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(da Martí Guixé, The Martí Guixé Cook Book.
A meta-territorial cuisine, Imschoot, Vitgevers,
Gent 2003, s.p.)
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Caratteri identificativi dell’agire metaprogettuale, questi, che qui di seguito si intendono descrivereed approfondire.
Si tratta di caratteristiche ricorrenti, che opportunamente selezionate (non tutte devono esserenecessariamente compresenti in ogni prodotto, processo, strumento, riflessione metaprogettuale;
alcune sono tra l’altro in contraddizione tra loro, altre sono talmente vicine da essere difficilmente
univocamente identificabili) e combinate, sono in grado di delineare il campo d’azione delmetaprogetto.
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3_L’AVVIO DI UNA MAPPA DEL METAPROGETTO di Luisa Collina
Il metaprogetto è volto a programmare il processo progettuale, a razionalizzarlo e ad incanalarlo in
procedure canonizzate; al contrario il metaprogetto mira alla creazione di un progetto “più vasto”,
“nuovo”, “diverso”. Due estremi che ci mostrano la vastità e indeterminatezza dei caratteri stessiche delineano questo tema.
Se quindi in passato il metaprogettista richiamava alla mente persone razionali, indaffarate con
tabulati generati dai primi calcolatori, oggi a questa immagine se ne affiancano altre, in alcuni casi
anche molto lontane, di agenti del cambiamento, catalizzatori di nuove idee, visionari.
Nelle pagine che seguono, più che operare una scelta di campo tra le diverse alternative o
contribuire alla confusione terminologica con un’ulteriore definizione di metaprogetto (e con esso
di metaprogettista), si è preferito accettare la complessità e quel certo grado di indeterminatezza
delle categorie concettuali ricorrenti, andando a ricercare il significato di questo termine a partire
dall’ambito del suo uso e delle sue applicazioni.
Qui di seguito si intendono tracciare, seppure per sommi capi, le modalità dell’agire
metaprogettuale attraverso l’individuazione di alcune aree di intervento lungo il processo del progetto contemporaneo; si tratta, in alcuni casi, di ambiti che ad oggi registrano un grado
sufficiente di autonomia e di livello di formalizzazione, tali per cui sono identificabili all’internodella filiera progettuale.
Nel quadro delle diverse aree d’intervento, sono trattati, con diversi gradi di approfondimento,alcuni prodotti (come detto precedentemente considerabili quale sorta di semilavorati all’interno
della filiera del progetto, forme intermedie di conoscenza acquisita), così come alcune azioni di processo (quale insieme di attività attraverso cui si giunge ad un esito progettuale), riconducibili in
alcuni casi a degli strumenti metodologici, concettuali, ma anche infrastrutturali, elaborati al fine disupportare il percorso progettuale.
La differenza tra gli strumenti e i prodotti semilavorati, è messa in luce in modo chiaro da John
Dewey, che identifica due tipi di mezzi, uno esterno a ciò che viene compiuto, l’altro “assorbitonelle conseguenze prodotte”, tale per cui “rimane immanente in esse”; i primi cessano di agire
quando il fine è raggiunto, i secondi sono elementi costitutivi, incorporati nel risultato.2
Le azioni sono, infine, l’applicazione degli strumenti lungo il processo creativo.
Nel considerare questi diversi aspetti, ne risulta un elenco aperto, trattato per grandi ambiti, e
secondo un ordine più volte modificato e alla fine scelto solo sulla base della “fluidità”
dell’esposizione e non sull’idea, ormai da tempo tramontata, di sequenzialità lineare del fare
progettuale: vi sono infatti processi che partono direttamente dall’attività creativa, intuitiva, per poi
attivare processi di verifica, selezione e validazione delle ipotesi progettuali; altri che necessitano di
un’analisi propedeutica alla definizione del problema, al fine di verificarne, già dall’inizio, la
coerenza e la correttezza d’impostazione; altresì, vi sono azioni che si limitano ad un solo ambito, e
i cui esiti hanno un valore autonomo e riconoscibile all’interno della filiera del progetto.Gli stessi margini tra un ambito e l’altro sono quanto mai sfumati, tanto che alcuni tipi di azioni
possono a tutti gli effetti essere volte a diverse finalità (si pensi ad esempio ai trends che possonoavere valenze sia analitiche che progettuali).
L’esito, che non pretende di esaurire il tema, si limita a restituire la fotografia di un processodinamico.
La concezione di metaprogetto che ne emerge, vasta, dai limiti poco definiti e dal carattere non più
strettamente prescrittivo, si configura quale progetto generatore di più progetti possibili, quale
organizzazione di conoscenza volta a dare origine, potenzialmente, ad una moltitudine di soluzioni
progettuali. Soluzioni, queste, da cui è possibile, all’inverso, riconoscere una sorta di “aria di
2 John Dewey, “Il contenuto comune delle arti”, in Arte come esperienza e altri scritti, La Nuova Italia Editrice, Firenze
1995, (I ed. orig. 1934), p.228
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famiglia” data dalla presenza, in filigrana, di quell’”invariante metaprogettuale” che ha contribuito
alla loro genesi.Tali invarianti possono essere estremamente diverse, per natura e per caratteristiche: in alcuni casi
sono costituite da elementi fisici, tangibili; in altri, prevalenti, da elementi concettuali; possonoessere di tipo prescrittivo, così come propositivo di indirizzo; possono avere come oggetto l’intera
entità (si tratti di prodotto o di processo progettuale) oppure solamente una sua parte.
Proviamo a fare qualche esempio per uscire dalla nebulosità dell’astrattezza, partendo da quelli piùcontigue alle esperienze svolte nell’ambito della tecnologia della progettazione e del design ed
associando alle diverse modalità di azione metaprogettuale alcuni esempi di esiti di tali azioni.
_Il metaprogetto quale insieme condiviso di tecniche, metodologie, di modalità di approccio al
processo progettuale, capace di dare una identità comune a esiti diversi; quale “insieme di strumenti
di navigazione, che rendono più agevole l’orientamento durante il processo progettuale”3. I tipi di
prodotti metaprogettuali sono in questo caso prevalentemente strumenti metodologici e di
programmazione, codificazioni del processo creativo, definizioni di un approccio progettuale in
grado di restituire in modo chiaro un’”identità”, un linguaggio, uno stile, un modo di operare.
Un’esigenza, questa, molto attuale, ad esempio, negli studi internazionali di progettazione, non più
incentrati sulla figura del singolo progettista.
_Il metaprogetto quale indagine: raccolta di informazioni e sintesi esplicativa delle analisi condotte,siano esse quantitative o qualitative, relative al contesto in cui il progetto è chiamato a collocarsi,
andando a indagare in merito alle normative di riferimento, agli utilizzatori (alle diverse scale diaggregazione, dalla società all’individuo), alle tecnologie, al contesto competitivo (dalla scala
macro-economica a quella aziendale), alle soluzioni sviluppate in passato, siano esse vincenti o perdenti, e così via. Da questo tipo di indagine prendono forma molteplici prodotti metaprogettuali,
oggi quanto mai ricorrenti nei processi creativi nelle diverse realtà internazionali (da cui il ricorso atermini anglosassoni): trend book, trend map, consumer map, technological trend, technological
roadmap, knowledge maps, business maps, sono solo alcuni esempi di questi “semilavorati progettuali”. Si tratta, in estrema sintesi, di mappe dello stato attuale e di visualizzazioni di possibili
direttrici future nei diversi contesti e ambiti di indagine.
_Il metaprogetto quale costruzione di un quadro di riferimento all’origine di una moltitudine di progetti, sviluppato, in alcuni casi, sulla base delle attività informative-analitiche condotte; in altri
casi, attraverso “salti” concettuali, generati da processi mentali diversi da quelli razionali-deduttivi,
frutto di ricerche sull’immaginario, momenti di brainstorming, e di libera immaginazione. Gli esiti
metaprogettuali prendono forma in termini di brief, best practices, linee-guida, bandi di concorso,
idee, insights, trends, visions, scenarios, concepts, a seconda del grado di definizione,
dell’ampiezza del campo progettuale, del fuoco del progetto, e delle sue finalità.
_Il metaprogetto nella fase di progettazione, quale strumento di controllo dei risultati in essere,
rispetto all’impostazione e agli obiettivi delineati, di verifica della fattibilità del progetto, ma anche
di “selezione” e “falsificazione” delle ipotesi progettuali delineate in base alla rispondenza al
contesto di riferimento. Un obiettivo perseguito attraverso metodi di valutazione e certificazione,
quantitativi e qualitativi, ma anche attraverso forme di backcasting e di costruzione di scenari. _Il metaprogetto quale insieme di elementi o sistemi di relazioni, condivisi da più soluzioni
specifiche. Un ambito metaprogettuale quanto mai ampio e che va a comprendere molti dei punti precedentemente enunciati. Prendendo a prestito la differenziazione operata nell’ambito del product
design, è possibile distinguere tra condivisione componentistica (e pertanto prevalentemente dielementi, siano essi hard o soft ) e condivisione sistemica/architetturale (in termini di architetture di
prodotto o piattaforme, di sistemi o di insiemi di regole) in grado di generare, in diversi modi e
forme, un’”aria di famiglia” tra progetti eterogenei, ma anche, in alcuni casi, di manifestare
l’authorship che dietro questi si cela.
In particolare possono essere condivisi:
3 Gui Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale. Elementi per una manualistica critica, Feltrinelli, Milano
1993 (I ed. orig. 1975), p.157
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.elementi di natura fisica (si veda in seguito il vaso “100% Make UP” progettato da Alessandro
Mendini per Alessi) oppure astratta (quali, ad esempio, servizi, valori, identità, ecc.) combinati,declinati, variati, deformati, ibridati, ecc. in molteplici modi nei singoli progetti specifici;
.elementi in termini di soft qualities che caratterizzano, ad esempio, un insieme di materiali e dioggetti; caratteri linguistici ed emozionali, formali e tecnologici comuni a più entità.
