Download - Il vocabolario di latino
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IL VOCABOLARIO
DI LATINO
( IL RACCONTO DI UNA VITA )
Biagio Cilento
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A mia madre,
ai miei figli Raffaele, Nicola ed Andrea, a
mio nipote Francesco
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Premessa
Chi dovesse leggere queste poche righe, siano esse
appunti autobiografici, un diario o semplicemente il racconto di una vita o
qualsiasi altra cosa si voglia, dovrebbe sapere dall’inizio che io non ho
avuto nessuna pretesa di essere uno scrittore e di non esserlo mai stato.
Ciò che ho raccolto sono cose semplici, emozioni, riflessioni episodi che
hanno caratterizzato buona parte della mia vita, della mia giovinezza in
particolare, e che ancora oggi mi accompagnano e di cui sono fiero ed
orgoglioso. Possono anche essere lette come una risposta a mio figlio
Andrea, che spesse volte mi ha chiesto perché custodissi con tanta cura e
gelosia, tra le mie vecchie cose, un vocabolario di latino: un vecchio
Campanini e Carboni.
Credo che ognuno di noi, alle soglie della terza età, dovrebbe
potersi misurare con le parti trascorse della sue prime due e tentare un
resoconto scritto di quei pezzi di vita trascorsi, perché questa operazione
aiuterebbe a capire meglio tante cose. Questo scritto dunque, al di là dalla
velleità letteraria, credo che abbia certamente un effetto terapeutico, in
quanto richiede lo sforzo di analizzare tutti gli eventi che hanno concorso
a formare ciò che effettivamente sono oggi. Una risultante derivante
dall’educazione ricevuta, dalle esperienze infantili ed adolescenziali. In
breve la fatica di essere uomini.
Biagio Cilento
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L’infanzia, la casa, la famiglia
Il vento soffiava, tra gli spiragli e le fessure dell’unico balcone con un
ritmo monotono, a tratti sibili gelidi che rendevano ancora più tetre e
fredde le lunghe giornate invernali. I vetri, sporcati soltanto dalle impronte
di piccole mani e resi opachi dal vapore di un alito innocente, erano retti
soltanto da righelli di stagnola logorati dal tempo e non più in perfetta
tenuta. Da quel balcone si stagliava il palazzo del de Gennaro, circondato
da grosse palme e da alberi di ulivo le cui cime erano continuamente
piegate da folate di tramontana, con i suoi grandi finestroni di vetro
colorato e sempre chiusi che riflettendo gli ultimi flebili raggi di sole
rendevano più triste ciò che restava di una giornata invernale che stava per
concludersi. Quello era l’unico e sempre uguale paesaggio che si
presentava ai miei occhi ogni qualvolta, seduto accanto ad un vecchio
braciere di rame, con poca carbonella accesa, distoglievo lo sguardo da un
libro di latino o da una pagina dell’Eneide.
Spesse volte, nel voltare lo sguardo mi perdevo distratto e allora tutto
quello spettacolo finiva con lo scomparire e io, rapito da quel mare di
solitudine e di tristezza, totalmente assente mi vedevo immedesimato in
uno dei racconti mitologici che stavo studiando con tanto di spada in
pugno in groppa ad un magnifico cavallo bianco. Amavo quei momenti di
solitudine nei quali piaceva perdermi e sognare ad occhi aperti cose
impossibili.
A farmi tornare nella realtà ci pensava mia madre, che carezzandomi
dolcemente, dopo aver dato un rapido sguardo all’orologio, mi
preannunciava il ritorno di papà dal lavoro. Si sarebbe andati, finalmente,
tutti a consumare l’unico pasto caldo della giornata. Lo diceva con tanta
gioia quasi fosse una festa.
Intanto, dal cucinino subito fuori dell’uscio di casa, o meglio dall’unica
stanza che ci fungeva da soggiorno, camera da letto e sala da pranzo,
giungeva il profumo di polenta con broccoli o di pasta e fagioli.
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Fuori, il vento soffiava sempre più minaccioso e gelido col calar della
sera. Un freddo che sentivi giungere fino alle ossa e che ti arrossava il naso
e le dita delle mani e dei piedi protetti dall'unico paia di scarpe, che era già
stato più volte dal ciabattino con ferite non più facilmente rimarginabili,
che a stento riuscivano a riparare. Dopo cena, ci si raccoglieva tutti intorno
al braciere ad ascoltare qualche fatterello che mamma sapeva raccontare
molto bene o narrarci episodi della sua giovinezza, spesso poco piacevoli.
Mamma era rimasta orfana di madre ancora in tenera età ed era cresciuta
e maturare in fretta per poter accudire alla casa e spesso badare anche ai
pochi animali da soma nella stalla, essendo mio nonno di professione
carrettiere. Della sua infanzia e della sua giovinezza dunque poteva
raccontare ben poche cose, ma riusciva a farci partecipare a quei racconti
con vivo interesse senza sembrarne turbata anzi esprimendo una serena
felicità e l’aver dedicato tutta se stessa alla sua famiglia era stata per lei la
sua massima aspirazione.
L’unico a crearle qualche problema – dei suoi cinque figli – ero io, ma non
perché fossi particolarmente cattivo o perché non volessi studiare, perché
dei cinque, io era quello che veniva su con qualche problema di salute,
quello che aveva maggior bisogno di cure e pure di affetto. Affetto e cure
che mia madre mi ha dato fino al suo ultimo respiro e così bene da aver
riempito tutta la mia vita. E’ a lei oggi che devo tutto: il suo amore, le sue
premure, i suoi preziosissimi consigli mi mancano moltissimo ed è a lei e
al suo ricordo che principalmente dedico queste poche pagine. E’ un
ricordo così forte che a volte ho l’impressione di sentirmela a fianco e
forse è veramente così.
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Mio padre
Anche di papà sento la mancanza e non è che il nostro rapporto sia stato
facile, anzi tutt' altro. Bell’uomo, otto anni più giovane di mamma di cui
era molto innamorato; amava trascorre buona parte del suo tempo libero al
circolo a giocarsi quei pochi preziosissimi spiccioli che tratteneva per sé
dalla busta paga ogni fine mese. Spiccioli che appunto, siccome pochi,
finivano sempre troppo presto, contribuendo così ai suoi sbalzi di umore
che finivano col renderlo irascibile ed intrattabile, tanto che spesso, per un
nonnulla volavano scapaccioni.
Il più vulnerabile ero io, forse perché il più grande e forse anche perché gli
venivano in mente marachelle passate e mai punite. Allora giù botte fino a
farmi sanguinare il labbro o il naso e la smetteva solo allora, lasciandomi
sul viso oltre qualche livido, il profumo di saponette Lux con le quali
spesso era solito lavarsi le mani. Questa operazione mio padre la faceva
solitamente prendendomi per mano e portandomi nell’androne, sulle scale,
lontano dagli sguardi di mia madre. Sapeva bene che se lo avesse visto, gli
si sarebbe avventata addosso come una tigre.
Come avrei mai potuto rivolgermi a lui ed aprirmi nel momento del
bisogno? Come potevo essere aiutato e soprattutto compreso? Quante volte
ho desiderato avere con lui un rapporto amichevole, un rapporto che forse
a noi due avrebbe aiutato a superare tanti piccoli grandi problemi e a me
farmi sentire più sicuro e più forte. Io ce la mettevo tutta, ma i risultati non
erano dei migliori. Ho tentato di tutto con lui, ma sempre con scarso
risultato. Avere un padre per amico credo che sia la massima aspirazione
per un adolescente, ma a me, in parte fu preclusa.
C’erano anche momenti belli che trascorrevo insieme con lui. Questo
accadeva quando si andava a caccia sul monte Faito, alla ”posta alla
beccaccia”. Ci si alzava alle tre del mattino e si partiva con un pezzetto di
pane in saccoccia. Io lo seguivo per i sentieri della montagna come un vero
cane da caccia. Al ritorno, mi faceva portare la doppietta in spalla, che
insieme a qualche tordo appeso alla cintola, mi facevano sentire pieno di
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orgoglio e molto spesso invidiato dai miei compagni di gioco. Erano quelle
le uniche occasioni che mi si presentavano per poter scambiare quattro
chiacchiere con mio padre.
Ricordo qualche rara carezza e ancora più raramente, l’aver camminato al
suo fianco con la sua mano poggiata sulla mia spalla: bastava solo questo,
ed era così poco, a rendermi felice e a farmi sentire sicuro e protetto, ma
forte allo stesso tempo. Dio! Quanto ho amato quei momenti rari e quanto
ne sento ora la mancanza. Anche durante gli ultimi anni della sua vita,
quando colpito da un male incurabile che lo vedeva consumarsi giorno
dopo giorno, quando mi vedevo impotente e disperato non sapendo come
poterlo aiutare, carezzandogli i capelli cercavo di fargli capire quanto bene
gli volessi e che avrei dato volentieri la mia vita per lui se questo avesse
potuto salvarlo. Poco prima di spirare volle vedermi: poche parole e una
forte stretta di mano, quasi volesse farsi perdonare di non avermi dato
abbastanza. Non si rese conto che con quell’ ultimo gesto mi aveva già
dato tutto.
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La nostra stanza
Tra un fatterello e un altro, il tempo passava e il piccolo braciere diventava
sempre più freddo, si faceva presto l’ora per dormire. Un po’ di trambusto
animava ancora la piccola stanza, prima che la giornata si concludesse
definitivamente. Lettini pieghevoli in ferro comparivano all’improvviso,
nascosti durante il giorno da tende, e vi prendevano posto le mie due
sorelle, che soddisfatte della giornata trascorsa con la maestra di taglio e
cucito, si rannicchiavano l’una accanto all’altro per meglio difendersi dal
freddo, in attesa che il sonno ristoratore le consegnasse ai sogni di tutte le
ragazze di allora.
Io dormivo in un altro lettino che dividevo con mio fratello minore e nel
quale ci si poteva a malapena girare, correndo il rischio di finire sul
pavimento, tanto era stretto per noi due. Appena la stanza piombava nel
silenzio e nel buio, illuminata soltanto da un piccolo lumicino elettrico
montato su di una statuetta in argento che raffigurava il sacro Cuore,
restavo immobile con gli occhi sbarrati a pensare cosa avrei fatto da
grande. Valutavo i miei progetti, tutto quello che avrei voluto fare per
guadagnare tanti soldi per offrire una vita migliore alla mia famiglia.
Volevo dimostrare a mio padre che valevo qualcosa. Volevo ripagare mia
madre delle tante privazioni e dei tanti sacrifici che faceva. Ma soprattutto
volevo dimostrare a me stesso, con abnegazione ed ostinata caparbietà, che
nella vita si può riuscire e l’importante era non abbattersi mai.
Ero il primogenito e mi sentivo in dovere di dare una mano, di contribuire
a tirare il carro, un fardello che, col passare del tempo diventava sempre
più gravoso ed era una sensazione che mi faceva sentire quasi in colpa.
Quello che non sono mai riuscito a capire era come faceva mia madre a
tirare avanti tutta la famiglia, amministrando quel poco che mio padre
riusciva a portare a fine mese. La paga di mio padre era la misera paga di
un modesto tornitore e noi vivevamo in un modesto decoro, senza mai
contrarre una sola lira di debito con chicchessia, nonostante questo tutti noi
andavamo a scuola.
Con l’arrivo del sonno, tutta la stanza piombava in un silenzio profondo,
cadenzato soltanto dal ticchettio di una vecchia sveglia che scandiva
inesorabilmente il tempo che passava, o dal rumore di qualche molletta da
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bucato, che il vento faceva battere sull’inferriata del balcone. Il silenzio,
quel buio appena rischiarato dalla luce di quel lumicino, quei rumori lievi,
mi facevano paura, com' è normale in tutti i bambini, allora infilavo la
testa sotto le coperte e, benché fossimo tutti in una sola stanza, avevo
l’impressione che ci fosse sempre qualche presenza estranea tra noi.
La stessa sveglia che cullava il nostro sonno, ci svegliava con il suo stonato
scampanellio, alle sei del mattino. Mamma andava subito nel cucinino a
preparare la colazione a papà che si recava al lavoro puntualmente con la
navetta delle sei e quaranta, poi preparava un po’ di caffè d’orzo, con la
quale faceva la zuppa a noialtri, solo di tanto in tanto con l’aggiunta di
poco di latte.
Le dita dei piedi nudi a contatto con il pavimento gelido si contraevano
facendo correre un brivido lungo la schiena e allora ti veniva voglia di
infilarti nuovamente sotto le coperte. Era solo il profumo dell' orzo e del
pane appena affettato sulla tavola che ci faceva alzare. Mi infilavo
rapidamente i calzini rattoppati alla meglio, le scarpe e subito dopo fuori
dall’ uscio a lavarsi con l’acqua fredda, a turno, nell’unico grosso tino di
terracotta che fungeva da vasca da bagno, da deposito per panni sporchi e
da lavatrice.
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Il vocabolario di latino
Spesse volte mi piaceva trascorrere ore intere, seduto fuori dell’uscio di
casa a guardare mia madre, che chinata su quel grosso tino, con quelle sue
braccia nude per nulla intirizzite dal freddo. Lavava lenzuola, camicie,
pantaloni e indumenti intimi, per poi stenderli tutti, magari approfittando di
una giornata di sole e occupando il poco spazio che ci spettava, facendo
bene attenzione a non sconfinare nello spazio dei vicini per evitare inutili
polemiche. Spesso canticchiava qualche vecchia canzone napoletana con
voce chiara e melodiosa e che probabilmente le ricordava qualcuna delle
poche giornate felici della sua gioventù. Poi appena si accorgeva che la
stavo osservando, estasiato, quasi rapito da quel suo modo di fare sempre
allegro e pieno di calore, abbozzava un sorriso di compiacimento
mostrando una dentatura bianca perfettamente allineata.
Com' era bella mia madre. La vicina, di casa si soffermava anch' essa a
guardarla per un attimo prima di scendere le scale e sicuramente avrà
invidiato quella donna che, malgrado i tanti problemi e il tanto da fare con
una famiglia numerosa trovava anche il tempo di sorridere e di essere
felice.
Era molto brava nel riuscire a capire i miei stati d’animo, quando ero triste
o quando volevo farmi perdonare qualche malefatta. Mi apriva quelle sue
grandi braccia nelle quali trovavo calore e rifugio e senza riuscire a
nasconderle niente le raccontavo ogni cosa, ed ho continuato a fare fino a
pochi anni fa , quando altre braccia avrebbero dovuto farlo o almeno
tentare ma con scarso risultato. Unico svago di quella donna era di fumare
mezza nazionale ogni tanto che io stesso andavo a comprarle di
contrabbando e dalla quale faceva fare anche a me una boccata di nascosto,
dopo aver sorseggiato un poco di caffè, quando si riusciva ad averne in
casa. Altre volte si faceva accompagnare per una piccola passeggiata alla
villetta comunale o a guardare l'arrivo dei tram da Castellammare o da
Sorrento, la cui fermata era proprio davanti al vicolo dove abitavamo. Fu
proprio durante una di queste passeggiate che le feci notare che aveva la
gonna con un lembo strappato e che forse sarebbe stato opportuno
acquistarne una nuova al mercatino rionale, visto che di rattoppi ne aveva
già tanti e che mi - mi pento ora a dirlo- mi vergognavo quasi di starle a
fianco. Mi guardò in silenzio poi, abbozzando il suo solito tenero sorriso,
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mi cinse la spalla con il suo grosso braccio e chinando il capo mi sussurrò
dolcemente “ figlio mio, con i soldi della gonna devo comprarti il
vocabolario di latino”. Al momento non dissi una parola, ma mi si formò
un grosso nodo alla gola tanto da impedirmi persino di ingoiare, poi
guardandola fisso negli occhi feci a me stesso solenne giuramento, che da
grande avrei fatto tutto il possibile per offrirle una vita migliore, che le
avrei comprato tutto ciò che avrebbe desiderato e che non avrebbe mai
potuto avere, che l'avrei ripagata dei tanti sacrifici. Oggi mi rendo conto di
esserci riuscito soltanto in parte anche se lei non mi ha mai chiesto né mi
ha mai fatto capire di aver desiderato qualcosa. se non il vederci crescere
sani ed onesti, nel corpo e nell'animo, e d'esserci fatti onore a scuola e
nella vita. Io non avevo capito che solo e soltanto questo era tutto quello
che una donna come mia madre avesse potuto desiderare immensamente.
Conservo ancora gelosamente quel vecchio vocabolario di latino, anche se
un po' malridotto, spesso lo prendo tra le mani e dopo aver sfogliato alcune
pagine ingiallite lo stringo forte al petto, chiudo gli occhi ed ho la
sensazione per pochi istanti, di trovarmi ancora tra quelle braccia e di
sentirne le carezze.
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Il Natale
Giorni fa, mettendo ordine tra le mie vecchie carte, mi é capitato tra le
mani un tema d’ italiano sul Natale svolto da uno dei miei ragazzi quando
frequentava le elementari: Natale é la più bella festività dell'anno é vero,
riflettendoci , non esiste festività più bella e più sentita, che più di ogni
altra ricorda il calore familiare.
Torno subito indietro negli anni, e mi tuffo nei ricordi, quando si attendeva
questo periodo festivo non tanto per le due settimane di vacanza a scuola,
quanto per potersi ingozzare di zeppole al miele, frutta secca, qualche
pezzo di pollo e altri dolcetti fatti in casa. Con l'avvicinarsi poi del 25 di
dicembre, anche la speranza di un nuovo paio di scarpe o addirittura di un
cappotto, acquistato sempre al mercatino dell'usato di Pugliano diventava
una realtà. Era chiaro che il tutto veniva programmato prima, tredicesima
permettendo.
