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1 Dott. Nicola Colacino Corso di Diritto internazionale Dispense

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1

Dott. Nicola Colacino

Corso di Diritto internazionale

Dispense

2

I modulo

I caratteri generali dell’ordinamento giuridico internazionale e lasoggettività

Lezione n. 1

La comunità internazionale e il suo diritto – Parte I

1. Il diritto internazionale è la branca del diritto che disciplina i

rapporti giuridici fra Stati sovrani.

Gli Stati si sono dotati nel tempo di un apparato di norme allo scopo di

regolare le loro relazioni reciproche in maniera uniforme e prevenire

abusi e sopraffazioni da parte degli Stati più forti su quelli più deboli.

Si analizzeranno in seguito le modalità di produzione giuridica

specifiche dell’ordinamento internazionale (II modulo). Ciò che è

importante rilevare sin d’ora è che gli Stati sono, al tempo stesso, i

creatori e i destinatari delle norme giuridiche internazionali.

In altri termini, a differenza di quanto accade negli ordinamenti interni,

il potere legislativo (normativo, in senso lato) non è affidato ad uno o

più enti specifici (ad es., un Parlamento internazionale), distinti dagli

Stati e a loro sovraordinati, ma è decentrato: esso, cioè, è direttamente

esercitabile, a determinate condizioni, da qualsiasi Stato.

In apertura, va anche detto che l’accettazione di tali regole come

obbligatorie da parte degli Stati presuppone che la cd. comunità

internazionale – vale a dire la comunità degli Stati indipendenti e

sovrani nell’ambito della quale si sviluppa il diritto internazionale – sia

strutturata secondo un assetto rigidamente orizzontale.

Nessuno Stato, pertanto, è formalmente superiore ad un altro, ma tutti,

in quanto dotati di specifiche caratteristiche, che ne assicurano la

soggettività all’interno dell’ordinamento internazionale (lezione n. 3),

sono posti sul medesimo piano e possono, in linea di principio,

contribuire in eguale misura alla formazione del diritto internazionale.

3

2. Il diritto internazionale è anche definito Diritto internazionale

pubblico per distinguerlo dal Diritto internazionale privato, che è,

invece, quella branca del diritto regola i rapporti di diritto privato (tra

persone fisiche e giuridiche) nell’ambito di un ordinamento statale,

qualora tali rapporti rechino elementi di internazionalità.

Così, ad esempio, gli accordi di pace conclusivi di un conflitto

internazionale, il commercio di beni e servizi tra Stati diversi, la

definizione di regole comuni in materia di aviazione civile, sono tutte

materie regolate dal diritto internazionale pubblico, mentre il

matrimonio tra cittadini aventi diversa nazionalità, le adozioni

internazionali, gli acquisti di beni privati in un paese diverso da quello

di nazionalità dei contraenti, sono situazioni disciplinate dalle norme di

diritto internazionale privato, che variano da Stato a Stato.

3. Si è detto che, sebbene siano riscontrabili rilevanti tendenze

evolutive (di cui si tratterà nella lezione n. 2), il diritto internazionale è

fondamentalmente il diritto delle relazioni interstatali, vale a dire di

quelle relazioni che gli Stati, in qualità di enti sovrani, intessono tra

loro.

Pertanto, se gli Stati decidono di istituire un’organizzazione

internazionale e successivamente di farne cessare l’attività, ovvero di

accordare reciprocamente ai loro cittadini una speciale protezione per

l’esercizio di taluni diritti e quindi di revocarla o sospenderla in

presenza di determinate condizioni, tali scelte ricadono nella loro piena

autonomia, non sussistendo alcun tipo di vincolo giuridico, o di

limitazione, in grado di conformare la volontà degli Stati ad una volontà

superiore.

Sicché, nonostante l’azione di alcune organizzazioni internazionali (ad

esempio, le Nazioni Unite) possa talvolta apparire come un fattore di

condizionamento rispetto all’esercizio della sovranità nazionale, tuttavia

non si può smentire che gli Stati siano tuttora gli artefici originari del

diritto internazionale, la cui evoluzione dipende, quindi, in massima

parte dalle concrete modalità di atteggiamento delle relazioni

interstatali.

4

L’ordinamento internazionale moderno, da intendersi come la “cornice

giuridica” di riferimento entro cui si svolgono le relazioni internazionali,

si fa risalire alla pace di Westfalia del 1648, che pose fine alla cd.

guerra dei trent’anni.

In tale occasione, per la prima volta, gli Stati-nazione si riconobbero

reciprocamente come enti sovrani superiorem non recognoscentes,

svincolandosi così formalmente dalla soggezione alla Chiesa e

all’Impero, la cui volontà, in precedenza, risultava giuridicamente

prevalente su quella statale.

Le nazioni europee, personificate nei rispettivi monarchi, da quel

momento in avanti hanno basato le loro relazioni sul principio di

uguaglianza sovrana, secondo cui tutti gli Stati partecipano alla

società (comunità) internazionale in condizioni di parità formale e,

perciò, nessuno Stato può legittimamente esercitare su un altro Stato

un potere di controllo giuridicamente rilevante in assenza del consenso

di questi, né può ingerirsi nei suoi affari interni senza autorizzazione.

Sebbene non siano mancati, nei secoli successivi, i tentativi di

restaurare un ordine imperiale in grado di prevaricare gli interessi degli

Stati nazionali (si pensi all’impero napoleonico o al terzo Reich),

l’assetto paritario della comunità internazionale sopravvive ancora oggi.

4. Si deve, nondimeno, rilevare che, sebbene l’assetto strutturale

dell’ordinamento internazionale sia rimasto inalterato dal 1648 ad oggi,

l’ordinamento medesimo, a partire dalla prima metà del XX secolo, è

entrato in una nuova fase.

Più precisamente, si possono individuare due macro - f a s i

nell’evoluzione del diritto internazionale:

- la prima, che va dal 1648 a tutto il XIX secolo, è caratterizzata dalla

mera coesistenza tra Stati; il diritto internazionale è formato da poche

norme condivise, di natura consuetudinaria, disciplinanti un numero

ridotto di rapporti giuridici: il diritto del mare, il diritto bellico, le

modalità di formazione dei trattati internazionali ecc.; gli Stati regolano

i propri interessi prevalentemente mediante accordi bilaterali e

ammettono l’opzione bellica come legittima modalità di risoluzione delle

5

controversie, come strumento di politica estera e per consentire il

ricambio delle norme internazionali; non esistono organizzazioni

internazionali, né accordi cd. globali (quelli ai quali partecipa la quasi

totalità degli Stati appartenenti alla comunità internazionale); in

sintesi, l’impatto del diritto internazionale sull’esercizio della sovranità

statale è minimo;

- la seconda fase, caratterizzata da una sempre più intensa

cooperazione tra Stati, non è agevolmente databile, dal momento che

non è legata ad un evento determinato; si possono, tuttavia, prendere

in considerazione alcuni fattori: a partire dalla fine del XIX secolo

iniziano a formarsi le prime unioni di Stati, che, per effetto di un

graduale processo di istituzionalizzazione, divengono, dalla prima metà

del XX secolo, vere e proprie organizzazioni internazionali, dotate di

personalità giuridica, la cui volontà è in grado di contrapporsi a quella

degli stessi Stati che le hanno istituite; dal secondo dopoguerra si

registra, così, un sensibile incremento di tale fenomeno in numerosi

settori (commercio, ambiente, sviluppo), al punto che alcune

organizzazioni, sia a carattere universale (le Nazioni Unite), sia

regionale (l’Unione Europea), sviluppano un loro ordinamento giuridico

specifico, diverso da quello internazionale tout court e da quello interno

degli Stati membri; al contempo, l’uso della forza viene formalmente

bandito dalle relazioni internazionali e gli Stati si rendono conto che le

decisioni più importanti sul piano internazionale devono essere prese

con il più vasto consenso raggiungibile (cd. multilateralismo); il diritto

internazionale inizia ad essere pervasivo ed a condizionare la volontà

politica degli Stati: si assiste, così, ad una progressiva riduzione dei

settori tradizionalmente riservati all’esercizio della sovranità statale

(economia, tutela dei diritti) e all’emergere di fori (tribunali)

internazionali specializzati.

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Lezione n. 2

La comunità internazionale e il suo diritto – Parte II

1. Secondo quanto delineato nella precedente lezione, le relazioni

giuridiche internazionali si basano su una serie di principi di carattere

strutturale (formale) e di carattere materiale.

Anzitutto, si è detto che l’assetto attuale dell’ordinamento giuridico

internazionale è caratterizzato dal rispetto del principio di uguaglianza

sovrana degli Stati, secondo cui nessuno Stato può legittimamente

esercitare su altri Stati un controllo giuridico-formale, in grado di

condizionarne la volontà.

Ogni Stato, pertanto, è indipendente e sovrano. Tale condizione è

necessaria e sufficiente affinché esso possa contribuire alla formazione

del diritto internazionale e, al tempo stesso, essere destinatario delle

sue norme.

Così, qualsiasi Stato sovrano, ancorché territorialmente molto esiguo

(ad es., la Repubblica di San Marino), ha diritto al rispetto della propria

indipendenza da parte di tutti gli Stati della comunità internazionale ed

ogni forma di inosservanza di tale principio – senza il consenso dello

Stato interessato – costituisce una violazione del diritto internazionale.

Diversamente, ad uno Stato membro di una Federazione, seppure di

grande estensione (ad es., la California), non è dovuto il rispetto

dell’indipendenza, dal momento che, sul piano internazionale è la sola

Federazione (nel caso si specie, gli Stati Uniti) ad assumere rilievo quale

Stato sovrano.

2. La comunità internazionale, in buona sostanza, deve concepirsi

come una società atomistica, formata da enti (gli Stati) privi di un

apparato gerarchico posto in posizione di preminenza, in grado di

esprimere una volontà superiore a quella degli Stati stessi.

Ciò implica che le funzioni normalmente riconducibili, nell’ambito degli

ordinamenti interni, alle diverse articolazioni del suddetto apparato,

siano, nell’ordinamento internazionale, affidate agli Stati.

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Si tratta, com’è noto, della funzione legislativa (che nel diritto

internazionale è più genericamente intesa come funzione di produzione

normativa), di quella esecutiva, vale a dire di attuazione delle norme

internazionali, e di quella giudiziaria, ossia di accertamento

dell’eventuale inosservanza e di coercizione.

Si vedrà (II modulo) che gli Stati creano il diritto internazionale in forza

di comportamenti reiterati, ritenuti giuridicamente obbligatori

(consuetudini), ovvero in base all’incontro di diverse manifestazioni di

volontà (accordi).

Al contempo, agli stessi Stati, in quanto principali destinatari di tali

disposizioni, spetta il compito di darvi idonea attuazione, in forma

autonoma, ovvero, qualora gli stessi Stati si accordino in tal senso, in

forma associata o istituzionalizzata, attraverso conferenze (ad es., il G8)

ed organizzazioni internazionali.

Anche la funzione giudiziaria è esercitata in forma decentrata. Difatti,

in assenza di un apparato sovraordinato agli Stati, cui spetti il compito

di accertare l’esistenza di eventuali violazioni del diritto internazionale

(una sorta di magistratura internazionale) e, in tali casi, di obbligare i

contravventori all’osservanza delle norme violate, il rispetto del diritto

internazionale è affidato all’autotutela, come nelle società “primitive”.

Gli Stati, quando ritengano che i diritti loro derivanti dall’applicazione

di norme internazionali siano stati violati (ad es., per il mancato

rispetto dei contenuti di un accordo, o per effetto dell’intrusione di una

nave straniera nelle acque territoriali, la cui distanza dalla costa è

stabilita da una norma internazionale consuetudinaria), possono agire

direttamente per tutelare i loro interessi, attraverso l’applicazione di

contromisure.

Ciò in quanto non possono “costringere” lo Stato ritenuto responsabile

della violazione a sottoporsi al giudizio di un Tribunale internazionale (o

di qualsiasi altro organo deputato alla risoluzione delle controversie

internazionali) senza il suo consenso.

3. Il ricorso all’autotutela, che fino al 1945 era considerato pressoché

illimitato – vale a dire che poteva contemplare l’uso di qualsiasi mezzo,

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inclusa la forza armata – è stato “procedimentalizzato” con l’istituzione

delle Nazioni Unite, il cui Statuto prevede il divieto della minaccia e

dell’uso della forza (art. 2, par. 4), e l’intervento del Consiglio di

Sicurezza in tutti i casi in cui una controversia internazionale possa

dar luogo ad una minaccia o ad una violazione della pace (lezione n.

42).

Attualmente, pertanto, l’uso della forza è bandito dalle relazioni

internazionali ed è ammesso solo in caso di legittima difesa (art. 51

della Carta delle Nazioni Unite).

Gli Stati hanno l’obbligo di risolvere le loro controversie in modo

pacifico (art. 2, par. 3 della Carta delle Nazioni Unite) e, qualora si

accerti, mediante uno dei mezzi pacifici di risoluzione previsti dal diritto

internazionale o creati ad hoc dagli Stati in lite (VI modulo), l’esistenza

di una lesione di un diritto o di un interesse internazionalmente

rilevante, lo Stato leso potrà pretendere dal responsabile adeguate

forme di riparazione (VII modulo) e, in difetto, adottare idonee

contromisure, sempre di natura pacifica (sanzioni economiche,

commerciali, ecc.).

Nei casi più gravi, l’intervento del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni

Unite determina il passaggio dall’autotutela individuale a quella

collettiva, poiché in simili situazioni è l’intera comunità internazionale

(pressoché coincidente con gli Stati membri delle Nazioni Unite) a

reagire innanzi a gravi violazioni del diritto internazionale perpetrate a

danno di uno o più Stati.

4. Ulteriore corollario del principio di uguaglianza sovrana è il divieto

di ingerenza negli affari interni di uno Stato.

Ogni Stato ha diritto al rispetto del proprio dominio riservato e non

può subire indebite intromissioni da parte di altri Stati nell’esercizio

della propria sovranità.

Ciò implica, ad esempio, che talune materie (o parte di esse) siano di

stretta competenza interna degli Stati e che, al riguardo, il diritto

internazionale non possa comunque ritenersi applicabile.

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Così, ad esempio, la scelta della forma di governo spetta interamente

ad una popolazione, e/o ai suoi rappresentanti, anche quando tale

scelta sia in grado di mettere in pericolo la democrazia interna di un

paese.

In tali situazioni, la comunità internazionale non è legittimata ad

intervenire, salvi i casi di conflitto interno (guerra civile), ovvero di

massiccia e reiterata violazione dei diritti umani fondamentali

perpetrata a danno della popolazione o di parte di essa.

Parimenti, in base al principio par in parem non habet iudicium,

nessuno Stato può condurre un altro Stato innanzi ai propri Tribunali

interni allo scopo di provocarne la condanna per la violazione di norme

internazionali. Questo perché, assumendo che gli Stati sono posti in

posizione di parità rispetto all’ordinamento internazionale, nessuno di

loro è in grado di esercitare un potere di controllo sugli altri al punto da

assoggettarli alla propria giurisdizione.

Si tratta, in buona sostanza, dell’immunità di cui godono gli Stati

nell’ambito degli ordinamenti interni di altri Stati, quale effetto della

stessa configurazione orizzontale dell’ordinamento internazionale (V

modulo).

5. Anche sotto il profilo materiale, nell’ordinamento internazionale

vigono attualmente alcuni principi rilevanti.

Si è già descritto, in sintesi, nel corso della precedente lezione, il

passaggio dal diritto internazionale della coesistenza a quello della

cooperazione.

In questa fase, il sensibile incremento della cooperazione interstatale è

dovuto ad una serie di fattori, tutti collegati tra loro.

In particolare, deve essere considerata, per un verso, l’insufficienza

della dimensione interna per la risoluzione di problemi globali che il XX

secolo ha posto all’attenzione degli Stati.

La salvaguardia della pace, lo sviluppo dei popoli, la tutela

dell’ambiente, il rispetto dei diritti umani, sono temi sui quali, da alcuni

anni, gli Stati sono chiamati a confrontarsi a livello internazionale. Per

loro stessa natura, difatti, simili problemi non possono essere affrontati

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isolatamente, ma richiedono un coordinamento costante, allo scopo di

individuare soluzioni praticabili.

Oltre a constatare l’insufficienza della dimensione statale – e, quindi,

l’inadeguatezza delle norme di diritto interno, laddove non siano

sorrette da principi e regole condivise sul piano internazionale – si deve,

per altro verso, registrare il fallimento dell’approccio unilateralistico in

luogo di quello multilateralistico.

La tentazione delle grandi potenze economiche di “gestire da sé”

l’ordinamento internazionale (pur senza alterarne formalmente la

struttura) è una tendenza manifestatasi durante gli anni della cd.

guerra fredda e, dopo il crollo dei regimi comunisti, riproposta dagli

Stati Uniti durante gli anni dell’amministrazione di Gorge W. Bush,

senza alcun esito rimarchevole.

La comunità internazionale appare, invece, sempre più orientata verso

un ordine policentrico, laddove l’evoluzione del diritto internazionale

dipenderà dal concreto assetto degli interessi facenti capo ad un

numero crescente di Stati economicamente avanzati.

6. Si è detto che l’ordinamento internazionale conosce tradizionalmente

norme a carattere consuetudinario o convenzionale (pattizio), tra loro

vicendevolmente derogabili.

Tuttavia, un ulteriore elemento materiale caratterizzante le relazioni

internazionali a partire dalla seconda metà del XX secolo è l’obbligo del

rispetto di norme imperative.

Si riconosce, difatti, l’esistenza di una ristretta categoria di norme

internazionali inderogabili, di natura imperativa (cd. ius cogens), la

cui importanza risiede nella tendenza a costituzionalizzare

l’ordinamento internazionale, mediante l’introduzione di norme a tutela

dei principi e dei valori posti a fondamento delle relazioni

internazionali. Di queste si tratterà specificamente nel II modulo.

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Lezione n. 3

La soggettività internazionale dello Stato – Parte I

1. Com’è noto, la soggettività (o personalità giuridica) è la titolarità di

rapporti giuridici (diritti e obblighi) all’interno di un dato ordinamento.

Mentre del diritto interno la soggettività viene qualificata,

alternativamente, come capacità giuridica (vale a dire l’essere

destinatario di norme giuridiche) e capacità di agire (la capacità di

concludere negozi giuridici, spettante, salvo alcune eccezioni, solo ai

maggiori di età), nel diritto internazionale la nozione di soggettività

include entrambi tali aspetti: un soggetto di diritto internazionale è tale,

in quanto è destinatario di almeno una delle norme dell’ordinamento

internazionale e, al contempo, è titolare di diritti ed obblighi derivanti

dalla sua partecipazione all’ordinamento internazionale. In altre parole,

può compiere atti produttivi di effetti giuridici sul piano internazionale.

Come gli ordinamenti interni sono costituiti da individui (persone

fisiche), i quali creano enti (cd. persone giuridiche: le associazioni, le

fondazioni, le società, ecc.) ed apparati (la pubblica amministrazione), a

loro volta dotati di personalità giuridica, l’ordinamento internazionale

ha gli Stati come soggetti costituenti, i quali creano le organizzazioni

internazionali.

La soggettività internazionale degli Stati, pertanto, va intesa

propriamente come titolarità di situazioni giuridiche soggettive

all’interno di un ordinamento che gli Stati stessi hanno creato per

regolare i propri interessi.

Gli Stati, dunque, hanno istituito l’ordinamento internazionale,

all’interno del quale la soggettività piena ed originaria spetta solo a loro.

2. La qualificazione dello Stato come soggetto dell’ordinamento

internazionale non dipende dalla sussistenza di requisiti giuridici

predeterminati. Essendo gli Stati stessi a dotarsi di un ordinamento

giuridico per regolare i propri rapporti reciproci, difatti, si deve ritenere

che essi preesistano all’ordinamento internazionale.

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Pertanto, la relativa qualificazione come soggetti del diritto

internazionale rappresenta un postulato.

Nondimeno, occorre stabilire a quali condizioni uno Stato possa

effettivamente definirsi tale, affinché possa auto-attribuirsi la piena

soggettività internazionale.

Tradizionalmente, gli elementi costitutivi dello Stato vengono

individuati:

- nel popolo, inteso come la comunità di persone nativa e/o residente

sul territorio dello Stato, incluse le minoranze nazionali;

- nel governo, inteso quale apparato pubblico organizzato, in grado di

esercitare un potere di controllo effettivo sulla popolazione (la

sovranità);

- nel territorio, inteso come ambito spaziale sul quale risiede il popolo

e il governo esercita il proprio potere di controllo; esso si estende alle

acque adiacenti la costa (cd. mare territoriale) e alla colonna di spazio

aereo sovrastante i confini dello Stato.

La riscontrata compresenza di questi tre elementi consente di rilevare

l’esistenza di uno Stato e, conseguentemente, di affermarne la piena

soggettività internazionale.

3. Mentre il concetto di territorio non presenta particolari aspetti

controversi, più interessante è l’analisi degli altri due elementi.

Per quanto riguarda il popolo, la rilevanza di tale nozione entra in gioco

con riferimento al principio di autodeterminazione dei popoli, la cui

affermazione è alla base delle rivendicazioni scaturenti dal processo di

decolonizzazione.

Secondo tale principio (v. lezione n. 4), ogni popolo sottoposto a

dominazione straniera, coloniale o razzista (apartheid) ha diritto a

divenire indipendente, ossia affrancarsi dal regime occupante e

scegliere autonomamente il proprio sistema politico (cd.

autodeterminazione esterna).

Ulteriore rilievo assume la nozione di sovranità. Nel diritto

internazionale si distingue tra:

- sovranità esterna (o indipendenza), consistente nella capacità di

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instaurare rapporti giuridici con altri Stati in condizioni di parità; ciò

equivale ad affermare che uno Stato, affinché possa dirsi sovrano, non

deve dipendere in alcun modo da un altro Stato nel manifestare

liberamente la propria volontà; la sovranità esterna si caratterizza,

pertanto, come indipendenza giuridica, ossia come indipendenza

formale dell’ordinamento giuridico di uno Stato dall’influenza di altri

Stati; ciò è da escludersi in alcuni casi tipici: per i cd. governi fantoccio

(ad es., è il caso dei Bantustans, gli Stati satellite del regime

sudafricano ai tempi dell’apartheid), o per gli Stati membri di uno Stato

federale (v. lezione n. 2);

- sovranità interna (o potere di governo), consistente nell’esercizio

effettivo dell’autorità di governo (intesa nella sua accezione più ampia,

come inclusiva dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario) sul

popolo e sul territorio, senza contestazioni da parte di movimenti

insurrezionali o di liberazione nazionale che oppongano una resistenza

formale. Sul punto, la I sezione della Corte di Cassazione penale, nella

sentenza 28.6.1985, n. 1981, ha affermato: «il diritto internazionale

riconosce come Stati soltanto quegli enti che, in piena indipendenza,

esercitano il proprio potere di governo collettivo nei confronti di una

comunità stanziata su di un territorio».

4. In definitiva, lo Stato si caratterizza propriamente come un

ordinamento giuridico originario a fini generali, poiché il

fondamento della propria giuridicità risiede solo in sé stesso e la sua

personalità giuridica è piena e illimitata.

L’ordinamento internazionale, pertanto, è funzionale agli Stati nella

misura in cui assicura uno spazio giuridico “neutro”, esterno agli

ordinamenti nazionali, dove applicare regole comuni, necessarie per

disciplinare le relazioni intercorrenti tra gli Stati stessi.

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Lezione n. 4

La soggettività internazionale dello Stato – Parte II

1. Si discute da tempo in dottrina se l’esercizio di un potere di governo

effettivo (su un popolo stanziato in un determinato territorio) e

l’indipendenza giuridico-formale siano condizioni realmente sufficienti

per attestare la soggettività internazionale dello Stato, ovvero se il

diritto internazionale non richieda il possesso di ulteriori requisiti

legittimanti l’esercizio della sovranità da parte degli Stati.

Tra questi vengono in rilievo:

- Il rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli: si è già

detto che la sovranità è esercitata in modo illegittimo quando un popolo

è assoggettato ad un regime coloniale o ad un’occupazione militare

straniera, ma anche quando alla maggioranza della popolazione (nel

caso, ad esempio, di Stati che praticano l’apartheid), o ad una

minoranza etnica, linguistica o religiosa stanziata sul territorio dello

Stato è impedito sistematicamente l’accesso alle cariche pubbliche al

fine di contribuire al proprio sviluppo politico, economico, sociale e

culturale. Secondo l’Atto finale della Conferenza per la sicurezza e

la cooperazione in Europa - CSCE (Helsinki, 1975), «tutti i popoli

[hanno diritto] di stabilire in piena libertà… il loro regime politico senza

ingerenza esterna e di perseguire come desiderano il loro sviluppo».

Questo principio fondamentale del diritto internazionale, secondo

alcuni autori è oggi qualificabile come elemento costitutivo dello

Stato, accanto ai precitati popolo, governo e territorio. Ciò in quanto

uno Stato che non rispetti il principio di autodeterminazione dei popoli,

esercitando in modo illecito la propria sovranità, non potrebbe

affermare di governare legittimamente. Tuttavia, a questa tesi, un’altra

parte della dottrina internazionalistica oppone che l’applicazione di

questo principio se, da un lato, giustifica il rovesciamento del governo

illegittimo da parte del popolo oppresso, eventualmente con il sostegno

di Stati terzi, dall’altro non può incidere sull’esistenza stessa dello

Stato. Questo, pertanto, mantiene la propria soggettività internazionale

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anche se governato da un regime oppressore, almeno fintantoché detto

regime non venga spodestato. Occorre, in sostanza, avere riguardo ad

un criterio di effettività, l’unico correttamente applicabile in questi

casi.

- La tutela dei diritti fondamentali dell’uomo: parimenti, vi è chi

ritiene che la protezione dei diritti umani da parte dello Stato nei

confronti sia dei propri cittadini, sia degli stranieri, debba considerarsi

un requisito necessario per il legittimo esercizio della sovranità. Più

precisamente, un governo potrebbe dirsi legittimo solo se eletto in

maniera democratica e se in grado di assicurare le garanzie tipiche del

cd. “stato di diritto” (rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali,

revisione giudiziaria dei provvedimenti esecutivi, garanzie processuali,

ecc.). Questa situazione, tuttavia, appare attualmente valutabile solo in

abstracto, giacché non si riscontrano nella prassi elementi sufficienti

per sostenere che ad uno Stato che non offra simili garanzie debba

essere impedito il riconoscimento della soggettività internazionale.

Anche in questo caso, pertanto, deve ricorrersi all’applicazione del

criterio di effettività, per il quale anche un regime dittatoriale, finché

detenga il potere, seppure con metodi deprecabili, rappresenta lo Stato

sul piano giuridico internazionale. Nondimeno, la crescente “domanda

di democrazia” proveniente dai popoli del mondo e le reazioni opposte

dalla comunità internazionale nei casi più eclatanti di violazione dei

diritti umani si manifestano come tendenze idonee ad orientare lo

sviluppo del diritto internazionale.

2. Gli studiosi del diritto internazionale, inoltre, si sono frequentemente

interrogati sull’esigenza di stabilire a quali condizioni uno Stato di

nuova formazione possa acquisire la personalità giuridica

internazionale. Se, in altri termini, una volta riscontrata la

compresenza dei tre elementi necessari per affermare l’esistenza di uno

Stato, sia o meno necessaria l’adozione di uno o più atti ulteriori da

parte degli altri membri della comunità internazionale.

Diverse teorie si sono confrontate sul punto. Tutte muovono da un

punto di partenza comune, secondo cui uno Stato di nuova formazione,

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affinché possa instaurare rapporti giuridici internazionali con gli altri

Stati appartenenti alla comunità internazionale deve essere da questi

riconosciuto.

In termini generali, il riconoscimento è un atto giuridico unilaterale

(v. lezione n. 12) mediante il quale uno Stato considera giuridicamente

rilevanti nei propri confronti i mutamenti intervenuti nell’ambito delle

relazioni internazionali in occasione del verificarsi di una data

situazione (di diritto o di fatto) riguardante un altro Stato.

In specie, il riconoscimento di un nuovo Stato è la dichiarazione

unilaterale di accettazione dell’esistenza di uno Stato di nuova

formazione, generalmente implicante l’instaurazione di relazioni

diplomatiche con il medesimo.

Secondo la risoluzione adottata nel 1936 dall’Institut de Droit

International, il riconoscimento di un nuovo Stato «è l’atto libero

attraverso il quale uno o più Stati constatano l’esistenza su di un

determinato territorio di una società umana politicamente organizzata,

indipendente da ogni altro Stato esistente, in grado di osservare le

prescrizioni del diritto internazionale, e manifestano di conseguenza la

loro volontà di considerarla membro della comunità internazionale. Il

riconoscimento ha un effetto dichiarativo. L’esistenza del nuovo Stato,

con tutti gli effetti giuridici che si ricollegano a tale esistenza, non è

influenzata dal rifiuto di uno o più Stati di riconoscerlo».

3. Dalle definizioni sin qui riportate si comprende come lo Stato,

qualora presenti le caratteristiche in precedenza descritte (i suoi

elementi costitutivi), è già parte della comunità internazionale e,

pertanto, è già titolare della personalità giuridica internazionale.

Il riconoscimento del nuovo Stato da parte di uno o più Stati già

appartenenti alla società internazionale non serve, quindi, ad attribuire

al primo la soggettività internazionale, ma semplicemente a dare avvio

alle relazioni diplomatiche inter partes, creando nello Stato destinatario

del riconoscimento una legittima aspettativa circa la possibilità di

instaurare con gli Stati da cui proviene il riconoscimento rapporti

giuridici internazionali.

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In altre parole, la comunità internazionale non è un “club” di Stati cui

occorre essere ammessi mediante una procedura più o meno formale

(necessaria, invece, per entrare a far parte di alcune organizzazioni

internazionali); l’appartenenza alla comunità internazionale è bensì un

fatto automatico, immanente all’esistenza dello Stato.

Si afferma, quindi, che il riconoscimento di un nuovo Stato ha natura

giuridica dichiarativa e non costitutiva, dal momento che, con esso, si

accerta una situazione preesistente (la formazione di uno Stato), ma

non si attribuisce alcuna particolare qualità giuridica allo Stato

riconosciuto.

In definitiva, uno Stato non è tale per il diritto internazionale perché

viene riconosciuto da uno o più altri Stati. In questo caso, il

riconoscimento avrebbe valore costitutivo.