A questo elenco, ad un livello di maggiore astrattezza, è possibile aggiungere ulteriori forme di
condivisione, identificabili in termini di “tipo”, sia esso esistente o di nuova creazione, declinato neimolteplici progetti specifici; di regole (di classificazione, di deformazione, di combinazione ecc.) e
norme (di coordinamento, ecc.) comuni, ma anche di visioni e strategie, in grado di orientare le
diverse azioni progettuali.
Esito di questo modo di intendere il metaprogetto, sono linee, serie, architetture, piattaforme di
prodotto, schemi, norme, sistemi componibili, sistemi dimensionali, abachi, manuali (corporate
identity, franchising , visual merchandising , ecc.), linee guida per il sistema-prodotto, strategie,
scenari, ecc., tutti “prodotti metaprogettuali”, questi enunciati, in grado di generare una moltitudine
di soluzioni progettuali diverse.
Un quadro quanto mai disomogeneo, in cui diverso è il grado di astrazione rispetto al processo
progettuale vero e proprio, così come il campo visuale/applicativo di riferimento, che spazia dalla
definizione delle modalità e degli strumenti da adottare in specifiche fasi del progetto, alla generale programmazione dell’intero iter creativo.
Un’eterogeneità definita da Douglas R.Hofstadter 4 in termini di “meta-livelli”: ogni livello, ad
esempio di regole, può avere, a suo parere, un meta-livello, luogo dove si definisce dove e come tali
regole sono applicate, che può a sua volta prevedere un ulteriore meta-livello, in una sequenzaidealmente infinita, caratterizzata da una moltitudine di meta-livelli sempre più astratti.
Analogamente Gui Bonsiepe5 introduce i concetti di “macro-struttura” e “micro-struttura” del
processo progettuale, dove per ‘macro-struttura’ si intende la suddivisione del processo progettuale
in diverse tappe o fasi, mentre per ‘micro-struttura’ si fa riferimento alla descrizione dellespecifiche tecniche usate nelle varie fasi.
Relativamente al tema del metaprogetto, si intendono considerare tre principali livelli di astrazione:
_un primo livello, molto concreto, relativo agli elementi, sia hard (quali materiali, semilavorati,semicomponenti e componenti) che soft , comuni a un sistema;
_un livello intermedio, in cui possono essere ricondotti, come detto, i metodi, le azioni e i relativi
esiti –i prodotti- metaprogettuali;
_un terzo livello, in cui si ragiona sull’uso degli stessi strumenti e metodologie delineati e sugli esiti
di tale uso; in cui si riflette, in sintesi, sul processo ideativo in generale e sulle sue parti; sui canoni
progettuali correnti e sui modi di superarli. In cui il metaprogetto assume figurativamente il ruolo di
bussola, di schema strutturale in grado di mettere in luce le differenze ed orientare nella sfera del
progetto6.
Nella trattazione di questi tre livelli, le pagine che seguono si concentrano prevalentemente sul
secondo layer , relativo alle azioni metaprogettuali, rimandando ad altre occasioni
l’approfondimento degli aspetti più specifici, relativi al design dei materiali e dei componenti, cosìcome di riflessioni più astratte, inerenti l’intero processo progettuale.
3.1 La ricerca di informazioni e l’analisi
Come riconosce Christopher Alexander, esiste una buona dose di superstizione fra i progettisti
riguardo a un presunto “effetto letale dell’analisi sull’intuizione”. Pur già consci di questa
4 Cfr. Douglas R.Hofstadter, Metamagical Themas, Basik Books, New York 1985
5
Gui Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale. Elementi per una manualistica critica, Feltrinelli, Milano1993 (I ed. orig. 1975), p.1586 Cfr. Laura Polinoro, Intervista del 5 ottobre 2004
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“allergia”, la letteratura prodotta tra gli anni ’60 e ’70 sulla metodologia progettuale individua la
raccolta d’informazioni e l’analisi, quali fasi irrinunciabili di avvio del processo creativo: la raccoltadi informazioni figura, nello schema di Morris Asimow relativo alla “fase 1”, “studio di fattibilità”;
le fasi due e tre di Horst Rittel riguardano la “raccolta d’informazioni” e “l’analisi delleinformazioni” acquisite; la prima e la seconda fase di Hans Gugelot, sono denominate “fase
informativa” e “fase analitica”7; lo stesso Bruno Munari, a seguito della scomposizione del
problema in componenti, inserisce “la raccolta dati” e l’”analisi dei dati” nei propri schemi relativialla sequenza progettuale, ponendo lo svolgimento di queste fasi quale condizione per il passaggio
dall’idea alla creatività: “Sarà appunto la creatività a sostituire l’idea intuitiva, ancora legata al
modo artistico-romantico di risolvere un problema.(…) Mentre l’idea, legata alla fantasia, può
proporre soluzioni anche irrealizzabili per ragioni tecniche o materiche, oppure economiche, la
creatività si mantiene nei limiti del problema (…)”8; a queste fasi aggiunge un ulteriore momento di
raccolta dati relativo ai materiali e alle tecnologie.
7 6 è il numero di fasi individuate da Hans Gugelot: 1. fase informativa; 2. fase analitica; 3. fase progettuale; 4. fase
decisionale; 5 fase del calcolo e dell’adeguamento del prodotto alle condizioni della produzione; 6. costruzione delmodello. Cfr. Bernhard E. Bürdeck, Design, Mondatori, Milano 1992, p.1598 Bruno Munari, Da cosa nasce cosa, Laterza, Bari 1983 (I ed. orig. 1981), p.50
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Ill. Bruno Munari, La metodologia del progetto, da problema (P) alla creatività (C), attraverso la
definizione del problema (DP), la sintesi dei componenti del problema (CP), la raccolta dei dati(RD) e l’analisi dei dati (AD); dalla creatività (C) alla soluzione (S) attraverso i dati sulle
possibilità materiche e tecnologiche (MT), la sperimentazione sui materiali e sugli strumenti (SP),
la realizzazione di modelli (M), le verifiche (V) e i disegni costruttivi.
(fonte: Bruno Munari, Da cosa nasce cosa, Laterza, Bari, 1983 (I ed. orig. 1981), p.62)
In ogni procedimento di metodo formalizzato è dunque costante la presenza di un vasto apparato
analitico. Attraverso l’analisi, il progettista raccoglie e ricerca parte delle informazioni a
disposizione (se per perfetta informazione si intende, con Alberto Rosselli, che tutti i fatti siano noti
e che tutti i fattori presi in considerazione siano rilevanti): informazioni sui singoli oggetti dianalisi, ma anche, soprattutto, sulle relazioni tra di essi e sulle relazioni tra questi e i contesti a cui
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fanno riferimento; sulle parti che compongono tali oggetti e, di nuovo, sulle relazioni che si
instaurano tra tali parti9; e così via.
Seguendo il principio di Bruce Archer, la complessità dell’azione analitica fa sì che non possa
essere affrontata, se non per sottoarticolazioni operabili più facilmente, tale per cui “Un singolo problema di design è un insieme di molti sottoproblemi. Ognuno di essi può essere risolto in modo
da ottenere un campo di soluzioni accettabili”. Nella scia di questa direttrice, il processo
progettuale, che mira ad assumere una configurazione industriale, impone alcuni principi: lecaratteristiche del prodotto, e soprattutto le sue prestazioni, devono corrispondere precisamente ai
requisiti di progetto identificati, e questi, a loro volta, devono derivare direttamente dalle esigenze e
dai bisogni dell’utenza; si deve prevedere con chiarezza quali parti del prodotto debbano offrire
specifiche risposte, e come ognuna di esse debba collaborare reciprocamente alla migliore risposta
dell’intero sistema.
Una concezione meccanicistica oggi non più attuale, basata su fattori quantificabili e relazioni
lineari di causa/effetto, in cui il progetto è strutturato sulla base di aspetti funzionali e razionali a
scapito di quelli simbolici ed emozionali.
Relativamente al mutare della relazione causa/effetto, John Dewey in Logic: The Theory of
Inquiry10 già contempla l’idea di indagine, quale procedimento che combina ragionamento mentale
e azione nel contesto reale, in un processo indeterminato che muove dal dubbio alla risoluzione deldubbio, da una situazione problematica ad una determinata. Un’indagine, per John Dewey, non
necessariamente a monte dell’azione progettuale, bensì ad essa “intimamente legata”.L’attività di analisi si combina, da questo punto di vista, con il concetto di intuito, dove i due
termini, a lungo visti come antitetici, sono considerati come componenti che concorrono con ruoli,tempi e modalità diverse al processo progettuale: considerando il bagaglio di conoscenza come
fonte d’ispirazione, così come distinguendo tra un momento iniziale di generazione creativa di unamoltitudine di soluzioni alternative, da un successivo processo “darwiniano” di selezione rispetto
alle condizioni dettate dal contesto.Douglas R.Hofstadter, ad esempio, come già richiamato nel primo capitolo, sviluppa un’idea di
creatività alimentata dalla “metaconoscenza”, ovvero dalla capacità umana di auto-osservare, di
ragionare sulle proprie idee e di richiamare le idee, più appropriate nel momento giusto. Lacreatività, in questi termini, non è tanto intesa quale atto di sintesi che emerge autonomamente, a
priori di qualsiasi analisi propedeutica, ma quale forma di intuizione che fa seguito ad una raccolta
di dati (un vero e proprio “magazzino culturale”), opportunamente ordinata e richiamata alla mente:
“Solo dopo aver esperito questa fase, aver immagazzinato ricordi, immagini, teorie, orientamenti di
poetiche, informazioni nel senso più lato del termine, subentra l’atto intuitivo, che è certamente atto
di sintesi, ma non di sintesi a priori, bensì, come s’è appena detto, di una quantità di conoscenze
precedenti”11.
Diverso è invece il ruolo attribuito da Christopher Alexander alla conoscenza, in particolare a quella
inerente il contesto di progetto: un ruolo fondamentale a posteriori rispetto all’atto creativo, che
interviene nei momenti di verifica della rispondenza tra forma e contesto; in altre parole, attraverso
la individuazione e la conseguente esclusione delle forme che manifestano delle “disattitudini”rispetto al contesto di riferimento. Un processo di “falsificazione”, che seppure modifichi la natura,
la finalità e la sequenza lineare tra progetto e analisi, continua ad attribuire a quest’ultima un ruolofondamentale nel processo progettuale.
