
dello stato, imprenditori indipendenti quando intrapresero in proprio,
banchieri patriottici nel momento in cui si trovarono a finanziare l’in-terscambio con l’estero o lo sviluppo di nuove attività manifatturiere, en-
fatizzando su tutto l’importanza delle imprese fondate dal governo nel-l’aprire la strada all’industrializzazione del paese. Le manifatture gover-
native fecero, in verità, la loro comparsa nei più svariati settori: dalla
filatura della seta e del cotone, alla cantieristica, al vetro, al cemento, al-l’industria dello zucchero, alle cartiere, alla produzione di armi da fuoco
ecc.
Queste interpretazioni prebelliche, si focalizzarono sulle figure dei samurai-burocrati e dei samurai-imprenditori nello sviluppo delle ban-
che e dei cotonifici moderni. La creazione del sistema bancario, uno degli elementi fondanti di
ogni processo di industrializzazione, venne attribuita quasi interamente
ai samurai. A partire dal fatto che il governo, per assicurare all’industria nascente il credito di cui aveva bisogno, e dopo essere riuscito – grazie
alla legge bancaria del 1872, la prima del paese – a far nascere quattro
banche di tipo occidentale (e, cioè, di deposito e finanziamento) con
3 Gli heimin, la gente comune, sarebbero invece stati privi di queste virtù, ovvero ad
essi non venivano richieste e dovevano invece impegnarsi nel lavoro manuale, es-
sere parsimoniosa ed obbedire, com’era consono al loro (basso) stato sociale.
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l’imposizione ad altrettante grandi ditte mercantili compromese con lo shogunato (gli Zaibatsu) di impiegarvi le risorse necessarie, aveva poi
con una successiva legge del 1876 indirizzato i capitali di molti samurai, originati dagli indennizzi statali per l’avocazione dei loro privilegi, alla
costituzione di circa centosessanta istituti di credito minori in cui gli
stessi samurai avrebbero assunto funzioni direttive. Per quanto riguarda invece le attività cotoniere, gli storici prebellici
enfatizzarono – assieme alla già ricordata fondazione di stabilimenti pilota la cui guida fu affidata a samurai-burocrati – la cessione da parte
del governo (mediante concessione di un prestito decennale) di dieci
lotti di fusi di filatura importati dalla Gran Bretagna ad altrettanti imprenditori quasi tutti del ceto dei samurai, le cui imprese sarebbero
poi state alla base dell’impianto in Giappone di una moderna industria
del cotone. In queste attività e in questi sussidi, veniva rinvenuta la prova che lo stato aveva svolto un ruolo essenziale nell’avviare un
nucleo di attività manifatturiere destinate, già prima del nuovo secolo, ad esercitare una funzione trainante nel processo di industrializzazione.
Così come la esercitarono i molti samurai di basso rango o di cam-
pagna, avviando, anche senza aiuti governativi, imprese private poi ovviamente destinate a prosperare e a ingigantirsi.
Insieme a numerosi altri, questi esempi di imprenditorialità congiunta
del governo e dei samurai, o quella indipendente dei samurai, servivano a rafforzare la tesi che lo sviluppo economico del Giappone era stato
diretto dall’alto: conseguenza inevitabile e del retaggio socio-economico del paese, e dell’inizio tardivo della sua industrializzazione.
Col medesimo intento, venivano proposte biografie di imprenditori
“esemplari” che testimoniavano di questa azione congiunta. Tipica quella di Eiichi Shibusawa, attivo a partire dalla seconda metà degli
anni Sessanta del XIX secolo, e morto più che novantenne all’inizio de-
gli anni Trenta del Novecento. Figlio di un ricco agricoltore, Shibusawa divenne samurai di basso rango alla fine del periodo dello shogunato,
passando dal ruolo di consulente finanziario (1867) dell’ultimo shogun
ad alte responsabilità nel nuovo governo Meiji, sino a raggiungere –
prima di dimettersi contro le tendenze militariste ed espansionistiche da
questo assunte – il secondo posto per importanza gerarchica nel po-tentissimo ministero delle finanze. Come privato cittadino, egli fu pro-
motore di svariate iniziative economiche, a partire dalla fondazione della prima Banca nazionale nel 1872 (Daiichi Ginko) del quale assunse
la presidenza, via via fino ad arrivare alla creazione della prima grande
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cartiera di tipo “occidentale” del Giappone, e a partecipare all’avvio del Cotonificio di Osaka, gigantesco secondo i criteri dell’epoca e destinato
a svolgere un ruolo di guida del settore. I suoi biografi, tuttavia, più che approfondirne le indubbie qualità imprenditoriali, ne descrissero soprat-
tutto i tratti etici, ideologici: dalla sua preoccupazione per il bene della
nazione, agli sforzi volti alla sostituzione delle importazioni con pro-duzioni interne, alla teorizzazione di una industrializzazione che non
negasse (ma che anzi costantemente vi si ispirasse) la dottrina confucia-na. Ricordando, ad esempio, come per pungolare l’intraprendenza degli
uomini d’affari giapponesi, Shibusawa fosse solito a richiamarli ad in-
formare la loro attività allo “spirito dei samurai”, seguendo perciò i prin-cipi di integrità personale, di giustizia, di magnanimità, di cavalleria da
essi praticati. Giacché l’imprenditore era responsabile innanzitutto nei
confronti della collettività: e, nell’assolvere ai propri doveri, egli poteva conquistare non solo il rispetto dei compatrioti, ma anche quello degli oc-
cidentali. Le citazioni dei suoi scritti e dei suoi discorsi, servirono perciò ai pri-
mi storici dell’economia giapponese per suffragare la tesi che egli fosse il
tipo perfetto dell’imprenditore, comprovando nel contempo la validità della spiegazione che essi davano del rapido successo economico del pae-
se.
E cioè del ruolo primario dello stato, che oltre a intervenire attiva-mente nella creazione delle infrastrutture di base (telegrafo, ferrovie,
strade) necessarie ad una moderna economia, aveva favorito l’introdu-zione della tecnologia occidentale, creato banche e imprese, ma soprat-
tutto promosso la crescita di un efficiente ceto burocratico (prevalentemen-
te composto da ex samurai) in grado di supportare la modernizzazione, anche con l’opera di persuasione o dissuasione nei confronti dei com-
portamenti tradizionali delle case mercantili d’ancien régime, o della gen-
te comune.
Nell’industrializzazione, in sostanza, l’azione del governo fu diretta e
onnipresente, tanto che anche le banche nacquero per sua volontà e con il capitale dei samurai.
Il punto focale della storiografia “ortodossa” prebellica (ma anche
postbellica) fu in sostanza di offrire una spiegazione unitaria del rapido sviluppo del Giappone moderno, coerente con la cultura, la storia e le
tradizioni del paese. Cosicché il tardivo avvio dell’industrializzazione ne giustificava anche i rapidi successi, e il fatto che le sue vicende non
avessero riscontri in alcun altro paese asiatico.
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Una lettura a tutto tondo, ed autosostentantesi, che anche i primi stu-diosi occidentali interessati (a partire dagli anni Cinquanta) alle origini
industriali del Giappone, non ebbero difficoltà a condividere4. Ciò che soprattutto li convinceva era la nuova legittimazione che – dal restau-
rato potere imperiale, pur con l’abolizione di tutti i privilegi feudali e
quindi anche dei privilegi dei samurai – molti di questi avevano tratto entrando nella pubblica amministrazione, in taluni casi giungendo a ri-
coprire posizioni di vertice nei ministeri finanziari: posizioni che sem-bravano avvalorare la tesi del loro determinante ruolo nel processo di in-
dustrializzazione .
3. La storiografia “revisionistica”
La storiografia “revisionistica”, che si sviluppò a partire dagli anni Ses-santa, mise in discussione tale impostazione. E sulla base di una metico-
losa rivisitazione della documentazione originale (registri e libri aziendali ecc.) delle prime imprese ottocentesche, delle banche, della stessa at-
tività della amministrazione governativa, oppose all’interpretazione clas-
sica altre “verità”. Innanzitutto, che il ruolo imprenditoriale dei samurai andava rime-
ditato alla luce del fatto che molti fondatori di imprese di successo, con-
siderati samurai, erano tali solo formalmente: giacché molti – in genere mercanti di media dimensione, o piccoli proprietari terrieri – avevano ac-
quistato il titolo rilevandolo da samurai in miseria nell’ultimo periodo dello shogunato. Per cui le loro attitudini di classe, i loro interessi, i loro
valori, erano altri. La stessa spinta ad intraprendere non era dettata da
motivazioni etiche, o dal desiderio di perseguire il vantaggio della na-zione, bensì dalla più concreta spinta al profitto, all’arricchimento per-
sonale.
Inoltre, che la pur effettiva prevalenza del capitale degli ex samurai indennizzati all’interno delle molte delle banche nate in seguito alla
legge bancaria del 1876, era andata ben presto attenuandosi (anche grazie a vendite parziali o totali delle azioni da questi possedute) a
4 Anche per l’ostacolo della lingua, che costrinse gli autori occidentali (soprattutto
americani, o inglesi) a lavorare su traduzioni degli studi giapponesi, piuttosto che a
indagare direttamente le copiose fonti documentarie esistenti.
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vantaggio del capitale sottoscritto da mercanti e da imprenditori non samurai.
E, ancora, che gli stabilimenti pilota impiantati dal governo (e diretti da funzionari di origine samurai, o comunque da burocrati statali) erano
stati scarsamente efficienti, sia nell’organizzazione produttiva che nei
risultati d’esercizio, questi ultimi alterati nei rendiconti annuali al fine di nascondere le perdite.
