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DIVISIONE TECNICA DEL LAVORO E SISTEMA DI FABBRICA
Con la rivoluzione industriale e l'affermarsi di un sistema economico capitalistico si trasformano radicalmente le
modalità di svolgimento del processo produttivo: si passa dalla divisione professionale del lavoro, tipica del sistema
mercantile semplice (nel quale l'artigiano realizzava l'intero prodotto) alla divisione tecnica del lavoro in base alla quale
ogni operaio produceva soltanto una parte del prodotto stesso che poi, assemblata a quella costruita da altri operai,
costituiva l'intero prodotto finale.
La divisione tecnica del lavoro (che con il passare del tempo fu spinta al massimo e venne definita parcellizzazione)
portava evidentemente dei vantaggi e precisamente:
1) maggiore abilità del lavoratore che, svolgendo sempre la stessa semplice attività, diventava più esperto;
2) minore perdita di tempo da parte del lavoratore;
3) possibilità di sostituire il lavoratore con una macchina;
4) maggiore possibilità per l'imprenditore di controllare la produttività del lavoratore.
Non va però taciuto un problema che la divisione tecnica del lavoro può determinare l'alienazione del lavoratore, il
quale svolgendo un'attività meccanica e ripetitiva, nel tempo perde attenzione e dunque riduce la sua produttività.
Allo scopo di limitare il calo di rendimento, dovuto alla ripetitività dell'attività svolta, l'imprenditore può decidere di far
ruotare il lavoratore stesso, dopo un certo periodo di tempo, in modo tale da sollecitarne l'attenzione, senza rinunciare
alla sua esperienza.
Nel grafico della produttività, di seguito rappresentato, si configurano gli effetti dell'alienazione sull'attività del
lavoratore che svolge per un lungo tempo un lavoro di routine: dopo un primo periodo nel quale, la produttività del
lavoratore aumenta grazie alla progressiva specializzazione, attestandosi, quindi, su livelli alti, successivamente essa
decresce a causa dell'alienazione.
La divisione tecnica del lavoro viene realizzata con il sistema di fabbrica e con il metodo della catena di montaggio1,
grazie alla quale il prodotto realizzato da un operaio si sposta automaticamente verso la postazione di un secondo
operaio, il quale completerà per la sua parte il lavoro del collega precedente. Tale prodotto sarà poi smistato verso un
successivo operaio e così di seguito, fino all'ottenimento del prodotto finale.
1 La catena di montaggio è un processo di assemblaggio, utilizzato nelle moderne industrie sin dai primi anni del XX secolo, teso ad ottimizzare il
lavoro degli operai e a ridurre i tempi necessari per il montaggio di un manufatto complesso. Una catena di montaggio è generalmente costituita da un nastro, definito nastro trasportatore, che scorre portando con sé i diversi oggetti da assemblare per ottenere il prodotto finito; ogni operaio può così assemblare un unico pezzo, tramite movimenti ripetitivi e meccanici, permettendo un notevole risparmio dei tempi di produzione: da quando questo metodo entrò in funzione, negli stabilimenti della Ford, i tempi necessari a produrre una singola autovettura si ridussero da 12 ore ad un'ora sola. Negli impianti moderni, l'apporto umano è comunque limitato: la maggior parte delle catene di montaggio sono automatizzate ed i lavori maggiormente ripetitivi sono svolti da robot industriali.
Trascorso il tempo OT, il lavoratore
raggiungerà la massima produttività.
Col passare del tmpo, a causa
dell’alienazione, la produttività del
lavoratore stesso calerà.
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CURVA DELLA PRODUTTIVITÀ DEL LAVORATORE
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IL TAYLORISMO Frederick Taylor (Germantown, 20 marzo 1856 – Filadelfia, 21 marzo 1915) è stato un ingegnere e imprenditore
statunitense, iniziatore della ricerca sui metodi per il miglioramento dell'efficienza nella produzione.
Le sue proposte in materia di organizzazione aziendale e di tecniche produttive, definite taylorismo, prevedono una
ripartizione scientifica dei carichi di lavoro: ogni attività del ciclo produttivo viene parcellizzata e ridotta alle sue
componenti minime, ciascuna delle quali viene assegnata a un lavoratore. La successione continua di tali singole
attività, stabilita in base ad un ritmo di lavoro anch’esso scientificamente determinato, permette una produzione di
qualità ai minimi costi per l’azienda, in quanto consente al lavoratore di distribuire in modo più equilibrato le proprie
energie nel corso della giornata lavorativa.