Sin dai primi giorni di dicembre si avvertiva nell'aria una strana sensazione
come se qualcosa di grande stesse per accadere. un' atmosfera nuova, più
movimenti nelle strade e nei vicoli rionali , preparativi di bancarelle e di
addobbi vari, la comparsa dei primi zampognari e lo scoppio di tanto in
tanto di qualche mortaretto confermavano l'avvicinarsi del Santo Natale, la
festa più bella dell'anno.
Durante questo periodo ci si sentiva più buoni , più tolleranti con i vicini di
casa, con i quali si iniziava a parlare di veglioni e delle varie pietanze da
portare a tavola la sera della vigilia.
Anche io, pervaso da questa atmosfera di bontà cercavo di restare più
tempo a casa ad. aiutare la mamma come meglio potevo. Accudivo i
fratelli più piccoli, attingevo l'acqua dal pozzo giù nell' androne, andavo a
farle piccole commissioni non senza la speranza di ricavarne degli
spiccioli. II richiamo della strada con tutta la sua animosità, era più forte di
ogni altra cosa e verso sera scendevo un poco giù nel vicolo dove con i
pochi amici si giocava a nascondino o a carte oppure si accendeva un
fuoco e attorno ad esso ci raccontavamo innocenti fatterelli e si facevano
progetti per il futuro, di cosa avremmo fatto da grandi.
Nei giorni poi, che subito precedevano il Natale, ci si raccoglieva in casa
dei vicini a giocare a tombola o a carte. Erano tombolate di quindici o
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venti persone: tutti seduti intorno all'unico braciere o a qualche modesta
stufa elettrica.
La padrona di casa ad un certo punto interrompeva il gioco portando in
tavola l'immancabile zuppiera di zeppole fritte condite con miele e canditi
o con confettini colorati, accompagnata da alcune bottiglie di liquore fatto
in casa o di vermouth di marca scadente e mentre il tutto veniva consumato
in fretta. Lei osservava tutti con sguardo compiaciuto e severo dall'altro
capo della tavola e chi più poteva arraffare arraffava, senza tener conto di
alcuna norma di buona educazione, che avrebbe imposto di rispettare un
turno o seguire un ordine, ed aspettandosi sempre i soliti complimenti di
brava cuoca e di ottima padrona di casa.
La vigilia era poi il giorno più atteso. A svegliarci di buon mattino era il
vociare dei ragazzi che lavoravano nel laboratorio di pasticceria proprio
sotto casa e il rumore delle fascine che venivano trasportate dalla cantina al
forno pronto per essere acceso, oppure i passi veloci dei burrai e i loro
brusii che, animatamente con i loro cesti di vimini sottobraccio portavano
a Napoli i formaggi del Faito appena lavorati. I vari Staiano, Vanacore, i
Guida, i Cuomo, i Savarese e tanti altri che con i loro passi gravi sul
basolato di lava del Vesuvio di cui era lastricata la strada, in fila indiana o
per due, guardando di tanto in tanto l'orologio, cercavano di recuperare
qualche secondo e poter arrivare per primi alla stazione e trovare posto sul
primo treno in partenza per Napoli.
Mamma di primo mattino preparava la cioccolata calda con fette di
panettone fatto in casa, cosa che si faceva soltanto in caso di grandi
festività o compleanni, poi iniziava a preparare il cenone. Si digiunava per
tutto il giorno fino alle sei sette di sera poi tutti a tavola ad ingozzarsi a più
non posso, quasi a volersi vendicare delle tante piccolo privazioni subite
durante tutto l'anno e consapevoli che per un'altra abbuffata sarebbero
dovuti trascorrere altri dodici mesi.
Ancora oggi ricordo quei momenti e li rivivo come fossero attuali
provando le stesse emozioni di allora, specie quando incontrando vecchi
compagni di allora e proprio in occasioni di festività ricordiamo con
piacere quei tempi e non senza un pizzico di nostalgia.
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L’adolescenza, la gioventù,
gli amici ,il paese
II tre di febbraio, giorno di S. Biagio, i raggi di sole che attraverso i
finestrini del balcone tornavano a lambire una parte del lettino dove
dormivo, segno inequivocabile della imminente stagione primaverile. Quei
pallidi raggi di sole sembravano recare un messaggio di speranza, te li
sentivi giungere fino al cuore e sembravano sussurrarti “ coraggio la
brutta stagione invernale é passata, sta arrivando la primavera”.
Che bella stagione la primavera, le giornate più lunghe, l' aria più dolce e
più tiepida, la natura tutta che si risveglia dopo il torpore dei mesi
invernali. Al mattino, subito dopo colazione e mentre preparavo il fagotto
dei libri di scuola, mi soffermavo alcuni minuti ad ascoltare estasiato il
cinguettio dei fringuelli che svolazzando da un noce all'altro iniziavano a
corteggiarsi per la imminente nidiata.
Anch'io avvertivo quel pizzico di euforia, i miei tredici quattordici anni
cominciavano a farmi sentire più maturo, più uomo, specie con la
comparsa sul viso della prima peluria, e cominciavo a guardare le
ragazzine con maggior interesse. Già qualche compagno di scuola di
qualche anno più grande, vantava avventure spesso arricchite con piccole
bugie e che io amavo ascoltare cercando di imparare nuove tecniche di
conquista.
A scuola eravamo soltanto in sei i maschi e circa una ventina di ragazze,
tutte abbastanza carine, non che ce ne era qualcuna che mi interessava in
particolare, ma cercavo lo stesso di far conquiste, facendo sfoggio di tutta
la mia vivacità o con fatterelli o con battute facili, ma quasi sempre con
scarso risultato. Riuscivo solo a divertire e a volte diventare anche
simpatico ma niente di più e questo mi amareggiava profondamente.
Spesso facevo le mie confidenze più riservate a Mario, l’unico caro e vero
amico che avevo e lui mi confidava le sue.
Trascorrevamo così interi pomeriggi insiemi seduti sulle scale del portone
di casa a scambiarci opinioni e consigli e a programmare in parte quello
che sarebbe stato il nostro futuro e lo facevamo cosi bene che ci sentivamo
come due fratelli sempre disponibili ad aiutarsi l'un l'altro.
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Ognuno ascoltava, con interesse i problemi, le ansie, i timori e le
aspirazioni dell'altro. Ognuno ascoltava con il cuore e con il cuore cercava
di aiutare l'amico. Peccato che tutto finì troppo presto, Mario si arruolò
giovanissimo nella benemerita dove fece una rapida e brillante carriera e
così – per un po’ - ci perdemmo di vista. Di amici cosi non ne ho più avuti,
alcune volte ci siamo incentrati per caso e, anche se raramente, non
abbiamo potuto fare a meno di riandare, anche se per poco, nei ricordi
della nostra adolescenza, in Via Canale , tempi in cui bisognava maturare
in fretta, e rapidamente crescere e diventare grandi.
Ancora oggi lo cerco per potergli parlare di altri problemi , forse ben più
gravi di quelli di allora, problemi forse non di facile soluzione,- ma avrei,
se non altro, la certezza di essere capito ed ascoltato con il cuore.
Ho accennato prima a Via Canale, dove sono nato e dove ho trascorso la
mia infanzia e la mia adolescenza, nel piccolo rione che insieme a piazza
S.Ciro, piazzetta mercato piazzetta della Croce, Via Pozzillo e Via
Vescovado, rappresentava la parte più antica e più caratteristica di Vico
Equense. Via Canale, era popolata da una quarantina di famiglie, quasi
tutte operaie e artigiane, gente semplice ed onesta, dedita soltanto al
lavoro, con un unico obiettivo ti tirare avanti la famiglia quasi sempre
abbastanza numerosa , con decoro.
Ogni sera la piazzetta si popolava di gente e noi ragazzi con strillando
festosamente animavamo l'intero rione, mentre le donne a gruppetti, sedute
davanti ai portali dei caseggiati, discorrevano del più e del meno,
attendendo il ritorno dei propri mariti o dei figli dal lavoro mentre un odore
di minestra, quasi sempre broccoli o cavoli si spandeva per ogni angolo del
vicolo.
Solo sul tardi , quando ognuno era rientrato nella propria casa, per ultimo,
il rumore degli zoccoli dei muli e il cigolio delle ruote del carretto,
annunciavano il rientro di Raffaele il carrettiere.
Oggi di quegli scenari dal sapore eduardiano non é rimasto più nulla. Le
vecchie famiglie che popolavano il rione sono scomparse mentre buona
parte di noi giovani di allora siamo partiti per il mondo alla ricerca di
fortuna.
Non é rimasto niente, neanche il vecchio rione: infatti via Canale non
esiste più. Delle grosse mura ne hanno bloccato gli accessi da ambedue i
lati, volute da chissà quale politico o amministratore comunale e chissà per
quale scopo. Eppure via Canale é sempre stata una piccola importante
arteria di collegamento tra via Nicotera, via R.Bosco, piazzetta mercato,
con la stazione della Circumvesuviana, agevolando di molto i pendolari
che di primo mattino si recavano al lavoro con i primi treni in partenza per
Napoli.
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Quello che maggiormente rattrista é che i Vicani , sempre attenti ai
problemi del loro paese e tanto legati alle proprie tradizioni, abbiano
permesso scempi del genere, impassibili e senza un minimo di protesta.
Rimane soltanto il ricordo , un caro ricordo del rione dove hai trascorso i
primi anni della tua vita, che ti ha visto crescere sano in un ambiente pulito
ed onesto tra gente povera e dignitosa, dalla quale é venuta fuori una
generazione di valenti artigiani , bravi marinai e ottimi professionisti, tra i
quali, medici di chiara fama. Qualcuno negli anni é ritornato, forse i più
fortunati, e ha investito buona parte dei propri risparmi acquistando parte
di ciò che é rimasto di quei grossi caseggiati, non tanto per una forma di
investimento o di business vero e proprio, quanto per poter trascorrere il
resto degli anni negli stessi luoghi che lo hanno visto in pantaloncini corti,
e dove ha lasciato i ricordi più belli e più amari o forse perché troppo
legato alle proprie tradizioni o forse ancor di più per una forma di rivalsa
vera e propria rispetto agli anni di privazioni e di miseria.
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L’estate tra il ’55 e il ‘56
Durante l'estate, il nostro paese era letteralmente invaso da comitive di
turisti stranieri, il cosiddetto turismo di massa o turismo a basso costo che
in Europa faceva la sua prima apparizione, avrebbe modificato gli usi e i
costumi degli europei e poi un po’ più tardi anche di noi. Francesi, Inglesi,
Tedeschi, Danesi e Svedesi si riversavano nel nostro piccolo paese e per
tutta la penisola sorrentina,, assetati di sole e di mare. Si apriva, per i
giovani del paese, una vera e propria caccia alla bella straniera, anch'essa
attratta dalla fama del bel maschio partenopeo. Quasi tutti riuscivano a
conquistare la bella francesina o inglesina e a trascorrervi insieme una
piacevole settimana di vacanze, specie quando non si avevano materie da
riparare a settembre.
A sera gli alberghi locali erano sempre assediati, ognuno si recava a
prendere la propria conquista, il più fortunato con la lambretta, non
mancando poi di mettersi in mostra seduti ai tavoli dei bar della piazza
davanti ad una tazza di caffè o una lattina di Coca Cola oppure
passeggiando per le vie del centro e balbettando ad alta voce quel poco di
francese o inglese sgangherato e scolastico e facendo sfoggio dell'unico
paia di jeans rimesso a nuovo per l'occasione: ci si pavoneggiava tenendosi
per mano con la ragazza appena conquistata.
Per il più bravo, cioè quello che era riuscito ad avere più avventure con più
straniere e magari con le più carine era oggetto di orgoglio e di prestigio e
per tutto l'anno scolastico e non si faceva altro che raccontare, ai meno
fortunati, di quelle avventure arricchite di episodi e situazioni oggi poco
interessanti ma per quell' epoca estremamente piccanti.
Quelle straniere alte, bionde, alcune di statuaria bellezza, provenienti da
paesi all'avanguardia sicuramente per quanto riguardava l'educazione
sessuale, fornivano a noi giovani del tempo, in un paese del sud, quel
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necessario bagaglio di informazione e di ammodernamento delle abitudini
e dei nostri costumi. Basti pensare alle prime minigonne, che sarebbero
apparse di lì a poco, o ai primi bikini o ancor di più a qualche topless. Esse
lasciavano in noi, bei ricordi, e alcune volte e non di rado…qualche
colonia di streptococchi.
Infatti alla loro partenza, dopo la settimana di vacanza, tra lacrime,
abbracci e scambi di promesse , non erano pochi i dongiovanni che si
recavano furtivi in farmacia, con ricetta del medico, causa strani bruciori
accompagnati da ancor più strane perdite dagli organi genitali. Molti di
loro hanno poi sposato la loro conquista trasferendosi a Londra, Parigi,
Oslo o Berlino, più che altro perché attratti da buone prospettive di lavoro.
I più fortunati sono riusciti a formarsi una famiglia e ad adattarsi agli usi e
ai costumi locali , per molti altri é stato un fallimento e non hanno più fatto
ritorno al paese natio, forse per vergogna oppure per non offuscare
l'immagine di conquistatore che si erano fatti negli anni passati e di loro
non si é saputo più nulla. Sto parlando di anni per me molto brutti, anni
amari, forse i più brutti della mia giovinezza, di quelli che lasciano il
segno.
Era chiaro che le conquiste più significative fossero avvenute in spiaggia,
dove era sufficiente un piccolo pretesto per attaccar bottone, facendo
sfoggio delle poche parole imparate durante l'anno scolastico, per lo più
frasi già preparate. In realtà però, come sempre, a scegliere erano sempre
loro, le turiste, ma era chiaro che ad accaparrarsi le più carine erano i
cosiddetti fusti anche se sapevano pronunciare soltanto buon giorno e
buonasera. Io ero completamente fuori gioco. Preferivo non scendere
proprio in spiaggia non mettermi in mostra e restarmene da solo in disparte
con un amaro sorriso sulle labbra e una spina nel cuore. Infatti la vitiligine
che mi deturpava in parte il volto e le mani ed alcune parti del torace, con i
raggi abbronzanti del sole, finiva col mettere ancora di più in risalto la
differenza di colorazione della pelle creandomi seri problemi di
adattamento, specialmente in spiaggia.
Chi legge e sente parlare per la prima volta di vitiligine pensa a chissà
quale male o quale forma di malattia o disfunzione della pelle. Non é né
l'una né l'altra. Secondo noti dermatologi é mancanza di pigmento e pare
sia causato da choc nervoso delle cellule preposte per la sua secrezione. A
tutt’ oggi non se ne conoscono i motivi e non vi é alcun rimedio.
Dall'età di quattro anni e cioè fin dalla comparsa sul viso delle prime
chiazze, di problemi ne ho avuti, in modo particolare durante gli anni
dell'adolescenza... Non che soffrissi di complessi di inferiorità o di altro, é
che non mi é mai piaciuto mettermi in mostra ed essere oggetto di
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osservazioni curiose,rispondere a domande imbarazzanti e poco delicate o
a commenti a volte poco lusinghieri.
A soffrirne parecchio era pure mia madre, anche se in silenzio e senza mai
lasciare trapelare alcuna emozione. Spesso dava fondo ai pochi risparmi
per portarmi da specialisti a Napoli e farmi sottoporre a strane terapie a
base di raggi ultravioletti, ma sempre con scarso risultato. Si sentiva quasi
in colpa, responsabile di questa mia situazione per il solo fatto di avermi
generato e di vedersi impotente dopo aver tentato tutto quanto era
possibile, allora, per la scienza medica.
Era proprio in quelle occasioni, che carezzandomi il capo, e baciandomi
sulla fronte mi insegnava a trasformare il mio difetto fisico in particolarità
ma soprattutto mi insegnava a guardarmi entro. Fissandomi sempre con
quei suoi grandi occhi neri, quasi a volersi far perdonare quella sua
impossibilità a risolvere il mio grosso problema. Non si rendeva conto che
era proprio il vederla soffrire in silenzio a causa mia che mi amareggiava
moltissimo e che per questo io l'amavo immensamente, ed oggi più di
allora.
Oggi incontro tante persone affette da questo inconveniente, sembra quasi
diventata la malattia del secolo e che secondo statistiche di noti istituti
dermatologici ne é affetto l'uno per cento della popolazione europea. Tocca
tutte le classi sociali, ricchi, poveri, docenti universitari, medici, noti
professionisti , dirigenti di azienda, giovani donne bellissime e persino
qualche presidente della repubblica. Pare che la causa scatenante sia lo
stress.
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La mia prima ragazza
All’età di diciassette anni ho avuto la mia prima ragazza, la mia prima
esperienza amorosa ed è stato con lei che ho goduto le prime emozioni di
un bacio appassionato, quasi rubato, dietro un carretto o un portone o in
una stradina di sera al buio.
Si realizzavano così i primi sogni, il piacere di stringere a te una ragazza
per la prima volta e sentirti finalmente uomo, insomma la prima cotta.
Aspettare per delle ore sotto la sua finestra in attesa di un cenno e attendere
che uscisse per qualche commissione e poter stare un poco insieme:
Parlare del futuro e fare progetti tenendosi per mano, momenti molto belli
specie quando il calore e l'affetto che dai ti viene ricambiato con la
medesima intensità. Ci lasciammo dopo alcuni mesi senza apparenti
motivi, pare che ai genitori della ragazza di tanta poesia non importasse
proprio nulla. Cercavano un marito per la loro figliola a breve termine e
prima che avessi potuto farlo io di acqua sotto i ponti ne sarebbe dovuta
scorrere tanta. Assaporavo, quindi, ancora troppo giovane, le prime
delusioni e le prime amarezze che pure possono scaturire da un rapporto
cosi bello.