La stessa funzione di diffusione delle tecnologie importate mancò, perché spesso i direttori di tali opifici si opposero alle visite di impren-
ditori privati che vi volevano apprendere i rudimenti del mestiere. Tanto
che questi dovettero non poche volte ricorrere a sotterfugi per conoscere il tipo dei macchinari impiegati, le caratteristiche delle caldaie che
fornivano l’energia motrice, l’organizzazione interna ecc.
Dagli studi “revisionisti” si trae l’impressione che il decollo in-dustriale avvenne piuttosto per l’azione di una miriade di imprenditori
privati di origine mercantile che, con proprie risorse, spesso senza ausilio dello stato, tentarono vie nuove, in parte collegate a quanto delle
tecnologie occidentali si riusciva a copiare, in parte originate da un
autonomo sforzo innovativo. Su cui senz’altro influì l’azione statale, ma più rivolta – come era
avvenuto nel mondo occidentale – a dotare il paese (mediante un mo-
derno sistema di infrastrutture) di un considerevole stock di capitale fisso, piuttosto che a dirigere dall’alto lo sviluppo dell’economia. In-
dubbiamente un’azione-chiave, che tuttavia la tesi “ortodossa” dell’in-dustrializzazione “guidata” aveva finito per sottovalutare e, a volte, per
dimenticare.
Questo filone di ricerca, cui si indirizzarono presto anche gli studiosi occidentali, finì per focalizzare il problema del finanziamento indu-
striale quale strumento cardine della modernizzazione. Individuandovi
una delle caratteristiche peculiari del rapido sviluppo giapponese, più di quanto fossero convincenti le tesi sullo “spirito dei samurai” o sull’etica
del confucianesimo. Che tale problema fosse essenziale, lo si ricava dall’attenzione che
alla creazione di un sistema bancario altrimenti inesistente fu riservata
dal potere imperiale con le due menzionate leggi bancarie del 1872 e del 1876. Queste operazioni si inserivano su un terreno imprenditoriale, sì
limitato ma tuttavia esistente, sviluppatosi negli ultimi decenni dello shogunato.
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Esso consisteva da un lato in poche imprese (più corretto sarebbe definirle “manifatture”) possedute e gestite dagli han (i domini feudali),
e dall’altro nelle attività commerciali – di natura e portata la più varia –delle grandi ditte mercantili, controllate esclusivamente dalle rispettive
famiglie. Se le prime vennero avocate dallo stato, e gestite da samurai
divenuti funzionari dell’amministrazione, proprietà e controllo delle seconde rimasero immutate.
Le maggiori di queste antiche ditte – che (originatesi a partire dal XVII secolo) da tempo venivano chiamate Zaibatsu, intendendo con que-
sto termine un complesso di interessi economici (mercantili, manifat-
turieri e finanziari) incentrato su una famiglia via via estesasi attraverso una accorta politica di matrimoni e/o alleanze vincolanti con altri
gruppi familiari operanti in analoghe o contigue attività – erano dirette, almeno negli affari correnti, dai cosiddetti bantü (una sorta di dirigenti
stipendiati d’età preindustriale), anche se non furono rari i casi di bantü
responsabili di importanti decisioni imprenditoriali. Il concetto relativo ad un “complesso di interessi economici” è in realtà soltanto una delle
possibili definizioni tentate per descrivere questa istituzione tutta
giapponese, che – come rilevato – precede nella sua formazione la mo-dernizzazione avviata dal rinnovato potere imperiale.
Nell’accezione corrente dopo la rivoluzione industriale giapponese, il termine Zaibatsu assunse il significato di “gruppo d’interessi finanzia-
rio”.
Annota infatti Yamamura che «in generale agli Zaibatsu prebellici [quelli degli anni Venti e Trenta, che comunque discendono dal modello
sei-settecentesco] vengono attribuite le tre seguenti caratteristiche: 1) un
carattere semifeudale, in quanto una famiglia centralizza il controllo, estendendo il proprio potere mediante matrimoni strategici e altre forme
personali di relazione, analoghe a quelle esistenti tra il signore e il vassallo; 2) relazioni serrate e strettamente controllate tra le aziende af-
filiate mediante società holding, legami a livello di consiglio di ammini-
strazione, partecipazioni incrociate; 3) grandissima potenza finanziaria nella forma di credito commerciale, utilizzato quale strumento centrale
per l’estensione del controllo in tutti i rami dell’attività economica»5. Una natura, questa, che era la conseguenza diretta delle trasformazioni
finanziarie (e creditizie) intervenute durante e dopo il processo di
industrializzazione.
5 YAMAMURA, op. cit., p. 323
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Resta assodato che le case mercantili feudal-familiari non scom-parvero con la “restaurazione”, ma ne accompagnarono le trasforma-
zioni economiche: cogliendo anche le possibilità offerte da una legge del 1890, che di fatto consentiva la costituzione di persone giuridiche
(kabushiki kaisha) basate su un capitale frazionato in azioni.
Benché gli studiosi giapponesi non concordino sulla data di nascita delle moderne società a capitale azionario, una sorta di anticipazioni de
queste è rinvenibile già nei primi atti governativi successivi alla restau-razione del potere imperiale.
Allo scopo, infatti, di convogliare il credito verso le imprese impe-
gnate nel commercio internazionale, il governo creò in alcune città por-tuali otto kawase kaisha, dividendone il capitale su base azionaria. Lette-
ralmente, kawase kaisha significa “società di cambiali”: ma si trattava
semplicemente di un tentativo di traduzione del termine inglese che
designa la banca, privo di un equivalente esatto in giapponese. Esse
avevano le caratteristiche degli istituti bancari, ed erano autorizzate ad emettere propria carta moneta. Il loro capitale fu fornito quasi alla pari
da ricchi mercanti, grandi agricoltori, e cambiavalute che avevano
creato grandi ditte nell’ultimo periodo dello shogunato da un lato, e dal governo dall’altro. Sette su otto di queste kawase kaisha fallirono a causa
dei controlli eccessivi, e male ispirati, del governo e delle sue interfe-renze, oltre che per la congiuntura economica in quel momento sfavo-
revole.
Gli Zaibatsu furono probabilmente i primi soggetti privati a posi-tivamente approfittare di questa nuova legislazione, riversando in perso-
ne giuridiche appositamente costituite gran parte dei loro capitali.
Mentre il governo finanziava proprie iniziative industriali (gli stabili-menti pilota), tentava la strada delle kawase kaisha ed emanava le men-
zionate leggi bancarie, le aziende private si trovarono ad affrontare il non facile compito di trovare capitale sufficiente per dare l’avvio a
imprese di dimensioni troppo grandi perché le risorse individuali della
maggioranza degli imprenditori bastassero a finanziarle. Esse dovettero perciò ricorrere ad altre fonti di approvvigionamento.
Per indagare quali queste fossero, è necessario – spiegano i “revisio-nisti” – distinguere tra tre distinte fasi, nelle quali emersero forme diverse
di proprietà e controllo delle imprese industriali.
Nel primo periodo, compreso tra la restaurazione imperiale e la metà
degli anni Ottanta, e fase di preparazione del decollo industriale vero e
proprio, il finanziamento delle imprese statali era ovviamente a carico
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del governo, mentre per le aziende private avvenne quasi esclusiva-mente mediante il ricorso a risorse personali degli imprenditori, o a
prestiti raccolti nella cerchia familiare ed amicale. E non poche volte l’idea imprenditoriale poteva concretarsi solo se l’aspirante imprenditore
riusciva ad unire altri operatori economici, in genere mercantili, attorno
ad una qualche combinazione societaria. Furono perciò gli anni dei pionieri dell’industria, con pochi capitali ma molta determinatezza.
A poco a poco, tuttavia, nelle combinazioni societarie cominciarono ad entrare anche le kabushiki kaisha costituite dagli Zaibatsu, che non
solo rafforzavano così la tendenza ad espandere la natura dei propri
interessi, ma che finivano per attrarre le imprese partecipate nella propria orbita. Per cui si può affermare che già cominciava a verificarsi
una crescente divaricazione tra un vasto numero di imprenditori in-
dividuali o associati, alla perenne ricerca di capitali, e quindi più esposti alle crisi, e un nucleo ristretto di imprese che in qualche modo se ne
sottraevano più facilmente grazie al riferimento finanziario degli Zai-batsu.
La seconda fase intercorre tra la metà degli anni Ottanta e la prima
guerra mondiale, e fu segnata da significativi cambiamenti che modi-ficarono la situazione sotto il profilo della proprietà e del controllo. Di
particolare importanza fu l’azione delle principali ditte mercantili, raf-forzatesi finanziariamente dopo i prestiti forzosi al governo imperiale e
dotatesi di floride banche.
Sin dagli anni successivi al 1880, in particolare, le più grosse tra esse cominciarono a rilevare imprese governative, sia nel settore manifat-
turiero che minerario. Gli Zaibatsu trassero dallo sviluppo che riusci-
rono a dare a tali imprese, stimolo alla creazione, all’acquisto o al più stretto controllo finanziario di altre iniziative industriali, tanto che già
all’inizio del Novecento si configuravano come veri e propri imperi finanziario-industriali. La complessità e l’articolazione dei loro interessi
portarono alcuni di questi a dar vita a delle vere e proprie holding di
tipo occidentale, in grado di esercitare un rigoroso controllo finanziario sulle varie attività.