Al contrario, il riconoscimento di un nuovo Stato sul piano

internazionale ha un valore meramente dichiarativo (di accertamento),

nel senso che vale ad attestare la volontà dello Stato da cui proviene di

avviare relazioni giuridiche e diplomatiche con un altro ente che, in

precedenza, non era considerato parte della comunità internazionale.

4. Secondo la dottrina, nella grande maggioranza dei casi, il

riconoscimento di un nuovo Stato ha un valore eminentemente

politico, poiché esso ricade interamente nella sfera di discrezionalità

dello Stato agente e non esiste alcuna norma internazionale che

obblighi uno Stato a riconoscerne un altro.

Tradizionalmente, in effetti, la scelta di riconoscere o meno un nuovo

Stato (ad esempio, formatosi in seguito ad un conflitto armato) ha

coinciso con l’adozione di posizioni politiche favorevoli o contrarie da

parte degli Stati terzi.

In altri termini, il riconoscimento, o il mancato riconoscimento, di uno

Stato di nuova formazione sono spesso stati utilizzati dagli Stati come

strumenti di politica internazionale.

Si è infatti evitato di riconoscere Stati di nuova formazione, che

certamente erano dotati di personalità giuridica internazionale, al fine

di rimarcare il dissenso politico nei confronti dei rispettivi regimi e la

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volontà di non collaborare con essi (ad es., gli Stati Uniti nei confronti

della Repubblica popolare cinese).

Parimenti, si è provveduto a riconoscere Stati non guidati da un

governo indipendente, al fine di favorire la politica di collaborazione

internazionale con gli Stati da cui essi dipendevano (ad es., la

Bielorussia e l’Ucraina, ammesse alle N.U. per favorire la distensione

con l’U.R.S.S. da cui o da cui erano controllati).

19

Lezione n. 5

Gli altri soggetti del diritto internazionale – Parte I

1. Oltre agli Stati, che, come detto, sono i principali attori

internazionali, nell’ambito dell’ordinamento internazionale agiscono

altri enti dotati di personalità giuridica, sia pur limitata alla titolarità di

rapporti specifici.

Peraltro, la qualificazione di tali enti come soggetti internazionali non è

pacifica, poiché la dottrina non è sempre concorde sulle caratteristiche

rilevanti ai fini dell’attribuzione della soggettività.

Si esclude, ad esempio, che i popoli, intesi come comunità di persone

caratterizzate dall’appartenenza alla medesima etnia, religione, o

tradizione storico-giuridica, possano essere considerati a rigore soggetti

del diritto internazionale. Questo poiché, pur essendo astrattamente

titolari del diritto all’autodeterminazione, non sono in grado di

esercitare tale diritto se non attraverso la costituzione di forme di

rappresentanza strutturate.

Si ritiene, quindi, che i popoli non presentino un rilievo soggettivo

autonomo sul piano internazionale, ma che sia solo lo Stato a

qualificarli giuridicamente, nel momento in cui essi si costituiscano in

forma organizzata, dotandosi di un governo in grado di esercitare un

adeguato potere di controllo.

D’altra parte, ai fini del diritto internazionale, non rileva se detto

governo sia più o meno rappresentativo delle istanze provenienti dal

popolo, poiché – come rilevato in precedenza (lezioni nn. 3 e 4) – occorre

avere riguardo esclusivamente ad un criterio di effettività: in sintesi,

affinché il diritto internazionale riconosca uno Stato-nazione come

membro della comunità internazionale, in linea di principio non rileva

se esso rappresenti democraticamente i suoi cittadini (i governati), ma

solamente che abbia la capacità di esercitare, senza limiti o ostacoli

formali, la propria sovranità su di essi.

20

2. Diversamente, sono considerati soggetti del diritto internazionale, sia

pure limitatamente alla titolarità di alcuni rapporti giuridici (vale a dire

che solo alcune norme giuridiche internazionali sono applicabili nei loro

confronti) taluni enti o organizzazioni collettive, rispetto ai quali le

regole del diritto internazionale incontrano un’applicazione particolare,

tenuto conto delle finalità da essi perseguite.

Sono riconducibili a tale nozione i cd. movimenti di liberazione

nazionale, rappresentativi delle istanze di autodeterminazione di un

popolo (o di una minoranza) nei confronti di un regime occupante

straniero, coloniale o razzista.

A titolo di esempio, possono menzionarsi il Fronte Polisario, che si

auto qualifica come ente rappresentativo dei popoli del Sahara

Occidentale, in costante opposizione con il Marocco per il controllo di

detta zona, e l’OLP (Organizzazione per la liberazione della Palestina).

Va detto, tuttavia, che, finché non siano in grado di esercitare un

controllo effettivo su una porzione di territorio e su una parte della

popolazione sotto la direzione di un comando responsabile, tali

movimenti non possono essere considerati pienamente titolari di

rapporti giuridici internazionali. Alcuni di essi godono dello status di

osservatore presso alcune organizzazioni internazionali (al fine di poter

discutere nelle sedi opportune, insieme agli Stati, i temi e le istanze di

cui si fanno portatori: si pensi all’OLP) e di limitati privilegi.

Fintantoché un Movimento di Liberazione Nazionale si limita a

manifestare la propria contrarietà all’ordine pubblico imposto dal

governo in carica, senza avviare azioni concrete, esso non ha alcun

rilievo sul piano internazionale. Quando, invece, il Movimento riesce a

conquistare una porzione di territorio e ad ottenere il sostegno di

almeno una parte della popolazione nella sua iniziativa, deve essergli

riconosciuto un principio di soggettività internazionale, in ragione del

fatto che detto Movimento, in nome e per conto delle persone (il popolo

o parte di esso, una minoranza, ecc.) che rappresenta, diventa titolare

di alcuni diritti ed obblighi di diritto internazionale.

Così, il I Protocollo addizionale (del 1977) alle quattro Convenzioni di

Ginevra sul diritto umanitario del 1949, relativo ai conflitti armati

21

diversi da quelli internazionali, si applica anche «ai conflitti armati nei

quali i popoli lottano contro il dominio coloniale e l’occupazione straniera

e contro i regimi razzisti...» (art. 1, par. 4).

Il Protocollo consente all’autorità rappresentativa del popolo,

nell’ambito di un conflitto contro uno Stato che sia parte dell’accordo,

di impegnarsi unilateralmente a rispettare il diritto umanitario (art. 96,

par. 3).

Tale impegno parifica la posizione del movimento in lotta a quella delle

altre parti contraenti, con riferimento ai diritti e agli obblighi derivanti

dalle quattro Convenzioni.

3. Un discorso analogo vale per gli insorti, che si possono definire come

un gruppo organizzato di individui, animato da fini politici di natura

indipendentista, in lotta con lo Stato centrale nell’ambito di una

guerra civile.

A differenza dei movimenti di liberazione nazionale, costoro non

rivendicano il diritto all’autodeterminazione, ma si oppongono ad un

governo astrattamente legittimo, al fine di rovesciarlo o di sottrargli

parte del territorio.

La titolarità di rapporti giuridici internazionali in capo agli insorti è,

comunque, subordinata all’esercizio di un controllo esclusivo su parte

del territorio e all’esistenza di un comando responsabile.

Anche gli insorti sono titolari di taluni diritti e obblighi sanciti dalle

Convenzioni di Ginevra sul diritto umanitario del 1949 e dal I I

Protocollo addizionale (del 1977).

In particolare, quest’ultimo accordo trova applicazione nei conflitti

armati diversi da quelli internazionali «che si svolgono sul territorio di

una Alta Parte Contraente tra le sue forze armate e delle forze armate

dissidenti o dei gruppi armati organizzati che, sotto la guida di un

comando responsabile, ersercitano su di una parte del suo territorio un

controllo tale da permettere loro di condurre delle operazioni militari

continue e concertate...» (art. 1, par. 1).

In definitiva, sia i MLN, sia gli insorti, affinché si possa affermarne la

rilevanza sul piano internazionale, devono assumere una

22

configurazione strutturata, e ciò vale con riferimento al profilo della

rappresentatività di (almeno) una parte della popolazione, ma

soprattutto all’istituzione di un apparato, dotato di poteri decisori in

grado di vincolare tutti i soggetti rappresentati.

Entrambi tali fenomeni, peraltro, si caratterizzano per la loro

temporaneità: MLN e insorti, infatti, qualora lo loro azione risulti

vittoriosa, sono destinati ad affermarsi come nuovi Stati indipendenti.

In caso contrario, si riproporrà la situazione di partenza con la

riconquista del potere da parte del governo centrale.

4. In senso opposto, non possono ritenersi titolari di rapporti giuridici

internazionali i cd. governi in esilio, autorità di governo solo

formalmente legittime, costrette a rifugiarsi sul territorio di un altro

Stato in conseguenza di un’invasione nemica o di un conflitto interno.

Si esclude, difatti, che essi, pur essendo costituiti in forma di apparato

organizzato, possano godere della personalità giuridica internazionale,

in assenza di un controllo effettivo sul territorio dal quale sono stati

costretti ad allontanarsi e su quello dello Stato ospitante.

Si fa ricorso, anche in questo caso, all’applicazione del criterio di

effettività: data l’impossibilità concreta di esercitare la loro autorità sul

popolo, in quel momento governato da un altro comando (per via di

un’insurrezione, o di un’occupazione straniera), il legittimo governo in

esilio non può rappresentare altri che se stesso.

Alcuni autori, tuttavia, ritengono che anche ai governi in esilio – per

l’importanza del loro ruolo, almeno durante tutto il periodo in cui la

sovranità dello Stato rimanga contesa – debbano essere riconosciute

alcune prerogative e un principio di soggettività internazionale.

23

Lezione n. 6

Gli altri soggetti del diritto internazionale – Parte II

1. Ad altri enti, per le loro caratteristiche, è riconosciuta la personalità

giuridica internazionale.

Si tratta della Santa Sede, suprema autorità di governo della Chiesa

Cattolica ed ente successore dello Stato pontificio dopo la debellatio del

1870), espressione di un ordinamento giuridico originario e sovrano (il

diritto canonico).

Ad essa il diritto internazionale riconosce la qualifica di soggetto

giuridico, dal momento che la Santa Sede è titolare di determinati

rapporti internazionali, in conformità alla sua natura e all’assolvimento

della sua missione religiosa.

In particolare, spettano alla Santa Sede lo ius contrahendi, cioè il

diritto di stipulare accordi internazionali (le relazioni giuridiche con

l’Italia sono regolate, infatti, sulla base di accordi internazionali: i Patti

Lateranensi del 1929 e il nuovo Concordato del 1984) e il diritto di

legazione attiva e passiva, ossia la capacità di ricevere ed inviare

ambasciatori (cd. Nunzi Apostolici) presso Stati stranieri, inclusa

l’Italia.

In buona sostanza, la Santa Sede può essere considerata un vero e

proprio apparato di governo, cui spetta (anche) il compimento di

attività di rilievo internazionale funzionali al perseguimento della

missione evangelica della Chiesa cattolica nel mondo, attraverso le sue

istituzioni di carattere religioso, giuridico, economico-sociale.

2. Si discute, invece, se il Sovrano Militare Ordine di Malta, Ordine

religioso approvato dalla Santa Sede, creato intorno al XIV secolo per

fini religiosi, caritativi e assistenziali, possa correttamente qualificarsi

come soggetto internazionale.

In passato, difatti, l’Ordine ha esercitato una vera e propria sovranità

territoriale sulle isole di Rodi e Malta (definitivamente persa nel XVIII

secolo), ma, dopo aver trasferito la sua sede a Roma, il riconoscimento

24

di prerogative internazionali nei suoi confronti è sempre rimasto

funzionalmente limitato.

Tuttavia, il riconoscimento della personalità internazionale al SMOM

appare giustificato dall’esigenza di garantire un più efficace

perseguimento dei suoi fini, in quanto considerati essenziali dalla

comunità internazionale.

L’Ordine di Malta non è titolare di un’indipendenza effettiva, ma

intrattiene rapporti diplomatici con molti Stati europei e ha concluso

alcuni accordi bilaterali in materia di assistenza ospedaliera. I suoi

esponenti più rappresentativi godono, in base alle relazioni bilaterali

instaurate con diversi paesi, di alcuni privilegi e immunità.

In particolare, l’Italia ha concesso all’Ordine e ai suoi membri taluni

benefici personali, territoriali e patrimoniali sulla base di uno scambio

di note stipulato nel 1960.

Taluni sostengono si tratti di un mero atto di cortesia da parte dello

Stato italiano, o comunque di una manifestazione unilaterale di volontà

attributiva di talune prerogative sovrane, in omaggio all’importante

funzione sociale svolta dall’Ordine. Secondo altri, invece, tali

riconoscimenti sono dovuti in forza della personalità giuridica

internazionale propria dell’Ente.

3. Un ragionamento completamente diverso riguarda, invece,

l’attribuzione della personalità giuridica internazionale alle

organizzazioni internazionali.

Come già ricordato, le organizzazioni internazionali sono enti istituiti

dagli Stati mediante un accordo internazionale attributivo di

personalità giuridica (cd. atto istitutivo, o statuto). Questa, tuttavia, è

strettamente connessa e limitata all’assolvimento delle funzioni stabilite

dall’accordo istitutivo. Si parla, al riguardo, di competenze di

attribuzioni, per distinguere la soggettività internazionale delle

organizzazioni da quella degli Stati.

A differenza degli Stati, difatti, le organizzazioni non sono dotate di

competenze generali, ma sono governate dal cd. “principio di

specialità”: ad esse, pertanto, sono attribuiti, dagli Stati che le

25

istituiscono, solo quei poteri necessari al perseguimento dei fini e degli

interessi che gli Stati stessi hanno indicato nello statuto (fini ed

interessi che possono anche essere modificati nel tempo, purché nel

rispetto del procedimento previsto dallo statuto e cioè, generalmente

attraverso un nuovo accordo).

Ciò significa, in sintesi, che le organizzazioni internazionali potranno

compiere atti produttivi di effetti giuridici, stipulare accordi, ecc. solo

nei limiti delle competenze attribuite dallo statuto, mentre ogni attività

ulteriore – che esuli, cioè, da tali attribuzioni – è affetta da nullità, per

incompetenza.

Così, l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) può emanare

direttive in materia sanitaria (ad es., per prevenire pandemie)

obbligatorie per gli Stati, ma non può adottare atti in materia di

commercio internazionale. Al contrario, l’Organizzazione mondiale del

commercio (OMC) non può interessarsi di regolamenti sanitari, ma

solo di materie riconducibili alle proprie competenze statutarie.

Le organizzazioni internazionali vanno distinte dalle cd. unioni di Stati

(un fenomeno ormai tendenzialmente superato), che hanno carattere

temporaneo, non istituzionale e non possono manifestare una volontà

propria, diversa da quella degli Stati che le hanno create.

Le organizzazioni internazionali invece, in base alle competenze e ai

poteri conferiti dagli Stati membri, desumibili dallo statuto, possono

manifestare una volontà diversa, finanche opposta a quella degli Stati

che le hanno istituite. Sono, in estrema sintesi, centri autonomi di

imputazione giuridica, al pari dei loro Stati membri.

La volontà dell’organizzazione, difatti, che si esprime nelle forme e nei

limiti stabiliti dallo Statuto, può produrre effetti nella sfera giuridica

degli Stati membri, al punto da incidere sull’esercizio dei loro stessi

diritti.

L’ampiezza di tali effetti dipende dalle limitazioni di sovranità che gli

Stati hanno inteso accettare al momento della ratifica (o dell’adesione)

dello Statuto dell’organizzazione.

Così, ad es., l’adesione alle Nazioni Unite implica per gli Stati membri la

soggezione alle misure del Consiglio di sicurezza, anche quando queste

26

siano dirette a imporre sanzioni economiche, ovvero ad autorizzare nei

loro confronti l’uso della forza, in uno dei casi previsti dall’art. 39 della

Carta.

Per tutte le ragioni suindicate, si ritiene che le organizzazioni

internazionali siano a tutti gli effetti soggetti del diritto internazionale,

sebbene con caratteristiche diverse dagli Stati che le istituiscono.

Le organizzazioni internazionali sono dotate di una o più sedi, di un

apparato amministrativo stabile e di organi propri. Come anticipato,

possono concludere accordi nelle materie di loro competenza e, se

espressamente previsto, emanare atti giuridici vincolanti per gli Stati

membri.

Sotto il profilo strutturale, esse presentano, generalmente, almeno tre

organi principali:

- un’assemblea di carattere plenario che prevede la partecipazione di

tutti i gli Stati appartenenti all’Organizzazione;

- un organo a composizione ristretta, di natura esecutiva;

- un segretariato, con funzioni amministrative.

4. Le organizzazioni internazionali sono anche definite organizzazioni

intergovernative, per distinguerle dalle organizzazioni internazionali

non governative (ONG). Con tale espressione si indicano, invece,

alcuni enti operanti contestualmente in alcuni ordinamenti giuridici

nazionali, con varie finalità (tutela dei diritti umani, protezione

dell’ambiente, promozione dello sviluppo, ecc.).

Le ONG non hanno soggettività internazionale, perché i loro rapporti

sono regolati sulla base del diritto interno degli Stati in cui esse

operano. Tuttavia, a determinate condizioni, possono godere di

particolari privilegi, come il riconoscimento dello status di osservatore

presso alcune organizzazioni internazionali, la partecipazione a

negoziati con poteri consultivi, o la presentazione di ricorsi innanzi ad

organi giurisdizionali internazionali.

27

5. Anche gli individui , tradizionalmente privi di soggettività

internazionale, sono attualmente ritenuti titolari di rapporti giuridici

determinati. L’ordinamento internazionale, difatti, riconosce loro alcune

prerogative, imponendo agli Stati di tutelare i diritti umani

fondamentali, mentre, in senso opposto, ammette la rilevanza di

alcune condotte criminali individuali, considerate contrarie ai valori

della comunità internazionale e, in quanto tali, perseguibili sul piano

giudiziario (v. lezione n. 35).

Il riconoscimento della personalità giuridica internazionale agli

individui è un tema molto dibattuto in dottrina. Pur non potendosi

affermare che le persone fisiche godano di rilievo autonomo

nell’ordinamento internazionale, è innegabile che anche tale

ordinamento prenda ormai in considerazione rapporti giuridici la cui

titolarità spetta direttamente agli individui.

6. Le imprese multinazionali sono espressione della crescente

globalizzazione economica. Non hanno personalità giuridica

internazionale, ma, in alcuni casi, sono destinatarie di obblighi (e delle

corrispondenti sanzioni per le ipotesi di violazione), aventi ad oggetto il

rispetto di misure adottate dalle organizzazioni internazionali per il

raggiungimento di scopi determinati (ad es., misure di embargo

economico imposte dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite a

norma dell’art. 41 della Carta).

28

II modulo

Il sistema delle fonti del diritto internazionale

Lezione n. 7

Le fonti di natura consuetudinaria – Parte I

1. Come anticipato trattando dei caratteri generali dell’ordinamento

internazionale, in questo sistema giuridico l’attività di produzione

normativa spetta, in via originaria, agli Stati.

Gli Stati, quindi, sono al contempo creatori e destinatari delle norme

giuridiche internazionali.

Essi si sono dotati, nel tempo, delle regole ritenute necessarie per

disciplinare compiutamente i loro rapporti giuridici e, quindi, per far

“funzionare” correttamente la comunità internazionale.

Si è anche detto che, in una società di enti superiorem non

recognoscentes, com’è quella internazionale, non è individuabile alcun

centro di produzione giuridica, situato in posizione sovraordinata ai

componenti di detta società, cui spetti di legiferare in maniera

autonoma.

La funzione normativa, pertanto, è esercitata in forma decentrata, nel

senso che spetta a tutti gli Stati e solo ad essi, sebbene possa essere

delegata, a condizioni determinate, ad altri enti (le organizzazioni

internazionali). Tuttavia, in questo caso, le norme prodotte da

un’organizzazione in forza del potere ad essa conferito dagli Stati che

l’hanno istituita sono efficaci esclusivamente per tali Stati e non per gli

altri. Vige, cioè, il principio volontaristico, di cui si tratterà nel

prossimo modulo.

2. Diverse teorie hanno inteso stabilire il fondamento del diritto

internazionale, di volta in volta individuandolo:

- nel diritto naturale (Grozio, Gentili, Pufendorf, Moser);

- nella volontà collettiva degli Stati (Austin, Triepel, Anzilotti);

29

- nell’esistenza di un postulato indimostrabile, assunto come norma-

base (grundnorm) dell’ordinamento (Kelsen, Morelli).

La teoria kelseniana (cd. teoria pura del diritto), in considerazione del

suo rigore logico e della sua giustificabilità sul piano razionale, è

certamente quella che ha riscosso maggiore successo in epoche

successive, sebbene non sia rimasta esente da critiche.

Essa, come sinteticamente anticipato, si fonda sull’esistenza di un

postulato – cioè un’affermazione priva di riscontro sul piano logico-

giuridico e, quindi, indimostrabile – che l’ordinamento giuridico assume

come sua norma-base, da cui traggono giuridicità (vale a dire efficacia

giuridica) tutte le altre norme dell’ordinamento.

Secondo Kelsen, la norma-base dell’ordinamento internazionale è il

precetto consuetudo est servanda (le consuetudini devono essere

rispettate), che garantisce il funzionamento di tutto l’ordinamento

internazionale, poiché attribuisce efficacia giuridica a tutte le norme

consuetudinarie dell’ordinamento internazionale. Queste, pertanto,

sono ritenute obbligatorie dagli Stati, non in conseguenza di una

manifestazione di volontà conforme al contenuto della norma, ma

perché esiste un precetto superiore (la norma-base appunto) che gli

Stati hanno accettato e al quale sono formalmente vincolati.

In altre parole, l’obbligo di rispettare le norme consuetudinarie discende

non dalla mera volontà degli Stati di “autovincolarsi” a tali regole, ma

dall’obbligo di rispettare la norma – assunta come postulato – che

conferisce alle predette regole efficacia giuridica.

La norma consuetudo est servanda, pertanto, è definita come fonte

sulla produzione di primo grado, in quanto attribuisce natura

giuridica (obbligatoria) a tutte le fonti di primo grado (o fonti primarie)

del diritto internazionale, vale a dire a tutte le fonti consuetudinarie.

Attualmente, peraltro, la scienza giuridica ha in gran parte

abbandonato il problema del fondamento del diritto internazionale,

rivolgendo la propria attenzione al diverso problema dell’accertamento

dell’esistenza delle sue norme primarie (Ago, Barile, Giuliano).

30

3. Le fonti consuetudinarie del diritto internazionale presentano le

seguenti caratteristiche:

- hanno natura generale: esse sono create con il contributo di tutti gli

Stati appartenenti alla comunità internazionale e sono, perciò,

obbligatorie per tutti allo stesso modo;

- sono fonti pr imar ie : non esiste, difatti, nell’ordinamento

internazionale una categoria di fonti di rango superiore;

- hanno origine spontanea: la loro produzione non è regolata da un

procedimento formalizzato, ma è frutto della combinazione di due

elementi – l’uno oggettivo, l’altro soggettivo – in misura variabile e non

mai predeterminata.

In buona sostanza, le fonti consuetudinarie sono quelle su cui

l’ordimanento internazionale si è costruito. Le norme, cioè, create ed

applicate dagli Stati per disciplinare le loro prime forme di relazione

giuridica.

4. Si è detto che la formazione di una norma consuetudinaria è basata

sulla combinazione di due elementi, l’uno oggettivo, l’altro soggettivo.

Più precisamente:

- l’elemento oggettivo è rappresentato dalla ripetizione costante nel

tempo di una condotta giuridicamente rilevante (cd. diuturnitas);

- l’elemento soggettivo è rappresentato, invece, dalla convinzione che

tale condotta sia conforme all’adempimento di un obbligo o

all’esercizio di un diritto (cd. opinio iuris sive necessitatis).

Sicché, gli Stati creano norme consuetudinarie attraverso una prassi

comune a tutti i membri della comunità internazionale; prassi che è

assistita dal convincimento della sua obbligatorietà e, quindi, riflette

l’esecuzione di una norma giuridica, anziché una mera convenzione

sociale (cd. comitas).

In definitiva, l’esistenza di una consuetudine si desume da un

comportamento (degli Stati) conforme al rispetto di una norma

giuridica. Paradossalmente, tuttavia, tale norma, nella fase della sua

formazione, ancora non esiste giuridicamente, sebbene gli Stati che la

applicano siano convinti della sua obbligatorietà.

31

Alcuni studiosi hanno, quindi, giustamente fatto notare che le

consuetudini sono frutto di un… errore, dal momento che esse vengono

osservat prima ancora che siano norme vere e proprie. Pertanto, il

convincimento degli Stati circa la loro obbligatorietà anticipa l’esito

finale.

D’altro canto, è solo da tale “errore” che le consuetudini possono

scaturire. Una prassi generale non assistita dall’opinio iuris ricade

nell’ambito dei comportamenti di mera cortesia (la predetta comitas),

mentre la sola opinio iuris, alla quale non fa seguito una prassi

conforme, non è mai in grado di dare vita ad una norma internazionale

consuetudinaria.

5. È evidente, peraltro, che non si può mai essere sicuri dell’avvenuta

formazione di una norma consuetudinaria fino a quando non si può

accertare la compresenza dei due elementi suindicati.

Ciò significa che detti elementi – che insieme costituiscono una norma

consuetudinaria – sono rilevabili dagli interpreti solo a posteriori, vale

a dire quando la norma in questione si è già formata e, pertanto, è

vigente all’interno dell’ordinamento internazionale.

L’opinio iuris e la diuturnitas sono, quindi, elementi costitutivi delle

norme consuetudinarie, ma la loro compresenza – indispensabile per la

formazione di una norma consuetudinaria – può essere rilevata con

certezza solo dopo che la norma è già operativa.

In particolare, l’accertamento dell’opinio iuris degli Stati è affidato ad

una serie di elementi indicatori:

- la cd. prassi diplomatica degli Stati, vale a dire tutte le note, le

dichiarazioni e le comunicazioni attestanti l’interpretazione soggettiva

di uno Stato sovrano circa una data questione giuridica;

- le dichiarazioni di principi adottate nell’ambito di conferenze

internazionali o da organizzazioni internazionali a carattere universale

(cd. soft law), che normalmente riflettono il parere degli Stati circa la

giusta condotta da osservare in determinate situazioni (ad es., la

Dichiarazione di Rio de Janeiro sull’ambiente e lo sviluppo, recante i

principi fondamentale del diritto internazionale dell’ambiente);

32

- la giurisprudenza internazionale: le sentenze e i pareri degli organi

giurisdizionali internazionali chiamati a giudicare di una determinata

questione hanno valore ricognitivo delle norme di diritto internazionale

generale applicabili alla questione;

- (in certi casi e a determinate condizioni) l’esistenza di accordi

internazionali in materia: taluni accordi (cd. di codificazione, v.

lezione n. 9) riflettono l’esistenza di norme consuetudinarie

corrispondenti.

33

Lezione n. 8

Le fonti di natura consuetudinaria – Parte II

1. Anche l’accertamento della diuturnitas, apparentemente più

agevole, può presentare alcune difficoltà. Difatti, non può essere

stabilito a priori il tempo minimo necessario per la formazione di una

norma consuetudinaria.

Alcune norme consuetudinarie hanno richiesto diversi anni per la loro

formazione, per via del perdurante contrasto tra gli Stati circa le

modalità della loro applicazione.

Altre, invece, si sono formate molto più rapidamente, in conseguenza

dell’elevato numero di Stati che, sin dall’inizio, hanno adottato una

prassi conforme alla relativa applicazione.

2. L’unica “regola” applicabile per accertare l’esistenza dell’elemento

oggettivo di una consuetudine, pertanto, è quella secondo cui il tempo

necessario alla formazione di una norma consuetudinaria è

inversamente proporzionale al numero di Stati che sin dall’origine la

osservino.

In altre parole, tanto maggiore è il numero di Stati che rispettano una

nuova norma consuetudinaria, tanto minore sarà il tempo occorrente

per la sua formazione.

Si ammette, così, anche l’esistenza di consuetudini istantanee, come,

ad esempio, quella che ha ad oggetto l’estensione della sovranità statale

sulla colonna di spazio atmosferico sovrastante il territorio: in questo

caso, l’esigenza di estendere la sovranità statale anche allo spazio

atmosferico si è resa indifferibile nel momento in cui detto spazio è

divenuto concretamente utilizzabile, per via del transito di aeromobili. A

partire da quel momento, gli Stati ne hanno rivendicato

immediatamente l’appartenenza. In consenguenza di tale

rivendicazione, si è formata istantaneamente una norma

consuetudinaria internazionale dal contenuto corrispondente.

34

Secondo la Corte internazionale di giustizia (sentenza sulla

Piattaforma continentale del Mare del Nord, del 1969), «...il fatto che

sia trascorso solo un breve periodo di tempo non costituisce

necessariamente in sé un impedimento alla formazione di una nuova

regola di diritto internazionale consuetudinario sulla base di una regola

puramente convenzionale all’origine».

3. Si comprende, in definitiva, che, ai fini dell’accertamento

dell’elemento oggettivo della consuetudine, è necessario il più ampio

consenso di Stati, la cui condotta rifletta l’osservanza della norma.

Uno Stato che rispetti una consuetudine nella fase della sua formazione

e in seguito si rifiuti di applicarla compie un illecito internazionale (v.

Modulo VII), poiché la sua condotta è contraria al diritto internazionale

vigente.

Si definisce, invece, obiettore persistente (o permanente) lo Stato

che, sin dalla fase di formazione di una norma consuetudinaria – vale a

dire quando questa non è ancora una norma internzionale – si rifiuti di

adempiere alla condotta in essa prescritta.

Il diritto internazionale classico, pur non legittimando giuridicamente

tale rifiuto, tollerava la posizione dello Stato obiettore (si veda la

sentenza della Corte internazionale di giustizia sul caso delle Peschiere

anglo-norvegesi , del 1951). In buona sostanza la condotta

dell’obiettore persistente non è legittima secondo il diritto

internazionale, poiché detto Stato si rifiuta, comunque, di rispettare il

diritto vigente. Tuttavia, in considerazione della sua coerenza nel

rifiutare di conformarsi ad una determinata prassi sin dall’origine, tale

condotta è valutata con un diverso metro di giudizio.

Oggi l’importanza di tale fenomeno si è fortemente ridimensionata,

poiché l’elevato grado di sviluppo delle relazioni internazionali non

consente agli Stati, specie a quelli politicamente meno forti, di obiettare

in modo formale innanzi alla formazione di una consuetudine.

35

4. Il diritto internazionale ammette, infine, anche la formazione di

consuetudini a carattere locale o particolare, vigenti, cioè, solo tra

alcuni Stati, anziché per l’intera comunità internazionale.