Più avanti negli anni ho imparato alcune cose e credo che ve ne siano
ancora tante da imparare sui rapporti con il sesso cosiddetto debole.
Cos'abbia poi di debole una donna non sono mai riuscito a capirlo, ed é
quasi sempre lei a tenere i fili di un rapporto mentre, quando vuole, sa
essere assai più forte di noialtri maschi. Guai a farle capire che ne sei
troppo innamorato, significherebbe essere alla sua mercé anima e corpo, e
quando vuole sa farti soffrire fino a spezzarti il cuore. Le persone con una
certa sensibilità d'animo, le quali non esitano ad esternare subito i propri
sentimenti, le proprie ansie, le proprie emozioni e tutto quanto di più bello
si portano dentro, corrono il rischio, quasi sempre, di passare da momenti
di gioia immensa a momenti di profonda costernazione. Forse perché non
comprese subito o forse, perché mal comprese. Nel corso della mia
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gioventù é capitato spesse volte di perdere amicizie molto significative
che avrebbero potuto dare inizio a storie interessanti, per il solo fatto di
aver messo troppo entusiasmo nell'esprimere i propri sentimenti anche se
con onestà e sincerità; senza altri fini se non quello di poter contare su
qualcuno, entrare in un angolo del suo cuore e rimanerci in silenzio. Vivere
sapendo di essere importante per qualcuno su cui poter contare in ogni
momento credo sia il desiderio di tutti. Ti aiuta ad affrontare la vita con
maggior coraggio e a superarne i momenti difficili. Purtroppo pero, tutto
ciò non sempre riesce e molte volte, questo, oltre a ferirti profondamente, ti
vale anche la qualifica di immaturo. A questo punto vale la pena di citare
una massima da un manoscritto di un filosofo
Americano trovato nella chiesa di S. Paolo a Baltimora nel 1692
“Sii sempre te stesso sopratutto non fingere negli affetti e neppure sii
cinico riguardo all’ amor , perché a dispetto di tutte le aridità e disillusioni
esso é perenne come 1‘ erba”.
Sto parlando di anni in cui prima che una ragazza ti dicesse di si dovevi
prima farle una corte accanita e ancor prima che potessi infilarle una mano
tra il reggiseno ti ci dovevi almeno fidanzare ufficialmente. Oggi» se uno
ci riflette un po', si rende conto che forse era quasi tutto più bello allora, e
che tutta, questa ventata di civiltà e di progresso, che ci ha investito in
questi ultimi anni, tutta questa apparente fasulla emancipazione in tutti i
campi per un certo senso non credo abbia migliorato di molto il modo di
vivere rispetto a quel periodo,o almeno non ci ha resi più civili.
Durante l'estate di quegli anni,- sembrerà strano, trovavo spesso rifugio nei
libri di scuola. Infatti oltre a riparare l'immancabile matematica , mi
piaceva immergermi nei libri di storia e di letteratura italiana in special
modo mi piacevano Foscolo e Leopardi; avevo un obiettivo: diplomarmi e
iniziare a lavorare seriamente, volevo navigare e volevo fare presto soldi e
carriera in modo da poter tirare via da quell' unica stanza tutta la mia
famiglia e offrir loro una vita più agiata. Volevo dimostrare a mia madre
che non aveva riposto invano le sue speranze.
Aveva già pagato a caro prezzo la povera donna, l'aver sposato un uomo di
otto anni più giovane di lei, un uomo che aveva bisogno più di una madre
che di una moglie con tutte le responsabilità che questa cosa comportava
per la sua vita e per la nostra.
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Il mare, il deserto
Ho accennato prima alla via del mare»si, perché allora il mare
rappresentava l'unica fonte di guadagno rapida e sicura. Quasi ogni
famiglia della penisola sorrentina con Torre del Greco e Castellammare
comprese, mandava- anche a costo di grossi sacrifici- il primogenito
all'istituto nautico di Piano di Sorrento. Una volta conseguito il diploma di
capitano di lungo corso o di macchinista navale, con pochi anni di
navigazione specie se su navi petroliere, ti potevi risollevare dalle miserie
del dopoguerra. Durante i cinque anni di frequenza ognuno di noi faceva
grossi progetti, sognando carriere brillanti su ponti di comando o in sala
macchine,traversate oceaniche piene di fascino e di mistero e avventure
con ragazze esotiche dall'ombellico scoperto.
Si assaporava anche la gioia del ritorno a casa, dopo lunghi viaggi, pieni di
orgoglio e con le valige colme di tante cose a volte interessanti a volte
inutili cianfrusaglie. Ognuno ascoltava con grande interesse i racconti
avventurosi di qualcuno più anziano che al suo ritorno da lunghi viaggi,
tornava all'istituto per salutare vecchi insegnanti o più che altro per
mostrare qualche capo di vestiario americano. Raccontando avventure con
fanciulle sudamericane o mediorientali, magari arricchite da contorni più
piccanti. Tutte quei racconti venivano seguiti con grande interesse e
restavano oggetto dei nostri discorsi per parecchie settimane. Fino
all'arrivo di qualcun altro che ne raccontava delle nuove. Molti di noi, poi,
si sono subito resi conto che la realtà era ben diversa.
Il mare ha sempre avuto, indubbiamente, il suo fascino, un qualcosa di
infinitamente bello, un qualcosa che con il tempo ti entra nel sangue e te ne
innamori tanto da non poterne fare più a meno, come per una bella donna
ma come ogni bella donna sa essere anche amaro e cattivo. Un oceano in
tempesta, di paura ne fa venire tanta. Ti senti sballottato per giorni interi di
qua e di là come chiuso in una scatola di latta mentre onde maestose dalla
cresta frastagliata dai venti impetuosi ti vengono incontro minacciose.
Quasi a mettere a dura prova il tuo coraggio di uomo e di marinaio.
Preoccupato e sbigottito, osservi dall'oblò ben sigillato, uno spettacolo
che potrei definire unico al mondo. Solo allora ti rendi conto della
maestosità delle forze della natura e di tutta la loro potenza e che la nave,
per quanto possa essere grande e modernamente attrezzata, rimane a
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malapena un piccolissimo guscio di noce alla mercé di tanta forza
sovrumana. E’ proprio in quei momenti, che ti torna in mente la casa, la
famiglia, il paese, tutte le persone care. Poi quasi rapito da tanto
sbigottimento alzi gli occhi al cielo sempre grigio e minaccioso, e pensi a
Nostro Signore in tutta la Sua grandezza ed é a Lui che ti rivolgi con
preghiera semplice e silenziosa. Val la pena ricordare alcuni versi di un
poeta arabo del 700 “ Bisogna essere perduti nell'immensità dell' oceano o
del deserto per sapere che cosa sia la solitudine dove non canta né un
albero né un uccello, nell'aridità delle pietre e della sabbia Colui che non
conosce questo non può dire di essere mai rimasto solo". Ed é proprio da
questa solitudine povera e silenziosa che nasce la speranza e la preghiera
anche per i più renitenti, una preghiera che tutto trasforma in comunione ed
in amore. LA vita di mare,quindi,non é fatta solo di emozionanti avventure
o di spettacoli maestosi che soltanto un oceano può dare, come ad esempio
il sorgere della luna nuova nell’ Atlantico o i favolosi tramonti dell’ oceano
Indiano, ma anche di grandi rischi e di privazioni. Dopo alcuni anni, ti
rendi conto che ti manca qualcosa. Che non ti bastano più le lettere della
mamma, dei fratelli o di qualche amico, senti che ti manca un qualcosa che
ti faccia sentire più vivo, più forte, un qualcosa che ti dia una ragione in
più per tutti i sacrifici una ragione per la quale valga la pena questa vita.
Un qualcosa che ti faccia sentire meno solo in tanta immensità e alla quale
tu possa dedicare una parte dei tuoi pensieri, specie di sera sotto le stelle.
Volevo una famiglia mia : una moglie, dei figli che mi accogliessero
quando tornavo a casa. Per il navigante il concetto famiglia, ha significati
un po' particolari, sa che la scelta errata della propria compagna gli
costerebbe molto caro e che gli renderebbe la lontananza ancor più amara e
pesante. Nasce, quindi la necessità di una scelta accurata ed attenta di
quella che sarà in futuro la, propria consorte e cioè una ragazza semplice
ed onesta, affettuosa e senza tanti grilli per la testa, disposta a dividere i
rischi e le privazioni della lontananza anche per lunghi periodi e che al
ritorno si dedichi a lui anima e corpo, facendogli dimenticare con le sue
dolcezze le fatiche e le amarezze di mesi di duro lavoro. Più di ogni altra
cosa che sia una buona, educatrice dei propri figlioli ed un ottima
amministratrice, responsabilità assai gravose e spesso mal sopportate. Con
il passar degli anni poi, ti rendi conto che la fatica della lontananza da cosi
grandi affetti diventa sempre più pesante e a volte, tuo malgrado, nasce la
necessità di cambiare professione, che anche se meno lucrosa, ti consenta
almeno di assaporare la gioia incomparabile del ritorno a sera a casa .La
mia vita di navigante, quindi, non é durata a lungo. Dieci anni circa di
navigazione effettuati su vecchie carrette e su navi petroliere sulle quali ho
girato buona parte del mondo. Oltre a permettermi di guadagnare qualche
soldo in più questa magnifica professione mi ha consentito,durante i lunghi
viaggi, di visitare tanti paesi,di conoscere tante genti diverse, di impararne
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usi e costumi e sopratutto a rispettarne le tradizioni, gli usi e i costumi
molto diversi dai nostri.
Il Giappone
Nell'aprile del 1964 una grossa compagnia di navigazione americana
cercava ufficiali di macchina e di coperta da inviare in Giappone ad
assistere ai lavori di trasformazione di alcune navi petroliere di loro
gestione. Questi lavori consistevano nell'aumentare la portata dello
stivaggio attraverso l'aggiunta di tanche laterali e centrali lasciando
invariata la potenza dell'apparato motore. La chiusura del canale di Suez a
causa della guerra dei sei giorni tra Egitto ed Israele aveva segnato una
grave crisi nei trasporti marittimi per il medio ed estremo oriente
costringendo le navi a fare il periplo dell'Africa. Molte società di armatori
preferivano mettere in disarmo le loro navi, altre invece, le più forti,
preferivano aumentare la portata delle loro navi e rientrare così nei costi
sostenuti con viaggi più lunghi.. Avevo da poche settimane conseguito con
esito brillane gli esami di patentino presso la Capitaneria di porto di
Cagliari che mi autorizzava a svolgere le mansioni di ufficiale di
macchina su navi nazionali ed estere di qualsiasi tipo e tonnellaggio.
Risposi all'annuncio della AFRAN con scarso entusiasmo, nulla faceva
presagire la speranza o la fortuna di avere un ingaggio. Sicuramente gli
altri concorrenti avrebbero avuto certamente esperienze professionali
superiori alle mie. Dopo circa un'ora di attesa , una graziosa segretaria mi
fece accomodare nell'ufficio del responsabile. La conoscenza di qualche
lingua mi ha sempre aiutato nella vita, forse fu per questo motivo, o forse
per simpatia o per semplice fortuna, fatto fu che dopo dieci minuti di
colloquio, questo grosso signore americano nello stringermi la mano mi
disse che l'ingaggio era mio e che nello spazio di una settimana sarei
dovuto partire per il Giappone. II tempo necessario per il disbrigo delle
pratiche necessarie e tutto fu pronto in pochi giorni. Si avverava cosi, una
parte dei miei sogni. Non credevo ai miei occhi, ancor oggi mi domando
del perché tra tutti quelli che si erano presentati, ed erano veramente tanti
fui scelto proprio io : chissà, forse perché ero il più giovane, forse perché si
leggeva sul mio viso che ero desideroso di quel lavoro o forse solo per
semplice fortuna.. Quando lasciai l’ufficio, alcuni che mi avevano
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preceduto nel colloquio, mi guardarono con sguardi pieni di interrogativi,
altri con invidia, altri con un sorriso ironico, altri non mancarono di
accennare al solito raccomandato. Nemmeno mi voltai, tanto mi sentivo
felice, fiero ed orgoglioso. Avevo quasi l'impressione di camminare senza
toccare con i piedi per terra, come sospeso, leggero come una piuma.
Guardavo diritto davanti a me e con passo veloce verso la stazione a
prendere il primo treno in partenza, non vedevo l'ora di raccontare tutto a
mia madre. Come ho già detto: in pochissimi giorni preparai tutti i
documenti necessari e alla firma del contratto ricevetti. Oltre al biglietto
dell'aereo, un congruo bonus in dollari per spese generali. II 17 di aprile
partivo da Napoli per Hiroshima . Un viaggio molto stressante, ma la gioia
che avevo dentro e l'ansia di arrivare era tanta che non mi fecero dormire
per tutta la durata del viaggio. Finalmente, per la prima volta, mi
imbarcavo su una nave così lontana e non per partire subito, ma per
rimanervi alcuni mesi per lavori, mentre alloggiavamo in albergo in un
paese sconosciutissimo ma di cui avevo sentito tanto parlare e che era
sempre stato nei miei sogni di ragazzo. Finalmente conoscevo l’ estremo
oriente e il Giappone . Questo paese dalle mille risorse, dalla gente fiera e
orgogliosa, legata alle loro millenarie tradizioni, laboriosa ed intelligente,
leale onesta e molto ospitale. Gente meravigliosa, donne dal fascino
misterioso e discreto. All'arrivo ad Hiroshima era ad attendermi un auto
inviata dall'agenzia che mi condusse a Kure, una cittadina distante una
ventina di km, ed esattamente al Semba Hotel. Dopo aver sbrigato le
pratiche di rito mi ritirai nella mia camera e senza neanche spogliarmi mi
buttai sul letto, ove rimasi fino al mattino successivo. A svegliarmi ci
penso una graziosa vecchina che in punta di piedi e con molto tatto nel
porgermi una tazzina di caffè, cercava di spiegarmi in un pessimo inglese,
che in sala mi attendevano due signori. I due primi ufficiali della nave,
giunti qualche settimana prima, aspettavano di conoscermi per
accompagnarmi al cantiere Kawasaki per presentarmi alle maestranze
locali ed assegnarmi quelle che, da quel momento, sarebbero state le mie
mansioni. Questi signori essendo di grado più alto alloggiavano in un
albergo più grande insieme al comandante e al direttore di macchina della
nave. II Semba Hotel era una modesta pensione tutta in legno a due piani,
molto pulita ed accogliente con al centro un minuscolo giardino ricco di
fiori variopinti e pini nani, con l'immancabile vasca di pesciolini rossi
alimentata da un piccolo rigagnolo d'acqua corrente. Gli avventori
pochissimi, per lo più uomini d'affari o agenti di commercio . La
proprietaria, miss Saito, per non farmi sentire a disagio mi faceva pranzare
un po’ dopo, aspettando che tutti gli avventori fossero usciti , facendosi in
quattro per prepararmi tutto quello che di buono sapeva cucinare,
purtroppo sempre a base di riso, che io con un piccolo sforzo di finzione
dimostravo di gradire. Ogni mattino, dopo colazione, veniva l'autista del
cantiere a prendermi con l'auto aziendale e con la stessa facevo ritorno a
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sera in pensione. Man a mano che i giorni passavano cominciavo a capire
quella gente e ad adattarmi alle loro usanze, anche se non senza difficoltà.
Come ad esempio mai entrare in casa con le scarpe e a sera andare in sala
da pranzo indossando una specie di kimono. Degli appositi zoccoli di
legno erano sistemati in uno scaffale all'ingresso e mentre mi accingevo ad
andare in camera- a cambiarmi, la vecchina o mamasan, mi preparava, il
bagno caldo con sali profumati e spesse volte era lei stessa ad insaponarmi
la schiena aspettandosi poi i soliti complimenti che dimostrava di gradire
molto con lievi inchini. Ciò che non riuscivo a capire, all'inizio, era il
perché di strani sorrisetti ogni qualvolta mi strofinava il petto. Soltanto in
un secondo momento compresi che la causa era dovuta alla folta peluria
che mi copriva parte del torace e delle cosce, cosa che per i giapponesi
veniva considerato simbolo di grande virilità. Qualche problema nasceva
al sabato pomeriggio e sopratutto la domenica. Di divertimenti ve ne erano
molti, ma da solo mi annoiavo e ciò non era sfuggito a Miss Saito che tra
l'altro era l'unica persona in albergo a parlare un poco di inglese. Spesse
volte mi faceva accompagnare dai suoi due figli a fare picnic ad Hondo
park, un grazioso isolotto poco distante al quale si accedeva attraverso un
minuscolo ponticello di legno. Si era in primavera inoltrata e le giornate
erano stupende, con un clima dolce simile alle giornate primaverili in
penisola sorrentina. La gente portava i bambini fuori a giocare e ogni
famiglia faceva ben attenzione a non lasciare nel parco cartacce o altri
rifiuti, cosa che ognuno sistemava in appositi contenitori ordinatamente.
Anche le radioline a transistor erano tenute a basso volume per non
disturbare chi era venuta a godere un po' di tranquillità o anche solo per
discorrere fra di loro era cosi e lo facevano così a bassa voce che
difficilmente se ne distinguevano le voci. Le donne discorrevano tra loro
con compostezza, senza gesticolare, coprendosi il viso,di tanto in tanto,
con un piccolo ventaglio di seta quasi a voler nascondere un delicato
sorriso. Gli uomini le precedevano con fare patriarcale scambiandosi
rispettosi inchini. Restavo colpito da quella educazione tale educazione,e
da quei modi di fare tanto gentili e raffinati, da tanta civiltà. Da buon
napoletano cercai di insegnar loro a cucinare gli spaghetti al filetto di
pomodoro cotti al dente, evitando di mangiarli sempre scotti e per giunta di
contorno alla solita bistecca. Di tanto in tanto canticchiavo qualche vecchia
canzone napoletana che tutta la famiglia Saito ascoltava estasiata,
ringraziandomi poi con calorosi applausi.. Purtroppo neanche questo
bastava, mancava ancora qualcosa e lo aveva capito anche la proprietaria
della pensione.
