diceria dell'untore - gesualdo bufalino

146
Letteratura italiana Einaudi Diceria dell’untore di Gesualdo Bufalino

Upload: freefont

Post on 28-Oct-2015

1.049 views

Category:

Documents


98 download

TRANSCRIPT

Page 1: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Letteratura italiana Einaudi

Diceria dell’untore

di Gesualdo Bufalino

Page 2: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Edizione di riferimento:Sellerio, Palermo 1981

Letteratura italiana Einaudi

Page 3: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Letteratura italiana Einaudi

I 3II 7III 14IV 21V 26VI 34VII 41VIII 49IX 57X 68XI 78XII 88XIII 97XIV 108XV 118XVI 126XVII 135

Sommario

Page 4: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

1Letteratura italiana Einaudi

DICERIA: Discorso per lo piú non breve, detto di vivavoce; poi anche scritto e stampato...

Di qualsiasi lungo dire, sia con troppo artifizio, siacon troppo poca arte...

Il troppo discorrere intorno a persona o cosa...TOMMASEO-BELLINI

UNTORE: Dispensatore et fabbricatore delli onti pesti-feri, sparsi per questa Città, ad estinzione del popolo...

(Carte del processo, 1630)

Page 5: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

a chi lo sa

2Letteratura italiana Einaudi

Page 6: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

I

O quando tutte le notti – per pigrizia, per avarizia –ritornavo a sognare lo stesso sogno: una strada color ce-nere, piatta, che scorre con andamento di fiume fra duemuri piú alti della statura di un uomo; poi si rompe,strapiomba sul vuoto. Qui sporgendomi da una balco-nata di tufo, non trapela rumore o barlume, ma mi sor-prende un ribrezzo di pozzo, e con esso l’estasi che soloun irrisorio pedaggio rimanga a separarmi... da che?Non mi stancavo di domandarmelo, senza però che ba-stasse l’impazienza a svegliarmi; bensí in uno stato disdoppiata vitalità, sempre piú rattratto entro le maternemucose delle lenzuola, e non per questo meno slegatoed elastico, cominciavo a calarmi di grotta in grotta,avendo per appiglio nient’altro che viluppi di malerba eschegge, fino al fondo dell’imbuto, dove, fra macerie dilatomia, confusamente crescevano alberi (degli alberinon riuscivo a sognare che i nomi, ho imparato solo piútardi a incorporare nei nomi le forme).

Ai piedi della scarpata, di fronte al viottolo che nepartiva, e pareva col suo rigo chiaro rassicurarmi cosídel repentaglio che m’ero lasciato alle spalle comedell’orridezza nuova dell’aria, esitavo un momento, inattesa che mi si calmasse nella gola il batticuore dell’av-ventura, e gli occhi prendessero confidenza con le visio-ni del sottobosco e la loro bambinesca mobilità. Cadutoil vento, la cui mano m’aveva a piú riprese, come la ma-no di un complice, trattenuto o sospinto nella discesa, ilsilenzio era pieno; i miei passi, quelli di un’ombra. Nonrestava che procedere un poco, ed ecco, al posto di sem-pre, purgatorialmente seduti a ridosso l’uno dell’altro,uomini vestiti d’impermeabili bianchi, e si scambiavanofrantumi di suono, una poltiglia di sillabe balbe rimasti-cate in eterno da mascelle senili. M’avvicinavo a loro

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

3Letteratura italiana Einaudi

Page 7: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

con un turbamento che l’abitudine non rendeva minore.Essi levavano mestamente la fronte, tutt’insieme accen-navano un divieto, mi gridavano con spente orbite: vat-tene via. Non mi riusciva di obbedire, ma in ginocchio, aqualche metro di distanza, torcendomi le dita dietro laschiena, aspettavo che uno si muovesse, il piú smunto, ilpiú vecchio, una serpaia di rughe fra due lembi di bave-ro, e semplicemente curvandosi a raccattare una pietra,rivelasse dietro di sé, sulla soglia di un sottosuolo finorainvisibile, botola di suggeritore o fenditura flegrea, ladissepolta e rapida nuca di lei, Euridice, Sesta Arduini,o come diavolo si chiamava.

«Férmati,» gridavo «madre mia, ragazza, colomba»,mentre sentivo il tozzo polpastrello del sonno che misuggellava le palpebre bruscamente detumefarsi, dissi-parsi in bolla di schiuma, in vischioso collirio di luce.Soltanto in quell’istante, riaprendo gli occhi, capivod’avere ancora una volta giocato a morire, d’avere anco-ra una volta dimenticato, o sbagliato apposta, la parolad’ordine che mi serviva.

Era veramente divenuto un gioco, alla Rocca, volere odisvolere morire, in quell’estate del quarantasei, nellacamera sette bis, dove ero giunto da molto lontano, conun lobo di polmone sconciato dalla fame e dal freddo,dopo essermi trascinata dietro, di stazione in stazione,con le dita aggranchite sul ferro della maniglia, una cas-setta militare, minuscola bara d’abete per i miei vent’an-ni dai garretti recisi. Non avevo altro bagaglio, né vi eradentro gran che: un pugno di ricordi secchi, e una rivol-tella scarica fra due libri, e le lettere di una donna cheormai divorava la calce, fra Bismantova e il Cusna, sottoun cespuglio di fiori che avevo sentito chiamare aquile-gie. A me meno frigide ghirlande erano promesse, appe-na la franchigia fosse scaduta e mi fossi stancato di rac-cogliere in difesa, come un quadrato di veterani, i

4Letteratura italiana Einaudi

Page 8: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

sentimenti superstiti che mi facevano vivo. Non manca-va molto oramai: già erano scomparse l’incredulità e lavergogna dei primi tempi, quando ogni fibra è persuasaancora d’essere immortale e si rifiuta di disimpararlo.Ma sopravviveva il rancore, anche se sotto la specie diuna loquace pietà di me stesso. Un re forestiero m’eravenuto ad abitare sotto le costole, un innominabile mi-notauro, a cui dovevo giorno per giorno in tributo unalibbra della mia vita. E inutilmente il cuore, il quale pos-siede non meno che la vista, un suo prezioso potered’accomodo, s’affannava a ripetermi ch’ero stato io asceglierlo, quel male, per pulire superbamente col miosangue il sangue che sporcava le cose, e guarire, immo-landomi in cambio di tutti, il disordine del mondo. Nonserviva. Non serve mai, solo al fine di consolarsene, no-bilitare un destino che ci è giocoforza patire. E quindi,benché della mia cristiana assunzione di colpa io mi van-tassi volentieri in versi su un quaderno di carta da mace-ro, non cessavo, in una piega della mente, di considerar-mi un ostaggio provvisorio in mano al sinedrio, spiavodi soppiatto le risorse di scampo che mi restavano, alza-vo le braccia solo per finta. Sarebbero presto venuti adarmi di lancia, sotto il patibolo, fantaccini sudati, per-ché dovevano. Ma era bello, nel frattempo, consentireall’evidenza del giorno, all’ingiunzione d’esistere che in-tonavano a gara ogni mattina i centomila galli della Con-ca d’Oro con quelle loro fanfare. Ogni differimento, delresto, serviva a rendere sempre piú cavillosa e teneral’intimità con la prossima fine, tanto da farla rassomi-gliare un poco a una scherma d’amore: gli stessi alletta-menti e ripulse e astuzie d’occhi e fiacchezze di fanciul-la, prima della decisiva capitolazione nel buio. Cosí nonc’era giorno o notte, alla Rocca, che la morte non m’ali-tasse accanto la sua versatile e ubiqua presenza; ch’ionon ne intravedessi, in una striscia di luce o in un muc-chietto di polvere, le imbellettate fattezze, ora d’angela

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

5Letteratura italiana Einaudi

Page 9: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

ora di sgherra. Lei era la meridiana che disegnava sulsoffitto delle mie insonnie le pantomime del desiderio;lei, la tagliuola che mi mordeva il calcagno; il mare di fo-glie che il sole tramuta in brulichío di marenghi; lei, labuca d’obice, l’in pace, le quattro mura di ventre dovenessuno mi cerca.

In una condizione cosí teatrale, in bilico fra vanaglo-ria e spavento, trascorsi una settimana dopo l’altra, sen-za imparare quasi né un luogo né una persona, non ve-dendo altro che una faccia, la stessa, davanti a me: comechi cammina in un corridoio, e ha dietro un lume, e infondo c’è uno specchio. Fossi riuscito a resistere cosí si-no alla fine, avessi evitato di colluttare, oltre che con lamia, con la dannazione e salvezza degli altri tutti: deldottore, del frate, della ragazza!

6Letteratura italiana Einaudi

Page 10: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

II

Mariano Grifeo Cardona di Canicarao: cosí, senzaeconomizzare una sillaba, usava firmarsi il dottore, pro-lungando il primo nel successivo cognome, non tantoforse per diritto di nascita, bensí fedele a quel pregiudi-zio mediterraneo (o quantomeno suo e mio), secondocui l’interiezione e la pletora aggiungono alle parole – eai climi, alle mimiche, ai cibi – non solo opulenza macredito, come in un abbigliamento magico, dove ma-schere e piume, piú ridondano, meglio si esaltano e sidanno forza a vicenda.

Nessuno di tanti titoli gli era poi utile a nulla, per unafurberia delle cose, essendo che, a memoria d’uomo, loavevano sempre chiamato il Gran Magro, né v’era por-tantino o suora o malato che, scorgendone le lunghissi-me gambe sopravvenire per la corsia, non sentisse il bi-sogno di propagare l’avvenimento con un bisbiglio, ilGran Magro, il Gran Magro, la cui musica sempre ugua-le doveva certo, in tanti anni, essere arrivata almeno unavolta sino alla conca pelosa del suo orecchio. Che poiun’impresa gentilizia – un nido d’api, col vocabolo Ube-rius al centro – pompeggiasse in cima al suo biglietto davisita, nessuno di noi smise mai di considerarlo un abu-so, a dispetto delle commendatizie che si affannava afornirgli la quercia dipinta, dalle radici come murene,appesa in alto dietro il suo scrittoio. Singolare pianta,davvero! Non protetta da vetro, ma da giustapposte la-stre d’archivio, preventivamente nettate con acqua tiepi-da dalle macule e magagne di qualche ignoto defunto; esi levava dal suolo con tale energia e abbondanza dichiome da far temere che presto sarebbe evasa dall’ef-fratta cornice per espandere liberamente i suoi cartiglinell’aria. Uno dei quali in effetti, ove l’avessimo presoper buono, testimoniava dall’estremità d’una fronda che

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

7Letteratura italiana Einaudi

Page 11: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

una goccia almeno di blu, spremuta da marchionaliispanici lombi, era scorsa fino a lui lungo i secoli, perdeporgli nelle vene un lampeggio d’antica grandigia,seppure ormai malinconica e torva, come s’addice a unuomo di libri.

Bene, il falso o vero nobiluomo Gran Magro era il so-lo fra i medici della Rocca, all’infuori di quell’altro a cuitoccava il turno di guardia, che restasse a dormire ogninotte con noi (dalla moglie s’era diviso anni prima: unasiracusana di spaventosa bellezza, sulla cui foto sputava,dicevano, tutte le mattine, prima di lavarsi). Spesso, do-po cena, quando fummo diventati amici, me lo vedevoapparire al capezzale, senza camice, in piedi, chiuse sulpomo del bastone due mani di perfida esiguità. Alzavogli occhi, ne investigavo da capo a fondo l’immagine,dalle spesse lenti verdacee ai borzacchini di capretto ne-ro che gli coprivano quasi gli stinchi. Un vero e propriodagherrotipo d’epoca: Herr Virchow fra colleghi e stu-denti nel giubileo della prima lezione; Monsieur Char-cot in posa, sulla soglia della Salpêtrière, con le fedinespettinate dal vento...

Mi chiedo tuttora cosa cercasse nella mia compagnia,se gli servisse solo un ascoltatore acquiescente per le sueempiaggini d’ogni sera, oppure obbedisse alla professio-nale curiosità di censire da vicino i progressi del maledentro di me, le crepe neonate, i capisaldi persi, ripresi,ripersi; e tutto questo non su una di quelle gocciolantipellicole che detestava, bensí attraverso piú sottili spio-naggi: una veemenza nella tosse che prima non c’era;una nota che la voce avesse improvvisamente fallito oriacciuffato a fatica sull’orlo; un’unghia spaccata, unaroseola sul labbro, un lampo di febbre nell’iride. A me-no che non venisse per bere, bere gli piaceva, gli dava laparlantina. E dunque io mi levavo dal letto, cavavodall’armadio di ferro una bottiglia di porto e la mia ca-raffa privata (lui, a scanso di contagi, il suo bicchiere da

8Letteratura italiana Einaudi

Page 12: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

tasca da una tasca della vestaglia, guardandomi di sbiecoe scusandosi della precauzione con una sfacciatagginedelle labbra). Uscivamo a bere sulla veranda, io anima,lui condottiero e arcidiavolo, fra sedie a sdraio nere dicorpi distesi e sussurranti, dinanzi alla pineta che nonstormiva, quasi, e nascondeva la lama di mare, laggiú.

Che giorni, che serate. Forse i soli giorni ricchi diun’esistenza che non ha avuto altre iperboli, dopo, e s’èfatta inaspettatamente interminabile. Mentre allora, afuria di contare e ricontare i miei spiccioli anni comescampoli di meccano o catturati pedoni disposti ai lati diuna scacchiera, m’ero abituato a vedere nel tempo a ve-nire nient’altro che l’imminentissimo explicit d’una par-tita già perduta dentro la mente; non poema di cavalieridove si celassero mirabilie e salvataggi sino alla penulti-ma pagina; ma sonetto veloce a cui mancava solo un ver-so, il sigillo di una rima che non era consentito cambia-re.

«È un matto da manuale» spiegavo al mio compagno,rassegnatamente. «Già annunziato; in tre mosse e consacrificio di Donna, sulla falsariga dell’Immortale di An-derssen, Torneo di Londra di or sono quasi cent’anni.Vorrei solo conoscere, prima di inchinarmi e cavarmi ilcappello, il nome del vincitore».

Mi divertiva provocarlo cosí, e che avrei potuto faredi meglio, considerando quanto fossero scarse le occa-sioni di spasso in quelle giornate inerti, e con quale faci-lità si poteva strappargli un’apostrofe delle sue, rivoltacon voce di fumatore al suo diletto sempiterno interlo-cutore e nemico, il fabbriciere del mondo, Dio Padre ochi si spaccia per Lui. Piaceva difatti al Gran Magro, an-ziano com’era e di lunatico tratto, svogliarsi un poco,nelle ore d’ozio, dall’adocchiare alle spalle le lavandaieavventizie prone sul pavimento, o dalla terrazza, col can-nocchiale da marina, i bastimenti che doppiavano Mon-te Pellegrino, per sfogarsi ad aggredire il busillis delle

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

9Letteratura italiana Einaudi

Page 13: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

cose come un cruciverba della domenica, secondo i mo-di di una collera ilare che non mancava d’attrattiva e acui non sapevo rifiutare il sorriso.

«Esiste,» gridava «esiste: non c’è colpa senza colpevo-le!». Oppure: «Che gaffeur, che cavadenti; che schiappadi un garzone di mago! Guarda!» e mi tirava la manica,mi mostrava con un gesto circolare l’universo. «Guardache merda!». «Passa via!» faceva infine, come se cel’avesse lí davanti, in forma d’idra o cerbero, l’Altissimo,e volesse salvarsene scoraggiandolo. Ma io, a sentirlo co-sí imprecare e dolersi, da inquilino bisbetico, e ricon-durre a ragioni di disservizio del personale ogni mio filo-sofico groppo e quello sconforto del cuore che non milasciava piú da quando ero giunto alla Rocca, non dicoche ne ricavassi medicina, ma distrazione certo, forseanche dal guasto fisico, dall’invisibile camola che mibrucava in silenzio, sotto la mammella destra, in un pun-to che ormai conoscevo a memoria.

«Hai letto» replicavo (era stato lui a pretendere chegli dessi del tu, benché piú di trent’anni ci dividessero)«la storia dello scacchista che non perde mai e sta nasco-sto in una macchina? Ecco, a volte mi pare che qualcu-no giochi con me alla stessa maniera, con occhi che scin-tillano dietro un morione di ferro». «Lo aduli»rispondeva, imbaldanzito dall’alcole. «Forse noi, dico laTerra, Cassiopea, Alpha Tauri, quella stella cadente, tut-ti gli altri corpi e astri che vedi e non vedi, tutti noi, zo-diaci e nature, siamo solo miliardi di calcoli nel rene diun corpacciuto animale, la sua colica senza fine, i quaglipetrosi del suo difficoltoso smisurato emuntorio; e gal-leggiamo cosí, nell’etere e piscio che gli s’impantana pertutti i meati e lo fa gloriosamente ululare di dolore nelsilenzio degli spazi eterni. È quella che chiamano l’ar-monia delle sfere. Ma in quanto a spostare un pezzo, lui,Dio Mannaro, non saprebbe che pesci pigliare. È solouna bestia che vuole sgravarsi di noi, e scalcia e si sco-

10Letteratura italiana Einaudi

Page 14: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

gliona senza criterio. Un rimedio gli bisogna, uno squas-so o un rutto, per mano di un altro, un Ur-Gott, un ar-chiatra piú antico e vasto lui, che ci riduca in tritume dipolvere, e lo liberi, finalmente. Ma la tua morte avvieneal di fuori di un tale disegno, seppure un disegno esisteche lo concerne...».

