Download - MY LIFESTYLE n° 10
LUXURY MAGAZINE
Periodico TrimestraleN° 10 - SUMMER 2011
EURO 6,50
Top Manager:NORBERTO FERRETTI
OFFSHORE“Fashion Sport”
PAOLO CONTEL’Intervista in Esclusiva
AUTO DA SOGNOMercedes ML e Fisker KARMA
GIANFRANCO VISSANIL’Uomo, lo Chef, il Personaggio
CONCORSO D’ELEGANZALe Auto d’Epoca Sfilano a Villa d’Este
WWW.MYLIFESTYLE.IT
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sommarioNORBERTO FERRETTI
top manager
MUSIca
aLTa cUcINa
LUxURY
LIFESTYLE
SPORT
INNOvazIONEtop selection
MaNagERtop selection
EcONOMIatop selection
LUxURY
TRavEL
LIFESTYLE
TOP caR
aUTO da SOgNO
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SULLa cRESTa dELL’ONdanorberto ferretti, la passione per il mare
qUaNdO La MUSIca è IMMORTaLEpaolo conte, illustre interprete di melodie senza tempo
gIaNFRaNcO vISSaNIun uomo, uno chef, un personaggio
chE IL BUON gUSTO SIa cON NOIa lezione di eleganza con enzo miccio, wedding planner per passione e professione
SOSPESI TRa TERRa E MaREi fari, la loro storia e la loro simbologia, nel centenario del servizio fari della regia marina
OFFShOREmare, motori, spettacolo & coraggio
aL vIa La caRTELLa MEdIca dIgITaLEbancomed, un prezioso strumento che mette il paziente in primo piano
vITa dI UN MaNagER dI SUccESSOintervista esclusiva al dott. franco fenoglio,direttore della divisione veicoli commerciali piaggio, tra carriera e famiglia
PIccOLa E MEdIa IMPRESapiccolo è bello ma grande è meglio!
cONcORSO d’ELEgaNza vILLa d’ESTEauto d’epoca, tra stile e tradizione
UN SaLOTTO RaFFINaTOportofino: storia, mondanità, natura e glamour
BORSaLINO, UNa LEggENda dI STILEcentocinquant’anni tra moda e spettacolo
NUOva MERcEdES MLeleganza & efficienza
FISkER kaRMa
To p M A N A G E R
Scrivi “Ferretti” e leggi “luxury yacht”. L’eccellenza tecnologica, le elevate prestazioni, il
design innovativo, l’esclusività dei dettagli fanno delle barche Ferretti degli oggetti di culto.
Leader nella progettazione e produzione di motor yacht di lusso, con un portafoglio
unico di alcuni tra i più esclusivi brand della nautica mondiale (Ferretti Yachts, Pershing,
Itama, Bertram, Riva, Mochi Craft, CRN e Custom Line), il Gruppo Ferretti oggi, a distanza
di quarantatré anni dalla sua nascita, è un esempio di creazione di un polo industriale
di successo. Quarantatré anni di miglioramento continuo, di impegno e di passione,
di imbarcazioni sempre più innovative, performanti, tecnologiche e sicure. Quarantatré
anni di sfide, successi e lungimiranza, rappresentati dalla raffinata eleganza delle
imbarcazioni del Gruppo. Quarantatré anni da quando, in un mondo che cambiava,
Norberto Ferretti, Presidente dell’azienda che prende il suo nome, ha lanciato la propria
sfida al mare.
Sig. Ferretti, lei è universalmente riconosciuto come “l’uomo degli yacht di lusso”. Ma chi è,
invece, Norberto Ferretti nel personale?
«Norberto Ferretti è probabilmente il costruttore di yacht che più ama vivere il mare,
rispettandolo sotto tutti i punti di vista, sia dal punto di vista ecologico, sia per il timore che
bisogna avere per il mare e quindi della sicurezza. Amo il tempo libero, che considero la più
vera e preziosa forma di lusso, e sono convinto che la serenità sia il massimo del ‘ lusso’
che un uomo può desiderare. Amo vivere la barca e in tutti questi anni sono sempre stato
guidato dalla filosofia di navigare rispettando e godendo a pieno il mare; proprio per questo
ho sempre voluto che le imbarcazioni Ferretti fossero “boat to be used and not to be shown”».
SULLA CRESTA DELL’ONDANORbERTO FERRETTi, LA PASSiONE PER iL MARE
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n o r b e r t o f e r r e t t i
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Come è nata la passione per la nautica? Se
non erro, per lei e suo fratello, è stata passione
precocissima…
«Sì, posso dirle che l’amore per il mare ha
caratterizzato tutta la mia storia professionale. Fin
dal 1968, quando, con mio fratello Alessandro,
creammo una divisione nautica inserendola nel
business della nostra concessionaria di auto e
moto. Nel 1971, quindi, costruii personalmente
la prima barca, il motopeschereccio “Kamshin”,
presentandola a Genova dove ebbe un successo
inaspettato. Ricordo con grande emozione quel
periodo, quando ancora non avevamo ben in
mente come e se quest’avventura sarebbe andata
avanti, ma l’entusiasmo e la voglia nel raccogliere
una sfida così accattivante ci spinsero da subito
ad intraprendere quella che 43 anni dopo sarebbe
diventato un grande gruppo internazionale».
La sua azienda è leader nel settore della nautica
da più di quarant’anni. Che cosa rappresenta per
lei questo storico successo?
«In realtà mi accorgo solo oggi di quanto il gruppo sia
cresciuto: forse perché la passione per il mio lavoro
e l’entusiasmo quotidiano che insieme al mio team
pongo nella continua ricerca di soluzioni sempre
più innovative han fatto sì che non ci si fermasse
mai a pensare di “essere arrivati”. Credo infatti che
il raggiungimento di un risultato sia sempre il punto
d’ inizio per un’ulteriore sfida».
Quali sono stati, secondo lei, i fattori e le scelte
determinanti di questo successo?
«Essere innovativi, saper soddisfare sempre le
esigenze della propria clientela, offrendole servizi
adeguati e prodotti di eccellenza. Per fare ciò sono
fondamentali tecnologie sempre all’avanguardia e
la continua ricerca di nuove soluzioni. Nel Gruppo
Ferretti diamo grande importanza a questo lavoro:
nel 1989, infatti, abbiamo costituito la Divisione
Engineering, oggi trasformata nell’AYT, Advanced
Yacht Technology, uno dei centri di ricerca e
progettazione navale più avanzati al mondo. Nella
stessa ottica nel 2010 abbiamo creato il Centro
Stile Ferrettigroup, un team da me fortemente voluto
e seguito, diretto da Gilberto Grassi e composto
da un competente staff di architetti e designer in
grado di coniugare qualità, attenzione per il design,
ricercatezza nei dettagli con la sicurezza e le ottime
n o r b e r t o f e r r e t t i
performance in mare. Alla base di tutto ciò c’è la
costante ricerca della qualità, in ogni fase operativa,
dall’ ideazione alla realizzazione, e persino nella scelta
delle componenti minori. Senza la qualità, nemmeno
l’etichetta ‘Made in Italy’ sarebbe sufficiente a contra-
stare la concorrenza».
A quale modello o a quale prodotto è più affezionato?
Perché?
«La barca alla quale sono più affezionato…è sempre la
prossima! In ogni modello, in ogni nuova imbarcazione
ci sono innovazioni e soluzioni di progettazione sempre
più all’avanguardia per il comfort e la sicurezza a
bordo. Da un punto di vista strettamente personale,
l’ importante per me è che la mia sia una barca
dislocante: io amo vivere la mia imbarcazione e quindi
mangiare, dormire, guardare un tramonto così come
farei da casa mia. La velocità oggi non mi interessa.
Dal momento che trascorro in mare il maggior tempo
possibile, preferisco il comfort».
È opinione diffusa che il settore lusso, proprio per le
peculiarità che lo contraddistinguono (target di clienti
molto ricchi, concorrenza limitata, etc.) sia esente
dagli effetti disastrosi della crisi economica. È davvero
così? O anche il settore lusso ha subito qualche
defaillance? Qual è la sua esperienza?
«Sicuramente il segmento delle imbarcazioni a più
alto pedaggio ha risentito meno della situazione
congiunturale. Ci troviamo, comunque, di fronte a un
Cantiere Riva - La Spezia
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To p M A N A G E R
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mercato nautico e a una clientela profondamente
diversa rispetto a quello degli scorsi anni, che
richiede alle società del settore di affrontare le nuove
sfide in termini di innovazione e di capacità di fare
business. Il Cliente è tornato ad essere quello di una
volta, appassionato, competente e pertanto attento
alla qualità e al comfort della navigazione e questo
non può che renderci ancor più competitivi. Nostro
obiettivo è continuare a lavorare su prodotti sempre
più innovativi e su servizi sempre più completi e
customizzati rispetto alle esigenze dei nostri clienti,
continuando a mantenere la leadership nel settore
nautico».
Quali sono i punti di forza di un’azienda per uscire
dalla crisi? Voi su cosa avete puntato?
«Abbiamo puntato a una grande innovazione di
prodotto, lanciando sempre nuovi prodotti, tra cui: il
Ferretti 720, il Pershing 108’, il Riva Iseo, i Custom
Line 100’ e 124’ e la Navetta 33 Crescendo, a cui
si aggiungeranno presto altri importanti lanci anche
per gli altri brand. Per CRN tra dicembre 2011 e
gennaio 2012 è previsto il varo del CRN 129 di
80 metri, la nave più grande costruita da CRN.
Abbiamo inoltre lavorato alacremente per offrire una
qualità di servizi altissima. Inoltre stiamo investendo
per un ulteriore ampliamento della nostra presenza
su mercati meno ‘tradizionali’, come ad esempio la
Cina e l’India e al rafforzamento in aree in cui siamo
già presenti, come il Nord e Sud America».
In qualche recente intervista ha anche parlato di
una ‘nuova etica dell’andar per mare’. Cosa intende
esattamente?
«Stiamo iniziando a compiere i primi passi lungo il
difficile cammino della salvaguardia dell’ecosistema,
e non solo nel settore nautico. È una prospettiva
molto importante alla quale chiunque ha il dovere di
dare la massima attenzione. E per questo, ormai da
tempo, cerchiamo di promuovere una filosofia che
coniughi sistemi altamente tecnologici e rispetto per
la natura. Il Nostro Gruppo, infatti, che è da sempre
attento ad innovazione e tecnologia, desidera
promuovere una ‘nuova etica dell’andar per mare’,
che dia più importanza all’armonia tra uomo e
natura, consentendo all’armatore di preservare
ed esplorare a zero emissioni meravigliosi contesti
marini anche in aree protette. Il rispetto dell’ambiente
costituisce infatti per Ferretti una direttrice primaria
To p M A N A G E R
nello sviluppo di nuovi prodotti. Superando, quindi, la
ormai affermata propulsione ‘diesel-elettrica’, l’AYT ha
sviluppato l’ innovativa propulsione ibrida che unisce
l’affidabilità del sistema propulsivo Diesel tradizionale
alla possibilità di navigare in ‘Zero Emission Mode’
(ad emissioni zero) con l’ausilio di 2 motori elettrici
sincroni».
In un settore dove la tecnologia è un must, l’eccellenza e
l’affidabilità non sono cose che si improvvisano. Come
si riesce a mantenere costanti queste prerogative?
«Il Gruppo Ferretti pone da sempre al centro della
propria strategia la continua innovazione e ricerca e
il costante miglioramento dei propri prodotti. Il Gruppo
è sempre impegnato nell’arricchire ulteriormente il
proprio portafoglio prodotti e, infatti, a partire dal
gennaio 2011 ed entro la fine del 2013, prevede di
presentare ben 42 nuove imbarcazioni, attualmente
in fase di sviluppo».
Ferretti è da sempre un inesauribile catino di idee e
novità. Quali sono i progetti in cantiere?
«Sicuramente continueremo a lavorare con l’obiettivo
di soddisfare le aspettative dei nostri clienti, con-
dividendo con loro la passione per il mare e cercando
di rimanere uno dei punti di riferimento nel mercato
dei motor yacht a livello mondiale. Vogliamo, inoltre,
rafforzare ulteriormente la nostra presenza sui mercati
nautici emergenti, come Cina e Brasile, affiancandoli
ai nostri mercati storici, quali Europa e Usa».
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CRN Azteca 72m
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Ci sono musiche che durano il tempo di una stagione. Sono quei ritornelli talmente
orecchiabili, che al terzo ascolto sembrano già “vecchi”. Oppure quelle canzonette
senza pretesa, se non quella di risultare godibili agli orecchi dei radioascoltatori.
O ancora quelle rime, pur gradevoli nella melodia, che non resistono al passare
dei tempi e delle mode.
Ci sono musiche, al contrario, che non conoscono confini, né temporali
né spaziali. Sono quelle melodie senza tempo, che si aprono ad atmosfere
senza età, riuscendo a miscelare musica e testi, dando vita a ritmi straordinari
che travalicano i confini materiali, e trascinano mente e cuore, razionalità e
passione.
Paolo Conte, uomo carismatico, con i tratti di una genialità elegante e romantica,
è il più illustre rappresentante italiano di questo tipo di musica. Nato ad Asti il 6
gennaio 1937, laureato in legge e avvocato nella propria città, Paolo Conte coltiva
la passione per il jazz, non lasciandosi sfuggire esibizioni di musicisti americani
e partecipazioni a concorsi per esperti di jazz. Se ne impregna fino a costituire
vari gruppi: Barrelhouse Jazz Band, Taxi For Five, The Lazy River Band Society
ed il Paul Conte Quartet, col quale incide un extended play intitolato “The italian
Paolo Conte, illustre interPrete di melodie senza temPo
Quando la musiCa È immortale
way to swing”.