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Aiko
Una sera tornando dal cantiere, la signora Saito mi chiese con molto garbo
se non avessi avuto niente in contrario di cenare in compagnia di un ospite
della pensione. Fu cosi che conobbi Aiko una graziosa ragazza di circa
diciannove anni che lavorava come promotrice di prodotti cosmetici e che
ogni settimana veniva a Kure da Okayama per il suo giro, restando un paio
di giorni soltanto. Cercai subito di familiarizzare facendo sfoggio del poco
di lingua che ero riuscito ad imparare durante le poche settimane di
permanenza,mentre la signora Saito cercava di tradurre ogni tanto,
facendoci da interprete assai compiaciuta. L’indomani invitai la ragazza
per una passeggiata per la cittadina, cosa che lei accettò volentieri.
Andammo a cinema e dopo ad ascoltare un po' di musica alla casa da tè.
Chissà perché a volte a favorire la comprensione tra due persone, anche se
di cultura diversa, é proprio la musica.. Basta il suono di una chitarra o di
un violino, basta una bella voce ad accomunare persone di lingua e
costume diverso, sembrerà strano ma é proprio cosi». L'indomani al ritorno
a sera mi tocca nuovamente di cenare da solo. Aiko aveva terminato il suo
giro ed era partita lasciandomi i suoi saluti e tanta gratitudine per la bella
serata trascorsa insieme . Dopo circa una settimana, nel sedermi davanti
alla solita bistecca notavo sul viso della signora uno strano sorrisetto. Mi
osservava con una certa curiosità, più del solito, e mi ronzava intorno con
la scusa di pulire,di spostare una sedia o una posata. Con piccoli passi
svelti e con movimenti molto garbati mi lanciava maliziose occhiate
coprendosi le labbra per nascondere il solito sorriso. Ben presto mi resi
conto del perché di quel comportamento. Nell’ alzare il tovagliolo scoprii
un piccolo biglietto con un piccolo fiore di gelsomino stampigliato in un
angolo e sul quale era scritto una sola parola AIKO. In un primo momento
non riuscivo a capire, chiesi alla signora Sito e lei mi spiegò che Aiko era
tornata e aspettava che io l’andassi a prendere, non sapendo se dopo una
settimana io gradissi ancora la sua presenza a tavola . Mi precipitai subito
verso la sua camera ove in Kimono e seduta sui talloni, a testa bassa, mi
salutava scartabellando tra le mani un piccolo dizionario Giapponese-
Italiano. La salutai dandole il benvenuto alla loro maniera, con un lungo e
riverente inchino le porsi la mano ed insieme andammo in sala da pranzo
seguiti dallo sguardo compiaciuto della padrona di casa. Ogni anno a
Maggio, in Giappone , si festeggia il ciliegio in fiore. I negozi restano
chiusi per tutta la giornata e le scolaresche si riversano per le strade
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addobbate con lampioncini e bandierine di carta colorata, insieme ai loro
insegnanti e genitori. Tutti ad applaudire gruppi di marjòrettes che al suono
di pifferi e tamburi marciavano festose.. Quella mattina anche io ed Aiko
ci prendemmo una vacanza,salimmo su un grosso autobus e ci recammo
ad Hiroshima . Città bellissima costruita con i più moderni criteri di
architettura anche se di tanto in tanto si notavano ancora i segni lasciati
dall'esplosione atomica dell'ultimo conflitto. Ruderi lasciati positivamente
dalle autorità , quasi come monito alle future generazioni affinché non
dimenticassero mai lo scempio arrecato da quell’ esplosione. Al centro il
Peace Museum che oltre a migliaia di foto raccoglie testimonianze di ciò
che é stata una delle più grandi vergogna della storia. All'ingresso del
museo le foto a grandezza naturale di tutti gli scienziati che presero parte
alla costruzione della bomba con sotto una scritta in varie lingue:
Giapponesi! Questi i volti e i nomi degli scienziati che hanno contribuito
alla distruzione delle città di Hiroshima e Nagasaki . Tra quei nomi
figurava anche quello di un nostro connazionale Enrico Fermi. Confesso
che come italiano non potei fare a meno di provare vergogna.
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Hiroshima
Strade larghe con traffico ordinato e sui marciapiedi puliti una
miriade di persone s'incrociava senza urtarsi, rispettosa della segnaletica.
Uomini d'affari che discutevano a bassa voce, senza gesticolare e che poi si
salutava con ossequiosi inchini, sempre con tale compostezza ed
educazione che tanto distingue questo popolo. I negozi arredati con gusto e
sempre illuminati a giorno, mettevano in mostra le loro mercanzie più
preziose. Quasi sempre all'interno personale femminile che ti accoglieva
con graziosi sorrisi. Ragazze bellissime, specie nei negozi di perle di
Hondori e Nakadori Street, le due strade più importanti di Hiroshima, dove
spesso le commesse erano assai più belle delle perle coltivate che ti
mostravano su panni di velluto rosso o verde, a migliaia. Passeggiammo
per quasi tutta la mattinata, pranzammo in un tipico ristorante locale tutto a
base di riso e pesce, e per la prima volta assaggiai il tè tipico giapponese
fatto con alghe marine. Dicono che faccia bene allo stomaco, ma posso
assicurare di non aver mai bevuto in vita mia bevanda più nauseante. A
sera andammo al circo, sotto un enorme tendone si esibivano incontri di
lotta libera, ed esercizi ginnici alla sbarra e al trapezio . Aiko ogni tanto dal
suo piccolo dizionario tirava fuori qualche parola d' italiano, che al
momento non aveva alcun senso ma che io fingevo di gradire con un
sorriso, cercando di risponderle con il poco di lingua che ero riuscito ad
imparare. Eravamo seduti l'uno accanto all’'altra, molto vicini, e ogni
qualvolta le parlavo lei abbassava leggermente la testa, quasi a vergognarsi
dei suoi occhi a mandorla. Non immaginava che buona parte del suo
fascino era proprio là, in quei due piccoli meravigliosi occhi, neri come il
carbone e cosi pieni di espressioni e di luminosità. Anche durante tutta la
passeggiata camminava al mio fianco facendo bene attenzione di restare un
passetto dietro di me. E' tipica usanza giapponese, per una donna, restare
sempre un piccolo passo dietro al proprio compagno in segno di rispetto.
Spesse volte rallentavo l'andatura per restare sempre allineati e ci volle non
poco a farle capire che pur apprezzando tale atteggiamento per me era lo
stesso, anzi preferivo sentirmela vicino. Tanto che per ultimo mi decisi a
prenderla per mano, e cosi restammo fino all'arrivo a Kure. Ormai era
diventata una normale routine di lavoro inserire Kure nel suo giro di affari.
Ogni giovedì mattina arrivava puntuale al Semba Hotel lasciandomi un
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segnale del suo arrivo, come ad esempio un biglietto o un fiore di
gelsomino sul cuscino della mia camera. Ogni giovedì, al ritorno dal
cantiere, erano le prime cose che notavo con molta gioia. Non era una
grande bellezza, viso un po' appiattito, non molto alta ma per il resto ben
fatta a parte i seni molto piccoli. Non amava truccarsi il viso con creme e
rossetti anche se curava moltissimo l'estetica delle mani. Usava un
profumo molto delicato che sapeva di gelsomino e che io percepivo subito
appena lei era in albergo. Molto dolce, dai modi gentili e raffinati, ricca di
educazione, molto legata alle proprie tradizioni, labbra carnose, dal sorriso
semplice e misterioso nello stesso tempo, che ogni volta scopriva una
dentatura bianchissima perfettamente allineata. Ebbene questa minuscola
giapponesina mi attraeva molto,tanto da farmi lasciare il cantiere un po'
prima ogni giovedì pomeriggio. Amava farmi dei piccoli modesti
regali,ogni tanto, che accettavo con piacere, piccoli giocattoli di legno o
vasetti di creme da barba . Un giorno mi regalo una cornice con dentro una
sua foto, che ancora conservo molto gelosamente. Spesse volte non
uscivamo, restavamo in albergo ad ascoltare vecchi dischi di Nato Ring
Cole o di Armstrong oppure in camera sua dove piano piano mi insegnava
un po' di lingua giapponese che io imparavo molto rapidamente, tanto da
riuscire a mettere insieme alcune frasi. Sembrava assai compiaciuta di ciò,
anche se per esprimere altre cose non era affatto necessario parlare. Aiko
spesso mi toccava il naso, me lo carezzava delicatamente cominciando
dalla fronte. Non sono mai riuscito a capirne il significato. Forse l'unica
spiegazione sta nel fatto che questa gente ha il setto nasale piccolo e
schiacciato che spesso provoca loro problemi di respirazione oltre che di
estetica e che insieme alle palpebre, fa provare a questo popolo
meraviglioso una sorte di complesso di inferiorità nei riguardi di noi
occidentali, tanto che, soprattutto oggi, le donne si sottopongono a
dolorosi interventi estetici pur di modificare i loro lineamenti per renderli
simili ai nostri. II nostro rapporto, per tutta la durata della mia permanenza
in Giappone si limitò soltanto a questo. Per i giapponesi la stretta di mano
e il bacio sulle labbra é sempre stato considerato una scambio di batteri,
anche se oggi le cose sono cambiate in alcuni paesi del sud esiste ancora
questa consuetudine e cioè limitare i saluti e le dimostrazioni di affetto ad
un semplice e riverente inchino. Ad Aiko avevo cercato di far capire che in
un rapporto dì coppia il bacio é essenziale perché rafforza i sentimenti ed é
come voler trasmettere con il proprio respiro una parte della propria anima
nel corpo dell'altro. Su ciò la trovai molto consenziente, trovò cosi
piacevole baciarsi che ogni qualvolta tornava era la prima cosa che mi
chiedeva di fare, ancor prima di chiedermi come stavo. Non vi é stato altro
tra di noi, per Aiko io ero il primo ragazzo, consapevole che ben presto
sarei dovuto partire non me la sentii di rischiare di lasciarla nei guai, forse
perché avevo visto troppi film americani con situazioni del genere, forse
perché provavo della tenerezza per quella minuscola orientale. Anche
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perché sapevo che in Giappone il senso dell'onore é ancora molto alto e
che ben presto tra di noi ci sarebbero stati alcuni oceani e qualche
continente Una settimana prima della partenza, giunse dall'Italia il resto
dell'equipaggio della nave e con esso ci trasferimmo tutti a bordo in modo
da completare l'allestimento e iniziare ad espletare ognuno le proprie
mansioni,compresi i turni di guardia. Dopo tante settimane erano finite le
vacanze o meglio era finita la pacchia come soleva dire il comandante ogni
qualvolta si andava a pranzo. Riabituarsi alla vita di bordo era un po' duro.
Il giorno prima della partenza da Kure, Aiko venne appositamente da
Okayama ed insieme trascorremmo tutto il pomeriggio. Facemmo un po'
di shopping in modo da spendere gli ultimi Yen rimasti. Ricordo che
comprai una macchina fotografica, una collana di perle e tanti souvenir da
portare a casa . Aiko mi regalò un ventaglio di seta da portare a mia madre
e una sua piccola miniatura, pregandomi di non dimenticarla e di scrivere
di tanto in tanto. Un po' impacciato, più che emozionato, stavo cercando di
dire qualcosa, ma lei prontamente, nel poggiarmi il palmo della mano sulle
labbra, mi pregò di non dire nulla .Di non fare promesse che poi non avrei
potuto mantenere. Mi abbracciò teneramente, mentre due grosse lacrime
le scendevano per le guance. Rivivo ancora oggi, dopo circa trenta anni, le
emozioni di quei momenti solo a ricordarli. Dopo circa un anno, dalla mia
partenza da Kure, ricevetti una lettera scritta un po' in italiano un po' in
inglese dove, Aiko , mi ricordava che in Giappone si festeggiava
nuovamente il ciliegio in fiore ma che questa volta il suo cuore era molto
triste. Confesso che il mio primo pensiero fu quello di prepararmi le valige,
salire sul primo aereo per Hiroshima e andare dove mi portava il cuore.
Non me la sentii, sopratutto lasciare mia madre che forse non avrei mai più
rivisto. In Giappone non sono più tornato,anche se con Aiko siamo rimasti
in corrispondenza per diversi anni. E’ 1970 che non ricevo più sue notizie,
forse avrà cambiato città oppure si sarà formata una famiglia e il ricevere
mie notizie avrebbe potuto crearle qualche problema. Spesse volte torno
con il pensiero a rivivere quei momenti meravigliosi che tanto hanno
inciso sul mio carattere e sulla mia educazione. Forse, più avanti negli
anni, tornerò a rivisitare quei luoghi a me tanto cari e chissà se con un
pizzico di fortuna potrò rincontrare quella minuscola giapponesina.
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Sahara Algerino: Hassir'Mel
Anche il deserto, come gli oceani, ha il suo enorme fascino.
Durante i miei due anni di lavoro ad Hassir’Mel nel Sahara
Algerino ho potuto constatare di persona quanto sia affascinante
questa immensità di sabbia e di pietre che i venti lavorano
continuamente, dando loro le forme più strane. Spazi infiniti e
silenzi profondi, rotti soltanto dal sibilo dei venti caldi,che con il
loro soffiare costante e la loro potenza, riescono a spostare intere
dune di sabbia da una zona ad un' altra trasformando continuamente
il paesaggio. Nel deserto c'è vita, questo potrà sembrare strano a chi
si dovesse trovare per la prima volta per lavoro o per turismo nel
Sahara. Immerso in questo mare di silenzio e di solitudine, tra pietre
aride e sabbia lucente, sotto un sole impietoso in un cielo sempre
terso di un azzurro intenso, vivono intere mandrie di dromedari ed
enormi greggi di pecore e capre. Brucando la poca erba che trovano
assai ricca di sostanze nutrienti e dissetanti, riescono a sopravvivere
garantendo a loro volta la vita a piccoli gruppi di nomadi che a
secondo dei periodi si spostano continuamente da un' oasi all'altra
con tutte le loro masserizie. Infatti, il latte, i datteri e ogni tanto un
po' di carne di montone o di dromedario costituiscono elementi
essenziali per la sopravvivenza di queste genti. Sono proprio queste
poche cose che offrono, insieme ad un po’ di pane azzimo, al
viandante turista o pellegrino che si trovasse a passare davanti ai
loro accampamenti. L'ospitalità per questa gente é sacra, l'ospite é
considerato come messo di Allah. Durante la mia permanenza nel
deserto, durante i lavori di montaggio del Gasdotto Algeria-Italia,
vivendo quasi sempre a contatto con gruppi di nomadi che
lavoravano al nostro campo base, mi sono capitati numerosi episodi
e credo che qualcuno valga la pena di essere raccontato.
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Le nozze di Mohamed
Uno degli addetti alle pulizie in cucina prende moglie, la prima
moglie. Raramente gli arabi fanno partecipare europei a cerimonie
cosi solenni, sono molto gelosi delle loro usanze, io sono stato uno
dei pochi fortunati. Vuoi perché trattavo con molta umanità questa
gente, vuoi perché all'ora della preghiera li facevo smettere di
lavorare un po’ prima in modo che avessero il tempo necessario di
fare le pulizie al proprio corpo prima di pregare. Spesse volte
pregavo anche io insieme a loro, si perché nel deserto ho riscoperto
la preghiera, ho imparato a pregare Dio. Forse è stato proprio questo
il motivo dell’invito di Mohamed alle proprie nozze.
Attorno ad alcuni grossi fuochi, ogni tanto alimentati con sterco
di dromedario essiccato dove venivano arrostiti alcuni montoni
uccisi per l'occasione, sedevano da una parte i familiari dello sposo
e dall'altra quelli della sposa. Soltanto i maschi. Le donne erano
intente a preparare la sposa , che io non sono mai riuscito a vedere
in viso, sotto una grossa tenda nera tutta addobbata di nastri colorati.
