io sono un’arma David Tell
× addestramento marines, Parris island, 1989 ×
FraTelli Guerrieriaaron Cohen
× antiterrorismo israeliano, 1994 ×
azione immeDiaTa andy mcnab
× missioni sas, 1975-1991 ×
PaTTuGlia Bravo Two zeroandy mcnab
× Guerra del Golfo, gennaio 1991 ×
BanDa Di FraTellistephen e. ambrose
× normandia, giugno 1944 ×
andy mcnabPattuglia Bravo Two ZeroTitolo originaleBravo Two ZeroTraduzione di isabella Bolech russo
© 2015 edizione speciale per il GiornalePubblicato su licenza di longanesi & C. s.r.l.
© 1997 longanesi & C. milanoGruppo editoriale mauri spagnolProprietà letteraria riservatawww.longanesi.it
© 1993 by andy mcnabThis edition is published by arrangementswith Transword Publishers ltd, london
supplemento al numero odierno de il GiornaleDirettore responsabile: alessandro sallustireg. Trib. milano n. 215 del 29.05.1982Tutti i diritti riservati
pattugliabravo two zero
a n d y m c n a b
S t o r i e d i g u e r r a
Ai tre che non sono tornati 1
Poche ore dopo che le truppe e i blindati iracheni avevano varca-
to il confine con il Kuwait – alle 02.00 ora locale del 2 agosto
1990 – il Reggimento comincio i preparativi per effettuare ope-
razioni nel deserto.
In quanto membri della squadra antiterrorismo di stanza a
Hereford, il mio gruppo e io non eravamo coinvolti. Restammo
a guardare con occhi un po’ gelosi i ragazzi della prima squadra
che prendevano il loro equipaggiamento da deserto e partivano.
Il nostro turno di nove mesi stava per terminare e aspettavamo
il cambio con ansia; ma con il passare delle settimane comin-
ciarono a circolare voci di un rinvio, se non addirittura di un
annullamento dell’operazione. Mangiai il tacchino natalizio
con rabbia e preoccupazione. Non volevo perdere quell’oppor-
tunita.
Poi, il 10 gennaio 1991, a meta dello squadrone fu dato un
preavviso di tre giorni prima della partenza per l’Arabia Saudita.
Con nostro grande sollievo, il gruppo cui appartenevo era com-
preso tra i prescelti. Ci demmo un gran daffare a preparare l’equi-
paggiamento, a provare le armi e a correre in citta per comprarci
nuove scarpe da deserto e ogni tipo di creme solari a fattore pro-
tettivo 20 « schermo totale » per il naso.
Dovevamo partire nelle prime ore di domenica mattina. Passai
la notte in citta con Jilly, la mia ragazza, ma lei era troppo turbata
per divertirsi. Fu una serata di falsa allegria, dominata dal nervo-
sismo di entrambi.
«Andiamo a fare una passeggiata? » le proposi quando arri-
vammo a casa, sperando di allentare la tensione della serata.
Facemmo qualche giro dell’isolato, e quando rientrammo a ca-
sa accesi la televisione. C’era Apocalypse Now. Non eravamo
dell’umore adatto per chiacchierare, cosı ci sedemmo a guardar-
lo. Due ore di carneficina e mutilazioni non erano esattamente
quanto di piu opportuno da mostrare a Jilly. Scoppio in lacrime.
Lei stava sempre bene, finche non era consapevole dei rischi che
correvo. Conosceva molto poco del mio lavoro e non aveva mai
Ai tre che non sono tornati 1
Poche ore dopo che le truppe e i blindati iracheni avevano varca-
to il confine con il Kuwait – alle 02.00 ora locale del 2 agosto
1990 – il Reggimento comincio i preparativi per effettuare ope-
razioni nel deserto.
In quanto membri della squadra antiterrorismo di stanza a
Hereford, il mio gruppo e io non eravamo coinvolti. Restammo
a guardare con occhi un po’ gelosi i ragazzi della prima squadra
che prendevano il loro equipaggiamento da deserto e partivano.
Il nostro turno di nove mesi stava per terminare e aspettavamo
il cambio con ansia; ma con il passare delle settimane comin-
ciarono a circolare voci di un rinvio, se non addirittura di un
annullamento dell’operazione. Mangiai il tacchino natalizio
con rabbia e preoccupazione. Non volevo perdere quell’oppor-
tunita.
Poi, il 10 gennaio 1991, a meta dello squadrone fu dato un
preavviso di tre giorni prima della partenza per l’Arabia Saudita.
Con nostro grande sollievo, il gruppo cui appartenevo era com-
preso tra i prescelti. Ci demmo un gran daffare a preparare l’equi-
paggiamento, a provare le armi e a correre in citta per comprarci
nuove scarpe da deserto e ogni tipo di creme solari a fattore pro-
tettivo 20 « schermo totale » per il naso.
Dovevamo partire nelle prime ore di domenica mattina. Passai
la notte in citta con Jilly, la mia ragazza, ma lei era troppo turbata
per divertirsi. Fu una serata di falsa allegria, dominata dal nervo-
sismo di entrambi.
«Andiamo a fare una passeggiata? » le proposi quando arri-
vammo a casa, sperando di allentare la tensione della serata.
Facemmo qualche giro dell’isolato, e quando rientrammo a ca-
sa accesi la televisione. C’era Apocalypse Now. Non eravamo
dell’umore adatto per chiacchierare, cosı ci sedemmo a guardar-
lo. Due ore di carneficina e mutilazioni non erano esattamente
quanto di piu opportuno da mostrare a Jilly. Scoppio in lacrime.
Lei stava sempre bene, finche non era consapevole dei rischi che
correvo. Conosceva molto poco del mio lavoro e non aveva mai
8
fatto molte domande... perche, mi spiegava, non voleva sapere le
risposte.
«Ah, parti... e quando ritorni? » era in sostanza quello che si
limitava regolarmente a chiedermi. Ma adesso era diverso. Per
una volta, sapeva dove stavo andando.
