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Lukas den Svarte
~ Quattrofavole ~
Per ricordarsi di non avere paura del buio
IV. Favola lugubre
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Rimani sveglia, la notte indora
con le lanterne l’afa orientale,
trascina venti spruzzati di sale;
strade fulgenti di fasulla aurora.
Come procede, ora dopo ora,
la nenia lenta del cerimoniale,
su col tic-tac!, neanche al davanzale
a scambiar fole con una signora.
Avanti, fila, e non far rumore:
a letto, è tardi, senza fiatare;
la dignità la finiamo domani.
Metti a nanna cervello e mani:
io ho solo voglia di creare,
tu battezzala nel tuo colore.
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È una piccola storia vera, questa, che molti di noi portano ancora
nel cuore. Io ho soltanto cercato di regalarvi un ricordo che ci
appartiene dalle origini del mondo, colorandolo di una tinta che
potrà sembrare un po’ impressionante… Ma questo, purtroppo, è
il prezzo che si paga quando si rinuncia alle illusioni.
Non è accaduta una volta sola e difficilmente gli uomini sono stati
felici di viverla personalmente; tuttavia, la riordino e la trascrivo
con la speranza che in futuro molti altri possano a loro volta
conoscerla.
Marco rientrò a casa tra le luci di un tramonto così intenso da
essergli ancora ignoto. La volta celeste era tutta tinta di un rosa
che pareva finto e le nuvole erano morbide e concrete. Pareva che,
se uno fosse stato in fondo alla strada, in direzione del campo da
calcio, protendendo le mani avrebbe potuto toccarle e affondare le
dita nel sole. Marco guardò le proprie, di dita, una volta sceso
dall’automobile del papà, che aveva trovato il tempo di venirlo a
prendere all’uscita dell’asilo. L’aria era ancora freddina, ma non
riusciva a passare attraverso il bomber; l’inverno scremava, a poco
a poco, nella primavera.
«Vai dalla mamma, che ha una sorpresa» gli disse il padre,
intanto che chiudeva la macchina.
Marco annuì velocemente, correndo verso la porta di casa, con lo
zainetto delle tartarughe ninja che gli rimbalzava da un lato
all’altro della schiena. Si fermò sulla soglia della porta aperta,
sbirciando sospettoso. Il salottino era vuoto, ma dalla cucina
veniva il rumore della televisione accesa e la luce del lampadario
si rifletteva sul pavimento della stanza contigua. Marco lasciò lo
zainetto sulla solita poltrona, avanzando quindi verso la cucina:
non si annunciò, badando oltretutto a non farsi sentire. Gli
piaceva quel piccolo brivido della scoperta, specialmente quando
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scopriva di aver avuto l’intuizione giusta. La mamma era china sul
tavolo, col suo grembiule bianco di farina e le maniche della
camicia sollevate sino al gomito. Marco si assottigliò contro lo
stipite, trattenendo il fiato. Non doveva farsi vedere, secondo il
copione, ma gli andò male. La mamma alzò gli occhi con aria
affaticata, sorridendogli vistosamente.
«Cosa fai, tesoro? Mi spii?» gli chiese, scuotendo piano il capo.
Lui la guardò con serietà: arrendersi al nemico non faceva parte
del gioco.
«Com’è andata all’asilo?» riprese la mamma, tornando al suo
lavoro.
«Papà ha detto che hai una sorpresa» borbottò Marco, restando
dove si trovava.
«Prima ti ho fatto una domanda, tesoro».
Il bambino sbuffò, muovendo un paio di passetti all’interno della
stanza, il capo chino.
«Bene.» rispose quindi, appoggiando le mani al tavolo e
sollevandosi sulle punte per poter vedere cosa sua madre stessa
facendo «Qual è la sorpresa?».
La mamma si asciugò il sudore dalla fronte, col solo risultato di
infarinarsi il viso e i capelli. Dovette pulirsi con uno straccio,
appena in tempo perché il papà, rientrando, non la vedesse.
«Preparo le lasagne per domani, non vedi?» disse la mamma,
indicando la pasta e il mattarello sul tavolo «E stasera pizza. Ti va
bene col prosciutto, tesoro?».
Marco annuì, un po’ deluso. Quando sentiva parlare di sorprese,
non era alla cena che pensava, ma doveva ammettere che in fondo
gli piaceva quello che cucinava sua madre. Tutti i papà vanno al
lavoro, ma non tutte le mamme fanno la pasta in casa, gli avevano
insegnato, e lui lo ribadiva fermamente in faccia a chiunque
sostenesse che non era vero. Si sarebbe accontentato delle
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lasagne, comunque, senza protestare: questo lo rendeva buono, lo
sapeva, e piaceva sia alla mamma che al papà. Ora avevano
cominciato a parlare, però, e lui come al solito si disinteressò
completamente a quel che stavano dicendo. Non valeva la pena di
occuparsi di tutti quei problemi di cui, se magari capiva l’inizio,
non riusciva a intravedere la fine.
Trotterellò silenziosamente fuori dalla stanza, andando a
recuperare lo zainetto. Se lo caricò in spalla e si buttò sulle scale,
affrontandole con le mani ed i piedi per guadagnarsi l’accesso alla
camera, il suo dominio. Aprì la porta e controllò tutti i punti
strategici: l’angolo tra l’armadio e la parete, la scrivania, il riparo
segreto che solo lui conosceva, a fianco del comodino, mezzo
nascosto dalla coperta. Ma più di tutto gli piace la finestra, quella
luminosa, in alto, che per guardarci attraverso doveva saltare in
piedi sul letto.
Non invidiava quelli che avevano un fratello. Dicevano che ci
potevi giocare, ma subito dopo ammettevano che erano sempre
presi dai loro “affari importanti”, se erano più grandi; se più
piccoli, erano una lagna dalla mattina alla sera. Lui stava bene
come figlio unico, senza dover dividere niente con nessuno. La
camera era sua, con tutto quello che conteneva, compresi i suoi
segreti più nascosti. Perché ne aveva, di segreti: per quale ragione
non avrebbe dovuto?
Si inginocchiò, infilando una mano sotto il letto per tirar fuori il
cesto dei giochi e dei giornali. Solo alcuni mesi e avrebbe dovuto
iniziare la scuola, quella vera: il papà aveva insistito perché si
abituasse a leggere qualcosa e non c’era stato verso di dissuaderlo.
Alla fine gli era piaciuto, però; guardare solo le figure diventava
noioso, dopo un po’. Sfogliava le pagine con interesse, ora, in
cerca di quella singola parola che l’aveva colpito la prima volta che
aveva aperto il giornaletto di turno. Una parola complicata, di cui
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prima o poi avrebbe dovuto chiedere il significato ai suoi genitori.
Ne aveva un po’ timore, tuttavia: poteva voler dire la cosa più
banale e insulsa, mentre così, ancora avvolta nei suoi fumi
dell’ignoto… Era magica. Lo era per il semplice motivo che poteva
esserlo. Una combinazione incantata, giocata tra filastrocche e
disegni dai colori accesi. In quel contesto, racchiusa tra quelle
righe, Marco scorse la sua forma tutta personale che ne faceva un
piccolo portale.
«Ciao».
Il bambino sobbalzò, ritraendosi dal libro di scatto. Aveva letto
quella parola nel disegno della pagina accanto, sull’espressione
sempre vivace che riscontrava in ogni illustrazione. Non era
scritta da nessuna parte, eppure l’aveva sentita con la mente e le
orecchie.
«Ciao».
Marco scagliò via il libro senza pensarci due volte, mandandolo a
rimbalzare contro il letto, lo stesso sopra il quale una lunga coda
rossa dondolava da un lato all’altro. Deglutì, alzando gli occhi
verso la creatura che sedeva sopra le coperte. Sorrideva con la
medesima aria ingenua e immutabile e gli occhi azzurri e rotondi
lo fissavano allegri. Rise persino, trillante come un uccellino.
«Non dirmi che hai paura.» fece la creatura, scodinzolando
allegramente «Lo sai che io non faccio male a nessuno».
Marco era senza parole. L’aspetto era quello, un cagnolino rosso e
giallo, e parlava proprio come si sarebbe aspettato. Era talmente
colorato da sembrare irreale in mezzo alla camera: un fantasmino
scanzonato che saltò con leggerezza dal letto fin su una mensola,
trovando incredibilmente il suo posto senza far cadere niente.
«È bello, qui.» disse il cagnolino, guardandosi intorno tutto
pimpante, quindi tornò ad osservarlo «Lo sai come mi chiamo,
vero?».
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«C’è scritto in copertina.» rispose prontamente Marco, indicando
fulmineamente il libro che aveva gettato via «Giangi. Sei
Giangi?».
«Certo che sono io» l’animaletto scese dalla mensola
semplicemente lasciandosi cadere.
Atterrò come un palloncino, rimbalzando morbidamente sul suo
sederone giallo canarino. Si lamentò in maniera buffa e Marco
ridacchiò, pur in mezzo allo spavento. Giangi non se la prese,
girando su sé stesso per rialzarsi sulle cicciottelle zampe
posteriori. Il bello di quel cane era che camminava a due o a
quattro zampe, a seconda di come gli andasse; Marco l’aveva visto
correre, arrampicarsi e nuotare come un uomo, ma sempre con
quel pancione rotondo e l’espressione soddisfatta sul musetto.
«È bello, qui» ripeté Giangi, alzando il naso nel guardare il
soffitto.
«È la mia camera.» replicò il bambino, annuendo orgoglioso «C’è
tutto quello che ti serve, qui. Ho il rifugio, le scorte di cibo,
l’acqua… E tanti punti di osservazione».
Lo spiritello colorato aprì la bocca stupito, individuando subito
tutto quello a cui Marco alludeva. Alzò tanto il muso che rotolò
all’indietro, restando sul dorso, con le zampe sollevate in aria.
Marco si fece un’altra risata, coprendosi la bocca con una mano.
Giangi eseguì una piroetta frizzante, riportandosi in piedi.
«Ma è piccolo, però.» commentò, e prese a correre da una parete
all’altra per dimostrarlo «Il mio giardino è più grande!».
«Anche il mio giardino.» ribatté piccato il bambino «Ma ora non
ci possiamo andare perché è quasi buio».
Giangi smise di correre e arricciò la coda, solo per distenderla e
riprendere a muoverla un attimo dopo.
«Vieni tu da me, allora.» propose, rizzandosi sulle zampe
posteriori «C’è ancora il sole, lì, e ci resta finché lo vuoi».
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Marco guardò dubbioso l’animaletto, prendendosi le labbra
fresche tra le dita. Tentennò, rivolgendo una svelta occhiata alla
porta dietro di sé.
«Non so se la mamma mi lascerebbe uscire» rispose, scuotendo
appena il capo.
L’animaletto sorrise più largamente, scalpitando: fece un saltello,
prima di avvicinarsi a piccoli balzi al bambino.
«Beh, mica deve venirlo a sapere.» disse, parlando a bassa voce
«Tanto resterà in cucina sino all’ora di cena, vero?».
Marco piegò il capo di lato, rendendosi conto che lo spiritello
aveva ragione: Giangi era fatto così anche nei libretti che teneva
sotto il letto. Sveglio, esuberante e dispettoso. Quando si metteva
in testa di fare una cosa, la portava fino in fondo, a costo di
cacciarsi nei guai. Spesso trascinava nelle sue imprese gli altri
amici del giardino, diffidenti nei suoi confronti, ma sempre pronti
a seguirlo in ogni genere d’avventura. Come loro, Marco provava il
desiderio di farsi accompagnare da quell’animaletto burlone e di
vedere se si sarebbe ritrovato nei pasticci come lui.
«Ok, va bene.» gli concesse, già emozionato «Ma dobbiamo
tornare per l’ora di cena e nessuno si dovrà accorgere che non ci
siamo».
Giangi tremò tutto d’eccitazione e saltellò verso la porta per
chiuderla. Poi prese la mano del bambino e lo condusse di corsa
con sé.
Il giardino era come l’aveva immaginato, coi prati verdi, la frutta
così lucida da sembrar finta, la curva delle colline disegnata con
un abbondante tratto di pennarello nero. Riusciva a posarvi i piedi
sopra, però, e a contare i fili d’erba che in un comune fondale
normalmente non si sarebbero notati. Non c’erano ombre, né
riflessi, e tutto quanto appariva così chiaro da essere indubitabile.
E si stava bene, la notte non arrivava e non una goccia di pioggia
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cadeva dal cielo terso, con le sue nuvole bianche e immobili.
Sembravano quelle che aveva visto pochi minuti prima, quand’era
sceso dall’automobile del papà, ma stavolta era sicuro che, con
una scala abbastanza alta, avrebbe potuto veramente toccarle,
staccarne un pezzo e metterselo in tasca.
Giangi era un turbine di movimento ed entusiasmo: faceva
capriole, trottava, saliva sugli alberi, nuotava nelle acque dense
del laghetto e ne usciva uguale a come quando si era tuffato. A
Marco, invece, bastava guardarsi intorno. Se si fermava ad
ascoltare, poteva sentire ogni suono, dal canto degli uccelli al
motore di un trattore in lontananza. C’era la brezza, se ci faceva
caso, e le sue gambe non sentivano la fatica di camminare su
quella terra morbida: scavando, trovava uno stato di marrone
intenso, come se il mondo di Giangi fosse una gigantesca torta a
strati.
Poi, dopo un po’ che fu in sua compagnia, gli venne voglia di far
tutto. E allora via a prendere le mele, a scendere come un matto
giù per la collina senza il rischio di cadere, a dar la caccia alle
farfalle che affollavano quel paese variopinto. In più, che si
spostasse o no, ogni ambiente restava vicino all’altro, tanto che
raggiungerlo non era un problema. Fu così che, come distinse da
lontano una caverna, gli venne il desiderio di visitarla.
Giangi spuntò fuori da dietro un cespuglio di bacche di cui si era
ingozzato sino ad allora, tenendosi la pancia con una mano, sazio.
Marco indicò la grotta e l’animaletto capì a che cosa si riferisse.
«Cosa c’è là?» chiese il bambino.
«Non lo so. Non sono mai stato in quella caverna.» rispose
Giangi, ma subito cominciò a fremere di curiosità, molleggiandosi
impaziente sulle zampe «Andiamo a vedere, dai! Ci sarà
sicuramente un tesoro!».
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Marco accolse ben volentieri la sua allegria e lo ascoltò descrivere
per tutta la durata del viaggio il forziere che avrebbero trovato,
con le sue monete d’oro scintillante, gli scettri, le corone. E le
gemme, così tante e brillanti! Già se le figurava sul palmo della
zampa e s’immaginava di contarle una per una. Avrebbe comprato
una grande casa, allora, e sarebbe stato libero di passare tutta la
vita a dormire beatamente nel suo letto di piume d’oca. Marco, da
parte sua, era solo divertito dall’idea di poter esplorare un luogo
nuovo e sconosciuto.
La caverna era un’enorme pietra che sorgeva dal prato come un
ciottolo gigantesco in cui era stata scavata una profonda galleria.
Grandi macigni grigi e viola erano di fronte all’ingresso, ma non
sarebbe stato un problema scavalcarli ed entrare. L’animaletto si
affannò per superarli, ma rimase a mezz’aria con le zampette che
si dimenavano a vuoto, senza trovare un appiglio; Marco e Giangi
si diedero così da fare insieme per issarsi oltre i massi e scivolare
all’interno della grotta, tra quelle pareti scure e buie che
permettevano però di vedere lo stesso. Non c’era luce, d’altronde,
quindi nemmeno il buio era veramente buio. Potevano distinguere
ogni incastro tra una pietra e l’altra e non c’era rischio di sbattere
contro un muro. Un antro incredibilmente vivace, che sarebbe al
massimo riuscito a spaventare il pavido Giangi.