Le prime a ricorrere a questa nuova istituzione finanziaria, furono tra
il 1911 e il 1917 le case Mitsui e Mitsubishi. La Casa Mitsui ne aveva, in particolare, sentito l’esigenza per poter meglio coordinare il rapporto tra
le svariate attività mercantili, industriali e minerarie e l’attività della grande banca, ramificata in tutto il Giappone, di cui si era dotata fin dal
1876.
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Fu in questa seconda fase che le banche cominciarono a concedere al-le aziende industriali crediti a breve e a lungo termine, e al tempo stesso
a sottoscrivere capitale azionario di numerose imprese. Ma, contraria-mente alla tesi classica (quella “ortodossa”) secondo la quale le banche,
e specie quelle più grandi, avrebbero rappresentato un fattore essenziale
nella provvista di capitale industriale, gli studiosi revisionisti sono arrivati a dimostrare (comparando i dati dei bilanci delle banche relativi
a prestiti garantiti da azioni e al loro portafoglio azionario di proprietà, con il totale del capitale industriale azionario esistente in Giappone nei
vari anni) che l’importanza delle grandi banche quali dirette finanzia-
trici, e proprietarie di singoli pacchetti azionari, è stata largamente so-pravvalutata. Ad esempio, l’incidenza dei prestiti bancari garantiti da a-
zioni sul totale del capitale azionario industriale passò dal 22% del
1899, al 18% del 1900, al 12% del 1901, all’11% del 1902: una incidenza che potrebbe essere addirittura inferiore, considerando che parte dei pre-
stiti garantiti da azioni avrebbe riguardato non aziende industriali ma al-tre banche, compagnie di assicurazione o ditte commerciali ugualmente
organizzate come società azionarie. È bensì vero che una quota dei pre-
stiti garantiti da azioni non industriali finivano poi per tornare di benefi-cio all’attività industriale, e che il complesso degli investimenti diretti
delle banche in azioni (industriali o meno) ammontavano a poco più
della metà dei prestiti garantiti da azioni: ma da ciò che è stato possibile ricavare dai dati aggregati, il finanziamento alle ditte industriali fu limi-
tato. Per il periodo cruciale del 1899-1902 esso, ad esempio, non superò il
15% del capitale versato delle aziende industriali, smentendo la tesi che
al volgere del secolo le banche sarebbero state la principale fonte di fi-nanziamento dell’industria.
Le indagini compiute sul rapporto tra banca e industria in Giappone,
rivelano inoltre come molti dei prestiti a lungo termine concessi dai maggiori istituti andassero a un numero ristretto di aziende, stretta-
mente legate agli istituti stessi o ai gruppi (e cioè agli Zaibatsu) di cui queste facevano parte: ossia alle imprese possedute da questi nel settore
industriale, nella cantieristica, nel settore minerario o in altri rami.
Le aziende non legate agli Zaibatsu dovettero arrangiarsi: e lo fecero sfruttando le possibilità offerte dal nascente mercato dei capitali, con la
collocazione al pubblico delle proprie azioni. Uno dei settori in cui la presenza degli Zaibatsu fu marginale, è rappresentato dal cotonificio. In
esso già prima della fine del secolo, la partecipazione del pubblico
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all’acquisto di azioni si era notevolmente incrementato, passando tra il 1893 e il 1898 da un numero medio di azionisti per azienda da 163 a
457. L’incremento maggiore si ebbe tuttavia – in un contesto in cui il numero totale degli azionisti era passato dai circa 108 mila del 1886 ai
244 mila del 1890, e ai 684 mila del 1898 – nei settori più moderni delle
costruzioni ferroviarie e navali. Nel terzo periodo, e cioè nei circa vent’anni che dividono le due guerre
mondiali, la proprietà e il controllo delle imprese industriali subì una concentrazione decisiva, che segnò il destino stesso del paese con la
spinta espansionistica e bellicista. Va innanzitutto ricordato il definitivo
consolidarsi delle banche degli Zaibatsu nel controllo finanziario (ma anche proprietario) delle imprese, lo sviluppo delle società holding, la
pratica portata all’eccesso delle partecipazioni incrociate, la conseguente
presenza di un ristretto numero di uomini nei posti-chiave di una miriade di consigli di amministrazione. Fu il boom della prima guerra
mondiale l’elemento scatenante: le banche più grandi – quelle degli Zaibatsu – intensificarono i finanziamenti, sia con prestiti a lungo ter-
mine che mediante sottoscrizioni azionarie, alle aziende industriali di
settori ad elevata intensità di capitale come le industrie pesanti, chimi-che, elettriche o telefoniche. Solo che le imprese coinvolte in queste
operazioni non furono più, come un tempo, il ristretto numero di quelle legate agli Zaibatsu per le origini dei loro capitali o perché da essi
sviluppate a partire dagli impianti acquistati dal governo dopo il 1880.
Le banche assumevano così le caratteristiche delle banche d’investi-mento di tipo tedesco.
Questa evoluzione fu resa possibile dalle capacità di autofinanzia-
mento raggiunte già prima della fine della guerra dalle aziende legate agli Zaibatsu, un tempo dipendenti dalle banche di ciascun gruppo6, e
dall’irrobustimento dei depositi di queste ultime nel terzo decennio del secolo: irrobustimento in grossa parte dovuto ad uno spostamento verso
di esse dei risparmiatori impauriti dalla serie di crolli bancari degli
istituti di credito minori7.
6 Questa tesi è sostenuta dal più volte menzionato YAMAMURA, op. cit., che la
corrobora di numerosi casi aziendali, e di documentazioni di fonte bancaria, dai
quali risulta che molte imprese degli Zaibatsu, fin dagli anni Dieci del Novecento,
e per tutti gli anni Venti e Trenta, non iscrissero più a bilancio debiti a medio-lungo
termine con le banche dei loro raggruppamenti (né, tantomeno, con banche terze). 7 Tra il 1919 e il 1927, la percentuale dei depositi detenuta sul totale dagli istituti di
credito degli Zaibatsu passò dal 25 al 31%.
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Le caratteristiche prevalenti nel terzo decennio del Novecento videro, perciò, una sostanziale scomparsa della dipendenza finanziaria delle im-
prese degli Zaibatsu dalle banche da questi controllate, e per contro una loro autonoma capacità di approvvigionarsi di capitale fresco mediante
aumenti di capitale aperti alla pubblica sottoscrizione senza che questi
compromettessero i vincoli con i gruppi di appartenenza. Alla fine degli anni Venti del resto – e pur in presenza di un allargamento della base a-
zionaria – le famiglie, le banche e le altre aziende connesse, possede-vano una larga parte del capitale delle imprese di ciascun gruppo.
Valga un esempio per tutti: a quella data, la percentuale del capitale
versato fornito dalle rispettive honsha (e, cioè, la società holding e la ban-
ca) dei quattro maggiori Zaibatsu variava, per le aziende associate, dal
90,2% della casa Mitsui e del 79,1% della casa Sumitomo, al 69,4% e al
32% per cento della Yasuda. Se si aggiungevano le partecipazioni in-crociate all’interno dei singoli gruppi, le percentuali salivano al 90,6%
per Mitsui, all’80,5 per Sumitomo, al 77,6 per Mitsubishi e al 48 per Ya-suda.
Le banche degli Zaibatsu finirono perciò, tra gli anni Venti e Trenta,
a rivolgere sempre più i loro prestiti a medio e a lungo termine ad azien-de che non facevano parte dei loro gruppi. Lo strumento privilegiato fu
l’assunzione in portafoglio di quote consistenti delle molte emissioni
obbligazionarie cui ricorsero in quel periodo le imprese industriali. Già alla fine del 1929, i quattro maggiori Zaibatsu detenevano – attraverso le
loro banche – il 27,1% di tutte le obbligazioni in circolazione (29,1% se si comprendevano anche le quantità possedute dalle compagnie di assi-
curazione degli stessi gruppi).
La rapida concentrazione del mercato finanziario, di cui il dato appe-na citato è solo uno degli indici, fu dovuta ad un insieme di fattori, tra i
quali alcuni fallimenti bancari dell’immediato dopoguerra e la già citata grande ondata di fallimenti degli anni successivi.
Fu il 1927 l’anno cruciale, in cui arrivarono al pettine tanto le conse-
guenze finanziarie del terremoto del 1923 (e, cioè, l’impossibilità da quel momento di molti debitori di far fronte al pagamento delle cambia-
li emesse) quanto la consuetudine di numerosi istituti di credito minori
di fungere da “banche organiche”. Questa consuetudine consisteva nella reciproca dipendenza che legò certi istituti di credito e la loro clientela
industriale: i primi costretti a prorogare (e/o a intensificare) i prestiti ad aziende in gravissime difficoltà finanziarie, la seconda impossibilitata a
causa di esse a differenziare la propria provvista di capitali. Poiché il cre-
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Capitolo nono
266
dito già concesso alle aziende era tale che la bancarotta di queste avreb-be comportato il fallimento della banca stessa, nuovi crediti non suffi-
cientemente (o per nulla) garantiti divenivano inevitabili: con conse-guenze a catena, che alla fine portarono a clamorosi crolli delle banche
e delle imprese.
Tale situazione indusse molti risparmiatori a trasferire i propri de-positi alle banche più grandi e più solide. Le banche degli Zaibatsu per
le quali queste crisi si risolsero in qualche corsa agli sportelli subito bloccata, furono naturalmente le principali beneficiarie dei menzionati
trasferimenti.
Nel corso del periodo, d’altra parte, il governo intervenne a stabiliz-zare il mercato finanziario promuovendo la fusione o l’associazione del-
le banche più deboli.
