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Donald Davidson UNA GRAZIOSA CONFUSIONE DI EPITAFFI Goodman Ace scrisse commedie radiofoniche. Secondo Mark Singer, Ace spesso parlava nel modo in cui scriveva: Piuttosto che prendere per granito che Ace parla chiaro, l’ascoltatore deve stare all’erta in un occasionale inter nos e me... o un tanto mento che non ti vedo. Prendendola alla targa, Ace manovra finché sceglie l’espressione adatta alla situazione, battendo esattamente il chiodo sul pollice. L’interlocutore attento potrebbe lottare con lui in una frattaglia di spiriti. Cercando di raggiungere la china del successo, mi sono spesso sfasciato il cervello per ottenere un risultato di tonfo, ma Ace ce l’ha sempre matta. Di tanto in tanto Ace, in modo incontinente, monotonizza la conversazione con battute troppo onerose da nominare. È sessanta minuti che qualcuno lo sconfigga nel suo stesso gioco, ma io non l’ho mai fatto: lo turo, egli cade sempre in testa. 1 La lunghezza della citazione è dovuta al fatto che i filosofi hanno avuto la tendenza a dimenticare o a sottovalutare il tipo di uso linguistico che un passo come questo illustra. Scrive, ad esempio, Jonathan Bennett: 1 The New Yorker, 4 aprile 1977, p. 56. [La traduzione è naturalmente molto libera e ha il solo scopo di fornire un’idea di un testo ricco di battute, doppi sensi, scambi e giochi di parole. Il lettore potrà, comunque, leggere qui di seguito la versione originale: -Rather than take for granite that Ace talks straight, a listener must be on guard for an occasional entre nous and me... or a long face no see. In a roustabout way, he will maneuver until he selects the ideal phrase for the situation, hitting the nail right on the thumb. The careful conversationalist might try to mix it up with him in a baffle of wits. In quest of this pinochle of success, I have often wrecked my brain for a clowning achievement, but Ace’s chickens always come home to roast. From time to time, Ace will, in a jerksome way, monotonize the conversation with witticisms

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Donald Davidson

UNA GRAZIOSA CONFUSIONE DI EPITAFFI

Goodman Ace scrisse commedie radiofoniche. Secondo Mark Singer, Ace spesso parlava nel modo in cui scriveva:

Piuttosto che prendere per granito che Ace parla chiaro, l’ascoltatore deve stare all’erta in un occasionale inter nos e me... o un tanto mento che non ti vedo. Prendendola alla targa, Ace manovra finché sceglie l’espressione adatta alla situazione, battendo esattamente il chiodo sul pollice. L’interlocutore attento potrebbe lottare con lui in una frattaglia di spiriti. Cercando di raggiungere la china del successo, mi sono spesso sfasciato il cervello per ottenere un risultato di tonfo, ma Ace ce l’ha sempre matta. Di tanto in tanto Ace, in modo incontinente, monotonizza la conversazione con battute troppo onerose da nominare. È sessanta minuti che qualcuno lo sconfigga nel suo stesso gioco, ma io non l’ho mai fatto: lo turo, egli cade sempre in testa.1

La lunghezza della citazione è dovuta al fatto che i filosofi hanno avuto la tendenza a dimenticare o a sottovalutare il tipo di uso linguistico che un passo come questo illustra. Scrive, ad esempio, Jonathan Bennett:

1 The New Yorker, 4 aprile 1977, p. 56. [La traduzione è naturalmente molto libera e ha il solo scopo di fornire un’idea di un testo ricco di battute, doppi sensi, scambi e giochi di parole. Il lettore potrà, comunque, leggere qui di seguito la versione originale: -Rather than take for granite that Ace talks straight, a listener must be on guard for an occasional entre nous and me... or a long face no see. In a roustabout way, he will maneuver until he selects the ideal phrase for the situation, hitting the nail right on the thumb. The careful conversationalist might try to mix it up with him in a baffle of wits. In quest of this pinochle of success, I have often wrecked my brain for a clowning achievement, but Ace’s chickens always come home to roast. From time to time, Ace will, in a jerksome way, monotonize the conversation with witticisms

Dubito di aver mai assistito ad una scena simile: qualcuno che grida «Acqua!» per avvertire di un incendio, sapendo che cosa «Acqua!» significa e sapendo che anche coloro che lo ascoltano lo sanno, ma pensando che essi si aspettino che egli dia a «Acqua!» il significato che normalmente ha «Fuoco!».2

Bennett aggiunge che, «sebbene tali cose potrebbero suc-cedere, in effetti raramente succedono». Penso che tali cose succedano di continuo; in realtà, se le circostanze vengono generalizzate in modo naturale, il fenomeno è onnipresente e pervasivo.

Gli esempi di Singer sono, per più di un aspetto, speciali. Non è infatti necessario che un malapropismo3 sia divertente o sorprendente. Non c’è bisogno che si basi su un cliché e, naturalmente, non è necessario che sia intenzionale. Non serve che vi sia né gioco con le parole né traccia di giochi di parole volontari. Possiamo ridere se qualcuno dice «Fa’ strada e ti precederemo» o, con Archie Bunker, «Abbiamo bisogno di qualche risata per rompere la monogamia», perché ha detto qualcosa che, dati i significati usuali delle parole, è ridicolo o buffo. Ma l’effetto umoristico non è essenziale.

I malapropismi di Ace di solito acquistano un qualche senso quando le parole sono assunte nel modo abituale, come in «L’eccessiva confidenza spinge a provarci» (Familiarity breeds attempt)* oppure in «Siamo tutti cremati eguali»,

too humorous to mention. It’s high noon someone beat him at his own game, but I have never done it: cross my eyes and hope to die, he always wins thumbs down- Nota del curatore)].

2 JONATHAN BENNETT, Linguistic Behavior, Cambridge University Press, Cambridge 1976, p. 186.

3 La parola inglese malapropism sta ad indicare uno scambio di parole, volontario o inconsapevole, dovuto, perlopiù, alla somiglianza di suono o di grafia. Deriva dal nome di un personaggio della commedia The Rivals (1775) di Richard B. Sheridan, Mrs. Malaprop, i cui discorsi sono infarciti di tali scambi di parole Nota del curatore).

4 Si tratta di una trasformazione del proverbio Familiarity breeds contempt (L’eccessiva confidenza fa perdere il rispetto). (Nota del curatore.)

(We’re all cremated equal); «l’acne del successo» (the pinochle of success). Ciò che interessa è il fatto che in tutti questi casi l’ascoltatore non fa alcuna fatica a comprendere il parlante nel modo in cui questi vuole essere inteso.