«Ma io sono grande.» si disse Marco «Sono corso giù dalla discesa
tante volte e per ognuna di esse il tragitto mi sembrava più breve,
la collina più piccola e vicina. Le mie gambe sono più lunghe,
anche».
Giangi invece già batteva i denti, mordendosi le dita rotonde.
Insistette per tornare indietro più di una volta, senza successo; il
bambino, ormai preda dell’entusiasmo, volle controllare ogni
anfratto della grotta.
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Fu così che incapparono in una piccola sagoma accovacciata per
terra su un mucchietto di paglia, come un cucciolo addormentato.
Marco, però, non aveva mai visto niente di simile. Il respiro
gonfiava ritmicamente quel corpicino d’un acceso violetto e una
codina appuntita si muoveva appena a terra. Era difficile capire
cosa fosse, senza avvicinarsi. Giangi, in punta di piedi, strattonò la
manica del bambino.
«Andiamo via, Marco.» lo supplicò «Può essere pericoloso: è
sicuramente un mostro che abita questa caverna».
Il bambino gli rivolse un’occhiata, divertito: non era un caso se
alla fine di ogni avventura c’era sempre qualcuno disposto a
prendere in giro quel fantasmino colorato, sempre pronto a
prendere decisioni e a tirarsi indietro un istante dopo.
«Sta dormendo.» gli rispose, tenendo la voce bassa «È più piccolo
di te, poi: che problemi vuoi che ci siano?» e si avvicinò di qualche
passo.
Giangi restò fermo, prima di rincorrerlo frettolosamente.
«Andiamo via.» ripeté «Ci sono molte altre cose da vedere».
«Voglio solo capire che cos’è» si oppose Marco, testardo.
«Che importanza vuoi che abbia?» l’animaletto lo tirò
nuovamente per un braccio «Non mi piace questa caverna».
Stavolta il bambino non ebbe più la pazienza per sopportare i suoi
piagnistei. Scansò la mano morbida di Giangi, fulminandolo con
uno sguardo.
«A me piace, invece.» sbottò, inviperito «Ho visto i prati, gli alberi
e il lago. Non mi interessano più, ora: voglio esplorare questa
grotta».
Uno stridio gracchiante, come il verso di uno strano uccello, lo
riscosse da quell’impeto di stizza. Marco, nella sua invettiva, non
si era accorto di aver alzato la voce e si voltò velocemente, certo di
aver svegliato la creaturina. Ora, infatti, due enormi occhi verdi lo
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guardavano con sospetto e curiosità. Il bambino distinse
chiaramente un musetto simile a quello di una lucertola e,
soprattutto, le due piccole corna sulla testa. Quando poi la
creaturina si mosse, Marco notò anche due alette ripiegate e non
ebbe più dubbi di aver di fronte a sé un cucciolo di drago. A
dispetto dei timori di Giangi, comunque, non sembrava offensivo;
per sicurezza, il cagnolino giallo e rosso si nascose lo stesso dietro
le gambe di Marco. Il bambino rimase immobile a fissare quegli
occhioni e a seguire il lento ondeggiare della coda.
«Chi sei?» chiese, mentre Giangi, dietro di lui, tremava come una
fogliolina.
Il draghetto rispose con un altro piccolo strillo, aprendo la bocca
rossa, sprovvista di denti: era ancora troppo piccolo per averli,
pensò. Marco non sapeva dire se il draghetto poteva o meno
comunicare con loro, ma si azzardò a tentare. Il mondo di Giangi
era così nitido e semplice che incontrare una barriera del genere
gli sembrava impossibile. Il draghetto doveva capirli, per forza.
«Io mi chiamo Marco.» si presentò il bambino «Tu come ti
chiami?».
Il draghetto sbatté le palpebre e drizzò la testolina.
«Io sono Fin.» rispose quindi con voce spensierata «Sono un
drago».
Marco gli sorrise, avvicinandosi ancora un po’; Fin non disse
niente, continuando a controllarlo senza parlare.
«Sai volare?» chiese il bambino, guardando le ali del draghetto.
«Sicuro.» disse orgogliosamente Fin, raddrizzandosi sulle zampe
posteriori: in piedi, era alto all’incirca quanto Giangi «Non sono
un drago per niente, io» e aprì le ali, facendole sbattere
vigorosamente per levarsi in aria.
Marco, seppur a bocca aperta per lo stupore, notò che aveva
qualche difficoltà nella fase di decollo: Fin stringeva gli occhi con
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forza e si alzava sulla punta delle zampe come meglio gli riusciva e
anche una volta in aria aveva difficoltà a tener quota, almeno
inizialmente. Si guardò comunque dal dirglielo perché non voleva
mancargli di rispetto. Giangi, intanto, dato che non c’era pericolo,
si fece avanti.
«Sai anche sputare fuoco?» domandò, mentre il piccolo Fin
volteggiava gioiosamente per la caverna, tutto fiero.
«Oh, sì.» ribatté gongolante il draghetto «Se mi impegno, sì. Ma
non qui nella mia tana, altrimenti potrebbe danneggiarsi
qualcosa».
Marco notò che l’unica cosa di incendiabile nella grotta era giusto
il pagliericcio su cui Fin dormiva.
«Non c’è questo gran pericolo.» disse, allargando le braccia «Non
puoi farci vedere lo stesso?».
«No.» il draghetto incrociò le braccia a mezz’aria, chiudendo gli
occhi «Posso farvi vedere fuori di qui, al massimo».
I due acconsentirono e insieme si diressero verso l’uscita. Giunti
sulla soglia della caverna, Fin stabilì che andava bene e si fermò
davanti a tutti. Strizzò gli occhi, quindi, chiudendo le zampette e
riempiendosi d’aria sino a gonfiare tutto, dalle guance alla pancia.
Era come se trattenesse il fiato e il suo musetto diventò di un
rosso paonazzo: poi, con uno starnuto, emise una fiammella che si
perse nell’aria. Il bambino e l’animaletto, dietro, batterono le
mani.
«Chissà quante altre cose saprai fare!» esclamò Marco, seguendo
il piroettare esaltato di Fin.
«Tante, tantissime.» disse il draghetto, vanitoso «Più di quelle che
puoi immaginare».
«Perché non vieni con noi, allora?» gli propose il bambino «Così
ci farei vedere quello che sai fare e potrai mostrare a tutti quanto
sei bravo».
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E fu così che Marco, Giangi e Fin uscirono dalla caverna per non
farvi più ritorno. Ognuno apprezzò la compagnia degli altri due e
insieme viaggiarono per tutto il mondo, scoprendo nuove terre e
attraversando mari dove non c’era il pericolo di affogare. Salirono
in cima a vette appuntite e innevate senza patire freddo e volarono
a turno, con l’aiuto di Fin, sopra i comignoli dei paesi che
trovavano sul loro cammino. Occasionalmente, incontravano altri
amici e dividevano le emozioni che vivevano.
Era quasi sempre Giangi a trascinarli da una parte all’altra, ma
ben presto Marco prese affinità con tutti quei posti che si
potevano raggiungere in un attimo e cominciò a decidere lui dove
recarsi. Anzi, ebbe l’impressione che i luoghi che sceglieva lui
fossero meglio di quelli in cui li portava Giangi.
Fin era meno esuberante, ma non perdeva un’occasione per
mettere in mostra il suo coraggio. Era sempre il primo a farsi
avanti quando si buttavano in una particolare impresa e non
perdeva occasione di rimproverare Giangi per la paura che lo
prendeva ogni volta che si infilava in qualche brutto pasticcio. Gli
diceva che non doveva insistere tanto per fare qualcosa, se dopo si
spaventava così. Giangi ricambiava quelle prediche con continui
dispetti, che però finivano sempre per generare solo qualche
risata. Nonostante il loro carattere diverso, i due facevano squadra
ottimamente. Marco si accorse però che col passare del tempo il
mondo stava mutando, un poco per volta.
Giangi cercava invano di acchiappare il draghetto, che gli aveva
sottratto una mela e ora gli volteggiava intorno prendendolo in
giro.
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«A me sembra diverso» disse il bambino, che si teneva un po’ in
disparte.
Fin si voltò a guardarlo, ma subito dopo dovette volare più in alto
per non farsi acchiappare dall’animaletto; Giangi, d’altra parte,
pensava solo a come recuperare la sua mela.
«Mi sembra che il profilo delle colline sia più sottile.» riprese il
bambino «L’erba è meno verde e le nuvole sono sfumate. Posso
contare i fili d’erba come le pieghe sulle pagine sgualcite delle
riviste».
Si voltò a guardare i due: Fin aveva lasciato cadere la mela e l’altro
amico, borbottando, l’aveva raccolta. Ora la mangiava in tutta
fretta perché il draghetto non gliela riprendesse.
«Voi non vi accorgete di niente?» chiese Marco, senza contare
granché in una risposta.
«Di cosa dovremmo accorgerci?» chiese Giangi, masticando
rumorosamente il suo frutto.
«Di tutto.» spiegò il bambino «Guardate soltanto il cielo: non
vedete che è più scuro?».
«Come lì?» Fin alzò una zampa, indicando un punto in
lontananza.
Il cielo era veramente più scuro, come se si approssimasse la
notte: una notte vera, che non aveva nulla a che fare con i fondali
colorati che avevano accompagnato fino ad allora le peripezie in
quel mondo. Seguendo il dito del draghetto, oltretutto, Marco e
Giangi videro un tetto di nubi nerissime, attraverso il quale faceva
capolino una Luna piena, come il bambino non ricordava di aver
mai visto. Ancor più estranei gli erano quei muri di pietra
sbrecciati che parevano le rovine di un’antica chiesa o di un
castello medievale. Svettavano in cima ad una collina brulla che
non conosceva, ma era sempre così, in fondo: non importava se
non avesse mai visto quel rudere, se fosse addirittura venuto da
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quella direzione. Non lì. Montagne, fiumi e città comparivano
come dal nulla, nell’arco di un battito di ciglia. Nessuna, però,
aveva mai avuto un simile realismo: Marco ne fu morbosamente
attratto fin da principio. Giangi, al contrario, impallidì
vistosamente.
«Non ho mai visto nulla di simile» ammise il bambino, restando
con gli occhi fissi sulla collina.
«Neanch’io, e proprio per questo non ho intenzione di muovermi
da qui.» Giangi inghiottì in un boccone quel che restava della
mela «Può anche esserci il tesoro più ricco che sia mai stato
accumulato, ma non mi interessa».
«Io invece voglio andare a vederlo da vicino» replicò Fin, come
c’era da aspettarsi.
«Ma è buio!» protestò l’animaletto, scuotendo la testa «Non è mai
stato così buio, qui!».
«Papà dice sempre che non bisogna aver paura del buio.» disse
Marco, che era sempre più rapito da quella collina «Ci sono le
stesse cose sia di notte che di giorno».
Alla fine, per non sfigurare, Giangi dovette rassegnarsi, sebbene
quella penombra lo terrorizzasse. Quando addirittura
cominciarono i lampi (lampi veri, serpentini, bianchi come zanne)
e i tuoni, sussultò senza freno e dovettero quasi trascinarlo di
peso.
La salita fu ripida, ardua, insolitamente stancante. Marco sentiva
le gambe dolergli e quel dolore, sommato al continuo lamentarsi
di Giangi, rese quei minuti interminabili. Fin, che volteggiava
sopra i due amici, dovette fermarsi più di una volta per aspettarli,
sebbene fremesse per andare da solo in avanscoperta di quel
luogo misterioso. Più si avvicinavano, inoltre, e più si accorgevano
di come il colle acquistasse concretezza, facendosi fosco e ventoso.
Non apparteneva in alcun modo a quella dimensione colorata e
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sgargiante che avevano percorso in lungo e in largo fino a lì.
L’erba era scura, frustava le gambe e le foglie secche
schiaffeggiavano le guance. Marco riusciva a scorgere la pietra
sporca, logora dalle intemperie, di quelle rovine; l’edera le
avvolgeva e fiori aridi gli si strofinavano contro ad ogni soffio di
brezza.
Quando raggiunsero la vetta, tutto quanto si presentava in
un’opaca scala di grigi: solo la luna gettava un fioco bagliore,
filtrando attraverso i resti vuoti degli alti archi, con le loro
ragnatele e le oscenità a otto zampe che vi camminavano sopra.
Pareti sbrecciate e nicchie offrivano asilo a minuscoli occhietti che
riflettevano i raggi lunari. Marco procedeva a tentoni, avvertendo
sempre sotto una mano la testa di Giangi, che d’altra parte gli
stava attaccato ad una gamba come una pianta rampicante. Fin
volava senza parlare e il battere delle sue ali fu la sola compagnia
dei tre. Poi il vento cessò, a poco a poco, e anche Giangi arrivò a
rilassarsi. Il draghetto, però, restava sul chi vive.
Marco, muovendo un passo, inciampò in qualcosa, rischiando di
finire a terra. Giangi fece un balzo di un paio di metri, senza
trattenere un gridolino.
«Non è niente, non è niente.» lo rassicurò il bambino,
raddrizzandosi con l’aiuto delle mani «Sono solo incespicato».
«Fai attenzione.» lo avvertì Fin, volteggiandogli intorno «È pieno
di sassi, qui».
«Non era un sasso.» borbottò imbronciato Marco, facendo un
passo indietro e cercando per terra l’ostacolo che quasi l’aveva
fatto cadere «Non mi sono fatto male al piede».
Non gli ci volle molto per ritrovarlo. Il bambino lo toccò con le
dita, prima di sollevarlo da terra e avvicinarlo alla luce lunare.
Non faticò per capire cosa fosse.
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«È un libro.» mormorò, intanto che anche Giangi si avvicinava
«Ho l’impressione di averlo già visto».
«Un libro? Che libro?» fece subito Fin, eccitato «E dove l’hai
visto?».
Marco sfogliò alcune pagine ingiallite, spiegazzate, alcune già
staccate. Doveva essere molto vecchio, perché si fosse ridotto così.
«È un libro di… Storie.» rispose, dopo aver letto qualche titolo
«Storie fantastiche. Un re. Un calderone magico. Persino un drago
come te, guarda» sorrise, girando qualche altra pagina.
«Davvero?» chiese Fin, seguendo con gli occhioni le dita del
bambino «C’è scritto dove possiamo trovarlo?».
«Non credo. Sono leggende.» rispose, e a quelle parole il suo
sguardo si illuminò «Leggende, sì. Ecco dove l’ho visto! Era nello
scaffale dei libri di papà!».
«Tuo papà?» Giangi gli era di nuovo attaccato «Come fa ad essere
qui, allora?».
Marco non sapeva come rispondergli. Lo sfogliò ancora, sino a
quando non si trovò davanti un’illustrazione che riempiva una
pagina intera. Fece per analizzarla, quando Fin lo mise in guardia,
facendogli alzare il capo. Comprese immediatamente quello che il
draghetto intendeva. Non muoveva una foglia, nemmeno un filo
d’erba, eppure poteva udire chiaramente il soffiare del vento, il
suo scivolare attraverso ogni pertugio. La pelle gli si accapponò,
mentre si rendeva conto di come quel suono somigliasse ad una
voce umana. Prima ancora che potesse muovere un muscolo, il
draghetto si staccò dagli altri due, volando imperterrito verso la
fonte di quel vento senza corpo.
«Fin!» gridò Marco, ma quello non si fermò né si voltò.