Nel buio dell’auto, mentre mi accompagnava alla base, le sug-
gerii: « Perche non ti prendi quel cane che volevi? Potrebbe te-
nerti compagnia ».
Avevo le migliori intenzioni del mondo, ma lei scoppio di nuo-
vo a piangere. Le chiesi di farmi scendere a una certa distanza dal
cancello principale.
«Ora continuo a piedi, bella », le dissi con un sorriso teso.
«Ho bisogno di fare un po’ di moto. »
Ne lei ne io amavamo gli addii prolungati.
La prima cosa che colpisce quando si entra nelle linee dello squa-
drone (l’area degli alloggi del campo) e il rumore: veicoli che
fanno manovra, uomini che urlano per farsi restituire pezzi di
equipaggiamento, e da tutti gli alloggi degli scapoli un tipo di
musica diverso... ma sempre al massimo del volume. Questa vol-
ta la musica era ancora piu forte perche molti di noi stavano per
partire.
Incontrai Dinger, Mark il Kiwi (cioe il neozelandese) e Stan,
gli altri membri del mio gruppo. Alcuni sfortunati che non sareb-
bero partiti per il Golfo entravano comunque negli alloggi e si
univano agli sfotto e ai piccoli scherzi.
Caricammo sulle macchine il nostro equipaggiamento e ci di-
rigemmo verso il limite della base, dove i mezzi di trasporto ci
aspettavano per trasferirci a Brize Norton. Come al solito, mi
portai sull’aereo il sacco a pelo, oltre al mio walkman, al neces-
sario per lavarmi e radermi e al fornellino per gli infusi. Dinger
porto duecento sigarette Benson & Hedges. Se ci fossimo trovati
impastoiati nel bel mezzo del nulla o avessimo dovuto trascinarci
su una pista deserta per lunghi, interminabili giorni, non sarebbe
stata la prima volta.
Volammo su un VC-10 della raf. Fumai in modo passivo le
9
venti e piu sigarette che Dinger si fece fuori durante le sette ore di
volo, urlandogli dietro tutto il tempo; ma, come al solito, le mie
lamentele non sortirono effetto. Bisogna dire che lui era sempre
una compagnia eccellente, nonostante quella disgustosa abitudi-
ne. Originariamente inquadrato nel Reggimento dei paracadutisti,
Dinger era un veterano delle Falkland. Incarnava bene il tipo: ru-
de e tosto, con una voce che metteva paura e due occhi che ne
mettevano ancora di piu. Ma dietro la sua faccia da hooligan c’e-
ra un cervello acuto e analitico. Dinger era in grado di spazzare
via il cruciverba del Daily Telegraph in un baleno... con miogrande rammarico. Da civile, era anche un eccellente giocato-re di cricket e di rugby, mentre a ballare faceva assolutamenteschifo. Dinger ballava come camminava Virgil Tracy. Quan-do pero si trattava di gestire una crisi, era tetragono e imper-turbabile.
Quando atterrammo a Riyad fummo salutati dal clima piace-
vole tipico di quel periodo dell’anno in Medio Oriente: ma non
ci fu tempo per prendere il sole. Sull’asfalto ci stavano aspettan-
do dei camion coperti, e fummo dirottati in una base isolata dalle
altre truppe della coalizione.
Il gruppo che ci aveva preceduto aveva fatto le cose in modo da
saper rispondere alle prime tre domande che si pongono sempre
quando si arriva in un posto nuovo: dove dormo, dove mangio e
dov’e il cesso.
Scoprimmo che l’alloggio riservato al nostro mezzo squadrone
era un hangar lungo circa cento metri e largo cinquanta. All’in-
terno erano ammassati quaranta uomini e ogni tipo di provviste
ed equipaggiamento, inclusi i veicoli, le armi e le munizioni. C’e-
rano cataste di materiale ovunque: di tutto, dal repellente per gli
insetti alle razioni di cibo, fino ai tracciatori laser per i bersagli e
alle casse di esplosivo ad alto potenziale. Era solo questione di
districarsi fra tutto e cercare di crearsi il proprio piccolo mondo
quanto meglio possibile. Il mio era costituito da parecchie grandi
casse contenenti motori fuoribordo, sistemate in modo da garan-
tirmi uno spazio a parte che ricoprii con una tela cerata per ripa-
8
fatto molte domande... perche, mi spiegava, non voleva sapere le
risposte.
«Ah, parti... e quando ritorni? » era in sostanza quello che si
limitava regolarmente a chiedermi. Ma adesso era diverso. Per
una volta, sapeva dove stavo andando.
Nel buio dell’auto, mentre mi accompagnava alla base, le sug-
gerii: « Perche non ti prendi quel cane che volevi? Potrebbe te-
nerti compagnia ».
Avevo le migliori intenzioni del mondo, ma lei scoppio di nuo-
vo a piangere. Le chiesi di farmi scendere a una certa distanza dal
cancello principale.
«Ora continuo a piedi, bella », le dissi con un sorriso teso.
«Ho bisogno di fare un po’ di moto. »
Ne lei ne io amavamo gli addii prolungati.
La prima cosa che colpisce quando si entra nelle linee dello squa-
drone (l’area degli alloggi del campo) e il rumore: veicoli che
fanno manovra, uomini che urlano per farsi restituire pezzi di
equipaggiamento, e da tutti gli alloggi degli scapoli un tipo di
musica diverso... ma sempre al massimo del volume. Questa vol-
ta la musica era ancora piu forte perche molti di noi stavano per
partire.
Incontrai Dinger, Mark il Kiwi (cioe il neozelandese) e Stan,
gli altri membri del mio gruppo. Alcuni sfortunati che non sareb-
bero partiti per il Golfo entravano comunque negli alloggi e si
univano agli sfotto e ai piccoli scherzi.