È abbastanza facile spiegare come ciò accada nel caso dell’ascoltatore: l’ascoltatore capisce che l’interpretazione “standard” non può essere l’interpretazione voluta; per ignoranza, per disattenzione o di proposito il parlante ha usato una parola simile nel suono alla parola che avrebbe espresso “in modo corretto” ciò che egli intendeva. L’assurdità e la non pertinenza di ciò che il parlante avrebbe inteso dire se le sue parole fossero assunte nel modo «standard» mette sull’avviso l’ascoltatore su un possibile inganno o errore; la similarità del suono lo indirizza subito verso l’interpretazione corretta. Naturalmente, vi sono molti altri modi mediante cui l’ascoltatore potrebbe pervenirvi; la similarità di suono non è essenziale al malapropismo. In generale, non è neppure richiesto, perché l’interpretazione riesca, che il parlante usi una parola già esistente. Gran parte di «The Jabberwock»6 è comprensibile al primo ascolto.

È irrilevante, per quanto riguarda la comprensione, se vi sia un errore o chi lo commetta. La prima volta che lessi l’articolo di Singer su Goodman Ace, pensai che la parola «malaprop», benché fosse il nome del personaggio di Sheridan, non fosse un nome comune che potesse essere usato in luogo di «malapropism». Ciò si rivelò un errore da parte mia. Non che avesse importanza: sapevo ciò che Singer intendeva dire, anche se mi sbagliavo sulla parola; avrei inteso ciò che intendeva anche se fosse stato lui, e non io,

5 Pinochle è il nome di un gioco di carte (il nostro pinnacolo). Nell’espres-sione the pinochle of success è usato al posto di pinnacle (guglia, apice). (Nota del curatore.)

6 Famoso componimento -nonsense- che si trova in Dietro lo specchio di L. CARROLL. (Nota del curatore.)

a sbagliarsi. Avremmo potuto sbagliare entrambi e tutto sarebbe andato ugualmente liscio.

Il fatto che si parli di errore o di sbaglio non ha nulla di misterioso né si presta a sospetti di carattere filosofico. Mi sbagliavo su ciò che potrei trovare in un buon dizionario o consultando un gruppo di esperti del cui gusto o della cui preparazione mi fidi. Ma errori o sbagli di questo genere e la relativa nozione di uso corretto non sono interessanti da un punto di vista filosofico. Vogliamo una nozione più profonda di ciò che le parole, pronunciate in un contesto, significano; e come nel caso della nozione superficiale di uso corretto, vogliamo che il concetto profondo distingua tra ciò che un parlante, in una determinata circostanza, intende e ciò che le sue parole significano. La diffusa esistenza di malapropismi e di altri fenomeni simili minaccia la distinzione, poiché in questi casi ciò che si intende significare sembra soppiantare il significato standard.

Dò, comunque, per scontato che niente ci può consentire di dimenticare o anche solo di oscurare la distinzione tra ciò che il parlante intende e il significato letterale. Per mantenere la distinzione, dobbiamo, come sosterrò, modificare certe concezioni comunemente accettate su ciò che significa «conoscere un linguaggio» o su ciò che è un linguaggio naturale. In particolare, dobbiamo distinguere ciò che nel linguaggio è letterale da ciò che è convenzionale o stabilito.

Questo è un tentativo preliminare di caratterizzare ciò che ho chiamato significato letterale. Su questo termine vi sono troppe incrostazioni filosofiche e di altro genere perché esso possa essere di qualche utilità, per cui chiamerò ciò che qui mi interessa significato primo. Il concetto si applica a parole e a enunciati proferiti da un determinato parlante in una specifica circostanza. Ma se la circostanza, il parlante e l’uditorio sono «normali» o «standard» (in un senso che non deve qui essere spiegato), allora il significato primo di un’espressione sarà ciò che potrebbe essere trovato consul-

tando un dizionario basato sull’uso effettivo (tipo Webster’s Third). In prima istanza, possiamo dire che il significato primo viene per primo nell’ordine dell’interpretazione. Non abbiamo alcuna possibilità di spiegare l’immagine che compare nei versi seguenti, a meno che, ad esempio, non conosciamo ciò che «foison» significava al tempo di Shakespeare:

Speak of the spring and foison of the year, The one doth shadow of your beauty show, The other as your bounty doth appear...

[Si parli della primavera, e del raccolto dell’anno, e l’una mostra solo l’ombra della tua bellezza, l’altro appare come tua munificenza...]7

Qui ben poco va assunto letteralmente, ma, a meno che non conosciamo il significato primo o letterale delle parole, non cogliamo e non siamo in grado di spiegare l’immagine.

Ma «l’ordine dell’interpretazione» non è affatto chiaro. Vi sono, infatti, dei casi in cui si può dapprima intuire l’immagine e, in base a questa, chiarire il significato primo. Potrebbe essere il caso della parola «tires» nel medesimo sonetto:

On Helen’s cheek all art of beauty set, And you in Grecian tires are painted new.

[Sulla guancia di Elena s’apponga ogni artificio di bellezza, e tu in greca acconciatura sei dipinto nuovamente.]

E, naturalmente, accade spesso che si possa discernere il significato letterale di una parola o di una espressione valutando in primo luogo ciò a cui il parlante mirava.

7 W. SHAKESPEARE, Sonetti, a cura di A. SERPIERI, Rizzoli, Milano 1991, sonetto 53.

Un modo migliore per distinguere il significato primo è fornito dalle intenzioni del parlante. Le intenzioni con le quali un atto è compiuto sono di solito ordinate, in modo non ambiguo, dalla relazione mezzi/fini (relazione che può essere o non essere causale). Così il poeta vuole (diciamo) elogiare la bellezza e magnanimità del suo benefattore e lo fa usando immagini che dicono che la persona a cui si rivolge accoglie in sé tutti gli aspetti positivi che si possono trovare in natura o nell’uomo o nella donna. A sua volta, egli fa questo mediante l’uso della parola «tire» per intendere «attire» [acconciatura] e della parola «foison» per intendere «harvest» [raccolto]. L’ordine qui introdotto dalla preposizione “mediante” può essere invertito usando l’espressione «allo scopo di». Nella sequenza «allo scopo di» il significato primo è il primo significato a cui ci si riferisce (l’espressione «con l’intenzione di» va altrettanto bene).

Supponiamo che Diogene proferisca le parole «Vorrei che tu non stessi tra me e il sole» (o il loro equivalente greco) con l’intenzione di proferire parole che saranno interpretate da Alessandro come vere se e solo se Diogene volesse che lui (Alessandro) non si frapponesse tra Diogene e il sole; e questo con l’intenzione di chiedere ad Alessandro di allontanarsi dalla posizione tra lui e il sole; e questo con l’intenzione di ottenere che Alessandro si allontani dalla posizione tra lui e il sole; e questo con l’intenzione di lasciare ai posteri un bell’aneddoto. Naturalmente, queste non sono le sole intenzioni implicate; vi sono anche le intenzioni griceane di ottenere alcuni di questi fini mediante il riconoscimento da parte di Alessandro di alcune delle intenzioni implicate. L’intenzione di Diogene di essere interpretato in un certo modo richiede una tale intenzione autoreferentesi, come è appunto l’intenzione di chiedere che Alessandro si allontani. In generale, la prima intenzione nella sequenza che richiede una tale caratteristica fìssa il significato primo.