«Già pensato al liceo qualcosa di simile» mi piacevairritarlo, ormai che c’ero. «Una catena di eoni e padre-terni sempre piú grandi, l’uno dentro dell’altro, comescatole di Cina. Ma, giustappunto, l’universo come cine-seria è pensiero da liceali. Né Cristo...». Non mi lasciavafinire: «Chi, Barbetta di Capra? Ma è solo un alibi, unprestanome! Ci vuole un prete come te per cascarci. Sí,un prete». Ignorava le mie smorfie, le mie proteste. «Eun giocatore che cerca scuse. No, non è un duello, maun solitario che stai perdendo, e non c’è nessun elmo datogliere su nessun viso di guerriero o guerriera».

«Indarno chiedi – quel che ho per uso di non far pale-se» declamavo io allora, scimmiottando la sua mania ci-tatoria. «Cosí Clorinda a Tancredi, Monteverdi sonumdedit».

Ma lui non mi badava: «No, ragadi siamo, ragadi so-pra il grugnoculo di Dio, caccole di una talpa enormequanto tutto, carni crescenti, pustole, scrofole, maligne-rie che finiscono in oma, glaucomi, fibromi, blasto-mi...».

Scoppiava a ridere e con la mano chiazzata di iodioscuoteva la mazza contro la Via Lattea, come si minacciaun bambino; poi, quando piú non lo speravo, taceva.Accessi cosí, dov’era forse non meno ambascia chebuffoneria, gli duravano poco, veramente, e doveva ver-gognarsene, se, subito dopo, con un asciutto saluto hei-delberghiano (servus) mi lasciava solo, appoggiato allabalaustra, con il dorso rivolto al silenzio e alle innumere-voli orecchie della notte.

Lo guardavo mentre attraversava la veranda, scaval-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

11Letteratura italiana Einaudi

Page 15: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

cando con destrezza di saltimbanco piedi e braccia inabbandono, e sgabelli, sedielunghe, cuscini. Ripensavo auna stampa trovata da bambino in solaio, Napoleone fragli appestati di Giaffa, e gli gridavo dietro, sebbene piúnon potesse sentirmi, qualche ingiuria di caserma, cosí,per finire ridendo. Lui faceva in tempo a raccogliere,prima di scomparire nel suo laboratorio, fra matracci ebrodi di bacilli in cultura, l’invocazione di uno al pas-saggio, oppure un bollettino senza speranza: «Garibaldiè sbarcato, dottore». Che era, nel gergo del luogo, la piúfrequente, se non la piú sfogata, fra le metaforedell’emottisi (ne ho altre in rubrica: bandiera rossa, lasvinatura, il marchese; e ricordo qualcuna delle ulteriorimanipolazioni di parole che il vivere insieme ci suggeri-va: l’uomo delle caverne designava il radiologo Vasquez,esperto a descrivere con la matita i contorni delle mede-sime sui toraci stampigliati nella cartella clinica di cia-scuno, ai piedi del letto; la va a pochi era un vecchiomotto di burbe, traslato ora a significare meno liete ma-turanze di ferma).

Frattanto la Rocca s’andava spegnendo, un rettangolodopo l’altro; già erano buie le finestre del padiglionefemminile, dopo l’urlo cerimoniale di suor Benedetta,mentre noi, per pura disobbedienza, tornavamo ad ac-cendere ogni cinque minuti. Infine il sanatorio sprofon-dava nella tenebra come in una coltre di pace; vecchiatartana in disarmo sul dosso del monte, oscillava piano,in un sonno rotto da scoppi rauchi che da una corsiaall’altra, da una branda all’altra, si rispondevano frater-namente: latrati di cani amici nella paura della campa-gna; marcia funebre di paese per tube del giudizio in-gorgate da un escreato gigante.

Dormiva, la vecchia tartana, e pareva un’arca suun’altura, alla fine di un’inondazione; un’arca in secco,abbandonata dai vivi, con lo sterno corroso dal sale emalmenato dal vento, popolata solo di topi, come la ci-

12Letteratura italiana Einaudi

Page 16: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

neclubica nave di Nosferatu. Da un grammofono, chissàdove, un disco d’antiche villeggiature ripeteva paroleche per un secondo, non piú, riuscivano a stringermi ilcuore:

Les vieux billets, chérie, qui me rappellentles nuits à bord du Normandie si belles...

Altre notti per me, altro Normandie era il mio, coisuoi neri oblò come pupille cucite, con la sua merce ditopi di Giaffa, stivata nelle cantine, venuto ad arenarsisul poggio della Rocca.

Le parc au soir lorsque la cloche sonne,le vieux boudoir oú ne vient plus personne...

canticchiavo spogliandomi, prima di accoccolarminella mia muda di moribondo, a sognare una strada co-lor cenere, una latomia in rovina, dove fra erbe e pietreconfusamente crescevano alberi. Oh sí, furono giorni in-felici, i piú felici della mia vita.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

13Letteratura italiana Einaudi

Page 17: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

III

Ma chi potrà scordarsi dei compagni di prigionia, delfuoco che li spingeva, nelle prime ore dell’alba, in pigia-ma com’erano, a scendere in giardino per piangere final-mente da soli, con la guancia premuta contro la spallieradi una panchina; chi potrà levarsi dalla mente le lorofacce malrasate, mentre le coglie e disorienta l’indorarsifulmineo del mondo, al di là del muro di cinta?

Bastava talvolta, tra sonno e veglia, un fischio di trenoaddolcito dalla distanza, oppure il cigolío dei carri dizolfo in fila per la collina, e si balzava col cuore in tu-multo, seduti sul letto, a origliare le invidiate informa-zioni e leggende di quella stella infedele in cui s’era tra-sformata la terra. Che cosa racconta un treno, un carroche va, fra bivacchi e lune sull’aia, lungo profumid’aranci e paesi, in una notte d’estate? Niente, eppureso di occhi sbarrati nel buio, che non avevano altra va-canza se non di sorprendere, al séguito di quelle ruote,qualche guizzo di vita durante la via: un vecchio cheprende il fresco, due teste che si parlano sotto il lumedella cena...

Si tornava dall’immobile viaggio piú lieti, piú tristi,chi può dirlo, e tuttavia non delusi del nostro bottino dinuvole, l’unico che la sorte non aveva facoltà di vietarci.Allo stesso modo il pellegrino, a cui accade di sostaresotto un davanzale straniero, sospende il passo se mai gligiungano, in una pausa di canto, svogliatezze e amorosisussurri di donna; e se ne riparte racconsolato, stringen-dosi nel pugno quel bene, quel pane rubato, di cui ci-barsi piú tardi.

E questo era bello: andarsene cosí a spasso con passid’aria per montagne e pianure, clandestini senza bigliet-to, contrabbandieri di vita. Almeno finché la babiloniadella luce non fosse tornata a proclamare sui tetti, per

14Letteratura italiana Einaudi

Page 18: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

chi se ne stava dimenticando, che un altro giorno ciaspettava dietro l’angolo, con la sua razione infallibile didileggio e di pena. E sarebbe stato un giorno di meno,uno dei pochi rimasti.

La stessa cosa, piú grigiamente, dicevano i rumori delrisveglio, tutta una prammatica senza deroghe che, for-zando lo spessore del sonno, tornava a celebrarsi ogniventiquattr’ore accanto al nostro cuscino: era lo scorreresu e giú della spranga nell’anello della porta carraia; erala frenata del furgone del latte sulla ghiaia del viale; l’in-cespicare del carrello con le siringhe contro l’anticasporgenza dell’ammattonato, davanti all’infermeria... Eciascuno di questi avvisi, cosí aspettato com’era, sem-brava scandire i tempi di uno sfratto senz’appello e riba-dire lo stigma per colpa del quale eravamo in esilio. Unasetta di sbanditi eravamo, e incapaci di amarci fra noi, ocosí ci pareva, benché chi si è salvato abbia capito annidopo ch’era vero il contrario, e che era già amore la pas-sione con cui s’imparava la morte degli altri come se fos-se la propria. Dunque come dimenticarsene, dei compa-gni d’allora, se in ognuno mi riconosco e mi chiamo, se èmio ogni petto entro cui uno spettro di foglia solenne-mente si oscura? Mi basta rimormorarne i nomi in for-ma di filastrocca, da De Felice a Sciumè, e uno alla voltaritornano a fumare di frodo nella mia stanza, riaprono acaso per consultarlo, come un mazzo di arcani tarocchi,il Montale sul comodino. Luigi il Pensieroso conia,guardando in fondo a una sputacchiera di carta gli esitidella sua tosse, una freddura che mi commuove: «Rossodi sera, bel tempo si spera»; l’altro Luigi, l’Allegro, salesu una sedia a glorificare, con grandi manate nell’aria, lepanacee recenti d’America che ci salveranno in extre-mis: «Arrivano i nostri» ride, imitando con le labbra i ta-tatà della mitraglia, «e addio, poveri cocchi!».

Chiama cosí i bacilli di Koch, familiarmente, da mili-tare di carriera che s’affeziona ai nemici della trincea di-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

15Letteratura italiana Einaudi

Page 19: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

rimpetto e ai loro passatempi e risaputi marchingegni diguerra. «Fanno massa all’apice» dice «ma è solo una di-versione; è al lobo inferiore che mirano. Tu, lascia chearrivi la penicillina...». Il colonnello conserva le distanze(la nostra ala, di molte camere uguali, è tutta di reduci erimpatriati, e lui si sente ancora il comandante dellaguarnigione, anche se la guerra è finita da un anno e or-mai la nostra divisa è il pigiama); aspetta che ci alziamoquando fa l’ingresso in veranda, ligneo, cinereo, con unfoulard di seta legato al pomo d’Adamo, e la manicavuota lungo il fianco destro, che pende; pronunzia po-che parole, rotte presto da una furia di tosse: «Scusate,signori ufficiali» dice, e se ne va.

Dirò ancora del bambino Adelmo, il nostro giocatto-lo, figlio e portafortuna, che scendeva dal piano di sopraa chiederci racconti e dolciumi, nel suo dialetto difficile,tendendo fuori del rimbocco d’una camicia troppogrande una mano d’un biancore di gesso. Lo rivedo peri vialetti, che si sforza, allungando il passo, di stare a pa-ro con noi; e gli mancano le forze nel bel mezzo di unafavola. E ripenso come si stupisce e ride, mentrem’ascolta improvvisargli, sulle stelle che mi chiede, ri-sposte con numeri a caso e nomi da scioglilingua, Erebo,Eros, Erine, noi due soli sulla terrazza della Rocca, comesu un’arce lambita appena dai frangenti dell’esistere.Passavano in corsa le Orse sopra la nostra testa, batti-strada di oscuri disastri. Lui cercava, col soccorso delmio dito, una filante d’oro là in alto, che lo guidasse insalvo dal malanno sino alla sua casa di Filicudi, lo sco-glio dov’era nato.

Lo delusi solo alla fine. Credeva, per averlo sentito dasuo padre una notte nella lampara, che il chinino guaris-se ogn’incomodo, e prima di morire, a bassa voce, sup-plicava e supplicava, finché per contentarlo gli demmouna compressa purchessia. Se ne accorse, non volle piúparlare, si limitò a buttarmi, prima di girarsi dall’altraparte, un’occhiata di debole astio...

16Letteratura italiana Einaudi

Page 20: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Angelo diceva che la morte è un paravento di fumofra i vivi e gli altri. Basta affondarci la mano per passaredall’altra parte e trovare le solidali dita di chi ci ama.Purché si lascino péste, uste, minuzie che conservano ilnostro odore. Fu forse questo pensiero che lo spinse adaffidare a una suora una filza di lettere con date fittizie,da spedire una alla volta due volte l’anno. In esse narra-va il romanzo futuro di sé, vantava paternità, impieghi,successi; annunziava indisposizioni da nulla che nellapuntata dopo erano già guarite e remote. Sua madre – cispiegava – sarebbe vissuta piú a lungo, aspettando aogni scadenza il posticcio messaggio in cui si prolungavaindefinitamente l’eco della cara voce scomparsa. Sareb-be stato per lei come avere un figlio oltremare, a SanPaolo, a Little Italy. Lei morí subito dopo di lui, tutta-via, e suor Tarcisia, se non l’ha saputo, continua certoancora oggi a impostare queste inferie di un morto a unamorta, che nessun postino potrà mai restituire al mitten-te (ma fra noi vivi che ci scriviamo, le parole servonoforse di piú? Ed è poi sicuro che sia suono la vita e silen-zio la morte, e non invece il contrario?).

Sebastiano si uccise senza lasciare un rigo, sfracellan-dosi nella tromba delle scale, e m’aveva detto inspiega-bilmente un mattino, con un riso senza luce: «Quandomi rubano tutto, voglio pure regalare qualcosa». È lasua, nel mio albo di croci, quella che tuttora fa male.Mentre mi suscita un moto di buon umore crudele, an-che se tanto tempo è passato, il paradosso del sottote-nente Giovanni, un perito agrario di Cefalú. Era statoalla Rocca, da ragazzo, e ne era uscito quasi subito, insalute, o cosí pareva. Al punto che nemmeno l’avevanoriformato, s’era fatti tre anni di Cirenaica, tutte le andatee i ritorni. Ora era di nuovo in forza alla Rocca, floridis-simo a guardarlo, ma con quegli scavi caseosi nel petto,la vecchia cicatrice ancora in succhio, come quando unpollone s’incaponisce a rigemmare su un tronco che pa-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

17Letteratura italiana Einaudi

Page 21: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

reva ormai quieto. Lui tuttavia – il male ha queste mali-zie – ingrassava sempre di piú, a forza di lecitine e di za-baioni, persuadendosi ormai, non senza vanità, d’esseresalvo. Lo vedo ancora il sabato mattina, quando era ilsuo turno di salire sulla bilancia per il controllo, volgereattorno sguardi sornioni e vispi, prima di imporre il pie-de sulla piastra come sul cippo terminale d’un podereereditato. Udendo poi gridare il peso dall’infermiere, edera sempre piú alto, non sorrideva nemmeno ma conmani riconoscenti provava un movimento di carezzalungo i fianchi di sposa. Ignaro che qualcuno nel suo ar-cano regime l’aveva privilegiato su tutti, e che sarebbestato il primo a morire.

Un altro ricordo è di un vecchio dell’astanteria, dagliocchi belli, celesti, che si medica da sé la fronte, spec-chiandosi nel vetro di una finestra, dopo essere statopicchiato da un compagno, senza motivo, per solo furo-re.

E Marta... Marta ha contato piú di tutti, ne parleròpiú avanti, quando non ne potrò piú fare a meno.

Cosí, chi da poco chi da pochissimo, vivevamo allaRocca, insieme ad altri che non nomino, io che vi parlo,e il colonnello, Sebastiano, Luigi, Luigi, Giovanni, An-gelo: cascami della storia, uno sfrido umano. Tutti giàsoldati, per mestiere o per forza; ora ugualmente colpitie con pronostico uguale; custoditi, intorno, da un reti-colato, noi e nessun altro in Europa, ormai. Ed eravamoqui giunti a frotta, sotto stracciate mantelline d’eroi, damille posti diversi. Agli eterni protocolli e controlli da-vanti a un corpo di guardia ci eravamo una volta di piúcon disciplina piegati. Arrancando per scale senza fine,contando ogni pianerottolo col respiro sempre meno ca-pace, avevamo preso posto su quest’ultimo spalto che ciera stato sortito, e qui rimesso a mani asettiche e svelte ilnostro gruzzolo d’ossa, dove la febbricola quotidiana

18Letteratura italiana Einaudi

Page 22: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

metteva dapprincipio una sorta di svigorito calore, masul tardi – lo stesso càpita quando si beve – un esuberodi parole, un gusto di cantarsi e compiangersi, di cui ioper primo (ve n’accorgerete) non ho saputo guarire maipiú...

Che dietro i suoi cavalli di Frisia, spinati come Cristiin croce, avesse accolto moribondi diversi dai soliti, ilMagro lo capí subito: «La vostra è una generazione sen-za paragone» diceva, con un sussiego nell’inflessione,come se fosse merito suo. «Mai, da quando sto qui allaRocca, m’era avvenuto di vedere tanti libri in giro e mu-trie adorne d’occhiali. È il raccolto della guerra. Untempo erano solo i pezzenti della Kalsa a cascarci. Oraanche i signorini s’ammalano, col loro petto senza peli,l’acqua di colonia, le ironie in italiano».

Il Gran Magro giudicava i malati per annate, come unintenditore di vini o un maestro in pensione. Lo asse-condavano essi, resistendo raramente alla Rocca per piúdi quattro stagioni. La durata media era quella, da unottobre all’altro, il tempo di aggregarsi e imparare unlinguaggio, consuetudini, un decalogo che valesse pertutti. Ciascuno, infine, quasi pretendendo alla nobiltà diuna staffetta di lampade, appena si sentiva vicino a cade-re, affidava a un successore il suo povero testimone: uncimelio, un trucco, un nomignolo. Cosí da vent’anni ilGran Magro continuava a esser chiamato il Gran Ma-gro, dopo ch’erano morti in venti, insegnandoselo primadi morire.