Il superamento della sequenza lineare analisi-progetto, porta con sé il riconoscimento dellanecessità di ripensare gli strumenti analitici disciplinari del design, chiamati a confrontarsi con gli
aspetti emozionali, qualitativi e soggettivi per lungo tempo esclusi. In particolare, nelle fasi
9 intese in termini sia fisici, che sistemici; già nel 1964 Abraham Moles individua alla base della teoria del design tre
componenti principali: “il numero delle situazioni (per esempio: il sentirsi sporco), il numero delle attività (per esempio:
il ripulirsi), il numero degli oggetti (per esempio: sapone e acqua per il bagno)”.10 John Dewey, Logica: teoria dell’indagine, Einaudi, Torino 1973 (I ed. orig. 1938)
11 Antonio D’Auria, Renato De Fusco, Il progetto di design, Etas Libri, Milano 1992, p.8
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propedeutiche al progetto, si passa dalla rigorosità delle discipline analitiche alla ricerca qualitativa
fondata sulle esperienze individuali, soggettive, difficilmente prevedibili e modellizzabili ad operadi team multidisciplinari; dall’ambizione alla “completezza” del quadro di riferimento, al
riconoscimento della “limitatezza” implicita di ogni attività conoscitiva; dall’affidamento “almetodo”, al ricorrere ad una moltitudine di metodi, tecniche e strumenti; da un approccio
“focalizzato” (prevalentemente sull’utente, sui processi produttivi e sui vincoli normativi) a uno
multifocale (in cui rientrano una moltitudine di ambiti da analizzare di tipo tecnologico, scientifico,economico, produttivo, organizzativo, normativo, sociale e culturale), multiscalare (dalla microscala
alla scala globale) e in continuo mutamento; da una finalità prescrittivi, ad una duplice funzione di
enunciazione dei vincoli progettuali (di tipo normativo, funzionale, ergonomico, economico, ecc.) e
di alimentazione della creatività.
Qui di seguito sono descritti, a titolo esemplificativo, alcuni di questi ambiti di ricerca pre-
progettuali, che fanno riferimento in particolare ai processi di conoscenza degli utilizzatori, a livello
sia di singoli individui (micro-scala) che di community, e ai così detti “giacimenti di conoscenza”,
messi a disposizione da progettisti per i progettisti stessi: modi diversi, contemporanei, per
raccogliere e analizzare qualitativamente, secondo processi bottom up, il contesto di riferimento.
_ Conoscere gli utilizzatori
“(…) sorprende notare quanto raramente i designer osservino i propri clienti. (…) tendono a starsene inchiodati alla scrivania, riflettendo su nuove idee, provandole tra di loro.”12
Come si incorpora nel progetto, oggi, quell’attenzione per la individuazione e codificazione delle
esigenze degli utenti, tipica delle esperienze metaprogettuali originarie? Come si traduce oggi, inaltre parole, quell’interesse per i bisogni dell’utente, parte fondamentale dell’etica del Movimento
Moderno, che dava origine ad artefatti razionali, funzionali, capaci di soddisfare tali bisogni?I designer, secondo Donald A. Norman, tralasciano molto spesso questo genere di studi,
considerandosi loro stessi essere umani e, di conseguenza, pensando, erroneamente, di potere
fungere da soggetti-campione: “Gli ingegneri e i designer sanno troppo e troppo poco nello stessotempo. Sanno troppo di tecnologia e troppo poco di come gli altri vivono la propria vita e svolgono
le proprie attività.” 13
Ma non sono i soli: le stesse imprese sono più frequentemente impegnate a monitorare e, in alcuni
casi, a copiare la concorrenza, piuttosto che a studiare e ad interagire con i propri destinatari.
Il prendere atto della necessità di conoscere in modo sempre più approfondito l’utilizzatore, quale
singolo individuo, e non più quale soggetto campione di un segmento di mercato, ha portato alla
necessità di rivedere gli strumenti di tipo analitico, chiedendo supporto ad altre discipline. In
particolare a quelle sociali, che da tempo hanno come obiettivo l’osservazione dei comportamenti e
dei mutamenti umani.
“Dobbiamo avvicinarci alle persone, comprendere i loro modi di vivere, i loro valori e i loro
bisogni. Dobbiamo imparare che cosa è importante per loro e perché, che cosa fanno e dove vanno,come si comportano, che problemi hanno che necessitano di soluzioni, come si relazionano alla
tecnologia oggi e come lo faranno in futuro, quali sono i loro sogni e desideri e così via. Come possiamo ottenere queste informazioni e quale ruolo ricopre l’utilizzatore in questo?” sono le
domande che si pone Christina Lindsay di Philips Design14
.
12 Donald A. Norman, Emotional design. Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti della vita quotidiana, Apogeo, Milano
2004 (I ed. orig. 2004), p.6913
Donald A. Norman, Emotional design. Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti della vita quotidiana, Apogeo, Milano
2004 (I ed. orig. 2004), p.8014
Christina Lindsay, è consulente senior del dipartimento di Strategic Design di Philips Design, dove coordina “The
global People and Trends Knowledge Platform” e il “ People Research Group” . E’ autrice di numerose pubblicazionisul tema della relazione tra persone e tecnologia, tra cui “Involving people as co-creators”, in Emile Aarts e Stefano
Marzano, The new everyday. Views on Ambient Intelligence, 0I0 Publisher, Rotterdam 2003, p.38-41
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Diverse sono le metodologie di ricerca adottate nel campo del design per dare risposta a queste
domande. Sono metodologie qualitative, dinamiche e in parte interattive. Sinteticamente possonoessere individuati quattro modi di affrontare questo tipo di indagine, molto diversi tra loro, sia per
l’impegno richiesto, sia per il grado di approfondimento raggiunto.Il primo è definito in termini di “rappresentazione”: i progettisti creano una “rappresentazione
dell’utilizzatore”, sulla base di convinzioni comuni e dati statistici quantitativi relativi a specifici
segmenti di mercato; in alternativa, si fa uso della cosiddetta I-methodology, ovvero si progetta pensando a se stessi e ai propri amici. MH-Way è il nome dell’azienda fondata da Makio Hasuike:
un nome breve, che condensa in se stesso uno dei principi alla base del successo di questa azienda, i
cui prodotti non sono solo disegnati da Makio Hasuike, bensì sono concepiti per lo stesso Makio
Hasuike, sono plasmati dalle sue esigenze, abitudini, aspettative e dal suo gusto estetico, senza
interferenze dovute ad analisi di mercato e ricerche sulle tendenze.
Un tipo di approccio, quello della rappresentazione, in cui non sussistono momenti di contatto tra
progettista e utilizzatore.
Il secondo tipo di approccio (“contatti puntuali”) supera questo divario attraverso brevi interviste,
spesso telefoniche, e questionari, momenti di comunicazione puntuali e generalmente
unidirezionali, strumenti oggi quanto mai usati, anche se considerati inadeguati per apprendere il
comportamento dei singoli individui nel proprio contesto d’uso. Elevata è infatti ormai laconsapevolezza che non si può conoscere cosa pensano le persone, che valore danno alle cose, quali
sono le loro aspettative, ecc. semplicemente chiedendoglielo attraverso questionari ed interviste, incontesti astratti –gli spazi anonimi teatri di interviste e focus group-, lontano dai propri ambienti
quotidiani. Come ormai da molti accertato, le persone chiamate a rispondere a delle domande diquesto genere mentono inconsapevolmente. Parimenti, poco efficaci risultano i test che prevedono il
coinvolgimento degli utilizzatori. Si pensi, ad esempio, al processo iterativo, che contraddistinguel’approccio di tipo “user-centered”, in cui si susseguono diversi cicli di progettazione articolati in
tre fasi: progetto del concept, realizzazione del prototipo progressivamente più definito, e prova perverificare l’interazione con gli utilizzatori. Donald A. Norman, che in numerosi studi e scritti ha
promosso questa modalità di lavoro, ne riconosce i limiti e la considera particolarmente efficace
solo nei casi in cui il progetto si confronta con il miglioramento di un prodotto o uno spazioesistente, più che con l’introduzione di oggetti e spazi ex-novo. Per promuovere l’innovazione sono
necessari, diversamente, nuovi modi di interazione con l’utilizzatore e nuove forme di conoscenza
più approfondite, meno invasive, meno astratte, non fondate su domanda e risposta bensì
sull’osservazione: “Il comportamento è di solito inconscio e quel che la gente fa può essere
parecchio diverso da quel che crede di fare. A noi esseri umani piace pensare di conoscere i motivi
del nostro comportamento, ma non è così, per quanto ci piaccia spiegare le nostre azioni. (…) Ecco
perché professionisti esperti, che osservano l’uso reale in situazioni reali, spesso riescono a dire di
più su cosa piace e non piace alla gente –e sulle relative motivazioni- degli stessi utenti.” 15
Il terzo approccio (“contesto real life”) va in questa direzione e mira a raccogliere informazioni
qualitative, e non solo quantitative, sugli utilizzatori come singoli individui e non più in forma
aggregata. Ricercatori e utilizzatori entrano così in contatto: applicando le tecnichedell’osservazione etnografica, i primi escono dai loro uffici per andare ad osservare i propri clienti
nel loro contesto d’uso, mentre i secondi aprono le porte delle proprie case ed uffici per farsiosservare nei momenti di quotidianità.
A questo tipo di approccio possono essere ricondotti gli studi in merito al “design empatico”16
, cheincoraggia i designer ad entrare nella vita delle persone, al “contextual design”17 che sottolinea
l’importanza dell’ambiente in cui si svolgono i comportamenti umani e allo “user-centered design”.
15 Donald A. Norman, Emotional design. Perché amiamo (o odiamo) gli oggetti della vita quotidiana, Apogeo, Milano
2004 (I ed. orig. 2004), p.8016Cfr. D.Leonard e J.Rayport, Spark Innovation through Empathic Design, pubblicazione elettronica, Harvard Business
School Press, Cambridge MA 2002
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L’ultima modalità d’indagine (“co-creation”) è quello della co-progettazione, dove gli utilizzatori
non sono solamente fonte d’informazioni, ma sono loro stessi osservatori, ricercatori (interpretandoi propri modi di vivere) e progettisti.