Poiché un parlante necessariamente vuole che il significato primo sia afferrato dal suo uditorio e poiché esso è

afferrato se la comunicazione riesce, non tralasciamo nulla nell’indagine sul significato primo se ci concentriamo sulla conoscenza o abilità che l’ascoltatore deve possedere per interpretare un parlante. Affinché il parlante sia compreso, ciò che egli conosce deve corrispondere a qualcosa che l’interprete sa, poiché se il parlante è compreso egli è stato interpretato come intendeva essere interpretato. Le abilità del parlante che vanno al di là di ciò che occorre ad un interprete - capacità inventiva e controllo motorio - qui non mi riguardano.

Nulla di quanto finora detto limita il significato primo al linguaggio; ciò che è stato caratterizzato è (approssimativa-mente) il significato non-naturale di Grice, che si applica a ogni segno o segnale che venga prodotto con l’intenzione che sia interpretato in un certo modo. Che cosa dovremmo aggiungere qualora volessimo restringere il significato primo al significato linguistico? La risposta abituale sarebbe, ritengo, che nel caso del linguaggio l’ascoltatore condivide con il parlante un sistema complesso (una teoria), il quale rende possibile l’articolazione di relazioni logiche tra gli enunciati proferiti e spiega l’abilità nell’interpretare nuovi proferimenti in maniera organizzata.

Una risposta simile è stata suggerita, in questa o quella forma, da molti filosofi e linguisti e ritengo che sia in un qualche senso corretta. La difficoltà sta nel far chiarezza su quale sia questo senso. La questione particolare che affronto in questo saggio (in effetti ce ne sono moltissime altre) può essere illustrata formulando tre principi plausibili che riguardano il significato primo nel linguaggio. Possiamo classificarli dicendo che essi richiedono che il significato primo sia sistematico, condiviso e predisposto.

1. Il significato primo è sistematico. Un parlante competente o un interprete è in grado di interpretare i proferimenti propri o degli altri sulla base delle proprietà semantiche delle parti, o parole, dell’enunciato proferito e della sua

struttura. Affinché ciò sia possibile, ci devono essere relazioni sistematiche tra i significati degli enunciati proferiti.

2. I significati primi sono condivisi. Affinché il parlante e l’interprete comunichino con successo e in modo regolare, devono condividere un metodo di interpretazione del tipo descritto in 1.

3. I significati primi sono governati da convenzioni apprese o regolarità. La conoscenza sistematica o la competenza del parlante o dell’interprete è appresa in anticipo rispetto alle occasioni interpretative ed è di carattere convenzionale.

Probabilmente, nessuno dubita che queste condizioni comportino delle difficoltà. Un esempio è l’ambiguità: spesso la «stessa» parola ha più di un ruolo semantico e così l’interpretazione dei proferimenti nei quali è presente non è univocamente fissata dalle caratteristiche della competenza dell’interprete finora menzionate. Tuttavia, sebbene le caratteristiche verbali e non verbali del contesto del profe-rimento determinino spesso l’interpretazione corretta, non è facile o forse neppure possibile specificare regole chiare per sciogliere l’ambiguità. Ci sono molte altre questioni riguardo a ciò che è richiesto a un interprete competente. Non sembra plausibile che ci sia una regola rigida che fissi le circostanze in cui dovremmo attribuire significato all’ordine in cui gli enunciati congiunti appaiono in una congiunzione, come nel caso della differenza tra «Si sposarono ed ebbero un figlio» e «Ebbero un figlio e si sposarono». Gli interpreti possono certamente fare queste distinzioni. Ma una delle cose che questo saggio vuole mostrare è che molto di ciò che essi possono fare non dovrebbe essere considerato come parte della loro competenza linguistica di base. Il contrasto tra ciò che è inteso o implicato dall’uso di «ma» al posto di «e» mi sembra una questione diversa, poiché nessuna dose di senso comune non accompagnata da una

conoscenza linguistica renderebbe un interprete in grado di venirne a capo.

Paul Grice ha fatto più di qualsiasi altro per collocare questi problemi al centro del nostro interesse e per aiutarci a chiarirli. In particolare, ha mostrato perché sia essenziale distinguere tra significato letterale (che è forse ciò che qui chiamo significato primo) delle parole e ciò che è spesso dato a intendere (o implicato)8 da qualcuno che usa quelle parole. Egli ha esplorato i principi generali su cui si basa la nostra abilità a cogliere tali implicature (implicatures); principi che devono, naturalmente, essere noti ai parlanti che si aspettano di doverne rispondere. Può rimanere indeciso se la conoscenza di tali principi debba essere inclusa nella descrizione della competenza linguistica: da un lato, si tratta di cose che una persona intelligente potrebbe spesso cogliere senza un preventivo addestramento o preparazione e senza le quali si potrebbe procedere egualmente. Dall’altro, essi rappresentano una sorta di abilità che ci aspettiamo da un interprete, senza la quale la comunicazione sarebbe grandemente impoverita.

Mi addentro in queste questioni solo per distinguerle dal problema costituito dai malapropismi e dai fenomeni simili. I problemi affrontati negli ultimi due paragrafi hanno tutti a che fare con quel tipo di abilità ad interpretare parole e costruzioni a cui si riferiscono le condizioni 1-3; ci siamo chiesti che cosa si richieda per tale interpretazione e in quale misura le diverse competenze dovrebbero essere considerate linguistiche. I malapropismi introducono espressioni non apprese in precedenza o espressioni familiari che nessuna delle abilità finora di-

8 I due verbi to imply e to implicate, come l’espressione implicature che compare poco dopo nel testo, sono qui utilizzati nel senso introdotto da Grice. Cfr. P. GRICE, Studies in the Way of Words, Harvard University Press, Cam-bridge (Massachusttes) 1989, in particolare pp. 22-57 e 269-282. (La traduzione italiana è annunciata dall’editore Il Mulino, Bologna] (Nota del curatore.)

scusse ci rende in grado di interpretare. I malapropismi rientrano in una categoria differente, la quale può includere, ad esempio, la nostra abilità a cogliere un enunciato ben formato in un proferimento effettivo incompleto o grammaticalmente confuso oppure la nostra abilità ad interpretare parole che non abbiamo mai sentito prima, a correggere lapsus linguae o a far fronte a nuovi idioletti. Questi fenomeni minacciano le descrizioni standard della competenza linguistica (incluse descrizioni di cui io stesso sono responsabile).