Esse sono applicabili nei rapporti giuridici intercorrenti tra gli Stati

interessati, a condizione che chi le invoca fornisca prova certa della loro

esistenza.

Si tratta, in sostanza, di un regime derogatorio di una consuetudine

generale, valevole solo per un ristretto gruppo di Stati, in

considerazione di particolari tradizioni o usi locali.

È evidente che l’ammissibilità, sul piano giuridico internazionale, delle

consuetudini particolari non può servire come alibi agli Stati per

sottrarsi all’osservanza delle consuetudini generali. Perciò, chi ne

invoca l’applicazione ad uno o più rapporti giuridici determinati, ha

l’onere di dimostrare che anche lo Stato (o gli Stati) parte di quel (o

quei) rapporto è tenuto a rispettare tale consuetudine particolare, in

luogo di quella generale.

36

Lezione n. 9

La codificazione del diritto internazionale generale

1. Oltre alle norme generali del diritto internazionale, un’ulteriore

categoria di fonti deve essere presa in considerazione. Si tratta delle

norme particolari di diritto internazionale, che traggono origine

dalla volontà degli Stati di regolare autonomamente i loro interessi

reciproci mediante la stipulazione di accordi.

Secondo la ricostruzione Kelseniana in precedenza accennata, questa

categoria di fonti si pone ad un livello inferiore della precedente, perché

trae la sua giuridicità dalla prima.

Così, se le fonti di natura consuetudinaria (generale) sono classificate

come fonti di primo grado, perché traggono la loro giuridicità dalla

norma-base consuetudo est servanda, le fonti di natura pattizia o

convenzionale (vale a dire, quelle derivanti dalla stipulazione di

accordi internazionali) devono classificarsi come fonti di secondo

grado, perché traggono la loro giuridicità da una norma di primo grado

e, precisamente, la norma consuetudinaria pacta sunt servanda (gli

accordi devono essere rispettati).

Quest’ultima norma, pertanto, assume un carattere di fonte sulla

produzione di secondo grado, poiché conferisce legittimità ed efficacia

giuridica a tutti gli accordi internazionali stipulati tra gli Stati della

comunità internazionale.

2. Prima di analizzare nel dettaglio le modalità di formazione degli

accordi internazionali (Modulo III), che negli ultimi decenni sono

divenuti la fonte giuridica internazionale più importante, è necessario

soffermarsi sui rapporti intercorrenti tra le fonti di natura

consuetudinaria e quelle di natura pattizia, al fine di comprendere

quale delle due categorie prevalga sull’altra in caso di reciproco

contrasto ed in che modo.

37

Si è detto che le norme generali sono fonti di primo grado applicabili

alla generalità dei rapporti internazionali; vincolanti, cioè, per tutti i

soggetti appartenenti alla comunità internazionale.

Al contrario, le norme particolari sono fonti di secondo grado – perciò

formalmente subordinate alle prime – vincolanti solo per gli Stati parti

dell’accordo. Esse, difatti, non possono produrre effetti nei confronti

degli Stati terzi, dal momento che non avrebbe alcun senso logico, e

tantomeno sarebbe giustificabile sul piano giuridico razionale, obbligare

uno Stato a rispettare il contenuto di un accordo al quale esso non

ritenga volontariamente di prendere parte.

La norma pacta sunt servanda, pertanto, deve essere intesa nel senso

che tutti gli Stati sono tenuti a rispettare gli accordi che abbiano

liberamente stipulato e non anche quelli a cui non abbiano partecipato.

Tale regola fondamentale è riassunta nel brocardo latino pacta tertiis

nec nocent nec prosunt (gli accordi non possono giovare o recare

danno – cioè produrre effetti positivi o negativi – nei confronti degli Stati

terzi).

3. Senonché, nel diritto interno – vale a dire negli ordinamenti giuridici

nazionali – le fonti di primo grado (le leggi) prevalgono sempre su quelle

di secondo grado (i regolamenti, gli atti amministrativi, ecc.). Ciò

significa che una fonte di secondo grado non può mai derogare ad una

di primo grado, a meno che non venga da questa espressamente

autorizzata.

I contrasti tra fonti di grado diverso sono, quindi, risolti sulla base del

principio gerarchico, che impone la prevalenza della norma di rango

superiore su quella di rango inferiore.

Il diritto internazionale, tuttavia, pur accogliendo formalmente la

medesima classificazione delle fonti “per gradi”, non rispetta il principio

gerarchico. Vale a dire che i contrasti tra fonti di grado diverso non si

risolvono attribuendo prevalenza alla fonte di rango superiore, ma

secondo un principio diverso, che è quello di specialità.

38

In buona sostanza, diritto internazionale generale e particolare sono

fonti normative reciprocamente derogabili, con l’unico limite del

rispetto delle norme imperative (di cui si tratterà nella lezione n. 10).

Ciò significa che gli Stati possono stabilire, all’interno di un accordo,

norme in deroga a quelle consuetudinarie generali, che valgano solo

per gli Stati partecipanti. La disciplina speciale (pattizia) prevale,

quindi, su quella generale (consuetudinaria).

Tale configurazione consente agli Stati di autodeterminarsi liberamente

nei loro rapporti reciproci, adottando un regime giuridico diverso da

quello generale, in quanto a loro più congeniale. Così, l’esistenza di una

norma consuetudinaria che riconduce alla sovranità esclusiva statale

anche la colonna di spazio atmosferico sovrastante i confini territoriali

non impedisce a due o più Stati di istituire uno spazio atmosferico

comune sopra i rispettivi territori, consentendo, ad esempio, il transito

di aeromobili da guerra senza il rilascio di reciproche autorizzazioni.

Tale regime derogatorio non ha però effetto nei confronti degli Stati terzi

che, nei loro rapporti con gli Stati partecipanti all’accordo anzidetto

continueranno ad applicare la norma generale.

Diritto internazionale generale (consuetudinario) e particolare (pattizio)

sono, quindi, formalmente sovraordinati l’uno all’altro, ma

sostanzialmente pariordinati, essendo derogabili vicendevolmente.

Ciò implica che la sopravvenienza di un nuova norma consuetudinaria

può condurre all’estinzione di un accordo internazionale per

desuetudine, quando, cioè, gli Stati parti cessano di rispettare

l’accordo nei loro rapporti reciproci e iniziano ad applicare la

consuetudine di nuova formazione.

4. Sempre nella seconda metà del XX secolo, con l’intensificarsi delle

relazioni internazionali e il passaggio dalla fase della mera coesistenza a

quella della cooperazione tra gli Stati, si è avvertita l’esigenza di

codificare le norme di diritto internazionale generale, allo scopo di

definire il loro contenuto con maggiore certezza.

L’attività di codificazione del diritto generale consiste nella

trasposizione delle norme consuetudinarie che regolano uno specifico

39

settore del diritto internazionale (ad esempio, il diritto del mare) in un

accordo, il cui contenuto riproduce essenzialmente dette norme.

Tale operazione presenta indubbi vantaggi: anzitutto, consente di

attribuire un’efficacia giuridica più puntuale ai precetti giuridici oggetto

della codificazione. In diversi settori del diritto internazionale, infatti, la

natura consuetudinaria delle norme di riferimento ha favorito

l’adozione di comportamenti abusivi da parte degli Stati: interpretazioni

contraddittorie, adempimenti parziali, inosservanza, ecc. Con la

riformulazione del contenuto di una norma consuetudinaria in una

disposizione convenzionale simili incertezze possono più agevolmente

essere superate, poiché la norma scritta (quella pattizia, appunto) ha

sempre il medesimo contenuto e, perciò, può essere applicata

uniformemente in tutti i rapporti giuridici da essa regolati.

Inoltre, la codificazione consente di tenere sotto controllo il processo di

sviluppo progressivo del diritto internazionale, vale a dire l’evoluzione

che qualsiasi ordinamento giuridico subisce in funzione dell’evolversi

della società alla quale le sue norme si applicano. Gli accordi di

codificazione “fissano” il contenuto delle norme internazionali in un

dato momento storico. La loro evoluzione nel tempo sarà scandita dalle

successive modifiche che detti accordi subiranno, in conseguenza del

contestuale sviluppo del diritto internazionale generale cui detti accordi

si riferiscono.

È evidente, peraltro, che la partecipazione agli accordi di codificazione,

come per tutti gli accordi internazionali, è volontaria. Solo gli Stati

parti, quindi, saranno vincolati dalle sue norme, mentre gli Stati terzi

continueranno ad essere vincolati dalle corrispondenti norme

consuetudinarie.

5. Organo deputato alla promozione degli accordi di codificazione è la

Commissione di diritto internazionale, istituita dall’Assemblea

generale delle Nazioni Unite nel 1947. Ad essa sono da attribuire

importanti iniziative di codificazione in numerosi settori del diritto

internazionale: dal diritto dei trattati alle immunità degli Stati, alla

responsabilità per fatto illecito.

40

Secondo la Corte internazionale di giustizia (sentenza sulla

Piattaforma continentale del Mare del Nord, del 1969), possono

distinguersi tre diverse forme di codificazione:

- la prima consiste nella semplice trascrizione della norma

consuetudinaria vigente in un accordo internazionale; in questo caso,

la codificazione ha un’efficacia esclusivamente dichiarativa;

- la seconda consiste nel completamento del processo di formazione di

una norma consuetudinaria all’interno di un accordo internazionale; in

questo caso, si attribuisce alla codificazione un’efficacia integrativa;

- la terza consiste nell’introduzione, nell’accordo di codificazione, di

elementi nuovi rispetto al contenuto attuale di una norma

consuetudinaria; in quest’ultimo caso, si attribuisce alla codificazione

un’efficacia innovativa.

Queste tre forme di codificazione non devono necessariamente

realizzarsi in modo separato, ma possono coesistere all’interno di un

medesimo accordo di codificazione, qualora si ritenga opportuno che

una data materia del diritto internazionale sia mantenuta inalterata per

alcuni aspetti e innovata per altri.

41

Lezione n. 10

Le norme di ius cogens e gli obblighi erga omnes

1. Si è detto che le norme di diritto generale e quelle di diritto

particolare sono derogabili vicendevolmente, salvo il rispetto di una

speciale categoria di norme consuetudinarie, aventi natura

inderogabile e imperativa.

Secondo l’art. 53 della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati

del 1969, «...per norma imperativa del diritto internazionale generale si

intende una norma che sia stata accettata e riconosciuta dalla comunità

internazionale nel suo insieme in quanto norma alla quale non è

permessa alcuna deroga e che non può essere modificata che da una

nuova norma di diritto internazionale generale avente lo stesso

carattere».

In buona sostanza, tale categoria di norme non soggiace all’applicazione

del principio di specialità nei rapporti con il diritto internazionale

pattizio, ma resta comunque gerarchicamente sovraordinata alle fonti

di secondo grado.

I precetti ad essa riferibili vengono definiti norme di ius cogens (diritto

cogente), nel senso che, laddove siano applicabili, prevalgono su tutte le

altre norme in contrasto, di qualsiasi natura.

2. Le norme di ius cogens hanno ad oggetto i principi e i valori

fondamentali ai quali si ispira l’ordinamento internazionale in un dato

momento storico (ad esempio, il divieto dell’uso della forza,

l’autodeterminazione dei popoli, il rispetto dei diritti umani, ecc.).

Sono state concepite (più correttamente: è stato loro riconosciuta tale

natura imperativa) per sopperire all’assenza di una vera e propria

“Costituzione” dell’ordinamento internazionale.

In altri termini, gli Stati si sono resi conto che non tutti i

comportamenti dettati dalla volontà di autoregolamentazione dei

rispettivi interessi possono essere ammessi sul piano giuridico

internazionale.

42

Tuttavia, per come è strutturato l’ordinamento internazionale, è

apparso impossibile accentrare la funzione normativa, sottraendola

agli Stati in nome di interessi superiori.

Così, si è deciso di selezionare alcuni principi e norme, recanti i valori

fondamentali della comunità internazionale, valori che tutti gli Stati

mostrano – almeno formalmente – di condividere e osservare. A tali

principi è stato attribuito, in nome del rispetto dell’ordine pubblico

internazionale, un rango superiore, cui “parametrare” la legittimità

degli atti di autoregolamentazione degli interessi nazionali.

Il risultato è che qualsiasi accordo internazionale contrario ad una

norma di ius cogens è giuridicamente nullo, perché gli Stati non sono

legittimati a regolare i propri interessi in modo difforme da quanto

stabilito da una norma imperativa. Così, ad esempio, data l’esistenza di

una norma internazionale cogente che vieta la riduzione in schiavitù,

qualsiasi accordo avente ad oggetto il commercio internazionale di

schiavi sarebbe nullo per violazione di norme imperative.

3. Peraltro, va detto che il numero e il contenuto delle norme di ius

cogens non sono mai stati definiti con precisione. Al di fuori dell’art. 53

della Convenzione di Vienna, difatti, in nessun altro atto internazionale

è rintracciabile una chiara nozione di norma imperativa.

La scelta di non codificare il diritto cogente deriva, per un verso, dalla

“giovane età” di questa categoria di norme, comparsa sulla scena

internazionale solo a partire dal secondo dopoguerra; per altro verso,

dalla mancanza di un consenso generalizzato riguardo a quali precetti

possano effettivamente essere ricondotti a tale nozione.

Per queste ed altre ragioni (ad esempio, l’assenza di un giudice

internazionale in grado di sanzionare la violazione delle norme

imperative), parte degli studiosi è dell’opinione che il diritto cogente sia

una categoria “inutile”, perché rilevante come mero esercizio teorico,

ma priva di concreta applicazione.

D’altro canto, è innegabile che il carattere inderogabile delle norme di

ius cogens determina l’impossibilità di applicare, ai rapporti giuridici da

esse disciplinati, norme internazionali in contrasto, a meno che non

43

presentino la medesima natura, mentre il carattere imperativo ne

determina la prevalenza assoluta rispetto alle norme di natura

convenzionale aventi contenuto incompatibile.

4. Oltre alle norme di ius cogens, un’altra categoria normativa viene

normalmente associata alla protezione dei valori fondamentali della

comunità internazionale. Si tratta degli obblighi erga omnes, cioè di

quegli obblighi la cui osservanza da parte di ciascuno Stato è esigibile

dall’intera comunità internazionale.

La Corte internazionale di giustizia (sentenza Barcelona Traction,

Light and Power Company, del 1970) ha chiarito che «una distinzione

essenziale deve essere fatta, in particolare, fra le obbligazioni degli Stati

nei confronti della comunità internazionale nel suo insieme e quelle che

nascono nei confronti di un altro Stato (...). [Nel primo caso] vista

l’importanza dei diritti in gioco, tutti gli Stati possono essere considerati

come aventi un interesse giuridico a che tali diritti siano protetti; le

obbligazioni di cui si tratta sono obbligazioni erga omnes».

Al pari delle norme di ius cogens, gli obblighi erga omnes hanno ad

oggetto la protezione di interessi fondamentali della comunità

internazionale, ma ciò non determina una perfetta coincidenza tra le

due categorie.

Gli obblighi erga omnes, difatti, non rilevano per il loro contenuto, ma

per il fatto che la relativa osservanza è esigibile da tutti gli Stati. Ciò

significa che tutte le norme di ius cogens hanno certamente ad oggetto

obblighi erga omnes, ma che non è vero il contrario. Esistono, infatti,

obblighi erga omnes che non sono contenuti in norme imperative, ma in

“normali” disposizioni di primo o secondo grado. Le due categorie si

possono raffigurare come cerchi concentrici, dei quali il più grande (gli

obblighi erga omnes) racchiude il più piccolo (le norme di ius cogens).

44

Lezione n. 11

Le altre fonti del diritto internazionale

1. Le categorie di fonti sin qui esaminate (di primo e secondo grado)

sono di gran lunga le più rilevanti dell’ordinamento internazionale,

poiché coprono circa il 90% dell’intera produzione normativa.

Nondimeno, esistono ulteriori tipologie di fonti giuridiche internazionali,

da cui gli Stati “attingono” ai fini della regolamentazione dei loro

rapporti reciproci.

Si tratta, specificamente, dei principi generali e delle fonti di terzo

grado del diritto internazionale.

Tali categorie vengono qui accostate l’una all’altra per mere esigenze

classificatorie, dal momento che si tratta di fonti totalmente differenti

tra loro.

La prima, infatti, include elementi giuridici materiali e strutturali

dell’ordinamento internazionale, applicabili ad uno o più rapporti

giuridici in via sussidiaria (cioè in assenza di norme più puntuali),

ovvero integrativa.

La seconda, invece, ha ad oggetto precetti normativi del tutto analoghi a

quelli di primo e secondo grado.

2. Più precisamente, all’ampia nozione di principi generali sono

riconducibili:

- i principi generali del diritto internazionale, che caratterizzano

l’ordinamento internazionale sotto il profilo strutturale (come

l’uguaglianza sovrana degli Stati, o la norma-principio sulla produzione

pacta sunt servanda) e valoriale (il divieto della minaccia o dell’uso

della forza, il rispetto dei diritti fondamentali come norme imperative,

ecc.);

- i principi generali comuni agli ordinamenti nazionali, i quali hanno

una rilevanza internazionale diversa dai primi. A questi, difatti, e non

agli altri fa riferimento l’art. 38, par. 1, lett. c) dello Statuto della Corte

internazionale di giustizia quando menziona «i principi generali di

45

diritto riconosciuti dalle nazioni civili», intendendo con tale espressione

tutti quei principi giuridici, elaborati dagli Stati in ambito

costituzionale, civile, commerciale, penale, processuale (ad esempio, il

principio nemo iudex in re sua, o la regola del cd. ne bis in idem), che

possono trovare applicazione anche nei rapporti internazionali sebbene

non siano originari del diritto internazionale.

In buona sostanza, i primi sono principi propri dell’ordinamento

internazionale, che lo qualificano e lo caratterizzano come ordinamento

giuridico autonomo. In diversi casi, si tratta di vere e proprie norme-

principio (come il divieto dell’uso della forza), poiché, pur avendo un

contenuto precettivo immediato, possono essere utilizzati anche in

funzione integrativa di altre norme, per rafforzarne il contenuto, o

determinarne la disapplicazione. I secondi, invece, sono principi

formalmente estranei all’ordinamento internazionale, perché creati

all’interno di uno o più ordinamenti nazionali e in seguito accolti in

tutti gli altri. È proprio in ragione della loro diffusione che possono

essere applicati anche ai rapporti internazionali, qualora non vi siano

altre norme o principi cui fare ricorso.

3. Si possono qualificare, invece, fonti di terzo grado del diritto

internazionale tutti gli atti internazionali a contenuto vincolante, la cui

giuridicità derivi da norme sulla produzione previste all’interno di

accordi internazionali. Si tratta generalmente di accordi istitutivi di

organizzazioni internazionali, ai cui organi è conferito detto potere di

produzione normativa.

Ne costituiscono il prototipo classico le decisioni del Consiglio di

sicurezza delle Nazioni Unite adottate a norma degli articoli 41 e 42

della Carta (v. lezione n. 42), ma anche i regolamenti e le direttive

emanate dalle istituzioni dell’Unione Europea.

Anche per le fonti di terzo grado valgono le medesime considerazioni già

svolte per quelle di primo e secondo grado. Il processo di formazione si

basa su una norma di grado superiore che attribuisce giuridicità alle

fonti di rango inferiore, perché ne legittima l’efficacia. Così, ad esempio,

il combinato disposto degli articoli 25, 41 e 42 della Carta delle

46

Nazioni Unite conferisce efficacia giuridica vincolante alle decisioni del

Consiglio di Sicurezza e configura, perciò, una fonte sulla produzione

di terzo grado.

Va osservato, peraltro, che, a differenza delle fonti di primo grado e,

invece, analogamente a quelle di secondo grado, l’efficacia obbligatoria

delle fonti di terzo grado è limitata soggettivamente agli Stati che

hanno aderito all’accordo le cui norme legittimano tale produzione. Non

si può ammettere, in altri termini, che una norma di terzo grado sia

applicabile ai rapporti giuridici di Stati terzi rispetto all’accordo.

D’altro canto, anche le norme di terzo grado, come quelle di secondo

grado, possono liberamente derogare alle norme primarie, fatto salvo il

rispetto dello ius cogens.

4. Non costituiscono propriamente fonti di terzo grado del diritto

internazionale le sentenze dei Tribunali internazionali, poiché la

relativa funzione non è quella di regolare, in via generale, uno o più

rapporti giuridici, bensì quella di dirimere una controversia.

L’efficacia di una sentenza resta, perciò, circoscritta alle parti in lite.

Più precisamente, mentre le consuetudini, le disposizioni di un accordo

internazionale, o un atto vincolante adottato da un’organizzazione

internazionale hanno in comune la natura normativa, in base alla

quale si stabilisce la titolarità di diritti ed obblighi rilevanti per i

soggetti destinatari, le sentenze hanno natura decisoria; non

disciplinano rapporti giuridici, ma si limitano a far rispettare le norme

ad essi applicabili.

Peraltro, quando la Corte internazionale di giustizia emana una

sentenza ex aequo et bono (ai sensi dell’art. 38, par. 2, del suo Statuto,

previo accordo tra le parti in lite), la natura costitutiva di tale

pronuncia, frutto di un procedimento speciale di produzione

giuridica, può contribuire alla formazione di una nuova norma

internazionale (v. lezione n. 36).

47

5. Non può, infine, essere considerato fonte del diritto internazionale,

anche se – come anticipato – può contribuire alla formazione di norme

consuetudinarie, il cd. soft law internazionale.

Si riconducono a tale categoria tutte le norme prodotte nell’ambito di

conferenze e/o organizzazioni internazionali che non hanno carattere

vincolante (dichiarazioni, raccomandazioni, pareri, ecc.), in quanto

manca una norma di secondo grado che attribuisca efficacia giuridica

obbligatoria a tali atti.

48

Lezione n. 12

Gli atti unilaterali degli Stati

1. All’esito di questa breve rassegna sulle fonti del diritto

internazionale, è necessario prendere in esame una particolare

categoria di atti, i cd. atti unilaterali degli Stati.

Si definiscono tali quelle manifestazioni di volontà degli Stati idonee a

costituire fonti di obblighi internazionali per il soggetto da cui

promanano entro i limiti dei rispettivi contenuti.

Si tratta, in altri termini, non già di norme giuridiche, ma di autonomi

atti di volontà degli Stati, che assumono rilievo per il diritto

internazionale nella misura in cui questo vi ricolleghi effetti giuridici.

È bene chiarire da subito che gli atti unilaterali non sono fonti del

diritto internazionale, ma – come detto – fonti di obblighi per il

soggetto da cui provengono e creano un legittimo affidamento in capo ai

soggetti interessati in virtù del rispetto del principio di buona fede.

A differenza delle fonti consuetudinarie, pattizie e di terzo grado,

quindi, gli atti unilaterali non producono (nuove) norme giuridiche

vincolanti per gli Stati, ma in forza dell’applicazione di un principio

generale del diritto internazionale – la buona fede, appunto – dalla loro

emanazione discendono determinati effetti obbligatori.

2. Ciò posto, occorre chiarire:

1) in che modo tali atti possano produrre effetti giuridici e

2) quali effetti essi producano in concreto.

Quanto al primo interrogativo, le modalità di attribuzione dell’efficacia

giuridica agli atti unilaterali sono le medesime già viste per le fonti

normative. In questo caso è una norma-principio, e precisamente

l’obbligo gravante sugli Stati di comportarsi secondo buona fede nelle

loro relazioni reciproche, a conferire giuridicità agli obblighi contenuti

in un atto unilaterale.

In sostanza, quando uno Stato dichiara di voler adottare una

determinata condotta nell’ambito delle proprie relazioni internazionali,

49

e tale condotta implica l’assunzione di un obbligo per lo Stato

dichiarante ed eventuali vantaggi per uno o altri Stati, il primo resta

vincolato alla propria dichiarazione perché una norma-principio del

diritto internazionale gli impone di comportarsi secondo buona fede,

vale a dire di rispettare il legittimo affidamento che la sua

dichiarazione ha ingenerato negli altri Stati interessati.

Così, se uno Stato promette liberamente una prestazione ad un altro

Stato, questi avrà diritto di pretenderla, nei limiti del contenuto della

promessa.

Con il che trova risposta anche il secondo interrogativo: gli effetti

giuridici derivanti da un atto unilaterale saranno quelli di vincolare lo

Stato emanante al rispetto dell’atto e di creare un’aspettativa di diritto

in capo allo Stato beneficiario.

Evidentemente, non può valere il contrario: nessun atto unilaterale può

recare vantaggi per il soggetto da cui promana ed obblighi per il

destinatario. Un simile atto sarebbe contrario alla stessa struttura

paritaria dell’ordinamento internazionale, dal momento che

legittimerebbe la coercizione della volontà altrui da parte di un soggetto

pariordinato a quello obbligato.

3. Secondo la Corte internazionale di giustizia (sentenza sugli

Esperimenti nucleari, del 1974), «è riconosciuto che dichiarazioni

aventi la forma di atti unilaterali e riguardanti situazioni di diritto o di

fatto possono avere l’effetto di creare obblighi giuridici (...). Quando lo

Stato autore della dichiarazione intende essere vincolato

conformemente ai termini di essa, tale intenzione conferisce alla

sua presa di posizione il carattere di un impegno giuridico,

poiché lo Stato interessato è ormai giuridicamente tenuto a

seguire una linea di condotta conforme alla sua dichiarazione

(...). Perché la dichiarazione abbia efficacia, non è necessaria alcuna

contropartita, e neppure un’ulteriore accettazione o una risposta o una

reazione da parte di altri Stati, poiché ciò sarebbe incompatibile con la

natura strettamente unilaterale dell’atto giuridico dello Stato che si è

pronunciato».

50

In sintesi, a differenza degli accordi internazionali, i cui effetti

obbligatori scaturiscono dall’incontro delle diverse volontà degli Stati

contraenti, fatto idoneo a creare norme giuridiche vincolanti inter

partes, gli effetti derivanti dall’adozione degli atti unilaterali sono

riconducibili alla volontà esclusiva del soggetto da cui promanano,

anche qualora questi siano più di uno. Si parla, in questo caso, di atti

unilaterali collettivi, come il riconoscimento congiunto di uno Stato di

nuova formazione da parte di più Stati contemporaneamente.

4. Non c’è chiarezza in dottrina riguardo alla classificazione degli atti

unilaterali. Vi è chi riconduce a tale nozione atti inquadrabili

nell’ambito di procedimenti complessi (ad esempio, di formazione o

estinzione degli accordi internazionali: ratifica, adesione, riserva,

denuncia, recesso), o atti preordinati all’attivazione di procedure

giudiziarie (come la dichiarazione di accettazione della giurisdizione

della Corte internazionale di giustizia), o anche semplici strumenti di

conoscenza legale (la notifica).

Secondo la classificazione proposta dalla Commissione di diritto

internazionale nel suo progetto di articoli, gli atti unilaterali in senso

stretto sono quattro:

1) il riconoscimento (di cui si è trattato nella lezione n. 4);

2) la promessa , consistente in una dichiarazione volta ad

attribuire ad uno o più Stati un vantaggio, in conseguenza dell’obbligo

assunto dal dichiarante;

3) la rinuncia , consistente in una dichiarazione o in un

comportamento volto a privare il dichiarante di un bene o dell’esercizio

di un diritto, a vantaggio di altri Stati;

4) la protesta e, per contro, l’acquiescenza , consistente

nell’opporre ad una pretesa altrui un diniego, ovvero nell’accettare le

conseguenze di tale rivendicazione.

51

III modulo

Gli accordi internazionali

Lezione n. 13

Il procedimento di formazione degli accordi internazionali – Parte I

1. Il presente modulo è pressoché integralmente dedicato all’analisi

degli accordi internazionali e delle relative modalità di formazione,

modifica, annulamento, estinzione.

Si tratta – come anticipato nelle precedenti lezioni – degli atti

internazionali rappresentativi delle fonti di secondo grado, che

(secondo la sistematica kelseniana) traggono la loro giuridicità dalla

norma consuetudinaria pacta sunt servanda e sono idonei, pertanto, a

costituire fonte di diritti e obblighi internazionali in capo agli Stati

firmatari.

Più precisamente, si definisce accordo internazionale l’incontro tra due

o più manifestazioni di volontà di soggetti internazionali

finalizzato a regolare (creare, modificare o estinguere) i loro

rapporti giuridici reciproci.

Al pari dei contratti stipulati tra persone fisiche nell’ambito di un

ordinamento nazionale, gli accordi internazionali sono espressione

dell’autonomia negoziale degli Stati, i quali, per ragioni di necessità,

opportunità o convenienza reciproca, scelgono di regolare taluni aspetti

delle loro relazioni internazionali attraverso una disciplina comune

obbligatoria.

È opportuno chiarire sin d’ora che alla nozione di accordo

internazionale sono riconducibili una molteplicità di atti internazionali

tipici, che variano nel nome, ma non nella sostanza: i trattati, le

convenzioni, i protocolli, i patti, gli statuti, le carte, le intese, i

memoranda, i concordati, gli scambi di note, ecc.

Essi recano norme di ogni genere, di principio o di dettaglio,

concernenti qualsiasi argomento, nel rispetto dei precetti di ius cogens.

52

Appare, perciò, superfluo tentare una classificazione degli accordi

internazionali in base ai loro contenuti, o alle caratteristiche delle loro

disposizioni, atteso che, indipendentemente da ciò, i rispettivi effetti

obbligatori per le parti aderenti sono i medesimi.

2. Definito sommariamente il concetto di accordo internazionale,

occorre analizzarne il procedimento di formazione, per poter stabilire

quando si è in presenza di un atto internazionale di tal genere e a quali

condizioni esso può produrre i suoi effetti tipici.

Storicamente, la formazione degli accordi internazionali era regolata in

via consuetudinaria. Gli Stati applicavano – con alcune varianti –

norme sviluppatesi a partire dalla prassi diplomatica delle monarchie

europee.

Negli anni ’60 del XX secolo, per iniziativa della Commissione di

diritto internazionale delle Nazioni Unite, dette norme sono state

codificate nella Convenzione sul diritto dei trattati, aperta alla firma

a Vienna nel 1969 ed entrata in vigore nel 1980.

La Convenzione sul diritto dei trattati si applica (artt. 1-5) a tutti gli

accordi stipulati:

• tra Stati (anche a quelli istitutivi di organizzazioni internazionali, ma

non a quelli stipulati tra Stati e organizzazioni internazionali,

regolati da una successiva Convenzione, conclusa a Vienna nel 1986);

• in forma scritta;

• successivamene all’entrata in vigore della Convenzione;

• regolati in base al diritto internazionale.