Gli strumenti utilizzati nei primi tre casi sono ormai sedimentati, mentre più problematici sonoquelli riferiti al quarto tipo di approccio, ancora oggi oggetto di studi e sperimentazioni.
Philips Design, ad esempio, da tempo indaga le modalità di coinvolgere gli utilizzatori nei processi
di co-progettazione, affidando loro il ruolo di osservatori privilegiati sulla propria quotidianità. Aloro vengono esplicitati gli obiettivi da perseguire e le modalità attraverso cui operare la ricerca, tra
cui figurano, ad esempio, attività, quali tenere un diario, redigere un report su uno specifico tema,
fare delle foto, raccogliere oggetti, comprare delle riviste e ritagliare immagini e articoli considerati
interessanti, fare dei disegni e delle mappe, raccontare delle storie (nel caso ad esempio di bambini)
e così via.
Un caso studio
Context-of-use co-research methodology sviluppata da Philips Design
La metodologia Context-of-use co-research18
, sviluppata da Philips Design nell’ambito della ricerca HiCS_ Higly Customerized Solutions19, mira a studiare attraverso un approccio di tipo etnografico
le persone (le loro preferenze, esigenze, desideri, ecc.) nel proprio contesto d’uso.Il progetto del metodo è stato sviluppato a partire dall’individuazione di alcuni requisiti:
_la ripetibilità del processo (ovvero un processo definito, ma sufficientemente flessibile per futureapplicazioni);
_la relativa economicità del processo (in termini di risorse umane e di tempo); _la facilità di utilizzo (in modo da non rendere necessario il coinvolgimento di esperti in scienze
sociali, ma da essere applicabile da persone con capacità e sensibilità sufficienti per condurre
un’analisi sociale); _il coinvolgimento dell’utilizzatore;
_la possibilità di offrire immediatamente ispirazioni ai designer durante il processo creativo di
concept generation.
Il metodo prevede due diversi livelli: uno più superficiale e uno più approfondito, che non si limita
ad indagare solo “una fetta” di vita quotidiana, bensì utilizza il tempo aggiuntivo, per tracciare un
quadro più completo, con informazioni relative ad ulteriori problemi, soluzioni esistenti e bisogni
latenti.
17 H.Beyer e Karen Holtzblatt, ContextualDesign. A Customer-centered Approach to Systems Design, Morgan
Kaufmann, New York 2002 18
Cfr. Christina Lindsay, Simona Rocchi, (Philips Design), “Context-of-use Co-research methodology”, in Ezio
Manzini, Luisa Collina, Steve Evans (a cura di), Solution oriented partnership. How to design industrialized sustainable
solutions, Cranfield University 2004, pp. 98-106 19
Higly Customerized Solutions (HiCS) Solution-oriented design, production and delivery
systems, European Commission “GROWTH Programme”, Research Project, N° GRD1-2000-25516, 2001-2004,coordinata dal Politecnico di Milano (project coordinator: Luisa Collina; scientific coordinator: Ezio Manzini)
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1. Contact organizations, institutions etc ...
2. Initial interview with users
4. Building the relationship3. "Doing an activity"
B r o a d M e t h o d
I n - d e p t h M e t h o d
5. "A day in the life .... "
6. User self-reporting
7. Analysis with the user
8. Follow-up interview
Translation of information for concept design
Ill. The Context of Use Co-research methodology: diagramma di flusso con in evidenza i duediversi livelli di approfondimento: a destra quello più approfondito e a sinistra quello più
superficiale(fonte: Christina Lindsay, Simona Rocchi, (Philips Design), “Context-of-use Co-research
methodology”, in Ezio Manzini, Luisa Collina, Steve Evans (a cura di), Solution oriented partnership. How to design industrialized sustainable solutions, Cranfield University 2004, p. 101)
Il metodo si articola in nove diverse fasi:
Step 1: Contatto iniziale con organizzazioni e associazioni
Obiettivo: selezionare le persone disponibili ad essere coinvolte, contattando organizzazioni ed
associazioni attive nel settore.
Step 2: Contatto iniziale con l’utilizzatore
Obiettivo: spiegare ai potenziali partecipanti la ricerca nel dettaglio, comprendendo anche le
informazioni relative a ciò che ci si aspetta da loro e le scadenze, in modo da ottenere il loro
consenso. Con questo step inizia la collaborazione tra utilizzatore e ricercatore.
Step 3: Fare un’attività (livello superficiale)
Obiettivo: assimilare informazioni relative ad una specifica attività, passando 2-3 ore conl’utilizzatore all’interno del proprio contesto quotidiano. Mentre l’utilizzatore svolge le proprie
attività, il ricercatore raccoglie informazioni (in risposta alle domande: cosa fa l’utilizzatore? Perché
e come lo fa? Come si colloca tale azione all’interno della sua vita quotidiana?) attraverso
l’osservazione, il dialogo e, se possibile, la ripresa di fotografie e filmati. All’utilizzatore è inoltrespiegato come tenere un diario delle proprie attività.
Step 4: Costruire la relazione (livello approfondito)
Obiettivo: stabilire una relazione con l’utilizzatore e scoprire il punto di vista dell’utilizzatore sul
tema della ricerca. In un incontro di 2-3 ore, spese con l’utilizzatore nel proprio contesto d’uso,viene svolta un’intervista informale non strutturata, vengono disegnate mappe e, se possibile, fatte
fotografie.
Step 5: Un giorno nella vita….(livello approfondito)
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Obiettivo: osservare il rapporto dell’utilizzatore con il tema della ricerca, in un periodo di tempo più
lungo (5-7 ore) “shadowing” (ovvero facendo da “ombra”, oppure, detto più brutalmente, pedinando) l’utilizzatore, facendo foto e filmati, al fine di illustrare le storie tratte dall’osservazione.
All’utilizzatore è inoltre spiegato come tenere il diario delle attività.Step 6: Il diario
Obiettivo: l’utilizzatore documenta una settimana della propria vita, in relazione al tema della
ricerca, tenendo un diario, disegnando mappe, facendo foto e raccogliendo oggetti. Al fine disupportare questa attività, viene consegnato all’utilizzatore un toolbox con al proprio interno un setdi strumenti creativi, quali cartoncini colorati, post-it, pennarelli, un sacchetto dove raccogliere gli
oggetti, una macchina fotografica e un numero telefonico di assistenza.
Ill. The Context of Use Co-research methodology: The user toolbox(fonte: Christina Lindsay, Simona Rocchi, (Philips Design), “Context-of-use Co-research
methodology”, in Ezio Manzini, Luisa Collina, Steve Evans (a cura di), Solution oriented
partnership. How to design industrialized sustainable solutions, Cranfield University 2004, p. 103)
Step 7: Analisi delle informazioni raccolte
Obiettivo: le informazioni raccolte sono analizzate da due punti di vista:
_dalla prospettiva dell’utilizzatore, individuando che cosa è importante, i problemi riscontrati, leazioni intraprese dagli utilizzatori per risolverle;
_dalla prospettiva dei ricercatori, andando ad identificare esigenze, desideri, problemi latenti e
modalità di comportamento.
Le fasi successive dell’analisi passano dal singolo rilevamento al confronto con altri, alla ricerca di
analogie e differenze, e di insiemi di problemi, comuni a più utilizzatori.
Step 8: Follow-up con gli utilizzatori
Obiettivo: una breve telefonata svolta due settimane dopo al fine di verificare se ci sono questioni
aperte, a raccogliere ulteriori riflessioni emerse, e a richiedere eventuali chiarificazioni necessarie
alla ricerca.
Step 9. Traduzione dei risultati
Obiettivo: presentazione dei risultati della ricerca in forma utile per l’attività di concept generation: _utilizzando i dati grezzi: testi, foto, registrazioni di interviste, video, disegni, oggetti, ecc.;
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_utilizzando l’analisi dei problemi ordinati per insiemi;
_cercando modi innovativi per presentare i dati come ad esempio giochi di ruolo e racconti di storie.
Ill. The Context of Use Co-research methodology: un collage di immagini tratte dalla ricerca sulcibo per persone con mobilità ridotta (anziani, disabili o semplicemente persone chiuse in ufficio
con poco tempo a disposizione)
(fonte: Christina Lindsay, Simona Rocchi, (Philips Design), “Context-of-use”, in François Jégou,
Peter Joore (a cura di), Food Delivery Solutions. Cases of solution oriented partnership, Cranfield
University 2004, p. 31)
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Ill. The Context of Use Co-research methodology: una modalità di presentare alcuni esiti della
ricerca sul cibo per persone con mobilità ridotta
(fonte: Christina Lindsay, Simona Rocchi, (Philips Design), “Context-of-use”, in François Jégou,
Peter Joore (a cura di), Food Delivery Solutions. Cases of solution oriented partnership, CranfieldUniversity 2004, p. 33)
In sintonia con questi livelli progressivi di coinvolgimento dell’utilizzatore, sono i lavori, sia
didattici che professionali, di Elizabeth Sanders, psicologa ed antropologa americana. Elizabeth
Sanders è docente del Department of Industrial, Interior and Visual Communication Design alla
Ohio State University e consulente di numerose aziende americane per quanto attiene l’innovazionedi prodotti e di spazi interni, i test product concepts, la ricerca di nuove opportunità di business, il
design delle interfacce e i test di usabilità, attraverso l’adozione di metodologie sviluppate dallediscipline sociali.
A partire dalla integrazione tra ricerca e design, la specificità dei lavori di Elizabeth Sanders 20 èdata dal ricorso alla co-progettazione, considerata quale stadio più avanzato di creatività, nutrito
dagli stessi utilizzatori. Quattro sono per Elizabeth Sanders i livelli individuati, che si sono fattistrada progressivamente negli ultimi 20 anni: dal semplice “agire”, utilizzando prodotti, servizi e
spazi così come sono dati, all’”adattare” soluzioni date; dal “fare” prodotti do it yourself , fino al
“creare” soluzioni ex novo, innovative, animate dalla passione e al contempo guidate
dall’esperienza concreta.