Negli anni Sessanta inizia a comporre canzoni, a volte con la collaborazione del fratello
Giorgio. Da quel momento, la preistoria apre una nuova era che vede Conte autore di
pezzi per interpreti già ben avviati: “La coppia più bella del mondo” e “Azzurro”, interpretate
da Adriano Celentano, “Insieme a te non ci sto più” cantata da Caterina Caselli, “Messico
e nuvole” per Enzo Jannacci, “Genova per noi” e “Onda su onda” portate al successo
da Bruno Lauzi, e molte altre. Nel 1974 pubblica il primo album, intitolato semplicemente
“Paolo Conte”. Un omaggio a se stesso e alla sua musica.
Inizia da lì una delle più straordinarie carriere musicali di tutti i tempi, con produzioni che
segnano indelebilmente il panorama della discografia italiana e non solo.
La sua fama lo ha portato con straordinario successo anche all’estero, specialmente
nella sua amata Francia, dove è conosciuto ancor più che nella sua terra natale.
Una musica, quella di Paolo Conte, che affascina e rapisce, senza stagioni e senza
confini di alcun genere. Perché lui per primo vive la sua arte così, senza rincorrere
scadenze, senza obbedire ai ritmi discografici correnti, senza avvicinarsi a quegli eventi
artif iciali che nutrono mode e tendenze.
È un uomo e un artista che vive il suo tempo e la sua libertà, e canta la vita avendo
capito che il cuore batte sempre illogicamente, insegue le immaginazioni, i sentimenti,
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le emozioni che scandiscono più di qualsiasi altra cosa il nostro passare dei giorni.
Il 12 ottobre 2010 è uscito il suo ultimo splendido album, “Non schiavo della moda e
libero nei suoi pensieri”, così come egli stesso lo aveva definito nella conferenza stampa
di presentazione. Un album stupendo, ricco delle sonorità tipiche del cantautore, lontano
dalle innovazioni “elettroniche” dell’album precedente, “Psiche”, molto classico e, ancora
una volta, senza tempo.
Lo abbiamo intervistato consci che non sarebbe stato facile estorcergli molto
di più di quanto questa intervista ci regala, ma consapevoli, allo stesso tempo,
che le poche parole (così come il suo carattere schivo e riservato ci ha concesso
di registrare) sarebbero bastate a dare un senso a questo redazionale, che non
vuole essere una recensione musicale, né un resoconto sterile della sua attività, ma
semplicemente un omaggio ad uno dei più grandi cantautori del panorama musicale
italiano.
I l suo è un successo senza età. Come si spiega questa straordinaria continuità, che l’ha
portata a riempire negli anni i teatri nazionali ed internazionali?
«La passione per la musica, sempre lei, vizio meraviglioso».
Come si fa a stregare una platea così difficile come quella internazionale?
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«C’è la barriera della lingua per cui mi resta il rammarico che all’estero non conoscano
i miei testi ma so che l’ istinto di un pubblico sensibile fa miracoli».
Come dicevamo, lei è spesso in tour all’estero. Quanto questa internazionalità l’ha
influenzata cambiandone i connotati?
«Il mio stile non è cambiato. Il repertorio che presento all’estero è identico a quello dei
concerti italiani. Non adotto strategie di nessun tipo».
Ha sempre avuto il favore dei critici. C’è mai stata, però, una critica che non ha condiviso
o che, addirittura, le ha fatto male?
«Forse qualche imprecisione ma non me ne ricordo più».
Quale è stato, al contrario, il complimento o l’attestato di stima più apprezzato fra quelli
che ha ricevuto nel corso della sua carriera?
«Mi viene in mente il telegramma che mi ha mandato Yves Montand in occasione della
mia prima settimana all’Olympia di Parigi».
La sua è sempre stata considerata una “musica d’elite”. Per lei è un complimento o, al
contrario, una discriminazione?
«Ho un grande pubblico formato dalla somma di pubblici d’élite. Tutto questo non ha
niente a che vedere con il successo di massa che risponde ad altri requisiti».
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A questo proposito, Le è mai venuta la tentazione di portare le sue canzoni in un festival
più popolare?
«Mai, meno male».
Molti amano la sua musica. Ma lei quale musica apprezza? Quali sono gli artisti che
ascolta con frequenza?
«Ascolto jazz antico (Anni ’20, anni ’30) e musica classica».
C´è una canzone che preferirebbe non aver scritto o qualcuna, di qualche suo collega,
che avrebbe preferito aver composto lei?
«Non ho categoricamente rinnegato nessuna mia registrazione. Ci sono milioni di canzoni
scritte da altri che vorrei aver scritto io. Scelgo a caso “Let’s face the music and dance”
di Irving Berlin».
Cosa vorrebbe dire a questa Italia? E cosa le augurerebbe per il futuro?
«Dobbiamo stare attenti alla politica estera».
A proposito di futuro, cosa ci dobbiamo aspettare da un artista senza tempo
come lei? Ha qualche progetto in cantiere o qualcosa in mente che le piacerebbe
realizzare?
«Sto scrivendo musica strumentale “colta”. Si vedrà».
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[ UN UOMO, UNO CHEF, UN PERSONAGGIO ]
Si definisce un timido, ma l’aspetto e la sua sfrontatezza dicono il contrario. Dichiara
di non amare il lusso, ma serve i suoi piatti su porcellane di Hermès. Adora la cucina
internazionale, ma utilizza soltanto prodotti tipici del territorio. Gianfranco Vissani è
tutto e il contrario di tutto. Istrionico, determinato, esuberante, appassionato. Ma
anche schivo, discreto, alla mano.
Lo intervistiamo tra i fornelli della sua cucina, interrotti dalle urla della sua “allegra
brigata” e da qualche altra distrazione di passaggio. Ne viene fuori l’immagine di
uomo diverso da quello che siamo soliti vedere in tv, un uomo che si è fatto da sé e
che vive con semplicità il successo e la sua straordinaria popolarità, conquistati con
un’invidiabile ed invidiata carriera da chef, imprenditore e, non da ultimo, showman.
L’avventura di Gianfranco Vissani comincia quando, subito dopo il diploma, lascia la
sua terra d’origine, l’Umbria, per lavorare nei più qualif icati alberghi e ristoranti italiani,
tra i quali l’Excelsior di Venezia, il Miramonti Majestic di Cortina d’Ampezzo, il Grand
Hotel di Firenze e Zi’ Teresa di Napoli. Durante questi soggiorni nelle diverse città
Il ristorante “Casa Vissani”
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d’Italia, la sua personalità spiccata e la sua curiosità lo portano ad approfondire la
conoscenza delle tradizioni gastronomiche locali. Si formano così, come egli stesso ci
confessa, “le due componenti di fondo della sua cucina: da una parte la conoscenza
e la pratica della cucina internazionale e della grande cucina classica, dall’altra la
freschezza, la varietà dei sapori e la fantasia delle diverse cucine territoriali”. Nel
1974 torna in Umbria, rileva l’attività del padre Mario e, grazie alla sua spiccata
vena artistico/culinaria, la fa crescere a tal punto che il ristorante oggi è elencato
nelle migliori guide gastronomiche italiane. Inizia poi un periodo di intensa attività in
cui, oltre a gestire il suo ristorante, viaggia in Europa, negli Stati Uniti e in Giappone
dove viene chiamato a tenere lezioni di cucina, dimostrazioni per la stampa, pranzi
di rappresentanza, gare gastronomiche. Significativa anche la sua attività divulgativa,
esercitata tramite la stampa, la radio e la televisione, che inizia nel 1997 in TV con
Rai Uno con il programma Uno Mattina e Uno Mattina Estate e prosegue con formule
diverse ma sempre legate alla sua attività, fino oggi.
GIANFRANCO VISSANIwww.casavissani.it
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Chi è nel privato Gianfranco Vissani?
«Gianfranco Vissani, a differenza di quanto può apparire, è una persona semplice.
Sono un uomo che viene dalla terra, e alla terra, ripeto sempre, voglio tornare».
Lei è sicuramente tra gli chef italiani più famosi. Quando e da dove nasce la sua
passione per la cucina?
«Non ricordo il momento esatto in cui è nata la mia passione per la cucina. Forse l’ho
sempre avuta. Frequento le cucine da oltre cinquant’anni, dentro le cucine sono nato,
cresciuto e maturato. La cucina, intesa come luogo di lavoro, mi ha insegnato tanto,
soprattutto ad essere esigente e meticoloso, non soltanto tra i fornelli, ma anche
nella vita quotidiana. Sento di essere un cuoco dentro, per indole, diletto e filosofia».
Come si concilia la vita privata con i tanti impegni di chef, di personaggio pubblico,
di figura carismatica dello spettacolo?
«Mi diletto a fare tutte le cose che mi piacciono, dai fornelli allo spettacolo. Tutto
questo mi gratifica molto, ma allo stesso tempo ruba tempo e spazio alla mia vita
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privata. È un po’ triste, forse, ma credo che tutti gli uomini che si dedicano a qualcosa
con estrema passione scelgano, seppur inconsciamente, di sacrificare il proprio
privato. Io, purtroppo o per fortuna, sono uno di quelli».
Come descriverebbe la sua cucina, quali aggettivi sceglierebbe e con quali
motivazioni?
«Brevemente potrei dire che la mia cucina si caratterizza per due componenti
fondamentali: da una parte la conoscenza e la pratica della cucina internazionale
e della grande cucina classica, dall’altra la freschezza, la varietà dei sapori e la
fantasia delle diverse cucine territoriali».
La sua cucina ha conquistato la critica gastronomica e, soprattutto, il gradimento di
un pubblico nazionale ed internazionale. Come vive tutti questi apprezzamenti?
«Sono un uomo di sessant’anni che ancora, quotidianamente, prepara i suoi menù e
si diletta dietro ai fornelli. Tutti questi riconoscimenti, che mi rendono molto orgoglioso
e soddisfatto, non mi hanno montato la testa, anzi. Mi portano ogni giorno a cercare
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qualcosa di nuovo, a superarmi, a scoprire qualche sapore o qualche abbinamento
diverso. In questa costante ricerca, che mi ha reso così famoso in Italia e all’estero, si
colloca, allo stesso tempo, il rispetto e il mantenimento di alcune tecniche di cottura
tradizionali, che non possono e non debbono mai essere soppiantate da nuovi
esperimenti tecnologici. Basta, quindi, con l’utilizzo indiscriminato di artif ici come le
basse temperature, che tendono a “ lessare” i piatti, e mano libera al ritorno della
“sensualità” in cucina».
Abbiamo parlato di tecniche. E i prodotti? Come avviene la scelta dei prodotti che
porta sulla sua tavola?
«Adoro il mercato, la possibilità di scegliere i prodotti direttamente dal banchetto del
produttore. Purtroppo è una pratica che sta scomparendo, a causa dei ritmi sempre
frenetici e della mania di ricercare cibi veloci e sbrigativi. Per non parlare dei prodotti
geneticamente modificati, che non somigliano, nemmeno per un po’, agli originali. Le
verdure, gli ortaggi, le carni hanno perso i sapori di una volta, e di conseguenza le
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ricette non sono più le stesse. Occorre stare molto attenti a tutto questo, e tentare
di recuperare ciò che man mano sta scomparendo. Bisogna tornare al mercato a
scegliere personalmente i cibi da portare sulla nostra tavola, e magari rivolgersi ad
un contadino, un allevatore, qualcuno di fiducia che possa fornirci materie prime di
qualità. Solo allora si potrà parlare di cucina di alta scuola, solo quando i prodotti
saranno essi stessi di qualità».
Cosa rappresenta il lusso per Gianfranco Vissani? cosa significa portare il lusso in
cucina?
«Non ho mai portato una cravatta in vita mia. Certo, indosso le scarpe rosse, sono
un mio vezzo, ma non sono “ lussuose”. Ritengo che il lusso non sia indossare
qualcosa di elegante o di sfarzoso, né tantomeno rincorrere spasmodicamente la
mondanità. Il lusso è una categoria dello spirito. Il lusso è un anthurium fresco, un
tovagliolo di lino e naturalmente l’attenzione al particolare. Poi, se si ha la possibilità
di allestire un piatto su una porcellana di Hermès, il lusso è servito…».
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Un piatto da consigliare ai nostri lettori?
«Il pollo al cocco, un piatto classico che sa di novità grazie al gusto di un frutto
esotico e al profumo della maggiorana…».
Ha dichiarato: “Sono un istrione nato, se non fossi cuoco sarei in palcoscenico”. Che
ruolo, nello specifico, vedrebbe per sé?
«Non ci crederà, e non se ne rende conto nessuno, ma sono una persona molto
timida. Forse è per questo che sono affascinato dal mondo dello spettacolo, perché
sul palcoscenico puoi mettere una maschera e nasconderti, far finta di essere
qualcun altro. Non conta il ruolo, contano, per me, queste opportunità».
Vissani e il futuro. Che cosa ci dobbiamo attendere da questa istrionica carriera?
«Nel futuro mi piacerebbe potermi dedicare ai giovani, soprattutto a quelli che hanno
passione per la cucina ma non hanno la possibilità concreta di metterla in pratica.
Non so esattamente quello che farò, né come, ma questo è il mio obiettivo per il
futuro».
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CHE IL BUON GUSTO SIA CON NOI!E N Z O M I C C I O
Sa trasformare brutte anatroccole in splendidi cigni. Oppure insignificanti festicciole in
eventi di grande eleganza. È il sogno di ogni donna, un “migliore amico” che sappia offrire
i consigli giusti, che riguardino la moda, il look, lo stile. Stiamo parlando di Enzo Miccio,
consulente d’ immagine e wedding planner per passione e professione.
Napoletano di origine ma milanese d’adozione, nel capoluogo meneghino ha conseguito
il diploma presso l’Istituto Europeo di Design. Ha iniziato il suo percorso professionale nella
moda, curando l’organizzazione di sfilate ed eventi. Cultore della lirica, ama organizzare
eventi con la teatralità che contraddistingue la messa in scena di un’opera. Oggi con
il suo staff mette in scena eventi e matrimoni speciali in tutta Italia, curandone ogni
aspetto. Maestro di stile ed eleganza, con la sua decennale esperienza organizza corsi
per aspiranti wedding planner. Dal 2005 conduce su Real Time “Wedding planners” e
“Ma come ti vesti?!” insieme a Carla Gozzi, con cui ha firmato anche l’omonimo libro
per Rizzoli. A breve, come anticipato ai lettori di My Lifestyle, uscirà il suo secondo libro,
curato unicamente da lui, con la medesima casa editrice.