Ciò significa che eventuali accordi conclusi tra Stati e enti diversi dagli

Stati (ad es., un’impresa multinazionale) non ricadono nell’ambito di

applicazione della Convenzione di Vienna e, perciò, non sono soggetti

alle relative disposizioni.

3. In base alle norme della Convenzione di Vienna, il procedimento di

formazione degli accordi internazionali si può suddividere in 4

macrofasi, ciascuna delle quali consiste in un sub-procedimento che

si innesta su quello principale. Solo la conclusione positiva della fase

53

precedente consente il passaggio a quella successiva. In difetto, il

procedimento di formazione si interrompe e non è in grado di pervenire

al suo esito naturale. In altre parole, se il procedimento non si conclude

positivamente, l’accordo internazionale non può produrre effetti sul

piano giuridico.

Tali fasi sono:

- il negoziato;

- la firma;

- la ratifica;

- l’entrata in vigore.

4. La prima fase, quella del negoziato (o dei negoziati, se trattasi di

una più complessa serie di incontri tra più soggetti), è preordinata

all’elaborazione del testo dell’accordo. In essa, le parti contraenti,

cioè gli Stati che hanno intenzione di concludere un accordo, discutono

sul contenuto delle relative disposizioni, al fine di redigere un

articolato recante la disciplina comune da esse stabilita.

Partecipano, generalmente, al negoziato i cd. plenipotenziari, coloro i

quali rappresentano gli Stati partecipanti in forza dei pieni poteri loro

conferiti dallo Stato di provenienza.

I pieni poteri consistono in un documento diplomatico, recante le

generalità del rappresentante e il contenuto e l’ampiezza dei poteri a lui

attribuiti, da esibire agli altri Stati partecipanti (o allo Stato che cura

l’organizzazione del negoziato) prima dell’avvio dei lavori.

Per taluni individui-organi dello Stato il possesso dei pieni poteri si dà

per presupposto. Si tratta dei Capi di Stato e di Governo, dei Ministri

degli Esteri e dei Capi Missione diplomatica (per le materie oggetto del

loro mandato). Costoro, difatti, per il ruolo istituzionale che ricoprono

nel paese di origine, sono ritenuti in grado di impegnare il proprio Stato

nel negoziato senza necessità di esibire alcuna autorizzazione. Negli

altri casi, la mancata esibizione dei pieni poteri, ovvero la

partecipazione al negoziato di un plenipotenzario munito di poteri

diversi o meno estesi di quelli necessari, possono dar luogo

all’invalidità dell’accordo (v. lezione n. 16).

54

Il negoziato si svolge in varie sedute, durante le quali le parti si

confrontano sul testo dell’accordo in maniera libera, o secondo le regole

che loro stesse si impongono. Il negoziato può anche interrompersi e

riprendere dopo un certo lasso di tempo, quando siano mutate le

circostanze che hanno determinato l’interruzione.

Per la votazione del testo finale, la Convenzione di Vienna prescrive la

regola dell’unanimità, ovvero, per le conferenze internazionali che

vedono la partecipazione di numerosi Stati, la maggioranza dei 2/3.

Con il medesimo quorum si può, tuttavia, stabilire, all’apertura della

conferenza, una maggioranza diversa.

5. All’esito del negoziato, il testo dell’accordo è sottoposto alla firma dei

plenipotenziari, che ha valore di autenticazione (o parafatura, v. l’art.

10 della Convenzione). Ciò significa che essa non impegna formalmente

gli Stati contraenti a rispettare il contenuto dell’accordo, ma più

semplicemente che esiste un testo definitivo che soddisfa in pieno

coloro che lo hanno negoziato. In sostanza, con la firma dei rispettivi

plenipotenziari gli Stati divengono formalmente consapevoli

dell’avvenuta conclusione di un accordo. Da quel momento innanzi,

essi possono (e devono) decidere se ratificarlo o no.

Generalmente, quindi, l’accordo firmato è da considerarsi definitivo,

salva l’ipotesi di riapertura dei negoziati (sempre possibile), e può essere

sottoposto agli Stati per la ratifica.

Qualora abbia partecipato al negoziato un elevato numero di Stati,

l’accordo può rimanere aperto alla firma in diversi luoghi anche per un

lungo periodo di tempo, così da semplificare le operazioni relative

all’autenticazione.

Inoltre, tra le diverse modalità di espressione del consenso ad essere

vincolato da un trattato (art. 11), la Convenzione di Vienna prevede la

possibilità che anche la sola firma apposta dai plenipotenziari sia

idonea ad obbligare gli Stati partecipanti al rispetto dell’accordo. In altri

termini, la firma, in questo caso, avrà un doppio valore, di

autenticazione del testo definitivo dell’accordo e di manifestazione del

consenso, da parte dello Stato firmatario, a rispettarne i contenuti. Si

55

tratta dei cd. accordi in forma semplificata (art. 12), utilizzati di solito

per disciplinare questioni di natura tecnica, o di dettaglio, privi di

particolare rilievo politico.

Qualora, invece, per la manifestazione del consenso degli Stati

contraenti sia necessario lo scambio o il deposito degli strumenti di

ratifica (art. 14), si è in presenza dei cd. accordi in forma solenne.

56

Lezione n. 14

Il procedimento di formazione degli accordi internazionali – Parte II

1. Si definisce ratifica (o anche accettazione o approvazione) l’atto

giuridico unilaterale attraverso cui uno Stato manifesta solennemente il

proprio consenso a rispettare il contenuto di un accordo internazionale.

Essa implica, pertanto, l’assunzione di un obbligo formale per il

soggetto da cui proviene, in grado di far sorgere nei suoi confronti la

responsabilità internazionale in caso di successivo inadempimento

alle norme dell’accordo.

Una volta ratificato l’accordo, a partire dal momento in cui questo

entrerà in vigore, gli Stati contraenti divengono a tutti gli effetti parti

dell’accordo e possono esigere reciprocamente il rispetto delle norme

in esso contenute.

Quando uno Stato che non ha partecipato ai negoziati intende

vincolarsi successivamente al rispetto di un accordo internazionale già

in vigore, la ratifica prende il nome di adesione. A tal fine, occorre,

comunque, che l’accordo in questione sia un accordo aperto, e cioè che

per sua natura e/o per volontà delle parti consenta la partecipazione di

Stati diversi da quelli che hanno concluso i negoziati. In difetto, si ha

un accordo chiuso, che non ammette adesioni successive.

2. Ogni ordinamento giuridico nazionale è dotato di norme specifiche

per la ratifica degli accordi internazionali. Nell’ordinamento italiano, il

potere di ratifica spetta al Presidente della Repubblica (art. 87

Cost.), per iniziativa e sotto la responsabilità del Governo (Presidente

del Consiglio, Ministro degli Esteri e altri Ministri proponenti: art. 89

Cost.).

Peraltro, in 5 casi, previsti dall’art. 80 Cost., il Presidente della

Repubblica deve essere autorizzato alla ratifica con legge del

Parlamento.

Si tratta degli accordi:

- di natura politica;

57

- che implicano modificazioni di leggi;

- che comportano oneri alle finanze;

- che prevedono variazioni del territorio;

- che istituiscono arbitrati o regolamenti giudiziari internazionali.

3. Dopo la manifestazione del consenso da parte degli Stati, condizione

necessaria per l’entrata in vigore dell’accordo è lo scambio o il deposito

degli strumenti di ratifica.

Lo scambio delle ratifiche è tipico degli accordi bilaterali. Ogni Stato

consegna all’altro una copia del suo strumento di ratifica e, pertanto,

l’accordo può entrare in vigore contestualmente, senza che siano

necessari ulteriori adempimenti.

Diversamente, per gli accordi multilaterali, il deposito delle ratifiche

viene effettuato presso un determinato Stato (di solito quello che ha

ospitato la Conferenza internazionale che ha dato luogo al negoziato),

ovvero presso il Segretariato Generale delle Nazioni Unite. Tale

adempimento consente di stabilire con certezza quanti e quali Stati, ad

un dato momento, si siano impegnati a rispettare il contenuto

dell’accordo.

Peraltro, in considerazione del numero dei partecipanti, l’entrata in

vigore di un accordo multilaterale può essere subordinata al deposito di

un numero minimo di ratifiche (cd. condizione sospensiva) e/o alla

decorrenza di una data certa (cd. termine iniziale).

4. A norma dell’art. 102, par. 1, della Carta delle Nazioni Unite, «ogni

accordo internazionale stipulato da un Membro delle Nazioni Unite dopo

l’entrata in vigore della presente Carta deve essere registrato al più

presto possibile presso il Segretariato e pubblicato a cura di

quest’ultimo».

Tale ulteriore adempimento, consistente appunto nella registrazione

dell’accordo presso le Nazioni Unite e nella sua pubblicazione, non

incide sull’entrata in vigore dell’atto (a differenza di quanto accade negli

ordinamenti interni per la pubblicazione delle leggi nelle raccolte

ufficiali, come, ad es., la Gazzetta Ufficiale della Repubblica Italiana).

58

La mancata registrazione, quindi, non mai è causa di nullità o

inefficacia dell’accordo, ma di mera inopponibilità nei confronti degli

organi delle Nazioni Unite (art. 102, par. 2).

5. Se gli Stati parti di un accordo decidono, dopo la sua entrata in

vigore, di modificarne i contenuti, essi sono tenuti – tutti – a riaprire i

negoziati e introdurre la cd. procedura di emendamento. Se, invece, la

volontà di modifica è comune solo ad alcune delle parti contraenti,

queste saranno legittimate, a determinate condizioni, a concludere un

nuovo accordo, ma i loro rapporti con gli Stati che non abbiano aderito

a tale riforma continueranno ad essere regolati sulla base del vecchio

accordo.

Gli articoli da 39 a 41 della Convenzione di Vienna disciplinano la

procedura di emendamento e modifica dei trattati internazionali in

vigore.

In questi casi, la proposta di emendamento deve essere notificata a

tutte le parti contraenti, che hanno diritto a partecipare, ma non

potranno mai essere vincolate dall’accordo emendato senza il loro

consenso (art. 40).

6. Per favorire la più ampia partecipazione agli accordi internazionali

multilaterali, la Convenzione di Vienna ha introdotto alcune norme di

sviluppo progressivo in materia di riserve agli accordi internazionali.

La relativa disciplina è stabilita agli articoli 19-23 della Convenzione.

Le riserve sono dichiarazioni unilaterali degli Stati finalizzate ad

escludere l’applicazione o limitare gli effetti di una o più norme

dell’accordo nei confronti del dichiarante (art. 2).

In sostanza, gli Stati appongono una riserva quando intendono

subordinare la loro partecipazione all’accordo ad una o più condizioni

favorevoli rispetto alla disciplina generale prevista per tutte le altre

parti contraenti. Il che, nei casi di accordi multilaterali (in quelli

bilaterali l’apposizione di riserve è – evidentemente – preclusa) ad

elevata partecipazione, accade di frequente.

59

Il regime previsto dalla Convenzione di Vienna consente di venire

incontro alle diverse esigenze degli Stati, assicurandone, così, in linea

di massima, la partecipazione all’accordo.

Ovviamente, la facoltà di apporre riserve incontra limiti precisi, ratione

materiae e ratione temporis. Quanto a quest’ultimo aspetto, le

riserve devono essere apposte entro la fine del negoziato e, comunque,

non oltre il deposito dello strumento di ratifica, per ragioni di certezza

giuridica. Devono essere notificate alle altre parti contraenti, le quali

hanno la facoltà di formulare specifiche obiezioni.

Sotto il profilo materiale, l’art. 19 vieta l’apposizione di una riserva in

tre situazioni:

- qualora tale facoltà sia espressamente esclusa dal trattato (in

generale);

- qualora tale facoltà sia concessa solamente con riguardo ad una o più

norme specifiche del trattato e la riserva cada su norme diverse (o

viceversa);

- infine qualora, anche in assenza di disposizioni pattizie sul punto, la

riserva sia comunque «incompatibile con l’oggetto e lo scopo del

trattato».

60

Lezione n. 15

L’interpretazione degli accordi internazionali

1. La Convenzione di Vienna si occupa di definire anche i criteri di

interpretazione degli accordi internazionali, derivanti, al pari delle

regole riguardanti la formazione e l’emendamento, da principi

consuetudinari, codificati e sviluppati negli articoli da 31 a 33.

Tali criteri sono della massima importanza, tenuto conto che le

controversie giuridiche internazionali (v. Modulo n. VI) in materia di

interpretazione dei trattati sono tra le più diffuse e frequenti. Accade,

difatti, che dopo l’entrata in vigore di un accordo, tra gli Stati parti

possano sorgere contrasti circa le modalità di esecuzione delle relative

disposizioni, o sulla portata dei diritti e degli obblighi reciproci.

Pertanto, i paesi firmatari della Convenzione di Vienna si sono

preoccupati di indicare con certezza i criteri utilizzabili per la corretta

interpretazione delle norme di un accordo e stabilire un ordine di

prevalenza riguardo alla loro applicazione.

2. Tra i criteri generali di interpretazione, la Convenzione di Vienna

privilegia l’interpretazione letterale (oggettivistica) rispetto a quella

basata sulla volontà delle parti contraenti (soggettivistica).

Più precisamente, l’art. 33 della Convenzione fa riferimento a quattro

criteri generali:

- la buona fede;

- l’interpretazione letterale;

- l’interpretazione soggettivistica;

- l’interpretazione teleologica.

Si può definire, in termini generali, la buona fede come una condotta

orientata a non nuocere all’effetto che una determinata norma tende a

raggiungere (obbligo di correttezza reciproca). Si è già visto (lezione n.

12) come il principio di buona fede possa costituire fonte di obblighi

internazionali per gli Stati, imponendo loro il rispetto di eventuali atti o

promesse unilaterali.

61

La Convenzione di Vienna impone alle parti di comportarsi secondo

buona fede nell’esecuzione (art. 26) e nell’interpretazione (art. 31)

dell’accordo, nonché nell’accertamento delle ipotesi di nullità

(articoli 46 e 69, di cui si tratterà nella prossima lezione). Ciò significa

che, in caso di contrasto, le parti dovranno dimostrarsi reciproca

correttezza e tener conto delle rispettive esigenze ed interessi. Tale

atteggiamento è in grado di agevolare la definizione positiva della

controversia insorta.

3. L’art. 31 obbliga, altresì, le parti a interpretare l’accordo «seguendo il

senso ordinario da attribuire ai termini del trattato».

Si tratta, come anticipato, dell’interpretazione letterale, che consente

di attribuire la massima certezza giuridica alle disposizioni

dell’accordo, anche a favore di eventuali Stati terzi interessati ad

aderire successivamente.

Dalla formulazione della disposizione di cui all’art. 31, si comprende

come il criterio oggettivistico sia ritenuto tra tutti il più importante,

essendo quello che favorisce una comprensione immediata dei termini

dell’accordo da parte di tutti coloro che lo prendano in esame.

A norma dell’art. 31, par. 4 della Convenzione, comunque, per una

corretta interpretazione dell’accordo occorre avere riguardo anche alla

volontà delle parti, desumibile dal «contesto» in cui esso è stipulato e

dalla loro «intenzione». Si tratta dell’interpretazione soggettivistica, la

quale, nei casi in cui l’interpretazione letterale si riveli insoddisfacente,

consente di rivolgersi alla comune intenzione delle parti contraenti,

desumibile dal complesso degli atti che formano l’accordo (cioè il

contesto), allo scopo di stabilire il senso da attribuire ai termini

controversi.

Il par. 2 dello stesso art. 31 specifica che «ai fini dell’interpretazione di

un trattato, il contesto comprende, oltre al testo, preambolo e allegati

inclusi: a) ogni accordo in rapporto col trattato e che sia stato

concluso fra tutte le parti in occasione della conclusione del trattato; b)

ogni strumento posto in essere da una o più parti in occasione della

62

conclusione del trattato e accettato dalle altre parti come strumento in

connessione col trattato».

Inoltre, il par. 3 dell’art. 31 elenca ulteriori elementi utili al fine di

desumere la volontà delle parti contraenti (accordi successivi, prassi

applicative, regole di diritto internazionale applicabili inter partes).

Il quarto criterio indicato dalla Convenzione di Vienna è

l’interpretazione teleologica (finalistica). Questa tiene conto

dell’oggetto dell’accordo (cioè della concreta regolazione di interessi

posta a base del medesimo, da non confondere con l’oggetto delle

norme, che rileva per l’interpretazione letterale), nonché delle finalità

che le parti hanno inteso perseguire al momento della sua stipulazione.

Vale a dire, ad esempio, che tra due significati diversi, entrambi

astrattamente attribuibili ad un qualsiasi termine, prevarrà quello

maggiormente idoneo ad assecondare l’attuazione dell’oggetto

dell’accordo e/o il raggiungimento del relativo scopo.

4. L’art. 32 della Convenzione di Vienna elenca i mezzi complementari

d’interpretazione. Si tratta di tutti gli strumenti (come, ad esempio, i

cd. lavori preparatori, cioè i verbali delle sedute del negoziato e i

documenti ufficiali in quella sede prodotti o esibiti, nonché l’analisi

delle «circostanze nelle quali il trattato è stato concluso») i quali, al di

fuori del contesto, possono rivelarsi utili a «confermare il senso che

risulta dall’applicazione dell’articolo 31», ovvero a «determinare il senso

quando l’interpretazione data in conformità all’articolo 31… lasci il senso

ambiguo od oscuro; o… conduca ad un risultato manifestamente assurdo

o irragionevole».

L’art. 33 della Convenzione si occupa, infine, dei contrasti interpretativi

per gli accordi stipulati in più lingue. La norma dispone che, quando un

trattato è stato autenticato in più lingue, il suo testo fa fede in

ciascuna di esse, se le parti non hanno concordato che una

determinata versione prevalga sulle altre. In assenza di tale

specificazione, si presume che i termini di un trattato abbiano il

medesimo significato nei diversi testi autentici.

63

In caso di contrasto, sarà, quindi, privilegiata l’interpretazione che,

tenuto conto dell’oggetto e dello scopo del trattato, sia in grado di

conciliare meglio i testi in questione.

64

Lezione n. 16

Le cause di invalidità degli accordi internazionali

1. In situazioni particolari, un accordo internazionale, apparentemente

valido ed efficace, non può produrre i suoi effetti perché viziato in

alcuni dei suoi elementi fondamentali.

Si definiscono cause di nullità o, più correttamente, cause di invalidità

dei trattati internazionali alcune circostanze di fatto che incidono sulla

manifestazione del consenso da parte degli Stati contraenti, ovvero sul

contenuto delle disposizioni dell’accordo e rendono invalido il trattato

sin dalla sua origine (ex tunc).

L’invalidità determina, pertanto, l’inidoneità del trattato a produrre i

suoi effetti giuridici tipici.

Può essere, a seconda dei casi:

- assoluta (corrispondente alla nullità dell’accordo), o

- relativa (che ne determina, invece, l’annullabilità).

Mentre l’invalidità assoluta è invocabile da chiunque ne abbia

interesse, anche se non abbia preso parte all’accordo, l’invalidità

relativa è invocabile esclusivamente dalla parte che ne è

soggettivamente colpita, cioè quella il cui consenso risulta viziato in

conseguenza del verificarsi di una delle cause di invalidità.

2. Secondo la Convenzione di Vienna, le cause di invalidità dei trattati

sono tassative (art. 42, par. 1). Pertanto, gli Stati non sono legittimati

invocarne altre oltre a quelle previste dagli articoli da 46 a 53 della

Convenzione.

L’invalidità colpisce il trattato nel suo complesso, a meno che:

1) le parti non abbiano stabilito diversamente,

2) nei casi in cui essa riguardi solo alcune clausole separabili dal

resto del trattato che non abbiano costituito la base essenziale del

consenso e

3) purché non sia ingiusto continuare ad applicare il trattato senza

tali clausole.

65

Questa possibilità resta comunque esclusa per le cause di invalidità

assoluta (art. 44).

Non è ammessa, quindi, se non alle prescritte condizioni, la cd.

invalidità parziale, che consente di mantenere l’accordo valido ed

efficace rispetto alle clausole che non siano direttamente colpite

dall’invalidità.

3. In base alla classificazione accolta nella Convenzione di Vienna, le

cause di invalidità relativa sono:

- la violazione delle norme interne sulla competenza a concludere

un accordo (art. 46);

- l’eccesso di potere del rappresentante (art. 47);

- l’errore (art. 48);

- il dolo (art. 49);

- la corruzione (art. 50).

Le cause di invalidità assoluta sono, invece:

- la violenza esercitata sul rappresentante (art. 51);

- la violenza esercitata sullo Stato (art. 52);

- la violazione di norme di ius cogens (art. 53).

4. A norma dell’art. 46 della Convenzione di Vienna, uno Stato non può

invocare la violazione delle norme interne sulla competenza come causa

di invalidità di un trattato, a meno che tale violazione «non sia stata

manifesta e non riguardi una norma del suo diritto interno di

importanza fondamentale».

La norma tende, sostanzialmente, ad impedire che uno Stato, dopo aver

stipulato un accordo, si opponga alla sua esecuzione sostenendo che

detta stipulazione è avvenuta in violazione delle disposizioni interne

concernenti la competenza a stipulare (ad es., senza rispettare nei

dettagli il procedimento di ratifica). Le norme interne, difatti, non

possono essere invocate come causa giustificativa per l’inosservanza

degli obblighi internazionali assunti da uno Stato, a meno che non si

tratti di disposizioni talmente note e importanti (ad es., di rango

66

costituzionale) che le altre parti contraenti avrebbero comunque potuto

rilevarne la violazione.

5. Si è detto che per poter rappresentare validamente lo Stato

nell’ambito di un negoziato, l’agente diplomatico incaricato deve esibire

il documento recante i pieni poteri a lui conferiti. Qualora, tuttavia,

questi abbiano formato oggetto di specifiche restrizioni (vale a dire che,

per ragioni politiche interne, lo Stato rappresentato, dopo il

conferimento dei pieni poteri, abbia unilateralmente deciso di limitarne

l’oggetto o il contenuto), la loro violazione (cd. eccesso di potere) non

può essere invocata come causa di invalidità del trattato, a meno che

tali restrizioni non fossero state notificate alle altre parti contraenti

prima della manifestazione del consenso dello Stato (art. 47).

Si tratta di un’applicazione pratica del principio del legittimo

affidamento: il plenipotenziario si presume, fino a prova contraria,

pienamente titolare dei poteri di rappresentanza a lui conferiti.

Qualsiasi limitazione a detti poteri deve essere portata a conoscenza

degli altri Stati contraenti prima dell’avvio dei negoziati e, comunque,

della conclusione dell’accordo, altrimenti sarà inopponibile e non potrà

essere invocata come causa di invalidità.

6. L’errore può costituire causa di invalidità di un trattato solo quando

ricade su un fatto o una situazione ritenuta esistente al momento della

stipulazione che ha costituito la base essenziale del consenso a

vincolarsi da parte dello Stato che lo invoca (art. 48, par. 1). Questo,

però, non deve aver contribuito al suo verificarsi (art. 48, par. 2).

In sostanza, uno Stato può chiedere l’annullamento di un trattato

quando, per cause indipendenti dalla sua volontà, abbia ritenuto

esistente un elemento di fatto o di diritto, sul quale ha fondato il

proprio consenso, che, invece, non era tale. La dottrina definisce tale

errore essenziale (perché incide in modo fondamentale sulla

formazione del consenso) e scusabile (perché il suo verificarsi non

dipende dalla condotta dello Stato che lo invoca).

67

Un errore che ricade esclusivamente sulla formulazione del testo (cd.

errore materiale) non incide mai sulla validità del trattato ed è

sanabile attraverso una specifica procedura di correzione prevista

dall’art. 48, par. 3 della Convenzione di Vienna.

7. Qualora uno Stato sia stato indotto a concludere un accordo

internazionale dal comportamento fraudolento di un altro Stato che ha

partecipato ai negoziati, può invocare il raggiro subito (cd. dolo) come

causa di invalidità (art. 49). Anche in questo caso, il consenso dello

Stato non è libero, ma viziato da errore provocato dalla condotta sleale

di un altro Stato.

Parimenti, uno Stato può invocare l’invalidità del trattato qualora il suo

consenso sia stato ottenuto mediante la corruzione del proprio

rappresentante da parte di un altro Stato che ha partecipato ai

negoziati (art. 50).

8. La violenza esercitata per mezzo di atti o di minacce sul

rappresentante (art. 51) o sullo Stato (art. 52) determina l’invalidità

assoluta del trattato.

Deve trattarsi di violenza implicante la minaccia o l’uso della forza, in

violazione dei principi di diritto internazionale sanciti dalla Carta delle

Nazioni Unite (art. 2, par. 4, della Carta) e non di una semplice

violenza economica (frutto di pressioni finalizzate, in caso di mancata

stipulazione, all’applicazione ad es., di sanzioni commerciali).

Quest’ultima, pur essendo considerata con sfavore dagli Stati parti

della Convenzione di Vienna (la condanna di tale prassi ha formato

oggetto di un’apposita Dichiarazione allegata alla Convenzione), non

configura un’ipotesi di nullità.

Le fattispecie in commento (la violenza sullo Stato o sul rappresentante)

differiscono dalle altre per la loro gravità. Anche in questi casi, infatti, il

consenso dello Stato non è prestato liberamente. Tuttavia, l’origine di

tale illecito condizionamento non risiede in un errore, in un raggiro o in

un’ipotesi di corruzione, che, se accertati, possono giustificare

l’annullamento del trattato su richiesta dello Stato interessato, bensì

68

nella violazione di una norma imperativa che vieta il ricorso alla

minaccia o all’uso della forza nelle relazioni internazionali.

Sicché, oltre ad incidere sulla manifestazione del consenso, tale

violazione colpisce l’intero processo di formazione del trattato,

determinandone la nullità assoluta, ossia l’inesistenza sul piano

giuridico. Pertanto, tali fattispecie di nullità non sono mai sanabili e

sono invocabili da qualsiasi Stato appartenente alla comunità

internazionale.

Per estensione, a norma dell’art. art. 53 della Convenzione di Vienna,

ogni accordo che, al momento della sua conclusione, risulti in contrasto

con una norma imperativa del diritto internazionale (ius cogens) è

nullo.

Si è già trattato di questa fattispecie con riferimento ai rapporti tra

diritto pattizio e norme imperative (lezione n. 10). Queste ultime

rappresentano un limite formale invalicabile rispetto alla libertà di

autoregolamentazione degli interessi da parte degli Stati. Perciò,

qualora un accordo internazionale sia concluso in violazione di norme

imperative, esso risulterà invalido in modo assoluto e chiunque potrà

far valere tale situazione, comportandosi come se detto accordo non

fosse mai esistito.

69

Lezione n. 17

Le cause di sospensione ed estinzione degli accordi internazionali

1. Dopo aver analizzato il procedimento di formazione e modifica degli

accordi e le condizioni alle quali può invocarsi la loro invalidità, occorre

prendere in considerazione le situazioni giuridiche che determinano la

sospensione o l’estinzione degli accordi internazionali. Si tratta di

situazioni fisiologiche o patologiche, da cui dipende la cessazione,

temporanea o definitiva, dell’efficacia di un accordo.

In particolare:

- ha luogo la sospensione di un accordo internazionale quando, in

conformità alle relative disposizioni, o per consenso unanime, i suoi

effetti cessano temporaneamente di essere prodotti (art. 57 e ss.);

- un accordo internazionale, invece, si estingue quando, per ragioni

legate alla volontà delle parti o da esse indipendenti, cessa di produrre i

suoi effetti definitivamente (art. 54 e ss.).

2. Per ragioni di chiarezza espositiva, si prenderanno in esame solo le

cause di estinzione degli accordi internazionali. Queste possono essere

riconducibili alla volontà delle parti contraenti, ovvero esserne del

tutto indipendenti.

Nel primo gruppo figurano:

- la denuncia o il recesso;

- la risoluzione per inadempimento;

- la condizione risolutiva e il termine finale;

- l’abrogazione (espressa o tacita) e la novazione.

Tra le cause di estinzione indipendenti dalla volontà delle parti

figurano, invece:

- l’impossibilità sopravvenuta;

- l’estinzione di uno Stato parte;

- il mutamento fondamentale delle circostanze;

- la sopravvenienza di una norma imperativa.

70

3. Una o più norme di un trattato internazionale possono stabilire a

quali condizioni gli Stati contraenti possono cessare di far parte del

trattato per loro iniziativa.

Tale facoltà concessa agli Stati prende il nome di denuncia (o di

recesso, qualora si tratti di accordi istitutivi di organizzazioni

internazionali) ed è regolata da una specifica procedura stabilita nel

trattato medesimo. Generalmente, la parte che intenda denunciare (o

recedere da) un accordo è tenuta a notificalo alle altre parti almeno

dodici mesi prima e sarà tenuta ad estinguere i rapporti instaurati con

le altre parti in forza dell’accordo secondo regole concordate.

Qualora un accordo non preveda espressamente la facoltà di denuncia

da parte degli Stati, il relativo esercizio è illegittimo (perché le parti, così

facendo, verrebbero meno ai loro obblighi), a meno che tale possibilità

non sia comunque riconducibile alla volontà delle parti o alla natura

dell’accordo (art. 56).

La denuncia, infine, determina l’estinzione immediata di un trattato

bilaterale. Nei trattati multilaterali, tale effetto è rimesso alla volontà

delle altre parti contraenti, le quali possono liberamente decidere di

continuare ad applicare il trattato anche dopo la denuncia di una di

esse.

4. La «violazione sostanziale» del trattato da parte di uno Stato

legittima le altre parti ad invocare tale violazione come causa di

estinzione del trattato (art. 60).

Per «violazione sostanziale» si intende:

- «un ripudio del trattato non autorizzato» dalla Convenzione di Vienna;

- «la violazione di una disposizione essenziale per il raggiungimento

dell’oggetto e dello scopo del trattato».

Sono queste ipotesi riconducibili alla fattispecie della risoluzione per

inadempimento: quando una parte dichiari di non voler più rispettare

un accordo al di fuori delle eventuali cause di recesso ivi previste (o

comunque ammesse dalla Convenzione di Vienna), ovvero si comporti

in modo da non rispettare le norme essenziali dell’accordo, le altre parti

sono legittimate a chiederne l’estinzione per inadempimento. Viene

71

meno, difatti, l’equilibrio tra le prestazioni reciproche che gli Stati si

sono impegnati ad eseguire al momento della ratifica dell’accordo.