Caricammo sulle macchine il nostro equipaggiamento e ci di-
rigemmo verso il limite della base, dove i mezzi di trasporto ci
aspettavano per trasferirci a Brize Norton. Come al solito, mi
portai sull’aereo il sacco a pelo, oltre al mio walkman, al neces-
sario per lavarmi e radermi e al fornellino per gli infusi. Dinger
porto duecento sigarette Benson & Hedges. Se ci fossimo trovati
impastoiati nel bel mezzo del nulla o avessimo dovuto trascinarci
su una pista deserta per lunghi, interminabili giorni, non sarebbe
stata la prima volta.
Volammo su un VC-10 della raf. Fumai in modo passivo le
9
venti e piu sigarette che Dinger si fece fuori durante le sette ore di
volo, urlandogli dietro tutto il tempo; ma, come al solito, le mie
lamentele non sortirono effetto. Bisogna dire che lui era sempre
una compagnia eccellente, nonostante quella disgustosa abitudi-
ne. Originariamente inquadrato nel Reggimento dei paracadutisti,
Dinger era un veterano delle Falkland. Incarnava bene il tipo: ru-
de e tosto, con una voce che metteva paura e due occhi che ne
mettevano ancora di piu. Ma dietro la sua faccia da hooligan c’e-
ra un cervello acuto e analitico. Dinger era in grado di spazzare
via il cruciverba del Daily Telegraph in un baleno... con miogrande rammarico. Da civile, era anche un eccellente giocato-re di cricket e di rugby, mentre a ballare faceva assolutamenteschifo. Dinger ballava come camminava Virgil Tracy. Quan-do pero si trattava di gestire una crisi, era tetragono e imper-turbabile.
Quando atterrammo a Riyad fummo salutati dal clima piace-
vole tipico di quel periodo dell’anno in Medio Oriente: ma non
ci fu tempo per prendere il sole. Sull’asfalto ci stavano aspettan-
do dei camion coperti, e fummo dirottati in una base isolata dalle
altre truppe della coalizione.
Il gruppo che ci aveva preceduto aveva fatto le cose in modo da
saper rispondere alle prime tre domande che si pongono sempre
quando si arriva in un posto nuovo: dove dormo, dove mangio e
dov’e il cesso.
Scoprimmo che l’alloggio riservato al nostro mezzo squadrone
era un hangar lungo circa cento metri e largo cinquanta. All’in-
terno erano ammassati quaranta uomini e ogni tipo di provviste
ed equipaggiamento, inclusi i veicoli, le armi e le munizioni. C’e-
rano cataste di materiale ovunque: di tutto, dal repellente per gli
insetti alle razioni di cibo, fino ai tracciatori laser per i bersagli e
alle casse di esplosivo ad alto potenziale. Era solo questione di
districarsi fra tutto e cercare di crearsi il proprio piccolo mondo
quanto meglio possibile. Il mio era costituito da parecchie grandi
casse contenenti motori fuoribordo, sistemate in modo da garan-
tirmi uno spazio a parte che ricoprii con una tela cerata per ripa-
10
rarmi dalle potenti luci sopra la mia testa.
C’erano varie isole separate di attivita, ognuna con il proprio
rumore specifico: radio sintonizzate sul Servizio Internazionale
della bbc, walkman con gli auricolari da cui rimbombavano mu-
sica folk, rap e heavy metal. Si sentiva un odore pungente di ga-
solio, benzina e gas di scarico. I veicoli andavano avanti e indie-
tro tutto il tempo, mentre i ragazzi uscivano per andare a esplo-
rare altre parti della base e vedere cosa riuscivano ad arraffare. E
naturalmente, mentre erano assenti, il loro equipaggiamento veni-
va a sua volta rovistato da altri. « Chi dorme, non piglia pesci »: e
cosı che funziona. Il possesso equivale alla proprieta. Lascia il
tuo spazio incustodito troppo a lungo e, quando tornerai, scoprirai
che ti manca una sedia... a volte perfino il letto!
Nell’hangar le tisane si sprecavano. Stan aveva portato un pac-
chetto di te all’arancia e Dinger e io, dopo avere vagato un po’,
andammo a sederci sul suo letto con le nostre tazze vuote.
« Te, ragazzo », ordino Dinger porgendogli la tazza.
« Sı, buana », rispose Stan.
Nato in Sudafrica da madre svedese e padre scozzese, Stan si
era trasferito in Rhodesia poco prima della dichiarazione unilate-
rale d’indipendenza dalla Gran Bretagna. Resto subito coinvolto
nella guerra che ne seguı, e quando piu tardi la sua famiglia si
trasferı in Australia si arruolo nell’esercito. Supero gli esami di
ammissione alla facolta di medicina, ma amava troppo la vita al-
l’aperto, e abbandono quasi subito la facolta. Il suo sogno era an-
dare in Gran Bretagna e arruolarsi nel Reggimento, quindi passo
un anno nel Galles a prepararsi per la selezione. Naturalmente fu
tra i prescelti.
Qualunque genere di attivita fisica era una bazzecola per Stan,
sesso compreso. Era alto un metro e novanta, di corporatura im-
ponente e di bell’aspetto: insomma, le faceva attizzare tutte. Jilly
mi disse che a Hereford il suo soprannome era Dottor Sesso, e
che quel nomignolo compariva piuttosto di frequente sulle pareti
dei bagni delle donne. Per sua stessa ammissione, la donna ideale
di Stan era una che non mangiasse troppo – per cui portarla fuori
non costasse granche – e avesse auto e casa proprie, cioe fosse un
tipo indipendente che non gli si sarebbe attaccata troppo. In qua-
11
lunque parte del mondo si trovasse, le donne se lo mangiavano
con gli occhi e sbavavano per lui. Nella veste di seduttore era af-
fascinante e soave come Roger Moore nella parte di James Bond.
A parte il successo con le donne, la cosa piu notevole e sor-
prendente di Stan era il suo senso dell’abbigliamento: ne era
del tutto privo. Fino a quando lo squadrone non aveva messo
le mani su di lui, andava sempre in giro con sahariane di acrilico
antipiega e pantaloni che non gli arrivavano alla caviglia. Una
volta si presento a una festa elegante con una giacca a quadri
che debordava da tutte le parti e pantaloni modello acqua alta.