20Elizabeth Sanders, “Participatory Designing: Information and adaptation”, IIID (International Institute for Information
Design), First Symposium of the Expert Forum for Knowledge Presentation: : Preparing for the Future of Knowledge Presentation, Illinois Institute of Technology, 2004
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Ill. Elizabeth Sanders, I quattro livelli di creatività
(Fonte: “Participatory Designing: Information and adaptation”, IIID, First Symposium of the Expert Forum for Knowledge Presentation: : Preparing for the Future of Knowledge Presentation, Illinois
Institute of Technology, 2004 www.knowledgepresentation.org)
Con il crescere del coinvolgimento dei destinatari dell’azione progettuale nel processo creativo,muta anche la terminologia con cui sono denominati tali soggetti: da cliente, termine ricorrente
negli anni ’80, a consumatore (consumer), utente (user), adattatore (adapter), partecipante(participant) fino a co-progettista (co-creator), nei casi recenti più evoluti. Analogamente,
cambiano, come si evince anche dalle esperienze di Philips Design, le metodologie disciplinarimesse in campo, da quelle più tradizionali al user-centered design fino al co-design. Mutamenti,
questi, che registrano un progressivo cambio della finalità stessa perseguita dal design: dal
rispondere agli utilizzatori, al facilitare i co-progettisti tramite un design “generativo” e“conviviale”. L’attività analitica si muove, di conseguenza, da un fuoco sulle parole e sulle azioni
delle persone, a ciò che queste sono in grado di fare con le proprie mani. Una metodologia analitica,
questa, supportata da strumenti espressamente progettati a tale scopo: componenti semplici e
ambigue, in forma di toolkit , utilizzati dalle persone, in modo immediato, intuitivo, per esprimere i
propri ricordi, sogni, idee, paure, bisogni e così via.
Aprire questa sorta di “cassetta degli attrezzi”, destinata a persone quanto mai diverse (per età,
cultura, origine, ecc.), significa imbattersi in adesivi, forbici, macchine fotografiche, pennarelli,
post-it, giornali, questionari, quaderni, grandi fogli bianchi, elementi di colori, forme e materiali
diversi: un insieme di materiali da cui partire per fare dei collage, elaborare composizioni, stilare
elenchi, creare mappe mentali, disegnare planimetrie inserendo gli arredi a proprio piacimento e
così via. Un insieme di documenti, questi, straordinariamente ricchi di informazioni per il progetto.
Level of creativity Motivations Requirements
Doing To get something done/ to be productive
Minimal interest
Minimal domain experience
Adapting To make something myown
Some interest
Some domain expertise
Making To make something withmy own hands
Genuine interest
Domain experience
Creating To express my creativity PassionDomain expertise
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Ill. Elizabeth Sanders, Il toolkit conviviale
(Fonte: “Participatory Designing: Information and adaptation”, IIID, First Symposium of the Expert Forum for Knowledge Presentation: : Preparing for the Future of Knowledge Presentation, Illinois
Institute of Technology, 2004 www.knowledgepresentation.org)
Ill. Elizabeth Sanders, Esempio di materiale prodotto dagli utilizzatori
(Fonte: “Participatory Designing: Information and adaptation”, IIID, First Symposium of the Expert Forum for Knowledge Presentation: : Preparing for the Future of Knowledge Presentation, Illinois
Institute of Technology, 2004 www.knowledgepresentation.org)
Si tratta di “tools conviviali”, così come intesi da Illich (1973), che permettono alle persone
coinvolte di investire il mondo con i propri significati, di arricchire l’ambiente con i frutti delle proprie visioni.
Una visione, quella di Elizabeth Sanders, ancora più radicale rispetto ai correnti metodi di co-
design, che comporta dei mutamenti profondi: relativamente alla figura del designer, che perde
parte dei propri compiti progettuali per assumere un ruolo di facilitatore di progetti elaborati
autonomamente dalle persone coinvolte, sorta di creatore di “scaffali” in seguito “riempiti” dai
singoli utilizzatori; più in generale, riguardo all’estetica che va a configurarsi attraverso tali processi
di progettazione partecipata (What about aesthetics? A new aesthetics of experience is emerging. It
is relevant to the needs of everyday people and resonant with their dreams21).
21
Elizabeth Sanders, “Participatory Designing: Information and adaptation”, IIID, First Symposium of the Expert Forum for Knowledge Presentation: Preparing for the Future of Knowledge Presentation, Illinois Institute of
Technology, 2004 www.knowledgepresentation.org
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Pur in presenza di numerose forme di sperimentazione al riguardo (dalle “empathy probes” di
Mattelmaki di UIAH, ai video collages di Keller e Stappers della TU Delft), molteplici sono i nodi problematici ancora da sciogliere, che spaziano da come convincere le persone a collaborare a come
tutelarne la proprietà intellettuale; da come interpretare i dati prodotti, a come e se porre dei limitiall’azione creativa degli utilizzatori, fino ad arrivare al dispendio economico di tali ricerche,
generalmente non accessibili per realtà imprenditoriali e istituzioni di piccole dimensioni.
_I giacimenti di conoscenza e le piattaforme tecnologiche
Strettamente correlato alle attività di analisi e di ricerca progettuale, è il tema dei giacimenti di
conoscenza, siano essi interni alla disciplina del design, che relativi ad altre discipline (dalla
chimica dei materiali al marketing, per citare solo alcuni esempi) al servizio del progetto.
Come già riconosceva Cristopher Alexander agli inizi degli anni ’60, il numero di informazioni
necessarie alla soluzione dei problemi è molto elevato e cresce in modo esponenziale con una tale
velocità, che il progettista non riesce a raccoglierle e tanto meno ad utilizzarle.
Oggi, nella cosiddetta knowledge society, in cui da un lato la conoscenza ha assunto il ruolo di
risorsa strategica, dall’altro si è in presenza di informazioni più che mai sovrabbondanti, questo è più che mai vero: la capacità di reperire e di gestire rapidamente e in quantità rilevanti
l’informazione e la conoscenza provenienti da fonti eterogenei, costituisce sempre più per i designerun nodo fondamentale non più risolvibile senza supporti esterni.
Tra banche dati a pagamento, abbonamenti a report periodici prodotti da istituti di ricerca eosservatori internazionali, siti ad accesso libero, in alcuni casi alimentati da blog , ecc. molteplici
sono i canali attraverso cui è possibile oggi raccogliere e reperire la conoscenza necessaria per il progetto.
Di particolare interesse, per quanto attiene la ricerca metaprogettuale, sono i progetti generati proprio dalla cultura del design, in cui la struttura stessa del sistema di gestione della conoscenza è
forgiata dalla finalità progettuale.
La ricerca per il progetto si concentra, in questi casi, sulle forme e le modalità attraverso cuicostruire e dare accesso a dei “giacimenti metaprogettuali”, veri e propri bagagli di conoscenze
strutturati messi a disposizione di chi opera nella sfera ideativa. Più in particolare lavorare su questi
temi, le cui origini sono da ritrovarsi lontano nei tempi, nella trattatistica e nella manualistica,
significa ragionare su metodologie e strumenti in grado di permettere l’accesso alle informazioni e
alla gestione della conoscenza con modalità coerenti alla natura del progetto, tra cui figurano: la non
linearità e la predominanza di documentazione visuale22; la eterogeneità e la multidisciplinarietà dei
contenuti (dai materiali per il design23 alle tecnologie; dalle innovazioni di prodotto ai sistemi
produttivi; dalle normative fino ai mutamenti socio-culturali in atto); l’elevato grado di conoscenza
tacita, non codificata24; la molteplicità delle fonti d’informazione ecc.
Si pensi, ad esempio, a Design Net , progetto sviluppato all’interno del Dipartimento INDACO del
Politecnico di Milano: si tratta di uno strumento di gestione della conoscenza esplicita e tacita didesign, volto a supportare l’attività didattica della Facoltà del Design del Politecnico di Milano, con
l’ambizione, in futuro, di potere offrire i propri servizi anche al mondo professionale e d’impresa.
22 Cfr. Paolo Ciuccarelli e Perla Innocenti (a cura di), DesignNet. Knowledge e Information Management per il design,
Atti del seminario internazionale, Milano 8 febbraio 2002, Edizioni POLI.design, Milano 2002 23
Tra le principali materioteche figurano: Milano_www.materialconnexion.com, Padova_www.matech.it,
Parigi_www.innovatheque.fr, Parigi_www.materio.fr, Rotterdam_www.materia.nl, New
York_www.materialconnexion.com.
Cfr. Claudia Raimondo, “Design dei materiali”, in Paola Bertola, Ezio Manzini (a cura di), Design multiverso. Appunti
di fenomenologia del design, POLI.design, Milano 2004, pp.162-164 24 Cfr. Job Rutgers, “Narrative and learning”, in Emile Aarts e Stefano Marzano, The new everyday. Views on Ambient
Intelligence, 0I0 Publisher, Rotterdam 2003, p.231
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Oltre all’esigenza di accesso al patrimonio di conoscenza da parte dei progettisti, sempre più
frequente emerge la necessità di condivisione di conoscenza, di convergenza fino ad arrivare allaco-progettazione tra i diversi attori partecipanti al processo creativo. Questa ha dato luogo ad alcuni
progetti e sperimentazioni di piattaforme tecnologiche finalizzate alla co-creation particolarmenteinteressanti. La presenza degli utilizzatori, persone non avvezze all’attività progettuale, rende
necessario, come si evince dai paragrafi precedenti, la messa a punto di strumenti particolarmente
semplici da utilizzare e al contempo sofisticati tecnologicamente: non si tratta solo di sistemi digestione della conoscenza che riversano conoscenza tacita in grandi database (prima generazione di
strumenti di knowledge management ), bensì di strumenti di condivisione di soluzioni in grado di
raccogliere narrazioni –in alcuni casi anche orali-, domande, diari, collage e tutti quei materiali
tipici delle attività di codesign. Format narrativi come il “quotidiano aperto” o i siti web strutturati
per narrazioni, sono esempi di strumenti attraverso cui tutti gli utenti divengono produttori di
contenuti e non più solo destinatari passivi, in questo caso, di informazioni.