Ad un certo punto un gruppo di nomadi anziani, parenti dello sposo,
lascia il proprio posto per andare a sedere accanto ad un fuoco più
grande dove stavano seduti i parenti della sposa. Iniziano così le
trattative per il contratto finale. Io me ne sto in disparte sempre
guardingo ad osservare silenzioso e non nascondo anche con un po’
di paura. Soltanto a contratto concluso con baci e abbracci, vengo a
sapere che il povero Mohamed ha dovuto pagare al futuro suocero
un dromedario, otto capre e alcune migliaia di dinari locali, pari a
poche centinaia di migliaia di lire italiane e che la sposa aveva
appena compiuto gli undici anni d’età.. Dopo alcuni minuti lo
sposo, tutto raggiante e coperto da un grosso mantello bianco, si
avvia verso la tenda nuziale sputando di tanto in tanto un liquido
rossastro che gli viene dalla masticazione di una miscela di tabacco
ed erbe aromatiche, secondo antiche tradizioni beduine molto
eccitanti. Fa uscire tutte le donne, che, anche se anziane, sono
sempre con il viso coperto dal tradizionale velo , entra e chiude la
tenda dall'interno. A questo punto la cosa più strana: i nomadi seduti
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attorno ai fuochi iniziano a battere con dei bastoni su grossi
coperchi di latta facendo un frastuono infernale e come se non
bastasse irrompono al centro del campo alcuni guerrieri nei loro
costumi tradizionali che in groppa a dei meravigliosi purosangue,
veloci come il vento lasciano partire alcune scariche a salve da
vecchi fucili da caccia. II tutto tra le urla festose delle donne che
emettono un suono gutturale stridulo prodotto dalla vibrazione della
lingua. Tutto il campo é un via vai di gente che urla e suona a più
non posso. Io rimango seduto al mia posto, immobile ed affascinato,
e soltanto alla fine apprendo che le urla e tutto il baccano servivano
a coprire le eventuali grida di dolore della povera sposa che veniva
deflorata con brutale e disumana violenza. Dopo circa mezz'ora di
permanenza sotto la tenda i tamburi tacciono e lo sposo tutto
raggiante in volto, inorgoglito dalla sua provata mascolinità, esce
per andare a sedere nuovamente vicino ai, parenti e a raccontare
come è andata. Tutte le donne anziane che prima avevano
preparato la ragazza ritornano nuovo sotto la tenda e ne escono
subito dopo mostrando agli invitati tutti un piccolo batuffolo di
cotone macchiato di sangue, a dimostrare la illibatezza della
fanciulla. A questo punto ricomincia il baccano e si conclude il
contratto nuziale definitivamente. Si da cosi inizio al banchetto a
base di carne di montone con riso lesso, datteri e una specie di
biscotti dolci, pane azzimo accompagnato da brocche di latte di
capra. Se per puro caso, per difetti di imene, o per anemia o per
qualsiasi altro motivo di disfunzione della povera sposa, non si
fossero viste quelle poche gocce di sangue significava che la
ragazza non era vergine pertanto lo sposo con i propri familiari
ritenendosi offeso ed imbrogliato rompeva il contratto. Quasi
sempre, in casi del genere, la discussione tra le parti durava tutta la
notte e spesse volte finiva a coltellate. Quella é stata l'unica e sola
volta che ho partecipato a feste del genere.
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Una persona che non
dimenticherò mai
Ogni venerdì si celebrava la festa cranica era il giorno
equivalente alla nostra domenica. Usufruivamo di mezza giornata di
riposo che ognuno trascorreva a leggere, scrivere a casa oppure
giocando a carte o facendo delle piccole escursioni in Land Rover,
fino alle oasi di Metlilli o Ghardaia senza però allontanarsi troppo.
Fu appunto al ritorno da una di queste gite che al campo base mi
capito di incontrare una persona, venuta appositamente da Algeri a
farci visita: un missionario dei Peres Blanches. Giovane, sui
trentacinque anni, molto colto, sempre sorridente, ogni venerdì
pomeriggio veniva a celebrarci la Santa Messa percorrendo circa
mille km i pista desertica..Sempre disponibile ascoltava con
interesse, ma sopratutto con il cuore, le nostre storie, quasi sempre
poco belle, riuscendo a trovare parole di conforto e di
incoraggiamento facendo sfoggio del suo sorriso aperto e
rassicurante. Con don Agostino instaurammo subito un rapporto di
cordiale ed affettuosa amicizia, e lo aspettavamo tutti con
trepidazione per poterci confessare ed ascoltare la Santa Messa.
Spesso pernottava da noi, ero io stesso a preparagli un alloggio che
anche se modesto, dimostrava di gradire sempre con piacere.
Diceva che quelle poche ore trascorse tra noi gli davano la
sensazione di sentirsi in Italia. Il primo Natale in Algeria toccò a
me, essendo uno degli ultimi arrivati, insieme ad altri sei tecnici
italiani. Fui costretto a rimanere di guardia al campo. Ebbene pur
avendo già vissuto esperienze del genere durante i miei pochi anni
di marinaio, posso assicurare che trascorrere il Natale lontano dai
propri cari é una fatica che l'animo umano non riesce a sopportare
tanto facilmente. A questo punto ecco entrare in scena don
Agostino. Questo giovane missionario trascorse tutto il periodo
Natalizio al campo a farci compagnia, facendoci pesare meno la
lontananza Ricordo che durante una passeggiata gli chiesi come mai
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un giovane colto e pieno di vita trascorresse lunghi periodi in posti
tanto lontani, quasi dimenticati da Dio, percorrendo migliaia di Km
e senza non poca fatica per celebrare la Messa ad un piccolo gruppo
di espatriati costretti a quel duro lavoro dalle necessità della vita.
Sarebbe potuto restare ad Algeri presso la Nunziatura Apostolica
dove svolgeva funzioni di segretario, con tutte le comodità con
l’aria condizionata e magari tra gente del suo stesso livello socio
culturale, oppure tornarsene nella sua Vicenza e trascorrere il Natale
con i suoi che tanto amava. Invece si fermò con noi e per un attimo
guardandomi e poi poggiandomi il braccio sulla spalla e con il suo
solito sorriso, mi disse “ Non puoi immaginare la gioia che provo e
1'appagamento che provo nel sacrificare poche ore della mia vita
per gli altri, percorrerei anche diecimila Km se fosse necessario per
celebrare la Messa sia pure per uno di voi soltanto”. Poi riguardo al
posto dimenticato da Dio continuò così “ Non esistono posti
dimenticati da Dio,più questi sono lontani e più Dio è vicino a te,.
infatti egli ora é qui con te mano nella mano, la tua bagnata di
sudore la sua di sangue”.
La notte di Natale improvvisammo un altare all'aperto sulla
sabbia rossa del deserto illuminato soltanto dal chiarore della luna e
delle stelle tra le quali si vedeva nitida nella notte tersa del deserto la
costellazione della Croce del Sud.. Tutti insieme cantammo il "Tu
scendi dalle stelle" mentre si celebrava la Messa di mezzanotte. A
cantare vi era anche chi non entrava in una Chiesa da più di trenta
anni. Un’ esperienza unica che fa parte dei miei ricordi più cari e
non manco mai di ricordare nelle mie lettere la figura di Sua
Eminenza don Agostino Marchetto. Già perché don Agostino alcuni
anni fa é stato consacrato vescovo di Astigi e alla cerimonia io e la
mia famiglia avemmo l' alto onore di partecipare. Dopo l’Algeria é
stato nunzio apostolico in quasi tutto il continente Africano
compreso il Madagascar e le isole Mauritius , attualmente é nunzio
apostolico a Minsk in Bielorussia quale primo ambasciatore del
Papa dove svolge la sua missione con lo stesso entusiasmo e la
stessa forza di allora.. Sono sicuro che di persone così non se ne
incontrano tutti i giorni, ma quando ti capita é proprio nei posti più
strani ed impensati, lontani dalla cosiddetta civiltà. Sono proprio
loro che, animati da spirito di iniziativa pronti ad affrontare ogni
sorta di privazione e sacrifici, ricchi soltanto di altruistica bontà e
armati di fede cristiana, fanno riacquistare la fede in Cristo a chi l'
ha persa e la rafforzano in quelli che ce l’hanno debole.
Fortunatamente esistono ancora sacerdoti di questo genere. L' aver
incontrato questo giovane missionario, nel deserto del Sahara, in
un'oasi sperduta lontano dal mondo, in un momento tra i più difficili
della mia vita, quando ti abbandonavano speranza e fiducia, quando
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sentendoti solo e lontano dagli affetti più cari persino la fede
vacillava, é stato per me una grande fortuna, e un po’ come accade
in quei racconti del Reader's Digest posso poter dire che Agostino é
una persona che non dimenticherò mai.
Il ricordo dei compagni di scuola
Amo molto trascorrere parte del mio tempo libero tra le mie
vecchie cose libri di scuola vecchie litografie, foto ingiallite dal
tempo e tanti altri oggetti . Sotto lo sguardo attento di Andrea , che
nel vedermi rassettare con tanta cura vecchie cianfrusaglie, non può
fare a meno di domandarmene il perché, sapendo che ad ognuna di
esse é legata una storia,interessante o meno, ma che comunque fa
parte di ricordi a me molto cari. Ci sediamo, sul divano, l'uno
accanto all'altro e con una vecchia foto del 1952 tra le
mani,comincia a chiedermi curioso. Sa bene mio figlio Andrea che
a me piace raccontare e ricordare ed io lo faccio con piacere, specie
se chi mi sta davanti sa ascoltare pazientemente. Dietro la vecchia
foto una scritta : classe II F S. Agnello di Sorrento anno scolastico
I952/53. La classe, una mista,composta in buona parte da ragazze.
Infatti su circa 22 alunni noi maschi eravamo soltanto in otto. Con
alcuni di essi ci siamo incontrati spesso negli anni, chi in giro per il
mondo come me, chi invece si é dedicato all'attività commerciale
seguendo le orme paterne, chi ha preferito non fermarsi al diploma
conseguendo la laurea e oggi é un brillante manager, chi meno
fortunato e ancor giovane é passato a miglior vita, stroncato dal
male del secolo. Con le ragazze é stato meno facile incontrarsi
avendo buona parte di esse intrapreso la carriera dell'insegnamento
nei vari istituti della penisola sorrentina: Laura, Maddalena,
Giovanna, Franca, Mariagrazia, Anna, Lidia, Margherita e varie
Maria, le ricordo tutte come fosse ieri eppure sono passati da allora,
più di quaranta anni.. Chissà perché quando ci si incontra dopo tanto
tempo é sempre con immenso piacere, é come rivivere un po’ della
nostra prima giovinezza. Appena subito dopo i primi convenevoli,
comincia tutta una serie di: ti ricordi di questo o di quello del
professore di italiano o della professoressa di matematica, per
concludere con un breve sommario di quello che é stata là nostra
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vita. Si avverte la necessità di volersi aprire ad un vero e sincero
amico come ad un fratello, riconoscere che anche l’altro ha un’
origine e una storia comune con te, e lasciarsi andare a raccontare
cose personali anche se non ti vengono chieste.
Margherita
Così mi ricordo di Margherita che sentì il bisogno di scaricarsi
un po’ dell'amarezza che si portava dentro: voleva semplicemente
essere capita, o essere seguita con il cuore. Si passava spesso la
mano tra i capelli o si aggiustava l'ultimo bottone del golfino, come
voler mascherare in parte quel suo invecchiamento dovuto al tempo
che era passato per entrambi, ma anche a delusioni e dispiaceri, l
'aver perso qualche figlio in tenera età o forse con problemi di droga
e non sapere come fare per tirarlo fuori. E mentre lei raccontava, io
per qualche attimo con la mente ritornai a quel lontano 1952,
quando lei con il nasino all'insù e la coda di cavallo, con due piccoli
seni che appena le gonfiavano il grembiule di scuola, con le labbra
pulite, appena umettate e lucidate dal burro di cacao, con due occhi
grandi e luminosi e il visino rosso sempre sorridente, nessuno di noi
sapeva ancora cosa ci avrebbe riservato la vita. Ora li davanti a me,
un po’ trasandata, a raccontare le sue pene fissandomi sempre coi
suoi begli occhi grandi ma questa volta bagnati di lacrime.
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Suor Giuseppina
Quante storie, quanti ricordi, a volte piacevoli a volte un po’
amare, ma sempre struggenti e profondamente umane. Mio figlio
guarda la foto e ascolta il mio racconto, così gli mostro un’altra
ragazzina.” Vedi questa ragazza alta poco più di un soldo di cacio
con due lunghe trecce e che si nasconde dietro le compagne quasi a
non volersi far ritrarre dal fotografo ? Si chiamava Anna» Già,si
chiamava, non perché fosse morta ma perché ha cambiato il suo
nome da ragazza in Suor Giuseppina. E’ L'unica che ha preso i voti
ed é rimasta nel convento delle Suore Della Parità in S.
Agnello,dove era già ospite sin dal 1950.”
Con Anna ci siamo incontrati poco tempo fa ,cosi quasi per
caso. Subito mi ha riconosciuto e nel salutarmi calorosamente non
ha mancato di ricordarmi, quando seduto al banco subito dietro di
lei, la tormentavo tirandogli le piccole trecce. Ebbene parlare di
Anna e del lavoro che svolge attualmente, trovare le parole adatte
per definire la missione che questa piccola grande suora svolge, non
é impresa da poco. Insieme ad altre due o tre consorelle si occupa
del collegio della Purità che raccoglie neonati abbandonati, bambini
tolti alla custodia dei genitori causa maltrattamenti, ragazze madri e
chiunque bussi alle porte convento per chiedere aiuto. Gestisce il
tutto con piccole sovvenzioni e modeste offerte di cittadini. E’
riuscita ad accudire fino a cinquantatre neonati . Ogni tanto vado a
farle visita: mi riceve nel suo piccolo salottino dove un grosso
Crocifisso troneggia alla parete e sembra quasi volerti dire che i
modi per amarlo e servirlo sono tanti, oltre la preghiera, ma che
certamente l'opera di Suor Giuseppina é la più gradita, é la più
nobile é la più grande. Quando esci dal convento ti senti più
tranquillo, quasi come se un velo di serenità e di pace fosse
penetrato in te. Ti rendi conto allora che non esiste opera più bella
dell'onorare la propria vita. Che viverla sacrificandola per il bene
degli altri. Ho dato ad Anna l' appellativo di piccola grande suora,
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perché sono fermamente convinto che non esiste persona più alta di
chi si dona agli altri.
Fissando con sguardo sempre più attento alla vecchia foto,
piano piano si ha l’impressione di esserne risucchiati e di tornare
indietro nel tempo, di ritornare in mezzo a loro e di rivivere quei
momenti. Sono tutti li davanti a me: Caccioppoli, Carbone,Cinque,
Marnilo, De Maio, Russo, Montella, Pollio. Visi puliti dagli sguardi
onesti e sinceri non ancora imbruttiti dalla cattiveria, dall'invidia e
dalle ingordigie della vita. Mi rivedo in mezzo a loro felice e
spensierato, ancora senza sogni nel cassetto, con l'unica
preoccupazione di come poter racimolare un sei in latino o in
matematica.. Vorrei poterli abbracciare tutti, vorrei poter chiedere
loro scusa se qualche volta ho commesso ingenue mancanze,
stringerli tutti in un forte abbraccio collettivo, specie chi ora non é
più tra noi. Poter dire loro: “voglio a tutti voi un gran bene “.
Sono passati più quaranta anni da allora e di cose ne sono
successe, tante e tali da aver inciso profondamente sulla nostra vita.
Di una cosa però sono certo, gli eventi non hanno mutato i nostri
cuori, anche quelli dei meno fortunati. Lo dimostra il fatto che ogni
qualvolta ci si incontra, non si può fare a meno di stringersi in un
caloroso fraterno abbraccio che certamente non ha bisogno di
parole. Nel riporre la foto, dissi ad Andrea che un giorno anche lui
avrebbe ricordato in questo modo i suoi compagni di scuola.
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Lunedì 23 Gennaio 1995:
la malattia
Ho sempre avuto un carattere aperto e gioviale, dalla battuta
facile, sempre disponibile al sorriso, un qualcosa che ti nasce dal di
dentro. A volte basta una giornata di sole, il canto di un uccello, un
bel tramonto o una bella canzone a cancellare ogni sorta di
malinconia e di tristezza. Purtroppo, non sempre questo genere di
atteggiamenti desta simpatia negli altri. Esistono alcune persone non
facili da individuare e per fortuna non in gran numero, che si
portano dentro ogni sorta di monomanie e di complessi. Gente
incapace di amare e di gioire, di saper godere anche di un semplice
sorriso, incapace di saper apprezzare i momenti belli che ti offre
questo bene cosi grande e prezioso che é la vita , con tutte le sue
meraviglie e le sue magie. Sebbene senza aver fatto loro il benché
minimo torto, senza aver arrecato scortesia alcuna , spesso ti
tolgono il saluto e quando li incontri cambiano addirittura strada
evitando anche un semplice sguardo. Se ne stanno da soli, rigirando
tra le mani qualche pagina di giornale, cosi soltanto per darsi un
tono o quasi a voler far capire agli altri di voler restare da soli,
vittime soltanto dell'ipocondria e dell’ incapacità di comunicare che
si portano dentro. Eppure basterebbero poche sedute da un buon
psicanalista a risolvere tanti loro problemi. L' incomunicabilità poi,
é quasi sempre accompagnata da una buona dose di cattiveria e di
invidia appunto verso quelle persone -sempre disponibili,allegre e
che gioiscono con poco.
A mano a mano che passano gli anni va via un po’ di vita e
con essa un po’ di entusiasmi, ma il carattere rimane, anche quando
cominciano ad affacciarsi acciacchi, più o meno gravi. E’ così caro
Andrea accadde che un triste giorno, mi trovai faccia a faccia con la
malattia. Cominciò con delle semplici visite presso il medico di
famiglia molto scrupoloso, il quale, non convinto di un esame me
ne fa fare altri e poi altri ancora. Ogni volta c’era sempre qualcosa
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che non convinceva. Dopo mesi di esami del sangue e di radiografie
varie, e di visite presso luminari della medicina, ebbi la sentenza.
La prima domanda che ti viene da fare al professore è quanto mi
resta ancora da vivere; al che il medico senza guardarti negli occhi,
come a vergognarsi di dirti una bugia, cerca di tranquillizzarti
prescrivendoti antidolorifici e qualche controllo ogni fine mese.
Uscii dallo studio un poco frastornato, demoralizzato, mi pareva che
tutta quella carica di vitalità e di voglia di fare che tanto aveva
caratterizzato la mia vita fino ad allora scomparve d’un sol colpo.
Da quel preciso istante la mia vita fu determinata dai tempi di
evoluzione della malattia e comunque fossero andate le cose a me
non sarebbe rimasto molto da vivere.