Ad accentuare la tendenziale struttura oligopolistica del settore cre-ditizio, contribuì in pari misura l’aggressiva propensione alle fusioni e
agli assorbimenti presente negli istituti bancari più grandi. Tipico fu il caso della Banca Yasuda, dell’omonimo Zaibatsu, che a partire dal 1923
assorbì dieci altre banche sparse in tutto il paese, divenendo un orga-
nismo di gigantesche dimensioni. La potenza finanziaria dei grandi gruppi continuò a crescere nel
quarto decennio del secolo, tanto che nel 1942, l’anno successivo all’at-
tacco giapponese alla base americana di Pearl Harbor, il controllo eser-citato dai quattro maggiori Zaibatsu era onnipresente. Nel campo diret-
tamente finanziario, essi detenevano il 49,7% di tutto il capitale versato di banche, assicurazioni e società di credito varie; nel settore industriale
possedevano il 24,5% di tutto il capitale versato, con punte del 32,4%
nelle industrie pesanti, e cioè quelle direttamente investite dalla con-giuntura bellica.
Considerando tutti gli Zaibatsu, il livello di concentrazione risultava
ancora più consistente: all’incirca il 70% nel settore finanziario, e poco meno del 50% di quello manifatturiero. Ma in realtà il controllo eserci-
tato dalle holdings degli Zaibatsu era ancora maggiore di quello riferito
al capitale versato da esse detenuto; la sua estensione nei vari settori era
infatti considerevolmente accresciuta dal potere di concedere o meno
crediti, dalle presenze nei vari consigli di amministrazione conseguente ad una esasperata (ancorché sofisticata) politica delle partecipazioni in-
crociate. A che livello giungesse il loro potere, è esemplificato dal fatto che nel
pieno dello sforzo bellico, nel 1944, il 74,9% di tutti i prestiti concessi in
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Impresa e industrializzazione in Giappone
267
Giappone fossero erogati dalle banche dei quattro maggiori Zaibatsu, e dalla rete di interrelazioni da essi creato nei vari consigli di amministra-
zione delle aziende a qualsiasi titolo con essi connessi. La sola casa Mitsui riusciva così a controllare a cascata le sorti di circa duecento tra le mag-
giori imprese del paese.
Ci sono altre cifre che possono sottolineare l’elevatissimo livello della concentrazione proprietaria: alla fine della seconda guerra mondiale, il
2,59% di tutti gli azionisti del paese (e cioè poco meno di 40.000 sogget-ti fisici o giuridici) possedevano più del 64% del capitale totale delle im-
prese a base azionaria, e il 10% di essi (3.762 azionisti, in genere espo-
nenti degli Zaibatsu, o questi stessi) deteneva il 48,74% del totale.
4. Il secondo dopoguerra
Dopo la resa incondizionata del Giappone seguita alle devastazioni dei due ordigni atomici lanciati dagli americani su Hiroshima e Naga-saki, il Comando d’occupazione statunitense preposto alla ricostitu-
zione nel paese di un potere legale, impose un complesso di misure di
“democratizzazione economica” incentrato sullo smantellamento degli Zaibatsu, ed in particolare delle loro holdings, individuati come i trinci-
pali responsabili dell’avventurismo espansionista e militarista del paese.
In particolare vennero poste fuori legge le società holding, e le parteci-
pazioni incrociate tra aziende e tra queste e le banche; le aziende gigan-
ti, virtualmente monopoliste, vennero smembrate in più imprese; la proprietà delle degli Zaibatsu venne sottratta alle rispettive famiglie, le
quali dovettero anche cedere i pacchetti azionari di cui erano proprietari
attraverso una Commissione che cercò di collocarli nella più vasta pla-tea del pubblico; i legami tra i vari consigli di amministrazione vennero
proibiti, mentre infine numerosi esponenti dell’Alta direzione delle a-ziende degli Zaibatsu subirono l’epurazione e furono allontanati.
Le caratteristiche della proprietà e del controllo delle imprese all’in-
terno dell’economia giapponese (che, tra l’altro, usciva dal conflitto con un potenziale produttivo ancora consistente) ne risultarono profonda-
mente modificate. La vendita forzata delle azioni, ma anche le nuove
imposte sul capitale e sulle eredità volute dal Comando alleato, ridus-sero la ricchezza delle famiglie cui appartenevano gli Zaibatsu a un
ventesimo circa di quella di un tempo. Il possesso delle azioni divenne molto più diffuso, e di rado si verificò che del 5% di una grande im-
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Capitolo nono
268
presa, o di una banca, si trovasse concentrata nelle mani di una sola persona.
In seguito, gli effetti politici della guerra di Corea attenuarono il disegno globale di democratizzazione economica sino ad allora per-
seguito, e col recupero della sovranità (1952) il governo giapponese ro-
vesciò progressivamente la linea seguita durante l’occupazione ame-ricana, sostenendo che essa ostacolava una rapida ricostruzione econo-
mica. Senza ripercorrere le evoluzioni postbelliche, basti osservare che a
metà degli anni Sessanta le modalità di proprietà e controllo prevalenti
nell’industria giapponese erano molto diverse da quelle che aveva cer-cato di instaurare il Comando militare americano.
Esistevano senz’altro differenze sostanziali con la situazione prebel-
lica nella ripartizione della proprietà azionaria: se fallì l’obiettivo del Comando militare di giungere a larges corporations di tipo americano, e
nonostante le quantità crescenti di azioni concentrate nelle mani di un numero ristretto di persone, l’attuale ripartizione della proprietà azio-
naria è radicalmente diversa da quella che caratterizzò l’ultimo periodo
degli Zaibatsu, giacché oggi più o meno un giapponese su cinque è in possesso di azioni, ed è considerevolmente aumentata la quota in mano
al ceto medio a discapito delle vecchie concentrazioni. Alcuni esempi
fra i molti possibili: le industrie Mitsubishi, un tempo controllate dal-l’omonimo Zaibatsu, sono oggi proprietà di circa 400mila azionisti; la
Hitachi, impresa del settore elettrico ed elettromeccanico, peraltro mai dominata da alcun Zaibatsu, appartiene a circa 420/430mila azionisti;
le grandi banche hanno una proprietà ancor più frazionata, ed è raris-
simo che un singolo azionista (o persona giuridica) possegga oltre il 3% del loro capitale.
E, tuttavia, non mancano gruppi economici che in parte richiamano allo strapotere degli Zaibatsu, senza peraltro riuscirne a integrare la per-
vasiva invadenza. Si tratta dei cosiddetti Keiretsu, letteralmente “lignag-
gi”, che costituiscono una sorta di apparentamento tra imprese giuridi-camente distinte. Essi possono essere “verticali”, o più spesso “orizzon-
tali”, ma non mancano quelli “distributivi”.
Emersi sul finire degli anni Cinquanta, i Keiretsu perseguirono forme di finanziamento industriale, che in parte (ed almeno idealmente) si
richiamano agli antichi Zaibatsu. La parola Keiretsu significa “serie”,
“ordine”, “sistema”, ed è composto dai termini kei (sistema) e retsu (li-
nea). Nella terminologia economica, essa sta ad indicare un’organiz-
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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zazione o gruppo d’imprese che non ha una struttura gerarchica, ma è formato da numerose imprese in parte (ma non sempre) legate da una
struttura azionaria di partecipazioni incrociate, da incarichi direttivi interconnessi e da un senso di reciproche obbligazioni.
I Keiretsu non sono né gruppi industriali, poiché non hanno un con-
siglio d’amministrazione centrale, né cartelli, essendo le imprese spesso impegnate in settori diversi. Tra le aziende-chiave di ogni gruppo ci so-
no una banca, una compagnia di assicurazioni, una compagnia mercan-tile, un’impresa specializzata in transazioni, un’acciaieria, un cantiere
ecc. Ognuna di queste aziende dispone di consistenti riserve di liquidità
che possono essere messe a disposizione degli altri membri del gruppo, dato che tra i loro scopi vi è anche quello di aiutarsi a vicenda e reperire
i fondi per gli investimenti. L’elemento di coesione più forte per il grup-
po è costituito dalla rete di rapporti bilaterali sorretti da vincoli di tipo morale e relazionale.
Dal punto di vista storico e della loro nascita, questi agglomerati si sono formati gradualmente dopo la fine dell’amministrazione militare
americana. Le quote azionarie dei precedenti Zaibatsu erano state di-
chiarate nulle nel 1945; così, all’inizio le aziende giapponesi furono finanziate quasi interamente da prestiti forniti dalle grandi banche di
Tokio e garantiti dal governo americano. Fino a quel momento quindi
le aziende disponevano solo di questi prestiti, e delle loro attività tan-gibili, per cui il loro patrimonio netto era molto modesto.
