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© www.camminidifede.wordpress.com Pag.1 Dio accompagna il cammino di croce e di morte di Gesù Interventi di Egidio Barghiglioni, Maria Antonetta Teti, Maria Flavia Nannini

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Dio accompagna

il cammino

di croce e di morte

di Gesù

Interventi di Egidio Barghiglioni, Maria Antonetta

Teti, Maria Flavia Nannini

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La presenza del Padre nella coscienza di Gesù (Gn 22,1-18; Gv 1,19-39; Gv 3,1-21; Gv 17,1-26 ) di Egidio Barghiglioni Prima di dimostrare, Scrittura alla mano, la continua presenza di Dio Padre al fianco di Gesù, sembra necessario chiarire le caratteristiche e, direi quasi, l’identità del Padre, in modo che in seguito non ci siano dubbi sulle motivazioni e sul significato di tale presenza. Il fatto è che siamo da sempre accompagnati dalla figura di un Dio del quale ci sono state tramandate certe caratteristiche:

È Creatore, quindi responsabile della qualità delle cose che ha creato.

Onnipotente, quindi ha la possibilità di intervenire a suo piacimento e con un potere e potenza assoluti sulla gestione della sua creazione.

Onnisciente, vale a dire sa tutto e conosce tutto anche prima che avvenga qualsiasi fatto.

Perfettissimo, in pratica privo di qualsiasi impurità o macchia o possibilità d’errore, contrapponendosi così alle cose create che sono invece imperfette e passibili d’ogni errore.

Eterno, anche qui in contrapposizione con la finitudine del creato. Questo porta a non comprendere certi atteggiamenti di Dio. Perché dare all’uomo la libertà e soprattutto la responsabilità di scegliere tra male e bene, se poi è così difficile fare il bene e così piacevolmente facile fare il male ? Con tutta la sua onniscienza, non sapeva già prima che Adamo avrebbe disobbedito ? E doveva ridurre Caino al fratricidio senza intervenire ? E ancora oggi perché non interviene ad aiutarci invece di ammantarsi di un’ennesima qualità, quella proprio più odiosa di Giudice che ancora oggi è descritta in tante omelie domenicali ?

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Questa immagine di Dio, tra l’altro, ce lo rende terribilmente lontano e quasi assente, per poi presentarsi al momento del giudizio. Nel suo silenzio, percepirlo presente è solo questione di fede. Ma è poi proprio così ? O siamo noi che continuiamo a leggere le situazioni e ad interpretare la Bibbia, unica fonte per accedere ad una qualche conoscenza di Dio, con questi occhiali deformanti che certi teologi di corte ci hanno messo sul naso ? Tra i tanti brani biblici che possono guidarci alla scoperta della continua, amorosa presenza del Padre a fianco dell’umanità e quindi al fianco di Gesù nei momenti più duri e decisivi del suo progetto terreno, è Gn 22, meglio ricordato come il sacrificio (mancato) d’Isacco, che è per noi lo sfondo che dà significato a tutta la nostra indagine. Gn 22 è sfruttatissimo nelle omelie quando si vuole sottolineare l’obbedienza pronta e la disponibilità d’Abramo, anche a costo di presentare un Dio che ci mette alla prova in modo anche molto crudele. Certo, se leggiamo il testo così com’è scritto non abbiamo molta scelta: “Dio mise alla prova Abramo”. Come si può chiedere ad un padre che ha un unico figlio, per di più generato in tarda età, di metterlo a morte ? È vero che, in effetti, Dio non vuole la morte d’Isacco, ma solo provare l’obbedienza d’Abramo. A me sembra lo stesso disumano e invece Abramo non fa una piega; con la morte nel cuore agisce secondo un’usanza quasi normale in terra di Canaan, dove si trovava in quel momento. Le ricerche storiche ci dicono, infatti, che i genitori sacrificavano i propri figli per ingraziarsi gli dei, cosa che del resto facevano i fenici e non solo. Agamennone sacrifica la propria figlia Ifigenia per propiziare la spedizione contro Troia. Ma il Dio di cui va in cerca Abramo non è come tutti gli altri dei. Lui considera come preziosa la vita dell’uomo e non ammette sacrifici umani a suo favore, anzi a suo nome più tardi il profeta dirà: “Misericordia voglio e non sacrifici”. Interviene perciò a chiarire le idee ad Abramo e salva la vittima. In futuro la condanna d’Israele contro i sacrifici umani sarà più volte sottolineata dai profeti e più volte disattesa dal popolo. Vi sono riferimenti importanti: il monte Moria, dove Isacco doveva essere sacrificato, è identificato con l’altura su cui sorge Gerusalemme e Isacco prefigura Gesù il cui sacrificio, tanto per continuare la perversa tradizione