Un caso studio
Design Net di Poalo Ciuccarelli
“(...) il sapere rilevante deve stare non nei singoli nodi della rete cognitiva ma nel pattern che licongiunge e che – essendo in gran parte implicito – non è separabile da essi.” (Rullani, 2004).
Il programma di ricerca avviato nel 2001 con l’etichetta DesignNet nasce dall’esigenza di mettere a
disposizione di studenti e docenti della Facoltà del Design del Politecnico di Milano informazioni edocumenti per alimentare la didattica progettuale. Un bisogno che è stato affrontato sviluppando gli
strumenti e le metodologie per gestire e restituire la complessità del materiale informativo edocumentale potenzialmente utile al processo progettuale, per (ri)mettere quel materiale a
disposizione degli studenti-progettisti e più in generale degli operatori del mondo del design in
forma organizzata, integrata e personalizzabile, e per raccogliere, infine, la nuova conoscenza
generata dall’utilizzo delle informazioni e dei documenti, potenziando attraverso un nuovo livello il
patrimonio originale.
Per cogliere questi obiettivi ci si è dovuti confrontare con il fatto che non è possibile codificare a
priori il processo conoscitivo del design né immaginare di organizzare in un archivio completo e
preordinato l’universo infinito dei possibili frammenti documentali, degli stimoli culturali, utili ad
alimentare la creatività e il design. Si possono però analizzare questi elementi per trarne delle
indicazioni di metodo e sviluppare strumenti e metodi di gestione delle informazioni e dei
documenti più coerenti con il processo progettuale, ragionando sostanzialmente solo sulle regole del
gioco. Alcune di queste regole sono legate all’esperienzialità dell’informazione utilizzata dai
designer: se ad esempio è vero che nella fase di generazione del concept il designer può aver bisogno di trovare e utilizzare informazioni tecniche molto specializzate, o che può basarsi, ad
esempio, sulle caratteristiche tecniche di un materiale, più spesso però, soprattutto in assenza di
brief focalizzati e richieste specifiche, il designer lavora digerendo quelle informazioni attraversogli “stimoli culturali” di cui va continuamente nutrendosi e che funzionano proprio come “enzimi”.
Stimoli che possono essere trovati ovunque, in qualsiasi tipo di documento o anche in frammenti,spesso superficiali e visivi - sensoriali e percettivi - di documenti; o, ancora di più, nella
connessione, ibridazione, integrazione, quasi mai logica e lineare, di un certo numero di documentio frammenti di essi. Stimoli che vengono più dall’osservazione fisica del reale, dall’esperienza, e
meno dall’applicazione di regole astratte. A conferma di questo a volte il designer – non richiesto –
tende a rielaborare il brief, riportando il discorso progettuale dalla sfera del problem solving a quella
del problem setting o re-setting , spostando la questione informativa dal cercare il documento o
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l’informazione che risolva quel problema all’esplorazione del mondo che può dargli senso (processi
di sense-making).Il rapporto del designer con le informazioni e i documenti non poteva dunque essere affrontato solo
sul piano delle informazioni, dei documenti “ufficiali”, delle conoscenza codificate: bisognavanecessariamente porsi il problema della gestione di quei frammenti documentali, quelle eccedenze
cognitive che il progettista riorganizza creativamente in forma nuova integrandoli alle informazioni
e ai documenti più tecnici e verticali, generando innovazione (nuova conoscenza) non inventando ma, appunto, ricombinando. DesignNet vuole tradurre sul piano strumentale l’idea - certo non
nuova - che il processo creativo sia interpretabile come ricombinazione di elementi naturalmente
separati: un processo per il quale mancano strumenti ad-hoc, in grado di abilitare e sostenere quei
comportamenti connettivi, esplorativi e conoscitivi, attinenti più al contesto che al testo, che
ribadiscono l’azione culturale oltre che tecnica del design.
Le condizioni descritte hanno determinato uno spostamento del ragionamento progettuale in
DesignNet dal livello descrittivo a quello metadescrittivo del documento (dal metadato al meta-
metadato), al modo di mettere insieme qualsiasi documento perdendo il meno possibile delle
singole descrizioni, e cogliendo però contemporaneamente l’obiettivo strategico di farli dialogare
tra loro, attraverso relazioni e termini unificati e normati. Da questo assunto nascono i tre moduli
strumentali, distinti ma integrati caratteristici di DesignNet: uno strumento di gestione dellaterminologia, per costruire il vocabolario del design (DesignThesaurus) attraverso il quale dar corpo
al linguaggio comune necessario a descrivere i documenti in modo significativo; una directory deldesign (DesignDirectory) che permettesse l’identificazione univoca degli specifici elementi di
indicizzazione: persone, organizzazioni, marche (brands), locations, eventi; uno strumento dicatalogazione che utilizzasse uno standard il più possibile aperto e pensato già in origine per far
stare insieme in modo coerente risorse documentali eterogenee. Ognuno di questi moduli è statodeclinato per il design, cogliendo ad esempio le specificità tipiche della produzione industriale,
come la distinzione tra marca e produttore (organizzazione-azienda) e la possibilità di stabilire unarelazione temporale tra i due elementi oltre che attraverso il prodotto.
Lo stesso approccio integrativo e metaprogettuale è stato applicato anche nella sperimentazione
degli strumenti e dei metodi DesignNet all’interno della Facoltà del Design: si è deciso che nonserviva tanto creare un nuovo giacimento di documenti quanto piuttosto organizzare quelli esistenti
in un insieme integrato (un sistema), organizzato per il design(er). La stessa integrazione poi è stata
declinata sia sul piano immateriale che su quello materiale: gli archivi/laboratori informativi
esistenti all’interno del Politecnico di Milano sono integrati, da una parte attraverso l’utilizzo dei
metodi e degli strumenti DesignNet, dando vita quindi, almeno potenzialmente ad un catalogo
unico; dall’altra, fisicamente, attraverso l’individuazione di un luogo e la attivazione di un servizio
che costituisce un punto di accesso unico, con regole uniche, ad archivi che rimangono comunque
autonomi per quanto riguarda i contenuti. L’integrazione anche fisica degli archivi informativi per il
design, come possibile ulteriore momento di attribuzione di significato a documenti eterogenei, è
alla base del concetto di “Design Knowledge Centre”, del quale la POLIteca, costituita al
Politecnico di Milano, è un primo, sperimentale, esempio.)Gli sviluppi del progetto sono in gran parte orientati al come vengono rappresentate le relazioni
esistenti tra i documenti che fanno parte del patrimonio DesignNet, estendendo l’attività di ricerca esviluppo alla definizione delle caratteristiche che devono avere le interfacce mediatrici del rapporto
tra design, informazione e conoscenza. Il più consistente tra i filoni di ricerca attivati in questoambito si basa sull’ipotesi che nelle fasi preliminari della ricerca per il progetto spesso i risultati più
interessanti emergano esplorando (exploration vs. exploitation) la realtà o le risorse informative e
documentali, o anche con le modalità tipiche della serendipity: trovo qualcosa di interessante
mentre cercavo qualcos’altro, o più in generale, “stimoli culturali” utili possono emergere in
momenti e situazione in cui non si sta cercando nulla, non c’è intenzione di ricerca, anche perché
nel processo creativo è lecito anche non sapere cosa si sta cercando, mentre è più facilmente noto,ad esempio, il contesto o il motivo della ricerca.
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Dal punto di vista dell’interfaccia di consultazione questo significa sostituire alla gerarchia dei
risultati di una ricerca “à-la Google” un territorio di stimoli, in cui sono possibili molti e diversi percorsi, e all’interno del quale diventa possibile – paradossalmente – anche una specie di
smarrimento progettato.
_L’attività previsionale: l’individuazione di trends
Fortemente correlati al metaprogetto, inteso quale patrimonio di conoscenza organizzata e
accessibile, è tutta quell’area di ricerca che si interessa di trends e di traiettorie d’innovazione: studi
di supporto, questi, di particolare interesse per il mondo del progetto.
Un approfondimento
Metaprogetto come trend
Trends è un termine quanto mai abusato, a cui è sempre più difficile attribuire un significato
univoco.Per trends, sinonimo di tendenza, orientamento, direzione, si intende generalmente il
riconoscimento di alcuni segnali deboli o latenti, ascrivibili ad una dinamica in atto.Preso a prestito dal vocabolario fashion, alle tendenze sono generalmente associati fenomeni
volatili, ed effimeri, che non hanno ancora trovato la via per cristallizzarsi e manifestarsi in modovisibile: in forma di vera e propria moda, intesa come uniformità sociale condivisa da vaste schiere
di soggetti. Una differenziazione, questa, consolidatasi nella lingua inglese, in cui si distingue tra
fashion e fad in base al maggiore grado di sistematicità e d’incisività della prima rispetto alla
seconda25. Per fad René König intende le correnti di breve durata, “che si sviluppano solo per poche
settimane e che vengono definite pose, follie o capricci (…). Esse si caratterizzano fra l’altro per illoro rimanere spesso circoscritte sin dall’inizio a determinati gruppi sociali (…). Si riconosce
facilmente un fad per la sua frivolezza e superficialità e perché non influenza in modo particolare il
resto del comportamento”26. Più mutabile ed estemporaneo della moda, è una fluttuazione
passeggera del sistema socioculturale che resta relegato a contesti circoscritti senza trasformarsi in
un orientamento collettivo. Ancora più circoscritto e su base individuale è il craze, intesa come una
mania a livello personale.
Questi tre livelli ( fashion, fad e craze) ci offrono alcuni spunti per operare delle distinzioni
all’interno del vasto campo delle tendenze, sulla base, ad esempio, del grado di sistematicità, di
visibilità e di ampiezza del fenomeno (da spazio personale a subculturale fino ad una dimensionecollettiva), così come della durata nel tempo (da semplice fluttuazione passeggera a orientamento a
più lungo termine) e infine dell’influenza (da superficiale ad incisiva) sui comportamenti collettivi. Trasponendo il termine trend nel campo del design ritroviamo, seppure in altre forme e con altri
termini, tali differenze, dovute, ad esempio, alla dimensione del raggio e della profondità del campodi osservazione, alla sequenza temporale presa in considerazione, al punto di vista da cui si guarda e
all’intento con cui si entra in relazione con questo tema.Partendo dalla variabile tempo diversi sono i modi di intendere i trend al mutare dell’intervallo
temporale preso in considerazione: sia in termini di estensione (per cui si differenza tra short term e
long term trends27
) che in termini di determinazione del suo inizio e della sua fine.