Con il decollo dell’economia, molte aziende cominciarono a dimo-strarsi redditizie e quindi a temere di poter essere contese sul mercato
dal capitale straniero tanto che, al fine di scongiurare tale rischio, le a-
ziende in crescita degli anni Cinquanta e Sessanta escogitarono il siste-ma di vendersi reciprocamente quote azionarie, spesso senza uno scam-
bio effettivo di denaro. Così ogni membro dei vecchi gruppi del periodo
prebellico, insieme ad altri nuovi, si unirono a formare i Keiretsu in cui le quote azionarie si intrecciavano a vicenda. Le azioni di tali gruppi ve-
nivano trattate solo in quantità minima sul mercato della borsa di To-kio, mentre i pacchi azionari che veramente contavano non erano mai
oggetto di transazione borsistica
Gli americani e gli altri operatori stranieri percepirono questa si-tuazione solo dopo il 1971, anno in cui in Giappone fu liberalizzato il
mercato azionario. Tale liberalizzazione permise anche agli stranieri di avere quote di maggioranza nelle aziende giapponesi, ma quasi nessuno
dei membri dei Keiretsu fu disposto a vendere le proprie azioni vinco-
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Capitolo nono
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late, anche in presenza di offerte d’acquisto vantaggiose8. Cosicché fu-rono ben poche le aziende che passarono di mano. In effetti esisteva da
un lato un senso di reciproca obbligazione che scaturiva dal fatto che ogni membro del medesimo Keiretsu teneva in portafoglio le azioni degli
altri membri in una sorta di amministrazione fiduciaria, mentre dal-
l’altro, qualora fosse venuto tale senso di obbligazione “morale”, suben-trava un altro fattore importante che provvedeva ad impedire la vendita
delle azioni: la sensazione che i propri titoli fossero “tenuti in ostaggio”. Se un’azienda avesse preso in considerazione l’idea di vendere la pro-
pria quota in un’altra azienda ad un estraneo che cercava di acquistare il
controllo di quest’ultima, la seconda azienda avrebbe potuto effettuare una ritorsione vendendo anch’essa ad estranei le azioni della prima
azienda. Per tali motivi nessuno vendette.
A differenza degli antichi Zaibatsu, i Keiretsu sono privi di una so-cietà holding al vertice dell’organizzazione a cui sia affidato il controllo
di tutte le attività del gruppo. Le imprese dei nuovi gruppi infatti sono entità indipendenti che elaborano autonomamente le proprie strategie,
anche quando cooperano con le altre società affiliate9.
I Keiretsu si dividono in tre tipologie fondamentali: Keiretsu verticali;
Keiretsu distributivi, e Keiretsu orizzontali.
I Keiretsu verticali sono costituiti dal raggruppamento di aziende mi-
nori sotto la guida di una grande impresa leader generalmente operante
nel settore manifatturiero. Tali aziende minori sono centrate sulla rete
dei sub-fornitori e delle altre imprese collegate all’impresa “madre” tra-mite rapporti di produzione, distribuzione e fornitura di servizi.
Al centro del gruppo si pone una grande impresa produttrice che ha stretti legami con le società facenti parte della propria rete di fornitori,
distributori e clienti con cui vengono generalmente mantenuti rapporti
d’affari di lungo periodo. Il numero di imprese che prendono parte ai Keiretsu verticali come sussidiarie e affiliate varia secondo i casi ma in
genere è assai elevato. Nel sistema manifatturiero, ad esempio, le reti di
sub-fornitura dei Keiretsu verticali per le produzioni di assemblaggio comprendono imprese posizionate a diversi livelli secondo una struttura
8 J.P. WOMACK, D.T. JONES, e D. ROOS, La macchina che ha cambiato il mondo,
Milano, Rizzoli, 1993. 9 R. DORE, Taxing Japan Seriously. A confucian Perspective on Leading Economic Issue,
London, Athlon, 1987 [trad. it. Bisogna prendere il Giappone sul serio. Saggio sulla va-
rietà dei capitalismi, Bologna, Il Mulino, 1990].
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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piramidale. L’impresa principale, collocata al vertice, ha rapporti diretti con un numero relativamente ristretto di fornitori che a loro volta pos-
siedono una propria rete di sub-fornitori e così via. Man mano che au-menta la distanza dall’impresa principale, diminuisce in genere la di-
mensione delle società per cui il primo livello di fornitori include
numerose grandi imprese, mentre il secondo e il terzo livello riguardano imprese sempre più piccole. Il settore automobilistico e quello dell’elet-
tronica di consumo sono tipici esempi di questo tipo di relazioni di sub-fornitura.
L’impresa principale è azionista “di riferimento” (pur detenendone
quote di minoranza) delle aziende minori, ed è in grado di esercitare un’influenza decisiva nelle scelte manageriali e nel reperimento delle
risorse finanziarie. Già nel 1962, la Commissione giapponese “per la
lealtà nel commercio”, accertò che le 256 imprese più grandi avevano ciascuna una media di 16 società “figlie” (basandosi per la definizione
di queste ultime sul possesso di almeno il 10% delle azioni da parte dell’impresa principale). In testa alla lista risultava la Società elettrica
Matushita, che poteva contare su ben 193 aziende sussidiarie.
Le grandi aziende, o aziende leader, forniscono appoggio alle affiliate
come assistenza tecnica, investimenti in macchinari ecc., esercitando un
forte controllo sulle stesse, soprattutto su quelle che si collocano negli
strati più bassi. Le aziende minori, ad esempio, devono essere disposte ad accettare pagamenti inferiori per i prodotti forniti all’”azienda ma-
dre” qualora questa, in situazione di recessione, lo ritenga necessario per far fronte a problemi di tipo finanziario. L’impresa leader inoltre può
anche chiedere alle aziende più piccole di conservare scorte più ingenti,
o di accogliere proprio personale in esubero. Tali imprese minori devono attenersi alle direttive delle grandi azien-
de le quali decidono cosa devono produrre, quanto possono vendere ed a quali prezzi. L’azienda leader può imporre l’acquisto di nuovi macchi-
nari per incrementare la produttività della piccola azienda: se quest’ul-
tima rifiuta, ne può derivare l’immediata sospensione delle commesse di sub-fornitura.
L’imposizione secondo la quale ai fornitori e ai sub-fornitori viene
garantita una continuità di lavoro nel tempo, a patto che questi si ade-guino alle linee guida dettate dalla società principale, fa capire come la
maggior parte dei fornitori sia completamente assoggettata al potere del-l’azienda leader. Non sono rari i casi in cui queste continue pressioni
esercitate dalle imprese maggiori abbiano portato al fallimento molte
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Capitolo nono
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pic-cole aziende affiliate. Lo scopo prioritario di tutto il sistema è, infatti, di mantenere in “buona salute” l’impresa leader con l’intento più
complessivo di proteggere le grandi banche e le più importanti aziende del paese10. Il rapido sviluppo dei Keiretsu verticali è stato favorito da
una serie di concause, presenti anche nel mondo occidentale, quali i dif-
ferenziali salariali tra le grandi e piccole aziende che hanno incentivato il ricorso al decentramento produttivo di molte lavorazioni dalle impre-
se maggiori a quelle minori, oppure l’alto livello degli investimenti in condizioni di penuria di credito, o infine le esigenze di una tecnologia
più complessa.
I Keiretsu distributivi sono, in parte, una estensione di quelli “verticali”,
ma possono essere presenti in forma pura. Essi sono costituiti da gruppi
industriali e/o commerciali tesi al controllo di particolari canali distr-ibutivi, o di reti integrate di marketing11, al fine di garantire il più efficace
flusso distributivo dei prodotti e dei relativi accessori dal produttore al
consumatore. Questi Keiretsu comprendono quei produttori che hanno propri grossisti e anche propri dettaglianti, ed il controllo su di essi di-
pende proprio da tali strette relazioni, che è poi alla fine anche dipen-
denza finanziaria di questi ultimi rispetto la casa produttrice. La mag-gior parte di tali gruppi industriali possiede un alto numero di punti
vendita sparsi in tutto il mondo, la Toyota ad esempio ne possiede più di 42.000, e questo riduce notevolmente la possibilità di accesso al mer-
cato da parte di operatori stranieri (barriere all’entrata nella distribu-
zione commerciale). La lealtà verso il produttore è così garantita; in tal modo dettaglianti e grossisti continuano a rimanere fedeli alla casa
produttrice, sia che siano legati da un contratto di concessione di ven-
dita o da altri tipi di contratti più informali. Alla base del rapporto tra i dettaglianti e Keiretsu c’è un preciso
accordo: i negozi si impegnano a vendere esclusivamente (o quasi) solo i prodotti di una certa marca, ed al prezzo suggerito dalla casa madre; in
cambio il gruppo Keiretsu garantisce loro protezione e supporto attra-
verso una mirata distribuzione delle concessioni di vendita sul territorio, e campagne pubblicitarie gratuite che fanno espresso riferimento ai pro-
pri venditori.
10 M. AOKI, La microstruttura dell’economia giapponese, Milano, Angeli, 1991. 11 P. HERBIG, The future of Japanise Keiretsu in a global market, “Journal of Interna-
tional Marketing”, 2/1994; ID., Marketing Japanise style, New York, NY Press,
1995.
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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Le caratteristiche dei Keiretsu distributivi possono essere riassunte nei seguenti punti: 1) presenza di accordi esclusivi che proibiscono al det-
tagliante di vendere prodotti di altre grandi imprese (esclusiva commer-ciale); 2) esistenza di precisi limiti e restrizioni geografiche relativi alla
zona dove operare (diritti di esclusiva geografica); 3) indicazioni ai det-
taglianti di quali particolari grossisti da cui rifornirsi, e divieto per questi ultimi di rifornire dettaglianti diversi da quelli indicati dall’impresa lea-
der.
I Keiretsu sono generalmente organizzati dai produttori assieme alle
associazioni di commercianti per promuovere una maggiore cooperazio-
ne tra gli stessi, e per favorire le politiche di marketing volute dal produt-
tore.
Quest’ultimo trattiene una parte del ricavato delle vendite, restituen-dola al commerciante solo in un secondo momento: o tramite politiche
si sconto o tramite altri particolari agevolazioni. Lo scopo ultimo di que-
sti tipi di Keiretsu è di stabilizzare i prezzi, di innalzare delle barriere all’entrata di operatori terzi su un particolare mercato e di limitare l’in-
dipendenza dei dettaglianti.