Aveva viaggiato molto, e ovviamente si era fatto molte amicizie
femminili. Gli arrivavano proposte di matrimonio da tutte le parti
del mondo, ma le lettere non ricevevano mai risposta. Stan non
svuotava nemmeno la cassetta postale. Per essere uno di trenta-
cinque anni, aveva un carattere molto spensierato, oltre che ami-
chevole: non c’era niente che non avrebbe preso alla leggera. Se
non fosse stato nel Reggimento, avrebbe fatto lo yuppie o la
spia... anche se naturalmente in completo di acrilico.
Per insaporire le razioni, la maggior parte dei ragazzi si porta
senape o pasta al curry, percio dalle zone in cui si stavano prepa-
rando pasti supplementari giungevano penetranti aromi speziati.
Io feci un giro e assaggiai qua e la. Tutti si portano sempre dietro
un cucchiaio da viaggio. La regola non scritta e che chi ha la lat-
tina o sta cucinando ha il diritto di assaggiare per primo, e divide
il resto con gli altri. Si immerge il proprio cucchiaio da viaggio in
verticale e ci si serve. Se il cucchiaio e grosso, si puo prendere di
piu dalla lattina, ma se e troppo grosso – per esempio un cuc-
chiaio di legno con il manico rotto – non si riesce nemmeno a in-
filarlo. Insomma, la caccia al cucchiaio da viaggio di dimensioni
ideali e sempre aperta.
C’era un casino bestiale. Se non ti piaceva la musica che qual-
cuno stava ascoltando, lui assente gli sostituivi le pile con dei sas-
si. Quando aprı lo zaino, Mark scoprı di essersi portato da Here-
ford una pietra di dieci chili. Sospettando a torto che fossi stato
io, mi sostituı il dentifricio con la crema solare Uvistat. Quando
feci per usarlo mi incazzai.
Avevo incontrato Mark per la prima vola a Brisbane nel 1989,
10
rarmi dalle potenti luci sopra la mia testa.
C’erano varie isole separate di attivita, ognuna con il proprio
rumore specifico: radio sintonizzate sul Servizio Internazionale
della bbc, walkman con gli auricolari da cui rimbombavano mu-
sica folk, rap e heavy metal. Si sentiva un odore pungente di ga-
solio, benzina e gas di scarico. I veicoli andavano avanti e indie-
tro tutto il tempo, mentre i ragazzi uscivano per andare a esplo-
rare altre parti della base e vedere cosa riuscivano ad arraffare. E
naturalmente, mentre erano assenti, il loro equipaggiamento veni-
va a sua volta rovistato da altri. « Chi dorme, non piglia pesci »: e
cosı che funziona. Il possesso equivale alla proprieta. Lascia il
tuo spazio incustodito troppo a lungo e, quando tornerai, scoprirai
che ti manca una sedia... a volte perfino il letto!
Nell’hangar le tisane si sprecavano. Stan aveva portato un pac-
chetto di te all’arancia e Dinger e io, dopo avere vagato un po’,
andammo a sederci sul suo letto con le nostre tazze vuote.
« Te, ragazzo », ordino Dinger porgendogli la tazza.
« Sı, buana », rispose Stan.
Nato in Sudafrica da madre svedese e padre scozzese, Stan si
era trasferito in Rhodesia poco prima della dichiarazione unilate-
rale d’indipendenza dalla Gran Bretagna. Resto subito coinvolto
nella guerra che ne seguı, e quando piu tardi la sua famiglia si
trasferı in Australia si arruolo nell’esercito. Supero gli esami di
ammissione alla facolta di medicina, ma amava troppo la vita al-
l’aperto, e abbandono quasi subito la facolta. Il suo sogno era an-
dare in Gran Bretagna e arruolarsi nel Reggimento, quindi passo
un anno nel Galles a prepararsi per la selezione. Naturalmente fu
tra i prescelti.
Qualunque genere di attivita fisica era una bazzecola per Stan,
sesso compreso. Era alto un metro e novanta, di corporatura im-
ponente e di bell’aspetto: insomma, le faceva attizzare tutte. Jilly
mi disse che a Hereford il suo soprannome era Dottor Sesso, e
che quel nomignolo compariva piuttosto di frequente sulle pareti
dei bagni delle donne. Per sua stessa ammissione, la donna ideale
di Stan era una che non mangiasse troppo – per cui portarla fuori
non costasse granche – e avesse auto e casa proprie, cioe fosse un
tipo indipendente che non gli si sarebbe attaccata troppo. In qua-
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lunque parte del mondo si trovasse, le donne se lo mangiavano
con gli occhi e sbavavano per lui. Nella veste di seduttore era af-
fascinante e soave come Roger Moore nella parte di James Bond.
A parte il successo con le donne, la cosa piu notevole e sor-
prendente di Stan era il suo senso dell’abbigliamento: ne era
del tutto privo. Fino a quando lo squadrone non aveva messo
le mani su di lui, andava sempre in giro con sahariane di acrilico
antipiega e pantaloni che non gli arrivavano alla caviglia. Una
volta si presento a una festa elegante con una giacca a quadri
che debordava da tutte le parti e pantaloni modello acqua alta.
Aveva viaggiato molto, e ovviamente si era fatto molte amicizie
femminili. Gli arrivavano proposte di matrimonio da tutte le parti
del mondo, ma le lettere non ricevevano mai risposta. Stan non
svuotava nemmeno la cassetta postale. Per essere uno di trenta-
cinque anni, aveva un carattere molto spensierato, oltre che ami-
chevole: non c’era niente che non avrebbe preso alla leggera. Se
non fosse stato nel Reggimento, avrebbe fatto lo yuppie o la
spia... anche se naturalmente in completo di acrilico.