Ma io – a tal punto m’avvilivano questi scambi diconsegne e l’attesa supina del colpo – non so quante vol-te al giorno mi sentivo tentato di salvarmene con unainadempienza o bravata. Certo, fossi stato sicuro di nonlasciarmi dietro a ogni passo le mie lumacature e pollu-zioni d’untore, non sarei rimasto a covare nel paglieric-cio la febbre come una cimice, ma sarei sceso a consu-marmi fra la gente, in fretta, ero troppo vigliacco per

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

19Letteratura italiana Einaudi

Page 23: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

morire a rate. Questo nei primi mesi, poi alla esistenzasmozzicata degli altri finii con l’assuefarmi, e dal loroconsorzio non volli piú disertare. Con essi ho spartito,all’ombra della stessa bandiera gialla, ogni elemosinadell’ora, tutti gli inganni e i disinganni delle loro carrie-re, benché non la fine repentina che le concluse. Ma sedi tanti io solo, premio o pena che sia, sono scampato erespiro ancora, è maggiore il rimorso che non il sollievo,d’aver tradito a loro insaputa il silenzioso patto di nonsopravviverci.

20Letteratura italiana Einaudi

Page 24: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

IV

Fra la Rocca e la città c’erano solo pochi chilometri,quanti non so, non era facile contarli, mentre si scende-va in tram per l’inflessibile via Calatafimi, cosí in fretta,quasi ad ogni isolato, si seguivano le fermate. La piú co-moda era qualche metro piú giú dall’ingresso grande,sotto una tettoia di eternit che ci ospitava in attesa, im-bottiti di maglie o scamiciati, col mutare delle stagioni,ma impazienti sempre di imbarcarci per la nostra saltua-ria Citera. Si scostavano un poco, senza farlo parere, iviaggiatori abituali, all’apparire del nostro drappello dilazzaroni cupidi e ossuti. Noi portavamo con un impac-cio visibile – dopo tanto grigioverde di giubbe – gl’indu-menti della vita borghese, su cui avevamo provatopoc’anzi, dubbiosamente, le liturgie scordate della vesti-zione, scoppiando a piangere all’improvviso nell’atto diaccomodare attorno alle fosse del collo una cravattad’altri tempi, una bianca sciarpa da ballo.

Non era da tutti, peraltro, ottenere il lasciapassare daesibire al custode. E il piú delle volte ci facevano difettole forze. Allora, fra una spedizione e l’altra, ci acconcia-vamo a distrarre i sensi in qualche maniera, col pericolo,magari, di aizzarli ancora di piú.

Si cercavano intrallazzi col reparto delle donne, attra-verso lo steccato d’edere e pali che divideva il parco ametà e che, per la sua inettitudine, chiamavamo la Magi-not. Ci s’intendeva prima a segni, durante la messa; sitrovava poi modo, da una gronda della terrazza, di la-sciare penzolare, attaccato a una funicella, un bigliettodavanti a una finestra amica, nella fiducia che una manoraccogliesse l’invito. Oppure un giavellotto di malacca,da ragazzi, viaggiava nell’aria fino alla loro veranda eportava inastata, mediante un elastico o altra fettuccia,addirittura una rosa.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

21Letteratura italiana Einaudi

Page 25: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

Altre volte ci si contentava di parlarne fra noi, di chia-marle con una canzone. La musica, appunto, non scar-seggiava. Avevamo, in aggiunta ai dischi e alle nostremanufatte radio a galena, una cuffia ciascuno per ascol-tare i programmi che il Gran Magro irradiava, sette gior-ni su sette, da una sua profonda officina, con la pretesadi assopirci o svegliarci a suo gusto secondo le decisionidi una manopola lontana. Un sopruso. Ma era facilestaccare il contatto. Mentre non era facile eludere, alpianoforte del ricreatorio, le sue personali esibizioni dieterno tirocinante, con quelle scale da impazzire: Gra-dus ad Avernum correggevo io, per ferirlo, il frontespi-zio del suo Clementi.

Era una rivincita, dunque, suonare e cantare noi stes-si, la sera, appena si sentisse la febbre defluire via piano,e nelle vene l’ambulare del sangue farsi fradicio e lento,un battito d’acquamorta contro la riva. Sedevamo allorainsieme, in cerchio sul pavimento, con un’armonica, unmandolino, e due tre voci spossate a furia di rincorrersie d’accordarsi, in uno sforzo quasi sempre deluso di rag-giungerlo e imprigionarlo, quel filo di motivo evasivoche, al pari di ogni altra cosa, si rifiutava di appartener-ci.

Begin’ the beguine, e dai balconi di lunga luna ragazzesi sporgevano ancora, scendevano ad appendersi al filet-to dorato del nostro braccio, ci camminavano accantolungo un fiume, Tresinaro o Livenza, reggendo con unamano il manubrio di una bicicletta di nebbia. Curve sot-to i baci, da arboscelli ch’erano, ma con un gusto di ter-roso rossetto sulle labbra, e nel solco dei seni quell’odo-re di cotogne sbucciate appena. Mai piú le avremmoriviste, mai piú risentito le loro voci sotto la cupola delplatano mescolarsi ai fruscii della notte. Ce le aveva re-galate la guerra; la guerra se le era riprese. Di là deimonti e dei mari, loro: morte o smemorate o nemiche. Enoi qui soli, con una sozzura sotto la giacca, un disonoreda dissimulare.

22Letteratura italiana Einaudi

Page 26: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

La guerra era dietro di noi, ma sulla giacca era rima-sto il segno della bandoliera, e l’agro della polvere nellenarici e nelle mani. Mani che avevano sparato, forse uc-ciso. E ora ci chiedevamo perché. Nell’asfissia del senti-re, che a gara con l’altra del respiro ci soffocava le fauci,ogni parola grande stingeva, appariva una truffa di adul-ti. Anche la libertà, anche la verità. Di tanti giorni diebrezza e di felici rincorse sugli Appennini, coi fazzolet-ti di colore attorno al collo e i soprannomi da romanzo,restavano a galleggiare pochi scarabocchi e stemmi diatrocità o amore: un fischio d’intesa, un fumo di sera suuna cascina, un crepito di parabellum davanti a noi, inun sentiero senza scampo. Mentre, sopra ogni altra cosa,soverchiando ogni lutto o splendore della memoria, feri-namente trionfava nel vento il tanfo della città bombar-data, della sua bocca nera, del turpe esibito suo pubed’uccisa. Lo stesso tanfo che sentivamo ora salire dai no-stri guanciali, un’altra guerra ci toccava combattere con-tro Goti piú solerti e feroci. Che contava se il mondo, al-trove, era tornato ad avere vent’anni, a mormorare levenerande parole, lungo i fiumi, sui balconi di lunga lu-na? Noi, per avere una donna dovevamo attendere chetre volte di fila risultassimo innocui all’analisi, e che cifosse concesso il salvacondotto di rito, e che i sensi ac-cettassero l’alea e la ripulsione di un contatto comprato,e che...

Andare fra la gente, giú in città, portarsi addosso ilcencio del corpo, questa somma insufficiente di lena e disangue, in mezzo ai sani della strada, atletici, puliti, im-mortali... Osservare le mostre dei negozi, specchiarvi fi-no all’ultimo spigolo le scarnificate figure, e sentire congratitudine che nessuno se n’accorge, nessuno si volta.Eccomi nell’accampamento nemico, travestito da vivo,invulnerabile come chiunque. Le ragazze passano a frot-te, tenendosi allacciate, con ritornelli di risa. Hanno tac-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

23Letteratura italiana Einaudi

Page 27: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

chi alti, gambe di rame nudo, un pettine fra i capelli ouna spadina d’argento. Come mi guardano senza veder-mi, come ciascuna apre e chiude il ventaglio del gremboa ogni passo! In piedi, nella fiumana di folla, è bello sce-glierne una mentre si allontana, e battezzarla per poterlachiamare quando non c’è, e fare coppia con lei nella fan-tasia, seduti sulla spalletta di un fiume, Tresinaro o Li-venza... lo accarezzo la curva della sua gota, le dico«D’accordo, domani», le dico «Domani, alle sette. Da-vanti al Caffè dei Portici, davanti al cinema Odeon», ledico «Ciao Sesta», «Ciao, Silvia». Lei giunge fra tintinnidi similori, con un passo di streghina, di gitanella. Len-tigginosa da intenerire. Ha una bocca troppo dipinta,un berretto di paggio inclinato da un lato, la borsetta adarmacollo. Le piacciono i segreti che si sussurranoall’orecchio, gli oracoli, le stizze, le bugie. Non vuole inme che questo: un affiliato di cospirazioni e allegrezze.Si rammenta gli anniversari piú futili, le cantafavole im-provvisate una volta e lasciate a metà. M’incolpa di col-pe inesistenti per potermele perdonare dopo un istante.Mi regala un garofano avvolto nella stagnola, un pac-chetto di Tre Stelle, uno stupido Toi et moi. È la mia ra-gazza, guardatela, sta per attraversare la strada col se-maforo rosso...

Oppure si finiva nel quartiere del porto, a cercarseneuna qualunque, ma di carne, vera. Bisognava pure ognitanto, era anche il consiglio del Gran Magro. Bastavanogià quei pochi scalini a stremarmi, e l’anchilosi del brac-cio attorno alla vita di lei. Chi riusciva poi a muoversicome si deve, con la magra dote d’ossigeno che mi resta-va. E allora, ti pago un extra, fa’ tu... Sentivo il suo cor-po ricciuto e pieno di nei ingigantirmisi addosso, pene-travo in lei col suo aiuto, accompagnando con avarisussulti i suoi, misericordiosi ed esatti, finché si scio-gliesse in pioggia di fuoco e di miele in fondo al suo ven-tre la nube cieca che mi gonfiava le tempie.

24Letteratura italiana Einaudi

Page 28: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Piú tardi, sopra la coperta militare distesa a riparodella dubbia lindura del letto, mentre lei si lavava senzadolcezza in un angolo, e una tardiva goccia di seme micorreva stancamente per l’inguine, mi piaceva giacereancora un poco, dissanguato e deserto come un ucciso,con gli occhi fissi al soffitto, a decifrarvi, in una screpo-latura o salnitro dell’intonaco, le imboscate future dellamia sorte.

Al mio ritorno avrei raccontato tutto ai compagni, se-duti a mucchio sopra la stessa branda, avrei risposto ri-dendo alle loro domande da studenti, mentito anche unpoco, forse. Avrei detto: «Era bellissima, ha gridato,non fingeva, vi dico; che donna; andateci, amici...».

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

25Letteratura italiana Einaudi

Page 29: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

V

Di padre Vittorio, il cappellano militare, diventaiamico piuttosto tardi, benché ci accomunasse l’abitudi-ne di uscire a sedere in veranda la mattina presto, per fa-re incetta d’aria buona, almeno fino a quando non fosse-ro giunti a sconsigliarcelo i primi, tradizionalmentefatali, freschi d’autunno. E già piú volte ci si era scopertil’un l’altro a compitare da lontano i titoli dei libri chereggevamo con tre sole dita fuori del mucchio di felpache ci copriva. Poi cominciammo a spostare, ogni gior-no di un poco, le nostre sedie da riposo (la sua, strana-mente, a dondolo, fuori ordinanza), come per una pre-meditazione di tutt’e due, una combutta innocente, checi faceva sorridere gli occhi per il tempo di un baleno,quando si scontravano. Finimmo cosí col trovarci un’al-ba fianco a fianco di fronte allo stesso primo sbieco rag-gio di sole, senza piú un pretesto che c’impedisse di par-lare e di dire contemporaneamente la stessa cosa:«Come ti chiami?».

Strano che dopo tanto conoscerci e tante occasioni didomestichezza io non rammenti piú nulla di lui se nonqualche filamento di volto, una specie di inafferrabilesindone, e la macchia che faceva, passando fra me e laluce, il suo corpo di montanaro nell’atto di svilupparsidal plaid a colori per venire a curvarmisi sopra e a strin-germi rumorosamente la mano. E ancora meno spiega-bile che in un luogo come quello, dove l’abbandono nontollera indugi o diplomazie, il nostro incontro abbia se-guito una grammatica cosí curva e prudente. Quasi en-trambi temessimo e desiderassimo insieme nell’altro ilconnivente e nemico che ci mancava e senza cui la parti-ta non si sarebbe potuta giocare.

Certo oscilla fra contrattempi e incastri senza numeroil gioc’a tombola della nostra vita. Non si conosce mai

26Letteratura italiana Einaudi

Page 30: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

chi si vuole, ma chi si deve o chi càpita, secondo che unamano sleale ci rimescoli, accozzi e sparigli, disponendoo cassando a suo grado gli appuntamenti sui canovaccidei suoi millenni. Cosí, per quanto io da moltissimi annisia tornato, come già prima nell’adolescenza, a un’opacanegazione del Cristo, è a quell’incontro imprevisto,estratto da un calcolo o caso fra gl’infiniti possibili, chedevo di averci pensato, per l’unica volta, con delicatezzae sgomento, fino al giorno in cui, nell’attimo stesso dellamorte del mio amico, mi ritrovai piú asciugato di unciottolo, e seppi che fin allora il mio cristianesimo nonera stato che una gravidanza supposta, un’isteria di tremesi. Oppure solo il vizio di ascoltare, a mezzo metro dame, commovente e barbuto, un giovane apostolo che miraccontava nell’Altra la nostra stessa Passione.

Chissà com’era venuto a finire fra noi, lui del Nord,mentre avrebbe potuto farsi ricoverare nel sanatorio perreligiosi che il Vaticano intrattiene, dicono, dalle parti diTrento, o in una clinica per ricchi, a due passi da casa(era figlio unico, i suoi possedevano ville, navi). Avevainvece preteso di scendere fino alle Madonie, senza te-mere di esporre alla laica facinorosa luce dell’isola le sueferite che già galoppavano, che forse s’era lui stesso cer-cate. Perché, mi chiesi a lungo, dal momento ch’era damettere in conto una minor resistenza al male in un po-sto dal clima cosí difficile, perché? Per compiere inqualche maniera il grande tour meridionale sognato alungo da novizio in un triste convento veneto dal cancel-lo a punte di lancia? Per lasciarsi alle spalle affetti e carelacrime e rimanere solo, uguale ai piú reietti della nostrafamiglia, nell’attimo dello sgombero finale, della defini-tiva partita a pugni con l’angelo? Forse non lo sapeva luistesso, anche se una volta accennò balbettando a unamissione e obbedienza ch’egli si sforzava, pur in quaran-tena, di adempiere, e per la quale gli pareva ci volesseuno scenario di crete e ulivi, una Giudea tutta triboli,

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

27Letteratura italiana Einaudi

Page 31: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

come certe chiuse di qui, che uno scisma di venti minu-ziosamente dilania.

Fantasie, esorbitanze dette per riempirsene le labbra,una sera. E tuttavia fu allora che lo scopersi fratello, nel-la frode di voler prestare un senso d’elezione a una pri-vata miseria del corpo: la stessa frode per cui anch’ioporgevo volentieri ai chiodi le palme, illudendomi chebastasse l’orgoglio a cangiare una vergognosa sanzionenel privilegio di un dio. Fratello fu, perciò, e succubo eincubo, padre Vittorio per me, durante tutto il tempoche insieme lottammo, vincendo e perdendo entrambiun poco, lui a persuadermi della Rivelazione, io a inqui-nare come potevo quando l’una quando l’altra delle suecertezze.

Fu un duello di ciechi, m’accorgo ora. Di spadacciniciechi che s’inseguono e si cercano impunemente, confendenti all’impazzata, sulle tavole di un palcoscenico.Traendo dal catafascio attorno a sé di tanti baldacchini etramezzi di polvere un piacere disordinato; e accorgen-dosi alla fine di non essersi scambiati colpi ma solo con-tagi. Un contagio avvenne appunto fra noi, fra le nostredue barricate parallele e guerriere. Sicché, nel tempostesso in cui io andavo accogliendo il fuoco delle suesperanze, il mio dubbio, sciogliendosi da me, e con essola mia viltà, andava insinuando nella densità del suo cor-po, lí accanto al mio, una seconda e piú acida tabe chenemmeno i raggi di Vasquez avrebbero saputo svelare.Né me n’accorsi pienamente finché visse, e io non ebbiscoperto per caso un suo zibaldone a matita, dove ognilinea propalava i segni di una bruciatura, di una caduta.

Quanta strada, dunque, da Cividale alla Rocca, persmarrire la direzione lieta del proprio cammino e farsitrovare un’alba, con una sigaretta spenta nel pugno e identi serrati contro il cuscino di crine, in una sedia adondolo, alla quale l’estremo spasimo delle membra

28Letteratura italiana Einaudi

Page 32: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

aveva impresso un moto che ancora, lievissimamente,durava.

Qualcuno, un compagno di corsia, mi disse poid’averlo visto spesso, negli ultimi tempi, levarsi che eraancora scuro, e di averlo pedinato una volta e sorpresoattraverso i battenti, mentre celebrava nella cappelladell’ospedale, da solo e per uno solo, in amitto di lino ecasula rossa, la messa di ringraziamento. Uno sforzo dirisposta, forse, non tanto a me quanto alle sue propriedimonia, di cui ecco qui taluna proposizione, come l’hodecifrata, con scrupolo di legatario, sui margini di unaFilotea:

Non c’è cosa che Io non saprei perdonare. Molte gravitentazioni si sviluppano da questo pensiero. Sarei dunquepiú buono di Lui?

Non ho domeniche, i miei giorni colano col colore deifiumi e dei sogni, fra parapetti di ferro, in un silenzio chefa meraviglia. Fossero, una volta almeno, una fanfara ditrombe o una disfatta gridata. Ma io temo che la mia voceaccadrebbe in un’aria indifferente, nessuno è cosí benevo-lo da raccogliere i miei cartelli e molli colpi di guanto, so-no prigioniero per sempre della prudenza con cui studiotroppo a lungo i minuti senza osare mai viverli all’improv-viso.