Ancora col libro in mano, il bambino gli corse dietro, seguito da
un disperato Giangi che avanzava a saltelli e squittii. Marco tenne
dietro al draghetto in una corsa forsennata, saltando muriccioli
22
sgretolati, corridoi con solo il firmamento nuvoloso a far da tetto e
passando attraverso a quelle che dovevano esser state ricche
vetrate, fino ad ampi cortili, dove tra le pietre secolari cresceva
indisturbata la gramigna. Lì, di fronte ad un angolo buio, il
draghetto si fermò, toccando terra. Marco rallentò la corsa, come
paralizzato. La voce sgorgava in una cantilena di cui non riusciva a
cogliere nessuna parola, fluttuante. In quell’angolo, una donna la
intonava, come se niente fosse. Il bambino si avvicinò e quella le
rivolse uno sguardo calmo da sotto il cappuccio: riusciva a
intravedere solo il suo viso e le mani, perché la mantella che
indossava le copriva anche i piedi. Dava l’idea, tuttavia, che la
donna non li tenesse posati a terra, per chissà quale ragione. Oltre
a cantare, poi, teneva in una mano un pettine d’un giallo
splendente, che Marco intuì essere oro. Lo passava tra i capelli che
le ricadevano sul davanti in un movimento che aveva dell’infinito,
accarezzando le punte con le lunghe dita.
Né Giangi né Fin avevano la forza di aprire bocca, troppo stupiti o
spaventati da quella visione. Il bambino deglutì, facendosi avanti.
«Perché canti?» domandò, seguendo il movimento del pettine
d’oro.
La donna modulò ancora qualche nota, prima di interrompersi.
Marco poté udire il rumore dei denti del pettine che scioglievano i
piccoli nodi tra i capelli e questo gli riempì le orecchie.
«Non mi chiedi nemmeno chi sono?» fece la donna, alzando un
sorriso verso di lui.
Il bambino non emise un fiato, fissando quel viso. Somigliava
molto alla mamma da giovane, esattamente come l’aveva vista in
un album fotografico mesi prima, non fosse stato per quell’aspetto
un po’ sinistro. Il sorriso però era lo stesso, caldo e rassicurante;
spostò gli occhi sui capelli, vigile. Sarà stato per via della
penombra, ma non riusciva nemmeno a dire di che colore erano.
23
A tratti gli sembravano neri, altre volte grigi, altre volte
addirittura bianchi: questi, tuttavia, non bastavano a farla
apparire più anziana. Guardandoli bene, si accorse però che
riusciva a scorgere le pietre dietro di lei, scure. Su di esse vide
addirittura zampettare un insetto.
«Mi chiamo Aibhill.» disse la donna, catturando nuovamente
l’attenzione del bambino sul suo sguardo «Canto perché sono
sola».
Marco si sentì un po’ imbarazzato ad averle posto quella
domanda, ma continuò a conservare i suoi dubbi.
«Non sei una persona cattiva, vero?» le chiese, anche se ormai
aveva imparato che una persona veramente cattiva gli avrebbe
risposto con una bugia.
«No.» rispose comunque Aibhill «Le persone però non vogliono la
mia compagnia. Hanno paura di me».
Marco guardò in direzione del draghetto, che era rimasto dietro di
lui.
«Il mio amico Fin mi ha insegnato che non bisogna aver paura di
niente» affermò, trovando l’approvazione dell’amico.
«Tu e il tuo draghetto siete molto coraggiosi.» si complimentò
Aibhill «Dovresti fare attenzione, però, perché bisogna stare
attenti a tutti quelli che si incontrano».
«Sìsì.» la rassicurò il bambino, che ormai non riusciva più a
staccarle gli occhi di dosso; tentennò, quindi, fino a che non riuscì
più a trattenersi «Perché sembri quasi trasparente?».
«Sei un fantasma?» domandò un balbettante Giangi, che ora si
stringeva a Fin.
Aibhill guardò il bambino e l’animaletto, senza dare alcun segno
di ostilità.
24
«Qualcosa del genere» rispose sinceramente: appariva
calmissima, a giudicare dal modo in cui continuava
indifferentemente a pettinarsi.
«Ma non tutti i fantasmi sono cattivi» disse Fin, che, come al
solito, doveva dimostrare a sé stesso di non provare timore.
«Io non ho mai fatto male a nessuno» ribatté Aibhill col suo solito
sorriso placido.
«Allora dobbiamo farle compagnia.» insistette il draghetto,
convinto «Non è giusto che resti da sola».
«Non possiamo farle compagnia in un altro posto?» Giangi si
aggrappò ancor di più a Fin, che cominciò a doversi dibattere per
respirare «Questo posto mi fa venire i brividi».
Marco ascoltò i suoi amici, confuso, prima di voltarsi nuovamente
verso lo spettro. Non sapeva cosa aspettarsi da lei e, doveva
ammetterlo, lo spaventava un po’.
«Posso vegliare su te e i tuoi fratellini, se vuoi» propose Aibhill,
riferendosi a Fin e Giangi.
«Sappiamo badare a noi stessi» protestò lo stesso draghetto, tra
un affanno e l’altro.
Il bambino si fermò a pensarci: l’aveva stupito già abbastanza il
modo in cui aveva definito i suoi due amici, ma non poté
confutare del tutto le parole di Aibhill, per strane che gli
suonassero. La osservò a lungo e lei non fece una piega,
mantenendo la stessa aria innocua di poco prima. Senza volerlo,
forse, un mugolio gli usciva ora dalle labbra, come il fruscio di un
respiro in una grotta silenziosa. Non seppe che cosa lo convinse:
forse fu la somiglianza con la mamma che gli diede quel motivo in
più.
«D’ora in avanti non sarai più sola.» stabilì «Vieni pure con noi».
La vita mutò radicalmente, da allora, e lo stesso avvenne per i
campi verdi dove era solito recarsi con Giangi e Fin. Di tanto in
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tanto c’era vento, adesso, o magari pioveva: calava la notte e
spesso non riuscivano a vedere a un metro dal loro naso. La terra
si aggrappava alle scarpe, l’aria profumava di erica, rugiada o
acque salmastre a seconda del luogo in cui si trovavano. Giangi
era spaventato da quel realismo che gli era estraneo ed anche Fin,
per quanto non l’avrebbe mai ammesso, provava una certa
inquietudine. Il fantasmino colorato non era avvezzo a quelle
camminate faticose, il suo corpo non era fatto per sforzarsi e
sudare. Capitava anzi spesso e volentieri che restasse indietro,
costringendo gli altri ad aspettarlo. Cominciò allora a chiedere
sempre più spesso di restare nella camera di Marco, dove ognuno
conservava il suo posto: il bambino sul letto, Giangi seduto subito
sotto, Fin in cima ad uno scaffale, di vedetta. Aibhill stava sempre
in piedi contro una parete, col suo pettine d’oro nella mano
incorporea: pareva ascoltare i loro discorsi e seguire i loro giochi
solo distrattamente, ma dava sempre dimostrazione di non
perdere mai il filo. Marco le si affezionò facilmente. Aveva un’aura
che, pur nel suo silenzio, ispirava fiducia e saggezza. Il suo sorriso,
poi, era dolce come un cucchiaio di miele e la voce con cui
accompagnava le loro ore, senza mai fermarsi, era magnifica,
nulla a che vedere coi versi di animale che Giangi era solito
imitare. Seppur di poche parole, appariva sempre di un placido,
candido buon umore.
Fu un giorno di vacanza, subito dopo pranzo. Il draghetto apriva
la strada, subito seguito da Marco e Aibhill: Giangi arrancava,
sbracciandosi continuamente perché gli altri lo aspettassero. Fu
quando si fermarono che il bambino notò che il movimento fluido
con cui la donna spettrale si prendeva cura dei propri capelli
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incolori si era alterato. Le sue dita tremarono, si fecero rigide e il
suo canto sembrò incrinarsi, sino a trasformarsi in un lamento,
simile al vento che ulula tra le montagne: a Marco si rizzarono i
capelli in testa. Aibhill piangeva senza sosta, col capo chino e
ancora intenta a pettinarsi, senza nemmeno smettere di avanzare.
Quando le chiesero perché piangesse, rispose con un urlo più
acuto e fluttuò veloce verso un collina che riconobbero subito: le
rovine in cui l’avevano trovata si ergevano improvvisamente di
fronte a loro, senza che nessuno si fosse reso conto di dov’erano
arrivati. Marco la chiamò, ma Aibhill lo ignorò completamente. Le
corsero dietro, quindi, arrampicandosi come scalatori sulla terra
friabile, sino in cima al colle. Aibhill stava in piedi sui resti della
facciata, guardando verso la discesa con quel pianto assordante,
disperato. L’abito oscillava al vento, pur essendo impalpabile.
«Aibhill!» chiamò il bambino, senza capire; lei gli rispose con uno
strillo, senza voltarsi.
Guardava in basso, con un’intensità che non potevano scorgere.
Poi alzò una mano, indicando il cielo coperto di nubi. Marco
sollevò il viso a sua volta, osservando in direzione del suo dito: le
nuvole fosche si diradavano, scacciate da un vento travolgente che
lasciava spazio alla luce. La luce! Marco non ricordava, per
assurdo che fosse, di averla mai vista in quel mondo. Tutto era
come doveva essere, non esisteva un sole che faceva capolino e li
bagnava coi suoi raggi. Per la prima volta, distinse le ombre di
quel luogo proiettarsi sull’erba.
Fin volò verso Aibhill, imperterrito, ma quella arretrò come
risucchiata anch’essa dalla corrente. Non smise di piangere, non
di pettinarsi, non di guardare davanti a sé. Il bambino guardò la
dama spettrale, allarmato, prima di tornare sulla luce. L’erba
fumava. La terra si spogliava, sbrecciandosi per l’aridità. Le
fronde ricciute degli alberi si dissolvevano in una polvere
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biancastra, i tronchi avvizzivano e si contorcevano. I raggi roventi
avanzavano imperterriti verso di loro.
«Aibhill!» chiamò nuovamente, mentre il draghetto tornava
planando verso di lui.
Si diressero verso l’antro in cui l’avevano vista rifugiarsi, ma non
lo trovarono. Non per caso, perché il percorso sembrava
nascondersi ai loro occhi, riparandosi improvvisamente dietro
mura che prima non c’erano. Corsero, si affannarono, solo per
incappare in vicoli ciechi e svolte continue tra pareti che
sembravano altissime siepi, troppo alte anche per il draghetto. Un
labirinto! Marco sentiva il sudore bagnargli le tempie e scivolargli
lungo la spina, facendolo rabbrividire di freddo. Si gettò a
capofitto nella ricerca dell’uscita, chiamando e chiamando, sino a
quando i suoi piedi si fermarono miracolosamente sul ciglio di un
baratro. Un buco nero, simile a un pozzo di dimensioni smisurate,
si spalancava davanti a loro. Il bambino si aggrappò ad una parete
per sostenersi ed essa traballò, s’inclinò, prima di franare a terra e
precipitare nella voragine. Non più pietre, in quella parete, ma
libri. Copie infinite di quella raccolta di leggende che aveva
raccolto proprio su quel colle. Marco indietreggiò, intanto che il
vento sfogliava le pagine come un lettore rabbioso.
«Giangi!» gridò Fin, raggelandolo.
Si voltarono di scatto, in direzione di quella luce che anche
dall’interno del labirinto riuscivano a scorgere in cielo. Indietro,
l’avevano lasciato indietro, come succedeva ogni volta. Le pareti
cominciarono a tremare, come scosse da un terremoto. Cadevano,
cadevano e cadevano: si aprivano, quindi, disseminando il terreno
di quell’illustrazione, la stessa che l’aveva colpito la prima volta.
Un colle, una donna incappucciata, un pettine brillante. Un uomo
sul letto di morte. Marco tornò indietro annaspando, mentre
tutt’attorno a lui si abbatteva in uno sfacelo assordante, su cui si
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levava, perenne, il lamento di Aibhill. Si buttò contro mura di
carta e inchiostro, premendo invano per abbatterle, mentre dietro
di lui la strada si chiudeva fragorosamente. A tratti saltava
attraverso quelle che erano state finestre, coprendosi la testa con
le mani. Sentiva che si stava allontanando dal centro del labirinto,
che stava tornando verso l’uscita. E la luce. Si fermò di fronte
all’ennesima parete, guardando a destra e a sinistra senza trovare
nemmeno uno spiraglio; Fin emerse appena in tempo per non
essere sommerso dalla mastodontica catasta di libri. Chiuso su
ogni lato, colpì il muro con rabbia disperata, avvertendo il dolore
sulle mani. Tre o quattro copie cedettero, cadendo dall’altra parte,
e Marco vide nuovamente la luce e la pagine incendiarsi sotto di
essa. Rimase immobile, inorridito, fino a quando non udì anche
l’animaletto, poco distante, proprio di fronte a lui.
Urlava, a terra, dibattendosi e rotolando da una parte all’altra
come un folle. Le chiazze rosse sul suo corpo si erano fatte quasi
nere, la sua pelle elastica era ricoperta di ustioni. Marco e Fin lo
chiamarono, buttandosi con rinnovata rabbia sulla parete, ma
essa sembrava essersi di nuovo tramutata in pietra. Giangi si
contorceva a terra, senza nemmeno esser consapevole che lo
stavano vedendo. Non sentiva altro che il dolore pazzo che lo
consumava. Videro la sua carne aprirsi, squagliarsi come cera
liquida sulle ossa nude, di cartone, com’era stata tutta la sua
esistenza. Sotto il calore della luce, si arricciarono e si
incendiarono quasi immediatamente.
Il canto di Aibhill, le urla di Giangi e il tormento della luce
terminarono di colpo, all’unisono, il tempo di un battito di ciglia.
Sul colle non c’erano altro che quei ruderi di pietra sporca, tra i
quali nessuno si sarebbe perso. Tutt’attorno era terra bruciata:
quelle mura che li avevano imprigionati li avevano anche protetti,
salvati dalla morte sicura a cui Giangi non aveva potuto sottrarsi.
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Marco e Fin, in quell’improvviso silenzio, si avvicinarono al punto
in cui lo spiritello colorato aveva vissuto la sua agonia. Nulla
rimaneva, se non i resti già freddi di un piccolo incendio, una
chiazza nera sulla terra secca, sterile. Il verso di un uccello si fece
sentire, tranquillo, dal vicino bosco, come se niente fosse
accaduto. Come se niente fosse accaduto.
Marco e Fin non piansero, troppo basiti da quella scena, né
pronunciarono una sola parola. Fecero per chinarsi, ma un fruscio
alle loro spalle li immobilizzò. Il pettine scorreva tra i capelli,
esattamente come prima.
«Mi dispiace» Aibhill disse solo questo, e nella sua voce non c’era
più traccia del pianto di poc’anzi.
Marco si voltò a guardarla, sconcertato. In cuor suo, sapeva di
avere la risposta, ma pose comunque la sua domanda.
«Sei stata tu?».
Il fantasma scosse il capo, assumendo un’espressione triste.
«Io ho solo dato l’annuncio.» rispose, con una nota dolente nella
voce musicale «Così era stato deciso».
Marco si voltò per cercare una copia di quel libro di leggende, ma
di colpo non ce n’era nemmeno una, a portata a di mano. Guardò
in viso Aibhill, senza riuscire a trovare alcuna traccia di
colpevolezza: era sincera, e lo sapeva. Non si soffermò neanche a
chiederle chi avesse deciso di straziare a quel modo l’innocente
Giangi, perché neanche su questo aveva bisogno di interrogarla.
«Dobbiamo tornare in camera» stabilì, fioco.