I Keiretsu orizzontali sono così definiti perché raggruppano, attraverso
un fitto legame di partecipazioni azionarie incrociate, ancorché mino-
ritarie, imprese operanti in diversi settori dell’economia. Si tratta di grandi aziende, un tempo legate al medesimo Zaibatsu, ed
ora unite da una non meglio definita (né definibile) comunanza di in-
teressi “morali”, ma senza che vi sia una impresa che funzioni da “casa madre” ed eserciti il potere di controllo sulle altre.
Tali raggruppamenti sono facilmente identificabili, sia perché i loro
presidenti si riuniscono periodicamente ed i rapporti d’affari tra le varie imprese che li compongono sono privilegiati rispetto a quelli con azien-
de terze, sia perché le imprese collegate sono accomunate dagli stessi fornitori delle principali materie prime, dalle medesime fonti di approv-
vigionamento finanziario e spesso da comuni reti di vendita.
I Keiretsu orizzontali arrivano a comprendere più di cinquanta azien-de affiliate collocate nei settori strategici del paese, e generalmente sono
organizzate intorno alle principali banche e alle Trading Companies. Il
principio è quello di un impresa leader per ogni settore.
Il legame che fondamentalmente unisce le imprese dei Keiretsu oriz-
zontali risiede nelle partecipazioni azionarie tra le varie società. La banca di riferimento svolge un’importante funzione per il finanziamento
delle attività produttive condotte dalle società appartenenti al gruppo,
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Capitolo nono
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ed è supportata in questo ruolo da varie altre istituzioni finanziarie, in particolare da società fiduciarie e da associazioni imprenditoriali. Oltre
alle partecipazioni incrociate, la funzione di coordinamento tra le im-prese è condotta anche attraverso rapporti commerciali, finanziari e di
personale direttivo.
Risultano infatti considerevoli infatti il grado di indebitamento delle imprese affiliate verso gli istituti finanziari dello stesso gruppo, la quota
delle transazioni commerciali all’interno del gruppo e la mobilità di ma-
nager tra le varie società collegate.
Al contrario dei Keiretsu verticali, quelli orizzontali appaiono più le-
gati alla specificità giapponese sia dal punto di vista storico che dal pun-to di vista economico.
Dal punto di vista storico esisteva una consuetudine ultradecennale di
cooperazione e di relazioni interaziendali all’interno degli antichi Zai-batsu, che nel tempo ha portato numerose imprese a continuare tale
pratica anche dopo la scomparsa di quelle antiche concentrazioni. Dal punto di vista economico, che rappresenta la vera specificità
giapponese, è attribuito un valore di mercato all’identificazione di un
determinato numero di imprese in un gruppo; per cui, all’interno dei Keiretsu esistono dei vincoli che in virtù dei vecchi legami con gli
Zaibatsu sono difficili da ignorare. Secondo la mentalità giapponese un’impresa rischia addirittura la
propria immagine sul mercato se, nel perseguimento di un interesse
egoistico, viola il principio di solidarietà del gruppo. Tale principio, più che provenire da strategie dei vertici aziendali, è molto spesso originato
dal basso, dalla comunità dei lavoratori che si sentono legati da una
sorta di identificazione di gruppo. I vertici aziendali devono piuttosto adeguarsi per non compromettere i vincoli di solidarietà e cooperazione
che legano i dipendenti all’azienda. Anche se gli Zaibatsu non esistono più, e nella proprietà e nel control-
lo delle imprese molto è cambiato, l’identità dei Keiretsu e i loro legami
informali rappresentano il segno di una permanente eredità del passato rendendo originali ed unicamente giapponesi le modalità attraverso le
quali si manifesta il controllo economico sulle imprese12.
12 H. SEKI, Beyond the full-set industrial structure; the Japanise industry, New York,
Pergamon Press, 1994.
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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5. Paternalismo di fabbrica, sistema “ringi” e strategia del miglioramento continuo (“Kaizen”)
Sotto questo aspetto, appaiono in particolare interessanti tre momenti della gestione postbellica dell’impresa giapponese: due perduranti fin
quasi a metà degli anni Ottanta del Novecento, e fondati su una par-ticolare eredità storica (il “paternalismo di fabbrica”) e sull’”armonia”
(o cooperazione collettiva) integrate nel sistema di elaborazione delle decisioni chiamato ringi; la terza, chiamata “strategia del miglioramento
continuo” (Kaizen), basata su una reinterpretazione locale delle acquisi-
zioni gestionali e manageriali statunitensi. Un vero sistema paternalista era sorto in Giappone solo dopo il 1911,
quando – dopo un lungo periodo in cui le imprese giapponesi avevano
goduto di una libertà assoluta nei rapporti con i dipendenti che ricorda quanto si era verificato in Gran Bretagna fino ad un secolo prima –
venne varata sulla scia di fondamentali innovazioni costituzionali anche una “Legge sulle fabbriche”. Essa suscitò una vivace opposizione delle
aziende industriali, sostenendo i loro dirigenti che la legge (ed altre di-
sposizioni di tipo occidentale che in quegli anni venivano introdotte) non erano adatte alla società giapponese fondata su una secolare tra-
dizione di rapporti personali e di vincoli di appartenenza solidale ad un
“gruppo”. Per cui le impersonali relazioni contrattuali introdotte dalla nuova legislazione, avrebbero provocato la disgregazione del tessuto so-
ciale, nonché minato l’accumulazione di capitale necessaria allo svi-luppo e la competitività internazionale del paese. I metodi tradizionali
nel rapporto di lavoro erano invece ritenuti più efficaci delle dispo-
sizioni legislative a garantire il benessere dei lavoratori. Se le disposizioni legislative comunque rimasero, gli imprenditori a
partire dal dopoguerra si garantirono da loro ulteriori ampliamenti (e dalla sfida che cominciava a salire dai primi movimenti organizzati
della sinistra, e della loro ideologia) con l’avvio di costruzioni pater-
naliste – soprattutto sul piano dell’assistenza, della partecipazione ai profitti e dell’identificazione del singolo dipendente con il gruppo in-
dustriale-familiare cui apparteneva – che, se poggiavano le loro radici
nel passato, erano tuttavia ben consapevoli del livello di moder-nizzazione e di concentrazione raggiunto dall’economia, teorizzando il
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Capitolo nono
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principio che l’impresa è una “famiglia” in cui tutti si deve essere soli-dali13.
Se questa fu la pratica concreta del paternalismo giapponese, convie-ne interrogarci su cos’è storicamente il paternalismo? Il “paternalismo”
appartiene ad una concezione altamente gerarchica della società, già
presente nell’età precedente la restaurazione dell’autorità imperiale, do-ve l’apprendistato era sottoposto a regola rigide e molto formali. Lunghis-
simo e obbligatorio, esso durava almeno un decennio; le relazioni tra maestro artigiano e apprendista erano definite con rigore, e su base stret-
tamente personale, tanto che il primo esercitava sul secondo un’autorità
totale col diritto di attendersi da questi lealtà e obbedienza complete. In cambio gli apprendisti venivano iniziati ai segreti del mestiere, man-
tenuti interamente, ed aiutati poi ad intraprendere una attività autono-
ma. Analogamente, l’organizzazione delle grandi case mercantili era model-
lata sul principio gerarchico. Grazie ad essa, una casa mercantile somi-gliava straordinariamente ad una famiglia costruita attorno alla figura
del capo. La relazione tra questo ed i suoi dipendenti era analoga a quel-
la intercorrente tra il maestro artigiano e l’apprendista, ma presentava una dimensione ulteriore: una “casa” costituiva un’entità vera e propria,
un “nome” che doveva essere da tutti i suoi appartenenti onorato e di-
feso, e in cui questi erano chiamati a identificarsi totalmente. Le case più grandi (ad esempio quelle Mitsui, o di Sumitomo) di-
sponevano di regole scritte e minuziose che codificavano le relazioni personali interne, i doveri e gli obblighi dei dipendenti e del capo stesso,
via via fino ai modi in cui le promozioni nell’ordine gerarchico po-
tevano avvenire. Il principio fondante l’ordine gerarchico era che i membri più elevati delle varie classi sociali fossero tenuti a garantire
la sicurezza economica dei loro inferiori, in cambio della lealtà
e dell’obbedienza totale di questi. L’abilità e l’aggressività personali
13 Quella dell’azienda come “grande famiglia” è una formulazione che si riscontra
anche nel paternalismo occidentale. Dove, tuttavia, per “famiglia” si intende una
eufemistica – e tutta ideologica – “famiglia del lavoro” (si veda, per l’Italia, il caso
dei Marzotto, probabilmente l’esempio più compiuto di paternalismo industriale
novecentesco del nostro paese, e per certi versi europeo: cfr. G. ROVERATO, Gaeta-
no Marzotto Jr: le ambizioni politiche di un imprenditore tra fascismo e postfascismo, cit.:
ben più limitata – e assai meno coinvolgente – del concetto sotteso all’espressione
giapponese, che recupera in età industriale quel codificato insieme di doveri (e di
diritti) sviluppatosi nell’antico modello della “casa” o “famiglia” mercantile.
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Impresa e industrializzazione in Giappone
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potevano procurare un miglioramento della posizione individuale, ma solo nell’ambito della classe di appartenenza data la “naturale” impos-
sibilità di una mobilità individuale da classe a classe. Solo verso la fine dello shogunato, la situazione parzialmente mutò, essendo divenuto im-
possibile mantenere rigide le barriere di classe. L’esempio più clamoroso
fu la compravendita del titolo di samurai. E fu in questo ambiente so-ciale in movimento che irruppe l’industria moderna. Ma se la mobilità
da classe a classe poté cominciare a manifestarsi, e ad accelerarsi dopo la restaurazione imperiale, le pervasive relazioni gerarchiche tra datori
di lavoro e manodopera rimasero pressoché inalterate salvo la ovvia
constatazione della fine del regime feudale. È con una tale introiezione da parte dei nuovi lavoratori di fabbrica, che il Giappone della prima (e
in parte della seconda) rivoluzione industriale quasi non conobbe il
conflitto sociale nonostante l’abbietta situazione in cui la manodopera meno qualificata versava.