Per insaporire le razioni, la maggior parte dei ragazzi si porta
senape o pasta al curry, percio dalle zone in cui si stavano prepa-
rando pasti supplementari giungevano penetranti aromi speziati.
Io feci un giro e assaggiai qua e la. Tutti si portano sempre dietro
un cucchiaio da viaggio. La regola non scritta e che chi ha la lat-
tina o sta cucinando ha il diritto di assaggiare per primo, e divide
il resto con gli altri. Si immerge il proprio cucchiaio da viaggio in
verticale e ci si serve. Se il cucchiaio e grosso, si puo prendere di
piu dalla lattina, ma se e troppo grosso – per esempio un cuc-
chiaio di legno con il manico rotto – non si riesce nemmeno a in-
filarlo. Insomma, la caccia al cucchiaio da viaggio di dimensioni
ideali e sempre aperta.
C’era un casino bestiale. Se non ti piaceva la musica che qual-
cuno stava ascoltando, lui assente gli sostituivi le pile con dei sas-
si. Quando aprı lo zaino, Mark scoprı di essersi portato da Here-
ford una pietra di dieci chili. Sospettando a torto che fossi stato
io, mi sostituı il dentifricio con la crema solare Uvistat. Quando
feci per usarlo mi incazzai.
Avevo incontrato Mark per la prima vola a Brisbane nel 1989,
12
allorche alcuni di noi furono ospitati dai sas (Special Air Service)australiani. Gioco contro di noi in una partita di rugby e fuproprio l’uomo del match, con quelle gambe muscolose chegli permisero di segnare tutte le mete della sua squadra. Erala prima volta che perdevamo, e lo odiai: odiai quel bastardoin tutto il suo metro e sessantasei. L’anno seguente ci rincon-trammo. Stava passando la selezione, e il giorno che lo vidiera appena ritornato alla base dopo una corsa di quindici chi-lometri con tutto l’equipaggiamento.
«Metti una buona parola per me », ridacchio quando mi rico-
nobbe. «Vi sarebbe molto utile un cazzutissimo buon mediano di
mischia! »
Mark supero la selezione e si unı al nostro squadrone appena
prima di partire per il Golfo.
« E una cazzutissima goduria essere qui, amico », dichiaro en-
trando nella mia stanza per stringermi la mano.
Mi ero scordato che esisteva un solo aggettivo nel vocabolario
del Kiwi, e cominciava per « c ».
Nel nostro hangar l’atmosfera era gioviale e movimentata. Il
Reggimento non era piu stato a ranghi completi dai tempi della
seconda guerra mondiale. Era meraviglioso essere cosı in tanti
e tutti assieme. Generalmente operiamo a piccoli gruppi e in con-
dizioni di massima segretezza: qui invece c’era la possibilita di
andare allo scoperto in gran numero. Non avevamo ancora rice-
vuto istruzioni, ma in cuor nostro sapevamo che la guerra avrebbe
fornito a ciascuno di noi una grande occasione di fare del « lavoro
vero », cioe le operazioni militari classiche dei sas dietro le linee
nemiche. Era questo lo scopo per cui inizialmente David Stirling
aveva creato il Reggimento, e adesso, a quasi cinquant’anni di di-
stanza, ci ritrovavamo al punto di partenza. A quanto intuivo, in
Iraq le maggiori difficolta probabilmente sarebbero state determi-
nate dal nemico e dalla logistica: esaurimento delle scorte di mu-
nizioni e di acqua. Mi sentivo come un muratore che aveva pas-
sato la vita a costruire bungalow, e adesso qualcuno mi dava la
possibilita di costruire un grattacielo. Speravo solo che la guerra
13
non finisse prima che riuscissi a posare il mio primo mattone.
Non avevamo ancora la piu pallida idea di quello che avremmo
dovuto fare, cosı passammo i giorni successivi a prepararci per
tutto e niente, dagli attacchi contro bersagli alla costituzione di
posti di osservazione. E sempre una gran soddisfazione fare le
cose piu emozionanti – arrampicate, ascensioni in cordata, salti
negli edifici –, ma essenzialmente essere nelle Forze Speciali si-
gnifica meticolosita e precisione. Il vero motto dei sas non do-
vrebbe essere «Chi osa vince », ma «Controlla e verifica, con-
trolla e verifica ».
Alcuni di noi avevano bisogno di rinfrescare a spron battuto le
proprie competenze in fatto di esplosivi, movimento con i veicoli
e lettura delle carte in un deserto. Ci portammo dietro anche le
armi pesanti. Alcune di esse, come la mitragliatrice pesante da
12.7 mm, non le usavo da due anni. Seguimmo corsi di aggiorna-
mento tenuti da chiunque fosse il piu esperto in un particolare
settore; poteva essere il sergente maggiore come l’ultimo arrivato
dello squadrone. C’erano gli allarmi Scud, quindi tutti erano
comprensibilmente ansiosi di impadronirsi delle nuove tecniche
nbc (nuclear, biological, chemical, « nucleari, biologiche, chi-miche ») che non avevano piu utilizzato dai tempi in cui eranonelle loro vecchie unita. L’unico problema era che Pete, l’i-struttore proveniente dalle nostre truppe di montagna, avevaun accento di Newcastle piu impenetrabile della nebbia sulTyne, e parlava a raffica senza mai mettere la sicura alle pa-role. Sembrava Gazza Gascoigne nei suoi momenti peggiori.