Dott. Miccio, quale è stato il suo percorso, di studi, umano e professionale, che l’ha
condotta fin qui? Come si diventa un famoso organizzatore di eventi?
«La ricetta, a dir la verità, non ce l’ho. Mi piace sottolineare che sono diventato un
organizzatore di eventi solo per passione. Sin da ragazzino, ho pianificato e progettato
sempre tutto io, dai pranzi domenicali nel salone di mia madre, alla festa con i cugini.
Ho sempre avuto una spiccata dote per l’organizzazione e la gestione. Mi è toccato
soltanto metterla in pratica negli anni, senza alcun tipo di “ formazione” particolare. Certo,
gli interessi personali, gli studi successivi e la curiosità (che ho tenuto allenata con la
mia passione per i viaggi, il teatro, la musica, le letture…) mi hanno aiutato ad affinare
questa dote che possedevo in potenza, e a far sì che questa passione diventasse la
mia professione».
A lezione di eleganza con Enzo Miccio, wedding planner per passione e professione
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Iaco
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CREDITS: www.enzomiccio.it
Real Time: Digitale Terrestre Free Canale 31 -Sky canali 124 e 125 - Tivùsat Canale 31
Qual è l’aspetto più entusiasmante del suo lavoro e perché lo ha scelto?
«Amo vedere la soddisfazione dei miei clienti, la gioia nei volti di quegli sposi che mettono
completamente nelle mie mani il giorno più bello della loro vita, il momento in cui si complimentano
con me, in cui mi ringraziano perché ho esaudito i loro desideri…a quel punto non sento più
la stanchezza della giornata, sono felice e pronto per ricominciare il giorno dopo con un altro
matrimonio, con lo stesso entusiasmo».
Che cos’è, secondo lei, il “buon gusto”?
«Non è facile rispondere a questa domanda. Il gusto è personale, ma perché sia “buono” è
fondamentale calibrare tutto senza eccedere, essere all’altezza di ogni situazione, con garbo, con
raffinatezza, con savoir faire, con eleganza. Nel corso delle mie trasmissioni ripeto spesso “Che il
buon gusto sia con te!”: in realtà, più che un monito, è un consiglio, perché se si ha buon gusto,
non si rischia di cadere nell’eccesso e nella volgarità».
Wedding Planner: un lusso per pochi o un modo per ottimizzare tempi, costi e sforzi nell’organizzazione
di un matrimonio?
«La missione che ho intrapreso da tre-quattro anni (in realtà ho cominciato la mia carriera dodici
anni fa, ma negli ultimi anni il mio modo di interpretare questo lavoro ha subito dei cambiamenti
importanti) è stata proprio quella di provare a “modificare” la figura del wedding planner, pensandola
in modo tale che non sia un “ lusso” per pochi eletti, ma un professionista al servizio di tutti, e quindi
di ogni matrimonio, di qualsiasi fascia e di qualsiasi tipologia».
In che modo ha provato a “cambiare” questa figura?
«Ho iniziato ad organizzare dei corsi di formazione per persone che volevano cominciare questo
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percorso lavorativo, cercando di formarli con serietà e professionalità. Negli ultimi anni si è verificato
un vero e proprio boom di queste figure professionali, spesso improvvisate e inadeguate, che
hanno rischiato di mettere in cattiva luce l’ intera categoria, in un momento in cui in Italia stava
per mettere radici e consolidarsi. Credo che contribuire a “formalizzare” questa figura sia servito,
paradossalmente, a renderla accessibile ad un pubblico più ampio: il wedding planner sta diventando
così, un consulente, che offre la sua professionalità a tutti, così come il fotografo, lo chef, l’autista».
Andiamo nello specifico: come si organizza un matrimonio, da dove si comincia?
«Premesso che si abbia già a disposizione una data, si comincia dalla scelta della location e del
luogo in cui avverrà la celebrazione. Dopo questo primo step, fatto di indagini e sopralluoghi, si
passa all’aspetto più creativo, quello che permetterà di mettere in scena tutta la fantasia, per far sì
che il matrimonio sia veramente un giorno e una festa indimenticabili. Resta inteso che tutti questi
passaggi sono preceduti da una primissima fase di studio degli sposi: quando arrivano da me,
cerco di capire i loro caratteri, i loro gusti, le loro passioni, solo in questo modo posso riuscire ad
organizzare qualcosa che rispecchi fedelmente la loro essenza, senza stravolgere quindi le loro
personalità e i loro stili. Questa è una fase molto importante, è la fase della conoscenza reciproca,
all’ interno della quale c’è uno scambio, una corrispondenza di amorosi sensi, senza la quale
l’evento non potrebbe avere successo. Deve scattare tra noi una molla, un feeling, un’empatia,
grazie alle quali possiamo lavorare all’unisono per raggiungere l’obiettivo comune».
I l 2011 è stato l’anno del matrimonio reale tra William e Kate. Punti di forza e punti di debolezza.
«I punti di forza sono stati sotto l’occhio di tutti. Si è trattato di un matrimonio impeccabile, con
un’organizzazione ineccepibile. Bellissima la cattedrale, belli gli sposi, grandiosa la gestione dell’evento.
© R
aoul
Iaco
met
ti
l u x u r y
Consideriamo che vi erano 1900 invitati, molti dei quali teste coronate. Rimane ancora impressa
la scena, al termine della cerimonia, in cui tutte queste personalità attendevano con ordine il loro
turno per salire sui bus che li avrebbero accompagnati a Buckingham Palace. Non è stato facile
gestire tutto questo senza alcuna macchia, eppure ce l’hanno fatta benissimo. Per quanto riguarda
le sbavature, farei un appunto soltanto sulla figura della damigella della sposa: la scelta dell’abito
bianco per Filippa Middleton e le sue forme sinuose in bella vista hanno fatto storcere il naso a
molti, non soltanto perché “oscuravano” la vera protagonista del matrimonio reale, e cioè la sposa,
ma soprattutto perché è sembrano un tentativo, troppo forzato, di voler puntare i rif lettori su questa
ragazza, sicuramente di bella presenza, ma ancora nubile e in cerca di marito. Possibilmente reale».
Quale matrimonio, o evento di alta fascia, del passato avrebbe voluto organizzare? E quale le
piacerebbe organizzare in futuro?
«Non mi interessa di chi sia il matrimonio, o chi abbia organizzato quello di questo vip, piuttosto
che di un altro. La sola cosa che mi interessa è il rapporto che si viene a creare con gli sposi,
un rapporto esclusivo, di stima reciproca, di passioni. Organizzare un matrimonio significa entrare
nell’ intimo non solo degli sposi, ma delle loro intere famiglie, significa diventare uno di loro. Ed è per
questo che ho mantenuto bellissimi rapporti con molti di loro, che oggi sono miei carissimi amici
e con cui continuiamo a frequentarci. Ho recentemente festeggiato i miei quarant’anni, e alla mia
festa hanno partecipato moltissimi dei miei ex clienti. Sono quelli i matrimoni che ricordo con più
piacere e che voglio continuare ad organizzare. Quelli in cui il rapporto umano si sposa con quello
professionale».
Nuove tendenze da segnalare ai futuri sposi?
37
© R
aoul
Iaco
met
ti
Enzo Miccio conduce “Wedding Planner”, in onda su Real Time.
«Fortunatamente le tendenze nei matrimoni non sono così veloci come nella moda, o sulle
passerelle. Il matrimonio è legato a dei valori importanti, spesso a tradizioni secolari che non vanno
intaccate o sporcate. Le nuove tendenze, quindi, riguardano soprattutto il ricevimento, che segue la
celebrazione. Segnalerei, quindi, una tendenza che è in voga già da qualche anno, e che prevede
una festa di matrimonio spalmata sull’ intero weekend, un wedding weekend, come lo chiamo io,
che vede protagonisti amici e parenti, per un periodo più lungo del solito, e spesso in trasferta (in
una città diversa da quella di provenienza)».
Un’ultima domanda su di lei. “Wedding Planners” e “Ma come ti vesti?!”, i due programmi che
conduce su Real Time™, le hanno dato molta notorietà. Come vive questo successo?
«Con grande gioia da un lato, e con grande timidezza dall’altro: sono spesso molto imbarazzato
da tanto affetto, e non lo so gestire al meglio. Questo affetto, poi, mi arriva in modo trasversale da
uomini, donne, bambini e a volte resto senza parole, perché nella mia vita sono stato abituato a farli
i complimenti, piuttosto che a riceverli. La cosa che mi fa più piacere è che la gente, guardando
i miei programmi, ha capito che non sono un personaggio, ma sono una persona normale, un
professionista, che fa il suo lavoro e tenta, attraverso la scatola nera che è la televisione, di trasferire
un messaggio, che è un messaggio di passione per il proprio lavoro».
Prima di lasciarsi, vuole preannunciarci qualche suo progetto per il futuro?
«Ho in cantiere un bel po’ di progetti. Quello a cui tengo di più, in questo momento, è la pubblicazione
del mio secondo libro. Con la mia casa editrice, la Rizzoli, sto scrivendo un libro (questa volta tutto
mio) in cui racconto, in maniera molto personale, dodici matrimoni, con un bellissimo corredo
fotografico. Arriverà presto in tutte le librerie».
l i f e s t y l e
SOSPESI TRA TERRA E MAREI fari, la loro storia e la loro simbologia, nel centenario del Servizio Fari della Regia Marina.
Il loro aspetto è grandioso, irruente, propositivo. Mescolano oscurità e
bagliore, gravità esistenziale e lievità del vento e dell’aria. Simboleggiano
la meta, la lanterna, la guida, il punto fermo. I fari, più che edifici, sono
riferimenti sospesi tra terra e mare, luoghi privi di consistenza, ma ricchi
di simbologie, di significati poetici, di meditazione e di solitudine.
Sono architetture eroiche, poste in lunghi simbolici del paesaggio costiero.
My Lifestyle decide di dedicare loro questo spazio nel centenario della
nascita del Servizio Fari della Regia Marina.
La storia dice che un decreto del 17 luglio 1910 dispose il passaggio del
Servizio Fari e Segnalamenti Marittimi dal Ministero dei Lavori Pubblici al
Ministero della Marina, lasciando all’amministrazione dei Lavori Pubblici,
oggi Ministero delle Infrastrutture, soltanto la costruzione e le riparazioni
straordinarie dei fari. La data ufficiale del passaggio del Servizio Fari alla
Regia Marina venne però ritardata a causa di problemi burocratici e di
bilancio e, con il Regio Decreto n. 294, e fu fissata definitivamente per
il 1° Luglio 1911.
Oggi, a 100 anni da quella data, i fari continuano a svolgere, seppur con
delle differenze importanti, il loro ruolo di guardiani della terra e del mare.
41
Isola di Ischia - Punta Imperatore
42
Ne parliamo con Luigi Baffigi, sessantenne, da tren-
tacinque anni farista dell’Isola del Giglio.
Non si può, infatti, parlare di fari senza rammentare
la figura del suo guardiano, in fondo capitano di
una nave ancorata alle rocce, in compagnia della
solitudine e in sintonia con le tempeste, scrutatore nel
buio e della notte.
Che cosa ha rappresentato in passato e cosa
significa oggi per lei essere il guardiano del faro? Di
quali emozioni e sentimenti è investito?
«Sono sempre stato profondamente orgoglioso di
essere il “guardiano del faro”. Ho cominciato a lavorare
per la Marina Militare nella primavera del 1975. Sono,
quindi, più di trentacinque anni che svolgo questa
attività nel Servizio Fari Italiano. Un’attività tanto
affascinante quanto strana. Quando, tempo fa, non
esistevano i sistemi di automazione e la vigilanza
del faro era completamente gestita dal guardiano,
trascorrevo ore ed ore in solitudine. Camminavo a
piedi per chilometri prima di raggiungerlo, ed altrettanti
per fare ritorno a casa. Da solo. E in solitudine si
svolgeva l’ intera mia attività di sorveglianza, di
gestione dei macchinari, di cura del faro. Proprio
questa “solitudine” ha permesso che si venisse a
creare un rapporto di complicità col faro: eravamo
io e lui soltanto, e dopo di noi solo il mare. Ricordo
le nottate di tempesta, le ore che non trascorrevano
mai, i sentimenti, di paura e di sconforto, che ogni
tanto mi prendevano e mi scuotevano. Poi, lanciavo
questa luce nel vuoto, nell’oscurità della notte, e mi
sentivo forte, d’aiuto per la navigazione, che a quei
tempi era gestita completamente dai fari, e non dai
gps come ora. Nonostante le tante difficoltà, l’ idea
che fossi l’unico a gestire questa situazione, mi
l i f e s t y l e
rendeva fiero del mio lavoro. Oggi, questo mestiere si
è molto modificato. Ma rimane vivo e fermo, dentro
di me, il sentimento di fierezza e di compiacimento
per questo ruolo così importante ed affascinante che,
tanti anni fa, mi fu affidato».
I l faro, in molta letteratura e nel senso comune,
simboleggia la guida, il riferimento, il punto fermo
che sovrasta la tempesta e non vacilla mai. Si dice
anche che ogni faro abbia un’anima. Quali sono i suoi
pensieri quando lo guarda dalla sua postazione?
«Il faro è, per me, la mia casa, e ne sono innamorato.
A differenza degli altri, che, nonostante gli riconoscano
un’aurea di fascino e di misticismo, lo vedono e
lo percepiscono come un qualcosa di freddo e di
distante, io, che sono guardiano di questo faro da più
di trentacinque anni, percepisco, quando lo guardo,
un’emozione particolare, inspiegabile, quella di chi,
appunto, custodisce, cura, protegge. Lui, con la sua
maestosità, mi sovrasta, ma io, nel mio piccolo, sento
di averlo “curato” come un figlio».
In un libro del 2002, “Il guardiano del Faro” è una
persona che ha visto, dall’alto della sua postazione,
amori di ieri e amicizie e ardori di oggi, paure e
dubbi di anime alla deriva nell’infinito oceano della
vita. Lei che aneddoti può raccontarci in relazione
al Faro?