5. Si definisce condizione risolutiva ogni avvenimento futuro e

incerto da cui le parti di un trattato fanno dipendere la sua estinzione.

Al verificarsi della condizione, pertanto, il trattato si estinguerà ipso

iure, mentre se essa non si verifica il trattato continuerà a produrre i

suoi normali effetti.

Ad esempio, le parti di un accordo internazionale avente ad oggetto la

navigazione su un corso d’acqua possono stabilire che se il livello

dell’acqua dovesse scendere al di sotto di una certa soglia, l’accordo

cesserà di produrre effetti. Parimenti, le parti di un accordo

multilaterale possono stabilirne sin dall’origine l’estinzione se, in

seguito alla denuncia di alcuni Stati, il numero delle parti dovesse

ridursi al di sotto di una certa cifra.

Si definisce, invece, termine finale l’avvenimento futuro e certo (ad

esempio, una data fissa) che le parti possono indicare nel trattato, al

sopraggiungere del quale il trattato si estinguerà automaticamente.

6. Un trattato internazionale si estingue, infine, quando tutte le parti

contraenti concludono successivamente un nuovo trattato:

- avente ad oggetto esclusivamente le modalità di estinzione del

precedente (cd. abrogazione espressa);

- avente lo stesso oggetto, ma le cui disposizioni sono del tutto

incompatibili con quelle del precedente (abrogazione tacita);

- avente lo stesso oggetto, ma in cui si affermi espressamente che

questo è disciplinato solo in base al nuovo trattato (novazione).

7. Le cause di estinzione indipendenti dalla volontà delle parti

configurano situazioni patologiche, al verificarsi delle quali la

Convenzione di Vienna stabilisce, come conseguenza, la cessazione

degli effetti dell’accordo.

Si può invocare, così, l’impossibilità sopravvenuta di dare

esecuzione al trattato come causa di estinzione se essa risulta «dalla

72

scomparsa o dalla distruzione definitiva di un oggetto indispensabile alla

esecuzione del trattato» (art. 61). Ad esempio, se un accordo

internazionale ha ad oggetto il commercio di un determinato prodotto

naturale che, a causa di una calamità, cessa di esistere, ognuna delle

parti potrà invocarne l’estinzione per la sopravvenuta impossibilità di

darvi esecuzione.

Va precisato, però, che l’impossibilità sopravvenuta non configura una

causa di estinzione del trattato se deriva dalla violazione di un obbligo

del trattato, o di altro obbligo internazionale, perpetrata dalla parte

che la invoca a danno di un’altra parte del trattato.

8. Nei trattati internazionali bilaterali, l’estinzione di uno Stato parte

(v. lezione n. 18), non seguita dal subentro nel trattato da parte dello

Stato successore accettata dalla controparte, determina l’estinzione

immediata del trattato.

Tale causa di estinzione attiene alle vicende successorie che possono

riguardare le parti contraenti. Per effetto di un cambiamento del

relativo status soggettivo, uno Stato parte può, difatti, estinguersi

formalmente (ad es., per smembramento, o annessione da parte di un

altro Stato). In questi casi, lo Stato successore può subentrare

nell’accordo solo manifestando una volontà conforme e se la sua

“candidatura” è accettata dalla controparte.

Nei trattati multilaterali, invece, l’estinzione di uno Stato parte

determina l’estinzione dell’accordo solo per effetto della volontà delle

altre parti contraenti.

9. Anche il mutamento fondamentale delle circostanze esistenti al

momento della conclusione di un trattato (art. 62) può dar luogo

all’estinzione del medesimo, ma solo a determinate condizioni.

Tale situazione si verifica quando un evento non previsto al momento

della conclusione dell’accordo (ad esempio, lo scoppio di un conflitto)

incida sulla relativa esecuzione al punto che la parte che lo invoca non

avrebbe ratificato l’accordo se avesse conosciuto in anticipo detto

evento.

73

La fattispecie in commento è di difficile inquadramento, poiché la sua

invocazione si presta facilmente ad abusi. Pertanto, la norma della

Convenzione che la prende in esame è formulata in senso negativo.

In altre parole, il mutamento fondamentale delle circostanze non può

essere invocato da uno Stato parte come causa di estinzione, a meno

che:

- dette circostanze non costituissero una base essenziale del consenso

delle parti a vincolarsi al trattato e che

- ciò abbia determinato una trasformazione radicale della portata degli

obblighi nascenti dal trattato.

In ogni caso, uno Stato non può invocare il mutamento fondamentale

delle circostanze se questo deriva dalla violazione di un obbligo del

trattato, o di altro obbligo internazionale, a lui imputabile.

10. A norma dell’art. 64 della Convenzione di Vienna, infine, «in caso di

sopravvenienza di una nuova norma imperativa di diritto

internazionale generale, qualsiasi trattato esistente che sia in conflitto

con tale norma diviene nullo e si estingue».

Trattasi di una disposizione “speculare” rispetto a quella di cui all’art.

53 della Convenzione, volta a regolare i rapporti tra le fonti pattizie e le

norme di ius cogens. A differenza della precedente ipotesi, tuttavia, in

questo caso la nullità che dà luogo all’estinzione del trattato opera ex

nunc. Ciò in quanto, al momento della sua conclusione, il trattato è

valido ed efficace, non essendosi ancora formata la norma imperativa

con esso contrastante. Solo dal momento in cui detta norma sarà

pienamente operativa il trattato potrà essere dichiarato nullo, ma

resteranno salvi gli effetti già prodotti fino a quel momento.

74

Lezione n. 18

La successione degli Stati negli accordi internazionali

1. Come anticipato nella scorsa lezione, gli Stati sono interessati da

vicende attinenti alla loro esistenza, le quali rilevano necessariamente

per il diritto internazionale.

Tali vicende possono determinare l’estinzione di alcuni Stati e la

creazione di nuovi (per scissione, smembramento, fusione, annessione,

ecc.).

Si tratta, allora, di stabilire quali regole si applicano in simili situazioni,

affinché gli Stati successori possano eventualmente subentrare nei

rapporti giuridici già instaurati dai loro predecessori.

Per successione degli Stati negli accordi internazionali si intende,

quindi, l’insieme di regole che disciplinano le modalità di subentro dello

Stato successore a quello predecessore in una determinata categoria di

accordi internazionali.

2. Le regole consuetudinarie che disciplinano la successione degli Stati

negli accordi internazionali sono state codificate nella Convenzione

sulla successione degli Stati nei trattati, conclusa sempre a Vienna

nel 1978 ed entrata in vigore nel 1996.

Questa si basa su due principi fondamentali, la cui applicazione

incontra, in casi determinati, una serie di deroghe. Si tratta:

- della tabula rasa e

- della mobilità delle frontiere.

In forza del principio della tabula rasa, «uno Stato di nuova

indipendenza non è obbligato a mantenere in vigore, o a diventare parte

di alcun trattato per il solo fatto che alla data della successione tra Stati

il trattato era in vigore nel territorio a cui la successione tra Stati si

riferisce» (art. 16).

Ciò significa che gli Stati di nuova indipendenza non possono mai

ritenersi vincolati, senza il loro consenso, ai trattati stipulati dagli Stati

loro predecessori.

75

Uno Stato di nuova indipendenza si forma per effetto di alcune

particolari vicende successorie. Ad esempio, in seguito al processo di

decolonializzazione, ovvero in seguito al distacco da uno Stato in cui

esso era precedentemente inglobato, o ancora in conseguenza dello

smembramento o della dissoluzione dello Stato centrale o di una

federazione (si pensi all’U.R.S.S.).

Per il principio di mobilità delle frontiere, quando una porzione del

territorio di uno Stato entra a far parte di un altro Stato, i trattati in

vigore per lo Stato predecessore cessano di avere efficacia e quelli in

vigore per lo Stato successore si estendono anche a tale nuova

porzione, salvo che «risulti dal trattato o sia altrimenti stabilito che

l’applicazione del trattato a tale territorio sarebbe incompatibile con il suo

oggetto e il suo scopo o muterebbe radicalmente le condizioni per la sua

efficacia» (art. 15).

Sicché, in caso di annessione di una porzione del territorio di uno

Stato da parte di un altro Stato, o di cessione di parte del territorio di

uno Stato ad un altro (ad es., la Corsica), i trattati di cui è parte

quest’ultimo avranno efficacia anche nella nuova porzione di territorio,

a meno che ciò non si riveli incompatibile con il loro oggetto e il loro

scopo, ovvero le condizioni di applicabilità mutino radicalmente.

3. Fanno eccezione al principio della tabula rasa gli accordi di confine

(art. 11) e i cd. trattati localizzabili, da cui discendono «obblighi

riguardanti l’uso di territori, o limiti al suo uso», ovvero «diritti stabiliti…

a favore di un territorio di uno Stato straniero [o «di un gruppo di Stati», o

«di tutti gli Stati»] e considerati connessi con i territori in questione» (art.

12).

Esempio di trattato localizzabile è quello avente ad oggetto le regole di

navigazione e utilizzo commerciale di un corso d’acqua comune a più

Stati, il funzionamento di una diga, ecc.

Tale deroga è però inapplicabile ai trattati «riguardanti l’installazione di

basi militari straniere sul territorio a cui la successione tra Stati si

riferisce» (art. 12, par. 3). Questi, difatti, pur essendo a stretto rigore

qualificabili come trattati localizzabili, non ricadono nel regime

76

eccezionale anzidetto, poiché lo Stato di nuova formazione avrà sempre

diritto a rinegoziare con lo Stato titolare della base militare le condizioni

di ospitalità, ovvero a rifiutarne la presenza sul proprio territorio.

Rispetto alle esigenze di conservazione dello status quo, che sono alla

base della deroga stabilita per i trattati localizzabili, in questo caso sono

da ritenersi prevalenti esigenze di natura politica.

4. La Convenzione di Vienna (art. 8) stabilisce, infine, che gli accordi

conclusi tra lo Stato predecessore e quello successore per la

devoluzione di diritti e obblighi derivanti dalla partecipazione a trattati

internazionali non hanno effetto nei confronti delle altre parti

contraenti senza il loro consenso.

La norma rispecchia in pieno il principio volontaristico: qualora uno

Stato subentri ad un altro in forza di idonea vicenda successoria,

qualsiasi accordo tra i due Stati finalizzato a stabilire a quali trattati lo

Stato successore intenda partecipare non avrà effetto per gli Stati

“terzi”, cioè per gli Stati che abbiano stipulato detti trattati con lo Stato

predecessore. Il subentro dello Stato successore potrà avvenire, quindi,

solo con il consenso di questi.

77

IV modulo

L’adattamento del diritto interno al diritto internazionale

Lezione n. 19

La nozione di adattamento. Le teorie moniste e quelle dualiste

1. Nel presente modulo si tratterà dei modi in cui il diritto

internazionale è recepito negli ordinamenti nazionali, allo scopo di

consentire che produca i suoi effetti al loro interno. È evidente, difatti,

che, se così non fosse, l’intera produzione giuridica internazionale

(norme consuetudinarie, pattizie, ecc.) sarebbe destinata ad avere

efficacia esclusivamente nell’ordinamento internazionale mentre gli

Stati, nei rispettivi ordinamenti, continuerebbero ad applicare solo le

norme prodotte dai rispettivi Parlamenti, senza tener conto di quanto

stabilito in sede internazionale. Il che, in buona sostanza, renderebbe

vana l’intera attività di cooperazione diplomatica e i suoi effetti positivi

sulla stabilità delle relazioni internazionali.

Perciò, ogni ordinamento statale è provvisto delle disposizioni

necessarie a recepire le norme di diritto internazionale (così come quelle

di altri ordinamenti stranieri), e renderle, così, pienamente efficaci e

operative.

Si definisce, quindi, adattamento il procedimento finalizzato a

consentire che le norme giuridiche estranee ad un ordinamento (perché

prodotte al di fuori di questo: cd. fonti extra ordinem) possano trovare

applicazione e produrre effetti al suo interno.

Il procedimento di adattamento è necessario in quanto si ritiene che

nessun ordinamento sovrano sia tenuto a riconoscere ed attribuire

efficacia ai meccanismi di produzione giuridica propri di altri

ordinamenti. Tale assunto, a sua volta, presuppone che gli ordinamenti

giuridici nazionali e internazionale siano tra loro separati e distinti.

78

2. Secondo la teoria monista proposta da Hans Kelsen, esisterebbe un

unico ordinamento universale cui farebbero capo tutti i rapporti

giuridici, disciplinati in base alle norme dell’ordinamento di volta in

volta applicabili.

Così, a seconda del luogo, del tempo, delle caratteristiche specifiche e

dei soggetti titolari, un rapporto giuridico sarà regolato da una o più

norme, prodotte secondo un determinato procedimento (da un

Parlamento nazionale, in via consuetudinaria, ecc.), le quali,

automaticamente, escluderanno l’applicazione di tutte le altre.

In questa ipotesi, non sarebbe necessario alcun procedimento di

adattamento, dal momento che, qualunque sia il meccanismo di

produzione giuridica riconosciuto dall’ordinamento, le norme così

prodotte saranno le uniche applicabili ai rapporti giuridici

corrispondenti, escludendosi ogni possibile sovrapposizione o

concorrenza tra fonti diverse.

3. Tale impostazione non è, tuttavia, quella correntemente accolta. Si è

detto che l’adattamento postula l’esistenza di una pluralità di

ordinamenti giuridici tra loro separati e distinti.

È questo il fondamento della teoria dualista (o pluralista) che, a

differenza della precedente, muove dal presupposto che ogni

ordinamento configuri un centro autonomo di produzione giuridica. Ne

consegue che, qualora si intendano applicare all’interno di un

ordinamento norme prodotte in un altro, sarà necessario stabilire uno o

più procedimenti giuridici di mutuo riconoscimento.

Negli ordinamenti giuridici nazionali che accolgono la teoria dualista

(come è il caso dell’ordinamento italiano), l’adattamento al diritto

internazionale implica la definizione di procedimenti idonei a recepire:

- le fonti di natura consuetudinaria;

- le fonti di natura pattizia;

- le fonti di terzo grado.

In buona sostanza, per ogni categoria di fonti internazionali, date le

differenti caratteristiche, è necessario prevedere idonei meccanismi di

79

adattamento, così da recepirle attribuendo loro un rango adeguato agli

effetti che dovranno eventualmente spiegare.

Ciò non toglie, peraltro, che un ordinamento nazionale si possa dotare

di un unico procedimento di adattamento, valido per tutte e tre le

categorie precitate.

Quello che conta maggiormente, in effetti, è garantire la massima

corrispondenza tra la norma internazionale da recepire e la norma

interna di adattamento, onde evitare che l’intero procedimento risulti

inadeguato al fine per il quale è stato concepito.

Parimenti, appare necessario preservare l’efficacia delle norme

internazionali recepite rispetto ad eventuali norme interne

successivamente prodotte, aventi il medesimo oggetto, ma differente

disciplina. In difetto, ogni Stato potrebbe, a suo piacimento, eludere gli

impegni internazionali in precedenza assunti mediante l’adozione di

una nuova regolamentazione unilaterale dal contenuto incompatibile.

Si vedrà nelle prossime lezioni come tale rischio sia opportunamente

scongiurato.

80

Lezione n. 20

Il procedimento ordinario e il procedimento speciale di adattamento

1. Una volta chiarito cosa si intenda per adattamento e quale sia la

relativa funzione, occorre analizzare le concrete modalità attraverso cui

esso viene realizzato nell’ordinamento italiano.

Va detto, anzitutto, che l’adattamento del diritto interno al diritto

internazionale può essere attuato secondo una duplice modalità.

Esistono, difatti, il procedimento ordinario e quello speciale di

adattamento. Entrambi trovano applicazione nel nostro ordinamento,

con esiti differenti.

2. Il procedimento ordinario prevede che la norma extra ordinem

venga recepita mediante la sua riformulazione integrale all’interno di

una fonte tipica dell’ordinamento (legge, regolamento, ecc.).

In altre parole, un accordo internazionale è recepito mediante

procedimento ordinario quando il relativo testo è riprodotto in un atto

tipico dell’ordinamento recipiente (ad es., una legge). All’esito del

procedimento, si avranno due atti diversi dal medesimo contenuto, ma

la legge sostituirà integralmente l’accordo e sarà applicata in luogo di

questo all’interno dell’ordinamento.

Il procedimento speciale prevede, invece, che la fonte

dell’ordinamento si limiti a ordinare l’osservanza della norma extra

ordinem, rinviando direttamente a questa per stabilirne il

contenuto. In questo caso, non è necessaria la riformulazione delle

norme internazionali nell’atto interno, poiché questo rinvia

immediatamente al contenuto della fonte internazionale.

Pertanto, mentre nel procedimento ordinario l’atto interno di

recepimento avrà il medesimo contenuto dell’atto internazionale

recepito, in quello speciale esso conterrà esclusivamente la norma (o le

norme) di rinvio.

81

3. Il ricorso al procedimento ordinario postula che la fonte extra

ordinem e quella interna di recepimento rimangano del tutto separate.

Pertanto, le vicende che interessano l’una (interpretazioni, modifiche,

abrogazione) non sono in grado di riverberarsi automaticamente

sull’altra.

Più precisamente, con il procedimento ordinario si vengono a creare

due fonti distinte, ciascuna applicabile nel proprio ordinamento.

Pertanto, tutto ciò che accade alla fonte internazionale (ad esempio, la

sua abrogazione) rimane estraneo alla fonte interna di recepimento,

che, all’atto della sua formazione, ha il medesimo contenuto della

prima, ma, da quel momento in poi, produce effetti autonomi.

Tale caratteristica rende il ricorso al procedimento ordinario

decisamente più problematico e, perciò, meno frequente. Tuttavia,

quando la norma extra ordinem da recepire non è auto-esecutiva (self-

executing), il ricorso al procedimento ordinario diviene obbligatorio.

Ciò accade, essenzialmente, in tre casi:

1. quando la norma non ha contenuto immediatamente precettivo

e deve essere attuata nell’ordinamento di recepimento (ad es., quando

la norma internazionale è eccessivamente generica e deve essere

specificata in sede di recepimento);

2. quando la norma non è sufficientemente precisa e deve essere

integrata nell’ordinamento di recepimento (ad es., quando la stessa

norma internazionale prevede che la fonte interna di recepimento

provveda al suo completamento, in modo da renderla efficace);

3. quando la norma contiene precetti alternativi e l’ordinamento

di recepimento è chiamato ad optare per uno di essi.

4. A differenza del procedimento ordinario di adattamento, quello

speciale si realizza mediante rinvio. Questo può essere:

- formale (detto anche mobile, dinamico, non recettizio) o

- materiale (detto anche statico, fisso, recettizio).

Il rinvio formale è il procedimento mediante il quale la norma

dell’ordinamento recipiente si riferisce direttamente alla fonte extra

ordinem. Esso consente, quindi, di dare rilievo a tutte le disposizioni di

82

volta in volta prodotte dalla fonte destinataria del rinvio, alle loro

possibili modifiche, integrazioni, ecc. In ciò risiede il suo carattere

“dinamico”.

In altri termini, attraverso il procedimento di rinvio formale, la norma

interna, nell’attribuire rilevanza giuridica all’intera categoria di fonti

extra ordinem da recepire (ad es., «…alle norme di diritto internazionale

generalmente riconosciute»), crea, di volta in volta, nell’ordinamento

recipiente le corrispondenti norme di adattamento.

Il rinvio materiale è, invece, il procedimento con il quale la norma

dell’ordinamento recipiente dà ingresso ad una specifica norma (o

gruppo di norme) extra ordinem (ad es., «la Convenzione sul diritto dei

trattati, conclusa a Vienna nel 1969…», ovvero «il divieto dell’uso della

forza, come sancito dall’art. 2, par. 4 della Carta delle Nazioni Unite…»).

In tal caso, si determina, l’incorporazione della norma oggetto del

rinvio in quella rinviante, sicché quest’ultima rimane indifferente ad

ogni eventuale successiva modifica della prima. Perciò, a differenza

dell’ipotesi precedente, la norma recipiente e quella recepita divengono

un unicum inscindibile, dotato di efficacia autonoma.

83

Lezione n. 21

L’adattamento al diritto internazionale generale ex art. 10, 1° comma,Cost.

1. L’ordinamento giuridico italiano privilegia il ricorso al procedimento

speciale di adattamento, di preferenza utilizzato sia per le norme di

diritto internazionale generale, sia per quelle di natura convenzionale.

In particolare, il recepimento delle norme consuetudinarie avviene

tramite la disposizione di cui all’art. 10, 1° comma, della Costituzione.

Essa recita:

«L’ordinamento giuridico italiano si conforma alle norme di

diritto internazionale generalmente riconosciute».

Si tratta di una disposizione avente carattere di fonte sulla produzione,

mediante la quale le norme di diritto internazionale generale, al

momento della loro formazione, entrano automaticamente a far parte

dell’ordinamento giuridico italiano.

L’art. 10, 1° comma, Cost. è stato definito «t ras formatore

permanente» (Perassi), perché consente di recepire le norme di diritto

internazionale generale senza bisogno di alcuna ulteriore procedura di

adattamento formale.

La norma, quindi, reca in sé un procedimento di adattamento

speciale mediante rinvio mobile, di tipo automatico, continuo e

completo, attribuendo efficacia interna a tutte le norme

consuetudinarie, presenti e future, che l’ordinamento internazionale è

in grado di produrre, nonché a tutte le modifiche che tali norme

possono subire.

In buona sostanza, l’adattamento si realizza in concomitanza alla

formazione della norma consuetudinaria nell’ordinamento

internazionale. Non appena la norma è ritenuta pienamente operativa

nel proprio ordinamento, mediante la disposizione costituzionale in

commento essa risulterà applicabile anche nell’ordinamento italiano.

84

2. Le norme generali introdotte mediante adattamento automatico

devono, quindi, considerarsi vigenti all’interno dell’ordinamento italiano

dal momento in cui e fino a quando esse operano nell’ordinamento

internazionale.

Poiché la norma di adattamento è contenuta nella Costituzione, anche

le norme internazionali introdotte per il tramite di tale norma godono

del medesimo rango.

Ciò significa che le norme internazionali consuetudinarie, nel nostro

ordinamento, sono formalmente parificate a quelle costituzionali.

Perciò, in caso di eventuale contrasto con le norme interne della

Costituzione – ipotesi prettamente teorica, ma, in linea di principio,

possibile – la ricomposizione delle antinomie potrebbe (anzi, dovrebbe)

risolversi a favore delle prime.

Tuttavia, per scongiurare la possibilità che dal recepimento di talune

norme consuetudinarie discenda un effetto di instabilità

dell’ordinamento (ad es., dell’assetto istituzionale, o del principio

democratico, ecc.), si ritiene che la salvaguardia dei principi supremi

della Costituzione, sui quali si fonda il nostro ordinamento, sia da

considerarsi una finalità prevalente anche rispetto all’osservanza di

eventuali precetti internazionali incompatibili.

Seguendo un ragionamento parzialmente diverso, parte della dottrina

ritiene che, solo in caso di conflitto tra norme internazionali introdotte

ex art. 10, 1° comma, Cost. e leggi ordinarie successivamente emanate,

le prime debbano risultare prevalenti, per la loro natura di cd. “fonti

interposte” (collocate, cioè, in posizione intermedia tra le fonti di rango

ordinario e quelle di rango costituzionale). Sicché, una legge ordinaria

in contrasto con una norma internazionale generale sarà viziata da

illegittimità costituzionale e potrà essere annullata dalla Corte

costituzionale.

Diversamente, quando il conflitto riguardi norme internazionali generali

e disposizioni costituzionali, esso dovrà risolversi mediante una

ricomposizione in via interpretativa, ovvero riconoscendo la prevalenza

dei precetti costituzionali.

85

3. L’adattamento automatico ex art. 10, 1° comma, Cost. consente –

come detto – di recepire nel nostro ordinamento tutte le norme

consuetudinarie all’atto della loro formazione, incluse quelle a carattere

imperativo (ius cogens). Per queste ultime valgono le medesime

considerazioni svolte in precedenza circa i criteri e le modalità di

ricomposizione di eventuali conflitti.

Secondo un’autorevole opinione dottrinaria (Quadri), peraltro, l’art. 10,

1° comma sarebbe utilizzabile anche ai fini del recepimento delle norme

pattizie e di terzo grado.

Ciò in quanto, tale norma, nel consentire l’adattamento

dell’ordinamento italiano al precetto pacta sunt servanda, di natura

consuetudinaria, ammetterebbe implicitamente l’ingresso, per la

medesima “strada”, di tutte le fonti che in tale precetto trovano

legittimazione sul piano giuridico. Vale a dire, anzitutto, gli accordi

internazionali, e, tra questi, quelli contenenti specifici meccanismi di

produzione giuridica, da cui traggono, a loro volta, giuridicità le fonti di

terzo grado.

Pertanto, l’ordinamento italiano sarebbe provvisto di una norma

generale sull’adattamento valida per tutte le categorie di fonti

internazionali suscettibili di essere recepite.

Tale opinione, tuttavia, confligge con il tenore letterale dell’art. 10, 1°

comma, che limita espressamente l’applicabilità del procedimento di

adattamento speciale di cui trattasi alle «norme di diritto internazionale

generalmente riconosciute».

86

Lezione n. 22

L’adattamento agli accordi internazionali

1. A differenza di quanto stabilito dall’art. 10, 1° comma, della

Costituzione per le norme consuetudinarie, nell’ordinamento italiano

non è rinvenibile una corrispondente disposizione sull’adattamento alle

norme pattizie.

Il legislatore nazionale, pertanto, è chiamato a dare esecuzione ai

trattati internazionali secondo il procedimento di adattamento di

volta in volta prescelto.

In altri termini, a differenza del diritto generale, le cui norme vengono

tutte recepite uno actu mediante il procedimento speciale previsto

all’art. 10, 1° comma, ogni volta che lo Stato italiano intende

impegnarsi sul piano internazionale attraverso la stipulazione di un

accordo, dovrà provvedere, secondo il proprio apprezzamento, a dare

esecuzione a tale accordo attraverso un procedimento specifico, la cui

efficacia è limitata a quel determinato accordo.

Solo in casi particolari il legislatore ricorre al procedimento ordinario di

adattamento, che – come detto – prevede la riformulazione del testo del

trattato in una fonte tipica dell’ordinamento (legge, regolamento, ecc.).

Generalmente, invece, l’adattamento agli accordi internazionali si

realizza mediante procedimento speciale di rinvio alla fonte

internazionale da recepire.

È possibile, peraltro, fare ricorso contestualmente ad entrambi i

procedimenti, quando la natura delle norme contenute nell’accordo

internazionale lo richieda.

2. Il procedimento di adattamento ai trattati internazionali più

frequentemente utilizzato è il cd. ordine di esecuzione.

Si tratta di un procedimento di rinvio fisso, attraverso il quale la norma

interna dà rilievo alle disposizioni contenute in una determinata fonte

di produzione internazionale (un qualunque accordo), incorporandole.

87

L’ordine di esecuzione è formulato nei termini seguenti «Piena ed intera

esecuzione è data all’Accordo “…” a decorrere dalla data della sua

entrata in vigore… [segue a tale formula il testo dell’accordo]» ed è

contenuto in un atto normativo tipico dell’ordinamento recipiente (una

legge, un regolamento, ecc.).

Generalmente, l’ordine di esecuzione è contenuto nella stessa legge di

autorizzazione alla ratifica di un accordo internazionale. In questo

caso, l’ordinamento italiano, all’atto di ratificare l’accordo, provvede

anche al suo recepimento. È evidente, peraltro, che l’ordine di

esecuzione non avrà efficacia nel diritto interno finché l’accordo non

entrerà in vigore nell’ordinamento internazionale.

3. In linea di principio, comunque, l’ordine di esecuzione deve essere

contenuto nell’atto normativo interno corrispondente al rango che si

intende attribuire all’accordo internazionale da recepire. Così, se si

tratta di dare esecuzione ad un trattato riconducibile ad una delle

cinque categorie di cui all’art. 80 della Costituzione, sarà necessario

ricorrere ad un atto di rango almeno equivalente a quello mediante il

quale il Presidente della Repubblica è stato autorizzato dal Parlamento

alla ratifica dell’accordo, vale a dire una legge ordinaria o, nei casi più

gravi, una legge costituzionale.

Altrimenti, può farsi ricorso anche ad atti normativi di rango inferiore a

quello legislativo (ad es., un decreto presidenziale o ministeriale),

qualora si voglia attribuire all’accordo internazionale da recepire il

valore di fonte secondaria dell’ordinamento italiano.

4. In definitiva, mediante l’ordine di esecuzione i trattati internazionali

vengono formalmente recepiti nell’ordinamento italiano.

Ciò determina la necessità di coordinarne l’applicazione con quella delle

fonti interne di pari grado, per evitare che la successiva adozione di un

atto normativo confliggente possa condurre all’abrogazione implicita o,

comunque, alla disapplicazione del trattato.

A differenza delle norme consuetudinarie, che vengono

“costituzionalizzate” in virtù del “passaggio” attraverso l’art. 10, 1°

88

comma, Cost. e che, pertanto, una volta recepite, si situano in una

posizione giuridica formale certamente superiore a quella delle leggi

ordinarie, le norme pattizie “coabitano” con le leggi ordinarie, perché il

relativo adattamento avviene proprio mediante una legge.

Si pone, perciò, il problema di stabilire un ordine di prevalenza tra fonti

del medesimo rango – le une di adattamento, le altre interne – valido

nei casi in cui il contenuto di tali fonti dovesse risultare incompatibile.

Fino alla riforma costituzionale del 2001, la Costituzione italiana non

contemplava alcuna disposizione in grado di stabilire con certezza detto

ordine. L’art. 117, 1° comma, Cost. prevede ora che il legislatore

italiano sia costituzionalmente vincolato al «rispetto degli obblighi

internazionali».

Nella lezione successiva si tratterà della portata concreta di tale vincolo.

89

Lezione n. 23

Il rispetto degli «obblighi internazionali» come vincolo alla potestàlegislativa

ex art. 117, 1° comma, Cost.

1. Nella lezione precedente, si è posto il problema di individuare un

criterio di ricomposizione degli eventuali conflitti che possano insorgere

tra due norme, aventi il medesimo rango formale – quello di legge

ordinaria – ma origine diversa, l’una interna (parlamentare), l’altra

internazionale (di adattamento).

Se le due norme in conflitto avessero la medesima origine, il relativo

contrasto si risolverebbe a favore di quella emanata successivamente

(secondo il principio lex posterior derogat priori). Si tratterebbe, cioè, di

un’ipotesi di abrogazione implicita della norma più risalente da parte

di quella più recente.