Cercammo con grande sforzo di capire di cosa stesse parlando,
ma dopo un quarto d’ora la fatica ci vinse. Qualcuno gli fece una
domanda semplicissima, e lui finı per mettersi a parlare ancora
piu in fretta. Gli furono poste altre domande, e si innesto un cir-
colo vizioso. Alla fine decidemmo tra noi che, se il kit doveva
funzionare, avrebbe funzionato. Non ci preoccupammo di impa-
rare le tecniche per procurarci acqua e cibo che Pete stava spie-
gando e dimostrando, perche cosı non avremmo poi dovuto impa-
rare le tecniche per pisciare e cagare; era roba troppo complicata
12
allorche alcuni di noi furono ospitati dai sas (Special Air Service)australiani. Gioco contro di noi in una partita di rugby e fuproprio l’uomo del match, con quelle gambe muscolose chegli permisero di segnare tutte le mete della sua squadra. Erala prima volta che perdevamo, e lo odiai: odiai quel bastardoin tutto il suo metro e sessantasei. L’anno seguente ci rincon-trammo. Stava passando la selezione, e il giorno che lo vidiera appena ritornato alla base dopo una corsa di quindici chi-lometri con tutto l’equipaggiamento.
«Metti una buona parola per me », ridacchio quando mi rico-
nobbe. «Vi sarebbe molto utile un cazzutissimo buon mediano di
mischia! »
Mark supero la selezione e si unı al nostro squadrone appena
prima di partire per il Golfo.
« E una cazzutissima goduria essere qui, amico », dichiaro en-
trando nella mia stanza per stringermi la mano.
Mi ero scordato che esisteva un solo aggettivo nel vocabolario
del Kiwi, e cominciava per « c ».
Nel nostro hangar l’atmosfera era gioviale e movimentata. Il
Reggimento non era piu stato a ranghi completi dai tempi della
seconda guerra mondiale. Era meraviglioso essere cosı in tanti
e tutti assieme. Generalmente operiamo a piccoli gruppi e in con-
dizioni di massima segretezza: qui invece c’era la possibilita di
andare allo scoperto in gran numero. Non avevamo ancora rice-
vuto istruzioni, ma in cuor nostro sapevamo che la guerra avrebbe
fornito a ciascuno di noi una grande occasione di fare del « lavoro
vero », cioe le operazioni militari classiche dei sas dietro le linee
nemiche. Era questo lo scopo per cui inizialmente David Stirling
aveva creato il Reggimento, e adesso, a quasi cinquant’anni di di-
stanza, ci ritrovavamo al punto di partenza. A quanto intuivo, in
Iraq le maggiori difficolta probabilmente sarebbero state determi-
nate dal nemico e dalla logistica: esaurimento delle scorte di mu-
nizioni e di acqua. Mi sentivo come un muratore che aveva pas-
sato la vita a costruire bungalow, e adesso qualcuno mi dava la
possibilita di costruire un grattacielo. Speravo solo che la guerra
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non finisse prima che riuscissi a posare il mio primo mattone.
Non avevamo ancora la piu pallida idea di quello che avremmo
dovuto fare, cosı passammo i giorni successivi a prepararci per
tutto e niente, dagli attacchi contro bersagli alla costituzione di
posti di osservazione. E sempre una gran soddisfazione fare le
cose piu emozionanti – arrampicate, ascensioni in cordata, salti
negli edifici –, ma essenzialmente essere nelle Forze Speciali si-
gnifica meticolosita e precisione. Il vero motto dei sas non do-
vrebbe essere «Chi osa vince », ma «Controlla e verifica, con-
trolla e verifica ».
Alcuni di noi avevano bisogno di rinfrescare a spron battuto le
proprie competenze in fatto di esplosivi, movimento con i veicoli
e lettura delle carte in un deserto. Ci portammo dietro anche le
armi pesanti. Alcune di esse, come la mitragliatrice pesante da
12.7 mm, non le usavo da due anni. Seguimmo corsi di aggiorna-
mento tenuti da chiunque fosse il piu esperto in un particolare
settore; poteva essere il sergente maggiore come l’ultimo arrivato
dello squadrone. C’erano gli allarmi Scud, quindi tutti erano
comprensibilmente ansiosi di impadronirsi delle nuove tecniche
nbc (nuclear, biological, chemical, « nucleari, biologiche, chi-miche ») che non avevano piu utilizzato dai tempi in cui eranonelle loro vecchie unita. L’unico problema era che Pete, l’i-struttore proveniente dalle nostre truppe di montagna, avevaun accento di Newcastle piu impenetrabile della nebbia sulTyne, e parlava a raffica senza mai mettere la sicura alle pa-role. Sembrava Gazza Gascoigne nei suoi momenti peggiori.
Cercammo con grande sforzo di capire di cosa stesse parlando,
ma dopo un quarto d’ora la fatica ci vinse. Qualcuno gli fece una
domanda semplicissima, e lui finı per mettersi a parlare ancora
piu in fretta. Gli furono poste altre domande, e si innesto un cir-
colo vizioso. Alla fine decidemmo tra noi che, se il kit doveva
funzionare, avrebbe funzionato. Non ci preoccupammo di impa-
rare le tecniche per procurarci acqua e cibo che Pete stava spie-
gando e dimostrando, perche cosı non avremmo poi dovuto impa-
rare le tecniche per pisciare e cagare; era roba troppo complicata
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per gente come noi. Nel complesso, concluse Pete, mentre la riu-
nione si scioglieva nel caos, non era stata la sua giornata piu co-
struttiva; o, almeno, questo era il senso delle sue parole.
Quando ci distribuirono gli occhiali da sole da aviatore ci piaz-
zammo fuori dell’hangar ad aspettare che passasse qualcuno per
inforcarli da bellimbusti, come facevano nelle pubblicita alla tv.
Dovemmo prendere le pillole contro i gas nervini, ma sospen-
demmo l’assunzione non appena incomincio a circolare la voce
che rendevano impotenti.
« E falso », ci rassicuro il sergente maggiore un paio di giorni
dopo. « Io mi sono appena fatto una bella sega. »
Guardavamo il telegiornale della cnn e discutevamo dei diversi
scenari possibili.