Fin montò su tutte le furie, sgranando gli occhioni verdi.
«Non puoi fare sul serio!» esclamò, sbuffando dalle narici «Non
puoi portarla con te dopo quello che ha fatto al nostro amico!».
Aibhill non replicò; Marco lo guardò con un’espressione mesta.
«Ha detto che non è stata lei» la giustificò.
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«Sta solo cercando di difendersi!» incalzò il draghetto «Ha
cominciato quella specie di canto e ci ha portati quassù! Poi ha
addirittura lanciato un maleficio su queste rovine, trasformandole
in un labirinto!».
«Una strega.» ripeté con calma Aibhill «Forse lo sono stata, ma
ancora non lo ricordo».
«Mente!» Fin gridava, rosso d’ira «Ha ucciso il nostro amico!».
Marco faticò a ricondurlo in camera assieme ad Aibhill e fin da
subito la convivenza gli parve impossibile. Nel breve periodo in
cui due rimasero a contatto, senza più Giangi, non fu più possibile
viaggiare, parlare e giocare. Il bambino provò più e più volte a
convincere Fin, ma lui non cedeva di un millimetro, cercando
continuamente di scatenare il litigio. Aibhill non parlava, se non
di rado, e non sembrava curarsi delle accuse che le venivano
continuamente lanciate contro. Era tornata la solita di sempre,
silenziosa e con quel sorriso delicato sulle labbra. La stessa,
insomma, che aveva ispirato fiducia al bambino, quella sera sul
colle.
Un giorno, Fin non si presentò: lo cercarono assieme, senza però
riuscire a scovarlo, sino a quando non si arresero all’idea che il
draghetto li aveva abbandonati entrambi. Così Marco restò solo
con Aibhill, la dama spettrale.
Furono loro due soli, e nessun altro, per lungo tempo. Passarono
assieme sotto le porte del tempo, le fu accanto durante lo
sbocciare della sua maturità. Non era più la stagione dei giochi e
dei viaggi per terre fantastiche, evidentemente, perché Marco e
Aibhill trascorrevano la maggior parte del tempo in camera, fatta
eccezione per qualche sporadica uscita che di norma si risolveva
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in un nulla di fatto. Lui parlava, rifletteva, poneva domande; lei lo
aiutava a capire e gli forniva tutte le risposte che cercava, quelle
che entrambi sapevano essere giuste. Marco era lieto di tenerla
con sé: la sua pazienza inesauribile, la cautela con cui parlava, la
disponibilità ad ascoltare. Guardando in lei, ascoltando le sue
parole, si rese conto di come gli permettesse di fare le più
importanti scoperte su sé stesso e sui rapporti che intrecciava con
gli altri. Probabilmente, rifletté, era quella la ragione per cui
Aibhill restava in sua compagnia. Una sorta di spirito protettore,
dedita soltanto a guidarlo lungo le tappe della sua esistenza.
Più che mai se ne accorse in un periodo ben preciso della sua vita.
Correva il quindicesimo anno: da allora, nessuno aveva mai
saputo di Aibhill o dei suoi precedenti compagni. Marco non
sentiva nemmeno il bisogno di parlarne, dal momento che gli
bastava la consapevolezza di quello che erano, o erano stati, per
lui. Non occorreva il giudizio di un altro, neanche del più leale
degli amici. Era di Aibhill, in primo luogo, che si fidava, e sapeva
di fare la cosa giusta. Fu lei che se ne accorse per prima,
anticipando addirittura il ragazzo. Aveva osservato quei sospiri,
evidentemente, o l’espressione vacua che il giovane aveva in viso
quando si sdraiava sul letto senza nemmeno togliersi le scarpe,
dimentico di ogni cosa. Aibhill non era certo solita prendere
l’iniziativa in un discorso, ma quella volta lo fece con una
leggerezza così cordiale, per nulla invasiva, che gli fece stringere il
cuore. La adorava ancora per quel sorriso tiepido, al contempo
vicino e lontano.
«Ti sei innamorato?» chiese, e lui sussultò di un brivido bollente.
Non seppe cosa dirgli: rimase lì a muovere pigramente la mano
sull’addome, che sentiva bruciare come un fuoco tumultuoso.
Distolse lo sguardo, prese tempo; lei glielo permise, come aveva
sempre fatto.
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«Mi sento scombussolato. Mi manca il fiato.» ammise infine,
voltandosi quindi verso di lei «Questo è essere innamorati?».
Aibhill abbassò il viso, seguendo il corso del pettine tra i propri
capelli.
«Se ti capita pensando a qualcuno, sì» spiegò.
Marco spostò l’attenzione sulla finestra sopra il letto, quella che
ormai raggiungeva senza problemi, e ne seguì il fascio di luce che
si posava sul pavimento. Non lo stupì il fatto che quel bagliore,
quel ritaglio di sole, gli riportava alla mente un viso di ragazza.
«Come si chiama?» domandò Aibhill, nel vederlo così assorto.
Il giovane guardò il soffitto, lasciandosi andare ad un gemito
stanco.
«Vanessa» rispose, senza nascondere l’ombra di un sorriso.
Aibhill ricambiò quello sguardo, lasciandogli nuovamente tempo
di riflettere. Marco, da parte sua, sentiva la tensione allentarsi,
liberarsi attraverso ogni parola e pensiero che, finalmente,
scivolavano via, mano a mano, perfettamente definite.
«Non devi nasconderlo.» gli consigliò, quieta «Non del tutto,
almeno. Dovresti parlarle, come fai con me».
Il ragazzo tirò l’ennesimo sospiro, rivoltandosi sul letto senza
trovare pace. Guardò il muro, stavolta, purché qualcosa occupasse
in qualche modo la sua mente.
«È troppo bella» protestò debolmente, aspettandosi già un
rimprovero da parte di Aibhill.
Lei invece non disse niente, limitandosi a scuotere piano il capo.
«Allora devi solo attendere l’occasione buona.» le sentì dire, col
tono di una che sa già cosa sta per accadere «Fai però attenzione a
non lasciartela scappare».
Forse vedeva nel futuro o magari l’aveva semplicemente intuito;
era una donna, in fondo, e Marco aveva imparato come per certe
cose sarebbe stata sempre più avanti di lui. Sta di fatto che
33
quell’occasione si presentò veramente, proprio quella domenica,
in un marzo più burrascoso del solito. La domenica delle palme.
Sua madre insisteva ogni anno perché ci si recasse, come da
tradizione. Un caso fortuito volle però che sua madre, quel giorno,
dovette restare a letto a causa di una polmonite ostinata. Li fece
andare da soli, quindi, lui e suo padre, con tanto di rametto
d’ulivo in mano, sotto una pioggia costante che non accennava a
diminuire.
Sotto molti aspetti, suo padre era all’opposto della moglie:
sopportava malvolentieri le prediche dei religiosi e si trascinava in
chiesa solo perché c’era costretto. Quella volta, quindi, ne
approfittò senza mezzi termini. Lasciò il rametto d’ulivo a Marco
e, dopo nemmeno dieci minuti di funzione, lo abbandonò in
chiesa, pioggia o non pioggia. Il ragazzo a malapena se ne accorse.
Guardava in direzione dell’ultima fila di panche, col cuore che
batteva all’impazzata. La treccia castana le ricadeva dietro le
spalle, morbida, indifferente agli sguardi ardenti che le lanciava.
Non si era nemmeno accorta che era lì. Ma lui sì, la vedeva
distintamente anche in mezzo alla calca dei presenti. Non seppe
nemmeno cosa successe, per quale ragione nessuno fece caso a
lui; non dovette chiedere il permesso di passare ad alcun uomo,
trovando facilmente lo spazio per muovere ogni passetto, uno
dopo l’altro. Nel giro di pochissimo le era accanto, in piedi,
impegnato a torcere quel rametto d’ulivo tra le dita. L’avrebbe
cambiato con un mazzo di fiori qualsiasi, ma poi non sapeva che
cosa ne avrebbe potuto fare. Si sentiva stupido, sia col suo rametto
che senza, in ogni gesto. Si grattava il naso e il mento troppo
spesso, le mani gli sudavano. Si vedeva? E la osservava, senza
parlare, ansimando per catturare un poco d’ossigeno nell’aria
impregnata di incenso della chiesa.
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Era fermo in quella posizione quando un uomo gli si fece accanto,
anch’egli col suo ramo in mano e un portamento distinto. Era
giovane, anche se non riusciva a stabilirne l’età, e bellissimo, con
quei capelli lunghi e biondissimi, quasi abbaglianti. La pelle
chiara, poi, gli occhi cerulei; Marco si meravigliò che nessun altro
lo stesse fissando. Guardava con dignità e sicurezza verso l’altare,
che riusciva a vedere senza difficoltà, vista la sua statura. Ecco,
quell’uomo non avrebbe avuto difficoltà a rompere il ghiaccio e
parlare con la sua amata Vanessa. Lei, di fronte a una tale
bellezza, non avrebbe nemmeno osato di opporre un rifiuto.
L’uomo però non badava a lei, ripetendo in un sussurro il passo
del vangelo che veniva letto in quel momento. Come la lettura
ebbe termine e tutti si alzarono in piedi per levare un canto al
Signore, si voltò infine verso il ragazzo. In un attimo, in quel
brevissimo istante che separava le prime note dell’organo al
salmodiare dei fedeli, parlò più di quanto un uomo comune
avrebbe potuto.
«Questa è la casa di Dio.» bisbigliò, accostandosi a lui «Dio non
ha mai condannato l’amore. Nulla di sbagliato può nascere tra
queste mura, per chi riesce a travalicarle col cuore e a cogliere il
messaggio che Lui ci ha lasciato. Le tue ragioni sono lodevoli, non
averne timore».
Poi la litania ebbe inizio e tutti, compresi Marco, Vanessa e lo
sconosciuto, vi presero parte. Come la musica finì e ne seguì il
rumore di uomini e donne che tornavano a sedersi, il ragazzo si
voltò verso la ragazza e si accorse che lei stava facendo lo stesso.
Vanessa gli sorrise, salutandolo con un bisbiglio; lui fece lo stesso,
per quanto si sentisse pazzamente annegare.
«Vuoi sederti?» gli disse, muovendosi sulla panca per fargli posto.
Marco guardò quella mano chiara posata sul colore acceso del
legno e annuì. L’aveva fatto per educazione, ma il sorriso caldo
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che aveva in viso diceva di più. Per qualche ragione, della quale
non sapeva darsi risposta, era felice di vederlo lì.
Il ragazzo riuscì a tirar fuori da quella abituale cerimonia qualche
risata, sufficiente a far voltare un paio di vecchie indispettite,
qualche chiacchiera sulla scuola e un “ciao” che gli rimase in
mente anche quando si fu alzata e allontanata dalla chiesa in
compagnia dei suoi. Lui restò lì, con quel ramo benedetto sulle
gambe e le braccia appoggiate sulla panca davanti, ormai vuota.
Guardava davanti a sé, inebetito, senza nemmeno considerare il
flusso delle persone che controllavano gli ombrelli, aspettando
che quelli davanti alla porta si fossero decisi a togliere l’impiccio
per poter passare anche loro. Di colpo, più che una funzione
religiosa sembrava una ressa davanti alla biglietteria di uno
stadio. Marco avrebbe atteso, ripensando alla sua Vanessa e
ripetendosi ogni sua parola. Una mano bianca e gentile si posò sul
suo braccio e, alzando gli occhi, il ragazzo riconobbe il volto di
quell’uomo, che non si era mai spostato dalla posizione iniziale.
«Hai visto che non è successo niente di male?» disse, lasciando
sfilare la gente dietro di sé.
Marco si appoggiò allo schienale, scoprendosi spossato sia
fisicamente che emotivamente.
«Non è per niente facile.» borbottò, passandosi una mano sulla
faccia arrossata «Comunque la ringrazio per quello che ha detto,
prima. Ma come ha fatto a…».
«È facile intuire i pensieri di un giovane che guarda così
vivamente una ragazza.» replicò l’altro, prima ancore che Marco
potesse finire «M’intendo di queste cose».
Il ragazzo lo guardò, trattenendo il fiato: più lo guardava e più non
riusciva a dargli torto.
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«Prendi una copia di questa.» riprese quello, estraendo di tasca
un libro dalla rilegatura preziosa, che Marco aveva avuto modo di
vedere molte altre volte «È la Bibbia».
«Lo so.» rispose Marco, prendendo il testo sacro tra le mani,
senza capire «La conosco».
«Ma non l’hai mai letta.» gli fece notare l’uomo, con la stessa
calma con cui era solita esprimersi Aibhill: c’era però un tono di
autorità, nella sua voce, che non lasciava spazio a repliche «Mi
chiamo Jeliel».
«Jeliel?» fece Marco, cominciando a sfogliare le sottilissime
pagine della Bibbia «È un nome molto strano».
«Appartengo al coro dei Serafini.» aggiunse senza scomporsi,
strappando un’occhiata sbalordita al ragazzo «Non ti farà male
qualche consiglio in più su quella fanciulla».
Il giovane rimase a bocca aperta, con le mani che tremavano sui
caratteri piccoli, a stento leggibili, del libro.
«Verrò a farti visita, in questi giorni. Col tuo permesso,
ovviamente» e chinò il capo con un sorriso, in quello che gli parve
un saluto.
Quando si voltò e si allontanò, Marco sbirciò all’indietro e solo
allora notò, incredibilmente, le bianche ali da colomba che quasi
toccavano il pavimento.
Jeliel fu di parola, addirittura più di quello che ci si sarebbe
potuto aspettare. Marco se lo trovò in camera l’indomani, sulla
parete opposta ad Aibhill. Disse che non c’era da stupirsi, dal
momento che era suo dovere restargli accanto più tempo
possibile. Dov’era stato, dunque, sino ad allora? Perché non
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l’aveva visto in tutta la mattinata? Marco lo ignorava, anche se gli
sembrava assurdo che un angelo avesse da fare altrove.
Il serafino, nella sua squisita gentilezza, non era però un tipo da
fornire molte spiegazioni. Era intransigente e valorizzava ogni
minimo dettaglio; per il suo bene, diceva. Il giovane diffidava un
poco del suo orgoglio, sebbene riconoscesse che i suoi consigli si
fossero rivelati esatti fin da subito. Era la sua vocazione,
d’altronde. Jeliel era lì per Vanessa e non lo nascondeva affatto.
Lei, come ripeteva spesso, rappresentava per Marco la più diretta
forma di ascensione, e quando il serafino decantava quel bene,
quella purezza impalpabile, il cuore del giovane traboccava
d’entusiasmo: quanta verità vi riconosceva.
«Discreto, non parlare di ciò che è basso e sporco; vezzeggiala col
tuo stesso sentimento e intessi un velo di frasi soavi con cui le
cingerai il capo; delicato, sì, sfiora appena la sua mano e non
v’indugiare. Le lettere, un fiore e uno solo; non sembrerai
antiquato. Se non lo fai adesso, quando ancora ti ricapiterà?»
«Dagli ascolto, egli ha ragione» gli diceva la guida che non
smetteva mai di sorridere.
«Nel volger dei secoli, una canzone o una poesia non hanno fatto
certo male. Non ti è difficile vedere dei petali freschi sulle sue gote
o ciliegie mature sulle labbra che agogni. Non c’è niente di
sbagliato nel volerle baciare e stringere quelle mani piccole, che
non t’azzardi a toccare, nelle tue».
«Non v’è alcunché di sbagliato, quando giunge il tempo».