«Il faro, in tutti questi anni, ha sorvegliato dall’alto
tutta l’ isola. Ha assistito a tantissimi episodi di vita,
alcuni bellissimi, altri tragici. Ricordo ancora, circa
vent’anni fa, ero con un collega, Vittorio Alimonti, sul
piazzale del faro. Fu lui, per primo, a sentire un grido
d’aiuto. Dapprima lo convinsi che si trattava del verso
di un gabbiano. Poi, subito dopo, lo udì anche io,
una seconda volta. Ci avvicinammo di corsa verso
25
Otranto - Punta Palascia
la scogliera, e contemporaneamente avvisammo le
autorità competenti, i Vigili del Fuoco e la Capitaneria
di Porto. Per due lunghi giorni cercammo, per poi
trovarlo, il corpo senza vita di un uomo che contro lo
scoglio, contro quel faro che doveva rappresentare il
punto fermo, aveva perso la vita».
Ci potrebbe raccontare come si svolge una giornata
tipica del guardiano del faro?
«Come le avevo preannunciato, il lavoro di “guardiano
del faro” si è completamente trasformato negli ultimi
anni. Oggi, la mattina, mi sposto verso uno dei segna-
lamenti della mia reggenza, e da lì arrivo al faro, dove
svolgo i miei controlli e le mie manutenzioni. Oggi non
sono esattamente un “guardiano”, seppur io mi senta
ancora tale. Ma anni fa lo ero veramente, e svolgevo
le attività che quel mestiere mi richiedeva».
Come funziona esattamente un faro? E cosa è
cambiato con l’avvento dell’automazione?
«Prima dell’avvento dell’automazione era tutto ma-
nuale. Avevamo una stanza piena di batterie, che
“caricavamo”, sia con un gruppo elettrogeno, che
con il vento. Eravamo abbastanza avanti coi tempi,
dacché possedevamo un generatore a vento con
un’elica di cinque metri. Era, ovviamente, solo un
prototipo, molto sperimentale, ma funzionava bene.
Alcuni giorni, quando c’era tanto vento, il gruppo
elettrogeno rimaneva spento. Una buona parte della
attività era a guardia del gruppo elettrogeno e del
generatore. La notte bisognava essere presenti,
nell’eventualità scattasse il segnale di allarme. Oggi
l’allarme scatta, invece, al collega di Porto Ercole,
che gestisce tutta la centrale operativa. Solo se c’è
bisogno, lui chiama me e poi io intervengo. Oggi non
esiste più il segnalamento, c’è un computer che lo fa
44
Capo Granitola
46
al posto nostro».
Consiglierebbe ad un giovane di diventare “guardiano
del faro”? Se si, con quali motivazioni?
«Fare oggi il guardiano del faro è di certo molto diverso
rispetto a tanti anni fa. Oggi lo consiglierei sicuramente,
perché sono venute meno tante condizioni di difficoltà, si
pensi alla lontananza da casa e alla solitudine estrema.
Oggi, colui che prenderà il mio posto, non avrà di questi
problemi: non dovrà più trascorrere le sue giornate sulla
punta di un faro posto in un luogo isolato e senza
contatti con l’esterno, ma lavorerà in paese, con altri
colleghi, in una centrale operativa. Lo avrei consigliato,
al contrario, anni fa, solo a chi avesse avuto un forte
senso di autonomia e una propensione all’ isolamento
e alla solitudine».
Come lei anticipava, in futuro, la figura del custode
del faro potrebbe scomparire. Cosa pensa di questa
eventualità?
«È un’eventualità molto prossima, anzi, in linea di
massima, come le dicevo, si è già verificata. Mi
dispiace molto, tuttavia, che vada a scomparire un
mestiere così ricco di fascino e di mistero. Ma provo
la stessa sensazione al pensiero che stiano sparendo,
in Italia, moltissimi altri “antichi” mestieri, dall’artigiano al
muratore, dal calzolaio al contadino, che muoiono per
lasciar posto a tante altre attività (mi riferisco a quelle
più tecniche) che spesso, pur risolvendo molti problemi,
rimangono prive di carisma e di fascino».
I l 2011 è l’anno in cui si celebrano i 100 anni di storia
del Servizio Fari alla Marina Militare Italiana. Cosa
rappresenta per lei questo anniversario?
«Non sapevo dell’anniversario, non mi aspettavo né
la celebrazione, né i festeggiamenti che sono stati
realizzati. Poi un giorno, ad inizio d’anno, è arrivata
la comunicazione che il 2011 sarebbe stato l’anno
dell’anniversario del centenario. Personalmente ho
sentito molto l’evento, avendolo vissuto in prima per-
sona. Mi sento parte integrante di questa “famiglia” e il
fatto che, nel corso dei festeggiamenti, la Marina abbia
voluto riconoscerci dei premi per la nostra attività, mi
ha reso molto felice. Nel corso della cerimonia, che
è avvenuta nel mese di giugno, ho avuto modo di
incontrare altri miei colleghi che hanno prestato, negli
anni, il loro servizio presso altri fari italiani. È stato un
bel momento, in cui abbiamo ricordato i tempi passati
e in cui abbiamo celebrato, tutti insieme, la magia del
Faro italiano».
Luigi Baffigi ed il faro dell’Isola del Giglio
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OFFSHORE: MARE, MOTORI, SPETTACOLO & CORAGGIO
Parlare di Offshore, non è semplicemente discutere di sport. Offshore
è molto di più: è passione, è brivido, è sfida, è spettacolarità purissima.
A più di vent’anni di distanza dalla tragica morte di Stefano Casiraghi,
nel 1990, questo sport, nella memoria dei più, è ancora saldamente
legato al suo nome.
Ma in realtà grossi passi avanti sono stati fatti per migliorare ed
ottimizzare la sicurezza durante le gare, mantenendo intatti la spet-
tacolarità ed il divertimento dei piloti e degli spettatori.
Vincenzo Iaconianni, 50 anni, è il Presidente della FIM (Federazione
Italiana Motonautica). Per l’avvocato comasco è il terzo quadriennio
alla guida di questa Federazione, che in questi anni ha raggiunto
grandi risultati sportivi ed ha ottenuto anche una crescita dell’intero
movimento sportivo che oggi conta oltre 7.000 tesserati, il doppio
rispetto a dieci anni fa.
È anche Vice-Presidente della Union Internationale Motonautique, la
Federazione Internazionale di Motonautica: questo incarico all’interno
dell’UIM ha fatto seguito ad anni di impegno concentrato soprattutto
nel settore della sicurezza dei piloti durante le gare di motonautica.
Intervista a Vincenzo Iaconianni, Presidente della FIM, Federazione Italiana Motonautica
Avv. VInCEnzO IACOnIAnnIPresidente FIM
Federazione Italiana Motonautica
s p o r t
CLASSE 1 - SALVAMEnTO - CLASSE 3000
Ha partecipato da pilota a gare di Campionato Mondiale,
Europeo e Italiano nelle categorie F850, F3000, F2 e F1.
Per la sua attività di Dirigente Sportivo ha ricevuto il Diplo-
ma d’Onore CIO nell’anno 2002 e la Stella d’oro al Merito
Sportivo del CONI.
A lui My Lifestyle ha rivolto qualche domanda sull’uomo, sulla
disciplina sportiva, sulle prospettive future dell’Offshore, in Italia
e nel mondo.
Avvocato Iaconianni, la conosciamo come Presidente della
FIM, Federazione Italiana Motonautica. Che tipo di percorso,
professionale ed umano, l’ha condotta a questa carica così
importante?
«Facendo il Pilota di Motonautica per hobby e l’avvocato
per professione mi venne chiesto di occuparmi di alcuni dei
problemi dello Sport Motonautico attraverso l’“Associazione
Nazionale Piloti”, della quale sono stato eletto Presidente
nel 1988. Da lì alla Presidenza della F.I.M. il passo è stato
abbastanza naturale, soprattutto dopo essere stato per
diversi anni Vice-Presidente di Massimo Moratti, che ritengo
essere stato il Presidente F.I.M. più efficace ed innovativo».
Quando è nata la sua passione per questo mondo?
«Sono sempre stato appassionato e praticante di molti sport, in
particolare di quelli motoristici. Dopo il motocross ed il kart ho
avuto l’opportunità di provare a Como un catamarano Molinari
di Formula 3; era il 1983 e da quel giorno non ho più smesso
sino al 2001, correndo in tutte le specialità di Circuito fino alla
Formula 1».
Il mare, i motori, il coraggio e la grande spettacolarità. Che altro
aggiungerebbe per offrire uno scenario completo del mondo
dell’Offshore?
«Gli obiettivi del Consiglio Federale che mi onoro di presiedere
sono, sia nell’Offshore sia nelle altre specialità, anche e
soprattutto la sicurezza e l’economia di gestione. Un tempo
la Motonautica era ritenuta lo sport dei ricchi incapaci
nell’Offshore e dei poveri aspiranti suicidi nel Circuito; in ogni
caso ora le cose sono molto cambiate e l’Offshore è diventato
una specialità entusiasmante, competitiva e nella quale la
sicurezza ed il contenimento dei costi stanno alla base del suo
crescente successo».
Come si diventa pilota e campione di Offshore? Che tipo di
caratteristiche, innanzitutto, occorre possedere?
«Per correre in Offshore, in particolare nel nostro “Offshore
3000”, occorrono capacità di guida, coraggio e competenza
51
tecnica, le quali, tuttavia, si apprendono velocemente
in un ambiente sano e prodigo di aiuti ed opportunità.
Basta pensare che spesso i migliori Team dispongono di
più di una imbarcazione che i neofiti possono noleggiare a
prezzi accessibili».
Qual è la situazione della motonautica ed in particolare
della categoria Offshore in Italia?
«Il mondo sta vivendo un momento economico molto difficile;
è normale che gli effetti di questa congiuntura negativa
ricadano anche su uno sport come la Motonautica che
richiede per chi lo pratica una certa struttura organizzativa
e delle risorse finanziarie. Tuttavia in Italia si assiste,
rispetto ad altri Paesi “motonauticamente sviluppati”, ad
una reale inversione di tendenza, cioè maggiori richieste
di organizzazione di gare e numeri in aumento fra i Piloti,
soprattutto in Offshore. Credo che questo dipenda anche
dai forti investimenti che la F.I.M. ha effettuato in campo
televisivo e mediatico in genere».
Quali sono le prospettive per il futuro dell’Offshore in Italia?
«Vorrei dire, con una battuta, “prospettive preoccupanti”,
nel senso che, a forza di nuovi equipaggi che anno dopo
anno si presentano al via del Campionato Italiano Offshore,
i campi di Gara normalmente utilizzati cominciano a diventare
un po’ stretti. Ovviamente stiamo predisponendo tutti i mezzi
necessari per adeguare le nostre strutture a questa
“crescita demografica” che ci ha portato ad essere il più
numeroso Campionato Nazionale del Mondo, con più di
venti equipaggi».
La prematura scomparsa di Stefano Casiraghi, avvenuta
nel 1990 a Montecarlo, è un evento indelebile nella memoria
di tutti gli appassionati. Cosa ha rappresentato per il mondo
dell’Offshore quella tragedia?
«È stato un colpo molto duro, umano e sportivo, sia per
la grande popolarità di cui Casiraghi godeva sia perché
la dinamica dell’incidente ha sollevato molti dubbi circa
l’adeguatezza delle misure di sicurezza esistenti all’epoca.
L’unico effetto positivo di questo tragico evento è stato
quello della reale presa di coscienza da parte di tutte le
componenti dell’Offshore della prioritaria necessità di non
pensare più soltanto alle livree cromatiche delle barche o
alle dimensioni dei motorhomes ma, anche e soprattutto, al
controllo delle potenze e delle prestazioni ed alle misure di
sicurezza attiva e passiva».
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È stato recentemente premiato per “l’alto contributo portato alla
Motonautica e, in particolare, alla sicurezza degli Atleti nello
Sport Motonautico”. Cosa manca ancora, se manca, a questo
sport perché diventi ancora più “sicuro”?
«Sono molto orgoglioso di questa onorificenza (intitolata
proprio a Stefano Casiraghi) che ritengo, senza falsa mode-
stia, costituisca il riconoscimento dell’impegno mio e della
F.I.M. a favore della sicurezza agonistica. Credo che negli
ultimi venti anni siano state eliminate molte delle cause di
gravi incidenti e che oggi la Motonautica sia uno degli sport
motoristici più sicuri in assoluto; tuttavia non bisogna mai
“accontentarsi” ma individuare nuovi accorgimenti tecnici tesi
ad eliminare ogni prevedibile pericolo».
Il mondo dell’Offshore ha spesso appassionato e coinvolto
personaggi di spicco dello spettacolo, dell’economia, della
politica italiani, da Adriano Panatta a Valerio Merola, a tutta
la famiglia Agnelli. Da qui, l’idea che l’Offshore sia uno sport
di elite. Cosa pensa di questo? È realmente così o si tratta
soltanto di uno stereotipo da cancellare?
«L’Offshore è sempre stato circondato da una certa aura
di “fashion sport” che ha anche contribuito ad aumentarne
la notorietà presso il grande pubblico e non solo
presso gli appassionati di nautica. Ma, a parte i luoghi
comuni che spesso vengono associati agli sport, l’Offshore
rappresenta sì un elite di sportivi ma solo nel senso qualitativo
del termine, non certo in quello di circolo esclusivo nel quale
si entra solo in virtù del portafoglio. Certo, chi possiede una
veloce imbarcazione da diporto può trovare nell’Offshore
il naturale sbocco della sua passione per la velocità e per
il mare; ma se qualcuno pensa che gareggiare in Offshore
possa ridursi ad una passerella modaiola (come tanti anni
fa) è meglio che continui a limitarsi ad andare al largo
a fare il bagno».
Cosa direbbe ad un giovane che volesse avvicinarsi a questo
sport?