Mano a mano che passavano i giorni avevo l'impressione di
entrare in un isolamento quasi totale. Diffidenza, curiosità, paura di
contagio e falsa commiserazione furono le prime cose che notavo
negli altri. Alcune anche nelle persone più vicine. In quelle che
avrebbero dovuto colmare la solitudine interiore con tutto l'affetto
ed il calore di cui un uomo nelle mie condizioni avrebbe avuto
bisogno. Credo che la tenerezza e l'affetto siano le prime cure per
tutti i mali, a volte con risultati addirittura superiori agli ultimi
ritrovati della medicina. Piano piano si smorzava in me la gioia di
vivere. Pensavo al passato e alla vita vissuta e a tutte le cose che
avevo fatto e a quelle che ancora avrei voluto fare.
Cominciai, a perdere entusiasmi ed interessi: in poche parole
cominci a sentirti una nullità. Pensavo e te caro Andrea e a tutti voi
Tu studiavi ancora e avevi ancora molto bisogno di me. Pensavo
alla gioia immensa ed alla tenerezza che avrebbe potuto darmi
l'abbraccio di un nipotino. Vederlo crescere sano e forte, giocare
con lui. Si dice che le cattive notizie non giungono mai da è sole,
anche stavolta tanto per non smentire il proverbio la mia triste
diagnosi giunge insieme alla notizia della perdita del lavoro. Ho
sempre considerato il lavoro la parte più importante nella vita di un
uomo, spesso anche più importante della stessa famiglia II lavoro è
onore e dignità, specie per chi gli ha dedicato tutto se
stesso,cercando di affermarsi dando quel senso di agiatezza alla
propria famiglia. Ma quando sei in disgrazia il tutto si risolve con:
una stretta di mano, qualche parola di elogio e di incoraggiamento,
qualche modesto assegno, uno sguardo dispiaciuto appena velato di
falsa ed ipocrita commiserazione. Sono stati il grazie che una
grande e potente azienda mi tributò per averle dedicato metà della
propria vita lavorativa.
Mi veniva quasi da ridere nel leggere negli occhi di chi mi
stava davanti un certo imbarazzo nel non riuscire a trovare una
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forma anche semplice modo di dire “spiacenti non abbiamo più
bisogno di lei”. Forse lo dissero anche,forse dissero anche tante
altre belle frasi, sicuramente già preparate. Frasi di circostanza che
si dicono in quei momenti, ma la mia mente era assente, molto
lontana. In quei pochi minuti non trovandosi davanti il solito
dipendente avvilito e piagnucoloso sicuramente pensarono di
trovarsi davanti ad una persona superba e irriconoscente: loro non
sapevano cosa stavo passando. Con una calorosa stretta di mano ed
un leggero sorriso appena velato di malinconia uscii con la stessa
dignità con la quale ero entrato quindici anni prima. Dopo alcune
settimane di forzato riposo, cominciarono a comparire i primi
sintomi del male, strane coliche addominali che insieme ad una
repentina perdita di peso affievolivano sempre di più le mie
speranze. Consapevole della gravità della situazione mi resi subito
conto che nei mesi successivi avrei patito atroci sofferenze che mi
avrebbero consumato piano piano fino alla morte. II leggere negli
occhi dei miei ragazzi,sempre umidi,dolore e costernazione mi
rendeva ancor più penose ed amare le giornate che sembravano
interminabili.
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Martedì 20 Febbraio 1995
La notte dormivo pochissimo,con lo sguardo sempre fisso al
soffitto. Non potevo e non dovevo arrendermi cosi, lasciare che il
male mi consumasse poco a poco senza, tentare qualcosa, non
dovevo rassegnarmi. Il volto di padre Pio da Pietralcina, da un
dipinto ad olio attaccato alla parete, pareva guardarmi fisso dalla sua
folta barba. Questo grande santo, santo vero, santo italiano, con i
suoi grandi occhi pieni di amore e di sofferenza,sembrava
incoraggiarmi a non arrendermi, a non rassegnarmi e a lottare
perché solo lottando si può vincere. II mattino seguente, mi alzai di
buon’ ora, e mi recai a Vico, il mio paese natale, come se qualcosa o
qualcuno mi spingesse a farlo. Chiesi consiglio ad un vecchio
medico di famiglia che dopo aver dato una rapida occhiata alle
analisi ed alle radiografie mi suggerì di sottopormi, senza indugio,
al trapianto del fegato prima che fosse troppo tardi. II 27 di Febbraio
partivo per Torino, presso un grosso ospedale sicuramente tra i più
attrezzati d'Italia per interventi del genere. II primario del centro
trapianti mi visitò accuratamente e dopo ever intuito l'entità del mio
male mi prescrisse una serie di esami da farsi presso il centro stesso.
Con il passar dei giorni mi resi subito conto di essere capitato
nel posto giusto. Educazione e pulizia oltre ad una grande
professionalità, mi restituirono speranza e fiducia.. Un’ equipe
medica meravigliosa che lavorava fino a 15 ore al giorno
alternandosi anche di notte con perfetto sincronismo, formata da
giovani specialisti e da un corpo infermieristico altrettanto giovane e
preparato, davano all'ammalato spesso ridotto già a larve umane
quel senso di fiducia e di coraggio tali da far ritornare un filo di
speranza anche nei cuori più affranti. Rimasi a Torino alcune
settimane durante le quali fui sottoposte ad una serie di esami alcuni
di essi molto dolorosi ma necessari prima di essere sottoposto
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all'intervento di trapianto appena si rendeva disponibile un organo
compatibile. Spesso dovevo sottopormi ad esami abbastanza
delicati che richiedevano una certa preparazione, come spogliarmi
completamente ed essere depilato anche nelle parti più intime. Alla
paura non mancava un senso di imbarazzo e di vergogna, specie
quando chi doveva prepararmi era una bella infermiera poca più che
ventenne che con mani esperte e con gran professionalità e
delicatezza, cercava di mettermi a mio agio, tutto accompagnato
quasi sempre dal solito sorriso, dolce e spontaneo. E' in momenti
come questi che ti rendi conto di cosa sia veramente un bel sorriso e
di quanto sia importante . Non costa niente e rende molto,
arricchisce chi lo riceve senza nulla togliere a chi lo dona, nessuno é
abbastanza ricco per farne a meno o abbastanza povero per non
meritarlo. Esso sembra volerti suggerire “sii sereno,fa in modo che
il tuo cuore non soccomba alla paura del dolore, alle tante
preoccupazioni che in questo momento ti assillano, perché noi
stiamo vegliando su di te e non ti abbandoneremo”. Terminata la
serie di analisi mi detto di essere stato messo a ruolo e di attendere
la chiamata dall'ospedale appena fosse giunto il mio turno.
Iniziò cosi una snervante attesa che si protrasse per circa sette
mesi. Le giornate mi ridiventarono interminabili. Benché fiducioso,
spesse volte forti coliche addominali non facevano presagire nulla
di buono. Amano a mano che le settimane passavano non riuscivo
ad accettare la situazione di inoperosità, cosa che mi capitava per la
prima volta nella vita. Il vedermi messo da parte, il restare inattivo
per delle settimane, per dei mesi, il sentirmi un essere inutile in un
momento in cui avrei potuto ancora dare il meglio di me stesso,
credo sia stato per me più doloroso delle coliche stesse.
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Agosto
Finalmente una telefonata dall'ospedale mi informò che entro
quindici giorni avrei dovuto trovarmi a Torino. essendo prossimo il
mio intervento di trapianto epatico.
La domenica 27 Agosto, con la fronte appoggiata al
finestrino,osservavo la pista mentre i motori con il loro rombo
assordante si preparavano a lasciare l'aereo-porto di Capodichino II
cuore mi batteva forte nel petto quasi a volerne uscire mentre
giovanili emozioni e fantasmi del passato mi tornano in mente. In
un attimo raggiungemmo la quota di circa duemila metri di
altitudine in volo per le Molinette, ove mi aspettavano per
restituirmi ad una nuova vita.
Non ero abbattuto, anzi partivo fiducioso. Erano tante le
preghiere rivolte alle persone care che tenevo in paradiso e forse
avevano ascoltato le mie suppliche: sarei ritornato ne ero sicuro .
Man mano che la terra si allontanava, un ultimo sguardo a Napoli al
mare al Vesuvio che scompariva alla mia destra verso sud. Chiusi
gli occhi e con la testa poggiata allo schienale riandai per un attimo
a Pietralcina, mi tornarono in mente via, Canale, l'infanzia bella ed
amara insieme, i vecchi compagni di scuola, il sorriso aperto e
sincero di qualche persona cara che per ultima nell'augurarmi buona
fortuna mi aveva accompagnato con la luminosità dei suoi occhi.
Mi tornò in mente il volto di mia madre, col suo sguardo
rassicurante come per dirmi “vai tranquillo io ti sarò sempre
vicino”. Ricordai i suoi forti abbracci ogni qualvolta tornavo dai
miei lunghi viaggi di marinaio. Quando magrissimo dovevo
pregarla – prendendola in giro scherzando -di non stringermi troppo
altrimenti correvo il rischio di rompermi qualche costola e lei mi
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stringeva ancora di più e più stringeva e più rideva divertita. La
stessa cosa la dissi ai ragazzi prima di partire e loro, con gli occhi
rossi di pianto “papa torna presto noi tutti ti aspetteremo con
ansia”. Molte volte, durante il corso della vita si ricevono dei colpi
tanto duri che si ha l'impressione di non aver più la forza di rialzarsi.
Io però avevo ancora speranza, come se fossi sorretto da una forza
che mi veniva da dentro, una forza sovrannaturale. Era la forza
alimentata dalla fede, alla quale mi aggrappavo con tutta la mia
disperazione e con tutte le poche energie che mi rimanevano.
Soltanto dopo, soltanto quando si è superato tutto e si ritorna di
nuovo in piedi, solo allora si avverte dentro una tranquillità ed una
pace che ti fanno dimenticare il passato, e i suoi dolori, i rancori, i
torti, le amarezze e ogni forma di cattiveria subiti. Il passato rimane
lì, non si dimentica niente, ma è come se la serenità raggiunta te lo
facesse guardare con altri occhi. Così era accaduto a me. Mi sentivo
in pace con tutti e avrei voluto gridarlo ai quattro venti.
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Il trapianto
Mercoledì 10 ottobre
Le settimane precedenti l’intervento le trascorsi a Torino in
day hospital, e mi sembrarono interminabili. Le ore non passavano
mai. Facevo trascorrere il tempo con lunghe passeggiate al
Valentino, osservando immobile lo scorrere dell’ acque del Po. In
albergo tenevo la mente impegnata leggendo quotidiani, scribac-
chiando su qualche enigmistica o guardando la televisione.
Qualsiasi programma andava bene, l'importante era non pensare.
Ogni mattino mi recavo in ospedale al reparto trapianti epatici
dove,in un grande salone, si riunivano tutti i trapiantati di fegato in
attesa di visita di controllo e con loro scambiare quattro chiacchiere.
Per lo più erano meridionali: siciliani, napoletani, pugliesi,
calabresi e qualche sardo. C’era chi era stato operato da alcuni mesi
chi da poche. settimane, venivano sottoposti a visite di controllo già
precedentemente programmate per poter seguire le funzionalità del
nuovo organo e dell'intero organismo. Io chiedevo e loro
rispondevano tutti alla stesso modo alle domande che rivolgevo loro
con garbo e delicatezza “ Non ho sofferto non ho avvertito alcun
dolore. Mi sento bene se fossi come rinato” Qualcuno raccontava di
essere giunto in ospedale addirittura in coma epatico e di non
ricordare nulla, di essere ritornato in ottima forma e di aver ripreso
la vita normale, anzi meglio di prima. La famiglia, il lavoro, la
buona tavola, sempre con una certa cautela insomma l'interesse alla
vita.
Mi raccontavano tutto ciò anche per incoraggiarmi e tirarmi su
col morale. Ben sapevano il dramma che stavo vivendo e nell' attesa
l' ansia che a volte ti chiudeva la gola in una morsa mentre nel petto
qualcosa ti batteva forte. Loro lo sapevano molto bene, avevano
avuto anche loro quei momenti, e in molti il ricordo era tangibile e
vicino. Tutti trovavano parole di elogio e di stima, di riconoscenza
e di ammirazione per quel gruppo di giovani specialisti che li
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seguivano con tanta assiduità e professionalità. Tutto questo mi
infondeva un tale coraggio e una tale forza da farmi sentire ogni
giorno più sicuro e fiducioso. Sentivo dentro di me come un
qualcosa che mi ripeteva sempre “ce la farai,ce la farai”.
Per tutta la durata degli esami clinici, della degenza e
dell'intervento stesso, due cose non mi hanno mai abbandonato: la
fiducia nei medici e la presenza spirituale di Padre Pio da
Pietralcina. Qualcuno potrebbe anche pensare che io esageri a
raccontarlo o che sia stato soltanto suggestione . Chi mi conosce
bene però sa che non sono mai stato né uno stinco di santo né un
bigotto, anzi per niente un buon cristiano, ma posso affermare con
assoluta certezza e senza alcuna ombra di dubbio di aver avvertito la
presenza del frate di Pietralcina accanto al mio lettino durante tutto
il periodo trascorso all'ospedale delle Molinette di Torino.
Verso le diciannove del quattro ottobre, ricevetti la telefonata
dall'ospedale “entro un’ora al massimo il ricovero” Era la voce
inconfondibile dello stesso primario che mi annunciava finalmente
la reperibilità di un fegato compatibile e che mi sarebbe stato
trapiantato entro il mattino seguente. Dio! Quanto avevo aspettato
di sentire quella voce. Avvertii per tutto il corpo una vampata di
calore, non sapevo se ridere o piangere. Non sapevo se quello che
avvertivo era gioia, spavalderia o un senso di paura allo stesso
tempo. Era come vedere materializzata la fine di un incubo.
Provavo la stessa cosa che avevo avvertito al mio primo imbarco,
quando ricevetti il telegramma dell'armatore che mi invitava ad
andare a Ravenna per imbarcare in qualità di allievo ufficiale su di
una vecchia carretta che faceva viaggi di legname dal Mar nero per
Alessandria d’Egitto.
Durante la notte fui affidato alle cure preparatorie di personale
altamente qualificato. Tutte giovani infermiere dagli cchi dolcissimi
e dai visi indimenticabili, che consapevoli del mio stato d'animo e
del mio disagio, cercavano amorevolmente di tranquillizzarmi
rendendomi meno penosa la attesa che mi separava dall'intervento.
Alle ore 7,30 del mattino del quattro ottobre, giorno di S. Francesco
D'Assisi, entro in sala operatoria per nulla turbato.- Ad attendermi
l'equipe al completo, alcune domande di rito da parte dello stesso
primario il professor Salizzoni, mentre mi preparava per l'anestesia.
Dopo alcuni secondi mi vedo nudo, disteso su di un tavolo di legno,
al centro di un grande spiazzo circondato da una fitta siepe di rovi
dalla quale facevano capolino di tanto in tanto, volti scolpiti nella
pietra.. Tutte facce uguali, prive di espressioni, come scavate nella
roccia, con grosse cicatrici sulle guance. Cerco di coprire con le
mani le mie nudità, quasi a voler sfuggire a quegli sguardi indiscreti.
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Poi, più nulla l'oblio totale. Verso le ore 16 fui trasportato in sala di
rianimazione dove dopo pochi minuti avrei riaperto gli occhi. A
svegliarmi definitivamente é il ticchettio di un piccolo ramo di
betulla che la brezza serale che scendeva dalle Alpi e che lambiva
questa parte della città, faceva picchiare continuamente sui vetri
della finestra della camera. Un flebile raggio di sole, già autunnale,
filtrando attraverso i rami dell'albero mi giungeva fino al minuscolo
lettino, sembra quasi accarezzarmi le ginocchia e sussurrarmi
dolcemente "bentornato". Comincia a tastarmi, e a muovermi
lentamente. Sentivo strani tubicini di drenaggio che fuoriescono da
varie parti del corpo mentre osservavo incuriosito il gocciolio lento
delle numerose flebo appese ad appositi attrezzi con i vari segnali di
allarme. Ero ancora vivo, si, la cosa meravigliosa non mancò di
meravigliarmi. Dio era stato buono con me. Chissà perché noi
meridionali spesso mischiamo sacro e profano, e corriamo subito in
chiesa a chiedere grazie soltanto nei. momento del bisogno,
raccomandandoci sopratutto al Signore. Non me ne vogliano i
professori Salizzoni ed Andorno., se mai dovessero leggere queste
memorie. Mi ero completamente affidato nelle loro mani pieno di
fiducia e sicuro di un brillante risultato, ma non avevo potuto fare a
meno anche io, di recarmi in chiesa nello stesso ospedale delle
Molinette pochi minuti prima del ricovero. Volgevo lo sguardo su
quel grosso Crocifisso al centro dell'Altare e gli chiedevo
silenziosamente con nodo alla gola di accompagnare la mano che da
li a poche ore mi avrebbe aperto l'addome.
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La ripresa
I giorni passava lenti ed io lentamente riacquistavo le mie
energie. L'organismo iniziava ad adattarsi al nuovo organo e a dare
i primi risultati positivamente.
Qualche dolorino fastidioso non mancava, era principalmente
dovuto alla posizione supina a letto e alle suture interne ed esterne,
per fortuna dì lieve entità e subito debellato con farmaci appropriati
e dalle amorevoli cure dell'assiduo personale infermieristico.
Ciò che maggiormente mi é rimasto impresso di questa
esperienza era ed è ancora – passati gli anni- l'assiduità con la quale
gli specialisti seguivano i ricoverati durante tutto il periodo di
degenza in sala di rianimazione. Ogni notte il silenzio veniva
interrotto soltanto da qualche lamento o dal passo felpato del prof.
Andorno o da quello veloce dello stesso primario, il prof. Salizzoni.