25 Nello Barile, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda , vol.II Moda e stli, Meltemi, Roma 2005,
pp.61-6226
Nello Barile, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda , vol.II Moda e stli, Meltemi, Roma 2005, p.6227
I long term trends sono definiti in alcuni casi, ad esempio da Philips Design, con il termine di tendencies
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Ci sono infatti delle analisi di tendenze che guardano al passato e che mirano a ritrovare le origini e
a ripercorrere l’evoluzione storica di fenomeni a volte ancora presenti nella contemporaneità e,all’opposto, studi rivolti al futuro, in alcuni casi anche lontano, che mirano ad anticipare o a
prefigurare realtà ancora in divenire. Tra questi due estremi troviamo coloro che radicati nel presente osservano e “fotografano” i fenomeni emergenti, non conclamati, ancora poco sedimentati
nella contemporaneità ,così come coloro che guardano un po’ più avanti andando a delineare, a
volte in modo propositivo, le dinamiche del prossimo futuro. I primi mirano a restituire un quadroin divenire, i cui segnali sono già visibili nell’attualità, esito spontaneo o dell’intenzione progettualedi altri soggetti; i secondi mirano invece a tracciare una direttrice di lavoro futura.
Una differenziazione sottile ma che può essere facilmente esemplificata, tornando nuovamente alla
moda, attraverso la figura della giornalista, che ci racconta sulle pagine delle riviste le novità della
stagione, e la stilista, chiamata a progettare la collezione del prossimo anno. Due modi molto diversi
di rapportarsi alle tendenze, non solo in termini temporali, bensì, come detto, anche relativamente
agli obiettivi perseguiti: prevalentemente analitici la prima, progettuali la seconda. Due punti di
vista diversi, non necessariamente correlati al tipo di “tempo” osservato: è infatti possibile guardare
al futuro con un approccio analitico, descrittivo, come è ad esempio il caso dei futurologi, così
come porsi in una prospettiva progettuale, cercando di guidare il processo in divenire delle realtà
future. Predire e prefigurare il futuro sono le due azioni, quanto mai diverse, che descrivono questidue approcci.
Un’ulteriore distinzione riguarda la dimensione dei fenomeni osservati. Con macro trend si intende
l’osservazione dei grandi mutamenti ad ampia scala (nazionale e globale) generalmente di tipo
demografico, politico, economico, ambientale, tecnologico, sociale, culturale (si pensi ad esempioalle analisi relative all’invecchiamento della popolazione, all’inquinamento atmosferico, ai
mutamenti climatici, ecc.) ad opera di organismi, istituti di ricerca e osservatori specializzatiinternazionali. Studi ad ampio raggio, che calati nei contesti specifici oppure opportunamente
tematizzati, si configurano come micro-trends. Mentre i macro trend , infatti, sono chiamati adelineare il quadro, il contesto in divenire in cui il progettista va ad intervenire, i micro trend (in
particolare i trend di tipo socioculturale, tecnologico e funzionale) costituiscono in molti casi una
feconda fonte metaprogettuale, in grado di suggerire delle direttrici di lavoro e di alimentare il brief
progettuale28.
Disomogenei, privi di un codici sedimentato, sono infine i modi di visualizzazione dei trends: dalle
forme estremamente sintetiche in cui ogni trend è definito attraverso poche parole chiave, alcuni
diagrammi e delle brevi descrizioni, a forme più estese, quali ad esempio le newsletter di
Trendwatching 29, in cui ad ogni trend sono associati dei testi consistenti, numerose immagini e
molteplici esempi.
Per trends si intende, in estrema sintesi, il riconoscimento di alcuni segnali latenti, generalmenteancora deboli, anticipatori di dinamiche di diversa natura: sociale, tecnologica, demografica,
culturale, di costume, ecc.Se in origine l’attenzione era rivolta soprattutto alla moda e al tessile (da sempre, infatti, i Bureaux
de style producono dei dossier sulle tendenze), oggi si assiste ad un graduale ampliamento dellavisuale di analisi, verso aree sempre più vaste ed eterogenee.
Oltre agli studi legati al mondo fashion (tra questi va sicuramente ricordata Li Edelkoort che con
Trend Union distribuisce i famosi cahier de tendences e con UPSA -United Publisher- da tempo
pubblica una serie di riviste tra cui View on Color, Interior View, Bloom) o alle tecnologie,
particolarmente rilevanti per l’agire progettuale contemporaneo sono quegli studi di tipo sociale e
culturale.
28
Cfr. ad esempio il progetto Vision of the Future di Philips Design o l’impostazione dei workshop metaprogettuali diAlessi. 29
www.trendwatching.com
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Recente è, infatti, la consapevolezza che l’innovazione nella sfera progettuale non si limiti
all’introduzione di nuove tecnologie, e che altrettanto importanti siano nel campo del design quelleforme d’innovazione generate dall’osservazione, comprensione e anticipazione dei mutamenti
socioculturali in atto nei diversi tessuti sociali, nei diversi contesti locali ed internazionali, cosìcome alle diverse scale, da quella più aggregata alle communities. Si tratta di processi di tipo
bottom-up, molto diversi dai tradizionali percorsi d’innovazione tecnologica che hanno origine in
laboratori e centri di ricerca.Una dinamica, questa, ricorrente nella moda, in cui una tendenza debole (o fad come direbbero gli
esperti di settore), che si manifesta in situazioni circoscritte, viene traslata al di là del contesto
comunitario, grazie ad un insieme di legami deboli che tendono a globalizzare il fenomeno. Un
processo che necessita generalmente di intermediari, di veri e propri catalizzatori in grado di
accelerare il processo e di rafforzare, ampliandolo, un segnale debole. Queste figure “occupano
differenti posizioni all’interno della società, ma hanno generalmente a che fare con ruoli ad alto
contenuto di creatività”30: fanno parte di quella “classe creativa” di Richard Florida31, a diretto
contatto con alcuni tipi di innovazione.
Per rispondere alla necessità di osservare questi fenomeni attraverso i suoi “originators”, come
vengono definiti nel marketing, sono state istituite delle vere e proprie reti di rilevamento, sempre
più ampie in termini sia geografici che di oggetto di osservazione.Le indagini socioculturali sono svolte generalmente da istituti di ricerca specializzati in trend e
forecasting , quali l’ Intenational Research Institute on Social Change (RISC Intenational), daagenzie di marketing e di consulenza all’innovazione (a Parigi sono attivi, ad esempio, Nelly Rodi e
Delineo32
) ma anche in forma meno centralizzata, seguendo un processo bottom-up, tramite piattaforme open source, repositories, siti web accessibili liberamente33 e così via.
Se, infatti, negli anni ‘70 le tendenze nel campo dei tessuti e dei colori potevano essere delineate ecodificate da un gruppo di tre ricercatori-designer localizzati a Milano, seguendo un processo top-
down, oggi tale compito è svolto, all’inverso, attraverso processi di rilevazione molto più complessi,attuati da reti di ricercatori (definite in termini quanto mai vari: coolhunters, sentinelle, zoomers
ecc.) molto estese sia in termini numerici che geografici: Philips Design, ad esempio, opera
attraverso la propria struttura a rete, costituita da 12 sedi dislocate nel mondo, in particolare inquelle aree quali Stati Uniti, Europa, Giappone, Australia, India e Cina particolarmente dinamiche
e/o leader nell’adozione delle nuove tecnologie; Future Concept Lab si avvale di una cinquantina di
osservatori calati nelle realtà di quaranta città di venticinque paesi del mondo; Trendwatching
(www.trendwatching.com), elabora ogni mese una newsletter, gratuita, frutto del lavoro di 6000
osservatori –“spotters”- localizzati negli Stati Uniti, in Europa e in più di 50 paesi del mondo; e così
via. Un processo di acquisizione di conoscenza che comporta il calarsi nelle diverse specificità,
osservare come i valori globali si radicano nei diversi contesti e all’inverso, rilevare nuovi valori
locali potenzialmente interessanti per altre realtà. Come affermano Reon Brand e Marco Bevolo,
“We need to understand the latent global values that are emerging in different societies and cultures.
Through a combination of global and regional research, it is possible to identify a number of key
human needs for the future”34
.Anche per quanto attiene i trend , così come si è visto precedentemente per i giacimenti di
conoscenza, particolarmente interessante, ai fini del metaprogetto, sono quelle ricerche esperimentazioni, condotte da istituzioni, centri e studi appartenenti alla sfera del progetto, in cui la
ricerca sociale è mediata dalla sensibilità dei designer e dalla loro capacità di rappresentazione.
30 Nello Barile, Manuale di comunicazione, sociologia e cultura della moda , vol.II Moda e stli, Meltemi, Roma 2005,
p.6531
Richard Florida, The Rise of Creative Class, Basic Book, New York 2002 [trad. It. L’ascesa della nuova classe
creative. Stile di vita, valori e professioni, Mondadori, Milano 2003]32
Cfr. www.dezineo.com, www.nellyrodi.fr33
cfr. ad esempio www.trendwatching.com34 Reon Brand, Marco Bevolo, “Ambient intelligence and the climate for branding”, in Emile Aarts e Stefano Marzano,
The new everyday. Views on Ambient Intelligence, 0I0 Publisher, Rotterdam 2003, p.271
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Analisi, interpretazione e progettazione si fondono in questo tipo di ricerche sulle tendenze,
conformemente al riconoscimento della particolare natura delle informazioni raccolte tramite processi di osservazione diretta: un tipo di informazioni definito da alcuni studiosi come “sticky”,
ovvero di difficile trasferimento e capace di generare già in fase di osservazione nuove soluzioni progettuali.