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descritta prima, è voluto dal Padre. Prefigurazione che non sembra indovinata poiché Isacco non è stato sacrificato, al contrario di Gesù e proprio aver evitato il suo sacrificio ha assicurato la discendenza, come da promessa divina, mentre invece il sacrificio di Gesù, consumato ci ha assicurato la salvezza. Concludendo, l’avventura d’Isacco sottolinea la presenza di un Dio che vigila a fianco dell’uomo e non gli permette di sacrificare un suo simile, soprattutto se il sacrificio sarebbe fatto proprio in nome suo. Un episodio molto significativo di questa presenza continua e misteriosa del Padre al fianco di Gesù è quello descritto dal Capitolo 1 del Vangelo di Giovanni, noto come il Battesimo di Gesù. L’evangelista mette in bocca al Battezzatore una serie di frasi importanti. Il Battista “vede” Gesù che “viene”, che “viene” dopo di lui e gli passa avanti. Questo “venire” di Gesù fa pensare alla sua provenienza dal Padre, cosa che è valorizzata dalle altre dichiarazioni di Giovanni che definisce Gesù come “agnello di Dio” che “toglie i peccati del mondo” . Giovanni specifica inoltre che la sua opera di Battista è tesa a far conoscere Gesù al popolo d’Israele e poi testimonia di aver veduto lo Spirito scendere su di Lui e rimanervi. In questa scena è visibile un insegnamento trinitario. Gesù “viene”, il Padre è colui che ha incaricato Giovanni e di cui Gesù è l’Agnello, lo Spirito scende e rimane. Tutti e tre i sinottici descrivono in modo meno teologico la scena del Battesimo di Gesù, che è quindi uno dei pochi episodi descritti in forma analoga da tutti e quattro i Vangeli. Il Vangelo di Giovanni riferisce ancora altri episodi in cui è Gesù stesso che descrive e testimonia come il Padre sia perennemente accanto a Lui e permanga tra i due una gran confidenza e una comunione spirituale. Fondamentale appare quanto Gesù dice a Nicodemo nel Capitolo 3 del Vangelo di Giovanni. Nicodemo era un capo tra i Giudei, della setta dei farisei, un uomo maturo, preparato, impegnato ma in ricerca, anche se un po’ pauroso e prudente. La sua è una domanda semplice e richiederebbe una semplice risposta, ma Gesù lo spiazza. Il problema non è Gesù, ma chi gli si pone di fronte che deve rinascere in modo spirituale e guardare con occhi nuovi, se vuole percepire la presenza del Regno di Dio. Nicodemo sembra non capire il discorso simbolico di Gesù e il Vangelo ci lascia nel

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dubbio, ma ci regala, dal versetto 16 al 21 la chiave universale della salvezza. Il Padre ama il mondo di un amore misericordioso e per salvarlo ha mandato il Figlio non per il giudizio ma per la salvezza. Non c’è condanna, ma autocondanna: chi non ama la luce, non avrà la luce, chi non ama la verità non avrà verità, quindi chi non ama la vita non avrà la vita. E in questo agire per la salvezza il Figlio e il Padre operano insieme, il Padre è come l’ombra del Figlio che opera sulla terra. Altrettanto importante è la preghiera di Gesù, che Giovanni riporta al Capitolo 17. In questa preghiera appare, in tutta la sua luce, l’unità d’intenti che uniscono il Figlio al Padre, che si glorificano a vicenda, in altre parole l’uno manifesta l’altro e viceversa. Il potere che ha il Figlio viene dal Padre ed è finalizzato alla vita eterna per l’uomo. Quindi un programma d’amore. Non solo il Padre è a fianco del Figlio, ma anche a fianco di coloro che lo seguono, perché se sono amici del Figlio, lo sono anche del Padre e adesso, che il Figlio vede vicina la sua partenza dal mondo glieli raccomanda perché abbiano la stessa gioia per questa comunione col Padre, come l’ha il Figlio. Come il Padre ha sollecitudine verso il Figlio, così il Figlio la manifesta verso coloro che lo seguono, che siano uniti in quest’amore, perché il mondo creda. È meravigliosa e incoraggiante questa confidenza tra Figlio e Padre, in un circolo d’amore in cui anche l’uomo è coinvolto, se si coinvolge con la parola di verità che il Figlio, in nome del Padre, ha portato nel mondo.