Marco camminava a fianco del suo angelo in un cielo sgombro,
libero come non mai. Aibhill era lì a rassicurarlo ogni volta che
guardava indietro. La sua Vanessa era una ragazza viva ma, come
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lui, respirava quell’alito di immortalità. Jeliel, forse, vegliava
anche su di lei. Questo pensiero lo faceva sentire tranquillo e
colmo di speranze. Il serafino gli dava la dignità per credere in
quello che stava provando; sarebbe stato così per entrambi.
Avrebbero assaporato assieme il loro amore allo zucchero filato:
dolce, candido, che strappa una risata quando si appiccica alle
guance. Realtà e sogni di fantasie fanciullesche si mescolavano,
finalmente, compenetrandosi in un tutt’uno. Non sono neanche
da elencare le porte della meraviglia che si aprivano ad ogni
piccola, appena percettibile svolta, all’aumentare dei battiti che
seguiva ad ogni sguardo distratto gettato verso di lui. Col tempo e
l’esperienza di ogni ora vissuta senza di lei, imparò quanto una
donna, per appena sbocciata che sia, chiede di essere adorata
senza mai ammetterlo apertamente. Lui era dispostissimo a farlo:
avrebbe staccato tutte le stelle del cielo, ad un ad una, se solo
gliel’avesse chiesto.
Marco non seppe mai se la sua dedizione era stata apprezzata o
anche solo notata. Non gli importò più niente nell’esatto
momento in cui lei lo abbracciò con un calore e una morbidezza
che gli erano ancora estranei. Era tutto lì, racchiuso tra le loro
braccia. Non c’era più bisogno di cercare altrove.
Il giovane trascurò felicemente sia Aibhill che il suo nuovo tutore -
perché non si poteva più parlare di amicizia, in questo caso -
occupandosi soltanto di Vanessa. Loro erano sempre al loro posto:
era lui a essere lontano. Il mondo materiale, fisico, guadagnava
ogni giorno qualche centimetro sulla sua immaginazione. Ci
vollero mesi, però, perché le dita della ragazza divenissero
veramente carne, e così il suo viso, i piccoli piedi e le primizie del
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suo corpo. Fu un periodo di amore promiscuo, in questo senso:
dalle tenerezze senza fine si accorse di passare bruscamente ad
una fisicità totale, che più di una volta gli strappò un gemito e un
ansimo. Si sentiva febbricitante, come ebbro, quando le era vicino,
e ai sospiri dell’innamoramento si sostituiva una confusione che
scuoteva le membra e le tempie.
Quando, un sabato pomeriggio, si ritrovò senza di lei, non trovò
niente di meglio che chiudersi nella propria camera. Ci si
precipitò, più propriamente, sedendosi a gambe incrociate sul
letto e premendo i pugni chiusi sulle labbra. Nessuno dei suoi due
compagni aveva aperto bocca. Lui li guardò uno per volta, con gli
occhi schiacciati sotto le sopracciglia in un’espressione nervosa.
«Ho bisogno di porvi una questione.» disse, gretto, arricciando il
naso «Dovete rispondermi».
«Non adesso» replicò con durezza il serafino.
Marco sbatté le palpebre, rialzando la testa.
«Cos’è questa storia?» sbottò «Fino a ieri non facevi altro che dare
consigli e adesso ti rifiuti?» voltò il capo verso la dama spettrale,
come a cercare una smentita «Aibhill?».
«Non è il momento, Marco.» rispose quella, con tono dispiaciuto
«La tua mente è offuscata».
«Se non lo fosse, non sarei qui!» ribatté con più foga il giovane.
Aibhill abbassò gli occhi sul pettine che scorreva tra i capelli,
lisciandoli con la consueta accuratezza.
«Una volta restavi con noi - con me, Jeliel, e prima ancora con
Giangi e Fin - solo per il piacere di essere in nostra compagnia.»
riprese «Ora, se ci siamo solo noi, avverti la mancanza di
qualcosa».
Il giovane sentì un sussulto ghiacciato scuotergli la spina dorsale.
La vena sulla sua fronte si fece gonfia d’ira.
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«Non resterò qui a sentirmi dire di scegliere tra voi e Vanessa!»
ruggì, battendo un pugno sul materasso.
«La tua rabbia porta solo alienazione.» gli fece notare Jeliel, col
cipiglio che aveva ogni volta che cominciava una predica «Non ti
farà ottenere niente né da lei né da noi».
«Nessuno ti ha detto di rinunciare a lei.» aggiunse Aibhill, con
quella voce morbida che pareva esprimere la quiete stessa «Devi
soltanto calmarti. Svagati e riposati: ti abbiamo sempre aiutato, se
ben ricordi».
Marco saltò giù dal letto e si fermò ad osservare la luce che filtrava
attraverso la finestra sopra il letto e si arrese. Fece un breve cenno
di assenso ai due e uscì dalla stanza, deciso a sotterrare quel senso
di furore che gli impediva di pensare.
Eppure era destino che dovesse fermarsi a riflettere da solo, senza
nemmeno la loro compagnia. Così era stato per Jeliel, in un certo
senso. Per la stessa ragione, quando nella tarda serata trovò la
porta della chiesa ancora aperta, non credette minimamente che
si trattasse di un caso. Tastando all’interno del giacchetto, scoprì
persino la sua Bibbia, che normalmente non teneva mai lì. Furono
quelli gli spunti che lo indussero a entrare, segnandosi
rispettosamente. Il luccichio sul viso di un putto che sormontava
una colonna parve occhieggiargli dall’alto. Curioso: non lo aveva
mai notato, prima di allora, e in quel momento gli diede
l’impressione che fosse un piccolo Cupido, piuttosto che un
semplice angioletto. Fece due passi e le sue scarpe echeggiarono
nella vastità di colpo immensa della chiesa vuota. I candelieri di
ferro battuto davano l’idea di esser più alti del solito e
producevano tenui fiammelle: di giorno gli erano sembrate solo
semplici lampadine dalla forma allungata. Nell’aria non si
respirava il consueto incenso, ma un odoraccio che non conosceva
e non sapeva nemmeno dire da dove provenisse. Con la coda
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dell’occhio intravide un uomo inginocchiato nella prima fila delle
panche: un frate, chiaramente, col guizzo scuro del cappuccio che
gli copriva la testa, ma voltandosi non scorse nessuno. Qualcuno
intimò il silenzio in un sussurro e subito dopo un altro cercò
invano di sopprimere un colpetto di tosse. Voci e bisbigli si
susseguivano timidamente, sollevandosi sino all’affresco sul
soffitto, sopra l’altare. Ed ogni passo stentato, tuttavia, echeggiava
al di sopra di tutto e imponeva il silenzio, ricordando quanto il
giovane fosse solo. Qualcosa passò dietro di lui, di corsa, e ne ebbe
la certezza. Una bambina, chiaramente, a giudicare dalle sue
maniere impacciate. Non si fermò nemmeno a guardare,
consapevole che non avrebbe trovato niente, ma l’immagine di
due ciuffetti biondi e dei nastrini bianchi che ondeggiavano
appena gli rimase intrappolata nella mente. Una nota d’organo si
fece sentire, come se qualcuno avesse toccato per sbaglio la
tastiera, e le foglie di una felce appoggiata alla parete si mossero
per un filo di vento che non aveva ragione d’esser giunto fin lì.
L’aria fredda della chiesa era viva, però: un enorme polmone che
si gonfiava e si restringeva ritmicamente, facendo tremolare le
fiammelle. Fece attenzione, ma non udì la nenia di Aibhill, che
una volta l’aveva indotto a confondere la sua voce con il vento.
Non sarebbe dovuto entrare, immaginò, e per questo si diresse a
passi svelti verso l’uscita.
Per tutto il tempo, ebbe la sensazione che la chiesa fosse piena di
sguardi severi puntati su di lui, come se avesse abbandonato
improvvisamente una messa o pronunciato qualche blasfemia:
vecchie, famiglie, il parroco e persino la bambina, con gli occhi
stupiti di chi non aveva capito e una mano stretta alla gonna della
madre. Una campanella tintinnò, facendolo voltare, e un bagliore
leggero si stese su una parete per un attimo. Un verde prezioso,
pari a uno smeraldo sotto le luci di una vetrina, l’aveva
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richiamato. Marco si fermò, strofinandosi le braccia per scacciare
il freddo e la paura; aveva la sensazione che la porta si sarebbe
chiusa davanti a lui, sbarrandogli la strada, se non avesse
affrontato i misteri di quella chiesa. Non era entrato
accidentalmente lì dentro: se l’aveva fatto, significava che tutta
quell’atmosfera nasceva e moriva per lui. Non avrebbe potuto
rifiutarla neanche volendo, nemmeno cedendo al più basso
impulso del terrore.
Per farsi coraggio, si avvicinò all’acquasantiera e vi immerse
nuovamente le dita. Le ritrasse un attimo dopo, con uno scatto,
quando scoprì che era vuota. Le gocce con cui si era segnato poco
prima divennero gelide sulla sua fronte e toccandole poté sentire
la loro umidità sui polpastrelli. Avrebbe voluto richiamare a sé
Aibhill e Jeliel, ma nessuno avrebbe potuto rispondere in quel
luogo. Un senso di innaturalezza, di negazione assoluta di ogni
ordine, gli si avvinghiò alle ossa. Il bagliore comparve ancora e
stavolta scivolò dalla fessura sotto la porta in cinque sottili strisce.
Restavano sul pavimento, eppure le vide muoversi e acquistare
consistenza. Cinque dita sottili, da ragno, giravano su sé stesse,
invitandolo con un cenno suadente. Marco si avvicinò con
titubanza, rendendosi effettivamente conto di come in realtà non
avessero volume e restassero adagiate sul pavimento di marmo.
Ma si muovevano, eccome se lo facevano. Badò a non calpestarle
quando fu davanti a loro e alzò gli occhi da esse alla porta.
Somigliava in tutto e per tutto al portone esterno della chiesa, ma
era meno imponente. Soprattutto, il giovane era certo che prima
di allora non c’era mai stato.
Non trovò maniglie da girare, per cui premette la porta con le
mani. Si aprì a fatica e, abbassando lo sguardo, non poté capire da
quale spiraglio le dita fossero uscite: il legno scricchiolava contro
il pavimento, minacciando di spaccarsi ad una pressione troppo
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forte. Si accontentò di uno spiraglio in cui sgusciare e subito lo
sorpresero le torce agganciate alle pareti, accese. Il tempo avrebbe
dovuto consumarle. Sempre che qualcuno non fosse sceso di
recente. Sceso, già, perché la prima cosa che riconobbe furono i
piccoli gradini, alti e poco spaziosi, tanto che c’era da aver paura
di cadere. Li discese con cautela e le gambe che gli tremavano:
davanti a lui, a pochi metri, già poteva vedere una lastra di pietra
circondata da un piccola recinzione scura. Tutt’attorno, pareti di
pietra grezza. Una nuvola di vapore gli sfuggì dalle labbra,
andando a perdersi nel fumo delle torce, che non bastavano a
scaldare l’ambiente. Aveva logicamente letto di stanze del genere,
ma non gli risultava affatto che sotto la sua chiesa vi fossero delle
catacombe. Si avvicinò alla lastra, socchiudendo gli occhi per
leggere le parole che vi erano scritte, senza riuscirvi. Sarà stato per
un gioco di luci, ma le lettere gli davano l’impressione di
contorcersi e avvolgersi sino a quando i suoi occhi non si
incrociavano. Neanche riuscì a scorgere una data di nascita e di
morte sul coperchio di quello che, comunque, era sicuramente un
sepolcro.
Le sue scarpe non facevano rumore, attutite da uno strato di
polvere secolare su cui non vedeva impronte di alcun genere. La
statua di un uomo in piedi, con un bacile nelle mani aperte,
catturò la sua attenzione: i lineamenti del suo viso erano duri,
arcigni. Non accettava un’offerta, ma la esigeva. Colto da un senso
di panico, si tolse di tasca tutto quello che aveva (un pacchetto di
fazzoletti e uno di gomme da masticare) e lo lasciò nel bacile. Non
successe niente, eppure Marco era sicuro di aver fatto la cosa
giusta. Se non avesse lasciato niente, allora sì che qualcosa
sarebbe accaduto.
Avanzò tra lastre conficcate nella pietra e ferite, ormai vuote, che
dovevano esser state scavate nella roccia sino al punto da farvi
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entrare un corpo. Non seppe dire quanto camminò, ma lo fece
fino a quando quel senso di paura non svanì, sostituito da uno
stancante nervosismo. La polvere sotto i suoi piedi si diradò
davanti all’ultima apertura e fu allora che il panico si impadronì
nuovamente di lui, feroce come mai l’aveva conosciuto. La sala in
cui si ritrovò era immensa, al punto da ospitare un altro tempio.
Alto, troppo, tanto da eguagliare la stessa chiesa: non poteva
essere contenuto in quelle catacombe così poco profonde, tuttavia
si slanciava in guglie di cui non riusciva a vedere la fine e sopra di
esse, in alto, vi era ancora la pietra della caverna. Un tempio
dentro un altro tempio, racchiuso in uno spazio che non aveva
ragione di esistere. Maestosi molossi di bronzo erano acquattati
all’entrata e fissavano a fauci spalancate il visitatore.
Innumerevoli altri volti scolpiti sulla facciate, sopra il portone,
sotto le vetrate, lo analizzavano con ghigni grotteschi, simili a
maschere da teatro greco. Non si udiva alcun sussurro, stavolta,
ma una corrente fredda circolava tutt’attorno, senza un’origine.
Ebbe l’impressione di vedere altri visi in quelle folate nebbiose che
accerchiavano la struttura e sparivano dietro di essa in un vortice
eterno.
Guardando a terra, riconobbe quelle dita d’un verde acceso,
smisurate, che venivano gradualmente risucchiate sotto il portone
del tempio. Come furono svanite del tutto, il portone stesso si aprì
e nuovi guizzi di nebbia uscirono, andando a rimpolpare la scia
incorporea. Esitò, e gli parve di leggere un segnale di vita nelle
due statue di molossi. Senza perder altro tempo, si avviò quasi di
corsa verso l’interno del tempio.
Lo trovò vuoto, scarno, privo degli orpelli di cui, visto da fuori,
sembrava esser stracolmo. Senza alcuna ragione, deboli raggi
colorati provenivano dalle vetrate: fuori non c’era però alcuna
fonte che potesse proiettarli. Nuovamente, si trovò immerso nel
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vuoto, e stavolta nel silenzio completo. I suoi passi facevano un
rumore grave che gli ricordò i rintocchi funebri di una campana
antica. Non c’era un’immagine né una scultura in quel luogo. Solo
un semplice altare, nulla più che un tavolo di pietra, e poi
nient’altro che massicce colonne: la sala era pulita, tanto da non
sembrare abbandonata, e densa di ombre che vincevano
facilmente l’irrisoria illuminazione che passava dalle vetrate. Su di
esse vide figure che non conosceva, ferme; gli trasmettevano un
senso di ineluttabilità e si sentì improvvisamente sotto giudizio.
«Ma chi o cosa mi giudica?» chiese a voce alta, passando da una
vetrata all’altra «Chi, se non so nemmeno dove mi trovo e come
ho fatto ad arrivarci? Questa dimensione non esiste, non può aver
luogo».
«Non nella concezione comune delle cose».