Basti pensare al caso di Montefibre nel campo dei semilavorati o, più recentemente, agli studi messi
in campo da Philips Design e da Future Concept Lab, in cui la ricerca sulle tendenze è spessointegrata alla costruzione di visioni, scenari e concept per il futuro.
3.2 La definizione del problema: dal brief alla ideazione di futuri lontani
“Prima di tentare di trovare le possibili soluzioni per i mezzi di soddisfare il bisogno, si dovrebbe
individuare e formulare il problema progettuale. E’ strano quanto sia forte la tentazione di
aggrapparsi mentalmente a qualche idea di un prodotto, che sembra rappresentare una soluzione
fattibile, prima ancora di comprendere bene quale sia il problema reale, per poi rappezzare questa
idea improvvisata via via che cominciano a manifestarsi i difetti della soluzione adottata. Si
dovrebbe resistere a questa tentazione, perché essa tende a portare a un’abitudine mentale cheblocca ogni tentativo veramente creativo.”
Morris Asimow, Principi di progettazione, Marsilio, Padova 1968, p.35
Il brief, così come è comunemente inteso, è una forma di metaprogetto, in cui, generalmente aconclusione di un’azione conoscitiva e propositiva, sono già presenti le indicazioni su come il
progetto si dovrà sviluppare. Il brief ne enuncia infatti gli obiettivi, le prestazioni richieste, i vincoli,le condizioni e tutte le informazioni ritenute utili a guidare il processo progettuale e costituisce, in
sintesi, un “punto focalizzato di opportunità”. Nel mettere a confronto i molti diversi modelli lineari di processo progettuale elaborati negli anni
’60, emerge l’idea comune di un’articolazione in due fasi distinte (generalmente ulteriormente
sottoarticolate): una prima fase di definizione del problema e un seconda fase di soluzione del problema; la prima consistente in una sequenza analitica in cui il progettista determina tutti gli
elementi del problema e specifica i requisiti da soddisfare, la seconda quale azione di tipo sintetico
che giunge ad una soluzione.
In accordo con questa visione della cultura moderna, per fasi sequenziali, il brief costituisce l’avvio
dell’azione progettuale: l’insieme di condizioni da cui scaturisce, attraverso processi logici e
razionali, se non automatizzati, gli esiti progettuali. Fanno parte del brief la identificazione e
formulazione del problema (attraverso modi e forme quanto mai variegate, a partire dall’insieme di
requisiti di Christopher Alexander), la sua eventuale progressiva strutturazione o scomposizione in
problemi meno complessi, la preparazione delle azioni preprogettuali da mettere in campo e così
via.
Come sottolinea Gui Bonsiepe, “la fase di strutturazione nel processo progettuale ha (…) lo scopodi trasformare il più possibile le variabili aperte in variabili chiuse, cioè definire lo ‘spazio
decisionale’ entro cui dovrà essere sviluppata la soluzione progettuale”35
.Già a partire dagli anni ’60 iniziano a palesarsi alcune critiche a tale scomposizione del processo
ideativo in due fasi distinte a partire dal riconoscimento della difficoltà di definire in modo univoco,oggettivo, determinato e non più modificabile, il problema progettuale.
Reitman, a questo proposito, propone un sistema di classificazione dei problemi progettuali in
funzione di tre parametri dati dalla situazione iniziale, finale e dal relativo processo di
35 Gui Bonsiepe, Teoria e pratica del disegno industriale. Elementi per una manualistica critica, Feltrinelli, Milano
1993 (I ed. orig. 1975), p.158
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trasformazione36: da situazioni ben definite a ben definite o mal definite e all’inverso da situazioni
mal definite a ben definite o mal definite.Analogamente Horst Rittel, come anticipato, mette in luce come la maggioranza dei temi affrontati
dai designer sia da considerarsi “wicked”, ovvero aggrovigliato, confuso, indeterminato e pertantonon operabile tramite dei processi progettuali lineari.
Il design è, da questo punto di vista, un processo progettuale volto ad individuare una soluzione
specifica e concreta a partire da problemi indeterminati: a partire, ad esempio, da un brief definitodal committente che sintetizza in genere un problema e una serie di condizioni da considerarsi nel
cercare delle risposte, sta poi al progettista mettere in campo alcune tecniche e strumenti progettuali
per “posizionare e riposizionare” il problema iniziale e individuare delle ipotesi di soluzioni
adeguate37
.
Quest’ultima considerazione introduce una questione quanto mai delicata relativa alla “paternità”
del brief: Quale attore della filiera del progetto è responsabile per la definizione del brief? L’utente?
Il progettista? L’imprenditore? O chi altro?
In alcuni casi, come ad esempio nelle realtà aziendali giapponesi, il brief è definito al di fuori delle
divisioni di progetto e i designer, chiamati a rispondere a tali brief, operano all’interno di vincoli, a
volte molto rigidi e limitanti. Diversi sono i casi delle aziende italiane in cui il designer, a diverso
titolo, da consulente strategico ad art director, da responsabile interno sviluppo prodotti a“consigliere del principe” –moglie, marito, figlio, persona di fiducia dell’imprenditore- è coinvolto
nel processo decisionale di definizione delle linee di sviluppo futuro.Una prerogativa, quest’ultima, delle aziende prive di un management strutturato, tipico delle piccole
e medie imprese italiane, in cui la divisione marketing non assume ruoli strategici, bensì, se esiste,agisce ad un livello prevalentemente operativo: è, invece, lo stesso imprenditore che delega ai
progettisti di propria fiducia parte della decisionalità relativa allo sviluppo dei nuovi prodotti. E’questo il caso di molte aziende familiari, diventate leader del made in Italy nel mondo: da Flos ad
Artemide, da Edra a Moroso, fino ad Alessi e a MH-Way, per citare solo alcuni esempi di aziendecosì dette design oriented .
Dietro queste riflessioni si cela la distinzione tra un brief progettuale, elaborato da un progettista e
un brief definito dalla committenza. Differenza questa che genera in alcuni casi un alternarsi di briefe controbrief , processo di contrattazione che si configura a volte come una vera e propria
contrapposizione tra progettista e impresa, altre volte come momento di verifica, promosso dalla
stessa azienda, al fine di avviare una riflessione strategica sulle proprie azioni future.
Emerge così un’ulteriore distinzione, tra un brief molto focalizzato sia in termini di campo di azione
che di intervallo temporale, in cui è evidente il tentativo da parte di imprenditori o manager di
trasformare i problemi di origine già in ipotesi di soluzioni (togliendo di fatto “wickedness” alla
ricerca progettuale), a un brief che non comporta la prefigurazione di possibili risposte e che,
all’opposto, stimola l’esplorazione progettuale. Si tratta, in quest’ultimo caso, di brief iniziali
volutamente ambigui (nel quadro di una più ampia “ambiguità strategica”38), così come teorizzati da
Nonaka e Takeuchi, volti ad attivare processi di nuova conoscenza non necessariamente in
continuità con i processi consolidati. Nonaka e Takeuchi includono infatti “l’ambiguità” 39
, ovveroil così detto “caos creativo”, tra gli elementi in grado di rafforzare il processo di creazione di
conoscenza che assume in questi casi le vesti di “creazione di ordine a partire dal rumore”.
_L’ampliamento dell’orizzonte brief
36 W. Reitman, Cognition and Thought , Wiley, New York/Sydney 1966, pp.133-142
37 Richard Buchanan, “Wicked Problems in Design Thinking”, in Victor Margolin e Richard Buchanan (a cura di), The
Idea of Design. A Design Issues Reader, The MIT Press, Cambridge, Massachusetts, London, England, 1995, p.1638 Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, The Knowledge-Creating Company, Guerini, Milano 1997, p.125
39 Ikujiro Nonaka e Hirotaka Takeuchi, The Knowledge-Creating Company, Guerini, Milano 1997, p.41
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Se il brief, inteso nella sua concezione originale, è un prodotto metaprogettuale definito, in grado di
delineare in modo chiaro e preciso il quadro progettuale e le finalità (in termini di esigenze eobiettivi tecnici, di contesto, di funzioni allocate, culturali, sociali, economiche, di durata, ecc.),
meno esplorati sono i casi in cui l’orientamento del generale agire progettuale è dato da una metalontana, condivisa.
Nel metaprogetto esiste infatti, come anticipato, una componente sbilanciata verso il futuro più che,
come nei paragrafi precedenti, verso il passato ed il presente. Una direttrice di lavoro, questa, cheintreccia la pratica del design, fin dalle sue origini, divenendo per alcuni autori un tratto distintivo.
Richard Buchanan, ad esempio, distingue tra i tre più importanti modi di concepire il progetto nel
ventesimo secolo, l’ingegneria, il marketing e il design, in base alle modalità di supportare le
proprie argomentazione: l’ingegneria con la necessità, il marketing con l’emergenza e il design con
la visione di possibilità.40
E’ quello che Fabio Di Liberto, di Design Continuum, definisce il “faro”, obiettivo che si intende
raggiungere attraverso passi progressivi di avvicinamento e al contempo sorta di “bussola” in grado
di orientare le azioni progettuali.
Come mette in luce Michele De Lucchi, compito del designer non è infatti trovare una soluzione, a
problemi già definiti, ma aprire delle possibilità, vedere se c’è spazio per la ricerca fuori dai campi
già praticati41.Diversi sono i modi e le forme assunte da questo “faro”: dalla definizione di possibili direttrici di
sviluppo prodotti, alla individuazione di vision e scenari futuri. Modalità diverse, che sidistinguono in base al tipo di azione e metodologia che le hanno generate, così come in base
all’intervallo temporale (da breve a lunghissimo) preso come riferimento.In questa scia si pongono tutte quelle attività metaprogettuali che, allontanandosi sempre più
dall’idea moderna, di avvio di un processo progettuale di tipo sequenziale, quasi automatizzato, si prefiggono di delineare delle direttrici di innovazione, delle visioni e degli scenari futuri a partire da
“dati” qualitativi e soggettivi, da quei “wicked problems”, indeterminati, in cui non sono datecondizioni e limiti definitivi.
L’azione di focalizzazione dell’impostazione del progetto diviene in questi termini ancora più
cruciale e