Qualunque cosa faccia, dovunque vada, un pensiero miconforta: sono un uomo involontario, dunque sono un uo-mo innocente.

Il peccato: inventato dagli uomini per meritare la penadi vivere, per non essere castigati senza perché.

Progetto di favola o reliquia di sogno: scendo alla sta-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

29Letteratura italiana Einaudi

Page 33: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

zione di una città di cui non conosco la lingua. Bambinicon un coltello in mano improvvisamente si mettono a ri-dere.

Quando vado solo in città una figura col mantello misegue.

Come il cieco di quel gioco di parole: il quale cerca unabusta nera in una stanza nera, e la busta non c’è...

Abituarsi a guardare la vita come una cosa d’altri, ruba-ta per scherzo, da restituire domani. Convincersi ch’è unosbaraglio per temerari, che la precauzione suprema è mori-re...

La morte: un esilio? un rimpatrio?

Come s’affonda in un legno un chiodo, a piccoli colpi,la morte...

Pena di doversi lasciare a metà, dopo aver fatto con sestessi cosí poca strada, curiosità di conoscere il séguito(seppure esista altrove un copione completo ...).

Com’è difficile, Dio.

Ripetersi cento volte ogni mattina per penso e fiorettoil concetto predicabile che immaginai in occasione di untema di seminario («Orazione in morte di Bossuet, comel’avrebbe scritta Bossuet»): La morte è un taglialegna, mala foresta è immortale.

Un bacillo di Koch si posò sopra il labbro di Adelmo. EDio vide che questo era buono.

Il mio cuore, come non mi somiglia piú. Di un altro,

30Letteratura italiana Einaudi

Page 34: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

ora: una persona tragica in cui non so riconoscermi, che hausurpato i miei ricordi, alla cui invasione piangendo dicodi no.

Mi sveglio, talvolta, e per un minuto non so chi sono.Sarà cosí, la morte? Rincorrere tutta la notte un se stessoche fugge, cercandosi dentro, senza trovarlo, un nome di-menticato?

Signore, l’avarizia e la fecondità della notte. Scomparsetutte le cose, rammendato lo squarcio dei colori e dei suo-ni. E nei miei occhi solo la lava e il caos del Tuo viso, lafiammeggiante cecità del Tuo nome.

Nomi d’infanzia friulana, mentre dormo, soffiano unsuono sul tenero palinsesto della memoria. Il nome di unpaese, di una prostituta, di una stella...

Che ne sarà di me, di quel giorno di pioggia del trenta-nove, nel Suo cielo di cherubi esangui?

Dalla grazia alla disgrazia, a piedi nudi, come in sogno.

Il vino della messa è nero, un vino forte di Salaparutache mi danno in cucina. Vino denso, dalle vene di un Diosaraceno, e che opera all’istante. Me n’accorgo in sacre-stia, quando lo rivomito, dopo un colpo di tosse, fra le coc-che del fazzoletto.

D’improvviso, stamattina, un frullo d’ali d’allodola incuore. Simile ad un presagio di non sperato riscatto.

Pregare, altro vizio solitario.

Un soldato per sbaglio, e sta bene. Ma se toccasse a undisertore, a un cecchino selvaggio, di colpire alla fronte ilConestabile?

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

31Letteratura italiana Einaudi

Page 35: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

Solo l’infelicità è degli uomini, la disperazione è di Dio.

Dio, gigantesco eufemismo.

Angelo arpia, il tuo volo goffo e greve, il tuo colpo dibecco sul petto.

Con la mano sull’interruttore, di notte, nella mia stan-za, gioco al Fiat lux, gioco a essere Dio: spengo e riaccen-do, rispengo e riaccendo. Infine la lampadina quietamentesi fulmina.

In sogno ho annusato la morte. Che graveolenza di bas-sa cucina. Che bisogno, dopo, di lavarsi ininterrottamentele mani.

Guardo due mosche amarsi sulla mia palma sinistra.Alzo l’altra piano piano, poi la calo, la vibro a tradimento.Mi dispiace fallire il colpo.

Un penoso sospetto sulla Passione: è venuto per salvar-si, prima ancora che per salvarci (parlarne ai miei superio-ri).

E se fossimo solo il Suo peccato originale, l’infrazione,la mela che non doveva mangiare?

La morte naturale non esiste: ogni morte è un assassi-nio. E se non si urla, vuol dire che si acconsente.

Scendo nella sala comune, a confessare i poveri, i vec-chi. Non capisco i loro gerghi stretti, ma li assolvo lo stes-so, naturalmente. Poveri, selvaggina di Dio.

È questo dunque il buon uso delle malattie che,sull’esempio di quell’altro, avevo chiesto supplicando al

32Letteratura italiana Einaudi

Page 36: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Signore? Lacrime, sí, ma di rabbia e rancore, bestemmiatotale et douce. E selvaggi onanismi sotto le lenzuola.

Io diffiderei col dito nella Sua piaga.

Ancora una volta nel sonno una donna m’inforca. Ag-gressione funesta e sacra, roveto che non si spegne.

Se credo al secondino basta una stringa.

Et ecce cecinerunt tubae cataractarum Tuarum.

Fatti vedere, Tu che mi spii.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

33Letteratura italiana Einaudi

Page 37: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

VI

L’Ucciardone, Monte Athos, la fortezza della Roccel-la... A quante clausure e solitudini mi piaceva paragona-re il nostro stato alla Rocca. Né mi scordavo il castello diAtlante. Cioè un luogo di visioni destinate a non durare.Una di queste fu Marta.

Accadde il giorno di Santa Rosalia, ch’era anche ilgiorno del mio quindicinale rifornimento d’aria, altri-menti detto pneumotorace, piú brevemente PNX, siglaaraldica della speranza. Si tratta di un’iniezione d’ariasotto l’ascella, eseguita mediante un ago che sembra unpugnale, al fine di comprimere il polmone e consentire,frenandolo, che gli orli delle ferite si ricuciano da sé. Mabisognerebbe, dopo l’intervento, starsene a letto e nonmuoversi. Solo che quella sera c’era rivista di gala nel ri-creatorio del lazzaretto, tutto un programma a sorpresa,con attori e attrici dei nostri: regista unico, trovarobe ebuttafuori, il Gran Magro. Costui, difatti, lo avevo sco-perto subito dopo il mio arrivo, non era solo in quel luo-go il molto potente pontefice dal cui labbro di lepre, dalcui pugno scettrato di stetoscopio, ci toccava aspettareogni mattina la cresima o il viatico; bensí, nelle ricorren-ze dell’anno, il procuratore di collettive letizie: lumina-rie, quadri animati, presepi, misteri buffi. Uno sfogo co-me un altro, per noi; per lui, forse, l’intempestivarivincita di una vocazione, in forza della quale non esita-va ora a trascurare i pazienti, a meno che non gli servis-sero nella baracca delle prove, fra le malve del giardino,in maschera di numi o di paladini. Io non ero della par-tita, tra loro ero appena arrivato, un novellino. Ma, senon a questa, alla prossima passerella non intendevomancare; a costo di esibirmi da cartomante o pagliaccio.Il Magro mi capí. L’attesa della morte è una noia come

34Letteratura italiana Einaudi

Page 38: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

un’altra, e che si nutre di pompe piú assai della mortestessa. Dunque lui, com’era solito fare, promise a tuttospiano: per Capodanno, per Carnevale, per Pasqua; perl’altra estate, se ci arrivavo. A sentirlo, aveva già in men-te il da farsi, un intreccio di dramma antico (non amavache i classici, lui) da ridurre in versicoli da burla e cheparlasse di noi per ambage: un’Alcesti, un Filottete inbombetta, con agnizioni, qui pro quo, e torte sul ceffobistrato di Tanatos. A questo tema avrei dovuto dare su-go io, che sapevo di lettere, e fare per intanto da vice alui nella scelta e nell’addestramento delle personedell’opera.

A una pensata cosiffatta, miscuglio di goliardia, sup-ponenza e malignità, non avevo obiettato nulla. Se ne sa-rebbe potuto cavare qualche effetto di scherno e bile,con un gemito dietro, magro come un coltello. E dopo-tutto, che m’importava? Un calcolo diverso, se devo di-re ogni cosa, suggerito da quel po’ di volpino e cialtronech’è in me, mi aveva convinto a dire di sí. Ed era, questocalcolo, che i preparativi dello spettacolo potessero of-frirmi un’evenienza di promiscuità, la salvaguardia peraccostarmi alle ignote dell’Ala Sud, fra le quali, di sicu-ro, qualcuna avrei saputo indurre, con una chiacchieradelle mie, a soddisfarmi i bisogni del sangue, da infetta ainfetto, risparmiandomi i rimorsi e il sapore di terra chemi lasciavano sulle labbra ogni domenica le mie discesenella casba della città. In conclusione, alla festa di quellasera non potevo in nessun modo mancare, se volevoguardarmi in segreto, senza impegni di giudizio, le atti-tudini e le facce delle teatranti che mi sarebbero occorsedomani per il mio doppio bisogno. Scivolai giú dal letto,mi rivestii, raggiunsi in fretta la sala.

Lo spettacolo era già cominciato, quando entrai final-mente, dopo aver brancicato alla cieca, in cerca della ce-sura, fra le tende di velluto cremisi che pendevano dalla

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

35Letteratura italiana Einaudi

Page 39: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

sopraporta come i paramenti di un catafalco. Subito misorpresero le battute di Romeo che profondeva nell’ariauna voce trapanese, di un mingherlino coi ginocchi nellapolvere, la calzamaglia del quale, dono di un direttoredel Politeama, doveva aver ospitato in altri tempi polpepiú sode: «Era l’allodola, messaggera del mattino, nonl’usignolo: guarda, amore, come quelle strisce di luce,invidiose della nostra gioia, cingono di una frangia ra-diosa le nuvole in fuga, laggiú nell’oriente. Io debbopartire e vivere, o restare e morire...».

Riconobbi non senza fastidio l’impronta digitale delMagro in questo voler imporre a un debuttante di cam-pagna sublimità cosí cimentose, per trarne motivo disogghigno nell’ombra di una poltrona, e tuttavia micompiacqui della compunzione con cui tutti si proten-devano verso il proscenio come a una tribuna o pulpitodonde una verità fosse per discendere, un germe di sal-vezza, forse, per tutti. Ma già alla prima un’altra vocedava la replica, un giovine birignao di donna dalle im-previste inflessioni lombarde: «Sei dunque partito cosí?Amor mio, mio signore, ah, mio marito amico mio!». Ea queste altre parole seguivano, a soggetto, mi parve, eincongrue tra loro, con null’altro in comune se non chetutte proponevano amore e sulle labbra di lei si vestiva-no, sebbene pronunziate con lontananza, di un significa-to d’invito, diffondevano intorno un impetuoso aromacarnale.

Mi avanzai, raggiunsi accanto al Magro la sedia di pri-ma fila che, in contraddizione coi suoi stessi interdetti dimedico (un secondo Cottard, sorrisi fra me, la naturaimita l’arte), aveva tenuto in serbo per me, e presi posto,in tempo per accrescere coi miei i battimani di tutti eper cogliere su un viso duro di ragazza china a ringrazia-re una sorta di strozzato sorriso, un passeggero umidolustro di sole estorto da una fessura di nuvole. «Chi è?»chiesi al mio ospite, senza riceverne in risposta che due

36Letteratura italiana Einaudi

Page 40: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

sillabe, Marta, condite d’un alito senza pietà e prestodissolte nella rinnovata gragnuola d’applausi che acco-glieva l’annunzio del numero successivo. Marta, anche,Marta Blundo, era scritto sul programma di sala che ilvecchio mi porse piú tardi, quando si accesero le lucidell’intervallo e potei volgermi indietro a osservare lapopolazione della Rocca, schierata per intero a battagliadinanzi a un sipario calato, coi visi lucidi di febbre ep-pure inevitabilmente felici. Che platea di pigiami a righesi pigiava nella sala, forse attori eravamo anche noi, daquest’altra parte, inceronati di rosa agli zigomi e pronti aintonare in coro il nostro cantabile requiem, gli spettato-ri veri s’erano nascosti, ci guardavano in silenzio da unabarcaccia che sembrava vuota.

Ma a un tratto una cosa cominciò sul palcoscenico, inun silenzio totale. Era ancora lei, la ragazza di prima. Inun numero di danza, stavolta. Non mi riusciva di veder-ne per intanto che le membra minute, vestite di molticolori e distese a terra come in una vignetta di libro:un’Arlecchina, magari, fintamorta nella sua abbagliantecasacca. Non rimase cosí a lungo, ma alla prima scara-muccia che tentarono gli strumenti dietro le quinte – erasoltanto un disco diffuso da un altoparlante, la Silfide oche so io – cominciò a sprigionarsi dal suolo lentamente,a forza di gesti meditati e chiusi, interrogando l’aria conuna prudenza di cieca. Si rizzò infine di colpo, balzòverso il soffitto.

Un freddo nei capelli m’avvisò che si trattava dell’ini-zio di una partita d’armi assai seria, chissà quale ne erala posta, in quel cono d’aria lassú, che disegnavano i ri-flettori. Un gioco serio era, con qualche sottinteso abiet-to, di cui venivo tenuto all’oscuro. Allora mi feci piú at-tento: la ballerina si sgrovigliava e guizzava nel cielo conpresunzione e ferocia, accompagnando ogni slancio conun mugolo d’incitamento; e la coalizione di elissi e vorti-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

37Letteratura italiana Einaudi

Page 41: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

ci attraverso cui le sue membra commentavano il dirottodiscorso della musica; le vacanze dove subitamentes’aboliva, senza necessità talvolta, quella aerea scrittura;tutto questo faceva un imbroglio, invocazione o beffache fosse, a cui sentivo, con un refe nero, inestricabil-mente cucirsi l’ordito stesso del mio destino.

In una pausa del pezzo, avvenendole di restare per unpo’ in piedi e ferma al centro della scena, potei guardar-la meglio, infine. La gola le si era tinta di fiamma, peruna irradiazione sottopelle del sangue: «Come di lumedietro ad alabastro» citò dottamente e odiosamente ilMagro al mio fianco. «Cosí sono i serafini». Oh certo,un serafino era, dalla vita sottile e dalle ali roventi, conocchi come ciottoli d’ebano nel fiero ovale ammansitoda una corta chioma di luce!

Ma già di nuovo volteggiava lontano e con tale pa-zienza pareva chiedere nei muri una breccia per andar-sene che mi sorpresi a cercare dietro di lei la figura indi-spensabile di un persecutore. Quando ricadde, fu perpiú lungo tempo. Ora, dopo ogni scacco, ritornandosulla terra, non risaliva che a stento. Sull’ammattonato,sotto il verdetto delle lampade, con un viso che aveva in-sensibilmente cominciato a perdere colore, giaceva sen-za muoversi, respirava profondo, ricuperava ad una aduna le linee di forza del suo essere per ricomporle dinuovo in una intenzione di volo («Bestia!» m’indignaiall’orecchio del medico. «Come puoi tollerare questo.S’ammazzerà»).

Chiusi gli occhi quando, dopo un tentativo che fallíancora, precipitò e fu come se si fosse buttata da una fi-nestra. Era chiaro a tutti che uno spacco era intervenu-to, o il divieto di una legge, al limitare di un regno chelei sola scorgeva. Annaspando riprovò, ma senza fiducia,i preliminari dell’assunzione, non era altro ormai che uncorpicino di lucertola, in un sentiero, diviso in due dauna ruota. Fu allora che ad aiutarla l’orchestra irruppe

38Letteratura italiana Einaudi

Page 42: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

con la sua cabala piú potente: come su un’annegata ar-chi e ottoni le si curvarono sopra, le sventolarono sullafronte un lenzuolo di suoni amici, tutto un pandemoniopreoccupato di note. Lei levò le braccia, quasi volessesedarlo, poi per qualche istante non si mosse, si raccol-se. Io pregavo fra me e me perché vincesse una volta dipiú, e con tanta passione che fui certo poi d’essere statoio a salvarla, e nella mente me ne vantai.

Si eresse senza sforzo, ora, dava l’impressione di esse-re diventata piú alta, piú forte. Non la vedemmo che inun lampo, mentre balzava in su, col colpo di tallone delmarinaio che risale: nitida, inesplicabile: un angelo nun-ciante che se ne va.

Non ricomparve piú né io riuscii a star lí ancora permolto, ma appena i pupi Pulicane e Buovo d’Antona sifurono scontrati a morte per gli occhi di una bella diTrebisonda, e li ebbi visti cadere entrambi con le coraz-ze a pezzi ai piedi di un sicomoro dipinto, mi alzai peruscire, benché il mio vicino mi guardasse con un malani-mo di cui non capii la ragione. Non fu facile aprirsi lastrada fra il pubblico dei ritardatari che si accalcava frafila e fila, mentre sulla scena appariva l’infermiere Pan-zera, truccato da re dei maghi, facendo prillare fra lemani, vertiginosamente, un numero di palline che mi sa-rebbe piaciuto contare.

Nello stanzino adibito a spogliatoio, alle spalle delpalcoscenico, lei sedeva con modestia in un canto, afianco d’uno specchio a muro, ancora con la divisa mul-ticolore di prima. Senza la quale non l’avrei riconosciu-ta, tanto mi parve puerile e colmo di mai viste fossette ilviso che offriva al giallo uovo di luce sospeso al soffitto.Un viso diverso, perfino piú bello del cipiglio di mataha-ri che avevo creduto di scorgere dalla mia guardiola diprima fila e al quale sarebbero meglio convenuti i me-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

39Letteratura italiana Einaudi

Page 43: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

loeroici furori della mia mozione d’affetti. Quella chem’ero preparata prima d’entrare e che non fui capace dicambiare con un attacco piú giornaliero quando mi fer-mai davanti a lei. «Marta» la chiamai, le posi avvampan-do la mano sopra la spalla. «Devi uscire con me» le inti-mai. «Ti resta poco tempo, ci resta poco tempo. Eabbiamo vent’anni».