«Di venire a vedere una gara del nostro bellissimo Campionato
Offshore 3000 e qui di parlare coi Piloti, con gli Ufficiali di Gara e
con i competenti e cortesi Dirigenti e dipendenti F.I.M., sempre pre-
senti alle gare; se sino a quel giorno avrà avuto una mezza idea
di gareggiare, quella sarà l’occasione per non avere più dubbi.
Per conto mio credo che l’unica (scherzosa) controindicazione
che si potrebbe scrivere su una barca di Offshore potrebbe
essere “attenzione, provoca dipendenza!”».
VInCEnzO IACOnIAnnI VInCE IL G.P. D’ITALIA DI F1 - MILAnO 1995
i n n o v a z i o n e
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Efficienza, risparmio e centralità dell’utente: sono questi i punti cardine sui
quali si sviluppa un prodotto innovativo, che rivoluziona l’organizzazione e la
gestione delle informazioni cliniche del paziente.
BANCOMED, questo il nome del prodotto realizzato da I&T (azienda
informatica con sede a Lecce e tra le più importanti del Mezzogiorno
d’Italia), è un fascicolo elettronico che permette la creazione e la gestione
della storia sanitaria e clinica del cittadino, alimentata attraverso la
“digitalizzazione” e conservazione della propria documentazione medica.
Bancomed rappresenta un passo in avanti verso una Sanità in cui l’utente
diventa il perno, il focus, il protagonista del sistema di raccolta e gestione
delle informazioni cliniche. La sua centralità si concretizza nel momento in
cui è l’utente, in prima persona, a gestire le informazioni che lo riguardano
e a curarne la loro semplice organizzazione.
Attraverso una piccola chiavetta, fornita di un software di gestione leggibile
su qualsiasi piattaforma, l’utente “carica” le proprie cartelle cliniche, gli esami
ecografici, qualsiasi documento o referto che attesti lo stato di salute o di
malattia. In questo modo, provvedendo ad aggiornare la propria banca dati
Bancomed, il possessore consentirà al medico (o al personale sanitario) di
avere sotto controllo il suo intero excursus clinico, anche in una situazione
di estrema emergenza, e pur non avendolo mai curato prima di allora.
Si pensi alle semplici allergie e ai tanti casi di “presunta malasanità” che
si verif icano nel momento in cui un paziente viene ricoverato all’improvviso
in reparto. In questo caso, Bancomed rappresenta una fonte inestimabile
per il paziente e per il medico: il primo non avrà problemi legati alla
somministrazione di un farmaco o di altra sostanza alla quale risulta
intollerante (ma senza la sua “banca dati” sarebbe stato impossibile
constatarlo con rapidità!) e il medico avrà, invece, facilitato il suo compito
nell’individuazione della cura più adatta per il paziente.
Accanto a tutti i benefici del cittadino, in termini di gestione autonoma e
centralizzata delle proprie informazioni cliniche, Bancomed offre al servizio
sanitario uno strumento efficace e, allo stesso tempo, molto economico
rispetto ai tradizionali metodi di gestione delle informazioni degli utenti.
In questa ottica, il connubio tra efficienza e risparmio diventa una
operazione strategica di primo piano, per il cittadino e per gli enti
pubblici.
AL VIA LA CARTELLA MEDICA DIGITALEBancomed, un pREzIoso sTRuMEnTo ChE METTE IL pAzIEnTE In pRIMo pIAno.
m a n a g e r
Abbiamo saputo di poter incontrare Franco Fenoglio, direttore della Divisione Veicoli Commerciali
della Piaggio, con solo qualche giorno di anticipo.
Avremmo potuto puntare tutto sulle strategie dell’azienda in cui lavora, sui nuovi marchi
aziendali o sulle sfide per il prossimo futuro. Da scrivere ce ne sarebbe stato veramente tanto.
Ma, dopo un breve scambio di opinioni in redazione, abbiamo scelto di intervistare l’uomo,
per carpire i segreti che lo hanno portato al successo e per tentare di scoprire cosa c’è
dietro una personalità così importante all’interno di una delle aziende leader nella produzione
e commercializzazione di veicoli commerciali e non solo, in Italia e nel mondo. Pensavamo che
non sarebbe stato facile. Per il suo ruolo innanzitutto, e per la ritrosia con la quale in genere
professionisti di tale spessore si approcciano a questo tipo di incontri.
La location, quella per l’appuntamento, all’interno di una delle sale della grande concessionaria
Piaggio MIRTO di viale della Repubblica a Lecce, intimoriva anche essa, con quel tavolo al
centro, così grande, che segna le distanze tra i soggetti e le amplif ica.
Nonostante le premesse, e qualche pregiudizio di troppo, pur nella serietà e nel rigore che lo
caratterizzano e per le quali è conosciuto nell’ambito lavorativo, la chiacchierata con Franco
Fenoglio si è rivelata invece da subito piacevole e stimolante. Abbiamo incontrato un uomo
disponibile e cordiale, paternamente rigoroso ma anche simpatico, molto lontano dai soliti
cliché che raccontano di personaggi irraggiungibili, austeri, qualche volta addirittura scostanti.
Approfittando di questa sua personale predisposizione, lo abbiamo intervistato in una veste
molto informale, senza il batti e ribatti tipico di un’intervista tradizionale, ma nella semplicità di
una chiacchierata confidenziale.
VITA DI UN MANAGER DI SUCCESSOINTERVISTA ESCLUSIVA AL DOTT. FRANCO FENOGLIO, DIRETTORE DELLA DIVISIONE VEICOLI COMMERCIALI PIAGGIO, TRA CARRIERA E FAMIGLIA
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To p S e l e c T i o n
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Nato nel 1953 a Pinerolo, provincia di Torino, laureato
in Scienze Politiche, laurea honoris causa in Scienze
Industriali, Franco Fenoglio è nel Gruppo Piaggio dal
Gennaio 2008. La sua esperienza lavorativa è iniziata
nel 1970 presso la RIV-SKF, dove arriva a ricoprire
nel 1979 la posizione di Branch Manager. Dopo una
esperienza triennale presso Alessio Tubi in qualità prima
di Sales Manager Italia e poi di Purchasing Manager,
dal 1987 al 1991 è Marketing & Sales Director and
R&D Director presso TRW SIPEA. Nel 1991 entra in
Iveco dove ricopre ruoli di crescente responsabilità;
inizialmente come General Manager Italian Market,
fino al 1996 per diventare poi Sales & Marketing Vice
Presidente IVECO e International Operations. Da ottobre
2005 passa in New Holland Construction Equipment
SpA – CNH Group in qualità di President e CEO.
Da Maggio 2008 invece, passa al Gruppo Piaggio
come Vice Presidente e Direttore della Divisione Veicoli
Commerciali EMEA e Sud America.
Dott. Fenoglio, come si concilia questa attività, così
frenetica e di assoluta responsabilità, con la vita privata?
«Il mio lavoro è indubbiamente un lavoro di grandi
responsabilità, ma allo stesso tempo è ricco di momenti
di vita quotidiana: incontro persone di diverse culture in
giro per il mondo, sempre molto interessanti e spesso
anche simpatiche, stringo rapporti, conosco luoghi
nuovi. Tutto questo, come è ovvio, mi costringe a
trascorrere lunghi periodi lontano da casa, ma per la
verità, anche quando mi trovo nella mia città, il lavoro
mi assorbe tanto tempo e tante energie. Nonostante
tutto, riesco a vivere tranquillamente la mia dimensione
domestica, cercando di curare più la qualità che la
quantità della relazione».
Com’è la sua vita tra le mura domestiche? Ci racconta
qualcosa della sua famiglia?
«Con tutte le premesse in riferimento agli impegni
lavorativi e ad una vita così fortemente condizionata dal
lavoro, le posso assicurare che non è facile riuscire a
mantenere una solida relazione matrimoniale ma sono
orgoglioso di poter dire che la mia resiste con successo
da tanti anni, questo grazie ovviamente anche a mia
moglie che condivide le mie scelte e comprende i miei
ritmi. Ho poi un figlio di 23 anni che ha studiato negli
Stati Uniti, è universitario laureando in Economia English
Version e che sta contemporaneamente seguendo un
sogno, quello di diventare un giocatore professionista
di golf e arrivare magari a giocare sul Tour Europeo. È
un percorso molto lungo e duro in quanto a impegni e
sacrifici, ma lui ci crede ed io lo sostengo senza remore.
m a n a g e r
61
Credo profondamente che i ragazzi debbano essere
appoggiati incondizionatamente, soprattutto quando
si impegnano seriamente per cercare di raggiungere
un obbiettivo e realizzare i loro sogni. Purtroppo non
posso seguirlo fisicamente in gara (ora ad esempio,
ne sta disputando una in Francia), ma il mio pensiero
è sempre a lui. È un ragazzo sereno, equilibrato, ha
una ragazza da qualche tempo che si muove con la
naturalezza di una figlia e alla quale, avendo noi solo
Luca, siamo già molto affezionati».
Ha degli hobby? Se si, quali sono?
«Beh, si, ho delle passioni e, nonostante il poco tempo
a disposizione, cerco di assecondarle. Ho sempre
seguito lo sport, sin da giovane, lo amo per filosofia,
perché credo che la cultura sportiva possa insegnare
molto sul rapporto con gli altri e sul rispetto nei confronti
dell’avversario. Mi piace molto la musica classica, in
particolare la lirica. Lo trovo, quello dell’opera, un mondo
molto affascinante. Poi, mi piace leggere. Riviste di
settore, quotidiani, ma anche libri e romanzi. Un settore
che trovo particolarmente attraente è quello della
psicologia. Ho letto di recente un libro di Francesco
Alberoni, “Abbiate Coraggio”, che mi ha ispirato in modo
particolare e allora ho fatto una cosa per me insolita:
nel corso della lettura ho sottolineato alcune frasi che
trovavo interessanti e ho scritto accanto alcune mie
considerazioni e pensieri. Poi l’ho passato a mio figlio,
chiedendogli di leggerlo e di concentrarsi sui punti che
avevo evidenziato, questo per poi creare l’occasione di
discuterne insieme. Credo che possa rappresentare un
bel momento, di confronto, di crescita e di conoscenza
reciproca».
Quali sono le caratteristiche per essere un bravo
dirigente? E quali per un buon “capo”?
«Come giustamente lei ha sottolineato nella domanda,
sul lavoro esiste un piano strettamente professionale, ed
un altro umano. Con i miei collaboratori so di non dover
essere soltanto il loro capo, ma devo poter stabilire un
rapporto più personale, quasi intimo, di fiducia e di stima
reciproche. Allo stesso modo pretendo rispetto come
dirigente, nel senso che sul lavoro sono uno rigoroso,
cerco io stesso di dare il massimo per poterlo chiedere
anche a loro e faccio tutto per ottenerlo. Apprezzo molto
le persone che lavorano con impegno e professionalità,
e nel corso degli anni ho fatto in modo che molte di
queste, proprio in virtù della loro competenza e della
loro dedizione, avessero la possibilità di fare carriera,
arrivando a ricoprire ruoli importanti nelle varie società
in cui lavoravo. È questa una filosofia che caratterizza
comunque tutta l’azienda. Devo anche io moltissimo al
nostro presidente Roberto Colaninno e agli altri miei “capi”
nel corso della mia vita professionale: ho dato molto,
ma senza la loro guida sarebbe stato tutto più difficile».
Quali sono i progetti per il futuro?
«La Piaggio continuerà la politica che ha intrapreso negli
ultimi anni, nel rispetto degli standard qualitativi che
l’hanno sempre caratterizzata. Continuerà a puntare ad
un forte sviluppo nell’area asiatica, e non solo, attraverso
il rafforzamento della presenza industriale diretta e
l’ampliamento dell’offerta (anche quella dei veicoli com-
merciali). Sul mercato domestico europeo, le strategie del
Gruppo punteranno a consolidare l’attuale leadership,
sviluppando e innovando la gamma prodotti. Per i prossimi
anni è previsto poi un ulteriore sviluppo dell’attività di
ricerca e sviluppo dedicate, al fine di perseguire una
strategia industriale vocata alla competitività. Grazie alla
capacità di innovazione tecnologica sviluppata al proprio
interno, il Gruppo punterà alla leadership nell’offerta di
nuove motorizzazioni caratterizzate da basso o nullo
impatto ambientale e a ridotti consumi di carburante: il
Gruppo punterà sullo sviluppo e sulla crescente offerta
di veicoli ibridi, elettrici e bi-fuel, nei settori delle due ruote
e del trasporto commerciale».
E il futuro di Franco Fenoglio, invece, cosa prevede?
«Credo di avere ancora tanto da imparare ma anche
da dare. Ho uno spirito intraprendente, che non mi ha
abbandonato mai nel corso della vita. E quindi, ancora
oggi, pur con tanti traguardi raggiunti, sono qui pronto a
partecipare a nuove sfide».
To p S e l e c T i o n
62
Si è aperta negli ultimi mesi un’ampia riflessione nel mondo economico, politico e sociale sulla dimensione
del nostro tessuto imprenditoriale e sulla sua capacità di tenere il passo in uno scenario quale quello
attuale particolarmente difficile e complesso.
Prima di svolgere qualche considerazione su tale argomento è utile richiamare la definizione accolta a
livello europeo per le piccole e medie imprese (di seguito PMI).
Piccola impresa è quella il cui organico (numero dipendenti) sia inferiore a 50 persone e il cui fatturato
non superi 10 milioni di euro; media impresa è, invece, quella con meno di 250 dipendenti e fatturato
non superiore a 50 milioni di euro.
Restano fuori dalla categoria delle PMI altre due classi dimensionali: le grandi (queste ultime sono quelle
con “numeri” maggiori delle medie) e le micro che, per quanto si dirà in seguito, assumono specialmente
in Italia grande importanza.
piccola e media impresa
il dr. riccardo caGGia, Direttore Centrale Crediti e Servizi alle Imprese di Banca Popolare Pugliese
e c o n o m i a
Se consideriamo che complessivamente il totale delle
imprese presenti nei registri camerali italiani alla fine di
marzo 2011 risultava pari a circa 6 milioni non può non
destare attenzione la circostanza come il 94,9% sia
costituito da microimprese; aziende, cioè, con meno
di 10 dipendenti e fatturato annuo inferiore a 2 milioni
di euro.