Come dovremmo intendere o modificare le condizioni 1-3 per comprendervi i malapropismi? Il principio 1 richiede che un interprete competente sia preparato ad interpretare proferimenti di enunciati che non ha mai sentito proferire prima. Ciò è possibile in quanto l’interprete può apprendere il ruolo semantico di ciascuna di un numero finito di parole o espressioni e può apprendere le conseguenze semantiche di un numero finito di modi di composizione. Ciò basta a render conto dell’abilità ad interpretare proferimenti di enunciati inediti. E poiché i modi di composizione possono essere iterati, non c’è nessun limite superiore definito al numero di enunciati il cui proferimento può essere interpretato. L’interprete ha così un sistema per interpretare ciò che sente o dice. Si potrebbe pensare ad un tale sistema come a una macchina che produce una interpretazione ogniqualvolta venga introdotto un qualsiasi enunciato (e certi parametri forniti dalle circostanze del proferimento). Un modello per una tale macchina è una teoria della verità, più o meno secondo le linee di una definizione di verità di Tarski. Essa fornisce una caratterizzazione ricorsiva delle condizioni di verità di tutti i possibili proferimenti del parlante e lo fa mediante una analisi dei proferimenti in termini di enunciati formati a partire dal vocabolario finito e dall’insieme finito dei modi di composizione. Ho spesso argomentato che la padronanza di una tale teoria sarebbe sufficiente per l’interpretazio-

ne.9 In questo contesto, comunque, non vi è ragione di impegnarci con i dettagli della teoria che può rappresentare in modo adeguato l’abilità di un interprete. Tutto ciò che importa nella discussione presente è che la teoria ha una base finita ed è ricorsiva e che queste sono caratteristiche sulle quali la maggior parte dei filosofi e dei linguisti concorderebbe.

Dire che una teoria esplicita per interpretare un parlante è un modello della competenza linguistica dell’interprete non significa suggerire che l’interprete conosca una tale teoria. È possibile, naturalmente, che si possa portare la maggior parte degli interpreti a riconoscere che essi conoscono alcuni degli assiomi della teoria della verità; ad esempio, che una congiunzione è vera se e solo se ognuno dei congiunti è vero. Essi conoscono, forse, anche teoremi della forma «Il proferimento dell’enunciato ‘C’è vita su Marte’ è vero se e solo se c’è vita su Marte al momento del proferimento». D’altro canto, nessuno al momento dispone esplicitamente di una teoria interamente soddisfacente per interpretare i parlanti di un qualsivoglia linguaggio naturale.

In ogni caso, le affermazioni su ciò che dovrebbe costituire una teoria soddisfacente non sono, come si è detto, affermazioni sulla conoscenza proposizionale di un interprete; allo stesso modo non sono affermazioni sui dettagli dei processi interni di qualche parte del cervello. Sono piuttosto affermazioni su ciò che si deve dire al fine di fornire una descrizione soddisfacente della competenza dell’interprete. Noi non possiamo descrivere ciò che un interprete può fare se non appellandoci ad una teoria ricorsiva di un qualche tipo. Non aggiunge nulla a questa tesi dire che, se la teoria descrive correttamente la competenza di un interprete, allora un qualche meccanismo nell’interprete deve corrispondere alla teoria.

9 Vedi i saggi sulla interpretazione radicale nel mio volume Inquiries into Truth and Interpretation, Clarendon Press, Oxford 19852.

Il principio 2 dice che, affinché la comunicazione riesca, occorre che sia condiviso un metodo sistematico di inter-pretazione. (D’ora in poi assumerò che non vi sia nulla di male nel chiamare un tale metodo una teoria, come se l’interprete stesse usando la teoria che noi utilizziamo per descrivere la sua competenza). La condivisione consiste in ciò: l’interprete usa la sua teoria per comprendere il parlante; il parlante usa la stessa teoria (o una equivalente) per dirigere il suo discorso. Per il parlante si tratta di una teoria su come l’interprete lo interpreterà. Ovviamente, questo principio non richiede che il parlante e l’interprete parlino lo stesso linguaggio. È enormemente vantaggioso che molte persone parlino in modi simili e che possano perciò essere interpretate più o meno allo stesso modo. Ma, in linea di principio, la comunicazione non richiede che due persone parlino lo stesso linguaggio. Ciò che deve essere condiviso è la comprensione, da parte dell’interprete e del parlante, delle parole del parlante.

Per ragioni che diventeranno chiare in seguito, non penso che i principi 1 e 2 siano incompatibili con l’esistenza dei malapropismi; è solo quando sono combinati con il principio 3 che sorgono i problemi. Prima di discutere direttamente il principio 3, voglio però introdurre una apparente digressione.

La questione imbarazzante che intendo discutere può essere distinta da certi temi correlati considerando una distinzione fatta da Keith Donnellan e alcune cose che egli ha detto in sua difesa. La famosa distinzione di Donnellan concerne due usi delle descrizioni definite. L’uso referenziale può essere illustrato in questo modo: Jones dice «L’assassino di Smith è pazzo» e intende che un certo uomo, che egli (Jones) ritiene che abbia ucciso Smith, è pazzo. Donnellan dice che, anche se l’uomo che Jones crede che abbia ucciso Smith non avesse ucciso Smith, Jones si è riferito all’uomo che aveva in mente; e se quell’uomo è pazzo, Jones ha detto qualcosa di vero. Lo stesso enunciato può essere

usato attributivamente da qualcuno che intende asserire che l’assassino di Smith, chiunque sia, è pazzo. Se l’uso è questo, qualora nessuno abbia ucciso Smith, il parlante non dice nulla di vero né si è riferito a qualcuno.

Alfred MacKay ha risposto obiettando che Donnellan condivideva la teoria del significato di Humpty Dumpty: «‘Quando uso una parola - disse Humpty Dumpty... - essa significa esattamente ciò che voglio che significhi’». Nella conversazione precedente, Humpty Dumpty aveva usato la parola «gloria» per intendere «un bell’argomento decisivo». Donnellan, in risposta, spiega che le intenzioni sono connesse con le aspettative e che non si può voler compiere qualcosa mediante determinati mezzi a meno che non si creda o non ci si aspetti che i mezzi portino o, perlomeno, possano portare al risultato desiderato. Un parlante, pertanto, non può voler significare qualcosa con ciò che dice, a meno che non creda che il suo uditorio interpreterà le sue parole nel modo da lui voluto (il circolo griceano). Scrive Donnellan:

Se concludessi questa replica a MacKay con l’enunciato »Eccoti la gloria!» mi renderei colpevole di arroganza e, senza dubbio, di una sopravvalutazione della forza di ciò che ho detto, ma, dato lo sfondo, non penso che potrei essere accusato di dire qualcosa di incomprensibile. Sarei capito; e non avrei inteso con «gloria» proprio «un bell’ argomento decisivo»?10

Mi piace questa replica e accetto la distinzione originale di Donnellan tra due usi delle descrizioni (ve ne sono molti più di due). Ma sono, a quanto pare, in disaccordo con alcune concezioni di Donnellan, perché, a differenza di lui, non vedo pressoché alcuna connessione tra la risposta alla

10 K. DONNELLAN, «Putting Humpty Dumpty Together Again», The Philo-sophical Review, 77(1968), p. 213. L’articolo di A. MACKAY, «Mr Donnellan and Humpty Dumpty on Referring», apparve sullo stesso numero di The Pbilosophical Review, pp. 197-202.

obiezione di MacKay e le osservazioni sul riferimento. La ragione è questa. MacKay dice che non si può cambiare ciò che le parole significano (e dunque neppure il loro riferimento, se quest’ultimo è rilevante) sulla base della mera intenzione; la risposta è che ciò è vero, ma che si può cambiare il significato qualora si creda (e forse si sia giustificati a credere) che l’interprete abbia adeguati indizi per la nuova interpretazione. Si possono fornire volutamente questi indizi, come ha fatto Donnellan per la sua conclusione “Eccoti la gloria”.