Alzò la fronte, senza meraviglia, per quel che poteicapire, né ira. Era come se non mi avesse sentito e le mieparole si fossero mescolate in lei alle altre di una canzo-ne che giungeva dalla ribalta lí avanti e parlavano di set-tembre e di pioggia. No, non mi rispose ma con unacamminata pigra i suoi occhi mi schivarono, trascorserooltre, parvero aggrapparsi a una cosa che nella stanzanon c’era, si chiusero infine nell’attimo in cui uno scop-pio di tosse, secco come uno sparo, la piegò in due, lasconvolse, inchiodandole sulla faccia una mascherasdrucita di vecchia. Si alzò, fuggí via, con la bocca tap-pata da un fazzoletto, ma, prima di spingere col gomitol’uscio, si volse un momento verso di me, sorridendomi,domandandomi con lo sguardo non capii se di salvarla odi lasciarla in pace, di non pensarci piú.

Ma il Gran Magro, sopravvenuto al mio fianco,m’aveva impugnato il braccio e mi trascinava con sé, in-giuriandomi a modo suo: «Quella, strichten verboten!»sibilò. «E non fiatarmi addosso, Almaviva tossicoloso».Non aggiunse altro, salvo qualche grugnito di beatitudi-ne quando, ripassando per il corridoio, udí daccapo,seppure attenuato dai tendaggi, scoppiettare un rombod’applausi, ai cui invisibili esecutori una, due volte rivol-se un rigido inchino di marionetta.

40Letteratura italiana Einaudi

Page 44: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

VII

La sera dopo non seppi resistere e chiesi al piú giova-ne e sboccato del miei compagni, a Luigi detto l’Allegro,o anche il Pascià di Patrasso, per via di una millantatasbornia d’amore in un postribolo greco, di lasciarmiscendere con lui di nascosto, dopo mezzanotte, in giar-dino. Aveva appuntamento, e non era la prima volta,con Adelina, una magretta già quasi salva, tribolata peròda voglie che neanche il sonno era capace di rabbonire.Si toccavano come potevano attraverso la grata di sepa-razione, si dicevano frottole, indecenze, concertavanoraggiri senza numero per incontrarsi fuori, la domenica.A costei volevo chiedere notizie di Marta, un’anagrafequanto piú meschina possibile, che la traesse dall’aria dimiracolo di cui m’era parso naturale circondarla nel cor-so della mia imbambolata serata, e mediante qualche ri-velazione di ticchi, calze smagliate e sudori me la facesserespirare accanto come una creatura di tutti i giorni.Poiché, insomma, non s’accomodava con l’economia delmio tempo il prolungarsi di uno stato d’estasi e vitanuo-va, quando a me, al contrario, serviva solo un corpo daconsumare subito, prima che il nostro vagone piombatosi fermasse al deposito della stazione d’arrivo. E inol-tre... inoltre io sono cosí fatto: rapidamente avvampo erapidamente mi spengo. Spiando ogni volta con aviditànel ventre del fuoco il grigio nascosto della cenere futu-ra. Cosí ora, riguardo a Marta. Mentre era appena alleprime battute il grande andante d’oro del mio innamo-ramento per lei, già dentro di me la desideravo refratta-ria se non indegna, per prepararmi a disporre in antici-po i pretesti e gli svincoli della fuga di domani.

Ebbene, di quel che tacitamente speravo, l’Adelina,come se lo facesse apposta, mi diede soddisfazione sinoalla feccia.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

41Letteratura italiana Einaudi

Page 45: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

«La Petacci, vuoi dire? Ma è una delle piú fradicie»soffiò attraverso le borraccine e il fildiferro che ci divi-devano. «Non la curano quasi piú, le lasciano fare quel-lo che vuole, perfino ballare, l’hai visto».

«Di dov’è?» chiesi. «Com’è finita alla Rocca? E per-ché la chiamate cosí?».

«Non so bene,» rispose «e lei parla a labbra strette, laprincipessa. Dicono ch’è una di su, e stava a Sondalo magli altri malati non ce l’hanno voluta. E che prima balla-va alla Scala. A me pare una sciantosa. Del resto se nedicono tante...».

La voce della giovane s’abbassò fino al sussurro, sitinse di un sorprendente pudore:

«Dicono di un capitano delle Esse Esse, di una villasu un lago. E cose peggiori. Certo i capelli le sono ricre-sciuti da poco sul capo rasato...».

Prosit, eccomi fin troppo servito. Due volte intocca-bile, un record. Ero cascato bene a impressionarmene,io che per quelli dell’altra parte nutrivo fino a ieri, esclu-sivo come un amore, un livore da ragazzo, al di là diogni condiscendenza, dubbio o perdono. Non restavadunque che dire basta, passare la mano e via. E nondi-meno, tanto si contraddice in me il garbuglio dei senti-menti, proprio da quella sovrabbondanza di ragguagliostili, in quel medesimo istante, quasi sotto l’irritazionedi una frusta o di una brezza salata, cominciò a nascermie a crescermi dentro una passione, non sembrandomivero di aver trovato al posto di un elfo un uccello spen-nato e sozzo, e di poter mescolare alle indiscrezioni deldesiderio un’oncia di incarognita pietà. E chi dunqueavrebbe saputo oramai togliermi dalla mente, a dispettod’ogni mio sotterfugio, quel luccichío d’affralito sorriso,se sorriso era, intravisto nell’attimo in cui s’era girata aguardarmi; e il boschetto dei rinati capelli; e il passo,mentre se n’andava?

Mi accomiatai, era tempo. Ma prima, e senza rimorso,

42Letteratura italiana Einaudi

Page 46: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

acconsentii ai lenocini dell’Allegro che con la mano econ lo sguardo m’indicava nella massiccia tenebradell’Ala Sud un minuscolo ritaglio di finestra ancora il-luminato, davanti a noi. Attraverso lo spioncino del fo-gliame, allargato a forza di braccia, non potei vederegran cosa, un labile bagliore, non so se di carni o di ve-sti, ma abbastanza per risentire nelle orecchie il solitomulino a vento del sangue e per dovermi appoggiare unmomento al mio compagno che rideva. Poi lo lasciai conl’Adele, ai loro sfinimenti, rincasai attraverso un séguitosegreto di scale e usci di riserva, dalla lavanderia sino al-la mia stanza, scivolando lungo le mezze luci dei corri-doi, come nei libri si dice facciano i lestofanti d’albergocalzati con soprascarpe di feltro.

Da allora divenne una favola, alla Rocca, il mio amoreper Marta. Ne parlavo con tutti, chissà che m’aveva pre-so. Mi ridevano in faccia le ragazze in vestaglia che in-crociavo sulla soglia del parlatorio, minacciandomi coldito; ci scherzava sopra il medico Vasquez, nell’atto discribacchiarmi col lapis, come fiordalisi di Francia, isuoi circoli sul costato; una frase mi derise sul muro delcesso comune... Solo il Gran Magro, mai una volta chetornasse a pronunziare quel nome. Però ora mi trattavada cliente, con burbanza e pedanteria; né veniva piú atrovarmi se non per la visita che mi doveva, come agli al-tri, nelle ore giuste; accompagnato da suore, assistenti, eguardandomi appena, con bulbi d’occhi gonfi comebubboni. Tutti segnali d’un ripicco e ingelosimento chein un uomo ironico non mi sapevo veramente spiegare.Non me ne turbai piú che tanto, ma attribuii quel conte-gno agli scarti di un’indole zoppa, il cui fondo di fune-bre nevrastenia, sommosso dall’età, sobbolliva e sorgevasenza resistenza alla luce. D’altronde, dopo quell’incon-tro dietro le quinte, non avevo piú rivisto la ballerina,contento abbastanza di pascere da solo, prima d’addor-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

43Letteratura italiana Einaudi

Page 47: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

mentarmi, uno svago della fantasia, in cui entrambi,guariti, ci baciavamo davanti a un mare. Non che mitrattenesse dal cercarla il pensiero del suo passato. Que-sto, me ne accorsi con meraviglia, non riusciva a ispirar-mi che un blando orrore, profumato dalla lontananza.Come la notizia di un naufragio, in una vecchia botti-glia, a un solitario guardiano di faro. Che altro eravamo,del resto, noi qui della Rocca, se non, ciascuno, un guar-diano di faro scordato dagli uomini sopra uno scoglio diMala Speranza? Non molti mesi erano trascorsi, pochianzi, ma già, cosí dai mostri della guerra di ieri come dalnuovo patema di vita che faceva spuma d’attorno a noi,un braccio di mare morto ci aveva separati per sempre.E inutilmente alla rissa lieta per il mondo che rinasceva– quel subbuglio di speranze e certezze a cui tanti avreb-bero poi pensato come alla stagione piú colma della pro-pria vita – ci chiamavano strepitando libri e giornali sul-le lenzuola: il re delle nostre scalequaranta era piú verodell’Umberto giovinotto in questua di voti, venuto finlassú a stringerci con spaventato coraggio la mano, qual-che giorno prima del due giugno. Né v’era eroe di qua-lunque colore nei nostri discorsi, se non l’omuncolo dinome Robic, che scalava, ballando sui pedali, i tornantidel Tourmalet. Lo confesso: mortificati cosí gli odî co-me gli entusiasmi dall’oroscopo irrefutabile del mio re-spiro, ben altro che le sue colpe mi turbava, pensando aMarta. Era, piuttosto, l’incertezza se credere piú alla vi-sione di levità e vigore che m’aveva lasciato, malgradotutto, negli occhi, la sera del ballo, o alle parole senzasperanza ascoltate in giardino, che sembravano esclu-derla da ogni pratica amorosa. Parole di cui, per super-bia e per paura, non osavo domandare conferma a nes-suno che potesse rispondermi.

Finché un giorno, in Sala Raggi, il caso mi spinse a sa-pere. M’ero appena rivestito e restavo con gli altri, unbestiame di macilenti toraci sopra la panca; quand’ecco

44Letteratura italiana Einaudi

Page 48: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Vasquez fu chiamato via, lasciò senza guardia lo stanzi-no dello sviluppo, con la bacheca tutt’intera a portatadelle mie mani. Sgusciai dentro senza esitare, godevoancora agli occhi di tutti di qualche diritto in piú, nons’erano accorti che il Magro aveva smesso di favorirmi; ein ogni caso non avrebbero detto nulla, per massoneriadi forzati. Le radiografie erano in vista, a centinaia, coinomi scritti secondo alfabeto all’esterno di ogni custo-dia. Feci presto a sceglierne due.

Quando fui nella mia stanza, le sollevai controluce.Abile com’ero diventato a decifrare le minime postilledel male, bastò un’occhiata per inorridire.

Non scesi a refettorio, quel mezzogiorno, ma mi but-tai bocconi sul letto a confrontare lungamente, appaiatesopra lo stesso cuscino, le mie posteme e le sue, e a mi-surarne, come un geografo di Scandinavie, ogni frasta-glio e pozzanghera, dovunque sentissi battere una raffi-ca piú nera e venuta da piú lontano, Ma mentre erointento cosí a celebrare, non senza una funesta delizia,questa copula di larve fra noi, e un grido di misericordiami gonfiava invano le labbra, la voce di padre Vittoriodietro la porta: «Mister Livingstone, I suppose?» mi col-se alle spalle come una sassata.

Era del tutto fuori dell’ordinario, la visita, in un’oradi pietra com’è quella della siesta, e la mentita scioltezzadell’approccio non raccontava nulla di buono. Tantopiú che il frate visibilmente soffriva. Finsi di non accor-germene, elusi in qualche modo le richieste del suosguardo, e aspettai. Aveva in mano un volume, col me-dio dentro, a farvi da segnapagine. Sedette sull’orlo delletto, rimase a lungo cosí.

«Ho cercato di pregare» cominciò «ma me n’è rima-sto in gola un sapore di fiele. Forse non so piú pregareda solo».

Giungeva in pessimo punto e m’irritò.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

45Letteratura italiana Einaudi

Page 49: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

«La preghiera!» proruppi. «Il tuo covile caldo, il por-tone per ripararti quando cambia il tempo! Mi ripugnacodesto Dio da indossare come una maglia pesante so-pra le nostre pleure di cartavelina. A me è sempre pia-ciuto bagnarmi».

Sorrise: «È ben per questo che sei finito fra noi». Eaggiunse in fretta: «Aiutami. Sàlvati. Salvandoti mi sal-verai. E non restarci troppo sotto la tempesta».

Aprí il libro, cominciò a leggere, poi smise, seguitò amemoria: «Come gli uccelli costruiscono nidi sugli albe-ri per ritirarvisi quando ne hanno bisogno; come i cervihanno cespugli e tane nel folto dove si nascondono e simettono al coperto, godendovi, d’estate, la frescuradell’ombra; cosí, o Filotea, i nostri cuori devono pren-dere e scegliere ogni giorno un posto, o sul Monte Cal-vario, o nelle piaghe di Nostro Signore, o in qualche sitoaccanto a Lui, per farne il proprio riparo in qualsivogliaoccasione, e ivi allietarsi e ricrearsi fuor delle cose delmondo, e costituirvi fortezza, a difesa delle tentazioni.Felice l’anima che potrà dire in verità a Nostro Signore:Tu sei il mio albergo e la mia sicura trincea , Tu il tettocontro la pioggia, l’ombra contro la canicola». Lo ascol-tavo appena. Marta, qualcuno ancora mi diceva all’orec-chio, Marta. E sul cuscino quel dispiegato pulviscolo difiordi e licheni, quella galassia di meduse morte, ripete-va Marta, si chiamava Marta. «Gli alcioni» recitava ilfrate «costruiscono i loro nidi in forma di palla e non la-sciano in essi che una fessura sottile, in alto; li mettonosulla spiaggia del mare, e li fanno cosí solidi e imper-meabili che, pur quando siano sorpresi dalle onde, nonsi lasciano penetrare dall’acqua; anzi, restando sempre agalla, rimangono in mezzo al mare, sul mare e padronidel mare. Cosí dev’essere il tuo cuore...».

S’interruppe, posò il libro. «Cosí dev’essere il tuocuore...» ripeté due volte, e pareva parlare a se stesso.«Un tempo amavo queste parole». Poi, riscotendosi:

46Letteratura italiana Einaudi

Page 50: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

«No, non è solo una casa di pace, Dio, come temi. Maanche un predone, un veltro celeste che c’insegue e cisforza e ci ama».

«Strano amore» ribattei, mentre andavo ostentata-mente arrotolando le mappe rubate, per togliermele disotto gli occhi e respingerne per un momento nel buio lemiserie e le urla. «Io ero nel nulla, infinitamente nullo etranquillo... I miei testi gli fanno causa di questo».

«È per amore che ti ha tratto dal nulla» disse piano.Ed io: «Di Sé, non di me. Oppure per la fatica della pro-pria impeccabile solitudine...».

Ci scambiavamo queste battute senza collera, ormai,ma anzi con un affetto nella voce, da avversari che san-no, ciascuno per la sua parte, d’essere nel giusto soltantoa metà.

«Creandoci s’è compromesso» ripresi, copiando nonsenza riluttanza un argomento del vecchio. «E infine...se il Suo non fosse stato che un conato amoroso, se po-tessi pensarLo curvo, con lacrime e pietà, sul refuso im-menso dell’universo, pronto a raschiare tutto per ripro-vare un’altra volta...».

Vittorio mi prese il braccio. Avrei sempre poi ricor-dato la canizie precoce della sua barba, che le labbra fa-cevano tremare, muovendosi, e risentito la spina del ri-morso per non avergli saputo inventare il me stesso ches’aspettava.

«Lo perdoneresti, vuoi dir questo?» disse. «Osi volerdire questo? Non capisci che nel creare consiste appun-to la bellezza della Sua morte, lo scandalo della Suamorte, l’ironia stupenda del Suo morire? Perché tu tifaccia Lui, Lui acconsente ogni giorno a farsi te, a mori-re ogni giorno in te la propria infetta divinità. Poiché lacreazione avviene ogni giorno, capisci, come la Sua mor-te. Gesú sarà in agonia sino alla fine del mondo...».

Il suo zelo confuso mi commosse. E fu solo per pro-vocarlo ancora a parlare che mormorai: «Parole, Pascal

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

47Letteratura italiana Einaudi

Page 51: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

da seminario...». E lui: «Povero amico. Sei tu che vivi inuna ragna di parole e ti ci avvoltoli dentro, quando unane basterebbe, pronunziata in silenzio, qui in ginocchio,accanto a me. Soccombere ti bisogna per vincere. Chiu-dere gli occhi per poterti svegliare. È nella notte del tuocuore che devi perderti, se vuoi ritrovare la luce. Dionon è l’assassino che credi. Tu supponi d’inseguirlo,t’affanni a leggere carponi, come i poliziotti dei roman-zi, le piste oscure della Sua fuga, interroghi le macchiedei Suoi pollici unti. Mentre è Lui che incombe senza fi-ne su di te, la Sua ombra ti è sopra e tu non la scorgi, ilSuo fiato ti morde la nuca e tu lo confondi col vento...».