L’applicazione del criterio cronologico alla situazione descritta in

apertura, tuttavia, potrebbe condurre all’abrogazione (implicita)

unilaterale delle norme di adattamento ad un accordo internazionale

per effetto di una legge interna successivamente emanata. Vale a dire

che lo Stato italiano potrebbe decidere autonomamente di svincolarsi

dal rispetto delle norme di un accordo internazionale non più “gradito”

in modo surrettizio. Esso, cioè, pur rimanendo formalmente obbligato

dall’accordo, sarebbe legittimato ad adottare norme in contrasto con

detto obbligo, qualora lo ritenesse politicamente opportuno.

Ciò determinerebbe lo “svuotamento” del contenuto dell’accordo, la cui

esecuzione all’interno dell’ordinamento italiano sarebbe preclusa

dall’entrata in vigore di una legge successiva confliggente. Con il

risultato che lo Stato italiano non risulterebbe certamente esente da

responsabilità internazionale (v. modulo n. VII), ma impedirebbe a

coloro i quali dovessero beneficiare di eventuali diritti riconosciuti

dall’accordo (ad es., di natura economica) di continuare ad esercitarli

nel proprio ordinamento.

90

2. Per ovviare a tale problema, la riforma costituzionale del 2001 ha

introdotto una disposizione simile a quella già stabilita per le norme

consuetudinarie dall’art. 10, 1° comma.

Precisamente, secondo l’art. 117, 1° comma, Cost., la funzione

legislativa deve essere esercitata nel «rispetto degli obblighi

internazionali». Detto vincolo, pertanto, si pone quale limite alla potestà

legislativa dello Stato e delle Regioni, nei rispettivi ambiti di competenza

materiale.

Ciò implica che l’eventuale adozione di una legge interna in contrasto

con gli impegni precedentemente assunti dallo Stato italiano per effetto

della stipulazione di un accordo internazionale, oltre a violare il diritto

internazionale, configura un’ipotesi di illegittimità costituzionale.

Ogni volta che il legislatore (nazionale o regionale) esercita la propria

potestà è tenuto, quindi, a rispettare gli obblighi internazionali già

assunti dallo Stato italiano, pena l’annullamento delle norme di legge

in conflitto da parte della Corte costituzionale per contrasto con

l’art. 117, 1° comma, Cost.

In definitiva, gli accordi internazionali ratificati ed eseguiti

nell’ordinamento resistono all’abrogazione da parte di leggi interne in

conflitto successivamente emanate.

3. Gli «obblighi internazionali» cui si riferisce la disposizione

costituzionale sono solo quelli derivanti dalla stipulazione di accordi

internazionali. Quelli derivanti dalle norme di diritto internazionale

generale, difatti, sono già coperti dal dettato dell’art. 10, 1° comma,

Cost.

Si pone, però, il problema di stabilire se tutti gli accordi stipulati dallo

Stato italiano siano idonei a limitare la potestà del legislatore, oppure

solo quelli la cui ratifica è autorizzata con legge del Parlamento ex art.

80 Cost.

La soluzione più coerente a livello sistematico dovrebbe essere la

seconda, poiché è inconsueto che la potestà del legislatore incontri dei

limiti rispetto al contenuto di accordi internazionali recepiti con un atto

91

normativo di rango inferiore. Tuttavia, nel silenzio della norma, ciò non

può essere affermato con certezza.

Si pone, altresì, il problema di stabilire se gli obblighi internazionali che

il legislatore è tenuto a rispettare siano solo quelli negativi (cd. obblighi

di non fare, ad es. di non adottare una legge in conflitto), o anche quelli

positivi (cd. obblighi di fare, ad es. di disciplinare in modo conforme al

diritto internazionale una materia fino a quel momento non regolata).

4. Con le sentenze nn. 347 e 348 del 24 ottobre 2007, la Corte

costituzionale ha affrontato solo in parte i problemi applicativi posti

dall’art. 117, 1° comma, Cost. Tali pronunce sono, comunque,

estremamente importanti perché intervengono per la prima volta a

chiarire le modalità del sindacato di legittimità costituzionale esercitato

dalla Corte in base al parametro normativo anzidetto.

Secondo la Consulta, il nuovo art. 117, 1° comma, Cost., «se da una

parte rende inconfutabile la maggior forza di resistenza delle norme

[internazionali] rispetto a leggi ordinarie successive, dall’altro attrae le

stesse nella sfera di competenza di questa Corte». Senonché, le norme

internazionali non possono ritenersi «incondizionatamente vincolanti ai

fini del controllo di costituzionalità delle leggi nazionali, [che] deve

sempre ispirarsi al ragionevole bilanciamento tra il vincolo derivante dal

rispetto degli obblighi internazionali… e la tutela degli interessi

costituzionalmente protetti» (sentenza n. 348).

92

Lezione n. 24

L’adattamento alle fonti di terzo grado

1. Occorre chiarire, da ultimo, le modalità di adattamento alle fonti di

terzo grado. Queste (ad es., le decisioni del Consiglio di sicurezza

delle Nazioni Unite, o i regolamenti e le direttive comunitarie), come

illustrato in precedenza trattando del sistema delle fonti del diritto

internazionale (lezione n. 11), – traggono la loro giuridicità da specifiche

fonti sulla produzione previste all’interno di accordi internazionali.

Escludendo l’ipotesi del Quadri (secondo il quale tutte le fonti

internazionali vengono recepite per il tramite dell’art. 10, 1° comma,

Cost.), anche per l’adattamento alle fonti di terzo grado si pone

l’alternativa tra procedimento ordinario e procedimento speciale.

2. Al riguardo, va detto che, in linea di principio, l’adattamento

mediante ordine di esecuzione di un trattato recante norme sulla

produzione di fonti di terzo grado (com’è, ad es., l’art. 42 della Carta

delle Nazioni Unite) potrebbe essere ritenuto sufficiente a consentire

anche il recepimento delle fonti prodotte in base a tale meccanismo.

Si tratta, in pratica, di un procedimento di rinvio mobile di secondo

grado, “racchiuso” in un procedimento di rinvio fisso. Attraverso

quest’ultimo si recepisce il trattato, ma, così facendo, si dà rilievo anche

ai relativi meccanismi di produzione giuridica, i quali sono

automaticamente riconosciuti produttivi di fonti di terzo grado aventi

efficacia immediata nell’ordinamento recipiente.

Tuttavia, qualora la fonte di terzo grado non fosse idonea ex se a

produrre effetti nell’ordinamento recipiente, potrebbe essere necessario

riformularne il contenuto in un atto interno, mediante il tipico

procedimento ordinario.

3. Per ciò che concerne la prassi italiana, la Corte costituzionale, nella

sentenza n. 18/1989, ha escluso, anzitutto, che le risoluzioni del

Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite possano costituire fonte di

93

norme di diritto internazionale generale, «pur potendo avere influenza

nella formazione di consuetudini e di accordi conformi al loro contenuto»,

così da essere recepite mediante il procedimento di adattamento

automatico ex art. 10, 1° comma, Cost.

Più in generale, si riscontra un orientamento pressoché uniforme,

tendente a subordinare l’efficacia nel diritto interno delle fonti

internazionali di terzo grado all’adozione di norme ad hoc da parte del

legislatore.

Per l’adattamento alle fonti di terzo grado nell’ordinamento italiano si

privilegia, quindi, il ricorso al procedimento ordinario. Vale a dire che,

tutte le volte che un’organizzazione internazionale (o altro organismo)

produca un atto normativo dotato di efficacia vincolante per gli Stati

membri, lo Stato italiano recepisce tale atto mediante la sua

riformulazione in un provvedimento normativo interno.

4. Tale prassi era tradizionalmente seguita anche per l’adattamento alle

fonti comunitarie cd. derivate (in particolare, i regolamenti). Dopo le

censure della Corte di Giustizia CE (sentenza 15.7.1964), la Corte

costituzionale ha riconosciuto la diretta applicabilità dei regolamenti

comunitari (sentenze 183/1973 e 170/1984) nell’ordinamento italiano,

grazie alla copertura fornita dall’art. 11 Cost., che giustifica le

limitazioni di sovranità derivanti dall’adesione dell’Italia all’ordinamento

delle Comunità europee (ora dell’Unione europea).

94

V modulo

Le immunità dei soggetti internazionali

Lezione n. 25

La nozione di immunità

1. Tra le regole consuetudinarie del diritto internazionale maggiormente

significative e risalenti, figurano le norme sull’immunità degli Stati e

dei loro organi.

Nel diritto internazionale, per immunità deve specificamente intendersi

l’impossibilità di esercitare la potestà giurisdizionale su determinati

rapporti giuridici facenti capo ai soggetti dell’ordinamento.

In altre parole, più che qualificare il soggetto che ne beneficia,

l’immunità internazionale caratterizza il rapporto giuridico di cui tale

soggetto è titolare, rapporto sul quale gli altri soggetti dell’ordinamento

non possono esercitare alcuna potestà giurisdizionale interna allo scopo

di verificarne la legittimità.

Tale peculiarità dell’istituto in commento discende direttamente dalla

struttura paritaria della comunità internazionale. In sostanza, a

differenza degli ordinamenti interni, dove l’immunità è qualificabile

come un privilegio spettante a taluni consociati in ragione, ad esempio,

della funzione da loro svolta (come per i membri del Parlamento) e,

quindi, come un elemento di “verticalizzazione” dei rapporti

intersoggettivi, nel diritto internazionale l’immunità spetta a tutti gli

Stati, per consentire loro di non essere indebitamente aggrediti nelle

rispettive sfere di sovranità.

Così, uno Stato non può condurre un altro Stato innanzi ai propri

Tribunali interni per censurarne l’adozione di atti o il compimento di

condotte che costituiscono manifestazioni della propria sovranità.

Ciò in quanto, essendo tutti gli Stati posti in posizione pariordinata

nell’ordinamento internazionale, nessuno di essi è in grado di esercitare

un sindacato di legittimità interno sugli atti compiuti da altri Stati.

95

Tali atti, perciò, sono immuni dal controllo giurisdizionale spettante ad

ogni Stato nel proprio ordinamento.

2. L’immunità può essere considerata, quindi, una manifestazione

della sovranità. Questa implica, difatti, l’esercizio esclusivo del potere

d’imperio sul proprio territorio e il corrispondente obbligo per tutti gli

altri Stati di astenersi da ogni interferenza.

Secondo la Corte permanente di giustizia internazionale (sentenza

del 7.9.1927 sul caso Lotus), «è un principio accettato dall’ordinamento

giuridico internazionale che uno Stato possiede ed esercita nell’ambito

del suo territorio una giurisdizione (jurisdiction) assoluta ed esclusiva e

che qualsiasi eccezione a questo diritto soggettivo deve essere ricondotta

al consenso, espresso o implicito, dello Stato».

In definitiva, se uno Stato è indipendente e sovrano, nessun altro Stato

potrà sindacare la legittimità dei suoi atti nell’ambito del proprio

ordinamento, a meno che il primo non abbia acconsentito

volontariamente a sottomettersi alla giurisdizione straniera.

3. Nelle successive lezioni si tratterà delle immunità dello Stato e dei

suoi organi. Queste si distinguono in:

- immunità in senso stretto, spettante allo Stato (cioè alle sue

articolazioni centrali e locali), come soggetto dell’ordinamento

internazionale;

- immunità funzionale (rationae materiae), spettante agli individui-

organi dello Stato per gli atti commessi nell’esercizio delle loro funzioni;

- immunità personale (rationae personae), spettante agli individui-

organi dello Stato per gli atti commessi al di fuori delle loro funzioni

ufficiali.

96

Lezione n. 26

L’immunità degli Stati dalla giurisdizione interna di altri Stati – Parte I

1. Si definisce immunità in senso stretto (cioè propriamente detta)

l’immunità spettante ad uno Stato rispetto alla giurisdizione interna di

uno Stato straniero.

Il riconoscimento di tale immunità determina l’impossibilità di

convenire in giudizio uno Stato straniero innanzi ad un Tribunale

nazionale per gli atti da esso compiuti.

L’immunità in senso stretto ha origini consuetudinarie, in quanto gli

Stati rispettano tale norma in forza di una prassi consolidata (che,

peraltro, nel tempo ha subito alcune importanti evoluzioni), sin dal

momento della formazione della moderna comunità internazionale.

È un portato del principio di sovrana uguaglianza degli Stati, perché

qualifica strutturalmente i rapporti interstatali in senso orizzontale: in

sintesi, poiché tutti gli Stati sono posti giuridicamente sullo stesso

piano, nessuno di essi può ingerirsi negli affari interni di un altro, né

sindacare la legittimità dei suoi atti.

Spetta allo Stato e ai suoi organi rappresentativi di governo, agli enti

territoriali, alle agenzie e agli enti nazionali o locali che agiscono

nell’esercizio di funzioni sovrane.

Attualmente, la disciplina dell’immunità in senso stretto è oggetto della

Convenzione sull’immunità giurisdizionale degli Stati e dei loro

beni , promossa dall’Assemblea Generale delle N.U. e dalla

Commissione di diritto internazionale. La Convenzione è stata adottata

il 2.12.2004 e aperta alla firma a New York il 17.1.2005. Non è ancora

in vigore.

La Convenzione di New York codifica in gran parte le regole di diritto

internazionale generale vigenti in materia, introducendo alcune norme

di sviluppo progressivo.

2. Tradizionalmente, l’immunità in senso stretto copriva tutti i rapporti

giuridici facenti capo ad uno Stato straniero (cd. immunità assoluta).

97

Dalla fine del XIX secolo, si fa strada, però, un’interpretazione diversa,

secondo cui l’immunità statale deve essere riconosciuta solo per gli atti

che siano manifestazione di una potestà d’imperio (atti iure imperii) e

non anche per quelli di natura privatistica (atti iure gestionis, o iure

privatorum).

Sono, pertanto, coperti dall’immunità tutti gli atti mediante i quali lo

Stato esercita la propria sovranità (iniziative diplomatiche unilaterali,

atti di guerra, nazionalizzazioni di imprese straniere, ecc.).

Sono, invece, esclusi dall’immunità tutti gli atti attraverso i quali lo

Stato instaura rapporti giuridici di natura privatistica con soggetti

stranieri (acquisti di beni, emissione di titoli finanziari, stipulazione di

contratti, ecc.).

La distinzione in commento è accolta anche nella Convenzione di New

York e rappresenta l’attuale livello di sviluppo della regola

dell’immunità in senso stretto.

Ciò significa che, tradizionalmente, l’immunità statale non conosceva

eccezioni, sicché tutti i rapporti giuridici facenti capo agli Stati erano

coperti da tale norma. Successivamente, in conseguenza

dell’incremento delle relazioni internazionali e, soprattutto, del diverso

ruolo assunto dallo Stato (che agisce talvolta in campo economico come

un imprenditore privato, ovvero come acquirente di beni e servizi forniti

da imprese straniere), si è compreso che non tutti tali rapporti

dovevano rimanere sconosciuti ai Tribunali stranieri, ma potevano

essere da questi legittimamente sindacati.

3. Tuttavia, non è sempre agevole stabilire in astratto se un

determinato rapporto giuridico sia coperto o meno dall’immunità. In

queste situazioni, gli Stati ricorrono a due modalità di classificazione

diverse:

- quella casistica, in base alla quale spetta al giudice interno il compito

di stabilire di volta in volta se lo Stato del foro possa esercitare la

giurisdizione; in caso negativo, egli si dichiarerà carente di

giurisdizione e non potrà esaminare la questione; in caso affermativo,

98

lo Stato straniero sarà costretto ad assoggettarsi al giudizio del

Tribunale;

- il cd. metodo della lista, in base al quale i rapporti coperti

dall’immunità e/o quelli esenti sono elencati in una legge interna o in

un accordo internazionale che i Tribunali nazionali si limitano ad

applicare senza alcuna valutazione discrezionale.

99

Lezione n. 27

L’immunità degli Stati dalla giurisdizione interna di altri Stati – Parte II

1. Nell’ordinamento italiano, la distinzione tra atti iure imperii e iure

gestionis è rimessa al sindacato giurisdizionale dei Tribunali di volta in

volta competenti (metodo casistico).

Ciò, ovviamente, è causa di qualche incertezza interpretativa, tenuto

conto che le decisioni di un organo giurisdizionale, nel nostro

ordinamento, non vincolano gli altri organi che si occupino

successivamente della medesima questione, fatta salva la funzione

nomofilattica (cioè di interpretazione uniforme) della Corte di

Cassazione. Perciò, un atto giuridico potrebbe essere ritenuto coperto

dall’immunità in un determinato giudizio, mentre in un successivo

giudizio analogo il sindacato del Tribunale potrebbe risultare differente.

D’altro canto, a differenza del metodo della lista, estremamente rigido, il

metodo casistico favorisce l’evoluzione della prassi ed eventuali

modifiche della regola in linea con lo sviluppo delle relazioni

internazionali.

La Corte di Cassazione, nella sentenza 3.2.1996, n. 919, ha chiarito

che l’immunità statale «riguarda solo i rapporti che rimangono del tutto

estranei all’ordinamento interno, o perché quegli Stati o enti agiscono

in altri paesi come soggetti di diritto internazionale, o perché agiscono

quali titolari di una potestà d’imperio nell’ordinamento di cui sono

portatori».

2. L’immunità statale è stata riconosciuta dalla giurisprudenza italiana,

ad esempio, in casi di violazione dei diritti fondamentali dei cittadini

dello Stato del foro (cfr. Corte di Cassazione, sentenza 3.8.2000, n. 530,

relativa alla strage del Cermis) e di adozione di provvedimenti di

moratoria sul pagamento di titoli obbligazionari (global bonds) emessi

da uno Stato e collocati sul mercato internazionale (cfr. Corte di

Cassazione, ordinanza 27.5.2005, n. 11225).

100

Un settore nel quale l’orientamento della giurisprudenza è risultato

piuttosto controverso è quello relativo ai rapporti di lavoro subordinato

alle dipendenze di uno Stato straniero.

Attualmente, si ritiene che le controversie derivanti da tali rapporti non

siano coperte dall’immunità se la prestazione lavorativa si svolge sul

territorio dello Stato del foro (tale orientamento è stato recepito

dall’art. 11, par. 1, della Convenzione di New York). Tuttavia,

l’immunità è comunque invocabile qualora il dipendente (straniero) sia

stato assunto per svolgere attività direttamente riconducibili ad una

funzione pubblica o in altri casi specifici (art. 11, par. 2).

Con l’ordinanza sul caso Ferrini (SS.UU., 11.3.2004, n. 5044) e con

alcune pronunce successive conformi, la Corte di Cassazione ha

inaugurato una nuova giurisprudenza che introduce ulteriori restrizioni

all’applicazione della rgola sull’immunità.

La Corte ha ritenuto, infatti, inapplicabile la regola dell’immunità con

riferimento ad atti iure imperii costitutivi di crimini internazionali.

In sostanza, qualora uno Stato, nell’esercizio di funzioni sovrane,

commetta atti vietati da norme imperative del diritto internazionale

(quali sono, appunto, i crimini internazionali), non potrà invocare

l’immunità giurisdizionale, ma dovrà sottomettersi al giudizio dei

Tribunali dello Stato del foro.

Tale orientamento è però avversato da gran parte della dottrina – che

evidenzia come la pur giusta esigenza di perseguire e reprimere i

crimini internazionali non può condurre, di per sé, ad una

disapplicazione della regola dell’immunità, poiché tali fattispecie hanno

ambiti materiali diversi – e non trova accoglimento nella giurisprudenza

delle Corti internazionali e delle Corti supreme di altri paesi.

3. Sia la Convenzione di New York, sia la precedente Convenzione

europea sull’immunità degli Stati (promossa dal Consiglio d’Europa e

approvata a Basilea il 16.5.1972) accolgono, invece, con modalità

diverse, il metodo della lista.

Tale metodo ha origine nei paesi di common law (è stato recepito, ad

esempio, nel Foreign Sovereign Immunity Act statunitense, del 1976,

101

e nello State Immunity Act britannico, del 1978) e prevede

l’elencazione delle categorie di atti in relazione alle quali lo Stato

straniero gode di immunità, limitando così la discrezionalità dei

Tribunali nazionali nel decidere sulla propria competenza

giurisdizionale nel caso concreto.

In altre parole, i Tribunali interni saranno obbligati ad applicare la

normativa recante i rapporti coperti e quelli esclusi dal beneficio

dell’immunità. Ciò limita drasticamente la funzione interpretativa che,

invece, è alla base del metodo casistico.

4. L’immunità sin qui descritta è l’immunità dalla giurisdizione di

cognizione, per la quale i tribunali nazionali sono tenuti ad astenersi

dall’esercizio della funzione giurisdizionale finalizzata all’accertamento

dei diritti e degli obblighi derivanti dalla titolarità di determinati

rapporti giuridici.

In altre parole, la giurisdizione di cognizione – e i relativi giudizi – è

esercitata allo scopo di accertare l’esistenza di eventuali violazioni di

obblighi e della corrispondente lesione di diritti derivanti

dall’applicazione di una o più norme dell’ordinamento di riferimento.

All’esito, il giudice competente dichiara se vi è stata o meno la predetta

violazione e, in tal caso, può condannare il responsabile a riparare al

danno cagionato.

Tuttavia, se il responsabile non si conforma volontariamente a tale

decisione, gli ordinamenti nazionali – a differenza di quello

internazionale, che non è strutturalmente predisposto per questa

funzione (v. lezioni 1 e 2) – contengono procedure normative idonee a

far eseguire la sentenza di cognizione anche contro la volontà del

responsabile.

Si instaura, quindi, un nuovo giudizio – detto di esecuzione –

finalizzato all’appropriazone coatta, da parte dello Stato, dei beni

(denaro o altri beni da mettere in vendita all’asta) di proprietà del

responsabile in quantità sufficiente a soddisfare il soggetto leso,

all’esito del quale la sentenza originaria sarà stata attuata, nonostante

la resistenza del soggetto che avrebbe dovuto provvedervi.

102

Gli Stati stranieri, tuttavia, in correlazione con l’immunità dalla

giurisdizione cognitiva, godono anche dell’immunità dalla giurisdizione

esecutiva, vale a dire che i loro beni (mobili e immobili) presenti sul

territorio dello Stato del foro non possono essere pignorati (o confiscati),

in esecuzione di sentenze di condanna, senza una preventiva

autorizzazione.

103

Lezione n. 28

L’immunità funzionale

1. Dopo aver analizzato l’immunità in senso stretto, ciè quella che

riguarda direttamente lo Stato come persona giuridica, occorre

prendere in esame le immunità internazionali spettanti ad alcune

persone fisiche, in ragione delle funzioni pubbliche da loro esercitate.

In questo caso, l’immunità configura un vero e proprio beneficio,

consistente in una serie di prerogative concesse dal diritto

internazionale (al pari di quelle concesse dalle leggi interne), allo scopo

di consentire al beneficiario di svolgere le sue funzioni senza

interferenze.

Si definisce, così, immunità funzionale l’immunità spettante agli

individui-organi dello Stato (Capi di Stato e di Governo, Ministri,

agenti diplomatici, funzionari pubblici, ecc.) per tutti gli atti compiuti

nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.

2. La regola dell’immunità funzionale ha origini controverse. Essa viene

ricondotta, alternativamente:

- ad un portato applicativo dell’immunità statale (vale a dire che

discende dal medesimo principio generale par in parem non habet

iudicium e ne rappresenta un corollario);

- al principio del rispetto dell’organizzazione interna degli Stati

stranieri;

- al divieto di ingerenza negli affari interni degli Stati stranieri;

- ad una norma consuetudinaria autonoma che sancisce

l’insindacabilità degli atti compiuti da individui-organi stranieri

nell’esercizio di funzioni ufficiali.

Quale che sia la sua origine, essa ha natura consuetudinaria, pur

essendo stata codificata, in relazione alle sue diverse modalità

applicative, in vari accordi internazionali, alcuni di natura bilaterale,

altri multilaterali.

104

3. L’immunità funzionale può essere invocata esclusivamente in

relazione agli atti compiuti nell’esercizio di funzioni ufficiali. Questa

locuzione è stata interpretata sia restrittivamente, come se fosse riferita

solo agli atti aventi finalità pubblicistiche, sia estensivamente,

ritenendola applicabile a tutti gli atti compiuti mediante l’utilizzo di

strumenti pubblicistici, seppure aventi finalità private (cfr. i casi

Pinochet I e II, House of Lords, sentenze del 25.11.1998 e del

24.3.1999).

Più precisamente, i due casi menzionati avevano ad oggetto la richiesta

di estradizione del dittatore Pinochet per consentirne il rinvio a giudizio

per il compimento di atti di tortura. Nel primo, l’estradizione venne

concessa, sul presupposto che gli atti contestati non fossero atti

riconducibili ad una delle funzioni pubblicistiche di competenza

dell’individuo-organo accusato. Si è dato, quindi, rilievo pressoché

eslcusivo alla natura e allo scopo dell’atto. Nel secondo, invece,

l’estradizione venne negata, perché si ritenne che tali atti, pur non

avendo finalità pubblicistiche in senso stretto, non avrebbero potuto

essere compiuti senza fare ricorso a strumenti di natura pubblicistica.

In altre parole, il dittatore Pinochet potè ordinare la commissione di atti

di tortura solo in quanto Capo di Stato formalmente riconosciuto. Si è

dato, perciò, rilievo prevalente alle modalità con cui tali atti erano stati

compiuti.

4. In ogni caso, l’immunità funzionale non è assoluta, ma può essere

limitata:

1) In via convenzionale, per il compimento di determinati tipi di

illeciti: l’art. 4 della Convenzione per la prevenzione e la

repressione del crimine di genocidio (New York, 9.12.1948) prevede

che gli autori di crimini di genocidio possono essere sottoposti alla

giurisdizione interna degli Stati contraenti «sia che rivestano la qualità

di governanti costituzionalmente responsabili o che siano funzionari

pubblici o individui privati».

2) Per il compimento di determinate attività non autorizzate, vale a

dire non preventivamente concordate tra lo Stato di appartenenza

105

dell’individuo-organo e lo Stato del foro (ad esempio, per missioni non

autorizzate: caso Rainbow Warrior, sentenze del 2.10.1987 e del

30.4.1990).

3) Per il compimento di crimini internazionali, anche se la relativa

fattispecie non sia stat preventivamente configurati in un accordo. Su

tale eccezione, tuttavia, non si è ancora formata un’opinio iuris

uniforme (cfr. la sentenza della Corte internazionale di giustizia del

14.2.2002 sul caso del Mandato d’arresto dell’11.4.2000).

5. Occorre dar conto, infine, di un’ulteriore teoria concernente

l’immunità in senso lato (ossia statale e funzionale insieme). Nei paesi

di common law, infatti, l’immunità degli Stati stranieri e dei loro organi

è tradizionalmente ricondotta alla dottrina dell’Act of State, secondo

cui il potere giudiziario sarebbe sempre incompetente a sindacare la

legittimità degli atti (di Stato) stranieri aventi ad oggetto l’esercizio di

funzioni sovrane. Tale dottrina trova fondamento nel principio di

separazione dei poteri e, pertanto, ha un fondamento costituzionale,

anziché internazionale. La sua applicazione, negli ultimi anni, è

fortemente recessiva.

106

Lezione n. 29

L’immunità personale

1. L’immunità personale è l’immunità spettante ad alcuni individui-

organi dello Stato per gli atti compiuti al di fuori delle loro funzioni

ufficiali.

Scopo dell’immunità personale è di garantire ai soggetti beneficiari

alcune prerogative e consentire loro, così, di svolgere al meglio le

funzioni ufficiali assegnate dallo Stato di appartenenza.

Essa può considerarsi, pertanto, un completamento dell’immunità

funzionale, laddove se quest’ultima ha ad oggetto l’insindacabilità

giurisdizionale degli atti ufficiali, la prima copre tutti gli atti ordinari

compiuti dal soggetto beneficiario durante il suo mandato.

Trattandosi del riconoscimento di prerogative molto ampie, peraltro,

l’ambito applicativo della regola sull’immunità personale è limitato:

- sotto il profilo soggettivo: essa spetta, difatti, solo ai diplomatici, ai

Capi di Stato e di Governo e ai Ministri degli esteri;

- sotto il profilo temporale: essa spetta, difatti, solo per il periodo di

tempo corrispondente alla durata del mandato.

Le prerogative in commento formano oggetto (non esclusivo) della

Convenzione sulle relazioni diplomatiche conclusa a Vienna nel

1961.

2. Sotto il profilo materiale, l’immunità personale corrisponde ad

un’esenzione, non dall’osservanza delle norme dell’ordinamento dello

Stato ospitante, ma dall’accertamento giurisdizionale nei casi di

violazione.

Ciò significa che il beneficiario sarà comunque obbligato a rispettare le

leggi dello Stato ospitante e che ogni violazione di queste potrà essergli

contestata.

Tuttavia, dopo l’eventuale contestazione, non si potrà procedere contro

il responsabile titolare dell’immunità innanzi ai competenti organi

giudiziari. L’immunità personale determina, quindi, l’improcedibilità

107

temporanea nei confronti del beneficiario per le violazioni delle leggi del

paese ospitante.

In particolare, essa si estende:

- alla giurisdizione penale, senza eccezioni;

- alla giurisdizione civile, ad eccezione delle azioni aventi ad oggetto

diritti reali, successioni, attività professionali o commerciali e domande

riconvenzionali promosse dall’avente diritto.

I soggetti che godono dell’immunità personale sono, altresì, esenti dal

pagamento di tributi e imposte, salvo quelle indirette.

In definitiva, come affermato dalla Corte internazionale di giustizia

nella sentenza del 14.2.2002 sul caso del Mandato d’arresto

del l ’11.4 .2000 , l’immunità dalla giurisdizione non implica

l’irresponsabilità penale del beneficiario. Difatti, «mentre l’immunità

dalla giurisdizione ha natura processuale, la responsabilità penale

è una questione relativa alla legge sostanziale. L’immunità

giurisdizionale può impedire lo svolgimento del processo per un

determinato periodo o per determinati reati; non può esonerare la

persona alla quale si applica la responsabilità penale».

3. Ulteriore prerogativa riconosciuta ai soggetti che godono

dell’immunità personale è l’inviolabilità personale (spettante anche

agli agenti consolari), il cui rispetto impone allo Stato ospitante di

astenersi dall’applicazione di misure repressive o coercitive (ad es., un

mandato d’arresto) nei loro confronti e, al contempo, di vigilare sulla

loro incolumità.

Obblighi analoghi (di astensione da intrusioni o perquisizioni e di

vigilanza esterna dei locali) sono posti a carico dello Stato ospitante in

relazione alle sedi diplomatica e consolare, nonché all’abitazione

privata dell’agente diplomatico.