Se a questo aggiungiamo che le stesse occupano il
47,7% del totale degli occupati e sviluppano il 28,9%
del fatturato “Italia” si comprende bene come stiamo
parlando di un fenomeno rilevantissimo per il nostro
tessuto economico.
Perché allora questo dibattito sulla dimensione
aziendale e sul c.d. “nanismo” delle nostre imprese e,
soprattutto, perché oggi questo tema è diventato di
scottante attualità?
Il Governatore della Banca d’Italia Draghi nelle sue
ultime Considerazioni Finali (prima di lasciare l’incarico
per passare alla Presidenza della BCE) presentate a
Roma il 31 maggio scorso ha evidenziato come tra
i diversi motivi che frenano la crescita dell’economia
italiana vi sia anche la frammentazione della struttura
produttiva spesso non incoraggiata ed anzi ostacolata
dalle politiche pubbliche nella sua evoluzione verso
dimensioni più coerenti con il contesto internazionale.
E la Presidente di Confindustria, Emma Marcegaglia,
parlando delle “imprese che vogliamo” ha senza mezzi
termini dichiarato come ci sia bisogno per il nostro
Paese di imprese più grandi, più presenti sui mercati
internazionali, meglio assistite e meno sottocapitalizzate
per concludere che “piccolo e locale sono due condizioni
da superare”!
Per comprendere meglio il contesto all’interno del quale
queste due autorevoli voci del sistema economico
italiano si esprimono, occorre considerare gli scenari
nuovi che la globalizzazione da un lato e la recente
(2008) crisi dall’altro hanno posto all’attenzione di tutti.
L’abbattimento (anche fisico) dei muri che dividevano
l’Europa occidentale dal resto dell’Europa e dall’Asia,
l’apertura alla Cina dell’Organizzazione Mondiale del
Commercio (WTO), la rivoluzione “internet” sono ele-
menti (solo per citarne alcuni) che hanno modificato
radicalmente gli equilibri economico-politici rendendo, di
fatto, il nostro pianeta un unico (immenso) mercato nel
quale, per fare un esempio, il produttore di calzature
pugliese è chiamato a concorrere con l’omologo pro-
duttore di una delle tante regioni cinesi.
Gli effetti negativi per il nostro Paese di questo nuovo
scenario estremamente complesso e nel quale, ancora,
le nostre aziende (con qualche apprezzabilissima ec-
cezione) non hanno messo a punto le proprie strategie,
sono in parte riscontrabili nella constatazione (ormai
pacificamente riconosciuta) che negli ultimi dieci anni il
sistema Italia non cresce; come a dire: non abbiamo
trovato il modo di difendere adeguatamente ed effi-
cacemente le nostre quote di marcato e misurarci con
i “nuovi“ concorrenti.
In tale contesto (già di per se critico) è intervenuta la
crisi del 2008 “propiziata” da un eccesso di finanza, da
credito “allegro” accordato in certi Paesi (per fortuna non
in Italia) per sostenere consumi e mercato immobiliare,
da una speculazione che per ampliare i propri profitti
utilizza - ancora oggi - strumenti finanziari negoziati su
mercati non regolamentati ed al di fuori di ogni controllo
(c.d. over the counter) nonché da una ciclicità “naturale”
che alterna periodi di espansione ad altri di crisi.
È di tutta evidenza come, nella vita comune come in
quella delle imprese, nei momenti di difficoltà i primi a
subire i contraccolpi siano “i più deboli”!
Da qui il dibattito su chi siano, effettivamente, i più
deboli con la successiva domanda se sia giusto sia
sotto un profilo sociale che economico impegnarsi
nel sostenerli ovvero puntare nel rafforzare chi offra
maggiori possibilità e prospettive di competere in questo
mercato globale.
L’approccio a questa analisi (che dovrebbe essere
prima di tutto economica) può essere molteplice e
spesso sconfinare in considerazioni di natura politica,
fiscale e di impianto legislativo.
Solo per fare un esempio su questi ultimi aspetti va
considerato come alcuni vincoli di legge rappresentino
un forte “incentivo” a restare piccoli. Intendo riferirmi alla
pmi, piccola e media impresa
pmi, piccolo è bello ma grande è meglio!
63
To p S e l e c T i o n
64
applicazione dello statuto dei lavoratori (e conseguenti
effetti sulla possibilità di licenziare) per le imprese che
hanno più di 15 occupati, all’obbligo di prevedere
il Collegio Sindacale e la certificazione di bilancio ad
opera di società di revisione (con i conseguenti maggiori
costi) allorché il capitale sociale, il numero dei dipendenti
ed il fatturato annuo superi determinate soglie.
Senza alcuna pretesa di fornire risposte ma con il solo
obiettivo di riportare i termini principali della discussione,
penso sia utile focalizzare l’attenzione su quelli che sono
oggi unanimemente ritenuti i due principali drivers dello
sviluppo delle imprese: la capacità di internazionalizzarsi
e quella di investire in sviluppo e ricerca (R&S).
Con il termine “internazionalizzazione” si intendono, in
realtà, fenomeni affatto simili: da un lato la capacità
dell’impresa di essere presente su mercati diversi da
quelli domestici (aprendo proprie strutture commerciali
e/o delocalizzando parte del propria attività produttiva)
dall’altro quello di collocare all’estero la propria
produzione. A tal riguardo va osservato come la limi-
tata crescita dei consumi che si riscontra in Europa e
negli stessi Stati Uniti (storicamente mercati di sbocco
per i nostri prodotti) imponga di guardare ai mercati
emergenti (soprattutto quelli denominati BRIC: Brasile,
Russia, India e Cina).
Non c’è chi non veda come aggredire questi mercati
comporti investimenti significativi (analisi, ricerca di
partners, partecipazione a fiere, trasferte, copertura
dei rischi, disponibilità di linee di credito ad hoc, sistemi
di monitoraggio, ecc.) e, soprattutto, la disponibilità
di organizzazione e risorse professionali all’interno
dell’azienda in grado di seguire, monitorare, presidiare
e sviluppare queste linee di business .
Sono compatibili questi “pre-requisiti” con le dimensioni
di una microimpresa?
Recenti dati pubblicati dall’ISTAT dicono che la
percentuale di fatturato esportato per numero di
addetti passa dal 36,5 % delle imprese con oltre 250
dipendenti al modesto 8,5 per quelle con meno di 10!
Sempre la stessa fonte (ISTAT) rileva, poi, come la
produttività per dipendente nel settore manifatturiero
nelle imprese con un numero di addetti compreso tra
50 e 249 sia maggiore del 30% rispetto a quello di
imprese con classe dimensionale 20-49: naturale,
quindi, considerare come maggiore produttività significhi
anche possibilità di competere riducendo i costi di
produzione.
In conclusione, appare evidente come al crescere della
dimensione corrisponda una maggiore produttività ed
una maggiore capacità di esportare.
Rilevazioni non differenti si osservano allorché si
indaghi la capacità delle imprese di investire in R&S.
Qui l’obiettivo che l’imprenditore persegue è quello
di qualificare il proprio prodotto rendendolo per tale
via meno “clonabile” e “diverso” da quello dei propri
concorrenti ovvero di immettere sul mercato la “novità”
in grado di assicurare nuovi volumi di fatturato.
Spesso, però, l’attività di ricerca non approda a
risultati concreti suscettibili (almeno nell’immediato) di
sfruttamento economico e resta, pertanto, un “costo”
per l’azienda.
Può una microimpresa “permettersi” di avviare pro-
grammi di investimento in questi campi?
Il confronto internazionale offre ancora una volta
ulteriori conferme alla tesi che si intende qui sostenere
(la crescita è strettamente legata alla dimensione
aziendale).
Il benchmark può essere rappresentato dalla
“locomotiva” Germania dove, ad esempio, nel settore
manifatturiero le imprese hanno in media 36 dipendenti
conto i 9 di quella italiana (ed i 14 di quella francese).
Le stesse imprese tedesche investono, poi, in R&S una
cifra pari all’1,85 del loro PIL contro il modesto 0,6% di
quelle italiane (e l’1,27% di quelle francesi).
Non aiuta neppure a superare la riscontrata criticità
dimensionale lo “spirito” dei nostri imprenditori poco
avvezzi alla cooperazione (i generosi incentivi per la
costituzione di consorzi e reti di impresa sono ancora
in larga misura poco applicati), con una visione
familistica e personalistica dell’azienda (poche figure
manageriali esterne) e con quello spiccata propensione
all’individualismo che porta con se tanta capacità, intui-
zione, coraggio, tenacia ma che sconta, soprattutto nel
contesto attuale, i limiti sopra evidenziati.
Il Governo, negli ultimi mesi, conscio delle problematiche
evidenziate ha promosso l’avvio del Fondo Italiano
d’Investimento con una cospicua dotazione patrimoniale
e la cui finalità è quella di creare i “medi campioni
nazionali”, aiutare cioè le piccole imprese a diventare
(almeno) medie attraverso l’acquisizione di altre aziende
(ovvero la loro fusione) e/o il finanziamento di program-
mi di investimento finalizzati alla crescita dei volumi.
In conclusione le opportunità per il nostro Paese di
agganciare la crescita che, seppure lenta sembra
riaffacciarsi all’orizzonte, passano si attraverso la
salvaguardia di quelle piccole realtà imprenditoriali
(artigiani, piccoli commercianti, aziende agricole) ma
sopratutto attraverso un deciso e convinto slancio
comune per creare le condizioni affinché la crescita
dimensionale delle imprese consenta loro quel salto di
qualità, anche culturale, che solo può permettere la
difesa e la conquista di quote di mercato e, per tale
via, consentire all’Italia di non essere condannata ad un
campionato di…serie B. (a cura del dr. R. Caggia).
l u x u r y
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AUTO D’EPOCA, TRA STiLE E TRADiZiONE
CONCORSO D’ELEGANZA ViLLA D’ESTE
Nella splendida cornice del lago di Como, adagiato sul bordo del ramo occidentale,
si erge il “Grand Hotel Villa d’Este”, incoronato due anni fa dalla celeberrima rivista
americana Forbes il “Miglior Hotel del mondo” (così come descritto all’interno dell’articolo
apparso sul numero 3 di My Lifestyle) e unico Grande Albergo ad aver dato il nome ad
una automobile di grandissimo pregio, la Coupé Villa d’Este, realizzata dalla Carrozzeria
Touring nel 1949 su telaio Alfa Romeo 6C 2500 SS.
Tra il noto Albergo e le automobili, il legame è quasi centenario ed ogni anno si rinnova attra-
verso il “Concorso Internazionale di Eleganza per automobili”, l’evento tradizionale di auto
d’epoca con carrozzerie speciali che si svolge dal 1929 nello splendido giardino di Villa d’Este.
Nell’ultima edizione del concorso tradizionale (1949), prima del rilancio voluto nel 1995
dall’Amministratore Delegato Jean-Marc Droulers, il prototipo della Coupè Villa d’Este
venne presentato dalla Carrozzeria Touring e vinse per giudizio del pubblico il trofeo
più ambito, la “Coppa d’Oro Villa d’Este”. Considerato già allora un capolavoro dell’arte
automobilistica del ventesimo secolo, fu replicato in 25 modelli che presero tutti il nome
dall’evento che li aveva consacrati a duratura bellezza.
Uno degli splendidi esemplari, tra i più ambìti dai collezionisti di tutto il mondo, entra
oggi a far parte del parco auto dello splendido Albergo del Lago di Como e riprende
ad appartenere al luogo che insieme alla storia dell’Hotel, alla bellezza e allo stile che lo
rappresentano nel mondo, segna l’anello di congiunzione tra la tradizione e la capacità
di riviverla nel presente.
La prima edizione della “Coppa d’Oro di Villa d’Este” nel Concorso Internazionale
d’Eleganza per automobili si svolse nel settembre 1929 per iniziativa congiunta
dell’Automobile Club di Como, del Grand Hotel Villa d’Este e del Comitato di Cura della
città. La notorietà dei luoghi e le impeccabili soluzioni logistiche che si avvalsero degli
scenari inimitabili dei giardini di Villa Olmo e di Villa d’Este collocarono la manifestazione
ad un livello superiore rispetto ai numerosi show concorrenti organizzati in altre celebri
località di villeggiatura. Con oltre ottanta iscrizioni e altrettante vetture di primissimo
livello già dalla prima edizione, il Concorso di Villa d’Este entrò di diritto nel novero delle
analoghe manifestazioni, pur prestigiose, che si svolgevano a Parigi e a Montecarlo.
68
il Dr. Jean-Marc Droulers premia il vincitore della Coppa d’Oro Villa d’Este
l u x u r y
69
In quello che si sarebbe rivelato il canto del cigno delle aziende del settore, vinse il
primo premio un’Isotta Fraschini carrozzata Sala. Mancavano solo due mesi al crash
di Wall Street e stava per aprirsi un triennio di crisi che portò all’accelerazione dei
processi di razionalizzazione produttiva e che porrà fine, almeno nell’Europa continentale,
al gigantismo nel campo dell’industria automobilistica. Nonostante tutto, il mestiere dei
carrozzieri riuscirà a sopravvivere e gli artigiani delle auto espressero ancora, per un
altro ventennio, la loro creatività raggiungendo vette forse mai più raggiunte fino ad oggi.
La crisi del settore automobilistico del 1938 determinò la cancellazione del Salone
dell’automobile di Milano e, analogamente, del Concorso di Como. L’anno successivo,
con decreto del Governo Fascista e a causa delle prime avvisaglie della guerra, il 4
settembre 1939 fu emanato il decreto che vietò la circolazione delle auto private e che
anticipò di qualche mese la sospensione della produzione di automobili per uso civile.