Oggi, pur caduti gli Zaibatsu, queste costruzioni sono rimaste, come è rimasto il livello di identificazione del lavoratore nell’azienda. Lo stesso
sviluppo dei moderni Kereitsu orizzontali (e la loro sopravvivenza alle
critiche che le volevano bandite in base alla loro affinità con gli Zai-batsu) costituiscono, in parte, la riprova che la tenace insistenza dei
dirigenti prebellici sull’azienda quale grande famiglia, faceva leva su un
tasto vincente: il valore attribuito dalla cultura giapponese all’iden-tificazione di un individuo in un gruppo, all’interno del quale solo sem-
bra utile spendersi fino al massimo dell’efficienza e del risultato. Un tasto sconosciuto anche ai più pervasivi sistemi paternalisti dell’indu-
stria occidentale14, dagli anni Cinquanta del XX secolo indirizzati ad
altre tecniche del consenso piuttosto che a mantener viva – come fu in-vece in Giappone – la pratica del paternalismo di fabbrica.
Quanto vaste e tenaci siano le radici che l’orientamento verso il grup-po affonda nella cultura giapponese, è evidente nel sistema di decisioni
praticato nelle imprese e chiamato ringi. Come ricorda K. Yamamura
nel suo studio sull’industrializzazione giapponese, «si tratta di una delle parole composte del giapponese più difficili da tradurre [...]: rin significa
l’atto di trasmettere una proposta a un superiore per ottenerne l’approvazione, e gi significa discutere, o deliberare». Il che gli serve per
14 Penso all’esperienza di talune grandi imprese tessili italiane dell’Otto-Novecento:
i Crespi d’Adda, i Rossi, i Marzotto. Esempi simili si ritrovano tuttavia anche
nell’industria francese e tedesca.
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concludere che «il sistema ringi è [...] un modo di prendere decisioni
nell’ambito di un gruppo [ma anche di un’impresa], dando la propria
sanzione a proposte espresse dai subordinati»15. Il sistema, già diffuso all’interno degli organi burocratici che si dipartivano dall’ultimo shogun,
venne formalizzato nell’amministrazione dei Meiji, e da lì riversato an-
che nelle imprese private della prima industrializzazione. Esso si basava sulla valorizzazione di tutti gli anelli di un sistema
burocratico esteso, anche di quelli più lontani dalle decisioni finali. In una impresa funzionava grosso modo così: un gruppo di impiegati di un
determinato settore proponeva al superiore diretto, dopo averne a lungo
discusso, una determinata misura. Questo consultava i propri colleghi di pari grado eventualmente coinvolti nella questione. Se venivano sol-
levate obiezioni, la proposta o veniva semplicemente lasciata cadere o
veniva ritornata a coloro che l’avevano formulata per un riesame. Se invece essa era condivisa, veniva trasmessa per via gerarchica ai
dirigenti di livello superiore, finendo – se non vi erano ostacoli – al Comitato esecutivo dell’azienda che, se l’approvava, la passava per l’ac-
cettazione definitiva al Presidente.
Il processo, tuttavia, poteva essere anche rovesciato. Anzi, negli anni Sessanta e Settanta del XX secolo fu generalmente tale: e cioè basato sul
“suggerimento” (o sulla richiesta) rivolti da parte dei livelli superiori dell’impresa a funzionari di grado inferiore affinché elaborassero una
proposta su un determinato problema. In realtà questi “suggerimenti”
altro non erano che ordini, ma dal livello inferiore non venivano av-vertiti come tali, ma anzi stimolavano in essi un senso di (presunto)
coinvolgimento nelle scelte aziendali. A questo percorso i dirigenti della
grande impresa di tipo “impersonale” pervennero gradualmente, nella convinzione che era meglio evitare – ove non indispensabile – l’eserci-
zio diretto del comando, dato che esso implicava l’assunzione di una diretta responsabilità individuale. Assumere una determinata scelta
operativa (organizzativa, di processo, di prodotto), implicava identi-
ficarsi in essa, col rischio che se alla fine si fosse rivelata un insuccesso ciò avrebbe determinato in capo al “decisore” una inaccettabile perdita
di prestigio, e financo una retrocessione dal ruolo ricoperto.
Sostanzialmente deresponsabilizzante, questo sistema evidenziò nel tempo vantaggi e difetti. I primi sembrano, nello specifico contesto giap-
ponese, nettamente prevalenti sui secondi. Le decisioni (spesso anche
15 YAMAMURA, op. cit.
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quelle strategiche) diventavano infatti impersonali, e il loro successo o fallimento non comprometteva il prestigio di alcuno, avvenendo in no-
me e nell’interesse della compagine aziendale o societaria. Sin dal primo passo di questo complicato processo, infatti, i dirigenti si assicuravano
con estrema attenzione che il gruppo coinvolto nella formazione di una
proposta gestionale fosse unanime: cosicché, una volta che essa dive-niva esecutiva, apparisse il prodotto di una scelta dell’intera azienda,
cosicché tutti si sentivano spinti ad attuarla nel migliore dei modi af-finché raggiungesse lo scopo prefissato. L’auspicabile successo sarebbe
stato di tutti, così come in caso di insuccesso non vi sarebbero stati né
vinti (coloro che l’avevano promossa), né vincitori (quelli che l’avevano criticata od osteggiata). Tutto il contrario di quanto da quasi un secolo
avveniva nelle larges corporations americane, dove sul successo o sul
fallimento di strategie (o di singole scelte operative) i dirigenti costrui-vano (costruiscono…) o distruggevano (distruggono…) le loro carriere,
in uno scontro continuo e talora destabilizzante. Si spiega anche da questo punto di vista la lunga minore conflittualità (e quindi “ricam-
bio”) al vertice delle società giganti giapponesi rispetto agli omologhi
gruppi impersonali occidentali. I difetti furono essenzialmente rappresentati, oltre che dalla “dere-
sponsabilizzazione” dell’Alta direzione, dalla farraginosità (e lentezza)
del processo decisionale. Le idee innovative rischiavano di essere soffocate nella fase di discussione prima ancora di giungere al livello
superiore; e chi decideva al massimo livello era di fatto costretto a valutare quanto gli veniva proposto con una forte presunzione positiva,
mancandogli gli espliciti riscontri contrari di chi aveva cercato di op-
porsi a proposte ritenute sbagliate. Ciononostante, il sistema ha fun-zionato per interi decenni, giacché nella loro stragrande maggioranza le
imprese giapponesi hanno dimostrato di dover privilegiare la regola del consenso, e la preservazione dell’armonia all’interno dell’organizzazio-
ne.
La situazione è andata successivamente evolvendosi. Pur cercando di preservarne ugualmente, almeno dal punto di vista formale, le carat-
teristiche fondamentali (consenso, impersonalità delle decisioni, armo-
nia del gruppo), un numero crescente di aziende è andato superando (o aggirando) il sistema ringi.
La capacità di reazione di un’impresa deve essere oggi molto più tempestiva di un tempo. La crescente interdipendenza tra scelte gover-
native e vita economica, con particolare riferimento ai piani di sviluppo
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delle aziende, hanno imposto alle imprese delicate scelte strategiche non sempre affrontabili con l’empirismo del ringi. Nell’economia industriale
odierna, le decisioni devono essere rapide ed efficaci: e non vi è efficacia senza un coordinamento continuo tra quelle che riguardano il breve
periodo e quelle che proiettate al medio-lungo periodo. La nascita anche
nelle imprese giapponesi di sofisticati uffici finalizzati alla program-mazione di lungo periodo, risponde a questa esigenza.
Accanto alla verticalizzazione della decisione strategica, si è tuttavia generalizzato il decentramento del processo decisionale nelle varie unità
(produttive, amministrative, divisionali ecc.) per rendere maggiori l’au-
tonomia e la rapidità delle scelte non strategiche: ed è a quella scala che il sistema ringi viene mantenuto, pur se snellito e velocizzato. Si pensi
ad esempio ai c.d. “circoli di qualità” su cui si è fondata la sfida del
miglioramento qualitativo della produzione: e dove l’elaborazione di una ottimale decisione comune è presupposto del successo dell’opera-
zione. Al di là, comunque, delle diverse accentuazioni sul modo di pervenire
alla decisione strategica, rimane un fatto che in Giappone la gestione
d’impresa presenta una singolare commistione tra metodi della tradi-zione e quelli del management scientifico di scuola americana, introdotti
nel dopoguerra. Tale commistione si è tuttavia manifestata negli ultimi decenni con intensità e gradi diversi a seconda della congiuntura, e dei
settori: talvolta valorizzando i metodi autoctoni, talaltra privilegiando i
principi sviluppati nella large corporation statunitense. In una simbiosi cre-
scente, che ha avuto i suoi ritorni nella stessa industria occidentale:
dove i “circoli di qualità”, o la sfida della “qualità totale”, sono stati
accolti come una autentica rivoluzione sia nell’esito tecnico-economico che si prefiggono, che nel particolare modo di costruire la decisione. E
sempre più spesso sono state le imprese occidentali a studiare i particolarissimi metodi di gestione giapponesi, cercando di trarne utili
insegnamenti: anche questo uno dei tanti aspetti della internaziona-
lizzazione dell’economia, e dell’interdipendenza tra le varie culture in-dustriali.