108

Lezione n. 30

L’immunità dei funzionari delle organizzazioni internazionali

1. Le regole sull’immunità si applicano, a determinate condizioni, anche

a soggetti internazionali diversi dallo Stato.

È il caso, ad esempio, della Santa Sede, che gode di immunità

giurisdizionale, sia come soggetto in sé considerato, sia con riguardo

agli «enti centrali» attraverso i quali la Chiesa cattolica svolge la sua

missione (cfr. l’art. 11 del Trattato del Laterano del 1929).

2. Per quanto riguarda le organizzazioni internazionali, l’immunità

dalla giurisdizione statale è riconosciuta nei loro confronti entro limiti

funzionali allo svolgimento delle rispettive attività istituzionali. Tuttavia,

in assenza di una puntuale disciplina convenzionale tra lo Stato

ospitante e l’organizzazione in materia di immunità e privilegi (cd.

accordo di sede), non può ancora ammettersi l’esistenza di una norma

consuetudinaria avente ad oggetto il riconoscimento dell’immunità alle

organizzazioni internazionali al pari degli Stati.

In buona sostanza, le immunità e i privilegi accordati dagli Stati alle

organizzazioni internazionali, pur derivando in senso logico

dall’immunità statale, non hanno origine consuetudinaria, dal

momento che non si è ancora formata una norma di diritto

internazionale generale dal contenuto corrispondente.

Pertanto, esse devono essere sancite in uno o più accordi stipulati

dall’organizzazione con gli Stati membri.

L’art. 105, par. 1, della Carta delle Nazioni Unite stabilisce così che

«l’Organizzazione gode, nel territorio di ciascuno dei suoi Membri, dei

privilegi e delle immunità necessari per il conseguimento dei suoi

fini». Tale disposizione è stata integrata dalla Convenzione generale

sui privilegi e sulle immunità delle Nazioni Unite, del 1946.

3. Parimenti, non può ammettersi l’esistenza di una norma

consuetudinaria che riconosca l’immunità giurisdizionale dei funzionari

109

internazionali in conformità a quella che garantisce l’immunità

funzionale agli individui-organi dello Stato. L’immunità delle

organizzazioni internazionali e dei loro funzionari, pertanto, è

riconosciuta solo in via convenzionale.

A norma dell’art. 105, par. 2, della Carta, i funzionari delle N.U. (cui la

Corte internazionale di giustizia ha assimilato anche gli «esperti che

effettuano missioni per le Nazioni Unite»: cfr. il parere

sull’Applicabilità dell’art. 22 della Convenzione sui privilegi e sulle

immunità delle Nazioni Unite, del 15.12.1989), godono dei privilegi e

delle immunità necessari «per l’esercizio indipendente delle loro

funzioni inerenti all’Organizzazione».

110

VI modulo

La risoluzione pacifica delle controversie internazionali

Lezione n. 31

Le controversie giuridiche internazionali

1. Il presente modulo sarà interamente dedicato allo studio delle

controversie internazionali e alle modalità relative alla loro

risoluzione.

Si è già detto (lezione n. 2, par. 2) che l’ordinamento internazionale non

contempla un apparato sovraordinato agli Stati cui è demandato

l’esercizio della funzione giudiziaria, consistente nell’accertamento

dei diritti e degli obblighi spettanti ai consociati e nell’applicazione

coattiva delle norme internazionali.

Senonché, non sempre (…) gli Stati rispettano il diritto internazionale e,

in ogni caso, i rispettivi interessi possono entrare in conflitto per varie

ragioni (politiche, giuridiche, ecc.).

Si rende necessario, perciò, provvedere ad un sistema di regole che

consenta di risolvere tali conflitti, in particolar modo al fine di

scongiurare il ricorso all’uso della forza, che sappiamo esser stato

bandito dalle relazioni internazionali dopo la seconda guerra mondiale.

In precedenza, difatti, la soluzione delle controversie internazionali era

generalmente affidata alle armi (anzi, spesso la controversia in sé

costituiva un pretesto per muovere guerra ad un paese ostile), sebbene

vi fossero stati tentativi di contenere tale prassi, o, comunque, di

“procedimentalizzarla”, relegando l’uso della forza armata a strumento

di estrema ratio (come prevedeva ad es., il Patto Briand-Kellog,

stipulato nell’ambito della Società delle Nazioni).

2. Prima di esaminare quali siano le modalità e gli strumenti impiegati

dal diritto internazionale per comporre una controversia internazionale,

si deve, però, stabilirne con certezza il significato giuridico.

111

Secondo la Corte permanente di giustizia internazionale (sentenza

del 30.8.1924 sul caso Mavrommatis), si definisce controversia

internazionale ogni «disaccordo su questioni di fatto o di diritto, o

un conflitto di interessi o di punti di vista esistente tra due

soggetti [internazionali]».

Gli elementi che caratterizzano una controversia internazionale sono,

pertanto:

- la soggettività internazionale dei contendenti (se una delle

due parti in lite non ha personalità giuridica internazionale la

controversia sarà risolta sulla base del diritto interno applicabile);

- l’esistenza di una pretesa vantata da uno dei contendenti e la

resistenza a detta pretesa (vale a dire la sua negazione ) o la

contropretesa opposta dall’altro (cioè una pretesa eguale e opposta alla

prima, o comunque incompatibile con il relativo soddisfacimento).

3. Si discute se, affinché si possa configurare una controversia

internazionale, sia pure necessario che il contrasto di posizioni, la

divergenza di opinioni o il conflitto di interessi si manifestino mediante

l’adozione di comportamenti concludenti che incidano concretamente

sulle relazioni diplomatiche dei paesi in lite.

In altri termini, se la qualificazione di una controversia internazionale

dipenda anche dal suo grado di effettività. In linea di principio, due

Stati possono mantenere posizioni politiche o sostenere ragioni

giuridiche opposte su un dato argomento, senza, tuttavia, che tale

contrasto dia luogo ad una controversia propriamente intesa, sfociando

in una contrapposizione netta.

Si ritiene che la risposta a tale interrogativo debba essere positiva, dal

momento che nessuna norma internazionale obbliga gli Stati a risolvere

le proprie controversie. Pertanto, si può ritenere che solo le controversie

– per così dire – “in senso stretto”, cioè effettive, siano da qualificare

tali, in vista dell’applicazione delle regole concernenti la loro

risoluzione.

112

4. Secondo la Dichiarazione relativa ai principi di diritto

internazionale sulle relazioni amichevoli e la cooperazione tra

Stati (approvata dall’Assemblea Generale delle N.U. con ris. n. 2625 del

24.10.1970), le controversie internazionali devono essere risolte sulla

base dell’uguaglianza sovrana e in conformità al principio della libera

scelta dei mezzi di risoluzione. Gli Stati parti di una controversia

internazionale, pertanto, non possono essere costretti a ricorrere ad

uno specifico mezzo di risoluzione.

L’unico obbligo gravante sugli Stati in lite è quello sancito all’art. 2, par.

3, della Carta delle Nazioni Unite, secondo cui gli Stati membri

dell’organizzazione devono «risolvere le loro controversie internazionali

con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionali, e

la giustizia, non siano messe in pericolo».

Tale norma fondamentale della Carta è divenuta, pressoché

istantaneamente, una regola consuetudinaria di natura imperativa e

rappresenta un corollario del più ampio divieto di minaccia e uso della

forza armata nelle relazioni internazionali.

113

Lezione n. 32

I mezzi diplomatici di risoluzione delle controversie – Parte I

1. Le controversie internazionali possono avere natura giuridica o

natura politica. In molti casi, tuttavia, non è agevole stabilire la natura

di una controversia, poiché in essa possono coesistere elementi diversi,

che ne rendono complessa la definizione.

Tradizionalmente, si considerano giuridiche le controversie che

ricadono in una materia già regolata in base al diritto internazionale,

mentre sarebbero politiche le controversie che vertono su questioni

dove non esistono norme internazionali applicabili.

Un’elencazione esemplificativa delle controversie giuridiche è contenuta

all’art. 36, par. 2, dello Statuto della Corte internazionale di

giustizia, secondo cui ricadrebbero in tale categoria tutte le questioni

aventi ad oggetto:

«a) l’interpretazione di un trattato;

b) qualunque questione di diritto internazionale;

c) l’esistenza di qualsiasi fatto che, se accertato, costituirebbe violazione

di un obbligo internazionale;

d) la natura o la misura della riparazione dovuta per la violazione di un

obbligo internazionale».

2. La libertà concessa agli Stati nella scelta dei mezzi di risoluzione

delle controversie consente di ricorrere indifferentemente a qualsiasi

strumento lecito per definire dispute di diversa natura (giuridica,

politica, o mista).

Ciò significa che gli Stati non possono mai essere obbligati a preferire

un mezzo di risoluzione ad un altro, né il ricorso ad alcuno di detti

mezzi – per le sue caratteristiche – può considerarsi preliminare

rispetto agli altri, ma è necessario (e sufficiente) il consenso

validamente prestato dalle parti, prima o dopo l’insorgere della

controversia, circa le modalità ritenute più adeguate.

114

Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, a norma dell’art. 36

della Carta, ha il potere di raccomandare alle parti in lite la scelta dei

metodi più adeguati (par. 1), tenendo presente, però, che «l e

controversie giuridiche dovrebbero, di regola generale, essere deferite

dalle parti alla Corte internazionale di giustizia in conformità alle

disposizioni dello Statuto della Corte» (par. 3).

3. I mezzi di risoluzione delle controversie possono distinguersi in

diplomatici e giudiziari.

I primi implicano necessariamente l’accordo delle parti per sancire la

definizione della controversia. Vale a dire che, qualora le parti ricorrano

ad uno tra i mezzi di natura diplomatica, la controversia potrà dirsi

ricomposta solo mediante la conclusione di un accordo, quale che sia il

contenuto e il mezzo originariamente prescelto.

I secondi implicano, invece, il ricorso ad un soggetto terzo ed

imparziale con funzioni decisorie (un organo arbitrale o un Tribunale

internazionale), cui è affidato il compito di dirimere la controversia.

Occorrerà, tuttavia, anche in questo caso, l’accordo delle parti per

istituire tale organo o investire il Tribunale della questione (lezione n.

34).

I mezzi di risoluzione più comuni sono elencati all’art. 33, par. 1, della

Carta delle Nazioni Unite, dove l’anzidetta distinzione, tuttavia, non

figura.

La norma recita: «le parti di una controversia, la cui continuazione sia

suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della

sicurezza internazionale, devono, anzitutto, perseguirne una soluzione

mediante negoziati, inchiesta, mediazione, conciliazione, arbitrato,

regolamento giudiziale, ricorso ad organizzazioni od accordi regionali o

altri mezzi pacifici di loro scelta».

4. Dall’elencazione (non tassativa) contenuta all’art. 33, par. 1, della

Carta delle Nazioni Unite si evince, quindi, che i mezzi diplomatici di

risoluzione delle controversie più utilizzati sono:

- i negoziati;

115

- la mediazione;

- l’inchiesta;

- la conciliazione;

- il ricorso ad organizzazioni o accordi regionali.

Accanto a questi, si è affermato nella prassi il ricorso ai cd. buoni

uffici. La norma, infatti, come si evince chiaramente dalla sua

formulazione, non considera tassativi i mezzi ivi indicati, ma lascia le

parti in lite del tutto libere di ricorrere ad «altri mezzi pacifici di loro

scelta».

5. I negoziati sono lo strumento di risoluzione delle controversie più

semplice, al quale gli Stati generalmente ricorrono prima di ogni altro

strumento alternativo (pur non esistendo alcun obbligo giuridico in tal

senso).

Essi prevedono la partecipazione delle sole parti in lite a forme di

consultazione preordinate alla stipulazione di un accordo avente ad

oggetto le modalità di composizione della controversia.

Non esiste una procedura specifica per condurre un negoziato

finalizzato alla risoluzione di una controversia. Si applicano, quindi,

come per tutti gli altri procedimenti di formazione di accordi

internazionali, le norme della Convenzione di Vienna sul diritto dei

trattati.

116

Lezione n. 33

I mezzi diplomatici di risoluzione delle controversie – Parte II

1. Si è visto che i negoziati sono l’unico strumento di risoluzione delle

controversie che prevede la partecipazione esclusiva delle parti in lite.

Generalmente, quindi, il loro fallimento induce i contendenti a

sperimentare mezzi diversi.

Si è detto anche, però, che le parti non sono obbligate ad avviare

comunque i negoziati prima di ricorrere ad altre procedure, ma possono

direttamente avvalersi di strumenti di risoluzione che contemplino la

partecipazione di soggetti terzi.

Tra questi, il più semplice sono i cd. buoni uffici.

Tale espressione indica l’attività di persuasione realizzata da un

soggetto terzo (uno Stato, una persona autorevole in campo

internazionale o un alto funzionario internazionale) al fine di mettere

in comunicazione tra loro le parti in lite, ovvero favorire con il suo

intervento l’avvio o la ripresa dei negoziati.

Colui il quale presta i suoi buoni uffici per la risoluzione di una

controversia internazionale, pertanto, non propone soluzioni alle parti,

ma si limita metterle in contatto, affinché provvedano autonomamente

a ricomporre il loro dissidio. Nondimeno, il suo ruolo è determinante a

tale scopo.

A differenza dei buoni uffici, nella mediazione il ruolo del soggetto terzo

è più rilevante. Il mediatore, infatti, ha il compito di sostenere

attivamente e facilitare la conclusione dei negoziati, anche mediante la

presentazione alle parti di proposte di accordo ufficiose e non

vincolanti.

2. Le commissioni di inchiesta e di conciliazione, diversamente dai

buoni uffici e dalla mediazione, sono generalmente strumenti di

risoluzione diplomatica a carattere istituzionalizzato. Ciò significa che

le parti in lite sono tenute a stabilire regole precise per il funzionamento

di detti organi, ovvero a rivolgersi ad organizzazioni internazionali (ad

117

es., le Nazioni Unite) presso cui attivare le procedure necessarie alla

loro istituzione.

In particolare, compito della commissione d’inchiesta è di accertare i

fatti che hanno determinato l’insorgere di una controversia. L’utilità di

tale strumento, pertanto, è apprezzabile nelle controversie

caratterizzate da profonde divergenze in merito all’accertamento delle

circostanze pertinenti, ovvero quando alcune di queste risultino poco

chiare.

L’attività della commissione d’inchiesta può, talvolta, condurre

all’accertamento di responsabilità per fatto illecito a carico di una o

entrambe le parti in lite, ragione per cui i relativi esiti non vengono

sempre resi noti.

L’istituzione di commissioni di inchiesta (o fact-finding) può essere,

altresì, prevista all’interno di accordi internazionali al verificarsi di

determinate situazioni. Ad esempio, a norma dell’art. 34 della Carta

delle Nazioni Unite, «il Consiglio di sicurezza può fare indagini su

qualsiasi controversia o su qualsiasi situazione che possa portare ad un

attrito internazionale o dar luogo ad una controversia, allo scopo di

determinare se la continuazione della controversia o della situazione sia

suscettibile di mettere in pericolo il mantenimento della pace e della

sicurezza internazionale».

3. Il ricorso allo strumento della conciliazione prevede, invece, il

deferimento della controversia ad un soggetto terzo (monocratico o

collegiale: solo in questo caso può parlarsi propriamente di commissione

di conciliazione), con il compito di procedere ad un preventivo esame

della medesima e di formulare alle parti proposte ufficiali di

definizione.

Il ruolo del conciliatore è simile a quello di un mediatore, ma è più

penetrante. Le parti in lite, difatti, istituiscono (o si rivolgono ad) una

commissione di conciliazione quando vogliono rimettere l’intera

questione nelle mani di un soggetto terzo, limitandosi a valutarne

l’operato in conclusione.

118

Al contempo, però, l’istituto in commento non va confuso con quello

dell’arbitrato, dal quale si differenzia nettamente poiché la soluzione

proposta non è mai vincolante, ma deve essere accettata dalle parti.

Ciò significa che le parti potranno sempre rifiutarsi di aderire ad una

soluzione proposta da una commissione di conciliazione, sebbene un

rifiuto immotivato o irragionevole sia ritenuto politicamente scorretto e

accolto con sfavore dalla comunità internazionale.

Alcuni accordi internazionali prevedono l’istituzione di commissioni di

conciliazione nei casi in cui sorga una controversia tra le parti circa la

sua interpretazione o applicazione. Si tratta di una semplice facoltà

concessa alle parti (si tratta, in questi casi, di un semplice pactum de

contrahendo), ovvero di un vero e proprio diritto, qualora sia possibile

istituire una commissione di conciliazione anche senza il previo

consenso della controparte, così da superarne eventuali resistenze (cfr.

l’art. 66 e l’Allegato alla Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati).

119

Lezione n. 34

I mezzi giudiziari di risoluzione delle controversie

1. Si definiscono mezzi giudiziari (o giurisdizionali) di risoluzione delle

controversie i procedimenti che prevedono l’intervento di un soggetto

terzo e imparziale al quale le parti attribuiscono una potestà decisoria

vincolante.

A differenza dei mezzi diplomatici, pertanto, la risoluzione giudiziaria

delle controversie non presume l’accordo delle parti, ma un

pronunciamento autoritativo (sentenza o lodo).

Lo strumento giurisdizionale più tipico è l’arbitrato internazionale.

Generalmente, vi si fa ricorso per la risoluzione di dispute di elevata

specificità tecnica (ad es., in materia commerciale, finanziaria, ecc.).

Esso prevede l’istituzione di un organo (monocratico o collegiale) ad

hoc, con il compito di esaminare la controversia ed emettere, all’esito,

una pronuncia (lodo) vincolante per le parti, sulla base del diritto

internazionale materiale applicabile.

2. Un arbitrato internazionale può essere istituito mediante un

compromesso o una clausola compromissoria.

Si definisce compromesso l’accordo stipulato dopo l’insorgere di una

controversia, con il quale le parti in lite convengono di deferire la

risoluzione ad un arbitrato internazionale, istituiscono l’organo

competente a tal fine attribuendogli i poteri necessari e, in taluni casi,

indicano il diritto materiale e le regole di procedura applicabili.

In buona sostanza, il compromesso è l’accordo istitutivo di un organo

speciale a carattere giurisdizionale avente il compito di risolvere la

controversia insorta tra le parti. Una volta concluso detto accordo,

spetterà solo al predetto organo individuare una soluzione in base al

diritto applicabile, vale a dire non seguendo il metodo negoziale tipico

dei mezzi diplomatici (ad es., attraverso reciproche concessioni), ma

tenendo conto delle pertinenti norme internazionali che regolano il

rapporto giuridico in contestazione.

120

Le parti saranno, quindi, obbligate ad accettare la soluzione indicata

dall’arbitro (o dal collegio arbitrale) e contenuta nel dispositivo del lodo.

Qualora la parte soccombente, tuttavia, non intenda dare esecuzione al

lodo, essa commetterà un illecito internazionale, rispetto al quale la

parte vittoriosa potrà far valere la responsabilità (v. modulo n. VII).

3. Si definisce clausola compromissoria la clausola, contenuta in

qualsiasi tipo di accordo, con la quale le parti contraenti convengono

che, per la risoluzione di tutte le possibili future controversie derivanti

dall’interpretazione o dall’esecuzione dell’accordo, la competenza sarà

devoluta ad un arbitrato internazionale.

La clausola compromissoria ha, pertanto, la medesima funzione e il

medesimo oggetto del compromesso. Ne differisce solo perché essa è

sempre contenuta in un accordo concluso prima dell’insorgere della

controversia. In questo caso, pertanto, le parti si vincolano alla scelta di

quello specifico mezzo di risoluzione per tutte le eventuali future

controversie dipendenti dall’accordo.

La clausola compromissoria può essere, a sua volta completa o

incompleta.

1) La clausola compromissoria completa reca tutti gli elementi e le

disposizioni normative necessarie per consentire la successiva

istituzione dell’organo arbitrale. Pertanto, al verificarsi della

controversia, la parte interessata potrà attivare autonomamente la

procedura stabilita e istituire l’arbitrato anche senza il concorso della

volontà della controparte.

2) Nel secondo caso, essa rinvia alla successiva stipulazione di un

compromesso per la definizione delle modalità operative dell’organo

arbitrale (si tratta di un mero pactum de contrahendo).

4. Nell’arbitrato internazionale, il diritto materiale applicabile per la

risoluzione di una controversia (vale a dire le norme sulle quali fondare

la decisione) è generalmente indicato dalle parti. In difetto, l’organo

arbitrale è chiamato a decidere in base al diritto internazionale, senza

limitazioni. Le parti possono anche stabilire di comune accordo che

121

l’organo arbitrale si pronunci ex aequo et bono (cioè secondo equità).

In questo caso, qualora l’organo arbitrale incaricato non sia in grado di

rinvenire, nell’ambito del diritto materiale a disposizione, almeno una

norma applicabile alla controversia, sarà legittimato a ricorrere al

principio di equità ai fini della decisione.

Le regole di procedura che l’organo arbitrale è tenuto a far rispettare

(concernenti le udienze, il deposito di memorie, l’acquisizione di mezzi

istruttori e i tempi di emissione del lodo) possono essere decise dalle

parti (in caso di arbitrato ad hoc) o dallo stesso organo adito (ad es., la

Corte permanente di arbitrato). L’inosservanza di dette regole può dar

luogo anche all’improcedibilità del giudizio arbitrale, a danno della

parte inadempiente che non potrà più far valere le proprie ragioni.

Il lodo ha natura vincolante per le parti e, di regola, è definitivo. Le

parti possono prevedere, però, la possibilità di un riesame a

determinate condizioni.

5. In alcuni casi, si ricorre all’arbitrato internazionale anche per la

risoluzione di controversie sorte tra Stati e soggetti privati stranieri (cd.

non-State actors: individui, imprese multinazionali, ONG).

Ad esempio, l’International Centre for Settlement of Investment

Disputes (ICSID), promosso dalla Banca Mondiale e istituito dalla

Convenzione di Washington del 1965, si occupa della risoluzione «di

qualsiasi controversia giuridica tra uno Stato contraente... e un individuo

avente la nazionalità di un altro Stato contraente, originata direttamente

da un investimento, che le parti della controversia stessa abbiano

accettato per iscritto di devolvere al Centro» (art. 25, par. 1).

122

Lezione n. 35

L’esercizio della funzione giurisdizionale nel diritto internazionale

1. Com’è noto, nell’ordinamento internazionale, l’esercizio della

funzione giurisdizionale presenta caratteristiche profondamente

diverse rispetto agli ordinamenti interni. In questi ultimi, la funzione

giurisdizionale rappresenta un potere dello Stato (il potere giudiziario),

la cui attuazione, nel rispetto della legge, è obbligatoria e vincolante per

i cittadini. Ciò significa che tutti i consociati sono assoggettati al potere

giudiziario, senza possibilità di sottrarvisi, se non, temporaneamente,

in conseguenza dell’assunzione di determinate cariche pubbliche.

L’apparato che gestisce la funzione giurisdizionale è pubblico, le relative

competenze sono attribuite ad un ordine indipendente (la magistratura

ordinaria) e ripartite in base a criteri predeterminati (materia, valore,

territorio). Infine, anche l’accettazione e l’esecuzione delle sentenze sono

obbligatorie: i cittadini non possono sottrarsi a tali adempimenti, pena

la soggezione a misure coercitive finalizzate ad assicurare alla parte

vittoriosa gli effetti della sentenza.

Si è visto, invece, che, per via della struttura orizzontale della comunità

internazionale e della conseguente assenza di un apparato

sovraordinato agli Stati in grado di imporre le proprie decisioni, la

funzione giurisdizionale nell’ordinamento internazionale riposa

interamente sul principio volontaristico.

In buona sostanza, non si tratta dell’esercizio di una funzione pubblica,

ma di una semplice modalità di risoluzione delle controversie, che

assume forme e caratteristiche differenti, a seconda dell’ampiezza e del

tipo di attribuzioni che gli Stati conferiscono agli organi competenti.

2. Se si escludono gli arbitrati ad hoc, creati per la risoluzione di una

specifica controversia o di un gruppo di controversie sorte tra le

medesime parti intorno ad una determinata questione,

nell’ordinamento internazionale i fori giudiziari erano, tradizionalmente,

piuttosto esigui: si può citare, come esempio classico, la Corte

123

permanente di giustizia internazionale, istituita nel 1918 dal Patto

della Società delle Nazioni con il compito di dirimere le controversie

internazionali tra gli Stati membri dell’organizzazione.

L’incremento del loro numero e la diversificazione delle rispettive

competenze, dovuti all’intensificarsi delle relazioni internazionali in

materie storicamente estranee all’intervento regolatore del diritto

internazionale, risale agli ultimi decenni del XX secolo.

Attualmente, i Tribunali internazionali svolgono varie funzioni:

- di risoluzione delle controversie internazionali tra Stati (Corte

internazionale di giustizia, Tribunale internazionale del diritto del mare,

ecc.);

- di repressione dei crimini internazionali (Tribunali penali ad hoc,

Corte penale internazionale, ecc.);

- di tutela dei diritti individuali riconosciuti da accordi

internazionali (Corte europea dei diritti dell’uomo, ecc.);

- di tutela dei diritti del personale dipendente di un’organizzazione

internazionale (Tribunale amministrativo delle Nazioni Unite, ecc.).

Solo i Tribunali riferibili alla prima categoria suindicata sono, tuttavia,

considerati dalla dottrina come giurisdizioni internazionali in senso

stretto, perché la loro funzione esclusiva è la risoluzione delle

controversie tra Stati. Nonostante il loro proliferare, che risponde ad

un’esigenza di specializzazione delle competenze, tali organismi non

hanno dato vita ad alcun potere giudiziario autonomo nell’ordinamento

internazionale. In altre parole, non esiste una funzione giurisdizionale

unitaria nell’ordinamento internazionale, ma tanti fori internazionali

quante sono le competenze loro attribuite, istituiti conformemente alle

diverse esigenze degli Stati.

Nessuno di essi, sfugge, pertanto al summenzionato principio

volontaristico, in base al quale l’assoggettamento alle decisioni

dell’organo giudiziario di turno e l’esecuzione delle relative decisioni

restano subordinate alla volontà degli Stati.

3. Sono da ricordare:

124

- la Corte internazionale di giustizia (v. lezione n. 36), che, a norma

dell’art. 92 della Carta dell’ONU, è «il principale organo giurisdizionale

delle Nazioni Unite» e «funziona in conformità allo Statuto annesso che è

basato sullo Statuto della Corte permanente di giustizia internazionale e

forma parte integrante della presente Carta»;

- il sistema di risoluzione delle controversie istituito nell’ambito

dell’Organizzazione mondiale del commercio e, in particolare, e

l’Organo di appello, creato dagli accordi di Marrakech (cfr. l’Allegato 2

del 15.4.1994) allo scopo di accentuare il carattere giurisdizionale del

meccanismo di risoluzione delle controversie già in vigore, che presenta

i tratti tipici di un sistema di tutela giurisdizionale combinati insieme

ad elementi propri delle procedure di conciliazione. Si parla, al

riguardo, di sistema quasi-giurisdizionale;

- il Tribunale internazionale del diritto del mare, istituito dalla

Convenzione sul diritto del mare delle Nazioni Unite (conclusa a

Montego Bay il 10.12.1982 ed entrata in vigore il 16.11.1994), per la

risoluzione delle controversie giuridiche concernenti l’interpretazione e

l’esecuzione delle norme della Convenzione (cfr. le Parti XI e XV, nonché

l’Annesso VI alla Convenzione).

Quest’ultimo, è un esempio di “giurisdizione specializzata”, con

competenze, tuttavia, non esclusive, dal momento che gli Stati parti

della Convenzione possono rivolgersi a fori alternativi (la Corte

internazionale di giustizia, o un tribunale arbitrale), salva la

competenza della Camera per la soluzione delle controversie sui

fondi marini (art. 287 della Convenzione).

4. Sempre nella seconda parte e sul finire del XX secolo, si sono

affermati ulteriori modelli di giurisdizioni internazionali – cd.

giurisdizioni internazionali in senso lato – operanti in ambito penale,

in materia di tutela dei diritti fondamentali e in seno alle organizzazioni

internazionali.

Quanto al primo gruppo, dopo le esperienze isolate dei Tribunali

internazionali di Norimberga e Tokio, istituiti dalle potenze vincitrici

per la repressione dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi

125

durante il secondo conflitto mondiale, l’ordinamento internazionale si

preoccupa di disciplinare la materia penale mediante una chiara

definizione delle fattispecie criminose (genocidio, crimini di guerra,

crimini contro l’umanità e crimini contro la pace) e la creazione di

organi legittimi.

Nel 1993 (Ris. n. 827 del 25.5) e nel 1994 (Ris. n. 955 del 8.11), il

Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite istituisce i Tribunali penali

ad hoc per l’ex-Jugoslavia e per il Rwanda.

Nel 1998 viene firmato a Roma lo Statuto della Corte penale

internazionale (entrato in vigore il 1.7.2002), il primo organo

giurisdizionale internazionale con competenze in materia penale a

carattere generale permanente.

A differenza dei suoi precedenti omologhi, difatti, la Corte può

perseguire i crimini internazionali ovunque commessi, a condizione che

l’accusato sia cittadino di uno dei paesi che hanno ratificato il relativo

Statuto.

Il funzionamento della Corte penale internazionale si basa sul principio

aut dedere aut iudicare, per il quale gli Stati parti si impegnano a

collaborare con tale istituzione nella cattura degli accusati, al fine di

consentire la celebrazione del processo e la punizione dei colpevoli,

salva la possibilità per gli Stati stessi di provvedere autonomamente.

Per la tutela dei diritti fondamentali della persona devono certamente

ricordarsi le Corti europea, interamericana e africana dei diritti

dell ’uomo , che hanno il compito di vigilare sul rispetto delle

Convenzioni regionali vigenti nel continente europeo, in quello

americano e in quello africano, aventi ad oggetto la protezione dei diritti

dei cittadini dei paesi che aderiscono a tali accordi.

5. La particolarità delle giurisdizioni internazionali in senso lato

consiste nel fatto che non sono solo gli Stati a prendere parte ai relativi

procedimenti. Ad esempio, nel caso dei giudizi aventi ad oggetto la

tutela dei diritti umani, l’edictio actionis (vale a dire il diritto di agire in

giudizio) spetta direttamente agli individui i quali si dichiarino vittime

126

della violazione di uno dei diritti sanciti dalla Convenzione cui ha

aderito lo Stato di cui sono cittadini o residenti temporanei.