Il problema è che la distinzione originale di Donnellan non ha nulla a che fare con il cambio di significato o di riferimento delle parole. Se, nell’uso referenziale, Jones si riferisce a qualcuno che non ha ucciso Smith usando la descrizione «L’assassino di Smith», il riferimento è, nondimeno, realizzato sulla base dei significati normali delle parole. Le parole devono pertanto avere il loro abituale riferimento. Tutto ciò di cui v’è bisogno, se accettiamo questo modo di descrivere la situazione, è un forte senso della differenza tra ciò che le parole significano o a cui si riferiscono e ciò che i parlanti intendono o a cui si riferiscono. Jones può essersi riferito a qualcun altro usando parole che si riferivano all’assassino di Smith e può averlo fatto per ignoranza o intenzionalmente. Ciò vale parimenti per l’affermazione di Donnellan secondo cui Jones dice qualcosa di vero allorché dice «L’assassino di Smith è pazzo», concesso che l’uomo che egli (erroneamente) crede che abbia ucciso Smith sia pazzo. Jones ha detto qualcosa di vero usando un enunciato che è falso. Questo lo si fa intenzionalmente di continuo, ad esempio nell’ironia o nella metafora. Una teoria coerente non potrebbe permettere che l’enunciato di Jones, date queste circostanze, sia vero; e neppure Jones lo penserebbe se conoscesse i fatti. La credenza di Jones su chi ha ucciso Smith non può cambiare la verità dell’enunciato che usa (e per la stessa ragione non può cambiare il riferimento delle parole nell’enunciato).

Humpty Dumpty non c’entra nulla. Egli non può intendere ciò che dice di intendere perché sa che «Eccoti la gloria!» non può essere interpretato da Alice come se significasse «Eccoti un bell’argomento decisivo!». Sappiamo che sa questo perché Alice dice «Non so che cosa intendiate per ‘gloria’» e Humpty Dumpty ribatte: «È naturale che tu non lo sappia... finché non te lo dico io». Sono Mrs Malaprop e Donnellan che mi interessano; Mrs Malaprop perché la fa franca senza nemmeno tentare o sapere e Donnellan perché la fa franca di proposito.

Con «farla franca» intendo questo: l’interprete arriva al momento del proferimento fornito di una teoria che gli dice (o così egli crede) che cosa un qualsivoglia enunciato del parlante significhi. A questo punto il parlante dice qualcosa con l’intenzione che venga interpretato in un certo modo e aspettandosi che così venga interpretato. In realtà questo modo non è previsto dalla teoria dell’interprete. Ma il parlante viene, nondimeno, compreso; l’interprete aggiusta la sua teoria in modo che essa gli permetta di interpretare il parlante come questi intendeva essere interpretato. Il parlante «l’ha fatta franca». Il parlante può sapere (Donnellan) o non sapere (Mrs Malaprop) che l’ha fatta franca; l’interprete può sapere come non sapere che il parlante intendeva farla franca. Ciò che è comune nei due casi è che il parlante si aspetta di essere ed è interpretato come intendeva esserlo, sebbene l’interprete non disponesse previamente di una teoria corretta.

Non occorrono aneddoti bizzarri o paesi delle meraviglie per illustrare questo fatto. Noi tutti la facciamo franca di continuo; comprendere il discorso degli altri dipende da ciò. Consideriamo i nomi propri. In gruppi piccoli ed isolati ciascuno può conoscere i nomi che ogni altro conosce e così disporre, prima di ogni incontro linguistico, di una teoria che, senza bisogno di aggiustamenti, andrà bene per i nomi che devono essere impiegati. Ma anche questo paradiso semantico sarà distrutto da ogni nuovo nomignolo,

ospite o nascita. Se un tabù vieta un nome, la teoria del parlante è sbagliata finché egli non apprende questo fatto; allo stesso modo se un fuoriscalmo viene battezzato.

Non c’è, per quanto ne sappia, una teoria dei nomi che eviti questo problema. Se una descrizione definita fornisce il significato di un nome, un interprete deve ancora in qualche modo aggiungere alla sua teoria il fatto che il nome nuovo per lui deve essere fatto corrispondere alla descrizione appropriata. Se comprendere un nome significa dare un certo peso ad un numero adeguato di descrizioni vere dell’oggetto nominato, diventa allora ancor più chiaro che l’aggiunta di un nome al modo in cui si interpreta un parlante non dipende da alcuna regola chiaramente stabilita in anticipo. Le diverse teorie che riconoscono nei nomi un essenziale elemento dimostrativo forniscono almeno una regola parziale per l’aggiunta di nuovi nomi. Ma l’aggiunta resta un’aggiunta al metodo di interpretazione, ossia a ciò che possiamo rappresentarci come la concezione che l’interprete ha del linguaggio corrente del parlante. Trovare un elemento dimostrativo nei nomi o, in quanto a questo, nei nomi di massa o nelle parole di generi naturali, non riduce queste parole a puri dimostrativi; è per questo che una nuova parola in ciascuna di queste categorie richiede un cambio nella teoria dell’interprete e, di conseguenza, un cambio nella nostra descrizione della sua comprensione del parlante.

Con Mrs Malaprop e Donnellan il caso diventa generale. Non c’è parola o costruzione che non possa essere convertita ad un nuovo uso da un parlante ingenuo o ignorante. E questo tipo di conversione non è l’unico, anche se è più facile da spiegare in quanto comporta una mera sostituzione. Una pura invenzione è ugualmente possibile e possiamo essere in grado di interpretarla (ad esempio, in Joyce o in Lewis Carroll) allo stesso modo in cui interpretiamo gli errori o le distorsioni della sostituzione. Dal punto di vista di una spiegazione esauriente della maniera in cui vengono acquisiti nuovi concetti, imparare ad interpretare una parola che

esprime un concetto che ancora non abbiamo è un fenomeno di gran lunga più profondo ed interessante che spiegare l’abilità nell’usare una parola nuova per un concetto vecchio. In entrambi i casi, comunque, si richiede un cambiamento nel modo in cui si interpreta il discorso di un altro o in cui si parla a qualcuno che sa usare la parola.

Il contrasto tra acquisire un nuovo concetto o significato assieme ad una nuova parola e semplicemente acquisire una nuova parola per un vecchio concetto sarebbe essenziale se dovessimo affrontare il problema infinitamente difficile di come si impara la prima lingua. In confronto, il mio problema è semplice. Voglio sapere come le persone che già padroneggiano un linguaggio (qualunque cosa ciò esattamente significhi) riescono ad applicare la loro capacità o conoscenza ai casi effettivi di interpretazione. Tutto ciò che presuppongo che un interprete sappia o possa fare dipende dal suo possedere un insieme sviluppato di concetti e dal suo aver dimestichezza con la comunicazione linguistica. Il mio problema è di descrivere ciò che è implicato nell’idea di «avere un linguaggio» o di aver dimestichezza con la comunicazione linguistica.