Marco si voltò di scatto verso l’altare: la voce maschile che aveva
udito proveniva da lì, l’aveva capito, anche se era poco più di un
sussurro venato di maligna vanità. Su di esso scorse gli stivali a
punta in pelle di coccodrillo e da lì risalì lungo i pantaloni di seta e
la cintura larga, su per la giacca aderente il panciotto rosso, sino al
colletto ricamato della camicia e a quel viso, nero come la
fuliggine e lucido, senza la minima increspatura: ebano intagliato
in lineamenti affilati. I capelli erano crini d’argento, ma ben più lo
inquietavano gli occhi e quel sorriso. Non erano iridi e non erano
denti: topazi scintillanti spiccavano sotto le sopracciglia e due fila
di diamanti brillavano tra quelle labbra d’ossidiana. Era insieme
carne e fulgore di gioielli.
«Supponi che tutto questo altro non sia che un cassetto contenuto
dentro la tua mente e la tua anima.» proseguì l’essere «Un gioco
di scatole cinesi, l’una dentro l’altra» e mimò quel gesto con le
dita lunghe e agili.
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Marco le seguì inorridito. Turchesi, rubini e ametiste erano le sue
unghie, lisce e levitate: vi scorse anche il riflesso smeraldino che
l’aveva guidato fin laggiù.
«Non ci sarebbe dunque un altro te stesso dentro di te?»
domandò intanto l’essere.
Il giovane comprese ciò che gli avevano suggerito le figure sulle
vetrate: era chiamato a rispondere, che lo volesse o meno.
«In questo caso sì, credo di sì.» disse, incerto «Ma non capisco
perché sono giunto sino qui».
L’essere parve ignorare la sua richiesta di chiarezza.
«E non avrebbe allora ragione di esistere un’altra scatola
racchiusa nella tua fede?» continuò invece «La fede giunge dalle
parole degli uomini; uomini come te, che portavano in seno il
tesoro delle proprie proibizioni. Come nella fede, così
nell’amore».
Marco dovette sforzarsi per riuscire a seguire i concetti che gli
venivano esposti.
«Il tuo modo di intendere la fede e l’amore provengono da Jeliel»
fece l’essere, tranquillo.
«Come sai tu di Jeliel?» il giovane trasalì: era la prima volta che
qualcuno nominava i suoi compagni o fratelli, come li aveva
definiti Aibhill.
La creatura sorrise generosamente, tanto che il giovane si accorse
che i diamanti che fungevano da canini erano molto più lunghi del
normale e particolarmente aguzzi.
«Egli abita questo luogo assieme a me. È sempre il primo a
separarsene e lo fa troppo a lungo. Non si rende mai conto che
così facendo libera anche me».
«E non dovrebbe farlo?» chiese Marco, studiandolo.
L’altro si sedette meglio sull’altare, prendendosi un ginocchio tra
le mani.
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«Io e Jeliel restiamo premuti negli anfratti di quelli come te per
lungo tempo.» spiegò «Vegliamo e aspettiamo sino a quando i
tempi non si presentano maturi e giacciamo nel solito
fondamento: un principio scisso e inscindibile nel cui ventre
nasciamo e moriamo».
Il ragazzo si passò una mano fra i capelli, sperando così di
scacciare il mal di testa che gli stava venendo.
«Parli troppo oscuro» mormorò, e la sua stessa voce gli giunse
distorta.
«La sostanza dei sogni è fumosa.» disse l’essere con indifferenza
«La sostanza dell’amore è fisica e carnale. Dovresti chiederti
meglio chi è Vanessa e cosa ti aspetti da lei».
Marco non si stupì del fatto che la conoscesse: probabilmente,
l’aveva vista, esattamente come aveva fatto il serafino.
«I tuoi contorni mi appaiono meno definiti» borbottò il giovane,
che cominciava anche a perdere il filo del discorso.
«Perché sei vicino al risveglio e non puoi farci niente.» sussurrò la
figura sempre più evanescente «Domani parla pure a Jeliel.
Diglielo. Kobal, è stato lui. Kobal, l’Esteta, mi ha trascinato
quaggiù. Sorridi al nuovo giorno».
Ebbe l’impressione di afflosciarsi al suolo; un secondo dopo,
distinse la voce della madre che gli urlava di alzarsi o avrebbe
fatto tardi a scuola.
Le ore del mattino si trascinarono con una fatica ancora
sconosciuta, come se dovessero portare con sé la mole di quel
groviglio di pensieri. Vanessa gli rimbalzava in testa
continuamente, facendogli smarrire ogni barlume di attenzione:
non c’era formula, autore o chiacchiera da intervallo che riuscisse
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a guadagnarsi una briciola della sua considerazione. Vanessa
Vanessa Vanessa. Vanessa e la treccia sulla nuca; Vanessa e la
pelle chiara; Vanessa e le mani sottili; Vanessa e gli occhi di brace
con cui lo fissava; Vanessa e la linea gentile del collo, sfiorata
appena da qualche capello ribelle, lì dove si conficcherebbero i
denti di diamante del vampiro per innaffiare i suoi fiori di loto che
imbalsamano i sensi. Sapeva bene chi era l’artefice di quelle sottili
speranze, disegni pungenti che gli trafiggevano il cranio e il
respiro. Lo trovò seduto sulla scrivania, nella stessa posizione in
cui l’aveva sognato sull’altare. Kobal sorrise accondiscendente nel
vederlo entrare; Jeliel, a braccia conserte, non nascondeva il
proprio sdegno.
«Cosa significa?» disse subito «Non dovrebbe essere qui».
«O non dovresti esserci tu? O dobbiamo esserci entrambi?»
ribatté subito il vampiro: godeva di una spudorata malizia nel
provocarlo a quel modo, era palese.
Il serafino non rispose: doveva aver già udito quelle repliche
un’infinità di volte nella sua esistenza. Marco guardò allora
Aibhill, che manteneva la sua quiete, col pettine che scioglieva i
nodi, ancora e ancora.
«Tu cosa ne pensi?» le domandò «Mi è apparso mentre dormivo».
«La sua dimora, infatti, sono le parole che non si osano proferire,
che si pensano e si sognano nella solitudine.» disse, spostando
gradualmente lo sguardo su Kobal «Mi aspettavo che si sarebbe
fatto vivo, dopo Jeliel».
Marco si buttò sul letto, pensoso: Aibhill, per una rarissima volta,
non aveva risposto direttamente alla sua domanda.
«Dovremmo tenerlo con noi?» chiese più espressamente.
Il serafino lo fissò severo, ammonendolo chiaramente a non farlo;
l’Esteta non fece una mossa, come se la questione non lo
riguardasse. La dama spettrale, infine, tirò un sospiro melodioso.
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«Egli non può essere rifiutato. Se lo cacci adesso, tornerà domani
e così via, sino a quando dovrà essere.» disse tranquilla «Non è il
tuo tempo, stavolta, per decidere. Come non lo è stato nel caso di
Jeliel».
Il giovane rimase ad accarezzare i propri dubbi in silenzio. Era
sempre stata esclusivamente la sua volontà a decidere cosa fare,
dove andare e a chi unirsi. Adesso questa decisione non spettava a
lui: si sentì spaccato in due, sballottato ora da un lato ora
dall’altro. Era ancora padrone di sé, ma gli venivano fornite due
risposte, del tutto discordi tra loro, per ogni domanda.
Vezzeggiala e fatti vezzeggiare, sacrificati e sacrificala, sii gentile e
pretendi, aspetta e esigi tutto quanto subito. Di volta in volta,
doveva barcamenarsi per restare in equilibrio e non perdere il
controllo di sé e, di conseguenza, di Vanessa. Fino al punto in cui
distinguere Jeliel da Kobal divenne un’impresa. Non sapeva dire
se quello che le offriva era sufficiente e se quello che gli veniva
corrisposto era degno della sua attenzione. L’Esteta lo glorificava,
faceva in modo che lui ottenesse soddisfazione per i suoi desideri.
Tra i continui avvertimenti del serafino a non ascoltarlo, gli
insegnò comunque cosa poteva fare a meno di nascondere: Marco
ascoltava e valutava da solo. Kobal gridava all’estremo, Jeliel
all’estrema moderazione.
«Dà retta a me, che le donne le conosco» diceva Aibhill in tono
materno ed alla fine era sempre da lei che tornava.
Lei era l’ago della bilancia che faceva pendere ora da una parte ora
dall’altra. Ma era difficile, oh se lo era, dividere nella maniera
giusta e accettare o respingere un consiglio. Capitò di rifiutare
quello che era corretto nei confronti di Vanessa o di ricevere
volontariamente meno di quello che gli era dovuto. Ognuno dava
quello che poteva e voleva, e questa fu la scoperta più importante
che fece in quel periodo. Se esistevano concetti di giusto e
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sbagliato, se qualcun altro li aveva definiti, non significava che lui
avrebbe dovuto tenere conto solo di uno dei due. Reprimere un
impulso non significava vietarsi di cedere ad un altro. Per
sfibrante che fosse, era l’unico modo per arrivare a comprendere
qualcosa di sé stesso e di Vanessa.
«È più importante sapere cosa vuoi tu.» suggeriva Kobal, col suo
ghigno eterno stampato sul viso scuro «La chiave della felicità ce
l’hai tu, non lei».
«Se non sai cosa vuole, non puoi aspettarti di farla felice.» si
contrapponeva Jeliel «Se lei non è felice, non lo sei nemmeno tu».
«Vanessa è un nome che mi parla di vaghezza».
«Lei richiede la tua purezza, tutto il resto è solo un
complemento».
Poi, di colpo, tutto perse di valore. Il prezioso cristallo di Boemia
cadde per terra, si infranse e non fu più niente, a parte un
mucchio di cocci con cui uno poteva farsi male. Una parola
sbagliata, un gesto, una lite, il troppo egoismo o l’asfissiante
premura, magari semplicemente uno sguardo buttato altrove. La
causa non aveva importanza. Ciò che contava era soltanto che
tutto andava in frantumi, tornava al nulla originario. Di punto in
bianco o giorno per giorno, un lento sgretolarsi o uno scivolone;
accadde, a dispetto di tutte quante le illusioni, e Marco se ne tornò
a casa per confrontarle. Ombra di sé stesso, le guardò una ad una:
Aibhill per prima. Lei capì subito, al primo sguardo, e per un
attimo, solo un attimo, la sua mano si arrestò e nella camera
regnò il silenzio assoluto. Subito dopo giunse il suo singhiozzo e
Aibhill chinò il capo. Marco non le chiese niente, mentre il pianto
sommesso della dama spettrale riempì ogni angolo della stanza,
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identico a quello che si era fatto sentire al colle, quando le rovine
si erano trasformate in un labirinto e Giangi aveva cessato di
esistere. Il giovane alzò gli occhi verso la finestra e andò a sedersi
sul letto, dove congiunse le mani per riflettere.
Quando sollevò il viso, guardò sia Kobal che Jeliel, che non
avevano dato segno di mutamento alcuno. Le ali del serafino si
muovevano appena, indifferenti; il vampiro accarezzava le proprie
unghie una per una, fissandole intensamente.
«Mi avete consigliato per lungo tempo.» disse il giovane «Adesso
ditemi perché è accaduto. Fornitemi una spiegazione valida».
Aibhill si lasciò andare ad un grido che innalzò la tensione che già
si respirava nella camera.
«Le donne vanno e vengono, ragazzo.» fece Kobal, distogliendo
l’attenzione dalle pietre preziose alle estremità delle sue dita «Ce
ne sono così tante, in giro: inutile soffermarsi sulla prima solo
perché non accetta i tuoi desideri».
«Non ha accettato i suoi desideri più turpi, è diverso.» ribatté
duramente il serafino, guardando l’avversario «Quelli che tu gli
hai instillato».
«E se anche fosse?» Marco strinse le mani sulla coperta, rabbioso
«Dov’è la tua gentilezza, la tua bontà d’animo? Avrei dovuto
rinunciare a un braccio, se mi avesse chiesto di tagliarmelo?».
«Ti avevo messo in guardia.» gli rispose Jeliel, austero «Devi
rinnegare quello che ti è alieno per natura. La tua anima è buona,
non avrebbe dovuto lasciarsi corrompere dalle nefandezze».
«In questo momento le sento mie più dei tuoi santi propositi.» si
portò una mano sul petto «Chi ti dice che non sia questa la mia
autentica natura?».
«Io so solo chi ti ha convinto che lo sia.» il serafino voltò il capo
verso l’Esteta, che fece finta di non accorgersene «Guardati, non
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fai altro che scagliare fulmini di rabbia. Ti lasci accecare, anziché
pentirti ed essere dispiaciuto».
«Io non voglio essere dispiaciuto!» gridò il giovane, azzittendo per
un attimo persino Aibhill.
Quando il suo pianto riprese a dominare ogni suono, divenne fin
da subito più alto, uno spillo che passava da un orecchio all’altro.
Marco, in preda all’ira, non pareva nemmeno sentirla, ma Jeliel
tremò visibilmente e non seppe come rispondere al suo protetto.
«Non può essere anche colpa sua, vero? No, assolutamente no.»
continuò il ragazzo, dando sempre più spazio a quella cattiveria
che sentiva fibrillargli nelle vene «Sono io a dovermi pentire,
indipendentemente da quello che ho fatto. Penitenze e rinunce:
ma per cosa?»
«Per guadagnarti…» provò Jeliel, solo per venir interrotto dalla
foga del giovane.
«Niente! La tua benevolenza non è bastata a tenerla con me!»
sbottò Marco «Dovrei annullare me stesso, ogni pensiero, fino a
trovare un’altra ragazza che non si faccia portare via dalla
corrente? Restare qui, aspettare e accumulare dolore finché la mia
mente non collasserà del tutto?».
«E dove credi di andare senza virtù?» replicò il serafino «Nessuno
si fiderà di te, se rifiuti tutto ciò che è giusto in nome di un piacere
falso, che compiace soltanto te».
I vetri vibrarono allo strillo disperato di Aibhill, che rendeva
impossibile captare qualsiasi altro rumore. Marco urlò con quanto
fiato aveva in gola, ma nessuno poteva sentirlo. Jeliel lo osservò,
fermo sulla sua parete, sino a quando non abbassò gli occhi
azzurrissimi sulle sue labbra e vi lesse le parole che lo maledivano
e lo cacciavano. A testa alta, gonfio d’orgoglio, il serafino mosse
per la prima volta un passo, avvicinandosi al quadrato di luce che
passava attraverso la finestra. Senza esitare, vi si gettò dentro e le
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sue carni bianche parvero irradiare quella stessa luminosità,
abbagliando tutti i presenti. La sua figura scomparve del tutto;
solo due candide piume di colomba volteggiarono piano, girando
su sé stesse, prima di stendersi sul pavimento, nel silenzio.
Kobal rimase al suo posto, col solito sorrisetto traditore che
brillava sul viso d’ebano. Fu il compagno più vicino a Marco nei
giorni immediatamente successivi alla separazione da Vanessa.
Seppur indirettamente, lo aiutò a superare quel momento
instillandogli una buona dose di disprezzo incondizionato, che a
suo modo lo aiutò a sostenersi. La libertà non aveva prezzo, in
fondo, e un nuovo orizzonte si spiegava di fronte a lui: da rapace,
avrebbe potuto buttarsi in picchiata contro la preda, divorarne i
resti e passare ad un’altra. Una strada che garantiva la sazietà, a
prima vista, ma che lo stesso Marco non riusciva a vedere molto
fattibile. Erano congetture che costruiva e progettava da solo, con
un tale accuratezza nei particolari che arrivava a renderle concrete
e palpabili. Kobal lo rimise su una via che aveva quasi
dimenticato, quella che dalla camera conduceva altrove. Da lì
percorreva le strade della città e i corridoi della scuola in
compagnia di Aibhill e del vampiro, scrutando nei volti di tutti
quelli che sfilavano ininterrottamente davanti a lui. Di fatto, non
era più come una volta: non c’erano altre terre da scoprire, ma
molti luoghi da approfondire, dettagli da mettere in risalto. In un
angolo polveroso, che ogni giorno gli cascava sotto lo sguardo, si
aprivano porte che non avrebbe mai notato; la sua percezione si
ampliava, penetrava quei pochi centimetri vuoti e banali, lo
portava a interessarsi alla formica che li percorreva o al
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mucchietto di polvere che vi si aggrappava, sospinto dal vento che
passava attraverso la finestra mezza chiusa.