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il Padre presente nell’ora dell’angoscia (Mt.26,36-46; Lc.22, 39-46; Mc.14,32-42) Maria Antonietta Teti Stiamo riflettendo sulla presenza del Padre nella vita di Gesù, non in uno dei tanti momenti della sua vita in cui questa presenza appare, ma nel momento doloroso dell’angoscia, della paura, del dubbio, della tentazione, ma anche della decisione, della scelta. Seguiamo principalmente la versione di Luca per quanto questo sia il più scarno dei tre racconti Gesù è nel Getsmani (Mt.26,36; Mc14,32) o, secondo Luca sul monte degli Ulivi, dove, dopo aver condiviso la cena pasquale con i suoi, si ritira a pregare. E’ consapevole che ormai è arrivato il momento cruciale in cui deve prendere una decisione: o rinnegare tutto quello che ha detto e fatto e ritirarsi, o continuare nel suo progetto di fedeltà al Padre, alla causa del Regno, che gli procura odio e nemici ed andare inesorabilmente incontro alla morte. E’ il momento della solitudine, è il crollo di ogni attesa umana, Gesù è preda di una forte sofferenza interiore. E’ solo, i discepoli che aveva portato con se si sono addormentati, incapaci di reggere alla drammaticità della situazione, è abbandonato da tutti e prega, prega con fermezza ma con umiltà, in ginocchio (Lc.22,41) solo nella preghiera trova la forza di Dio, la forza necessaria per vincere la tentazione di tirarsi indietro davanti ad un evento difficilissimo. Ai discepoli, infatti, dice: “Pregate per non entrare in tentazione” (Lc.22,46); quest’esortazione rivolta ai discepoli vuole far sì che siano capaci, quando lui non ci sarà più di continuare la sua missione, sapendo che avrebbero trovato forti difficoltà. Come si rende presente il Padre?

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Gesù prima di abbandonarsi alla volontà del Padre, gli chiede: “Allontana da me questo calice!” cioè che gli sia concesso di soffrire di meno, ma è anche la richiesta che in Lui si chiarisca qualsiasi dubbio, che possa compiere la scelta giusta, questa pressione interiore gli procura angoscia e sudore di sangue. (Lc.22,44) Gesù, nei racconti di Matteo e Marco, va più volte a cercare i suoi compagni, forsevorrebbe parlare con loro, consigliarsi, oppure vorrebbe soltanto un conforto una consolazione, ma loro dormono, non dagli uomini può venirgli conforto. Luca, unico tra i sinottici, presenta la figura di un angelo, quindi Dio stesso, che gli da conforto ma anche Giovanni presenta la voce del Padre che dice: “L’ho glorificato e lo glorificherò” (Gv.12,27-30). Sembra, pertanto, che un colloquio Padre Figlio ci sia e sia costante: il figlio chiede ed il Padre risponde con l’Angelo, Gesù ritrova la capacità di ridiventare padrone di se stesso e quindi di prendere la sua decisione; il colloquio risolve il dibattito tra il tentativo di sottrarsi alla croce e la sua piena accettazione. “Poi rialzatosi dalla preghiera”, (Lc.22,45) sembra una prefigurazione della risurrezione, Gesù risorto dà il potere di risollevarsi anche ai discepoli.

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La morte di Gesù. (Mc.15, 33-39; Mt.27,45-54; Lc.23,44-47) “Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?” Maria Flavia Nannini Il sole che si oscura, Il velo del tempio che si squarcia, la solitudine e l’abbandono, il grido, l’emissione dello spirito…questa è la sintesi del dramma della passione di Gesù. Tutte le altre annotazioni (i due ladroni, l’aceto, le irrisioni, le vesti tirate a sorte, il riconoscimento del centurione….), pur densi di significati umani e teologici, aggiungono solo dei particolari allo scenario del dramma, che nella sua essenzialità proclama che tutto l’universo e Dio sono profondamente coinvolti nell’avvenimento; che non più il tempio ma l’Uomo è il luogo privilegiato della presenza del divino; che l’uomo-Gesù vive realmente la solitudine e l’abbandono nel momento della morte, come ogni essere umano; che Gesù rende a Dio e all’umanità intera il suo spirito (che è teologicamente lo Spirito di Dio che viene donato al mondo, ma anche la restituzione dolorosa a Dio dell’essenza della sua vita umana) con un forte grido. C’è concordanza nei Sinottici rispetto al grande grido, probabilmente storico e all’inizio forse tramandato semplicemente come espressione della sofferenza umana di Gesù, al momento del trapasso. E’ forse l’unico momento della Passione, insieme a quello dell’angoscia nell’orto del Getzemani, in cui si accenna ad emozioni di Gesù. Il racconto, pur drammatico ed incalzante, non mira mai a commuovere ma a far riflettere sul senso di ciò che viene narrato. In che modo, infatti, la prima comunità cristiana può comprendere il senso dello scandalo della croce, se non interrogando le Scritture? Così tutto il racconto della Passione è riletto alla luce dell’A.T. Le citazioni scritturistiche sono continue e servono a cercare di comprendere il piano di Dio all’interno di un evento incomprensibile, come lo scandalo di un Messia crocifisso. Così il grido inarticolato del Cristo viene autenticamente interpretato, alla luce dell’esperienza intima con il Risorto, con le parole del Ps.22 che, come