Ecco un abbozzo altamente semplificato ed idealizzato di ciò che accade. Un interprete possiede, in ogni momento dello scambio linguistico, ciò che insisto a chiamare una teoria. (La chiamo teoria, come osservato in precedenza, solo perché la descrizione della competenza dell’interprete richiede un resoconto ricorsivo). Assumo che la teoria dell’interprete sia stata regolata sull’evidenza di cui ha potuto disporre fino ad allora: conoscenza del carattere, abbigliamento, ruolo, sesso del parlante e di qualunque altra cosa possa aver acquisito osservando il comportamento, linguistico e non, del parlante. Allorché il parlante dice qualcosa, l’interprete modifica la sua teoria, introducendo ipotesi sui nuovi nomi, cambiando l’interpretazione dei predicati familiari e rivedendo le passate interpretazioni di particolari proferimenti di enunciati alla luce della nuova evidenza.

Parte di ciò che accade può essere descritto come un miglioramento del metodo interpretativo sulla base di un’evidenza più ampia. Molto, però, non rientra in questa descrizione. Quando Donnellan conclude la sua replica a MacKay dicendo «Eccoti la gloria!», non solo lui, ma anche le sue parole, sono correttamente interpretate come significanti «Eccoti un bell’argomento decisivo!». È così che egli vuole che interpretiamo le sue parole; e lo sappiamo dal momento che abbiamo, e egli sa che abbiamo, e sappiamo che egli sa che abbiamo (ecc.), lo sfondo necessario per interpretarlo. Ma fino ad un certo momento (prima che MacKay entrasse in scena), questa interpretazione, da parte di Donnellan, di un precedente proferimento delle stesse parole sarebbe stata errata. Detto altrimenti: la teoria che effettivamente usiamo per interpretare un proferimento è connessa alla situazione. Possiamo in seguito concludere che in quell’occasione avremmo potuto far meglio, ma questo non significa (necessariamente) che ora disponiamo di una teoria migliore per le situazioni future. La ragione di ciò è, come abbiamo visto, del tutto ovvia: un parlante può fornirci l’informazione rilevante per l’interpretazione di un enunciato mentre lo sta proferendo.

Consideriamo questo processo dal lato del parlante. Il parlante vuole essere compreso, per cui proferisce parole che crede che possano essere e saranno interpretate in un certo modo. Per valutare come sarà interpretato, si forma, o usa, un’immagine della prontezza dell’interprete ad interpretare secondo certe linee. Essenziale in questa immagine è quale sia, secondo la credenza del parlante, la teoria interpretativa di partenza che l’interprete ha per lui. Il parlante non parla necessariamente in modo tale da spingere l’interprete ad applicare questa teoria anteriore; egli può deliberatamente indurre l’interprete a modificare la sua teoria anteriore. Ma la concezione che il parlante ha della teoria anteriore dell’inter-prete non è irrilevante per ciò che dice e neppure per ciò

che con le sue parole significa; è una parte importante di ciò su cui deve basarsi se vuole essere compreso.

Ho distinto ciò che ho chiamato la teoria anteriore (prior theory) da ciò che, d’ora in avanti, chiamerò la teoria transitoria o occasionale (passing theory). Per l’ascoltatore, la teoria anteriore esprime il modo in cui egli è preparato in anticipo a interpretare un proferimento del parlante, mentre la teoria transitoria è come egli di fatto interpreta quel proferimento. Per il parlante, la teoria anteriore è quella che egli crede essere la teoria anteriore dell’interprete, mentre la sua teoria transitoria è la teoria che egli intende che l’interprete usi.

Mi trovo ora nella posizione di formulare un problema che sorge se accettiamo la distinzione tra teoria anteriore e occasionale e insieme il resoconto della competenza linguistica fornito dai principi 1-2. Secondo quel resoconto, ogni interprete (inclusi i parlanti, dato che i parlanti devono essere interpreti) arriva a uno scambio linguistico riuscito fornito di una «teoria» che costituisce la sua competenza linguistica di base e che egli condivide con quelli con cui comunica. Poiché ogni interlocutore possiede una tale teoria condivisa e sa che gli altri condividono la sua teoria, e sa che gli altri sanno che egli sa (ecc.), qualcuno potrebbe dire che la conoscenza o le abilità che costituiscono la teoria si possono chiamare convenzioni.

Ritengo che la distinzione tra teoria anteriore e transitoria scalzi, se presa seriamente, questo resoconto comunemente accettato della competenza linguistica e della comunicazione. Ecco perché. Ciò che deve essere condiviso affinché la comunicazione si realizzi è la teoria transitoria. Infatti la teoria transitoria è quella che l’interprete effettivamente usa per interpretare un proferimento ed è la teoria che il parlante intende che l’interprete usi. Solo se queste coincidono la comprensione è completa. (Naturalmente, ci sono gradi di successo nella comunicazione; molto può essere giusto anche se qualcosa è sbagliato. La

questione del grado è irrilevante per il mio argomento). È nella teoria transitoria che l’accordo è, imprevisti a parte,

più grande. Mentre il parlante e l’interprete parlano, le loro teorie anteriori diventano più simili e così pure le loro teorie transitorie. L’asintoto di accordo e comprensione è raggiunto quando le teorie transitorie coincidono. Ma la teoria transitoria non può, in generale, corrispondere alla competenza linguistica di un interprete. Non solo essa ha la sua lista mutevole di nomi propri e di vocaboli manipolati, ma include ogni uso riuscito - cioè correttamente interpretato - di ogni altra parola od espressione, non importa quanto fuori dell’ordinario. Ogni deviazione (consapevole o meno, da una parte o da entrambe) dall’uso ordinario si trova, purché al momento si concordi su di essa, nella teoria transitoria e costituisce una caratteristica di ciò che le parole significano in quella circostanza. Tali significati, per quanto fugaci possano essere, sono letterali; sono ciò che ho chiamato significati primi. Una teoria transitoria non è la teoria di ciò che tutti (eccetto forse un filosofo) chiamerebbero un linguaggio naturale effettivo. La «padronanza» di un tale linguaggio sarebbe inutile, poiché conoscere una teoria transitoria significa solamente sapere come interpretare un particolare proferimento in una determinata circostanza. Non potremmo neanche dire che un tale linguaggio, se così vogliamo chiamarlo, sia stato appreso o sia governato da convenzioni. Naturalmente, alcune cose apprese in precedenza sono state essenziali al fine di pervenire alla teoria transitoria, ma ciò che era stato appreso non poteva essere la teoria transitoria.