Nel caso delle giurisdizioni penali, posto che la responsabilità penale è

personale, è evidente che l’imputabilità dei crimini internazionali

riguarda esclusivamente gli individui ritenuti responsabili, e non anche

i rispettivi Stati di appartenenza.

Inoltre, a determinate condizioni, anche le organizzazioni non

governative (ONG) possono partecipare ai procedimenti giurisdizionali

anzidetti, come sostituti processuali o amici curiae, per coadiuvare

l’attività delle Corti.

127

Lezione n. 36

La Corte internazionale di giustizia

1. La Corte internazionale di giustizia è stata istituita nel 1945 per

effetto della stipulazione del relativo Statuto (un vero e proprio accordo

internazionale). Essa – come anticipato – è considerata il massimo

organo giurisdizionale delle Nazioni Unite, sebbene non risulti titolare

di alcuna potestà giurisdizionale sui relativi organi, ma svolga una

duplice funzione:

- contenziosa (giurisdizionale), per la risoluzione delle controversie

giuridiche tra Stati membri delle N.U. o che abbiano aderito anche solo

allo Statuto della Corte;

- consultiva, per l’emissione di pareri «su qualunque questione

giuridica» richiesti a norma dell’art. 92 della Carta delle N.U.

La Corte si compone di 15 giudici indipendenti, eletti dall’Assemblea

generale e dal Consiglio di sicurezza delle N.U. secondo un criterio di

massima rappresentanza geografica e dei principali sistemi giuridici.

Ciò significa che, pur non potendo rappresentare direttamente tutti i

paesi membri dell’ONU, i giudici della Corte sono nominati a rotazione

secondo una procedura che ne garantisca la provenienza dalle diverse

aree del mondo e dai rispettivi ordinamenti.

I giudici durano in carica per nove anni e sono rieleggibili. La loro

elezione, tuttavia, non è simultanea, ma ogni tre anni si procede

all’elezione di un terzo dei membri della Corte.

2. La Corte esercita la propria funzione contenziosa su impulso degli

Stati. Tuttavia, non basta aver aderito alla Carta delle Nazioni Unite o

allo Statuto della Corte per attivarne la competenza, ma occorre che

l’assoggettamento al giudizio della Corte risulti da una specifica

manifestazione di volontà degli Stati.

In altre parole, l’adesione alla Carta dell’ONU (o allo Statuto)

rappresenta la precondizione per adire la Corte. Tuttavia, non è

128

sufficiente per l’instaurazione di un giudizio. A tal fine, si rendono

necessari ulteriori adempimenti da parte degli Stati membri.

In particolare, a norma dell’art. 36 dello Statuto della Corte, la

competenza contenziosa può essere attivata:

- mediante un compromesso o una clausola compromissoria

contenuta in un accordo internazionale;

- mediante una dichiarazione unilaterale di accettazione della

giurisdizione della Corte, emessa «incondizionatamente o sotto

condizione di reciprocità da parte di più Stati o di determinati Stati o per

un periodo determinato» (par. 3) e depositate presso il Segretario

Generale delle Nazioni Unite (par. 4).

3. Nei suoi giudizi, la Corte non è vincolata all’applicazione del diritto

materiale indicato dalle parti, ma può decidere in base a qualsiasi

norma di diritto internazionale (convenzionale o generale). In assenza di

una norma o di un principio generale applicabile alla controversia, la

Corte, con il consenso delle parti, può giudicare ex aequo et bono (art.

38 dello Statuto).

Le regole di procedura applicabili ai giudizi innanzi alla Corte sono

contenute nello Statuto.

Le sentenze emesse dalla Corte internazionale di giustizia hanno valore

obbligatorio solo fra le parti e riguardo alla controversia decisa (art. 59)

e sono definitive (art. 60).

Quando la Corte applica una o più norme internazionali alla

controversia sottoposta al suo esame (cd. sillogismo giudiziale:

significa che la Corte è tenuta a decidere quale norma internazionale

sia applicabile alla fattispecie concreta oggetto del giudizio), le sue

sentenze hanno natura dichiarativa (di accertamento).

L’elencazione delle fonti normative da cui la Corte può trarre le proprie

decisioni è contenuta all’art. 38 dello Statuto.

Quando la Corte giudica secondo equità, in assenza di norme

internazionali applicabili, le sue sentenze hanno, invece, natura

costitutiva, perché creano nuove situazioni giuridiche a favore di una

parte e a scapito dell’altra.

129

4. La funzione consultiva può essere attivata dall’Assemblea Generale

o dal Consiglio di sicurezza «su qualunque questione giuridica», ovvero

dagli altri organi delle N.U. e dagli istituti specializzati (ad es., la FAO,

l’OIL, l’UNESCO, ecc.), previa autorizzazione dell’Assemblea generale,

«su questioni giuridiche che sorgano nell’ambito delle loro attività» (art.

92 della Carta dell’ONU).

I pareri della Corte non hanno forza vincolante, ma possono contribuire

alla formazione dell’opinio iuris degli Stati in vista della creazione di

norme consuetudinarie.

130

VII modulo

L’illecito internazionale e la responsabilità

Lezione n. 37

La configurabilità dell’illecito nel diritto internazionale

1. Nel diritto internazionale, si configura un illecito tutte le volte in cui

un ente dotato di personalità giuridica (uno Stato, un’organizzazione o

un altro soggetto) commette la violazione di un obbligo stabilito da

una norma internazionale.

A differenza del diritto interno, nell’ordinamento internazionale non

opera la nota distinzione tra illecito civile e illecito penale, ma il

regime di responsabilità è unico, salvi i casi di responsabilità

aggravata.

Ciò in quanto l’ordinamento internazionale non distingue gli illeciti in

base alla relativa configurazione o alle loro conseguenze, ma solo in

base alle modalità di reazione da parte dei soggetti lesi. Così, la

violazione di un accordo bilaterale perpetrata da uno Stato parte

legittima solo la reazione della controparte, mentre la violazione di un

obbligo erga omnes legittima la reazione dell’intera comunità

internazionale.

2. In linea generale, la violazione di un obbligo internazionale

determina l’applicazione automatica di alcune regole speciali (cd.

norme secondarie) nei rapporti tra il soggetto autore dell’illecito e il

soggetto leso, in luogo delle normali regole applicabili in condizioni

ordinarie (cd. norme primarie).

Ogni volta che il diritto internazionale venga violato, quindi, i rapporti

giuridici intercorrenti tra lo Stato responsabile e quello danneggiato

vengono – per così dire – “congelati” e si applicano solo le norme

secondarie.

131

Queste hanno origine consuetudinaria e sono state codificate dalla

Commissione di diritto internazionale nell’importantissimo Progetto

di articoli sulla responsabilità degli Stati, approvato in prima lettura

nel 1996 e in seconda lettura nel 2001. Attualmente, all’esame della

Commissione c’è anche un Progetto di articoli sulla responsabilità

delle organizzazioni internazionali.

3. In base alla definizione di illecito internazionale generalmente

accolta, gli elementi costitutivi della fattispecie sono due:

- l’imputabilità dell’illecito ad un soggetto internazionale (cd.

elemento soggettivo);

- la violazione di un obbligo internazionale vigente al momento del

verificarsi dell’illecito (cd. elemento oggettivo).

Si discute se oltre agli elementi soggettivo e oggettivo siano necessarie

ulteriori condizioni per la configurabilità di un illecito internazionale.

Al riguardo, si deve escludere la rilevanza del dolo o della colpa, dal

momento che il regime di responsabilità per il compimento di un illecito

internazionale prescinde dall’elemento psicologico del soggetto agente

(cd. responsabilità oggettiva relativa).

In altri termini, lo Stato che commetta un illecito internazionale è

sempre responsabile, sia che abbia agito dolosamente (cioè con la

coscienza e la volontà di commettere quell’illecito), ovvero

colposamente (per imprudenza, negligenza o imperizia), sia, infine, in

modo del tutto indipendente dalla sua volontà (per caso fortuito).

In alcuni casi, però, lo Stato responsabile può discolparsi provando che

la propria condotta sia dipesa dal verificarsi di situazioni esterne, che

impediscono di configurare il suo comportamento come un illecito

internazionale propriamente inteso.

La configurazione dell’illecito internazionale non è ammessa, cioè, in

presenza di determinate cause (cd. esimenti) che giustificano, per la

loro natura eccezionale (ad es., la cd. forza maggiore), o compensativa

(ad es., la legittima difesa), la condotta illecita del soggetto agente.

Tali cause non sono invocabili, però, nel regime di responsabilità

aggravata (per violazione di norme imperative).

132

4. In conseguenza del compimento di un illecito, sorge la

responsabilità internazionale del soggetto agente, da cui derivano:

- l’obbligo di cessazione e non reiterazione dell’illecito;

- l’obbligo di riparazione dell’illecito, nelle sue diverse forme

(restituzione, risarcimento, soddisfazione).

L’adempimento dello Stato responsabile a detti obblighi consente, a

volte, di ripristinare la situazione antecedente l’illecito e di pervenire,

comunque, ad un ristabilimento della legalità internazionale, mediante

la rimozione degli effetti pregiudizievoli derivanti dalla commissione

dell’illecito stesso.

133

Lezione n. 38

Gli elementi costitutivi dell’illecito internazionale – Parte I. L’elementosoggettivo

1. Si è detto che l’elemento soggettivo dell’illecito internazionale

riguarda l’imputabilità dell’illecito ad un soggetto dell’ordinamento

internazionale.

In particolare, nel regime di responsabilità statale, occorre verificare a

quali condizioni una condotta illecita sia riferibile allo Stato-

organizzazione nel suo complesso.

È evidente, difatti, che, di qualunque illecito internazionale si tratti (da

un’invasione armata nel territorio altrui, alla mera inosservanza di un

accordo commerciale), affinché sia imputabile ad uno Stato, dovrà

essere commesso da una o più persone che agiscono in nome e per

conto di questo.

La prima e più semplice ipotesi è quella disciplinata dall’art. 4, par. 1,

del Progetto di articoli CDI, secondo cui, ai fini dell’imputazione della

responsabilità internazionale, rileva qualsiasi comportamento illecito

posto in essere da organi dello Stato, siano questi dipendenti dal

potere legislativo, esecutivo o giudiziario.

Per organo si intende «qualsiasi persona o ente che rivesta tale posizione

secondo il diritto interno dello Stato» (art. 4, par. 2).

Pertanto, ogni individuo che rivesta la qualità organica, vale a dire che

ricopra una carica ufficiale nell’ambito dell’apparato statale (centrale o

periferico, rispetto a tutte le sue articolazioni: un Ministro, un

Parlamentare nazionale o regionale, un Magistrato, un agente di polizia,

ecc.), è formalmente in grado di “impegnare” lo Stato di appartenenza ai

fini della commissione di un illecito internazionale.

2. A norma dell’art. 8 del Progetto di articoli CDI, inoltre, «i l

comportamento di una persona o di un gruppo di persone sarà

considerato un atto di uno Stato ai sensi del diritto internazionale se la

persona o il gruppo di persone di fatto agiscono su istruzioni, o sotto la

134

direzione o il controllo di quello Stato nel porre in essere quel

comportamento».

Si è in presenza di organi (o agenti) di fatto in caso di missioni affidate

ai servizi segreti, ovvero di azioni condotte da gruppi paramilitari non

formalmente riconducibili alle forze armate statali (cfr. le sentenze della

Corte internazionale di giustizia, rispettivamente del 27.6.1986 sul caso

delle Attività militari e paramilitari in Nicaragua e contro il

Nicaragua e del 2.3.2007 sul caso dell’Applicazione della

Convenzione per la prevenzione e la repressione del crimine di

genocidio e quella della Camera d’Appello del Tribunale penale per la

ex-Jugoslavia del 15.7.1999 sul caso Tadic).

In simili casi, pur non potendo ricondurre l’autore materiale dell’illecito

all’organigramma statale (cd. organizzazione formale), non essendo egli

in possesso di alcuna qualità organica apparente, la responsabilità

dello Stato si basa sull’appartenenza dell’agente di fatto alla sua

organizzazione effettiva. Egli, cioè, non agisce di sua iniziativa (motu

proprio), ma in base alle istruzioni ricevute e sotto la direzione e il

controllo statali. Pertanto, lo Stato di provenienza deve essere

considerato responsabile, come se l’illecito fosse stato commesso da un

suo organo apparente.

3. Lo Stato non è responsabile, invece, per gli atti illeciti commessi dai

privati (ad es., l’uccisione di un Capo di Stato straniero da parte di un

cittadino dello Stato ospitante), al di fuori delle ipotesi di culpa in

vigilando (per non aver garantito, cioè, adeguate forme di protezione),

a meno che esso non approvi ufficialmente e dichiari di far propri tali

atti (cfr. la sentenza della Corte internazionale di giustizia del

24.5.1980 sul caso del Personale diplomatico e consolare degli Stati

Uniti a Teheran).

In buona sostanza, non si può imputare ad uno Stato la responsabilità

internazionale per un atto illecito commesso da un cittadino privato sul

proprio territorio, a meno che lo stesso Stato non dichiari di assumerla

volontariamente.

135

Ciò, tuttavia, non esime gli Stati dal garantire il rispetto delle norme

internazionali anche da parte degli individui sottoposti alla sua

giurisdizione. Lo Stato, difatti, è tenuto a provare di non aver potuto

evitare che l’illecito fosse commesso. In difetto, sarà ritenuto

responsabile, non per l’illecito in sé, ma per omessa vigilanza sul

comportamento dei privati.

136

Lezione n. 39

Gli elementi costitutivi dell’illecito internazionale – Parte II.L’elemento oggettivo. La colpa e il danno

1. L’elemento oggettivo dell’illecito internazionale consiste nella

violazione di un obbligo internazionale sancito da una norma vigente al

momento della commissione del fatto.

Nessuno Stato, difatti, può essere ritenuto responsabile per la

violazione di un obbligo insussistente al momento in cui la violazione è

stata compiuta (art. 13 del Progetto di articoli CDI, che codifica il

principio generale nullun crimen sine lege).

2. L’illecito internazionale può classificarsi in base alla condotta posta

in essere dallo Stato agente o in base al tempo di durata.

Nel primo caso, l’illecito è:

- commissivo, quando ha ad oggetto la violazione di un obbligo di non

fare (ad es., il divieto dell’uso della forza);

- omissivo, quando ha ad oggetto la violazione di un obbligo di fare

(ad es., la protezione dell’inviolabilità personale di un Capo di Stato

straniero).

Nel secondo caso, l’illecito è:

- istantaneo, quando si consuma uno actu (art. 14, par. 1, del Progetto

di articoli CDI);

- continuato, quando la medesima condotta illecita si protrae per un

determinato periodo di tempo (art. 14, par. 2, del Progetto di articoli

CDI);

- complesso, quando l’illecito si perfeziona mediante una serie di azioni

o di omissioni tra loro collegate da un unico scopo (art. 15 del Progetto

di articoli CDI).

Tale ultima classificazione – che, a differenza della prima, è

espressamente accolta nel Progetto di articoli – rileva ai fini delle

conseguenze derivanti dalla commissione dell’illecito.

137

Nel caso di illecito continuato o complesso, difatti, lo Stato responsabile

ha l’obbligo, prima ancora di provvedere alla relativa riparazione, di

desistere dal continuare un’azione contraria al diritto internazionale

(ove si tratti di illecito commissivo: ad es., un bombardamento) o,

all’opposto, di attivarsi conformemente ai suoi doveri (ove si tratti di

illecito omissivo: ad es., la vigilanza sull’inviolabilità personale di un

Capo di Stato straniero).

3. Si è già detto che la responsabilità internazionale prescinde

dall’indagine sull’elemento psicologico dell’illecito (il dolo, cioè

l’intenzionalità, o la colpa, cioè la negligenza del soggetto agente).

Il regime di responsabilità internazionale è, pertanto, oggettivo…

- …relativo, nei casi di responsabilità ordinaria (dove operano le

esimenti);

- …assoluto, nei casi di responsabilità aggravata (dove non operano le

esimenti).

4. Il regime di responsabilità internazionale prescinde, infine, anche

dall’esistenza di un danno (materiale o morale) risarcibile.

È configurabile, difatti, anche un illecito internazionale senza danno.

Ciò si verifica, ad esempio, nei casi di violazione di obblighi erga

omnes posti a tutela di valori fondamentali della comunità

internazionale, come il rispetto dei diritti umani dei cittadini dello Stato

agente, ovvero la semplice minaccia dell’uso della forza non seguita da

azioni concrete.

In tali casi, difatti, gli Stati membri della comunità internazionale, che

hanno diritto di pretendere l’osservanza di detto obbligo, non subiscono

conseguenze concretamente pregiudizievoli dalla condotta illecita dello

Stato responsabile.

138

Lezione n. 40

Le cause di esclusione dell’illecito internazionale

1. Si definiscono cause di esclusione dell’illecito (o, secondo alcuni

autori, della responsabilità) determinate situazioni in presenza delle

quali una condotta apparentemente illecita trova giustificazione per il

diritto internazionale, impedendo il sorgere della responsabilità in capo

al soggetto agente.

Talvolta, esse vengono indicate, altresì, con il termine esimenti, proprio

per sottolineare la loro funzione ostativa rispetto alla configurazione

dell’illecito.

Le cause di esclusione dell’illecito sono tassative e rilevano in tutti i

casi di violazione di obblighi internazionali, tranne quelli che

discendono dall’osservanza di norme imperative (art. 26 del Progetto di

articoli CDI).

Sicché, ogni Stato che commetta un illecito internazionale potrà

invocare dette circostanze – ove sussistenti – per giustificare la propria

condotta. Peraltro, tale invocazione non esonera lo Stato dal rispettare

l’obbligo violato, a partire dal momento in cui la circostanza esimente

non sussiste più, né pregiudica la richiesta di un indennizzo da parte

dello Stato leso per le eventuali perdite subite (art. 27).

2. Le fattispecie specificamente richiamate nel Progetto di articoli CDI

sono:

- Il consenso dell’avente diritto: il previo consenso validamente

prestato da uno Stato alla commissione di un atto pregiudizievole nei

propri confronti da parte di un altro Stato esclude l’illiceità dell’atto nei

limiti del consenso (art. 20).

Ad esempio, l’autorizzazione all’ingresso di truppe armate straniere sul

proprio territorio impedisce che la condotta dello Stato “invasore” possa

configurare un’aggressione illecita.

Qualora il consenso sia prestato successivamente alla commissione

dell’atto, quest’ultimo, a differenza del caso precedente, non può essere

139

ritenuto internazionalmente lecito. Tuttavia, il consenso incide sulla

misura della riparazione.

3. - La legittima difesa: la risposta ad un attacco armato è lecita se

presa in conformità alle disposizioni della Carta delle Nazioni Unite (art.

21 – v. lezione n. 42).

Data l’importanza di tale esimente, già a partire dal XIX secolo la

dottrina si è interrogata sui relativi limiti applicativi. Occorre stabilire,

difatti, quando una reazione ad un attacco armato – quindi, una difesa

– possa qualificarsi come legittima ai sensi del diritto internazionale.

Nel 1841, il Segretario di Stato americano Daniel Webster teorizzava

che uno Stato, per invocare la legittima difesa in senso conforme al

diritto internazionale, dovesse dimostrarne la «necessity». Inoltre la

reazione avrebbe dovuto essere «instant, overwhelming, leaving no choice

of means, and no moment for deliberation».

Tali caratteristiche sono state a lungo disputate dalla dottrina, per

stabilire, ad esempio, se e in quali circostanze fosse ammissibile una

reazione anticipata rispetto all’attacco (cd. legittima difesa

preventiva) per prevenirne eventuali effetti pregiudizievoli (come nel

caso della distruzione di una batteria di missili collocata sul confine e

puntata contro lo Stato agente), ovvero fino a che punto una reazione

potesse ritenersi adeguata rispetto all’attacco subito (problema della

proporzionalità della legittima difesa), o ancora se fosse ammissibile

una reazione nei confronti di Stati sponsor di gruppi terroristici.

Con l’entrata in vigore della Carta delle Nazioni Unite, al regime

dell’autotutela individuale (ammesso in forza dell’art. 51 come «diritto

naturale») si è affiancato quello dell’autotutela collettiva, la cui

gestione è demandata al Consiglio di Sicurezza. Pertanto, la legittima

difesa individuale è ammessa fintantoché il Consiglio di sicurezza non

sia in grado di adottare le misure necessarie per ristabilire la pace e la

legalità internazionale.

Attualmente, si ritiene che ogni misura individuale adottata dagli Stati

per legittima difesa debba essere:

140

- necessaria (vale a dire che, in quelle circostanze, non si può ricorrere

ad altri mezzi di natura pacifica per ottenere la cessazione dell’attacco

altrui);

- immediata (tra l’attacco e la reazione, difatti, non può trascorrere un

tempo tale da far ritenere che la difesa sia, in realtà, un nuovo attacco);

- proporzionale, non all’attacco in sé considerato, ma all’obiettivo della

sua cessazione.

4. - Le contromisure: la risposta ad un atto internazionalmente

illecito non implicante l’uso della forza prende il nome di contromisura

(ad esempio, l’adozione di sanzioni economiche nei confronti di uno

Stato che si renda responsabile della violazione di un obbligo

internazionale). Essa soggiace agli stessi limiti della legittima difesa e

deve essere conforme alla Carta delle N.U. (art. 22).

Gli articoli da 49 a 54 del Progetto di articoli CDI disciplinano le

condizioni di adozione delle contromisure.

5. - La forza maggiore: l’illiceità di un atto è esclusa se questo è

dovuto a forza maggiore, consistente «nel sopravvenire di una forza

irresistibile o di un avvenimento imprevedibile, fuori dal controllo

dello Stato», che rende impossibile, in tali circostanze, agire

diversamente (art. 23).

Tale esimente rileva nei casi in cui la condotta dello Stato agente è

condizionata da eventi completamente sottratti al suo controllo (ad es.,

un naufragio che costringe una nave a riparare in un porto straniero

senza autorizzazione).

Tuttavia, essa non trova applicazione se:

- lo Stato agente ha contribuito al verificarsi della situazione; ovvero

- ha accettato il rischio che essa si verificasse.

6. - L’estremo pericolo: l’illiceità di un atto è, altresì, esclusa se lo

Stato che lo compie «non ha ragionevolmente un altro mezzo, in una

situazione di estremo pericolo, per salvare la propria vita o quella di

persone affidate alle sue cure», (art. 24).

141

In questo caso, la gravità del rischio cui il soggetto agente va incontro è

tale da consentire la violazione degli obblighi internazionali che lo

stesso sarebbe tenuto a rispettare in condizioni ordinarie.

L’esimente non trova applicazione se:

- lo Stato agente ha contribuito al verificarsi della situazione; ovvero

- se tale atto è in grado di determinare un pericolo eguale o più

grave.

7. - Lo stato di necessità: lo stato di necessità non può essere, invece,

invocato quale esimente dell’illiceità di un atto, a meno che questo:

- non sia il solo mezzo a disposizione dello Stato per salvaguardare un

interesse essenziale innanzi ad un pericolo grave e imminente; e

- non comprometta gravemente un interesse essenziale di uno o più

Stati, o della comunità internazionale nel suo complesso (art. 25).

In buona sostanza, l’invocazione dello stato di necessità implica che lo

Stato agente versi in una situazione di grave minaccia dei suoi interessi

essenziali. A differenza dell’estremo pericolo, pertanto, non è in gioco la

sopravvivenza di persone fisiche, ma la tutela di interessi fondamentali

(ad es., di natura economica, finanziaria, ecc.).

L’esimente non trova comunque applicazione se:

- lo Stato agente ha contribuito al verificarsi della situazione invocata;

ovvero

- se l’obbligo gravante sullo Stato agente esclude la possibilità di

invocare lo stato di necessità.

142

Lezione n. 41

Le conseguenze dell’illecito internazionale

1. Qualunque Stato che commetta un illecito è tenuto ad assumersene

la responsabilità sul piano internazionale. Ciò implica una serie di

conseguenze giuridiche, puntualmente descritte nel Progetto di articoli

CDI.

Queste sono:

- l’obbligo di cessazione e non reiterazione (art. 30 del Progetto CDI);

- l’obbligo di riparazione (art. 31 e 34-36).

L’osservanza di tali obblighi non pregiudica, inoltre, «il persistere del

dovere dello Stato responsabile di conformarsi all’obbligo violato» (art.

29). Vale a dire che la violazione di un obbligo internazionale in

un’occasione non esime lo Stato agente dal tornare a rispettare detto

obbligo dopo aver cessato la sua violazione.

2. A norma dell’art. 30 del Progetto di articoli elaborato dalla CDI, lo

Stato responsabile di un illecito internazionale ha l’obbligo di cessarlo

(ove si tratti di illecito continuato o complesso), nonché «di offrire

adeguate assicurazioni e garanzie di non reiterazione, se le circostanze lo

richiedono».

A norma del successivo art. 31, lo Stato responsabile ha l’obbligo «di

prestare integrale riparazione per il pregiudizio causato dall’atto

internazionalmente illecito» (par. 1).

Il pregiudizio da riparare «comprende ogni danno, sia materiale che

morale,causato dall’atto internazionalmente illecito di uno Stato» (par. 2).

Cessazione e riparazione sono le modalità attraverso cui lo Stato

responsabile è tenuto a ripristinare la legalità internazionale. In

particolare, l’obbligo di riparazione assume diverse forme a seconda

della natura e delle caratteristiche dell’obbligo violato.

3. La riparazione del pregiudizio causato può consistere, difatti:

- nella restituzione,

143

- nel risarcimento o

- nella soddisfazione.

Tali forme di riparazione possono essere adempiute alternativamente

o in concorrenza tra loro (art. 34).

La restituzione consiste nel ripristino della situazione sussistente

prima della commissione dell’illecito, purché ciò non sia materialmente

impossibile, o eccessivamente oneroso per il responsabile a parità di

vantaggio per il soggetto leso rispetto al risarcimento (art. 35).

Ciò significa che, se in determinate circostanze la restituzione non può

avvenire per impossibilità oggettiva (ad es. quando l’atto illecito ha

cagionato la perdita di vite umane), in altri lo Stato responsabile avrà

comunque la possibilità di scegliere tra restituzione e risarcimento

quando detta scelta è indifferente al soggetto leso. Il risarcimento sarà,

quindi, preferibile se risulti meno oneroso della restituzione.

4. Se e nella misura in cui non sia possibile provvedere alla

restituzione, lo Stato responsabile è obbligato al risarcimento del

danno causato dall’illecito (art. 36).

Ai fini della quantificazione del danno risarcibile, si deve tener conto

dell’entità complessiva del pregiudizio (cd. danno emergente) e del

mancato guadagno (cd. lucro cessante).

5. Infine, lo Stato autore della violazione può essere tenuto a dare

soddisfazione allo Stato leso, nella misura in cui non siano sufficienti

la restituzione e il risarcimento, ovvero l’illecito non abbia arrecato

danni materiali, ma esclusivamente una lesione all’onore dello Stato (ad

es., il pronunciamento di ingiurie nei confronti di un popolo o dei suoi

esponenti politici nel corso di una manifestazione ufficiale, attacchi

razzisti, ecc.).

La soddisfazione può consistere «in un riconoscimento della violazione,

una manifestazione di rincrescimento, scuse formali o altra modalità

adeguata», ma non può mai «essere sproporzionata rispetto al

pregiudizio» o risultare umiliante per lo Stato responsabile (art. 37).

144

Lezione n. 42

Il divieto dell’uso della forza e il sistema di sicurezza collettiva delleNazioni Unite

1. Si è detto già in apertura del corso che, con l’entrata in vigore della

Carta delle Nazioni Unite, la minaccia e l’uso della forza armata

vengono banditi dalle relazioni internazionali. Il ricorso ad essi, «contro

l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato [o] in

qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite» (art.

4, par. 2), diviene quindi illecito.

Come anticipato trattando delle cause di giustificazione dell’illecito

internazionale, la Carta delle Nazioni Unite fa salvo, però, «il diritto

naturale di autotutela indidviduale o collettiva, nel caso che abbia

luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite,

fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie

per mantenere la pace e la sicurezza internazionale» (art. 51).

La Carta riconosce, quindi, al contempo:

- il diritto degli Stati di agire in autotutela (legittima difesa), in caso di

attacco armato da parte di un altro Stato;

- il diritto di intervento del Consiglio di sicurezza, cui è attribuito «il

potere e il compito... di intraprendere in qualsiasi momento quella azione

che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la

sicurezza internazionale» (art. 51).

2. A norma dell’art. 39 della Carta, il Consiglio di sicurezza delle

Nazioni Unite è chiamato ad intervenire in conseguenza

dell’accertamento di una delle seguenti situazioni:

- minaccia alla pace;

- violazione della pace;

- atto di aggressione.

Si tratta di tre fattispecie distinte, la cui sussistenza è valutata

insindacabilmente dal Consiglio di sicurezza secondo il proprio

apprezzamento. In base alla Carta delle Nazioni Unite, qualora accerti

145

una delle situazioni descritte all’art. 39, il Consiglio di sicurezza può

intervenire con:

- misure provvisorie (art. 40);

- misure non implicanti l’uso della forza (art. 41);

- misure implicanti l’uso della forza (art. 42).

Dette misure hanno forza vincolante nei confronti degli Stati cui sono

destinate, mentre gli altri membri delle Nazioni Unite hanno comunque

l’obbligo di contribuire alla loro attuazione. Così, se il Consiglio di

sicurezza adotta una sanzione economica nei confronti di uno Stato (ad

es., un embargo commerciale) per censurarne la condotta illecita

nell’ambito delle relazioni internazionali, tutti gli Stati che

intrattengono rapporti commerciali con il destinatario della sanzione

sono obbligati a darvi esecuzione, pena l’applicazione di sanzioni

ulteriori nei loro confronti.

In forza dell’art. 103 della Carta, inoltre, il rispetto degli obblighi

derivanti dalla partecipazione alle Nazioni Unite – e, quindi, anche delle

decisioni vincolanti del Consiglio di Sicurezza – prevale su tutti gli

obblighi incompatibili gravanti sugli Stati in forza del diritto

internazionale generale o di altri accordi, anche successivi, salvo il

rispetto delle norme imperative.

In definitiva, il sistema di sicurezza collettiva previsto dalle Nazioni

Unite, pur essendo stato istituito su base convenzionale, si sovrappone

alle regole consuetudinarie in materia di legittima difesa, al punto che

questa viene riconosciuta lecita dal Progetto di articoli sulla

responsabilità degli Stati del 2001 solo qualora sia conforme alla Carta

dell’ONU (art. 21).