Il taylorismo intendeva rinnovare un modo di gestire le grandi industrie ormai ritenuto obsoleto, tutto impostato
sull’accentramento di responsabilità da parte del padrone dell’azienda e su un arbitrario potere di fabbrica verso gli
operai delegato ai capireparto. Tale sistema, autoritario ma non razionale, secondo Taylor non permetteva all’impresa
di esprimere le sue massime capacità produttive. Con la comparsa di macchinari più efficienti, era possibile dividere le
diverse funzioni del processo produttivo, eliminare i movimenti superflui e, fissando un tempo di esecuzione imposto
dalla stessa macchina, ottimizzare al meglio le energie del lavoratore. Il taylorismo però non intendeva solo fissare i
criteri standardizzati del lavoro operaio, ma interveniva sullo stesso management; l’organizzazione meticolosa dei
gesti e del tempo di lavoro, infatti, presupponeva alla base un efficiente lavoro organizzativo che non poteva essere
concepito e controllato esclusivamente dal singolo imprenditore, ma da una burocrazia di fabbrica, strutturata in modo
gerarchico, che anch’essa si distribuiva equamente compiti e responsabilità, lasciando all’imprenditore esclusivamente
decisioni di controllo e indirizzo complessivo. Al di là dell’efficienza pratica di questo sistema, Taylor era convinto che
tale organizzazione avrebbe anche portato a una ricomposizione dei conflitti sul lavoro; da una parte perché il salario
veniva stabilito sui tempi oggettivi che ogni operaio era costretto a tenere, evitando fenomeni di pigrizia o di disparità
nella distribuzione dei carichi; in secondo luogo gratificando, attraverso un sistema articolato di premi di rendimento, la
capacità di mantenere il ritmo stabilito. Taylor era, infatti, convinto che fosse più importante l’efficienza produttiva
dell’intero gruppo piuttosto che le capacità eccellenti dei singoli, in grado di aumentare le quote di produzione. Tale
sistema dei premi, che avrebbe sollecitato il lavoratore ad accogliere e a soddisfare i criteri decisi dall’azienda, avrebbe
reso sempre meno necessaria la contrattazione sindacale, proprio per il carattere non arbitrario delle retribuzioni.
Al fenomeno del taylorismo viene
associato, e in alcuni casi addirittura
identificato, quello del fordismo, ovvero
l’organizzazione di fabbrica che, agli
inizi del XX secolo, venne concepita da
Henry Ford per le sue industrie
automobilistiche; in realtà il fordismo
applica il criterio della
standardizzazione unicamente al
lavoro operaio e, in particolare, alla
catena di montaggio. Non investiva
invece, com’era previsto dalle teorie di
Taylor, anche il settore del
management. Si può affermare che il
modello taylorista abbia caratterizzato
l’intera produzione industriale del secolo XX, investendo non solo il mondo occidentale – capitalista, ma anche
parzialmente le società socialiste, la cui economia era pure fondata sulle industrie pesanti e sui grandi complessi
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produttivi. Contrariamente però a quanto
concepito da Taylor, l’organizzazione capillare
del lavoro di fabbrica non ha portato a una
diminuzione della conflittualità operaia, che ha
caratterizzato la dialettica sociale di tutti i paesi
industrializzati nel XX secolo. Diverse
interpretazioni sono state date a proposito, quasi
tutte fondate sull’impossibilità di creare
motivazioni al lavoratore sulla base di semplici
incentivi economici, senza valutare la
gratificazione implicita del lavoro svolto e la
qualità umana delle relazioni nel luogo lavoro.
Un tentativo di modificare il modello taylorista,
pur mantenendone la rigida struttura
organizzativa, è stato proposto, nel corso degli
anni ’70 del XX secolo, dal presidente della
Toyota Ohno, che ha teorizzato una
pianificazione del lavoro di fabbrica nota in
occidente come “modello giapponese”. Con
l’avvento della tecnologia informatica e
l’introduzione di vasti processi di automazione
nelle industrie, tutte caratteristiche del nuovo
modello economico compreso nell’espressione
“globalizzazione”, si può affermare di essere
entrati in una fase detta post fordista o post-
taylorista. La parcellizzazione del lavoro, la
delocalizzazione produttiva, la flessibilità del
mercato del lavoro, la priorità del settore dei
servizi, hanno strutturalmente modificato gli stessi luoghi di lavoro e reso meno determinante il ruolo della grande
industria.