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è stato già detto in precedenza, non è solo una invocazione di angoscia, ma un atto di fede e di abbandono a Dio come unica risorsa, un canto di speranza e di fede nel Dio che vince la morte. Anche il versetto del Ps.32 che Luca mette in bocca a Gesù ha un analogo significato. Così molti altri particolari del racconto richiamano testi biblici (es. l’aceto, Ps.69,22; la spartizione delle vesti, Ps.22, 19; l’ora sesta, Amos 8, 9-10….) Il risultato di questa riflessione rispondeva quindi a quello che era l’interesse focale della prima comunità, cioè comprendere attraverso il percorso di Gesù, il modus operandi di Dio: in tutta la Bibbia il giusto sofferente (Is.53 ), il giusto tradito (Ps.41 ) passano attraverso il fallimento umano; ma il giusto che si appella alla giustizia di Dio, che a Lui si abbandona avrà da Dio il suo riscatto. Il piano di Dio passa anche attraverso l’esperienza del fallimento umano, perfino attraverso l’esperienza che appare come l’estrema sconfitta, cioè la morte. Se il comprendere questo era sicuramente prioritario per i primi cristiani, ci rendiamo conto ad ogni lettura della pregnanza di significati che il racconto della Passione contiene. Difatti in ogni epoca si sono accentuati differenti aspetti e sfumature: ci si è chiesto quale fosse il perché politico e storico della crocifissione di Gesù, quali i risvolti psicologici e la dimensione antropologica dell’evento. Ogni gesto, ogni parola di Gesù, letti alla luce delle scritture hanno un loro profondo significato teologico, che può essere compreso, approfondito, attualizzato secondo la sensibilità di ogni epoca e cultura; ciò non toglie che lo stesso gesto o parola sia ugualmente e contemporaneamente espressione della esperienza concreta dell’uomo Gesù, del suo cammino di sofferenza e di morte. Ad esempio, a conferma della pregnanza dei contenuti del testo, il fatto che i riferimenti biblici servano ad identificare in Gesù il Cristo, il Messia atteso, che salva il popolo con la logica del servo sofferente il quale, disprezzato ed umiliato da tutti, sarà colui che verrà pienamente riscattato da Dio e che riscatterà l’umanità intera (Is.53), non toglie verosimiglianza, e quindi spessore umano, al racconto: la prassi della crocifissione è storica, come anche l’usanza di spartirsi le vesti del condannato; l’accanimento contro chi è in balìa del potente e impossibilitato a difendersi è, purtroppo, un aspetto molto realistico e ricorrente della psicologia delle masse (“ Mi scherniscono…Un branco di cani mi circonda”...Ps.22). “Dio mio, Dio Mio, perché mi hai abbandonato?” Insieme al significato teologico prima accennato, il grido esprime anche il vissuto dell’uomo

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Gesù (ma anche del giusto perseguitato del Salmo 22), che, entrato nel tunnel della sofferenza e della morte, pur nella fede profonda in un Dio intimamente unito a sé (Dio mio) sperimenta anche il senso di estrema solitudine ed abbandono esistenziale (il silenzio di Dio). Se vogliamo leggere il grido di Gesù con il vocabolario dei sentimenti umani, dovremmo definirlo come un appello doloroso al Padre, ma anche come un grido di speranza, di affidamento estremo, l’ultimo amen, con il quale l’uomo decide di “abbandonarsi” a Dio, anche, e soprattutto, nel momento in cui si sente “abbandonato”. Qui mi si affaccia una associazione con un altro momento di solitudine esistenziale dell’essere umano, il primo, quello della nascita. Mi sembra suggestivo ed anche significativo assimilare l’alto grido di Gesù al grido forte, vitale, del bambino che nasce, quando passa dal respirare il liquido amniotico all’aria, da un ambiente racchiuso in una sfera sempre più ristretta ad un altro, completamente diverso; il grido è insieme di angoscia per la vita che sta perdendo e di conquista vittoriosa di una dimensione nuova. Il bambino forse intuisce che accanto al suo faticoso percorso c’è una madre, del cui cuore ha sperientato il battito, che lo sospinge verso la vita, che lo accompagna, ma ciò non può eliminare l’esperienza di dolore e di abbandono che vive nel suo tunnel, né la madre, pur consapevole della sofferenza del figlio, può togliergliela. Se sto con questa associazione, il Dio che soffre è il Messia crocifisso ma anche il Padre che soffre con lui, che accompagna tacitamente il Figlio, nel suo tunnel di dolore, consapevole che non può evitarglielo, perché è il passaggio obbligato perché egli divenga, nel suo ultimo amen, ciò che deve divenire, il Risorto.

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La presenza del Padre nella coscienza di Gesù 2

il Padre presente nell’ora dell’angoscia 6

La morte di Gesù. 8