Ma perché dovremmo chiamare teoria una teoria transitoria? Infatti il tipo di teoria che abbiamo in mente è adatta ad essere, nella sua struttura formale, la teoria di un intero linguaggio, anche se possiamo attenderci che il suo campo di applicazione sia tanto piccolo da essere evanescente. La risposta è che quando una parola o un’espressione assume temporaneamente o localmente il ruolo di qualche altra parola o espressione (come trattato in una teoria anteriore,

forse), l’intero peso di quel ruolo, con tutte le sue implicazioni di relazioni logiche con le altre parole, espressioni ed enunciati, deve essere assunto dalla teoria transitoria. Chi afferra il fatto che Mrs Malaprop intende «epiteto» quando dice «epitaffio» deve dare a «epitaffio» tutta la potenza che «epiteto» ha per molte altre persone. Solo una teoria ricorsiva completa può render giustizia a questa potenza. Queste osservazioni non dipendono dalla supposizione che Mrs Malaprop farà sempre questo «errore»; basta una volta per evocare una teoria transitoria che assegni un nuovo ruolo a «epitaffio».

La teoria anteriore dell’interprete ha una possibilità migliore di descrivere ciò che potremmo rappresentarci come un linguaggio naturale, in modo particolare la teoria anteriore con cui si affronta una prima conversazione. Meno sappiamo sul parlante, assumendo che si sappia che appartiene alla nostra comunità linguistica, tanto più la nostra teoria anteriore sarà semplicemente la teoria che ci attendiamo venga usata da chi ci sente parlare nei modi più semplici e comuni. Se chiediamo una tazza di caffè, indichiamo la destinazione ad un tassista o ordiniamo una cesta di limoni, sappiamo probabilmente così poco sull’interprete a cui ci rivolgiamo che il meglio che possiamo fare è assumere che egli interpreterà il nostro discorso secondo quelle che riteniamo siano le linee standard. Tutto questo è comunque relativo. Di fatto, abbiamo sempre l’interprete in mente; non esiste una cosa come il modo in cui ci aspettiamo, in astratto, di venir interpretati. Evitiamo di usare il nostro lessico più alto o lo favoriamo in relazione alle considerazioni più generali e non possiamo evitare di presagire quali tra i nomi propri che conosciamo siano adatti ad essere compresi correttamente.

In ogni caso, la mia idea è questa: per gran parte del tempo, le teorie anteriori non saranno condivise e non v’è ragione perché debbano esserlo. Non è certo una condizione per il successo della comunicazione che le teorie anteriori

siano condivise. Si consideri il malapropismo che deriva dall’ignoranza. La teoria, anteriore e transitoria, di Mrs Ma-laprop è che «Una graziosa confusione di epitaffi» significa una graziosa combinazione di epiteti. Un interprete che, diciamo, conosce l’italiano, ma non le abitudini verbali di Mrs Malaprop, possiede una teoria anteriore secondo cui «Una graziosa confusione di epitaffi» significa una graziosa confusione di epitaffi; ma la sua teoria transitoria concorda con quella di Mrs Malaprop se egli comprende le sue parole.

È del tutto evidente che, in generale, la teoria anteriore non è né condivisa dal parlante e dall’interprete né è ciò che chiameremmo normalmente un linguaggio. Infatti, la teoria anteriore ha in sé tutte le caratteristiche peculiari dell’idioletto del parlante che l’interprete è nella posizione di prendere in considerazione prima che l’enunciato sia proferito. Un modo di cogliere la differenza tra la teoria anteriore e la nostra idea abituale del linguaggio di una persona è di riflettere sul fatto che ci si deve attendere che un interprete abbia teorie anteriori del tutto diverse per differenti parlanti - non tanto diverse, di solito, quanto le sue teorie transitorie; ma queste sono questioni che dipendono da quanto bene l’interprete conosce il parlante.

Né la teoria anteriore né la teoria transitoria descrivono ciò che chiameremmo il linguaggio che una persona conosce e nessuna delle due teorie caratterizza la competenza linguistica di un parlante o di un interprete. Vi è forse una teoria che potrebbe far meglio?

Forse si dirà che ciò che è essenziale per la padronanza di un linguaggio non è la conoscenza di un particolare vocabolario e nemmeno di una grammatica dettagliata; tantomeno la conoscenza di ciò che un parlante riesce a fare quando rende le sue parole e i suoi enunciati significanti. Ciò che è essenziale è una struttura di base di categorie e regole, una comprensione del modo in cui è possibile costruire la grammatica italiana (o una qualche altra grammatica), più una lista schematica di parole interpretate da adattare alla

struttura di base. Se tutto questo è detto in modo vago, è solamente perché intendo considerare in un colpo solo un ampio numero di proposte reali o possibili; penso infatti che nessuna riesca a risolvere il nostro problema. E non ci riesce per le stesse ragioni per cui falliscono le teorie anteriori, pur essendo più complete e specifiche: nessuna è in grado di descrivere una abilità che sia condivisa dal parlante e dal-l’interprete e che sia adeguata all’interpretazione.

In primo luogo, una qualsiasi struttura generale, sia essa concepita come una grammatica per l’italiano oppure come una regola per accettare grammatiche o come una grammatica di base più le regole per modificarla o estenderla, sarà di per sé insufficiente, in virtù delle caratteristiche che la rendono generale, per l’interpretazione di particolari proferimenti. La struttura generale o la teoria, quale essa sia, può essere un ingrediente chiave in ciò che è necessario per l’interpretazione, ma non può essere tutto ciò di cui si ha bisogno, poiché non fornisce l’interpretazione di particolari parole o enunciati in quanto proferiti da un particolare parlante. Da questo punto di vista, è simile a una teoria anteriore, solo che è peggiore perché meno completa.

In secondo luogo, ci si deve aspettare che la teoria strutturale sia differente per differenti parlanti. Più è generale ed astratta, più differenza ci può essere senza che vi siano effetti sulla comunicazione. La possibilità teorica di una tale divergenza è ovvia; ma una volta che si cerca di immaginare una struttura abbastanza ricca da servire allo scopo, è chiaro che tali differenze devono anche essere reali. È impossibile, naturalmente, fornire esempi fino a che non si sia deciso che cosa includere nella struttura: una struttura sufficientemente esplicita potrebbe essere screditata da un singolo malapropismo. C’è anche un’altra prova, di un genere più impressionante, del fatto che le grammatiche interne sono diverse in coloro che parlano «lo stesso linguaggio». James McCawley riferisce che il recente lavoro di Haber mostra

che vi è una variazione sensibile in parlanti diversi riguardo alle regole per la formazione del plurale; una tale variazione si manifesta, ad esempio, nel modo di trattare nuove parole presentate dal ricercatore ai suoi soggetti nel contesto di una prova che li costringa ad usare il plurale della parola... Haber suggerisce che i suoi soggetti non dispongono tanto di una procedura di formazione del plurale applicabile in modo uni-forme, quanto piuttosto di un sistema «nocciolo» che copre un ampio ambito di casi, ma non necessariamente ogni cosa; hanno poi delle strategie... per trattare quei casi che non sono coperti dal sistema «nocciolo». I dati di Haber suggeriscono che parlanti di quelli che sono, fin nei minimi dettagli, «lo stesso dialetto» hanno spesso acquisito grammatiche che differiscono di gran lunga di più di quanto non facciano i loro discorsi.11

Ho cercato di porre in dubbio la presunta chiarezza dell’idea di «parlare lo stesso dialetto», ma qui possiamo presupporre che essa implichi perlomeno la frequente condivisione di teorie transitorie.