L’edizione del Concorso nel 1947, due anni dopo la fine della guerra, si presentò come
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70
un chiaro segno della ritrovata voglia di vivere del settore automobilistico. Più agili
e relativamente meno colpiti dalle devastazioni belliche, i carrozzieri furono i primi a
muoversi con manifestazioni promozionali, inaugurando nel novembre dello stesso anno
e in assenza delle Case automobilistiche, un autentico Salone dell’auto in miniatura nel
Palazzo dell’Arte di Milano.
La manifestazione del 1949, penultima prima della sospensione, si caratterizzò per una
totale divergenza tra le opinioni dei giurati che premiarono un’elegante, anche se scialba,
berlina tre luci della Ghia, e il risultato unanime del pubblico che, dimostrandosi molto più
perspicace degli addetti ai lavori, consacrò la versione coupé Touring dell’Alfa Romeo,
la 6C 2500 SS, come capolavoro assoluto. Il modello prese il nome “Villa d’Este” e
contribuì non poco a diffondere nel mondo dell’automobile la fama di questa residenza
principesca.
Dopo quasi cinquant’anni di sospensione, l’evento è stato rilanciato nel 1995 da Jean-
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Marc Droulers, Amministratore Delegato di Villa d’Este, ed ogni anno si svolge sulle rive
del Lago di Como richiamando curiosi e collezionisti da ogni parte del mondo.
Le auto d’epoca che vi partecipano, nel numero massimo di 50 esemplari, sono il
risultato di una selezione severa del Comitato che ogni anno esamina centinaia di
richieste. Le auto sono premiate sia dalla Giuria del Concorso con il “Best of Show
Award”, che dal pubblico con la “Coppa d’Oro Villa d’Este”.
Dal 2000 l’evento è patrocinato dal BMW Group con il quale Villa d’Este condivide
l’ambizione di portare al più alto livello mondiale, un evento celebrativo della storia
automobilistica, della tradizione e della bellezza che incontrano l’evoluzione del design
attraverso la presentazione di concept e prototipi futuristici.
Il Concorso d’Eleganza “Villa d’Este” offre una cornice ideale, esclusiva ed elegante,
per la presentazione di auto storiche, e pone l’attenzione del pubblico sul carattere
intramontabile di questi prodotti di pregevole fattura ed unici nella loro particolarità.
Alfa Romeo Villa d’Este 6C 2500 Touring
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“Uno yacht procede lentamente lungo la costa rocciosa in cui piccole baie sabbiose sono
incastonate come gemme preziose. Improvvisamente un’ insenatura nascosta si svela... un piccolo
villaggio, Portofino, si allarga come un arco di luna attorno a questo calmo bacino, circondato da
un bosco di un verde potente e fresco... Mai ho forse sentito un’ impressione eguagliabile a quella
che ho provato nell’entrare in questa insenatura...”. Scriveva così, nel 1889, Guy de Maupassant,
uno tra i primi Vip a scoprire e a restare stregato dal particolare fascino di Portofino, nota località
turistica che si trova nel Golfo del Tigullio, in provincia di Genova. Da quel momento in poi letterati,
attori famosi, potenti del mondo intero sono rimasti affascinati da questo prezioso salotto, elegante
ed appartato, semplice come solo un borgo di pescatori può essere, ed al contempo raffinato
come la più preziosa delle scenografie.
Dagli anni cinquanta e sessanta, Portofino è diventato uno dei simboli del lusso e della vita
mondana, quando i ricchi e celebri personaggi della “Dolce Vita” - attori, attrici, popstar e ricchissimi
nobili - incominciarono a frequentarla per i suoi tramonti, per i party esclusivi e i suoi panorami
mozzafiato. Al tempo, la mondanità, da Via Veneto e Piazza di Spagna a Roma, si spostava nei
week-end verso Capri, Saint Tropez, Montecarlo, Cortina e Saint Moritz, e Portofino. Ancora oggi,
la piccola cittadina di non più di 500 residenti, arrampicata in mezzo alla sua unica baia, continua
ad ospitare, sulla banchina del porticciolo, così come nei caratteristici vicoli, i grandi protagonisti dei
sogni di tutti: divi di Hollywood, grandi nomi dell’arte, della politica e dell’industria.
La Calata
t r a v e l
Ma la località ligure non è solo una meta per il turismo dei vip: Portofino è un felice cocktail di
tradizione e storia, mondanità e privacy, lusso e semplicità, natura e glamour.
Le origini di Portofino si perdono nella più remota antichità: c’è chi la vuole di origine fenicia, chi di
origine greca, chi solamente romana. Ma è probabile che la sua nascita risalga alla protostoria,
poiché non è pensabile un luogo così riparato dai venti e dal mare senza alcun insediamento
umano. E se i fattori geografici favorirono il sorgere dei primi nuclei abitati, questi stessi fattori
hanno contribuito a rendere Portofino un centro turistico conosciuto in tutto il mondo. Con la
romanizzazione della Liguria, è certo che Portofino divenne colonia romana per poi passare sotto la
giurisdizione degli imperatori del Sacro Romano Impero nell’Alto Medioevo. Possesso dei Benedettini
della vicina Abbazia di San Fruttuoso, passa nel 1414 alla Repubblica di Genova.
Nel 1554 viene eretta, in posizione dominante, l’imponente fortezza di San Giorgio chiamata oggi
Castello Brown, dal nome del suo ultimo proprietario, il Console Britannico a Genova Montague
Yeats Brown. Attualmente l’edificio, di proprietà comunale dagli anni ‘60, rappresenta un must per
chiunque si rechi a Portofino. Dopo una breve passeggiata nel verde della penisola, tra i profumati
fiori spontanei della macchia mediterranea o quelli delle numerose ville nascoste nel verde, ecco la
fortezza, in posizione spettacolare, circondata da rigogliosi giardini e con un’incomparabile vista sul
borgo che permette di ammirare le sfumature dei colori delle case color pastello che si rif lettono
nel blu della baia. Che sia per una semplice visita o per realizzare un evento privato speciale,
Chiesa di San martino
t r a v e l
il Castello Brown è imperdibile. All’interno dell’edif icio
si possono ammirare numerosi bassorilievi e arredi
architettonici in marmo o in ardesia sulle pareti.
Dalla prima sala, ricca di mobili originali, si accede
al terrazzo, trasformato in giardino dal console.
Una scala ricoperta da “loggioni” conduce al piano
superiore; la sala al primo piano è coperta da volte
a crociera di tipo lombardo, in cui campeggia un
grande trittico. Il Santuario di San Giorgio Martire,
che si trova lungo il sentiero che conduce al castello
prima ed al faro poi, eretto nel 1154, fu scelto dai
Bizantini dell’Impero Romano d’Occidente come punto
di vedetta e stazione di presidio per l’avvistamento
costiero in appoggio alla flotta di stanza a Genova.
In stile romanico, al suo interno conserva le reliquie
di San Giorgio, Santo Patrono di Portofino, portate
dai marinai portofinesi reduci dalle Crociate. Prima di
partire per mare, i marinai gli rivolgono, ancora oggi,
un saluto richiedendo la sua benedizione.
Ogni anno il 23 aprile viene festeggiato il Santo
Patrono con le celebrazioni religiose che prevedono il
trasporto dell’Urna in processione e che si svolgono la
domenica successiva. Di interesse turistico e popolare
è il grande falò che viene acceso in piazza la sera del
23 aprile dopo la S. Messa e sulle cui braci vengono
cotti pesci da distribuire alla popolazione ed ai turisti
presenti. Il falò è costituito da legname e vecchie
imbarcazioni al cui centro troneggia un tronco: se
lo stesso cade verso il mare la credenza popolare
afferma che l’annata sarà positiva. Il 24 aprile 1945
terminò anche la seconda guerra mondiale, pertanto
la data è doppiamente significativa per i portofinesi.
In centro troviamo, poi, la Chiesa di San Martino,
che, edificata nel X secolo, venne dedicata al Santo
Martino di Tours e domina, con la facciata e il piccolo
sagrato, il borgo. Lo stile romanico è riscontrabile
nella forma, nel portale centrale, nel rosone e nella
torre campanaria. All’interno troviamo diverse opere
pittoriche e scultoree tra cui la tela della Madonna del
Rosario e un gruppo ligneo raffigurante la Deposizione
di Cristo dello scultore Anton Maria Maragliano. Altro
edificio da visitare a Portofino, infine, è la Abbazia
Benedettina di San Fruttuoso, di epoca romana,
situata a ponente del borgo e raggiungibile solo dal
mare o dai sentieri percorribili a piedi dal Monte di
Portofino. Nel 259 vi vennero trasportate le ceneri di
San Fruttuoso, vescovo di Terragona, da cui prese
79
il nome. Sulle due facciate rivolte al mare è ancora oggi visibile l’aquila imperiale, stemma della
Famiglia Doria. La storia dell’abbazia è infatti strettamente legata a quella della celebre famiglia
genovese; il chiostro superiore è stato quasi del tutto ricostruito nel Cinquecento per volontà
dell’ammiraglio Andrea Doria.
Per chi ama il contatto con la natura, da non perdere il Parco Naturale di Portofino, che offre un
intreccio di sentieri sia verso il monte, sia a mezza costa, con scenari mozzafiato sul promontorio.
Bellissima anche l’Area Marina Protetta di Portofino, con le sue falesie sommerse e le praterie di
posidonie. Il parco è il regno del corallo rosso che qui ha trovato condizioni ideali di sviluppo.
Ed eccoci, infine, alla Piazzetta, il simbolo di Portofino, con le sue case colorate ed il porticciolo dove
ormeggiano gli yacht da favola. Tutt’attorno e sotto i portici dagli archi a sesto acuto, lungo la Calata
e il Molo, fanno da cornice le boutiques di fama internazionale, le attività commerciali, i ristoranti
grand gourmet e le piccole bancarelle, in cui anziane signore del posto ancora oggi vendono i loro
tradizionali pizzi al tombolo, merletti fatti a mano dalle donne del borgo che trascorrevano così le
giornate sotto i portici al fresco in estate o riparate dal maltempo nei mesi invernali, attendendo il
ritorno dei mariti dalla pesca. E ancora oggi è frequente incontrare sul molo i pescatori locali, col
viso segnato dal sole e dalla salsedine, ricucire le reti.
Portofino è un luogo magico in cui la natura incontaminata e la mondanità si uniscono, offrendo un
mix di tradizione, bel mondo, natura, bellezza e fascino.
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Il falò di San Giorgio
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“Devi metterti a fare il cappellaio, almeno saprai che esiste la testa”: questa
frase, secondo molti, fu rivolta un giorno da una donna al figlio Giuseppe. Non
è possibile appurare oggi la veridicità di queste parole, ma ci piace pensare
che nasce proprio da questo sfogo, che risuona come un’eco tra i corridoi del
mondo della moda e del jet set dello spettacolo, la storia di uno dei marchi
più famosi e più glamour nel mondo. Di Giuseppe Borsalino, il fondatore, si
racconta che fosse un ragazzino molto ribelle, e che alla tenera età di dodici
anni lasciò la casa paterna per fuggire in Francia, dove ebbe inizio la sua attività
di cappellaio. Rientrato ad Alessandria, a distanza di pochi anni, e con in mano
“il certif icato” di cui i cappellai girovaghi necessitavano per aprire un laboratorio,
armato d’esperienza e di tanta passione, allestì quella “bottega” destinata a
diventare il famoso cappellif icio: era l’aprile del 1857.
Da quel momento sono passate tre generazioni, centocinquant’anni di storia in cui
BORSALINO, UNA LEGGENDA DI STILECENTOCINqUANT’ANNI TRA mODA E SpETTACOLO
l i f e s t y l e
Borsalino ha prodotto e diffuso in tutto il mondo il cappello in feltro per antonomasia,
indossato da attori, gangsters, vescovi, in un’epoca in cui rappresentava un
segno di distinzione, di riconoscimento, d’identità. Da Humphrey Bogart in “Fino
all’ultimo respiro” a Totò ne “I soliti ignoti”, da Harrison Ford nella parte di “Indiana
Jones” a John Belushi nel film “Blues Brothers”, il borsalino è entrato nella storia
dello spettacolo e del cinema, tant’è che l’azienda ha persino dato il nome alla
“gangsters story” degli Anni 70, intitolata appunto “Borsalino”, con Jean Paul
Belmondo e Alain Delon. Nei primi anni novanta la Borsalino venne acquistata
dalla famiglia industriale Gallo di Asti, con il cui ingresso, l’azienda acquistò nuovo
slancio soprattutto nel campo che storicamente ne aveva costituito il punto di
forza: l’export. Sempre in un’ottica d’espansione, nel 1997 venne acquistato lo
storico cappellif icio Sabino D’Oria di Lecce, specializzato nella lavorazione di
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cappelli in tessuto e pelle.
Oggi Borsalino produce circa 250 mila cappelli l’anno, con un fatturato che
supera i 20 milioni di euro (il 60% dal mercato estero, Usa in testa), dà lavoro a
circa 400 i dipendenti, e possiede punti vendita in tutto il mondo, dall’Italia agli
Stati Uniti, dalla Gran Bretagna al Giappone.
Abbiamo chiesto a I laria Barnabei, Communication Manager di Borsalino, quali
saranno le proposte per il prossimo futuro: «La Primavera Estate 2012 per Borsalino
pone l’accento sul “Prodotto”, un gioco di contrasti tra colori, materiali, lavorazioni,
ma non solo, anche tra tradizione e modernità, classicità e stravaganza. Vi è
un accurato studio dei materiali da accostare al classico Panama per regalare
al cappello uno spirito più disinvolto e contemporaneo, a volte prezioso, altre
più decontractè ma sempre realizzato con tecniche artigianali e una particolare
l i f e s t y l e
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attenzione alla ricerca nella tradizione. Il risultato sono cappelli estremamente
raffinati che attingono dal passato per reinventare il futuro conservando sempre
l’eleganza e l’altissima qualità tipica del marchio».