Immaginammo che i parametri delle nostre operazioni sareb-
bero stati elastici, anche se questo non significava che avremmo
potuto andarcene semplicemente a spasso a far saltare le linee
elettriche o qualsiasi cosa ci facesse girare i coglioni. Noi siamo
truppe strategiche, quindi cio che facciamo al di la delle linee ne-
miche puo avere conseguenze importanti. Se, per esempio, vede-
vamo una centrale petrolifera e la facevamo saltare solo per il gu-
sto perverso di farlo, avremmo anche potuto far entrare in guerra
la Giordania: poteva essere un oleodotto da Baghdad alla Giorda-
nia che gli alleati avevano concordato di non distruggere, in mo-
do che la Giordania continuasse ad avere il suo petrolio. Quindi,
se avessimo individuato un bersaglio appetitoso come quello, pri-
ma di occuparcene avremmo dovuto ottenere il permesso. Cosı
facendo avremmo provocato il massimo danno possibile alla
macchina da guerra irachena, senza pero compromettere nessuna
valutazione politica o strategica.
Ci chiedevamo se, in caso di cattura, gli iracheni ci avrebbero
uccisi. Se fosse successo, sarebbe stato un vero peccato. La cosa
piu importante, pero, era che lo facessero in modo rapido, altri-
menti avremmo dovuto cercare di accelerare i tempi.
Ce lo avrebbero ficcato nel culo? I maschi arabi sono molto
affettuosi fra loro, si tengono per mano e cose simili. Natural-
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mente e solo un’usanza, non significa necessariamente che siano
omosessuali, ma la domanda era legittima. Io non ero preoccupa-
to di quella prospettiva, perche tanto, se mi fosse successo, non
l’avrei raccontato in giro. L’unica eventualita che mi faceva su-
dare era che mi tagliassero le palle. Quello proprio sarebbe stato
brutto. Se i beduini mi avessero spogliato e avessero affilato i
coltelli davanti a me, avrei fatto qualunque cosa per provocarli
e indurli a farmi secco.
Non ho mai avuto paura di morire. Il mio atteggiamento verso
il lavoro che ci si aspetta da me nel Reggimento e sempre stato
pensare che a fine mese prendi i soldi, e in cambio sei uno stru-
mento da usare, lo sei fino in fondo. Il Reggimento perde uomini,
quindi questa eventualita viene calcolata. Puoi stipulare un’assi-
curazione, anche se all’epoca solo la Equity & Law aveva il co-
raggio di assicurare i sas senza aumentare il premio. Si scrivono
le lettere da consegnare ai parenti prossimi, se ti fanno fuori. Io
ne scrissi quattro e le affidai a un compagno di nome Eno. Ce
n’era una per i miei genitori che diceva: «Grazie per esservi presi
cura di me, per voi non deve essere stato facile, ma ho passato
un’infanzia abbastanza bella. Non preoccupatevi se sono morto,
succede ». Un’altra era per Jilly: «Non stare troppo a piangere,
prendi i soldi e spassatela. p.s. Cinquecento sterline sono per
quelli che finiscono dietro le sbarre per via dei prossimi casini
dello squadrone. p.p.s. Ti amo ». Ce n’era una terza, per la picco-
la Kate, che Eno le avrebbe dato quando fosse stata piu grande, e
diceva: « Ti ho sempre voluto bene, e sempre te ne vorro ». Infine
la lettera per Eno stesso, che avrebbe dovuto fungere da mio ese-
cutore testamentario; diceva: «Non fregarmi, segaiolo, altrimenti
tornero indietro a tirarti i piedi ».
Una sera, verso le 19.00, io e Vince, un altro comandante di squa-
dra, fummo chiamati al tavolo dell’ufficiale comandante dello
squadrone. Il comandante stava bevendo qualcosa con il sergente
maggiore dello squadrone.
«Abbiamo una missione per voi », annuncio passandoci una
tazza di te per ciascuno. « Lavorerete insieme. Andy prendera
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per gente come noi. Nel complesso, concluse Pete, mentre la riu-
nione si scioglieva nel caos, non era stata la sua giornata piu co-
struttiva; o, almeno, questo era il senso delle sue parole.
Quando ci distribuirono gli occhiali da sole da aviatore ci piaz-
zammo fuori dell’hangar ad aspettare che passasse qualcuno per
inforcarli da bellimbusti, come facevano nelle pubblicita alla tv.
Dovemmo prendere le pillole contro i gas nervini, ma sospen-
demmo l’assunzione non appena incomincio a circolare la voce
che rendevano impotenti.
« E falso », ci rassicuro il sergente maggiore un paio di giorni
dopo. « Io mi sono appena fatto una bella sega. »
Guardavamo il telegiornale della cnn e discutevamo dei diversi
scenari possibili.
Immaginammo che i parametri delle nostre operazioni sareb-
bero stati elastici, anche se questo non significava che avremmo
potuto andarcene semplicemente a spasso a far saltare le linee
elettriche o qualsiasi cosa ci facesse girare i coglioni. Noi siamo
truppe strategiche, quindi cio che facciamo al di la delle linee ne-
miche puo avere conseguenze importanti. Se, per esempio, vede-
vamo una centrale petrolifera e la facevamo saltare solo per il gu-
sto perverso di farlo, avremmo anche potuto far entrare in guerra
la Giordania: poteva essere un oleodotto da Baghdad alla Giorda-
nia che gli alleati avevano concordato di non distruggere, in mo-
do che la Giordania continuasse ad avere il suo petrolio. Quindi,
se avessimo individuato un bersaglio appetitoso come quello, pri-
ma di occuparcene avremmo dovuto ottenere il permesso. Cosı
facendo avremmo provocato il massimo danno possibile alla
macchina da guerra irachena, senza pero compromettere nessuna
valutazione politica o strategica.
Ci chiedevamo se, in caso di cattura, gli iracheni ci avrebbero
uccisi. Se fosse successo, sarebbe stato un vero peccato. La cosa
piu importante, pero, era che lo facessero in modo rapido, altri-
menti avremmo dovuto cercare di accelerare i tempi.