Li sentivi parlottare sotto voce con l'infermiere di turno e benché
aguzzassi attentamente l'udito non sono mai riuscito a capire una
sola parola. Poi si fermavano sull'uscio di ogni stanza ad osservare i
propri pazienti. Quegli sguardi davano a noi trapiantati un effetto
superiore a qualsiasi altro farmaco Erano sguardi che ti
rassicuravano nel corpo e nello spirito. Potevi riposare serenamente,
perché sapevi che c'era chi vegliava su di E così trascorreva un'altra
notte e un’altra ancora e ancora altre.
I primi giorni di degenza in sala dì rianimazione, sono stati i
più sofferti sia fisicamente che psicologicamente. Le sonde e i
numerosi tubicini che uscivano da. tutte le parti del mio corpo,
collo compreso, non mi permettevano di cambiare posizione a
letto. I miei occhi continuavano a fissare il soffitto e la parete di
fronte sempre alla ricerca, di qualcosa o di qualcuno, che non c’era
mai. Di tanto in tanto roteavo lo sguardo, come un camaleonte per
fissare il telefonino portatile sul comodino accanto al letto,
aspettando che con uno squillo mi portasse una voce amica. Dopo
il terzo giorno. ricevetti la visita dei miei figli. Arrivò per primo
mio figlio Nicola che prestava servizio al comando di La Spezia.
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Venne con permesso speciale Dopo essersi assicurato del mio
stato di salute e che il mio fisico era in ripresa, seppure lentamente,
mi mise al corrente della sua brillante carriera e del suo proposito
di partire volontario in missione o per il Kossovo o per il Sinai.
Nicola, al contrario degli altri miei due figli, raramente lascia
trasparire emozioni interiori, anche a costo di soffrire
maggiormente, non. esterna ansie timori e a volte riesce a
mascherare anche dolore fisico. Conoscendolo bene e sapendo che
non amava sentir parlare di sofferenze e dì disagi cercavo di
deviare i discorsi su altri argomenti. Sembravamo due vecchi amici
che si incontrano dopo molto tempo e discorrono di sport e di
donne.: con lui soprattutto di donne.
La visita di Lello, invece fu un po’ particolare. Appena entrò
nella mia stanza rimase quasi scioccato, stentava a riconoscermi. Si
avvicinò e nel tentativo dì sollevarmi sulle braccia mi sussurrò
““Dio mio come ti hanno conciato”
Dovetti tranquillizzarlo con qualche battuta di spirito, cosa che
a me è sempre venuto spontaneo anche nei momenti tragici e forse
proprio per questo mio modo di fare sono riuscito a vincere anche il
male. Gli chiesi di sedersi sul letto accanto a me anche se il
regolamento lo vietava, e tenendolo per mano e gli feci capire che
la loro visita mi aveva fatto immensamente piacere ed era stata
molto importante. Perché fino a quel momento mi aveva assillato la
paura di morire senza averli rivisti o senza aver prima chiesto loro
perdono. Perdono per non aver avuto abbastanza, tempo da.
Dedicargli, perdono per le incomprensioni e le superficialità con cui
spesso avevo discusso qualche loro richiesta trascurando le loro
esigenze di ragazzi. Mi ero trovato in condizioni tali che i problemi
di lavoro e poi quelli sopraggiunti avevano determinato grosse
incomprensioni in famiglia, che, come spesso succede si
scaricavano su di loro poveri ragazzi e qualche volta giù anche
botte da orbi. Ma volevo rappacificarmi con loro anche per aver
spesso violato i loro sogni di adolescenti con incomprensioni e
indifferenza. Lello aveva capito perfettamente tutto ciò e con un
ulteriore tentativo dì sollevarmi tra le braccia, con gli occhi umidi,
mi disse “Papa non hai mancato in niente e anche quando me le hai
date io ti ringrazio perché lo stesso perché sono servite a farmi
maturare e a diventare uomo “ Sapevo che mentiva.
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Mi riapproprio del mondo
Dopo 16 giorni di degenza fui dimesso. Ero stato
completamente rimesso a nuovo e a tempo di record. Qualche
breve raccomandazione da parie del prof. Andorno e una calorosa
stretta di mano. Quella fu l'unica volta che vidi sorridere quel
meraviglioso medico.
Lasciai l'ospedale nel pomeriggio inoltrato. Torino era avvolta
in una leggera foschia umida , tipica di quella stagione l'aria era
ancora tiepida e un profumo di caldarroste che giungeva da un
caldarrostaio subito fuori dell'ospedale mi fece avvertire l’autunno.
Mi fermai per un attimo ad osservare il traffico intenso ordinato di
quella città e il via vai delle centinaia di persone che entravano ed
uscivano dalle Molinette con i loro problemi, i loro affanni ma
anche,le loro gioie come quella che provavo io in quel momento.
Tra non molto anche io avrei ripreso il ritmo di vita normale,
con maggior forza e vitalità. Mi sentivo dentro come una persona
nuova, più sereno, meno teso, più buono, tutto il corpo era pervaso
da sentimenti di pace e di bontà. Non potevo fare a meno di ripetere
a me stesso di quanto il mondo fosse meraviglioso, proprio come il
ritornello di una canzone di Domenico Modugno che mi ritornava
in mente ad intervalli costanti. Malgrado potessi muovermi
lentamente e soltanto a piccoli passi e malgrado qualche dolore che
ancora avvertivo continuavo a ripetere dentro di me: meraviglioso.
Percorsi poche centinaia di metri fino alla fermata del tram e mi
sentii subito molto stanco. La piccola borsa da viaggio, benché
contenesse poche cose, era diventata un fardello sempre più pesante
da portare costringendomi a frequenti soste. La mascherina, asettica
che mi era stata consegnata in ospedale poco prima di uscire mi
creava qualche problema nella respirazione ma era assolutamente
necessaria. Non mi importava nulla che la gente mi guardasse
incuriosita e si spostasse al mio passaggio fissandomi chi come
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fossi un appestato chi con uno sguardo pieno di commiserazione.
Qualcuno addirittura, si avvicinò per chiedermi cosa mi fosse
capitato qualche altro invece solo per semplice curiosità. Io li
tranquillizzavo subito con un semplice sorriso di riconoscenza.
Nonostante tutto ero felice perché stavo per ritornare a, casa mia. e
il mondo mi appariva così bello che non potevo fare a meno di
ripetermelo.
Camminavo dando l’impressione di uno che si era appena
destato da un lungo sonno. Dopo qualche mese di pantofole avevo
l'impressione di avere ai piedi un paio di sci. I pantaloni molto
larghi e il giubbotto a vento comprato al mercatino rionale poche
settimane prima del ricovero in ospedale mi davano la sensazione di
non trovarmi nei miei panni. Mi passai una mano tra i capelli lunghi
e mi toccai il viso ossuto e smunto coperto da una piccola peluria
dura come il ferro. Era mai possibile che in cosi poco tempo sette o
otto settimane fossi dimagrito così tanto? Cominciavo ad avere una
esatta percezione di me e della mia immagine, non dovevo essere
un gran che presentabile ma in cuor mio ero felice.. Man mano che
mi avvicinavo alla, fermata del tram che mi avrebbe portato
all’aeroporto, il mio sguardo si soffermava sulle cose più banali, più
semplici, con lo stesso interesse di un bambino che muove i primi
passi: il rincorrersi di due colombi, il raspare di un gatto tra le buste
della spazzatura, o lo sguardo quasi compiaciuto di un cane che
aveva appena fatto i propri bisogni sull'aiuola davanti ad una casa.
Mi soffermai per pochi attimi davanti ad un edicola per un rapido
sguardo alle copertine dei settimanali e provai le stesse emozioni di
quando facevo ritorno a casa dopo dieci mesi di imbarco sulle
petroliere Avevo lo stesso famelico desiderio di notizie: volevo
voracemente sapere e conoscere cosa fosse accaduto durante la
mia assenza: i fatti di cronaca, di politica, di economia. La pace
ancora lontana nei paesi dell’ex Iugoslavia, le stragi e i massacri in
Bosnia. Ricordo che ne acquistai alcuni e li sfogliai subito con
attenta bramosia sotto lo sguardo un poco incuriosito
dell'edicolante.
Respirai a pieni polmoni l’aria fresca di quel tardo pomeriggio
d’autunno guardandomi intorno e riappropriandomi di nuovo del
mondo. Mi riabituavo lentamente ma con gioia alla presenza della
gente intorno a me quasi fossi stato uno che era stato in totale
solitudine o nel deserto del Sahara o in una sperduta isola del
Pacifico. Era bello tutto questo.
L'aereo delle 19,30 decollò in perfetto orario dalla Malpensa
per portarmi finalmente a casa..
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Il ritorno in famiglia
Fare ritorno nuovamente in famiglia, al paese, alle persone
care dopo tutto ciò che avevo passato mi provocò sentimenti e
sensazioni non facilmente descrivibili. Un insieme di gioia e
confusione un misto bellissimo d’euforia ed eccitazione. Napoli
illuminata vista dall'alto é ancora più bella, la stessa Napoli che
appena, qualche mese prima mi aveva visto partire con il cuore
colmo di paure, incertezze, speranze mi riaccoglieva, con l'aiuto del
Signore, facendomi festa con le sue luci e il suo meraviglioso
disordine. All'arrivo ad attendermi trovai Andrea il più piccolo, si fa
per dire, che mi corse incontro con le braccia aperte e gli occhi
umidi. Credo di aver pianto anche io, non so se di gioia o di
commozione. Ancora una volta dovetti raccomandare a quel fusto
alto un metro e ottanta, circa, di non stringere troppo perché ciò
che era rimasto di me si sarebbe potuto scucire tutto d’un colpo. Lui
sorrise teneramente, era felice di riabbracciare suo padre. Prima, di
entrare in auto,un rapido sguardo al via vai frenetico dei
viaggiatori e al gesticolare dei tassisti per accaparrarsi i clienti
migliori, poi subito via nel caos della, città.
Sui marciapiedi tutto intorno si scorgevano già pronte le prime
bancarelle per le prossime festività natalizie tutte addobbate di
palloncini e lampadine colorate mentre per i negozi già
comparivano le prime- coppie di zampognari che prenotavano le
novene per la festa dell’Immacolata. Ad ogni semaforo una-
miriade di scugnizzi sia napoletani che di colore cercavano di
vendere le loro povere mercanzie: fazzolettini di carta, sigarette,
deodoranti e altre cianfrusaglie mentre altri, senza alcun permesso
si buttavano sul cofano per lavarti i vetri noncuranti del fatto che il
verde fosse appena scattato, in un frastuono di trombe e clacson.
Dallo specchietto retrovisore scorgevo il viso minaccioso degli altri
autisti, qualcuno urlava improperi accompagnati da gesti poco
urbani, ma i ragazzi sembravano averci fatto 1’abitudine e quindi
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non si scomponevano per niente continuando il loro lavoro
indisturbati in quel caos infernale.Contavano rapidamente sul palmo
della mano i pochi spiccioli guadagnati e si preparavano al
prossimo segnale di stop.
Osservavo tutto ciò con curiosità, come se fosse la prima
volta: Dio quanto mi era mancato tutto questo! Con il trascorrere del
tempo riacquistai sempre maggior energie e con esse peso e forma
Ai controlli periodici gli specialisti riscontravano buoni risultati, sin
dalle prime settimane anche se il pericolo rigetto poteva essere
sempre in agguato almeno per i primi mesi. A poco a poco ripresi i
miei impegni di lavoro e con esso riacquisto poco per volta voglia
di fare, sempre con maggiore mordente e determinazione.
Finalmente lavoro e famiglia occupavano nuovamente la mia mente
e il mio cuore.
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I parenti
Si dice che nei momenti di maggior bisogno sì conosce il
cuore degli amici o dei parenti. E’ un proverbio come tanti, al quale
non sì da importanza fino a quando non ci si trova in una situazione
di estremo bisogno. Allora e soltanto allora si scopre a proprie spese
che i proverbi non falliscono quasi mai. Capii che io ero un
problema, capii in un attimo che solo io era l’aiuto vero per me
stesso e tutto il resto era solo trita convenzione, se non addirittura
falsità e ipocrisia. Nessuno riesce a capire il dramma che si porta
dentro uno che ha subito un ‘esperienza del genere: essere aperto,
essere frugato dentro mentre tu sei come morto su un tavolo
operatorio, il sentirsi in un certo senso violato anche se per il tuo
bene, in fondo è sempre il tuo corpo che stanno tagliando e questo il
corpo lo porterà sempre in una sua intima memoria. In fondo la
gente non vuole sentire i mali e le sofferenze degli altri e così tutti –
dopo una frettolosa accoglienza festosa - prendevano le distanze da
me e la cosa più triste era che tra queste persone c’erano anche
quelle che avrebbero dovuto esserti più vicine. Forse perché
pensavano non ci fosse più alcun rimedio, forse che non ci fosse più
nulla da fare e che comunque sarei morto. Forse pensavano che
avrei potuto chiedere soldi e che certamente non avrei potuto
restituire In parole povere mi ritrovai più solo che mai. A volte
può essere anche un bene prendere le distanze da questo genere di
persone cosi ti eviti quel fastidioso ed ipocrita scambio di
convenevoli saluti quando ti capita di incontrarne qualcuna.
Cominciarono così ad evitarmi un po’ tutti quelli che prima
sembravano avermi accolto con grande gioia, anche perché credo
che mi dessero per spacciato, che avessi i giorni contati, insomma
ero già quasi morto per loro. Nonostante fosse tutto passato,
nonostante la mano ferma di un eccellente chirurgo e la
Misericordia, di Dio Onnipotente mi avessero restituito a nuova
vita, te li ritrovavi davanti per strada quasi tutti i giorni iettatori e
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menagramo con la loro finta cortesia a chiedermi come stavo o
come mi sentivo soltanto per semplice curiosità, e leggevo in quelle
domande una punta di delusione e cattiveria gratuita come se li
avessi fregati in qualcosa come se avessi deluso ogni loro
aspettativa Quando rispondevo di sentirmi in ottima forma sia fisica
che psichica,: mi guardavano un po’ incuriositi, abbozzavano un
lieve sorriso, sapete di quelli a metà labbra, a denti stretti, quasi a
volermi dire “ ma perché vuoi imbrogliarci, tu stai male, tu devi
star male, perché vuoi deluderci, uno come te, con quello che ha
avuto sarebbe dovuto morire e invece tu stai ancora qui”. E dopo
alcuni secondi, non ancora soddisfatti, “che fai ora ? Stai
lavorando? Sei in pensione ?" Come vivi ?” A questo punto io
scoppiavo in una fragorosa risata e con. una pacca sulla spalla
accennavo ad un grosso premio di assicurazione o meglio ancora ad
un inaspettato terno al lotto che mi permetteva una vita da nababbo.
A quel punto il sorriso scompariva immediatamente dalle labbra
dell'amico o del parente. Poi, continuando in maniera ironica, mi
accostavo ancor di più al suo viso e guardandolo fisso negli occhi
gli sussurravo a mezza voce che notavo delle strane venature
giallastre nelle sue pupille, sintomatiche fuori ogni ombra di dubbio
a seri problemi alle vie biliari. E gli consigliavo immediatamente di
farsi delle analisi. Detto da uno che come che era stato quasi per
morire non era una cosa da prendere sottogamba. Ero certo di
avergli rovinato la giornata e quella diventava la mia unica
soddisfazione, ma soprattutto l’unico modo per non farlo più
avvicinare. Fortunatamente per me, i fatti prima detti non mi hanno
trovato completamente impreparato in quanto avevo già fatto
esperienze amare con la cattiveria umana in passato. Sono
comunque cose che lasciano il segno e che difficilmente si
dimenticano e ancor più difficile é il riuscire a perdonale.
Pochi mesi dopo, durante un incontro pastorale presso il
convento di S. Francesco di Assisi a Vico Equense, chiesi a Padre
Giovanni , un vecchio caro e saggio che aveva educato quasi tutta la
gioventù del paese, soprattutto quella della mia generazione e quella
immediatamente poco, cosa bisognasse fare per poter essere un
buon cristiano. Dopo avermi ascoltato attentamente per alcuni
minuti, l’anziano frate mi chiese di trovare la forza di perdonare,
non di capire, ma di perdonare senza riserva alcuna. Bisognava fare
il primo passo verso coloro che hanno mancato, aprendo loro le
braccia e il proprio cuore, perché sono loro che hanno bisogno di
essere aiutati e confortati, pagare con affetto e perdono la cattiveria
e le ingiustizie ricevute. Gli risposi che ero andato al convento
proprio per quel motivo: poter trovare la forza di perdonare perché,
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malgrado tutta la mia buona volontà, fino ad allora non vi ero
ancora riuscito. Allora Padre Giovanni cingendomi la spalla con il
suo braccio, mi disse:” Figliolo, ti capisco bene, è così difficile
anche per me che sono un sacerdote figuriamoci per te, perciò ti
dico di pregare il Signore sempre con maggior vigore e fede
affinché te ne dia la forza. Soltanto quando ci sarai riuscito potrai
forse dirti un buon cristiano”
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Don Alberto Cadolini
Ogni qualvolta che ci capita di notare un manifesto a lutto ci
soffermiamo per un attimo a leggere, non tanto il nome quanto l'età
del deceduto. Poi,se il deceduto é persona conosciuta, qualche breve
commento con l'occasionale vicino, che legge pure lui per curiosità
e la cosa finisce lì. Tutta la vita, quindi, di quella persona nei
commenti e nei giudizi di poche parole di chi legge quel misero
manifestino.” Era una brava persona, non lo era, bevevo,
giocava,era un violento,era ricco,era povero era un buon padre di
famiglia, era malato, aveva debiti ecc. ecc”, poi il giudizio finale
quasi a voler assolvere, con quella ipocrita indulgenza, tutti i
piccoli peccati di quel poveretto.” Tutto sommato era una brava
persona, un poveraccio quasi a voler lasciare quel manifesto con
un segno di perdono e di carità”. Se invece, la persona deceduta é
un amico un caro e buon amico le cose cambiano E' capitato a me
qualche tempo fa a Piano di Sorrento, mentre attraversavo il corso
principale, di leggere di sfuggita il nome Don Alberto Cadolini. Ho
bloccato l'auto, noncurante del traffico, e dopo essermi accostato ho
letto con stupore quel necrologio:” Don Alberto Cadolini non è
più”. Non mi ero sbagliato dunque era proprio lui, don Alberto , il
caro e tanto amato don Alberto, mio carissimo amico. Un brivido di
gelo mi ha attraversato subito la schiena come se qualcuno mi
avesse infilato attraverso il collo della camicia un cubetto di
ghiaccio. Con lo sguardo fisso su quel nome non ho potuto fare a
meno di tornare indietro ai ricordi di alcuni anni, quanto quel
sacerdote professore aveva fatto per me e tanti altri come me in
circa cinquanta anni di insegnamento: tutti gli studenti dell’Istituto
Nautico si ricordavano di lui. Ho conosciuto don Alberto alle scuole
medie a nel millenovecentocinquanta e poi all'istituto nautico Nino
Bixio di Piano di Sorrento, dove è stato mio insegnante di religione
fino al millenovecentosessanta. Ma i nostri rapporti di stima ed
amicizia sono continuati anche dopo. Già, perché noi, i suoi allievi
di sempre, come soleva, chiamarci venivamo seguiti attentamente
anche dopo il diploma, sia nella carriera che nella vita familiare.