Arrossí violentemente appena si accorse, dopo qual-che minuto, che non gli avrei piú risposto. Quando rico-minciò a parlare, il suo tono era di scusa, inerme:

«Non sono felice» disse «e mi chiedo perché. Forsequesta consunzione che porto nella carne mi va guastan-do anche l’anima. E sempre piú spesso dubito e mi spa-vento e mi sento un prete per finta. Seppure non gridocontro di Lui. La sera scende, ma io non so trovarLo almio fianco, né Gli parlo piú che nel sonno, con le labbradel rinnegato. Potessi solo risentire come una volta nelcuore la Sua ferita, il Suo dolcissimo fulmine...».

Richiusi il libro che aveva lasciato aperto sul guancia-le, glielo porsi.

«Mister Stanley,» gli dissi «avete fatto tanta strada,ma ora il vostro viaggio è giunto alla fine. Un’alba diqueste Qualcuno verrà dal mare, dalle parti di Sferraca-vallo. Ve n’andrete con Lui, ve ne sono garante, coi san-dali leggeri sull’acqua».

«Voglia il cielo che tu parli sul serio» mi disse.«Ma non vedi che sto piangendo» mentii.

48Letteratura italiana Einaudi

Page 52: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

VIII

I giorni dopo la morte del frate furono di fuoco. Edio, sebbene per molti versi ci somigliamo, non riesco adamare l’estate. È un tempo di ulcere e sfregi, collerico,tracotante; il tempo che nuoce di piú a chi sente avvici-narsi la fine e vorrebbe muoversi nella penombra di de-centi omertà, con un ordine nei suoi pensieri, e il sanguein pace, finalmente. Mentre il mio sangue, quell’estate,non c’era briglia che lo tenesse, e me lo sentivo batterenelle vene secondo un tempo scorretto, ora furioso oralanguido, allo stesso modo di quando si diventa ragazzie piace spiarne, con un dito sulla carotide, le misteriosemaree. Una nuova pubertà, piú difficile della prima,m’aveva dunque sorpreso, o che altro volevano dire queirintocchi di tamburo da cui si spargeva su ogni mio ri-sveglio un familiare lezzo di finimondo? Scorrevano sulquadrante le ore, grani di lenta insostenibile luce. Inutil-mente sperai un inciampo nel cammino delle stelle.Troppo netto si staccava l’azzurro sui doccioni dellaRocca, con un solo falchetto lassú, e nessuno scudo dinuvola che stornasse l’avvento del giorno di Dio. Poichéc’è un giorno, uno solo, di luglio, nell’isola, che si snatu-ra dagli altri e non si dimentica piú. Gli altri erano sol-tanto estate, il belvedere color kaki di cui discorrono lecartoline. Ma questo è una rabbia di Dio, l’esempio diuna stagione che non esiste.

Comincia coi primi chiari dell’alba e si sentono attra-verso il sonno i cani lamentarsi negli uliveti. Poi il solesbocca dai tetti, grondante tuorlo, orrido mestruo delcielo. Il soffio che ne nasce non fa nemmeno sudare, mastringe dentro un pugno il cuore, scaglia le rondini arompersi contro la sciara, dovunque fa luminello, e le il-lude, un inesistente palpito d’acqua. Ecco l’una, le due.Ora gorgoglia piano e si spegne la coda di vento che

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

49Letteratura italiana Einaudi

Page 53: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

s’era levata dal mare, seminando sabbia africana in ognipiega della pelle e del suolo; accanto ai pozzi sono vuotii secchi dove s’imbuca la vipera, sulle soglie i poveridormono, e sembrano morti, con una pezza scura posa-ta sopra le palpebre.

Alla Rocca non fu diverso, naturalmente. E il sindacodi Caccamo, che da un giornale invocava aiuto per unarrivo di cavallette, fece presto a parerci un faraone at-territo. Ma: «È ghibli di Tunisia» minimizzarono le suo-re, coraggiose nei soggoli di lana, passando fra letto eletto a deporre un fazzoletto bagnato sopra le tempie deipiú sofferenti. «Si calmerà, vedrete. Domani staremomeglio».

I malati annuivano, che potevano dire. Ma quelli chenon avevano febbre scendevano in giardino, senza chie-dere permesso a nessuno: stecchiti, a dorso nudo, peruna disubbidienza o sgarro a chissà chi, avanzavano an-simando entro la ronzante caligine. Identici, certo, aglialtri dell’anno prima e degli anni a venire: la stessa ur-genza superflua dei gesti, le meraviglie di uno, stupido ogiovane, e quelle bizze di circoscritti assediati in un for-tino senza acqua, che si espongono sui merli e strillano,mentre il nemico dietro i palmizi se ne infischia, nonspara nemmeno.

In quanto a me, che sarebbe servito imitarli? Megliocercare di obbligarsi a uno stallo dei sentimenti, a unasorta di flemma o miopia, di fronte a tanta inimicizia deltempo, e all’oltranza di quelle morti che la calura dise-gnava in anticipo, smerigliando le sporgenze delle man-dibole come sinopie di teschi. Dunque me ne restai sullabranda, quel giorno e quelli che seguirono, nudo sotto illenzuolo, e ad occhi chiusi piú spesso, ma a volte guar-dando le foto d’attori incollate alla parete di fronte e al-manaccando fatti fra loro, una fandonia da piangere, im-plausibile come la mia. Poiché certo la mia storia era

50Letteratura italiana Einaudi

Page 54: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

un’invenzione da c’era una volta, bastava addormentarsiper non crederci piú e ristabilire l’equità della vita, al diqua del sipario. Sí, questo era il segreto: scappare dentroil sonno e allogarcisi dentro, farci nido dentro, come chiindossa un vecchio maglione. Fuori ne restassero gli al-tri, e la loro salute, le loro gengive rosse, i passi che van-no non si sa dove e vogliono non si sa che. E smettesseuna buona volta il cuore di suonare a martello, il metro-nomo della goccia di torturare nel lavandino la moscacavallina a zampe in su, precipitata dalla cornice di por-cellana. Insomma, che vogliono gli altri; la luce, che vuo-le? Io ho la mia parete, lí avanti, con una fandonia dipin-ta. E i miei sogni d’oro zecchino, prima di chiudere gliocchi. E il sonno, infine: sepolcro sprangato, placenta dimadre antica, nave solare per andarmene come un re.

Non era vero. O almeno non lo era piú. Da quandoquella ragazza m’aveva annunziato d’esistere, di occupa-re un irrisorio incavo d’aria in mezzo a noi, a pochi me-tri dalle mie braccia. Lei con le fossette del riso, e la tos-se, e le valve segrete del sesso sotto la buccia della vestefanciullina. Un’esclusa, un’anima persa: giusto la sociache mi serviva. Una socia, sí. Perché contro ogni creanzae verità io m’ostinavo a presumere d’avere tacitamentestretto patto con lei, e di possederne caparra nella radio-grafia trafugata che tenevo sotto il cuscino. Questa, mibastava accarezzarla con un dito, la sera, e ne ricavavoun raggricciarsi agrodolce dei nervi, quale dà a taluno lasetagloria di un parapioggia, se gli sfiora per caso i ca-pelli. Al punto che quell’esile celluloide, contro cui s’erapremuto con forza il suo petto, piuttosto che continuarea sembrarmi, come all’inizio, la tela filata da una taran-tola scura, s’era venuta mutando, non meno che guantoo stivaletto, in una sorta di inaudito feticcio amoroso...

Non durò molto cosí, le mie difese naturali si sveglia-rono; e al timore dell’irrisione, e ai rovi d’ogni genere

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

51Letteratura italiana Einaudi

Page 55: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

che mi ributtavano dalla donna, s’aggiunse, e vinse, il ti-more di come avrebbe fatto presto a spezzarsi un vinco-lo che ai due capi tenessero due mani di cosí monca edebole presa. Ripensai a un film di tanti anni prima, alsorridevole piagnisteo del suo titolo: Amanti senza do-mani. Rividi i due su un ponte di transatlantico: WilliamPowell, lui, un losco galante che la sedia elettrica atten-de alla fine della traversata, e a cui gli sbirri di scortaconsentono benevolmente di passeggiare senza manette;Kay Francis, lei, spacciata dai medici, che ogni sera, perscordarsene, indossa una pelliccia piú bella. S’incontra-no, e ognuno sa della condanna dell’altro, ma finge dinon saperlo. E ballano insieme in un grande salone de-serto, e si dicono parole sotto la luna... Facili lacrimemie di ragazzo, altera tenera Kay! Chi avrebbe mai pen-sato che dovesse toccarmi a mia volta, all’ombra deglistessi umidi salici, di danzare una stessa tresca d’amore edi morte, su un motivo di fiacca pianola?

In un soprassalto di ragione volli strapparmi a quelmiele, chiesi di tornarmene a casa per qualche giorno.Non stavo peggio del solito, non tossivo, mi fu concesso.

Partii col primo treno del mattino ed ero contento.Avrei rivisto i miei, ritrovato la mia stanza, i miei libri, iviavai con gli amici, da mezzanotte alle due. Basta meno,talora, per togliersi dalla mente una donna.

Il mio paese: chi se ne ricordava piú, o me n’era rima-sto uno schiocco di tende strepitose come vele, e asini inamore, e in una figura di quadriglia una ragazza bruna,con una rosa. Fu invece un luogo senza remissione, a co-minciare dal plotone d’alberi rigidi sul viale della stazio-ne, simili a fucilieri in attesa di un passeggero bendato,fino agli ossi di case sullo strapiombo marino, dove bat-teva la tramontana. «Non dovevo tornarci, ho sbagliato»mi resi conto, non appena dal finestrino ne scorsi fradue trafori lo scorporato profilo.

52Letteratura italiana Einaudi

Page 56: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Solo mi ritrovai sul marciapiedi, quando fui sceso dalconvoglio in sosta, e solo m’incamminai verso casa, sem-pre piú certo a mano a mano che, se anche arrivavo sen-za preavviso e dal mio espatrio tanto tempo era trascor-so, mille nemici vi erano, scaltri, svegli, feroci, che miaspettavano al varco. Sicuro, mille e mille ricordi mi fa-cevano la posta, in veste di mendicanti o sicari, né c’eraverso di liberarsene. Davanti all’uscio dal noto colore,mentre la mia mano esitava, tenendo a mezz’aria un pic-chio di ferro imbrunito dal tempo, eccoli, prima l’uno,poi l’altro, poi tutti insieme: strabocchevole ciurma, lecui voci, insultando, supplicando, mi si rincorrevanonelle orecchie, sperando in una risposta che non sapevotrovare.

Poi fra me e mio padre tutto quell’alterco da piange-re: io che non voglio abbracciarlo, sfiorarlo con le mielabbra nocive; lui che insiste, mentre il mento gli s’infos-sa e nell’iride balena e si rintana un allarme di preda sor-presa. Ma chi è ora quest’uomo canuto, minuto, con unalisa maglietta appiccata agli uncini delle scapole? Dov’èsepolto, con chi me lo hanno scambiato, il mio fuliggi-noso ciclope dalle risa di tuono? È un vecchio che tre-ma, costui, e ripete il mio nome, e mi spinge senza forzaverso la mia stanza di studente. «Tutto è come prima»mormora. «Non abbiamo toccato nulla».

Certo, certo, tutto era come prima, non avevano toc-cato nulla: un nido di serpi, un pozzo di raccapriccio.Con ogni serpe al suo posto. C’è il calendario di allora,la chitarra, il letto di ferro. I tre sassi di calcare, scolpitidall’aria, sulla scrivania che non ha smesso di gemere. Infondo a un cassetto, sempre quello, riempiti sino all’orlod’un inflessibile inchiostro, senza guardare riconosco altatto i miei sublimi quaderni di cadetto di Brienne.Quanto a lungo ho creduto in me, e quanto a torto, da-vanti a questo scrittoio di finta pelle, accanto a questaportafinestra, da cui si vede ancora la stessa piazzetta da

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

53Letteratura italiana Einaudi

Page 57: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

niente, un fazzoletto di sole disabitato e fermo. Non c’èpiú l’alberello di acacia che vi cresceva, ma sempre lecontrapposte panchine, lunghe quanto un corpo d’ado-lescente sdraiato. Qui ogni sera due sorelle gemelle tor-navano ridendo a scoprire in uno spacco di corteccial’occhio di una civetta. Affacciandomi mettevo in rottasenza scampo le loro vesti di mussola rosa. Gli dissi pa-role d’amore, una volta. Dove sono ora, che turbine sel’è portate via?

Ogni serpe era al suo posto, e mi piacque riaffondarcila mano. Ripresi a vivere nella casa, quasi sempre a letto,come in balía di un vapore della mente che mi proibivadi alzarmi. Non guardavo che quelle panchine, dal mioletto, e non leggevo, non parlavo quasi, fumavo solomoltissimo, di nuovo, senza riguardo. C’era fumo den-tro la stanza, fumo, lamette usate, capelli fra i denti delpettine. E un’incandescenza che non cambiava, come inun lago di sale. Ma non ci badavo, troppo preso ero inun pensiero. Mi distraeva solo talvolta, dalla strada, unasconsolata voce di donna che chiamava un acquaiolo, unarrotino. Oh avrei voluto che veramente tutto attorno ame franasse in un tracollo di polvere, ore creature paro-le: ogni istante era un affilato coltello di luce a cui offri-vo pazientemente le mani. Un tempo era questa la miaterra, sapevo le trovature dei tesori, le profezie delle er-be, parlavo a una capra dalle mammelle nere. Ora nonoso andarmene a testa nuda fra tante muraglie avverse;attraversare senza una vertigine gli spopolati sagrati do-ve è avvenuto un miracolo o ammazzeranno qualcuno.Rimango dentro e non faccio nulla, mi lavo solo moltis-simo, ma non serve, il corpo mi s’insudicia lo stesso, im-mediatamente, mi sento lungo la pelle aderire una pati-na di morchia e impastarmi i capelli, dietro la semilunapallida dell’unghia un nero cresce di minuto in minuto,senza motivo. Com’è difficile stare morti fra i vivi: un

54Letteratura italiana Einaudi

Page 58: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

astruso gioco d’infanzia è diventato, vivere, e mi toccaimpararlo da grande.

Mi stanarono gli amici, finalmente, che avevano sapu-to del mio ritorno. Parlammo, mi disprezzarono presto.Disprezzarono la mia voce, le evasioni dei miei occhi, iricordi delle mie mani: mani che venivano dalla morte,superbe mani, ricche d’un capitale che, senza invidiarlo,non sapevano perdonarmi. Certe volte mi accusavano:«Che hai fatto con queste mani, perché resti chiuso tut-to il giorno, come sei cambiato». Oppure: «Perché nonrispondi quando ti parliamo, perché non vieni alla sezio-ne stasera, perché non vieni a serenate stanotte?».

Smisi di vederli, li barattai con una banda di giovaniladri, con un dolcissimo ubbriaco, con loro mi piacquesedermi sui gradini del lungomare, al riparo delle pom-pe che innaffiavano inutilmente ogni due ore le basoledella piazza. Furono queste le mie compagnie, nel paese,specialmente la sera, e non è che mi piacessero ogni se-ra, ma non potevo parlare sempre a me solo, nella miastanza. Inoltre mi mancava la donna, una da dormirci,mormorandole cose fra i grappoli delle ciocche.

Uscivo all’alba a cercarmela, stanco della notte comedi una battaglia combattuta per niente. Mi avviavo perle strade a passi lunghi, sentendo con un rifiuto di sto-maco nascere nei forni ancora illuminati l’afrore del pa-ne caldo, riconoscendo ad ogni cantone, dal suo latratodi cane fedele, dall’assafetida del suo sudore, il mio vec-chio spavento che mi diceva buongiorno. Finivo nelquartiere di Santa Venera, in chiassuoli senza uscita, do-ve, sbucando da un bosco di biancheria, la mia faccia disconosciuto incuriosiva qui una soglia, lí un’altra, diven-tava la festa della giornata.

Ma un mattino rimasi dentro, aspettai Cristina, la ser-va di quarant’anni, brutta, che aiutava in casa e mi puli-va la camera. Aspettai con un brivido che non sapevo re-primere il suo passo dietro la porta, le stetti goffamente

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

55Letteratura italiana Einaudi

Page 59: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

vicino mentre rifaceva il letto, la toccavo con una scusa.Lei mi guardava meravigliata e contenta, senza parlare.D’improvviso le dissi di andarsene: «Va’ via, va’ via» legridavo mentre fuggiva. «Lèvati dai piedi, vattene via».Lei fuggiva, piangendo, e non capiva, non riuscí ad apri-re, rimase dinanzi all’uscio con la mano turbata sul chia-vistello, e le spalle strette e secche che tremavano, finchéle fui dietro, la sforzai a voltarsi, ad accovacciarsi sul pa-vimento, le rovesciai sulla faccia il grembiule come unbavaglio,

Piú tardi mi affacciai a respirare il cielo di fuori, guar-davo nella striscia fra le cimase passare uccelli di mare,bastò il loro grido a precipizio su di me a farmi fiorirenel cuore un singhiozzo di bufera abortita, irragionevolegemito di bambino che si rigira nel sonno.

Era come in un turno di sentinella, fra siepi di nemiciche aspettano, quando gli occhi si fanno pesanti, ma unosa che se li chiude è la fine, benché la luna gli si sciolgaintorno in cipria di luce, in una mobile nebbia dove ilcorpo vorrebbe amorosamente affondare.

«Basta, basta» dissi ad alta voce. «Devo tornare allaRocca, il mio posto non è qui».