Soffermiamoci, concludendo, su quella che abbiamo prima definita una reinterpretazione autoctona delle acquisizioni gestionali e mana-
geriali statunitensi, riguardante la cosiddetta strategia del “migliora-
mento continuo” (Kaizen). Con il termine Kaizen sono infatti identici-
cate, nella lingua giapponese, le attività di miglioramento.
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Dopo la seconda guerra mondiale, la maggior parte delle aziende giapponesi dovette ricominciare da zero la loro attività, con dirigenti,
impiegati ed operai costretti ad affrontare nuove e continue sfide quotidiane. Fu in questo contesto di “rincorsa” rispetto ai competitori
internazionali che maturò il concetto di Kaizen applicato alle attività
produttive. Il primo passo compiuto fu quello di “imitare” i sistemi di produzione americani in maniera sistematica e puntuale, attraverso
analisi che conferirono la maggior parte delle basi teoriche dalle quali scaturì, dopo un periodo di assimilazione e adattamento, quello poi fu
chiamato “modello giapponese”. Questo processo di rielaborazione e
reinterpretazione ha riguardò principalmente le aree della “tecnologia e del management”, tanto che il Giappone può essere definito come un
paese in gran parte basato sulla tecnologia, ed in grado di creare e svi-
luppare tecnologie sempre d’avanguardia. La sintesi di tutto questo è rappresentata proprio dalla continua ricerca di un’elevata qualità finale
dei prodotti. I giapponesi iniziarono a mutare la loro filosofia aziendale spostando
il baricentro d’interesse sul lato delle vendite e delle quote di mercato,
sviluppando altresì – in alternativa ai modelli occidentali – i concetti del “Just in time”16 e della “Total Quality”. Nei tardi anni Cinquanta e nel-
la decade successiva fu proprio attraverso strumenti come il controllo statistico, ed il controllo totale della qualità, che la strategia Kaizen andò
elaborandosi in una sorta di filosofia della produzione, dove il concetto
di Kaizen si sostanzia dal semplice miglioramento del significato etimo-
logico del termine in un miglioramento “continuo” che coinvolge tutti i
componenti una medesima struttura produttiva (Alta direzione, quadri
intermedi, manodopera di linea). Nel concetto di Kaizen è riassumibile gran parte delle pratiche gestio-
nali “tipicamente giapponesi”, spesso studiate e (non sempre al meglio) replicate dalle imprese occidentali: orientamento al cliente; produzione
“Just in time”; controllo totale della qualità; miglioramento della
qualità e della produttività; creazione di nuovi prodotti; disciplina sul posto di lavoro; attività in piccoli gruppi; autoattivazione; relazioni in-
dustriali basate sulla cooperazione; sistema dei “suggerimenti”. Nella mentalità giapponese, è radicata la convinzione che i miglio-
ramenti non hanno di per sé una fine compiuta. Considerariamo l’esem-
pio dello sviluppo di un nuovo prodotto come una tipica situazione
16 T. OONO, Lo spirito Toyota, Torino, Einaudi, 1993.
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interfunzionale17, così definita perché comporta la collaborazione e gli sfor-
zi congiunti di coloro che si occupano del marketing, della progettazione
e della produzione. Mentre in Occidente i problemi interfunzionali vengono spesso consi-
derati in termini di conflitto e soluzione dello stesso, la strategia Kaizen
invece ha permesso al management giapponese di adottare un approccio
sistematico e collaborativo che smorza alla radice il conflitto, spostando-
ne le energie alla rapida soluzione del contrasto. Questo modo di affron-tare i problemi rappresenta uno dei segreti del vantaggio competitivo del
management giapponese.
Il punto di partenza per produrre un miglioramento, è riconoscerne la necessità, e tale riconoscimento deriva dall’individuazione di un “proble-
ma”. Tipico della mentalità giapponese è un atteggiamento positivo verso i
problemi, per cui qualsiasi difficoltà deve essere vista come un’opportu-
nità di miglioramento e non come una situazione di per sé negativa e fo-riera di danno.
L’essere considerati soddisfatti della propria condizione va contro il principio Kaizen, per cui, se nessun problema viene individuato, nessun
miglioramento interverrà. Tale approccio poggia sulla necessità di es-
sere consapevoli della naturale esistenza di problemi, e fornisce contem-poraneamente all’individuo gli strumenti adatti per procedere alla loro
individuazione: una volta individuati, i problemi devono essere risolti
ed il miglioramento raggiunge un livello più alto ogni volta che viene ri-solto un problema.
Generalmente quando ci si trova di fronte ad un problema, il primo im-pulso è di nasconderlo, ignorarlo o procrastinarlo, piuttosto che affron-
tarlo direttamente. Tale atteggiamento è tipico del dirigente occidentale,
che teme che qualcuno (un collega, un superiore) possa pensare che lui sia parte di quel determinato problema con il rischio di perdere prestigio
e “potere” dirigenziale.
Secondo la mentalità giapponese, invece, la cosa peggiore che una persona possa fare è di ignorare o “nascondere” un qualche problema,
quando invece il primo passo dovrebbe essere quello di affrontarlo, con-dividerlo e risolverlo. È importante condividere il problema con i propri
superiori, ed ottenere l’appoggio di tutta l’azienda dato che spesso non
17 I. KOBAYASHI, Le venti chiavi del Kaizen, metodi graduati per il miglioramento con-
tinuo, Torino, Isedi, 1992.
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si hanno le risorse per risolverlo da soli. In particolare nella filosofia del “Controllo totale della Qualità”, in Giappone il lavoratore viene in-
coraggiato ad individuare ed a parlare dei problemi, ed il capo indiriz-zato ad apprezzare il fatto di esserne informato in quanto il problema è
stato messo in luce quando è ancora di minore importanza in modo da
poterlo considerare una importante opportunità di miglioramento. L’in-dividuazione dei problemi ed il coordinamento delle informazioni con
gli altri reparti, sono quindi una normale componente dell’approccio produttivo giapponese.
Termini come “Qualità” e “Controllo della qualità” hanno giocato un
ruolo vitale nello sviluppo del Kaizen. Quando si parla di qualità si tende
a pensare soprattutto in termini di qualità di prodotto, mentre in Giap-
pone la preoccupazione principale è la qualità delle persone: l’elemento
umano rappresenta, oltre ai programmi ed agli impianti, uno degli ele-menti costitutivi fondamentali dell’attività imprenditoriale. Nel contesto
del miglioramento, quindi, il termine qualità non è associato esclusiva-mente ai prodotti ed ai servizi ma anche ai modi in cui la gente lavora,
all’uso che si fa dei macchinari e al modo di affrontare sistemi e pro-
cedure: in altre parole il miglioramento è connaturato a tutti gli aspetti del comportamento umano. Nel contesto occidentale, invece, il termine
miglioramento è connesso piuttosto al miglioramento impiantistico e di
processo. Anche il Kaizen, ovviamente, è mirato ai processi produttivi, ma essi
non sono il suo obiettivo esclusivo. Nel corso degli anni le aziende giap-ponesi hanno sviluppato un modo di pensare ed elaborare strategie
“orientate ai processi” sostenendo e riconoscendo gli sforzi individuali
mirati al loro miglioramento. Essendo il Kaizen orientato alle persone,
preliminare per il mi-glioramento complessivo è la messa a punto di
processi che favoriscano il coinvolgimento di tutti i livelli gerarchici dell’organizzazione produttiva.
Talvolta i managers occidentali hanno la tendenza a considerare que-
ste strategie come “diversità culturali”, senza coglierne gli aspetti sa-lienti e studiarne le modalità di trasferimento nelle loro aziende. In
Giappone si suole dire che “anche una strada lunga mille chilometri è, di fatto, l’accumulo di un passo dopo l’altro”: per i giapponesi ciò
significa che la forza è rappresentata dalla continuità e dalla perseve-
ranza dello sforzo di miglioramento. Il concetto di Kaizen sottolinea il ruolo del management nel sostegno e
nello stimolo degli sforzi fatti dalle persone per migliorare i processi.
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Tali sforzi significano spesso anche cambiamenti nel comportamento, per cui i criteri orientati ai processi richiedono tempi mediamente più
lunghi di quelli orientati ai risultati che invece sono di breve-medio ter-mine. Vale la pena di ricordare come un dirigente orientato ai processi
si occuperà sia della gestione del tempo come dello sviluppo delle capa-
cità individuali; ma anche della comunicazione interna, della partecipa-zione e del coinvolgimento.
Nonostante la primaria importanza attribuita ai processi all’interno dell’industria giapponese, sono ovviamente importanti anche i criteri
orientati ai risultati: con la distinzione che mentre le ricompense per i
criteri orientati ai risultati sono di natura economica, quelle per i criteri orientati ai processi sono più spesso di riconoscimento morale e di onore
riferiti allo sforzo compiuto.
Per comprendere l’importanza del modo di pensare orientato ai pro-cessi è opportuno sottolineare come esso non sia presente solo all’inter-
no dell’industria, ma permei l’intera vita degli individui giapponesi, ad esempio nell’ambito dello sport e della religione.
In sostanza il Kaizen altro non è che una sofisticata, ed a volte “impal-
pabile”, evoluzione del sistema ringi: che integra un sistema premiale in
qualche modo paragonabile a quello dello sport nazionale giapponese, il
Sumo. Nei tornei di tale disciplina, ci sono sempre tre premi