Kobal non approvava: parlava di dominio, di fisicità. Non poteva
apprezzare quell’attenzione maniacale per particolari
insignificanti, nei quali tuttavia Marco riusciva a trovare la pace e
l’equilibrio. Come si rese conto che il giovane gli stava sfuggendo,
il vampiro si ritrovò spaesato e inascoltato. Non era questo il
modo per vincere, per trionfare sugli altri, diceva. Il ragazzo
scoprì che non gli interessava. Di Vanessa aveva amato forse una
minima sfaccettatura e aveva visto soltanto quella, senza andare
oltre. O, al contrario, magari aveva trascurato proprio
quell’aspetto infinitesimale, che era bastato a far crollare tutto il
suo castello di carte. Conoscere una persona o la realtà senza vita
di un angolo polveroso diventava impossibile, un’impresa per cui
non sarebbe bastata una sola vita. Marco riusciva ad accettarlo;
Kobal no. Aibhill taceva, ma la sua espressione era ben lontana
dalla dolcezza. La sua freddezza, per quanto non pareva posarsi su
nessuno dei due in particolare, non lasciava prevedere nulla di
buono: il giovane conservava brutti ricordi dei momenti in cui
Aibhill cambiava atteggiamento.
Non seppe dire perché rimase sveglio così a lungo, una notte: gli
capitava di tirar tardi, naturalmente, ma non c’era nulla di
eccitante a impedirgli di prender sonno. Nella stanza, con solo
un’abatjour accesa vicino al letto, ogni contorno acquistava un
aspetto nuovo. Come la luna è la seconda faccia del sole, così ogni
oggetto, di notte, acquistava una connotazione diversa rispetto al
giorno. Kobal era un frammento di tenebra in mezzo alla tenebra
stessa e solo le sue unghie, i suoi occhi e i suoi denti spiccavano in
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quella cappa d’ombra che si era stesa sulla scrivania; di quando in
quando, si intravedeva la punta di uno stivale appuntito. Aibhill
non aveva inizio né termine: il suo corpo inconsistente accoglieva
solo un barlume, simile ad un tramonto rovente, nel quale non si
distingueva altro che la mano, il pettine e i lunghi capelli. Tutto il
resto era un velo invisibile. Marco la spiava ardentemente: quel
che non vedeva lo intrigava più di ciò che non riusciva a scorgere
in alcun modo. Ascoltava lo scorrere del pettine e lo seguiva fino a
quando il suo occhio non si perdeva nel buio, per poi ricominciare
daccapo, ipnotizzato da quella percezione magica e irreale. Un
vago senso di vertigine lo assaliva ogni volta che rialzava il viso,
facendosi sempre più reale. Il vampiro se ne accorse quasi
immediatamente. Sopportò senza parlare, per quanto i suoi
lineamenti nascosti si inasprivano ogni minuto che passava. Alla
fine non resistette più.
«Non posso star qui ad osservare un miserabile che si strozza da
solo.» esclamò, stizzito «Ti si è occluso il cervello, ragazzo?».
Marco lo guardò senza rispondere: entrambi, al solito,
conoscevano le domande che si sarebbero posti e le risposte che si
sarebbero dati.
«Ti trastullerai ancora a lungo con questa immaginazione
insensata?» insistette Kobal, carico di ripugnanza «È come
riempirsi lo stomaco con la fame, pazzo. Sono i tuoi pensieri che
mangi e tocchi, povero idiota? Ti sazierai ancora con i tuoi angoli
polverosi e le fantasie che ne deriveranno, stando rinchiuso in
questo loculo?».
Il giovane non fece una grinza: sentì che la propria espressione era
mutata sino ad assumere quella gelida di Aibhill.
«Questa stanza è una tomba! Dentro la tomba giacciono ossa e
corpi senza vita: io lo so, li ho visti tutti e ho chiuso il coperchio di
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molti dei loro sepolcri. È questo che vuoi diventare, ragazzo: un
mucchio d’ossa ammuffite, votate solo alla loro lenta corruzione».
Marco si sistemò meglio sul letto, puntellandosi con un gomito.
Spostò l’abatjour per illuminare meglio il viso del vampiro e lo
esaminò con attenzione.
«Hai trascorso tu stesso l’eternità in una cripta senza sbocchi.»
ribatté finalmente «Io ho imparato ad aprire i sarcofaghi che tu
credi di aver sigillato definitivamente. Spesso un morto e
un’illusione hanno più parole da dire di un uomo vivo.» si fermò,
rimettendo a posto la lampada «Senza Jeliel, hai meno senso di
quanto ne aveva lui da solo, come leggere un libro al contrario».
L’Esteta non rispose, o forse Marco si addormentò prima di
sentire la sua risposta.
Kobal strizzò un occhio, infastidito da una goccia che, pur col cielo
sereno, gli cadde sulla guancia. Scosse la testa, stranito: non aveva
mai avuto bisogno di dormire, eppure si era assopito. La sola idea
che fosse potuto accadere lo terrorizzò. Fece per alzarsi, ma le sue
gambe si dimenarono a vuoto: la sua schiena era premuta contro
un palo di ferro, probabilmente il lampione del cortile. Le braccia
si flessero, solo per trovare attorno ad esse solidi legami che
impedivano qualsiasi movimento. Il vampiro urlò e scalciò,
dibattendosi nel vano tentativo di allentare i nodi. Una brezza
sottile rispose alle sue invocazioni. Aibhill era in piedi davanti a
lui, con le labbra socchiuse quanto bastava per dar voce a poco più
di un alito.
«Perché mi trovo qui?» chiese rabbiosamente il vampiro.
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La dama spettrale parve non ascoltarlo; Kobal diede uno strattone
più vigoroso, col solo risultato di sentire il dolore straziargli le
braccia e il torso.
«Strega!» inveì allora «È stato un tuo incantesimo! Tu mi hai
portato qui! Quando mi libererò faremo i conti: non ci sarà luogo
dove potrai nasconderti!».
Aibhill non gli dava il minimo peso. Non si azzittì nemmeno per
un istante, interrompendo i suoi movimenti solo per alzare un
braccio e indicare col pettine la linea delle montagne, evidenziata
da un chiarore appena accennato. Kobal sgranò gli occhi,
spalancando la bocca in un urlo di orrore. Si contorse come
meglio poté, disperato, intanto che il suo peggior incubo prendeva
forma in un alone rosato. Un raggio trovò improvvisamente il
modo di affacciarsi, andando a trafiggere le tenebre che ancora
tentavano di sopravvivere alla luce; l’ombra di un albero si stese
sul selciato. Il vampiro soffiò come una belva, voltandosi verso
Aibhill, che si portava lentamente al sicuro. Gridò, la maledisse
nel nome di tutti i demoni che conosceva, mentre i suoi vestiti
cominciavano a fumare. Le sue ingiurie persero forma quando la
carne nerissima si fece opaca e cominciò a screpolarsi come la
terra durante la siccità. Gli abiti e i capelli bruciarono,
disperdendosi come fuliggine al soffio del debole venticello.
Continuò ad agitarsi anche quando il suo viso ormai sfigurato si
reclinò di lato: l’alba si era stesa sulla città sonnolenta e i legami
ricaddero al suolo, sopra il mucchio di cenere che un tempo era
stato Kobal l’Esteta. Le gemme che erano state il suo splendore
restarono lì, ai piedi del lampione, prive di lucentezza, se non per
le due lacrime che Aibhill vi aveva versato sopra.
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L’indomani, Marco si decise a riordinare quella stanza, a partire
da “tutto il ciarpame che tieni sotto il letto”, come aveva detto sua
madre. Il giovane aveva così alzato la coperta e, seduto a gambe
incrociate sul pavimento, sfogliava i giornali e le riviste che si
erano accumulate negli anni. Aibhill se ne stava appoggiata alla
parete, senza più quell’espressione dura sul viso. Non disse niente
riguardo a Kobal, né il ragazzo gli chiese spiegazioni. Con un
sospiro, Marco prese nelle mani un pacchetto di giornali e si
sedette sul letto, al suo posto. Sfogliò rumorosamente le pagine
stropicciate; le copertine che non erano già staccate gli rimasero
in mano al primo tentativo di aprirle. Il giovane stiracchiò un
sorriso.
«Sembra che siamo rimasti di nuovo tu ed io.» disse, rivolto ad
Aibhill «Tu ed io da soli, com’era prima che arrivasse Jeliel.» fece
una pausa, corrugando la fronte «Prima che arrivasse Vanessa».
«C’è un tempo per tutto, Marco.» rispose lo spettro «Mi pare di
avertelo già detto».
«Penso che avrei dovuto amare te fin da principio.» mormorò,
guardandola con tristezza «Senza farmi illusioni».
«Io sono l’illusione.» lo corresse Aibhill, con quel suo fare che
riusciva sempre a ridargli la pace «Tu mi amerai sempre e io
resterò nei tuoi ricordi ogni attimo della tua vita: sarò presente
negli occhi di ogni donna che vedrai. In ognuna di esse troverai un
po’ di me, quel tanto che basterà a farti innamorare di lei».
Marco affondò il capo tra le spalle, sentendosi di colpo timido e
rosso di vergogna.
«Vorrei amarti così come sei, Aibhill» ammise, cogliendo con lo
sguardo null’altro che l’orlo della sua lunga veste.
Lei si chinò sino a che lui non riuscì a vedere il suo viso, che
esisteva e cessava di essere in ogni momento.
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«Potrai amarmi per mezzo di ognuna di loro, quando la realtà non
ti sarà più ostile.» si raddrizzò con calma e il ragazzo seguì i suoi
movimenti sino a ritrovare una posa più dignitosa «La tua
fantasia è nata per donare sollievo al tuo cuore, ma il cuore di una
persona è fatto per essere rivolto ad un’altra persona».
«Al cuore non è permesso parlare ad alta voce» mormorò il
giovane, passandosi attorno al dito una piuma ormai sfibrata.
«Traccia un sentiero, allora, se vuoi che qualcuno lo raggiunga e
veda da solo ciò che non puoi dire a parole.» fece Aibhill, con
semplicità «Il mio mondo ed il tuo si sfiorano di continuo. Basta
sapere dove andare e fare un passo, uno solo, com’è sempre
stato.» gli porse la mano con un sorriso, per la prima volta da
quando l’aveva incontrata «Vieni: facciamolo assieme, ancora una
volta».
Marco si levò dal letto, incuriosito.
«Per dove?» domandò, piegando il capo; mise distrattamente la
piuma in un sacchettino di velluto, al cui interno tintinnavano un
mucchio di sassolini colorati e pietre di bigiotteria.
«Per lo stesso posto di sempre.» rispose lei «La destinazione non
è mai cambiata».
Il giovane avvertì la presenza della mano impalpabile di Aibhill
sopra la sua e, com’era stato in principio, si fece condurre via da lì.
La terra arida scricchiolò sotto i suoi piedi, sbriciolandosi in
polvere acre. L’aria che respirava era tanto secca da raschiargli la
gola e costringerlo a socchiudere gli occhi anche se non c’era
vento. Il cielo era di un bianco appassito e si riduceva in vortici
più cupi qua e là, come le pieghe di un sudario adagiato su quella
landa desolata. Per ogni secondo che passava, pareva che
qualcuno vi passasse sopra un pezzo di carbone per disegnarvi
l’approssimarsi di una notte malata - non è mai stato così buio,
qui - senza ombra né luce: tutto si riduceva ad una piana
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sterminata e sterile. La linea marcata delle colline lungo cui aveva
corso senza stancarsi era sbiadita, come tracciata da un
pennarello ormai esaurito. Qualche albero senza linfa, lo scheletro
rinsecchito di un rigoglio sgargiante, restava ancorato al deserto,
nonostante i suoi rami, le sue dita distorte, giacessero al suolo.
«Questa terra scabra…» sussurrò Marco, spingendo via un sasso
con un piede.
«Fai attenzione a non destare qualche serpente.» lo mise in
guardia Aibhill «Sono velenosi».
Il giovane fece un passo indietro, arrivando a ritrarre persino le
dita dentro le scarpe.
«Non c’è mai stato pericolo, in questi viaggi» protestò
debolmente, sentendosi fuori luogo in quell’ambiente.
«Non te ne sei mai reso conto, eppure sia tu che gli altri ne avete
fatto le spese.» Aibhill fece qualche metro, senza curarsi di
abbassare lo sguardo «Adesso il pericolo è solo più lampante. Sei
più consapevole».
Marco ascoltò quelle spiegazioni e ci rifletté su: da bambino, gli
era capitato di farsi male comportandosi da incosciente e col
passare degli anni aveva prestato più attenzione, evitando di
ripetere i soliti errori. Ora, come gli veniva detto, calpestava la
medesima terra e si accorgeva che gli faceva paura. Il mio amico
Fin mi ha insegnato che non bisogna aver paura di niente. Il
giovane si fece coraggio e decise che avrebbe affrontato il deserto
e i suoi serpenti.
Camminò per terre tutte uguali, dovendosi talvolta fermare per
tossire vigorosamente e riprendere fiato, ormai con le lacrime agli
occhi. L’aria era difficile da filtrare e le ginocchia e i piedi gli
facevano male: persino Aibhill, per la prima volta, dava segni di
effettiva stanchezza, eppure continuava imperterrita, col pettine
che gli tremolava nella mano. La tenebra non aveva ancora finito
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di infittirsi che già cominciò a schiarire. Sembrava che qualcuno
pulisse la volta cupa con colpi di gomma simili a staffilate. L’aria
malsana si fece carica di tensione.
«Corri» ingiunse Aibhill, ed entrambi si buttarono a capofitto
verso il niente, visto che non c’era alcun punto di riferimento.
Dietro di loro, la terra cominciò a tremare alla vista, come l’asfalto
durante una torrida giornata estiva. Si spaccò, poi, e migliaia di
insetti schizzarono via da ogni apertura, spaventati. Per quanto
fossero minuscoli, Marco riusciva a notare la loro paura folle, il
desiderio impellente di mettersi in salvo. I più lenti restavano
indietro e vi rimanevano, immobili, prima di venire inghiottiti
nuovamente dal deserto. Gli ultimi tronchi caddero, come se
un’ascia li avesse spaccati a metà, e si annerirono,
accartocciandosi su sé stessi. Un colle si presentò davanti ai due e
Marco vi si gettò con le mani e i piedi per scalarlo, ma per quanto
si sforzasse gli sembrava che divenisse sempre più ripido.
Poi Aibhill cadde di colpo in avanti e il suo corpo non fece il
minimo rumore; il ragazzo però se ne accorse immediatamente e
il suo equilibro minacciò di mancargli. Corse verso di lei per
raggiungerla e aiutarla, tuttavia le sue mani non riuscivano a
toccarla. La chiamò a gran voce, allora, fino a quando lei non alzò
il viso: serena, com’era sempre stata con lui, gli sorrise. Marco
ebbe l’impressione di sentirsi accarezzare la guancia, ma le mani
di Aibhill erano ferme: il pettine d’oro era scivolato via. Il giovane
lo raccolse, porgendoglielo, ma era come se lei non lo vedesse
nemmeno.