56Letteratura italiana Einaudi

Page 60: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

IX

Dire, schioccando le dita: Go, Stop, quando un ascen-sore sta per partire o fermarsi, e io sono solo nella cabi-na; dirigere con entrambe le braccia un attacco d’orche-stra invisibile che s’ascolta davanti alla radio... sonodebolezze che ho dall’infanzia, m’è sempre piaciuto, perscherzo o rivalsa, fingere di condurre chi mi trascina. Einvece ora, rientrato alla Rocca, che sentimento m’avevainvaso, di delega totale e di sgravio felice! Era forse, aimitazione del tempo che si veniva via via rinfrescando,un bisogno di addolcire in qualche maniera le ustioni acui avevo esposto senza pensarci mente e sensi nelle ulti-me settimane. Certo ora mi attraeva qualunque specolada cui si potesse passivamente osservare il guazzabugliodel mondo e riderne e piangerne con misura, come siconviene quando si fa eco alle risa e alle lacrime degli al-tri. Nemmeno al futuro pensavo piú; né a governarne imaneggi nella fantasia. Oppure esso era sul mio capo uncielo chiuso da una cerniera lampo inceppata; un discoche s’incanta e sotto la puntina replica la stessa inerte ri-sposta. In quanto a Marta, era abbastanza saperla a duepassi, se ne sarebbe riparlato domani, secondo gli sbalzidella mia terzana d’amore. Piú bello era per ora starsenea riposo dietro la ringhiera della veranda, nella sedia adondolo che avevo ereditato dal frate, mirando in giar-dino le opere del giardiniere, o i giochi che i fanciullimalati improvvisavano sotto una pianta.

Amavano essi giocare soprattutto nelle ore vietate,quelle che secondo la legislazione del luogo si dovrebbe-ro dedicare all’ozio in corsia: imposto lassú come altroveil lavoro (ma «come si fa» sospirava suor Casimira, cer-candomi alleato con un sorriso di tutta la pròtesi, nelquale vanamente insinuava l’indulgenza di una madrecarnale).

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

57Letteratura italiana Einaudi

Page 61: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

I fanciulli, da parte loro, da quando s’erano confusa-mente accorti di vivere sul rovescio della vita, e di posse-dere nel corpo solo un servo mancino e infedele, aveva-no provato a inventare un gioco in cui importassecorrere poco e senza furore, una sorta di sfilata e gavot-tina d’angeli, che ballavano tenendosi per mano, quasida fermi, attorno ai tronchi dei pini a ombrella. Pure,anche cosí, qualcuno si stancava presto, si slacciava dallemani degli altri, si andava a sdraiare in disparte. Infine siarrendevano tutti, e insieme, sottovoce, discorrevano dimisteri.

Cosí li osservavo dall’alto, un po’ di tempo dopo ilmio ritorno, sforzandomi di riconoscere in mezzo a tan-te la figuretta di Adelmo, purché fosse sua la voce di cuimi giungeva di quando in quando un acuto, non diversodallo stridere di una rondine in un girotondo di foglie.Pensavo di affidargli la lettera che avevo scritto alla don-na la notte prima, in un assillo d’insonnia, per romperel’armistizio e provocarla. Non avrei saputo procurarmiun corriere piú comodo, essendogli ormai data dispen-sa, si capisce bene perché, di scorrazzare dove piú glipiacesse, dalla camerata delle monache alla celladell’obitorio, fra caprifogli e allori, in fondo al viale dimezzo.

Lo entusiasmò una missione tanto furtiva, il poter re-citare da congiurato a fianco di un grande. Né, d’altron-de, erano frequenti alla Rocca le occasioni di disubbidi-re una norma per un bambino incurabile, al qualenessuno proibiva piú nulla!

Si avviò dunque col pugno stretto nella tasca, doveaveva immerso religiosamente la busta, pronto a in-ghiottirla e a mangiarsela, se un pellerossa o una guardiadel Cardinale, come promettevano i libri che leggeva,l’avesse colto di sorpresa e torturato, per averla.

Quando tornò, e tornò quasi subito, cominciò a sven-tolare il braccio da lontano, da arrossirne, ora che il co-

58Letteratura italiana Einaudi

Page 62: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

lonnello, coi nastrini delle campagne bizzarramente cu-citi alle asole del pigiama, aveva operato una sortita dal-la sua camera, e me lo sentivo dietro tossire in cadenza,rigoroso come una macchina.

Fu dopo, mentre gli altri s’erano messi con le carte aiquattro capi d’un tavolo, che potei appartarmi a leggere,in calce alle mie stesse grandiose parole, le due righe dirisposta. Dicevano: «Grazie, ma che lettera d’anteguerra.Domenica scendo in città, col primo tram del pomeriggio.Andremo a cinema, se vuoi».

A cinema non andammo. Sulla soglia del cinemaBiondo, quando già eravamo sotto la cupola, un invito cidissuase, che gridava alle nostre spalle il megafono, dauna jeep a passo d’uomo. Sarebbe stato il primo comiziodella nostra vita, e Piazza Castelnuovo non era lontana.C’incamminammo perciò a braccetto, col portamento didue giovani sposi, sostando solo di tanto in tanto, piúper specchiarci insieme nelle vetrine degli argentieri cheper vagheggiarne le inservibili magnificenze.

Mi mortificò scorgere, accanto ai suoi modi di cittadi-na, le mie rudezze di viso e di abito. E tuttavia m’incan-tavo a mirare con che nobile scaligero garbo, rifletten-dosi nel cristallo, si andasse a incastonare nel cavo esattodi una panoplia di gemme lo smilzo stelo del collo di lei,sorgente dalla goletta di trine, fuor della camiciola sbot-tonata a metà. La voce, poi... E le continentali malizie, inonnulla del gesto che impreziosiva, come uno spolverod’oro, il ricordo mischiato delle antiche serate di gala,dei damaschi, dei ventagli, delle Isolebelle sul lago...

Ne sarei stato intimidito fino alla paralisi, se non mifossi accorto ogni tanto di una piega, plebea e ghiotta,che le sfigurava la bocca e mi lasciava supporre una in-telligenza con i miei sensi in allerta. Seppure non ne ve-nisse un ulteriore riverbero d’indecisione sul personag-gio, complicandone il contegno in una commedia senza

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

59Letteratura italiana Einaudi

Page 63: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

fine di equivoci e stratagemmi. Io non dicevo quasi nul-la, di fronte alle viste tumultuose e diverse che lei mi ve-niva porgendo: ora con la pressione sulla mia mano del-la sua mano, una piuma di colomba incalorita un po’dalla febbre; ora con la melassa delle parole e la gestico-lazione sgargiante, da guitta; ma soprattutto attraversol’impaurirsi degli occhi ogni volta che la guardavo.

Esitando dunque fra diffidenza e passione, cammina-vo con lei fra la folla. Fiero, anche: poiché avevo unadonna con me, finalmente, che mi parlava, con cui par-lavo. E tanto peggio per la voce bassa che da un nascon-diglio in fondo a me monotonamente chiedeva: «Fino aquando?».

Ascoltammo solo per qualche momento l’avvocatinoin occhiali e camicia, che perorava per il futuro del mon-do sopra un mare di coppole attente. Anche se com-muovevano, accanto al lutto degli abiti, le fiamme dellebandiere ai piedi del podio, e le facce in sudore, snudatee gravi, e tutto quell’esibito bollore di menti bambineche si sentivano crescere. A me, per istruzione, certo,ma piú assai per rimorso, sarebbe piaciuto restare, fiuta-re piú a lungo quello scialo sudicio e ingenuo, una forzadella terra che mi lusingava credere si sarebbe salvata.Ma lei non volle, ripensava ancora alla contraffazione disé intravista nello specchio di poc’anzi, a quel po’ d’ossoe carne segnata che i suoi occhi erano ansiosi di sconfes-sare.

«Non sono io, diciamo che è la mia sorella cattiva» siscusò, guardandomi di sott’in su, e subito volgendo losguardo altrove, come quella sera nel camerino, dopo lospettacolo. Poi fece: «Conversando con me, quella fac-cia, non servirtene. Sèrviti di quest’altra». E trasse dallaborsetta, e mi tese, una foto dove lieta, seminuda, conuna coscia sporca di sabbia, sorrideva a nessuno, davan-ti a sé.

60Letteratura italiana Einaudi

Page 64: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

«Cosí ero» aggiunse. «Cosí bella. Col mio sorriso del’42. La mia annata migliore».

«Lo preferisco invecchiato. Com’è, ora» dichiaraieroicamente, e per dare colore di verità alle parole, subi-to declamai: «La malattia conferisce ai volti un presenti-mento, una luce che manca sulle guance dei sani; un ma-lato non è meno bello di un santo». M’impappinai, micorressi in fretta: «Oh certo, preferirei farne a meno,star bene, esser con te una coppia qualunque, su unapanchina della Favorita...».

«Questo non si può» disse lei, muovendo appena lespalle. Ed io: «E allora cerchiamo di dare un senso allanostra sentenza».

«Un senso?» fece. «Un senso a una forza? Io so sol-tanto che patisco una forza che peggiore non ce n’è.Avevo una vita, un viso. Mi tolgono questo e quella. Erail mio balocco di scelta, il mio viso. E ci giocavo concappelli, rossetti. Ancora oggi passo ore a truccarmelo,benché non lo senta piú mio, ma di una che mi vuol ma-le, come a tredici anni, quando mi venne il sangue la pri-ma volta, che storia di emorragie, la mia storia... Me lotrucco, come no, e mi siedo sulla veranda, a guardare,oltre il cancello del parco, la strada dove passano uomi-ni. Tu vedessi, nel mio armadio, quanti abiti da sera, chesciorino sul letto, quando sono sola. Flosce armaturevuote dove s’ode a volte frusciare lo spettro della Martache le abitò».

«No» ribadii. «Mi piaci di piú come sei. Con questorosa ai pomelli, cosí vero che sembra finto. Un rosa daprimadonna, Violetta o Mimí; un rosa da teatro d’ope-ra» e la guardai con significato.

Rise: «Che mente tortuosa hai tu. Sí, sono stata allaScala. Ma non cantavo, danzavo. Ho cominciato bambi-na, davanti a uno specchio che mi conteneva da capo apiedi. M’aiutavo con un grammofono a tromba. La can-zone si chiamava Missouri waltz...».

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

61Letteratura italiana Einaudi

Page 65: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

Ne accennò fiocamente il motivo. Poi, all’impensata,sul marciapiedi dove eravamo fermi a rilanciarci questebattute, compí una piroetta su se stessa, un elegantissi-mo turbine che le scoperse un poco i ginocchi e suscitònei passeggiatori vicini un moto non capii se di cupidi-gia o d’ilarità.

Ero disorientato. «Via, via,» la rimproverai «non cer-care applausi anche qui».

«Macché,» fece lei «è solo un impulso a piacere, chemi guizza ancora dentro come la coda di una gatta biz-zarra. Noi donne siamo spesso cosí: narcise e civette.Pensa – e mi mise la mano sul braccio – che la stessasuor Crocifissa, la piú anziana fra le nostre custodi, havoluto in prestito da me una sera un golfino da quattrosoldi, rosso ciliegia, con la scusa di studiarne le maglie ei nodi (lei lavora ai ferri, nei turni di riposo). Ebbene,l’ho vista poi infilarsi di soppiatto nel bagno e chiudervi-si dentro due ore. Per provarlo, si capisce. Una monacadi sessant’anni, che ha piú rughe di un elefante».

S’interruppe un momento per attraversare la strada.«A me è sempre piaciuto contraffarmi e mentire»

m’informò con lealtà. «Tutto ciò che contiene un’ipocri-sia mi seduce».

E aggiunse altro, ma cosí piano da obbligarmi a indo-vinare le parole che perdevo o a chiederle ogni momen-to, non senza imbarazzo, di ripetere. Quando ci fece ca-so: «Un po’ è colpa di questo», e s’indicò il petto colpollice, «di questo mantice guasto. Ma è anche un mal-vezzo dell’adolescenza che ho preso a furia di parlarmida sola, a sussurri, davanti al casello dove abitavo, men-tre aspettavo i treni, la notte. Ero come orfana, i mieistavano oltremare, vivevo con un parente vedovo e vec-chio, che, quando aveva bevuto, timidamente mi tocca-va. Poi lo mettevo a letto, restavo a fare la guardia perlui, alle sbarre del passaggio a livello».

«Dov’era il luogo?» chiesi. Esitò un attimo, quanto

62Letteratura italiana Einaudi

Page 66: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

bastò per farmi sospettare che si accingeva a cancellareun’impronta.

«Oltrepò» disse poi vagamente, e continuò subito:«Per non farmi vincere dal sonno, mi parlavo senza ri-poso, mi raccontavo da me un racconto che già sapevo,o ne fantasticavo uno nuovo, finché mi mancavano i no-mi e le parole. Se chiudo gli occhi, risento i rumori di al-lora, grilli, foglie al vento, fischi di convogli lontani, tut-ta una ninnananna, non ne ho avute altre, per cullare lamia contentezza di essere sola e regina in una notte cosílunga. Altre volte, di giorno, passavo le ore sdraiata aipiedi del terrapieno, in una cunetta mia, fra l’erba, lun-go la strada ferrata, a giocare con la terra e i suoi popoli,te li immagini?, formiche, papaveri, barattoli vuoti ca-duti da una Terza Classe e scivolati laggiú, immobili ora,nient’altro che cadaveri di cose. Una volta, in uno strac-cio di giornale, vidi il ritratto d’uno con occhi di selvag-gio, e me ne innamorai, se quello si chiamava amore.Avrei voluto partire un mattino su uno di quei treni, allaventura. Sapevo che di là dei monti una rotonda di giar-dino c’era, dove lui mi aspettava e aveva speroni d’ussa-ro, e un frustino nel pugno. Lo sognavo, anche, e nonerano sogni belli. Morivo spesso in quei sogni, con le ca-viglie e i polsi legati ai ferri del letto, imbrattata, calpe-stata da grandi zoccoli, come l’erba lungo i binari, io colmio piccolo ventre bianco, la mia perversa verginità dibambina...».

Marta parlava, parlava, ma io non avanzavo di un pas-so verso il cuore della nebulosa ch’era lei. Oppure, seper un istante mi pareva di capire, arretravo immediata-mente come davanti a una trappola. Quelle parole vi-schiose, insaporite d’una velenosetta dolcezza, mi sem-bravano, erano certamente, segni e minuzzoli diPollicino, seminati apposta ai crocicchi di un labirinto.Per frastornarmi? Per aiutarmi? Mi venne in mente quelche avevo sentito da un mio attendente reduce d’Africa,

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

63Letteratura italiana Einaudi

Page 67: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

di certi fiumi di là che scompaiono all’improvviso nellarena e rinascono dove càpita, fiumi senza sorgente, sen-za foce... Ecco, un’uadi era anche lei, Marta, un simula-cro di donna, lontana da me quanto una bambolasenz’occhi, e tuttavia l’unico essere che mi restasse nelmio disabitato universo.

Ora lei si era appesa piú forte al mio braccio, mentrecon la mano libera faceva altalenare su e giú, secondol’un due tre di una canzone che canticchiava a fior dilabbro, una borsetta ricamata a rombi. Disinvolture distudentessa, spettacolo tenuto in piedi per simulare unavita vera, pensai. E intanto dirigevo i nostri passi, perevoluzioni scaltre e apparentemente fortuite, verso lamarina e Santa Zita, nel quartiere piú bombardato, dovel’ombra delle rovine fosse piú propizia alle nostre effu-sioni che presentivo imminenti, se aveva un senso di vo-glia, come interpretavo, quel suo premersi irritato con-tro di me. Non mi sbagliavo: inoltrandoci per ViaSquarcialupo, appena un’insolita maceria ci ebbe sor-presi – di un casamento a quattro piani, con la facciataspolpata e le interiora in mostra – Marta si sciolse dame, camminò sola e decisa verso un relitto di muro, vi siappoggiò con le spalle e con labbra bianche mi ordinòdi baciarla.

Bevvi, prima che le sue labbra, l’afa e l’odore del suomorbo, l’accolsi dentro i polmoni con un giubilo e ungrido taciuto, lo stesso che accompagna, mentre cala, ilpugno del matricida. E una volontà di distruggere, em-pia e allegra, mi formicolava nelle mani, mentre cercavogli anfratti e le dune magre delle sue membra. Infuocar-si e gemere la sentivo contro di me. Come una fascinache si consuma senza fiamme, per un avvampo di den-tro, e si torce umanamente nell’aria.

Un riso ci riscosse, seguito da un flusso di maleparolee di grida. Aprimmo, alzammo gli occhi, e sopra i calci-nacci dell’edificio, dove prima non s’era visto nessuno, a

64Letteratura italiana Einaudi

Page 68: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

cavalcioni su ogni travatura risparmiata dai crolli, ci ap-parve una torma di miserabili e tuttavia cordiali presen-ze: bambini, mezzane, vecchi, un soldato solitario. Ec’invitavano ridendo a raggiungerli, c’era un’alcova las-sú da loro. Fuggimmo, ce ne andammo senza meta, eva-demmo in tassí dal gomitolo di straducce, scansando,non si sa mai, quel che restava di Palazzo Sclàfani, e l’af-fresco che .parlava di noi, se era sopravvissuto alle bom-be, con l’amazzone senza naso, armata di frecce, galop-pante in trionfo su un’ecatombe d’illustri e d’oscuri.