Ce lo avrebbero ficcato nel culo? I maschi arabi sono molto
affettuosi fra loro, si tengono per mano e cose simili. Natural-
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mente e solo un’usanza, non significa necessariamente che siano
omosessuali, ma la domanda era legittima. Io non ero preoccupa-
to di quella prospettiva, perche tanto, se mi fosse successo, non
l’avrei raccontato in giro. L’unica eventualita che mi faceva su-
dare era che mi tagliassero le palle. Quello proprio sarebbe stato
brutto. Se i beduini mi avessero spogliato e avessero affilato i
coltelli davanti a me, avrei fatto qualunque cosa per provocarli
e indurli a farmi secco.
Non ho mai avuto paura di morire. Il mio atteggiamento verso
il lavoro che ci si aspetta da me nel Reggimento e sempre stato
pensare che a fine mese prendi i soldi, e in cambio sei uno stru-
mento da usare, lo sei fino in fondo. Il Reggimento perde uomini,
quindi questa eventualita viene calcolata. Puoi stipulare un’assi-
curazione, anche se all’epoca solo la Equity & Law aveva il co-
raggio di assicurare i sas senza aumentare il premio. Si scrivono
le lettere da consegnare ai parenti prossimi, se ti fanno fuori. Io
ne scrissi quattro e le affidai a un compagno di nome Eno. Ce
n’era una per i miei genitori che diceva: «Grazie per esservi presi
cura di me, per voi non deve essere stato facile, ma ho passato
un’infanzia abbastanza bella. Non preoccupatevi se sono morto,
succede ». Un’altra era per Jilly: «Non stare troppo a piangere,
prendi i soldi e spassatela. p.s. Cinquecento sterline sono per
quelli che finiscono dietro le sbarre per via dei prossimi casini
dello squadrone. p.p.s. Ti amo ». Ce n’era una terza, per la picco-
la Kate, che Eno le avrebbe dato quando fosse stata piu grande, e
diceva: « Ti ho sempre voluto bene, e sempre te ne vorro ». Infine
la lettera per Eno stesso, che avrebbe dovuto fungere da mio ese-
cutore testamentario; diceva: «Non fregarmi, segaiolo, altrimenti
tornero indietro a tirarti i piedi ».
Una sera, verso le 19.00, io e Vince, un altro comandante di squa-
dra, fummo chiamati al tavolo dell’ufficiale comandante dello
squadrone. Il comandante stava bevendo qualcosa con il sergente
maggiore dello squadrone.
«Abbiamo una missione per voi », annuncio passandoci una
tazza di te per ciascuno. « Lavorerete insieme. Andy prendera
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il comando. Vince sara il secondo. Il briefing e previsto domatti-
na alle 08.00: ci vediamo qui. Informate i vostri ragazzi. Non ci
muoveremo prima di due giorni. »
I miei ragazzi furono piuttosto contenti delle novita. A parte il
resto, significavano smettere di far la coda per i due soli lavandini
e cessi disponibili. Sul campo, l’odore degli abiti o dei corpi pu-
liti puo disturbare gli animali selvatici e compromettere la tua po-
sizione: percio gli ultimi giorni prima di partire si smette di lavar-
si e ci si assicura che gli abiti indossati siano usati.
I ragazzi si dispersero e io andai a sentire le ultime notizie del-
la CNN. Avevano lanciato dei missili Scud su Tel Aviv, ferendo
almeno ventiquattro civili. Alcuni missili erano caduti in zone re-
sidenziali e, guardando la lunghezza delle vie e i bambini in pi-
giama, mi ricordai all’improvviso di Peckham e della mia infan-
zia. Quella notte, mentre cercavo di dormire, mi ritrovai a ricor-
dare tutte le mie vecchie ossessioni e a pensare ai miei genitori e
a molte altre cose cui non pensavo da tempo.
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2
NON ho mai conosciuto la mia vera madre, sebbene abbia sempre
immaginato che, chiunque fosse, per me aveva desiderato il me-
glio: la borsa della spesa di plastica in cui mi trovarono quando
mi lascio sui gradini del Guy’s Hospital era di Harrods.
Fin dall’eta di due anni sono stato allevato da una coppia della
zona sud di Londra che aveva fatto domanda per adottarmi. Man
mano che mi vedevano crescere, probabilmente hanno rimpianto
di essersi presi cura di me. A quindici anni e mezzo ho lasciato la
scuola per andare a lavorare in una ditta di trasporti di Brixton.
Gia nell’ultimo anno di scuola avevo cominciato a bigiare due
o tre giorni alla settimana. Invece di studiare per prendere il di-
ploma, in inverno consegnavo carbone e in estate bevevo fetidi
intrugli nei pub. Lavorando a tempo pieno guadagnavo otto ster-
line al giorno, che nel 1975 erano dei bei soldi. Con quaranta car-
te in tasca, al venerdı sera eri un drago.
Mio padre aveva fatto il militare nella Sussistenza, e adesso fa-
ceva il tassista. Mio fratello maggiore si era arruolato nei Royal
Fusiliers quando io ero piccolo e aveva prestato servizio per cin-
que anni, finche non si era sposato. Ricordavo con eccitazione
quando tornava da posti lontanissimi con il marsupio pieno di re-
gali. La mia infanzia, pero, fu normalissima. Non c’era nulla in
cui io fossi particolarmente bravo, e sicuramente non avevo alcun
interesse per la carriera militare. La mia massima ambizione era
quella di affittare un appartamento con i miei amici per fare quel-
lo che volevo.
Ho trascorso i primi anni della mia adolescenza a scappare di
casa. A volte andavo in Francia per il week-end con un amico:
spedizioni finanziate da lui, che fregava sul contatore del gas
di sua zia. Presto mi misi nei guai con la polizia, essenzialmente
per atti vandalici su treni e macchinette distributrici. Sono stato
processato in diversi tribunali minorili, beccandomi alcune multe
che hanno procurato molto dispiacere ai miei sfortunati genitori.
A sedici anni cambiai lavoro, finendo a servire dietro un banco
del McDonald’s a Catford. Tutto ando bene piu o meno fino a