«Ho perso i piedi.» mormorò con un filo di voce «Non camminerò
più nemmeno io».
Marco si alzò di botto in piedi per vedere: l’estremità del suo
vestito, sotto cui si erano sempre celati i piedi della dama
spettrale, non esisteva più. Su di lei avanzava crudele un raggio di
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sole, divorandola a poco a poco e incendiandola come se fosse
fatta di carta sottilissima.
«Non posso lasciarti qui» esclamò il giovane, sgomento, provando
nuovamente a sollevarla: di nuovo, le sue mani abbracciarono il
vuoto.
«È il destino di ognuno di noi.» ribatté lei, calma, come se non
stesse provando niente, come se non stesse per cessare di esistere;
alzò quindi un braccio per indicare «Rifugiati lì dentro».
Marco si voltò per seguire la direzione del dito e scoprì l’ingresso
ad una caverna scavata proprio dentro il colle che stava cercando
di scalare.
«Non puoi chiedermi di lasciarti qui» ripeté, sopprimendo un
singhiozzo.
Aibhill non rispose più: il suo sorriso rassicurante rideva del
tormento che la consumava. Non si alterò minimamente, neanche
quando il suo viso prese a svanire, cancellato da quella scia
luminosa che inghiottiva ogni cosa dentro di sé. Sconvolto, Marco
rimase immobile: abbassò gli occhi sulla terra nuda su cui Aibhill
aveva incontrato la fine e scorse un filo d’erba, uno soltanto, che
era riuscito a resistere. Lo vide piegarsi, afflosciarsi come sul
punto di squagliarsi, prima di scomparire in un filo di fumo. La
terra gemette con violenza, increspandosi in una nuova ferita. Il
giovane rimase così scosso da quella visione che fuggì atterrito
verso la caverna, bevendo le lacrime salate che gli scivolavano sino
alla bocca.
La grotta era avvolta in un drappo di tenebra che rinfrescava lo
spirito ed il respiro. Marco si gettò in quel buio, trovandovi
immediatamente sollievo; la luce che lo inseguiva sgretolò il ciglio
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dell’entrata, ma non riuscì a penetrarvi completamente. Come un
faro di segnalazione, si spinse fin dove gli era possibile. Una pietra
non resistette alla sua violenza e franò debolmente; subito dietro
di essa, venne un teschio bianchissimo ed ossa spolpate sino al
midollo - dentro la tomba giacciono ossa e corpi senza vita: io lo
so, li ho visti tutti e ho chiuso il coperchio di molti dei loro
sepolcri – rotolarono fino a lui. Immediatamente dopo, avvertì un
rumore ritmico e profondo provenire dall’oscurità di fronte a lui:
era come se un’enorme stantuffo si gonfiasse e si svuotasse. Marco
rabbrividì, quando riuscì a vedere la sagoma mastodontica
muoversi e la sentì sbuffare. Con il fiato trattenuto, fissò gli
spiragli verdi e aguzzi che si aprivano, proprio come occhi, e si
soffermavano su di lui. Una testa gigantesca si sollevò da terra e si
avvicinò abbastanza perché potesse scorgerne le fattezze nella
penombra e riconoscere la pelle scagliosa, di un violetto pallido.
Le zanne mostruose fuoriuscivano dalla bocca ancora chiusa e un
movimento di quelle che intuì essere ali lo convinsero di avere di
fronte a sé un drago, e stavolta un drago adulto.
«Ti conosco» parlò la creatura, con una voce bassa e roca, tanto
potente da farlo raggelare.
Marco comprese cosa il drago intendesse e si sentì raggelare di
paura e non certo di allegria.
«Fin…» biascicò, senza riuscire a credere al nome che stava
pronunciando.
«Finsternis!» ruggì il drago, pieno di disappunto, e il suo muso si
distorse in un ghigno che mise in mostra un’infinità di pieghe,
quante ne fa il mare mosso dal vento; Marco notò che era vecchio,
decrepito.
Finsternis si mosse infatti con lentezza, raddrizzandosi sulle
possenti zampe, che trasmettevano anch’esse un visibile senso di
pesantezza.
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«Mi ricordo di te.» riprese il drago «Ti lasciai in compagnia di
quello spettro invadente. Eri debole, avresti fatto qualsiasi cosa
che ti avesse chiesto».
«Non parlare di Aibhill!» gridò il giovane, come se avesse di
fronte un bambino.
Finsternis distorse le fauci in un ghigno, emettendo quella che
doveva essere una breve risata.
«È passato tanto tempo.» disse, socchiudendo gli occhi stanchi
«Ma anche se la mia vita non si protrarrà ancora a lungo, non sei
che una pulce in confronto a me. Potrei schiacciarti con un solo
dito, come ho fatto con tutti gli altri» e con un colpo di coda fece
rotolare verso il giovane i miseri resti che Marco aveva già avuto
modo di vedere.
«Ma non lo farai.» ribatté il ragazzo «Siamo stati amici per lungo
tempo».
«Non so che farmene dell’amicizia di un codardo!» ringhiò con
rinnovata veemenza il drago «Hai sempre creduto d’aver ragione
perché quella strega ti dava manforte. Non ti sei mai fermato a
chiederti se invece la verità fosse l’esatto contrario di quello che
pensavi. Ho memoria di tutto quello che è accaduto».
«Anch’io.» Marco fece un passo avanti e Finsternis scansò una
delle torreggianti zampe «Anzi, mi sono sicuramente posto più
domande di te».
«Non hai riflettuto, stolto.» gli rinfacciò l’altro «Se l’avessi fatto,
avresti visto l’altro lato della medaglia, l’altra faccia della realtà.
Non sei divenuto quello che era tuo destino divenire… Io sì!»
digrignò i denti, artigliando una zampa al terreno «Non hai mai
ucciso, saccheggiato e incendiato, non ne hai nemmeno mai
provato il desiderio! Ho accumulato un tesoro che nessun mortale
riuscirà mai a sottrarmi, mentre tu… Tu, come un burattino, hai
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conosciuto solo il dolore. Sarebbe questa la ricompensa per la tua
saggezza?».
Le tue ragioni sono lodevoli, non averne timore. Marco prese
fiato, osandosi di alzare gli occhi per incrociare il terrificante
sguardo di Finsternis. Piccole volute di fuoco uscivano dalle sue
narici, minacciando di incenerirlo da un momento all’altro.
«Tu hai rinunciato a continuare, quando Giangi se n’è andato.»
replicò, sicuro «Avresti potuto sopportare e continuare sulla
strada che stavamo battendo assieme. Hai avuto paura di quella
strada, hai temuto di finire come lui. A differenza degli altri, hai
sempre saputo il rischio che correvi e l’hai evitato, preferendo non
affrontarlo.» storse la bocca in una smorfia disgustata, senza
indietreggiare «Sei stato tu a comportarti da vigliacco, non io».
Per il drago quelle parole erano più di quanto potesse sopportare.
Ruggì con quanta forza gli rimanesse in corpo e ritrasse la testa;
Marco si sentì persino risucchiare quando prese fiato, gonfiando il
collo. Con una furia ignota al giovane, Finsternis abbassò la testa
di scatto, preparandosi a soffiare le sue ultime fiamme.
E si spense. L’enorme testa chiuse gli occhi placidamente, non
appena si espose involontariamente ai raggi che giungevano
all’estremità della caverna. A chiunque sarebbe parso che
Finsternis si fosse solo beatamente addormentato. Il ragazzo
osservò la scena e tacque, mentre le scaglie già cominciavano a
staccarsi dal corpo enorme del drago. Privo di qualsiasi consiglio,
di uno sguardo disposto ad offrirli aiuto, Marco si rese conto di
trovarsi, per la prima volta, completamente solo. C’è un tempo per
tutto.
La luce prese coraggio. I suo raggi tagliarono via parte della volta
come la lama di un ghigliottina, facendola rovinare sulla testa di
Finsternis e incendiando le ossa come pezzi di cartone. Il giovane
sbarrò gli occhi, assottigliandosi contro la parete di pietra, e cercò
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una via d’uscita. Notò per un attimo il tesoro del drago, una
distesa enorme di oro, armi e gioielli e dietro di esso scorse una
scalinata che si perdeva nel buio. Senza esitare, scavalcò il
mucchio sterminato di ricchezze, senza soffermarsi nemmeno un
istante su di esse, e si lanciò dentro lo stretto varco. Salì come un
forsennato, lasciandosi alle spalle il crollo della caverna e il fuoco
dell’incendio.
Marco annaspò sino all’ultimo gradino di quella scalinata
interminabile, senza fermarsi per prendere fiato fino a quando
non raggiunse una nuova apertura e da lì una grotta, l’ultima. Lì si
fermò, puntellandosi con le mani, sfinito. Il sudore che gli
grondava dalla fronte bagnò il pavimento e il giovane si trovò a
guardarlo. Una zampa pelosa, simile a quella di un cane,
comparve nella sua visuale e lo indusse a rialzare il viso di scatto.
Era un lupo, col manto bruno e gli occhi vivi e intelligenti. Lo
studiava senza mostrare intenzioni offensive, ritto sulle quattro
zampe. Poco distante, ne notò un altro, accovacciato davanti a una
statua. Marco si tirò in piedi con sforzo e la esaminò: un uomo
anziano, un re, in tenuta da battaglia, sedeva sul suo trono. La
barba folta nascondeva in parte la corazza, ma nella mano reggeva
con fierezza una lancia che teneva appoggiata al petto. Il realismo
di quella scultura era impressionante, sebbene il giovane non
riuscisse a spiegarsi perché il volto era stato privato di un occhio.
Girando la testa e guardando altrove, vide che la grotta si apriva,
scevra da ogni minaccia, su una paesaggio incredibile, in cui la
vista si smarriva.
Vide il mondo, da lì, da Londra a Timbuktu, da Roma a Pechino,
dall’America all’Australia, con le sue catene montuose, le pianure,
gli oceani e i poli coperti dalle nevi eterne. Vide anche l’altro
mondo, una distesa di polvere e sabbia senza vita, che si stendeva
da un’estremità all’altra, sino alla caverna in cui aveva combattuto
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contro Finsternis. Inspirò l’aria libera, intrisa di tutti i profumi e
di nessuno, e se ne empì i polmoni come non aveva mai fatto in
tutta la sua vita. Da dietro di lui, giunse un rumore debole, come
lo scivolare di un insignificante sassolino da una rupe. L’uomo sul
seggio muoveva le labbra e il suo occhio cercava l’attenzione del
giovane. Marco gli si avvicinò, stupito, e i lupi andarono a
sdraiarsi accanto a lui. L’elmo sulla testa dell’uomo vibrò appena,
o diede l’impressione di muoversi, e le rughe sul suo volto si
mossero faticosamente, sino ad assumere la parvenza di un
sorriso.
«Chi sei?» domandò il giovane, che ormai aveva appreso quali
domande andavano poste.
L’uomo sembrò essere privo di forze e il suo occhio si chiuse per
qualche secondo.
«Io sono ciò che resta sempre in fondo all’anima degli uomini.»
rispose infine, e nel parlare dalle sua labbra fuoriuscì un filo di
polvere «Il ricordo che ognuno ha dalla nascita, la scintilla da cui
tutto venne. Sono colui a cui si giunge solo dopo un cammino
lungo e difficile, come quello che hai intrapreso. Sono, e sarò
sempre per te, il Dio di pietra».
Marco rimase zitto, mentre l’altro tossiva una nube di polvere
dopo l’altra, senza riuscire neanche a piegarsi o a staccarsi in
qualche modo dal trono.
«Vuoi dire che tu sei Dio?» chiese, tenendo a bada la sua
agitazione «Io sto parlando con Dio?».
«Con un Dio.» lo corresse, paziente «Il tuo, probabilmente, o uno
dei tanti che avrai. Sono la tua ultima immaginazione, l’appiglio a
cui ti aggrappi o la verità che infine cogli. Sono ciò che hai sempre
chiesto che fossi ed esisterò fino a quando avrai bisogno di me».
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«Perché sono qui?» fece Marco, respirando un’altra boccata di
libertà: improvvisamente la sua quiete era tale che non si stupiva
di quello che gli veniva detto.
«Sei voluto giungere tu stesso sino qui.» disse il Dio di pietra
«Nessun destino, ma solo la tua volontà. Hai scelto di sacrificare
per conoscere, come me. Hai dato vita ai tuoi sogni e hai saputo
rinunciarvi quando non potevi più trarre niente da loro, né offrire
qualcosa in cambio. Sei sopravvissuto con loro, perché non avresti
potuto fare diversamente, e hai dato loro altre pagine da vivere».
«Altre pagine» ripeté il giovane, annuendo fra sé.
«Che nessuno potrà più strappare, che volevano dire una cosa e
l’esatto opposto. Condannate, alla fine, a un tramonto, come la
vita degli uomini».
«Eppure non c’è fine.» Marco spostò lo sguardo verso l’apertura
che dava sui due mondi, di cui riusciva tuttavia a vedere l’inizio e
il termine «Nemmeno in un angolo che ospita qualche grammo di
sporcizia».
Il Dio di pietra assentì come meglio poté. Pur nelle sue condizioni,
in bilico tra la vita e la non-vita, esprimeva la sapienza di mille
epoche passate e di tutte quelle che sarebbero venute.
«Quante volte il tuo sguardo si è soffermato su un dettaglio
insignificante, che hai creduto una sciocchezza?» osservò il Dio di
pietra «Il movimento di uno scarafaggio si può analizzare come la
più complessa coreografia, una crepa nel muro si apre sull’abisso,
in un granello di sabbia si racchiude l’universo intero. Ora è qui, a
portata di mano».
A quell’annuncio, il giovane avvertì un improvviso senso di
pericolo gocciolargli lungo la schiena.
«Qual è la chiave?» domandò in fretta, percorso da brividi
incontrollabili.
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«È sempre la stessa, quella che hai sempre adoperato. Là.» il
ragazzo dovette seguire il movimento dell’unico occhio del Dio di
pietra per distinguere il pilastro candido su cui spiccava un
poderoso volume «Lì troverai la risposta».
Un improvviso terremoto scosse la caverna sin dalle fondamenta.
Marco allargò le braccia per non perdere l’equilibrio, mentre i lupi
si rialzavano di colpo e prendevano a correre ululando e guaendo,
come impazziti. Un frammento del soffitto crollò sotto la spinta di
un dardo di luce, sbriciolandosi al suolo. Come saette, i raggi
cominciarono a sfondare anche l’ultima resistenza.
«Svelto!» gli intimò il Dio di pietra , mentre un raggio
raggiungeva il suo volto e sgretolava uno zigomo, aprendo un
solco sulla carne che si celava sotto il suo involucro «Prendilo!».
Marco si lanciò con un balzo verso l’unica destinazione rimastagli.
Il pavimento si divise in una breccia proprio sotto il pilastro, che
minacciò di sprofondare nel vuoto assieme al libro, e il giovane
dovette reggerlo per un attimo con la propria gamba per poter
afferrare con le proprie mani il grosso volume. Mentre ogni cosa
attorno a lui piombava nella rovina, Marco riuscì infine ad aprire
il libro.
E lo trovò bianco.
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Il bambino deglutì, facendosi avanti.
«Perché canti?» domandò, seguendo il
movimento del pettine d’oro.
La donna modulò ancora qualche nota,
prima di interrompersi.
Marco poté udire il rumore dei denti del
pettine
che scioglievano i piccoli nodi tra i capelli e
questo gli riempì le orecchie.
«Non mi chiedi nemmeno chi sono?» fece la
donna, alzando un sorriso verso di lui.