Il 2012 sarà, poi, l’anno di un progetto tutto nuovo, denominato Fashion Balloons,
per il quale il classico Borsalino vestirà l’arte Neo POP del fumetto, con immagini
stampate e dipinte a mano con smalti completamente atossici su paglia e tessuto
che interpretano gli intramontabili copricapi. Il trilby, il cilindro, il minicilindro, la
bombetta e il roller/l’arrotolabile diventano pezzi unici e irripetibili perché disegnati
uno per uno dall’estro del talentuoso Willow, giovane street artist che ha già alle
spalle un’esperienza internazionale, le sue opere sono esposte nelle gallerie di
Berlino, Miami, Sidney, Francoforte, San Pietroburgo, Colonia, Montreal e Milano.
«Willow - continua la Barnabei - mescola l’arte del fumetto alla spinta Otaku,
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genere socio-pop giapponese recentemente approdato in Europa che ha
dato radici stilistiche a Takashi Murakami, e ci trasporta in un mondo parallelo,
densamente abitato e popoloso, fatto di colori vivaci e di un segno grafico
preciso, lineare, senza interruzioni, in un mondo abitato da esseri molto particolari,
a metà tra il microorganismo e il virus, che si “parlano”, attraverso i balloons.
Immagini non solo ludiche ma anche dotate di indubbia forza comunicativa e di
grande, divertente fascino».
Grazie a questo continuo mix tra tradizione e innovazione, equilibrio ed estro,
l’azienda piemontese si attesta griffe all’avanguardia nella ricerca e nello stile e
non limita ai cappelli, ma conferma lo stesso spirito anche per l’intera gamma
di prodotti (gioielli, home decor, abbigliamento, intimo, caschi, ombrelli, pelletteria,
occhiali, profumi) che completano il lifestyle Borsalino.
L I F E S T Y L E
NEWS • TOP SHOP • MAGAZINE ON LINEDa Settembre 2011 sul nuovo portale www.mylifestyle.it
facebook: My-Lifestyle LuxuryMagazine
Il DesIgn
la nuova generazione è immediatamente riconoscibile
come Classe M per il caratteristico design della sua
carrozzeria, con l’inconfondibile forma del montante
posteriore.
Il frontale è dominato dalla mascherina del radiatore (con
stella al centro) la cui forma possente e sicura di sé
sottolinea il carattere tipico di questo modello.
Il nuovo design dei gruppi ottici risulta elegante e
innovativo, in particolare con l’Intelligent light system
(Ils), disponibile a richiesta.
le luci diurne a leD sono integrate in un listello cromato
all’interno del paraurti. l’ampia e più alta protezione
sottoscocca dal “look cromato” si estende fino al bordo
inferiore della mascherina del radiatore, sottolineando
così l’aspetto imponente.
Il profilo slanciato della fiancata sottolinea esteticamente
la vocazione stradale della vettura, le cui propor-
zioni compatte sono definite dal passo lungo e dagli
sbalzi ridotti.
Il montante posteriore, ispirato alle precedenti generazioni,
t o p c a r
permette alla vettura di distinguersi nettamente dalla
concorrenza. Al tal riguardo, il profilo del tetto che
discende verso la coda sottolinea la sportività della nuova
Classe M.
Il cristallo laterale posteriore si inserisce nel lunotto senza
che il montante risulti visibile, grazie anche ai gruppi ottici
posteriori avvolgenti a leD con tecnologia in fibra ottica,
suddivisi in due parti, e al tetto ribassato con ampio spoiler.
Il paraurti, con protezione integrata del bordo di carico
dal “look cromato”, caratterizza l’aspetto della coda del
sUV. Per il mercato italiano sono previste due versioni:
sport e Premium.
la gamma dei cerchi si estende dal leggero cerchio da
19 pollici aerodinamicamente ottimizzato fino agli eleganti
e prestigiosi cerchi 20 pollici.
I cerchi AMg a richiesta da 21 pollici sottolineano il look
sportivo della nuova Classe M.
Con un coefficiente di resistenza all’aria Cx pari a 0.32,
la nuova Classe M (Ml 250 Biturbo BlueTeC) stabilisce,
inoltre, un nuovo record in questa categoria di vetture.
glI InTernI
I luminosi interni offrono una libertà di movimento decisamente
superiore rispetto al modello precedente.
All’altezza della plancia, spicca l’ampia modanatura disponibile
in quattro varianti, in legno o alluminio, per poter assumere un
aspetto più elegante-esclusivo oppure più sportivo-moderno.
Il cruscotto, con due strumenti circolari dal design chiaro e ben
leggibile, con al centro un display da 11,4 cm, si apprezza per
le forme eleganti. la parte destra della plancia è dominata,
al centro della vettura, dall’ampio monitor del COMAnD.
Infotainment, navigazione e comunicazione si gestiscono in
maniera intuitiva grazie al Controller sulla console centrale.
I sedili sono progettati per assicurare un comfort elevato
nei lunghi viaggi e la massima tenuta laterale. ribaltando
in avanti entrambi gli schienali posteriori, si crea un vano
di carico piatto, con un volume di 2010 litri f ino al cielo.
gli interni sono disponibili in quattro colori: nero, beige
almond, grigio alpaca e marrone tabacco/marrone castagno.
Il sistema multimediale COMAnD Online, con monitor a
colori ad alta risoluzione da 17.8 cm, offre per la prima
volta l’accesso a Internet per la Classe M. I Clienti possono
navigare a vettura ferma oppure richiamare un applicativo
Mercedes-Benz (anche durante la marcia) con ricerca
su google™, accesso a Facebook, meteo, possibilità di
scaricare un itinerario precedentemente configurato sul
PC tramite google Maps ed altri applicativi che saranno
progressivamente introdotti.
t o p c a r
lA TeCnICA
l’equipaggiamento di serie della nuova Classe M offre un
comfort elevato, una spiccata maneggevolezza su strada e
prestazioni straordinarie in fuoristrada.
l’assetto della Classe M con sospensioni meccaniche
dispone, per la prima volta, di un sistema di sospensioni
selettive: viaggiando ad andatura normale, su strade con
poche curve o nella marcia in fuoristrada a bassa velocità,
il sistema reagisce con morbidezza mentre, in presenza
di una guida più grintosa, gli ammortizzatori adottano un
funzionamento più rigido, garantendo un’elevata stabilità.
Il pacchetto On&OFFrOAD ottimizza la dinamica e la
sicurezza di guida in funzione delle diverse condizioni, grazie
a sei programmi di marcia selezionabili tramite una manopola
che agisce sulle impostazioni delle sospensioni pneumatiche
AIrMATIC e della catena cinematica.
la stabilizzazione attiva del rollio ACTIVe CUrVe sYsTeM
agisce sull’asse anteriore e su quello posteriore tramite barre
stabilizzatrici trasversali attive, regolandole per compensare
l’angolo di rollio della carrozzeria nelle curve, aumentando
così l’agilità e il piacere di guida.
Per migliorare ulteriormente la sicurezza di guida,
l’equipaggiamento di serie comprende il sistema per il
rilevamento di sovraffaticamento o sonnolenza del guidatore
ATTenTIOn AssIsT, il sistema di sicurezza preventiva Pre-
sAFe®, la segnalazione di riduzione pressione pneumatici
nonché le luci di stop adattive e il Brake Assist BAs.
I MOTOrI
I l downsizing dei motori, il basso Cx e gli estesi interventi
BlueEFFICIENCY, contribuiscono al raggiungimento di una
straordinaria efficienza energetica.
Per modelli diesel, disponibili esclusivamente come BlueTEC
con tecnologia SCR per la depurazione dei gas di scarico,
sono fondamentali il downsizing e la riedizione del V6 CDI.
Sulla ML 250 Biturbo BlueTEC il V6 da 3,0 litri del modello
precedente è stato sostituito dal parsimonioso quattro cilindri
Euro 6, già apprezzato sulla Classe S.
La ML 350 BlueTEC è equipaggiata con un V6 da 3,0
litri ampiamente riveduto, omologato Euro 6, che assicura
prestazioni decisamente migliori a fronte di minori consumi.
Il modello a benzina ML 350 4MATIC BlueEFFICIENCY
sfoggia, invece, la tecnologia della nuova generazione di
motori BlueDIRECT, con l’iniezione diretta di benzina di terza
generazione, l’accensione multipla “Multi Spark Ignition” e un
innovativo procedimento di combustione a carica stratif icata.
L’autonomia calcolata con un pieno è particolarmente
signif icativa: con un consumo nel ciclo di marcia europeo di
6,0 l/100 km, la ML 250 Biturbo BlueTEC 4MATIC è in grado
di percorrere circa 1.170 km, con il serbatoio di serie da 70
litri, e 1.500 km con il serbatoio da 93 litri (optional).
L’ampia gamma di soluzioni BlueEFFICIENCY contribuisce al
raggiungimento di uno straordinario risparmio di carburante,
tra le quali la funzione Start/Stop di serie, il cambio automatico
7G-TRONIC PLUS, i cuscinetti ad attrito ridotto.
MODELLI DISPONIBILI AL LANCIO:ML 350 4MATIC BLuEEFFICIENCY V6 BENZINA (€ 60.830 Sport; € 69.830 Premium)
Potenza: 306 CV (225 kW); Coppia: 370 Nm; Consumo medio: 8,5 l/100 kmVelocità massima: 235 km/h
ML 250 BITurBO BLuETEC 4MATIC L4 DIESEL (€ 58.500,00 Sport; € 66.540 Premium)Potenza: 204 CV (150 kW); Coppia: 500 Nm; Consumo medio: 6,0 l/100 km
Velocità massima: 210 km/h; Accelerazione 0/100 km/h: 9.0 sec.ML 350 BLuETEC 4MATIC V6 DIESEL (€ 63.650,00; € 71.570 Premium)
Potenza: 258 CV (190 kW); Coppia: 620 Nm; Consumo medio: 6,8 l/100 kmVelocità massima: 224 km/h; Accelerazione 0/100 km/h: 7.4 sec.
Fisker KARMA
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Karma è il primo veicolo elettrico di lusso al mondo ad alta percorrenza. La Fisker Karma mantiene l’emozione di guida delle alte prestazioni grazie al sistema EVer™ (Electric Vehicle Extended Range) che permette un’autonomia fino a 300 km .
a u t o d a s o g n o
DIMENSIONI•Lunghezza totale: 4996 mm•Larghezza totale: 1984 mm•Altezza totale: 1330 mm•Sbalzo anteriore: 913 mm•Sbalzo posteriore: 923 mm•Interasse: 3160 mm•Carreggiata anteriore: 1692 mm•Carreggiata posteriore: 1701 mm
MOTORIDue motori elettrici posteriori, trazione posteriore con gruppo batterie installato al centro e sistema motore a combustione interna/generatore montato nella parte centrale-anteriore.•MOTORI ELETTRICI DI pROpuLSIONE: 2 x 150 kW (Totale 408 CV).•BATTERIA: da 200 kW agli ioni di litio posizionata sotto il pianale lungo l’asse centrale. •MOTORE A BENzINA: GM Ecotec® turbo a iniezione diretta da 264 CV e 2 litri. •SISTEMA DI GuIDA SENzA TRASMISSIONE: singola marcia fissa. •Accelerazione lineare invece che esponenziale.
BATTERIASChEDA TECNICA: Batteria agli ioni di litio da 22 kW/h (potenza di picco 200 kW) con una composizione al manganese molto stabile. RICARICA: La stazione di ricarica ad alta tensione utilizzata può essere facilmente installata in edifici residenziali dotati di impianto elettrico standard. DuRATA DELLA BATTERIA: 10 anni o 160.000 chilometri .COSTO: Equivalente a 0,15 Euro al litro. In base alle formule SAE risulta un costo di soli 0,02 Euro al chilometro in modalità solo elettrica. Il costo medio effettivo annuo con un utilizzo della modalità solo elettrica del 67%, risulta di 0,05 Euro al chilometro. RISpARMIO: Dipendente dallo stile di guida. Si stima che in media in un anno si possano risparmiare oltre 1.500 euro rispetto ad un utilizzo simile con auto di lusso e motore V8. TEMpO DI RICARICA: Dipendente dal residuo di cari-ca nella batteria e dalla tensione utilizzata (110V, 220V o 240V), comunque compresa tra le 6 e le 14 ore.
TECNOLOGIACENTRALINA DI COMANDO: I sistemi di comando, climatizzazione, navigazione, audio/intrattenimen-to, telefono della Karma possono essere controllati mediante una intuitiva interfaccia touch-screen.•Indicazioni visive per le specifiche attività•Feedback aptico in risposta a tocchi e gesti•Touch-screen da 10,2” con vibrazione•Schermate che dipendono dall’applicazione •Opzioni di visualizzazione in base alle condizioni ambientali relative a data/ora/luogo•Rapidi passaggi intuitivi tra attività/modalità •Diverse modalità di interazione per diversi livelli di capacità del conducenteAVVIO SENzA ChIAVE: Attivazione immediata della Karma mediante il sistema di avvio con rilevamento a distanza.
MODALITÀ DI GuIDA E pRESTAzIONILa Karma mette a disposizione due modalità di guida: la MODALITÀ TRASpARENTE per un’esperienza di guida elettrica ottimale, rilassata ed efficiente, e la MODALITÀ SpORT per sfruttare la potenza massima del veicolo.MODALITÀ SpORT: unisce la potenza di una batteria agli ioni di litio a un motore a combustione interna.• Velocità massima di 200 km/h• Da 0 a 100 km/h in 5,8 secondi• percorrenza totale di 483 chilometriMODALITÀ STEALTh: Nella modalità trasparente completamente elettrica la Karma è alimentata esclusivamente da una batteria agli ioni di litio.• Velocità massima di 153 km/h• Da 0 a 100 km in 7,5 secondi• percorrenza totale di 80 chilometri
ALLESTIMENTI E pREzzI(iva inclusa, esclusi IpT e messa su strada)
• KARMA ECOSTANDARD € 102.600• KARMA ECOSpORT € 112.200• KARMA ECOChIC € 118.200
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MY LIFESTYLE N. 10Summer 2011
Credits immagine di copertina: © Ferretti S.p.A.www.ferrettigroup.com
Autorizzazione del Tribunale di Lecce:n. 1003 del 24/10/2008
È vietata la riproduzione parziale ototale di articoli e immagini senza la preventivaautorizzazione scritta da parte dell’editore
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