Introdurre grammatiche, teorie o strutture più generali delle teorie anteriori e anteriori ad esse non fa che ribadire il problema che ho originariamente presentato in termini di contrasto tra teorie anteriori e transitorie. Posto in maniera più generale, il problema è il seguente: ciò che l’interprete e il parlante condividono, nella misura in cui la comunicazione riesce, non è appreso e, pertanto, non è un linguaggio governato da regole o convenzioni conosciute in anticipo dal parlante e dall’interprete; ma ciò che il parlante e l’interprete conoscono in anticipo non è (necessariamente) condiviso e, pertanto, non è un linguaggio governato da regole condivise o da convenzioni. Ciò che è condiviso è, come prima, la teoria transitoria; ciò che è dato anticipatamente è

11 J. McCAWLEY, «Some Ideas Not to Live by», Die Neuen Spracben, 75(1976), p. 157. Questi risultati sono contestati da coloro che credono che le regole profonde rilevanti e le strutture siano prefissate. Quel che per me conta non dipende, ovviamente, dall’ esempio né dal grado in cui le deviazioni sono empiricamente possibili.

la teoria anteriore o qualunque cosa su cui essa possa a sua volta essere basata.

Ciò che ho finora tralasciato nel mio resoconto è quella che Haber chiama una «strategia»; questa è una parola graziosa per il processo misterioso mediante cui un parlante o un ascoltatore usa ciò che conosce in anticipo più i dati del momento per produrre una teoria transitoria. Ciò di cui due persone hanno bisogno, se devono comprendersi mediante il discorso, è l’abilità nel convergere su teorie transitorie da un proferimento all’altro. I loro punti di partenza, per quanto indietro vogliamo collocarli, saranno di solito molto differenti - tanto differenti quanto lo sono i modi in cui hanno acquisito le loro abilità linguistiche. In maniera simile differiranno anche le strategie e gli stratagemmi che determinano la convergenza.

Possiamo forse dare un contenuto all’idea di due persone «che hanno lo stesso linguaggio» dicendo che esse tendono a convergere su teorie transitorie, per cui il grado o la relativa frequenza della convergenza sarebbe una misura della simi-larità del linguaggio. Quale uso possiamo, comunque, trovare per il concetto di linguaggio? Potremmo sostenere che ogni teoria sulla quale un parlante ed un interprete convergono è un linguaggio; ma allora ci sarebbe un nuovo linguaggio per ogni svolta inattesa nella conversazione e i linguaggi non potrebbero essere appresi e nessuno desidererebbe padroneggiare la maggior parte di essi.

Abbiamo solo attribuito un qualche senso all’idea di due persone «che hanno lo stesso linguaggio», anche se non saremmo in grado di spiegare ciò che un linguaggio è. È facile vedere che l’idea di «conoscere» un linguaggio andrà incontro ai medesimi problemi così come il progetto di caratterizzare le abilità o capacità che una persona deve avere se padroneggia un linguaggio. Ma potremmo cercare di dire in che cosa consista l’abilità di una persona ad interpretare o a parlare ad un’altra persona: è l’abilità che le consente di costruire una teoria transitoria corretta (vale a dire conver-

gente) per gli scambi linguistici con quella persona. Ancora una volta, il concetto permette gradi di applicazione.

Questa caratterizzazione dell’abilità linguistica è così stret-tamente circolare che non può essere sbagliata: essa equivale a dire che l’abilità a comunicare mediante il discorso consiste nell’abilità a farsi comprendere e a comprendere. È solo quando guardiamo alla struttura di questa abilità che ci accorgiamo quanto ci siamo allontanati dalle idee standard sulla padronanza linguistica. Non abbiamo, infatti, scoperto nessun nocciolo comune del comportamento coerente che sia apprendibile né una grammatica condivisa né regole né alcuna macchina interpretante portatile predisposta per produrre il significato di un qualsiasi enunciato. Possiamo dire che l’abilità linguistica è l’abilità a convergere su una teoria transitoria di quando in quando - questo è ciò che ho suggerito e non ho una proposta migliore. Ma se diciamo questo, dobbiamo renderci conto che abbiamo abbandonato non solo la nozione abituale di linguaggio, ma abbiamo anche cancellato la linea di demarcazione tra conoscere un linguaggio e conoscere come orientarsi globalmente nel mondo. Non ci sono infatti regole per arrivare alle teorie transitorie; non ve ne sono in alcun senso del termine che sia tanto stretto da opporle a massime approssimative e a generalità metodologiche. Una teoria transitoria è realmente simile a una teoria almeno in questo, che deriva, sulla base di intuito, fortuna e accortezza, da un vocabolario e da una grammatica privati, dalla conoscenza dei modi mediante cui le persone si fanno capire e dalle regole pratiche per calcolare quali deviazioni dal dizionario siano più probabili. Non c’è più possibilità di regolarizzare o di insegnare questo processo di quanta ve ne sia di regolarizzare o insegnare il processo di creare nuove teorie che si adattino ai nuovi dati in un qualunque campo - giacché questo è ciò che un tale processo comporta.

Il problema con cui siamo alle prese dipende dall’assunzione che la comunicazione discorsiva richieda che il par-

lante e l’interprete abbiano imparato o, in qualche modo, acquisito un metodo comune o una teoria dell’interpretazione - così da essere in grado di operare sulla base di convenzioni condivise, di regole o di regolarità. Il problema è nato quando ci siamo resi conto che nessun metodo o teoria soddisfa questa pretesa. La soluzione del problema è chiara. Non vi è nulla nella comunicazione linguistica che corrisponda alla competenza linguistica così come è spesso descritta, ossia così come è riassunta dai principi 1-3. I principi 1 e 2 sopravvivono se intesi in modi piuttosto inusuali, ma il principio 3 non può resistere e non è chiaro che cosa possa prendere il suo posto. Concludo che non c’è una cosa quale il linguaggio, se un linguaggio è qualcosa di simile a ciò che molti filosofi e linguisti hanno supposto. Non c’è pertanto nulla del genere che occorra imparare, padroneggiare o con cui si debba nascere. Dobbiamo abbandonare l’idea di una struttura condivisa chiaramente definita che gli utenti del linguaggio acquisiscono e applicano in seguito ai casi particolari. E dovremmo cercare nuovamente di dire in che modo la convenzione sia implicata nel linguaggio in un qualche senso rilevante; o, come penso, dovremmo abbandonare il tentativo di appellarci alle convenzioni per illuminare il modo in cui comunichiamo.