Sembrerà paradossale ma ricordava i nomi di tutti i suoi allievi sin
dal millenovecentoquarantasei. Ha seguito le carriere di tutti noi: in
marina mercantile, marina militare o nell'industria. Chiedeva
sempre di tutti e di tutti si informava sulle condizioni di salute o sui
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rapporti con la famiglia e gli si illuminava il viso di gioia quando le
notizie erano buone e soffriva e si rattristava quando non lo erano.
Insegnare all'istituto nautico, nell'immediato dopoguerra non
era impresa facile, per un insegnante di religione, in quanto la
religione non veniva considerata materia di giudizio e quindi non
rilevante per il voto di profitto a fine anno scolastico. Il fatto poi
che generalmente l'ora di religione capitava nell'orario scolastico per
ultima, ragion per cui il povero sacerdote ci trovava stanchi ed
affamati e quindi poco attenti e poco interessati alle sue
argomentazioni. Poi c’era anche un altro fattore molto importante e
cioè che molti allievi avevano ripreso gli studi dopo il conflitto
mondiale e in alcuni casi parecchi di loro superavano in età gli stessi
insegnanti rendendo il compito di insegnare ancora più difficile.
Don Alberto aveva capito tutto ciò e ne era perfettamente
cosciente e con il suo modo di fare semplice e cordiale riusciva a
trasformare quella che poteva sembrare un'ora di noia in un'ora di
piacevole rilassamento ed apprendimento. Con grande dolcezza e
tranquillità riusciva a spiegare in maniera semplice i passi della
Bibbia con parole e commenti suoi da trasformarli in racconti veri e
propri insomma venivamo rapiti da quel suo modo di narrare. Ci
faceva entrare in prima persona in quei racconti, facendoci
dimenticare orario e stanchezza. Spesso terminava la lezione un
poco prima dell'orario e ascoltava attentamente i nostri commenti e
le nostre eventuali lagnanze verso qualche altro professore, magari
troppo severo o un poco avaro di voti, ma solo poche volte mi
ricordo, e per qualche caso speciale si impegnava a spendere
qualche buona parola per noi con un suo collega. Succedeva quando
qualcuno di noi riceveva note di condotta sul registra di classe o
qualche punizione più o meno severa che avrebbe potuta
pregiudicare l’anno scolastico solo allora si ricorreva a don Alberto.
L'indomani mattina, ancor prima di entrare in classe si recava
in presidenza dal buon preside l’ingegnere Alberto Carrino, che
accontentava sempre, facendosi promettere, pero, maggior impegno
e serietà dai suoi allievi. Il preside Carrino , comunque, non avrebbe
mai rifiutato nulla a don Alberto sia per il suo modo paterno di fare
sia per la grande stima ed amicizia che li univa. Don Alberto non
diceva di no a nessuno. Accoglieva tutti anche dopo l'orario delle
lezioni con il suo sorriso aperto e cordiale, ascoltava attentamente le
lamentele e non mancava mai di dare buoni consigli o di farsi in
quattro ad aiutare i suoi allievi. Anche quando si sentiva stanco o
stava poco bene. Non l'ho sentito mai lamentarsi, neanche quando il
male aveva già minato il suo poderoso fisico. Come ho già
accennato prima, don Alberto ha seguito i suoi allievi che sono stati
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tantissimi, anche dopo il diploma. Li ha seguiti nella vita e nella
carriera e l'ho visto soffrire intensamente quando veniva a sapere
che qualcuno di noi aveva avuto qualche problema con la propria
moglie, oppure di i lavoro, o di altro: noi eravamo sempre i suoi
ragazzi.
Nel millenovecentosettantasei ho avuto, anche io, seri problemi
col mio lavoro perché la cattiveria umana non ha mai limite In
pratica avevo perso il lavoro al quale tenevo tanto e con esso stavo
per perdere anche la famiglia Trascorrevo momenti di dolore e di
angoscia profonda per situazioni createsi indipendentemente la mia
volontà e dalle quali non sapevo proprio come venirne fuori per
puro caso, un pomeriggio d'estate incontrai don Alberto a Vico
Equense. Ci abbracciammo affettuosamente e subito dopo aver
notato nel mio sguardo tanta tristezza volle sapere tutto. Mi diede
appuntamento per la sera stessa a casa sua a Piano dove mi ascoltò
ancora per un altro paio d'ore. Ad un certo punto, dopo aver
compreso che fare. la guerra ai mulini a vento non avrebbe risolto
assolutamente nulla prese carta e penna e scrisse un biglietto per un
suo carissimo amico sacerdote direttore della Stella Mari di Taranto:
don Raffaele Pepe.e scrisse: “Caro Raffaele, il latore del presente é
Biagino un mio caro allievo che ha bisogno di essere ascoltato ti
prego di fare qualcosa per lui se ti sarà possibile* Ma sopratutto
ascoltalo con il cuore Tuo Alberto”
Conservo ancora quel biglietto tra i miei ricordi più cari..Dal
millenovecentosettantasei al millenovecentosettantanove sono stato
in Algeria da dove di tanto in tanto gli mandavo mie notizie per
incontrarlo poi nel millenovecentonovantadue presso la Fincantieri
di Castellammare di Stabia in occasione di un varo. Ogni tanto ci
sentivamo per telefono e mi ero ripromesso di fargli visita, ma il
male che subdolamente stava minando il mio fisico mi lasciava
sempre meno tempo.
Avrei voluto essere presente almeno ai suoi funerali,
accompagnarlo nel suo ultimo viaggio e spendere qualche parola di
gratitudine, ma sicuramente lo avrà fatto, qualcuno dei suoi
numerosi ex allievi presenti anche se avrei voluto tanto poter dire
qualcosa anch'io. Gli avrei voluto dire:”Caro don Alberto, grazie
per tutto quello che hai fatto; ora lasci un enorme vuoto nei nostri
cuori, è anche grazie alla tua opera che la marina mercantile italiana
si é arricchita di valenti ufficiali che tanto onore e dignità hanno
portato alla penisola Sorrentina. Sono stati i tuoi insegnamenti che
hanno formato il nostro carattere ed arricchito il nostro spirito. Tutti
noi ti dobbiamo tanto e non ti dimenticheremo.
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II fischio severo del vigile mi fece capire che stavo bloccando
il traffico!Lasciai Piano con una stretta al cuore e gli occhi umidi
avevo perso un grande amico.
Francesco e
La terza età
Quando si supera la soglia dei sessanta anni cominciamo a
pensare di essere entrati nella fase della tersa età quindi, alle. porte
della vecchiaia;ma la terza età non è solo una questione di anni.
Essa comincia soltanto quando smettiamo di svolgere l’attività che
abbiamo sempre svolto. Quando non siamo più costretti a lavorare
per vivere e a timbrare ogni mattino il cartellino presenza in
fabbrica oppure ad aprire e chiudere la serranda di un negozio.
Quando andiamo in pensione, quando la società nel suo insieme
decreta che non siamo più utili e dobbiamo metterci da parte, solo
allora comincia la terza età . Assistiamo allo scorrere della vita
quotidiana come spettatori e non siamo più i protagonisti del
mondo.
Secondo me restare in ozio, inattivi, è un fattore assolutamente
negativo. L'inattività avvilisce, apre rapidamente le porte alla
vecchiaia e fa morire il corpo e la mente. Vi sono tantissimi
hobbies, giardinaggio, meccanica, modellismo, collezionismo
oppure se te lo permettono continuare con la propria attività.
Insomma ingegnarsi sempre a fare qualcosa, una qualunque cosa
purché ti mantenga impegnato senza per questo essere obbligato a
farlo. In altre parole essere partecipi della vita ma con serenità e
senza ansie inutili. Le contraddizioni della vita le ammettiamo, non
le giustifichiamo ma soprattutto le accettiamo con occhio attento e
benevole tolleranza confrontandole al nostro passato. E’ in questa
fase dell’esistenza che analizziamo spesso, la nostra vita quasi fosse
uno spettacolo o un romanzo, aprendo il cuore alle riflessioni e ad
un esame attento e critico .Nel rivedere la nostra vita molte volte ci
paniamo la domanda se ci riteniamo soddisfatti oppure no. Tutti noi
a questi punto, avremo la consapevolezza. di aver perso delle
occasioni, di aver commesso errori . Certamente il passato non va
dimenticato completamente perché esso fa parte del nostro fardello
di esperienze,ma neanche bisogna dargli eccessivo peso perché il
ricordo appassionato delle esperienze passate può soffocare il
presente e avvilire il futuro.
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Ormai ciò che é fatto é fatto e tutti i momenti vissuti sia quelli
belli che quelli amari acquistano alla mia età un valore puramente
estetico. L'importante è l’essere consapevole di aver fatto tutto ciò
che la nostra coscienza riteneva giusto fosse fatto. Così facendo
acquistiamo, con un piccolo sforza, la tranquillità e la serenità , che
ci permetterà di godere la terza età come una stagione felice della
nostra vita, anzi forse la più felice, perché si acquista la giusta
distanza dalle cose.
Durante i periodi bui e tristi della nostra vita, siamo più
coinvolti dal mondo. Quando noi siamo costretti a subire l'
arroganza e la protervia di chi ci impartisce ordini o ci richiede
prestazioni, provocandoci sofferenze psicologiche e morali,
dispiaceri dai quali possono sollevarci le persone a noi più vicine e
che ci infondono tanta umana rassegnazione.
“Coraggio vedrai che il Signore prima o poi premierà le tue
sofferenze”. Alle persone che hanno perso un congiunto ancora
giovane o in tenera età si dirà: “II Signore passeggiando in un prato
fiorito ha voluto cogliere il fiore pini bello”. A chi invece, avrà
perso urna persona cara avanti negli anni gli si dirà:” il Signore ha
voluto premiarlo portandolo con se in Paradiso. Ognuno di noi
credente, sa che prima o poi riceverà il giusto premio alle sue
sofferenze, perché il Signore è sempre misericordioso. Già
sappiamo bene che la vita stessa é un dono meraviglioso, anche se
spesso dimostriamo di non apprezzarla abbastanza vivendola male.
Io da parte mia, posso ritenermi più fortunato degli altri perché
il dono stupendo della vita l'ho ricevuto due volte. Come ho già
detto nelle pagine precedenti; sei anni fa, il Signore nella Sua
infinita Misericordia, mi ha guarito da un male terribile e questo a
rafforzato ancora di più in me il suo di Lui e la mia fede.
Ma a trasformare completamente e in meglio questa mia
stagione della vita é stato l'arrivo di Francesco. Vi chiederete: ” ma
chi è Francesco?” Ebbene Francesco non é soltanto il mio primo
nipotino, non é soltanto un bellissimo bambino dagli occhi vispi e
dal sorriso ricco di tenerezza, intelligente ed affettuoso.
Francesco é gioia, é speranza é desiderio di un domani
migliore. Francesco é l'ansia del nuovo giorno per poterlo stringere
in un tenero abbraccio o poterlo soltanto ascoltare per telefono.
Francesco é tutto questo e molto di più di quanto potessi aspettarmi
dalla vita ed è la consolazione più grande per chi come me si sta
affacciando alla soglia della terza età. Dopo essere nato una
seconda volta. Per farla breve, Francesco é stato per me come una
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folata di vento d’aprile che cancella ogni tristezza e malinconia col
profumo di primavera.
Conclusioni
Quanto ho cominciato a scrivere queste brevi riflessioni sulla
mia vita, l’ho fatto partendo dalla descrizione della villa De
Gennaro che vedevo dalla finestra della mia unica stanza, ora che
sto volgendo alle conclusioni ritorno nuovamente alla mia memoria
e ai miei ricordi più lontani e a quella villa da dove è partito il mio
ricordo. Perché è solo il ricordo che rende possibile qualsiasi
presente e qualsiasi futuro.
Questi miei ricordi li ho voluti scrivere non per velleità
letteraria, ma semplicemente perché dovevo, anzi sentivo, in
qualche modo la necessità di dovere oggettivare sulla pagina scritta
episodi determinanti della mia vita, specialmente quelli che per me
sono stati i più dolorosi, ma anche i più significativi. Dovevo
potermi in qualche modo ritrovare e contemplare serenamente ciò
che era, era stato ed ancora continua ad essere il mio mondo e la
mia vita. Così con la memoria ritorno alla villa de Gennaro.
Qualche famiglia benestante. come i Cosentino, i Di Palma ed
i nobili de Gennaro, se ne stavano in disparte sempre chiusi nei
loro palazzi. Ricordo, come fosse ora, che soltanto la domenica
mattina, la nobil donna Clementina De Gennaro si recava ad
ascoltare la prima messa quella delle sette e trenta nella piccola
chiesa dell’Addolorata. All'uscita dalla Chiesa vi era, ad attenderla,
una. schiera di ragazzi che dopo averle baciato la mano le augurava
buona domenica. La nobildonna, compiaciuta regalava, ad ognuno
di noi- ero anche io tra quella schiera- una. moneta da cinque lire .
Si ricordava sempre di tutti noi, e se qualcuno mancava sì
preoccupava subito di chiedere notizie, invitando tutti ad
impegnarsi di più con lo studio e ad essere sempre ubbidienti in
famiglia. La Signorina Clementina viveva nella sua balla villa
circondata da un grande giardino coltivato a frutta insieme al
fratello, il giudice Tommasino, principe di Cantalupo ed alla sua
fedele governante Rosina. Di tanto in tanto veniva a farle visita uno
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dei fratelli, l'avvocato Francesco quasi sempre accompagnato dal
figlioletto Tommaso che portava dunque il nome dello zio.
L’avvocato era alto, imponente, sempre molto elegante col
suo fare severo quasi militare, non amava che il figlio si fermasse
a giocare con noialtri coetanei quasi a volergli ricordare la sua
posizione sociale.
Al piccolo Tommaso di tutto ciò non importava, nulla, e
appena poteva, sgaiattolava dalla villa e veniva a giocare a palla con
tutti noi. Si divertiva tanto a comportarsi come un vero scugnizzo,
noncurante della sua nobiltà II tutto sotto lo sguardo compiaciuto
delle mamme del rione che vedevano i loro figli giocare con il
signorino de Gennaro. Con Tommaso i rapporti di stima ed
amicizia sono durati nel tempo e sono stati sempre più forti.
Eravamo molto legati io e Tommaso e ci si interessava l’uno
dell’altro con fraterna ed antica amicizia: salute, lavoro, affanni,
gioie anche quando gli impegni dì lavoro mi portavano a vivere
in paesi diversi o i suoi impegni politici lo tenevano severamente
impegnato:Tommaso non era solo nobile di nome, ma lo era
soprattutto di cuore .
Sempre disponibile verso gli altri, sempre pronto, senza mai
voltare le spalle a. chi gli chiedeva un consiglio o un aiuto
concreto. Tommaso era il ragazzone di sempre: buono, generoso,
disponibile allo scherzo senza mai far pesare la sua posizione
sociale, anche quando ricoprì la carica- di primo cittadino di Vico
Equense. Tommaso é rimasto così fino all’ultimo, fino a quando
un male terribile lo ha portato via strappandolo prematuramente
all’affetto dei suoi cari, dei suoi amici, della sua città.
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… Ricordo ogni cosa della nostra adolescenza e della nostra
gioventù, in un paese che non era ancora caotico, dove era possibile
ancora giocare per strada, dove era possibile ancora sentire profumi
nell’aria. Ricordo la povertà di quel tempo che era sempre dignitosa
e mai vergognosa, ricordo l’onestà della mia famiglia e di tutte le
altre famiglie.
Ricordo i ricordi di un tempo perduto irrimediabilmente perché
non tornerà più e nel ricordo e in questa scrittura ho voluto dar
fondo alla malinconia che sempre mi ha accompagnato e ancora mi
accompagna anche nei momenti di gioia, perché è attraverso tutto
quello che ho scritto e tutto quello che mi resta ancora da vivere che
io ho la percezione di Dio e della sua immensa grandezza.