Verso sera, giú al mare, seduta davanti a un gelato,vincendo a stento con la voce le folate di un’orchestrina,Marta ricominciò a parlare:

«Quell’uomo l’ho trovato poi, sai».Mi chiese una sigaretta, non osai rifiutargliela, pren-

demmo a fumare entrambi a larghi sorsi, fra un colpo el’altro di tosse, come se ogni boccata fosse un ultimatumdi carbonari al tiranno. Lei mi toccò il braccio, mi sfioròil braccio con un dito, dal gomito al polso:

«Ricordo il suo braccio bruno, un’estate come questa,in una barca. Dondola avanti e indietro, davanti ai mieiocchi, accompagnando un remo che non vedo. Io sonobella, snella, pulita; per metà riversa dentro il canotto,ma coi piedi nel solco della corrente. Guardo una nuvo-la su di me, e quel braccio che s’avvicina, che s’allonta-na. Io non so dove siamo né dove andiamo, ma il lago èbuono attorno ai miei talloni, una bestia con mille ditabuone che mi accarezza. Il mio costume è nero, con unaàncora di filo d’oro nel petto. E lui mi chiama Garan-ce...».

S’interruppe:«Ma tu chi sei, chissà perché ti racconto questo, non

so nemmeno come ti chiami».E aggiunse subito, balbutendo un poco e riparandosi

con una mano la faccia contro un colpo immaginario:

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

65Letteratura italiana Einaudi

Page 69: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

«Non importa, scusami, se è vero che dobbiamo mo-rire».

Una ragazzetta che fa le mosse allo specchio, nient’al-tro che questo.

«Ma poi è vero che dobbiamo morire?» interrogò, emi guardava come se una veletta di garza si fosse frappo-sta fra noi. «Io non ci credo sempre, specialmente la se-ra, prima di addormentarmi, quando faccio pace colmondo e lo saluto: buona notte, vestiti, seggiole, mac-chie sul muro; buona notte, tutte le cose. So in quel mo-mento di essere al sicuro, so che mi sveglierò domani,infallibilmente, coi polmoni nuovi, netti, senza piú i ba-chi che mi ci avete messo dentro a mangiare».

Sorrise, e io sorrisi con lei, fui preso da un trasportod’intrepido, fulmineo amore per lei, tanto che per poconon m’inginocchiai sulla pedana da ballo, per ringra-ziarla di quella vaghezza d’arabesco e falsetto che lei,senza temere il ridicolo, riusciva ancora a dare, sul da-vanzale del buio, alle lacrimazioni della sua parte. Men-tre io... Ma io avevo piú letto libri che vissuto giorni, nelmio cosí fuggitivo, cosí inefficace passaggio lungo lestrade degli uomini.

«Lo amavo, chissà se lo amavo» cinguettò ora, e avevanella voce fatemorgane e moine, quali continuava a det-targliele l’antica abitudine di affascinare. «Era un re, enon c’è piú. Spesso alla mattina faccio un gioco. Vadoalla finestra e, mentre mi curo le mani, lo aspetto. Contofino a cinquanta, fino a cento. Lui non viene e io rico-mincio. Alla fine mi stanco, e tuttavia mi dico: verrà do-mani. Anche se so ch’è un gioco, e che non verrà. Certevolte, però, penso un pensiero sciocco e bello, guardan-do la notte sopra di me. Penso che se uno potesse corre-re piú presto della luce e sopravanzarla e fermarsi adaspettarla in qualche stazione di stella, vedrebbe repli-carsi per intero tutto il rotolo del passato. Mi consolapensare che in un raggio ancora in cammino c’è lui che

66Letteratura italiana Einaudi

Page 70: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

mi bacia e mi parla, e che qualcuno in capo al cielo nonsa ancora ch’è morto».

Era tardi, ci convenne rientrare. Seduti accanto, nellavettura, concertammo senza dircelo di fingerci due sco-nosciuti. Ma quando, alla fermata, nell’atto di suonareinsieme al cancello della Rocca, sentimmo che ci seguivaalle spalle, ago pietoso e crudele, lo sguardo dei passeg-geri rimasti, ci rattrappimmo come adulteri presi sul fat-to.

Allora mi disse d’un fiato, ridendo:«Non è vero nulla, sai. Ti ho raccontato un ricordo

inventato, ti ho raccontato la vita di un’altra».

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

67Letteratura italiana Einaudi

Page 71: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

X

Aveva promesso di venire a trovarlo nei giorni di rice-vimento sotto specie di falsa parente, ma non si vide piú,l’Adele, dopo che fu dimessa e se ne tornò a vivere diborsa nera – latte in polvere UNRRA e farina bianca – dal-le parti dell’Olivella. Il Pascià non se ne dava pace, labestemmiava ogni quarto d’ora: «Caiorda, panzaiarsa,malacunnutta» la insultava da lontano. E a me che blan-damente cercavo di scusarla, dava sulla voce: «Ma sí,dàlle ragione. Come se con le sue panzane non avesse in-finocchiato anche te». Io subito rizzavo le orecchie, spe-rando di apprendere intorno a Marta qualche piú grataaddizione o correzione di testimonianza, e mi buttavoad inquisirlo, sebbene presto apparisse chiaro che avevaparlato a vanvera, un poco per dispetto e un poco perallegria, in accordo col soprannome che s’era dato da sé.Del resto il dispetto gli durò sí e no una settimana, poi lorivedemmo trafficare con un’altra picciotta, poi conun’altra ancora; lo risentimmo nel refettorio, levato inpiedi, rovesciarci sul capo, prima dei pasti, giaculatorieda ridere; oppure, di ritorno dalla libera uscita, illustra-re alla vecchia cuciniera, sportasi ad ascoltare dalla feri-toia del passavivande, le sue ciclopiche turgescenze delpomeriggio, in tram, a ridosso d’una sventurata com-messa di Bellanca e Amalfi. Noi si rideva, senza badaretroppo alle vampe sulla faccia di Adelmo, poi si risalivanelle camere a finire la serata con un liquore alpino, cheprima avevamo fatto fiammeggiare al buio lungamente,in un’illusione di stravizio del tempo di pace. Infine unasigaretta, un solitario, il silenzio e il sonno, quando veni-va. Poiché io, da quando avevo conosciuto la ballerina,m’impuntigliavo a prendere sonno il piú tardi possibile,piacendomi a occhi chiusi pensarla e farle domande eaverne risposta. M’ero affezionato ormai a queste veglie,

68Letteratura italiana Einaudi

Page 72: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

chiamiamole d’amore, di ruminazioni e fantasie d’amo-re. Ore di una lentezza e sospensione che non so dire,con quel viso e corpo ininterrottamente stampato sottole palpebre. E io che lo assedio, lo invado, con carezzealla rinfusa, secondo i modi imparati di fresco, negliamori di guerra, con Sesta, Silvia, le altre. Queste, chissàdov’erano. Di una lo sapevo troppo, avevo visto chiude-re in una cassa, con un po’ di panni, il mucchio di car-bone e calce ch’era divenuta, dopo l’incendio della Bet-tola, e m’ero segnato il posto, all’ombra di un cespugliod’aquilegie, se cosí si chiamavano, mentre contavo le pa-late. Sorte mia e dei miei di procedere sempre in un’ariadi catastrofi: fasce nere al braccio e malocchi dietro lanuca; ostinandoci a vuoto con testate di giovini tonnicontro le maglie della rete, mentre intorno ogni lanciod’arpione solleva spruzzi di schiuma vermiglia. Marta?Ebbene, l’amavo, né certamente meno di quanto avessimai amato. Ma stavolta con una vena di terrore nell’ab-bandono: come chi pascola le bestie un mezzogiornod’estate, e non so che lo turba, e vorrebbe correre allecase, chiamare aiuto, ma nessuno apre, nessuno ha pietàdi chi bussa in quest’ora di ladri.

Poi ci fu quella passeggiata con Sebastiano. Sebastia-no era un fuori corso di medicina, di ventotto anni, mapareva addirittura piú anziano, e mi metteva soggezione,col suo naso forte, e l’acciaio della barba sul mento, e isalti di sinistro umore dopo inerzie di sasso. Del resto mitrattava, e trattava tutti, con una bruschezza ch’era quasiinimicizia, e questo serviva a renderlo singolare fra noi, ea investirlo d’una sottintesa sovranità. Soprattutto daquando avevamo scoperto che non aveva piú nessuno, laconsunzione era un lascito di famiglia, l’ultima sorellagli era morta un mese prima, alla Rocca, dall’altra partedella palizzata.

Ora da un po’ di giorni taluna dubbia frase che gli era

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

69Letteratura italiana Einaudi

Page 73: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

sfuggita, e l’irresolutezza del passo, e la vitrea decisionecon cui ci guardava senza vederci; e altri indizi ancora,che nemmeno indizi erano ma solo aloni e aure di pen-siero che parevano accompagnarlo; tutto questo, dico,aveva indotto i compagni e me a temere che in lui matu-rasse un che di minaccioso e superbo; e a pensare che sidovesse, che io dovessi, poiché gli volevo piú bene deglialtri, medicarlo in qualche maniera, non fosse che conparole. Cosí, per delega di tutti, come lo sorpresi solo,una mattina sul tardi, e miracolosamente arrendevole,m’impadronii del suo braccio e m’indirizzai verso l’an-golo meno educato del parco, dove pruni selvatici eciuffi di serracchi avevano straripato sul viale, scorag-giando i passi ma promettendo, se non comodo, solitu-dine.

La giornata era velata, finalmente, e si respirava, manon c’era da fidarsi, il sòffoco sarebbe tornato subito,coi lupi della controra. Io, nell’attesa e paura d’esso,m’ero fasciato il capo con una specie di turbante e, saràstata la febbre, ma m’ero messo a sudare in anticipo,sentivo già alla pelle incollarmisi le ventose della cami-cia. Dalla borraccia del mio antico equipaggio di solda-to, portata a tracolla, che bevevo a fare? Avrei subito su-dato di piú. Tanto piú m’increbbe che Sebastiano,sciogliendosi da me e precedendomi, come se ci fossimogià accordati sulla destinazione, s’incamminasse sporti-vamente dove la strada s’impennava in salita verso untumulo color ocra, a mezza via fra la capanna delle pro-ve e la cella mortuaria, dal quale si poteva scorgere ilmare. Lui mi camminava davanti, dunque, e si apriva ilcammino con l’aiuto di un ramo a forca, pestando sottoil tacco – se li andava a cercare, lo faceva di proposito – iresti funebri del solleone: pigne sgranate, festuche stri-nate, locuste morte, spine come spade. Un camposantoin abbandono, controfigure del nostro domani. Cosílampanti da spingermi a scansare, girandogli qualche

70Letteratura italiana Einaudi

Page 74: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

metro al largo, l’uomo in grembiule di cuoio, ch’era in-tento a mondare con un falcetto il terreno e di cui, no-nostante sapessi che si sarebbe limitato a chiedermi co-me al solito tabacco e fuoco, paventavo l’ombra aduncae la rapidità di beccaio.

Era la seconda volta, mi resi conto, a distanza di po-chi giorni, che una scena o figura, sfiorata per accidente,mi si colorava di presagio e m’intimidiva, costringendo-mi alla scaramanzia di fuggire; solo che, nell’altro caso,per stornare la cavallerizza, era bastato affidarsi alla do-cilità dell’autista e a un tassametro vertiginoso; mentreora la deviazione costava fiato e pedate in piú e scavavaaltro vuoto fra me e il mio compagno. Vuoto e silenzio:non c’eravamo, infatti, rivolti finora una frase, Sebastia-no e io, lui non so, io in conseguenza di un malumoreper essermi lasciato pari pari trasformare da guida inguidato, ma soprattutto per una povertà, la solita, di co-raggio e di forze. Fu cosí lui a parlare per primo, quandolo ebbi raggiunto sul cocuzzolo del poggetto e ci fummoaccovacciati al riparo d’un muricciolo che faceva spera-re ombra, ove tornassero a prenderci di mira, come pa-reva imminente, le lenti ustorie del cielo.

«Insomma,» mi affrontò Sebastiano «che m’hai fattosalire a fare quassú?».

A un’imputazione a tal punto iniqua non mi seritii diribattere, ma umilmente gli chiesi come stava, e gli dissich’eravamo in pena per lui, e di sfogarsi, eccetera ecce-tera. Disprezzò le mie parole, senza salvarne una sola,ma mi mostrò con un dito la mole del Monte Pellegrinoin fondo, e alle sue radici un orizzonte di mare che, col-pito dal sole (s’era infine scarcerato dalle nuvole e dallozenit lo guerreggiava crudamente, con intenzione), man-dava guizzi di enigmatica luce, piú o meno come un tele-grafo di specchi, quando i genieri si parlano da una col-lina all’altra.

«Lí facevo i bagni da ragazzo» disse. «Avevo i polmo-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

71Letteratura italiana Einaudi

Page 75: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

ni di un palombaro. E ci ho negli occhi la pece dei fon-dali quando, a scenderci, ti senti di colpo tagliare legambe, e non sai se è un gorgo gelato o la forbice di unpesce granchio. Pensa un po’ che loculo da sultani, lí,fra quattro assi d’acqua, lontano da queste pietre focaiee micce e scossoni di terra ballerina... Come?» concluseinterrogativamente, era un modo dei suoi, sebbene ionon avessi interloquito, ma solo sorriso. Il fatto è che Se-bastiano aveva una voce balorda. Con toni rustici e ro-chi, fra cui, a bruciapelo, proprio nei momenti di mag-giore concitazione, scoppiava un tremito, un dubbio,che si propagava alle ultime sillabe, facendole impen-narsi come cavalli alla Croce di Sant’Andrea, sí da susci-tare in chi l’ascoltava il sorriso, e in lui parlante un inta-samento che diventava domanda, quando non siliberava in un’eruzione di sacramenti grandiosi. Per ri-sparmiarmeli gli volsi le spalle, mi spostai di qualchepasso e, bocconi a terra, ritrovando in quell’adesione lafisicità beata di tante soste di fanteria, ai tempi della sa-lute, gli additai a mia volta, dirimpetto a noi, dalle ri-messe ai comignoli, lo sviluppo della Rocca. «Brutta,no?» disse lui e, togliendosi gli occhiali, soggiunse: «È lamia casa, la so a memoria. Sono appunto oggi quattr’an-ni che ci sto, io sono un cronico lento. Ci venni diretta-mente dal fronte, ero qui il giorno che una Fortezza Vo-lante la bombardò, supponendo falsa, voglio credere, lacroce rossa pitturata sulla terrazza. Oppure proprio perfar pulizia, dev’essere brutta anche dall’alto: una caccadi vacca sulla collina».

«Bella rima» ironizzai, senza convinzione. Poiché ve-ramente la Rocca, a guardarla cosí a fil di terreno, obesae nana dietro una schiera di palme, sembrava ben altrodall’escuriale in fiamme che m’era apparso fra le sbarredel cancello, quel tramonto in cui una carrozza mi ciaveva deposto davanti; ma faceva pensare a una carognad’animale o di monumento, dalla cui epidermide uno

72Letteratura italiana Einaudi

Page 76: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

spurgo di doratura colava, lasciando che, sotto, tutti idissesti e le carie dello scheletro si denudassero ad unoad uno. Gli stessi aggetti delle verande, se mai eran riu-sciti a fingersi giardini pensili o camminamenti di ronda,affioravano ora dalla rutilanza di pomice e mica comeballatoi fatiscenti, donde galeotti a righe, appoggiati allealtre righe di un’inferriata verticale e nera, si protendes-sero.

Mentre col fazzoletto salutavo, senza aspettarne ri-sposta, e solo per bizzarria, le sagome rimpicciolite,«Quattro candeline,» riprese Sebastiano «non è una ri-correnza da festeggiare? Banchetto di compleanno perbacilli a concilio. In onore del loro Decano e Papa, SuaSantità Verme Numero Uno. Grande un cinquecentesi-mo di millimetro, ma boffice e vitale come quando lo re-spirai la prima volta. Chissà come giunse fino a me, conquale sputo di vecchio o bacio di puttana o spora divento, vallo a sapere. Impollinazione antropofila o im-pollinazione anemofila... Che volo, però, da una polverenella carraia alla mia glottide compiacente!».

Boh, si stava sgelando, e il discorso era abbastanzaperegrino per non dispiacermi. Né mi disturbò che suo-nasse pieno di maiuscole nella sua voce. Ho sempre avu-to un debole per le maiuscole. Meno mi piacque il riso agarganella che lo seguí, e a cui feci eco fuori tempo, persemplice convenienza. E intanto lo guardavo. Dovevaavere avuto un rialzo di febbre, gli occhi erano spiritati eneri, di scorpioncino. O forse era un cedimento dei ner-vi, Sebastiano vi era soggetto, né escludevo una gocciadi atrabile nel suo sangue da quando avevo letto, primache me la strappasse dalle mani, l’introduzione-sprolo-quio della sua tesi di laurea, mai finita, sulle piaghe dadecubito.

«Ho detto un bacio» riprese, alterandosi, «solo perbluff e millanteria. A dirti proprio come stanno le cose,sono vergine».

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

73Letteratura italiana Einaudi

Page 77: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

«Per quello che hai perso» tentai di consolarlo, im-pulsivamente, e intanto mi sorpresi a pensare se quellaconfessione che a lui, c’era da giurarci, sembrava tragi-ca, non lo fosse poi veramente; e se dolesse di piú, do-vendo morire, la punta di nostalgia, in me, dei pochi go-duti piaceri, oppure la pena sua di averli solo sognati.Sicché, quando aggiunse, combattuto fra imbarazzo einsolenza: «Intendiamoci, non voglio che tu mi sia ami-co; se ti parlo, non è per sentirti parlare, ma per impe-dirtelo», non gli risposi, come avrei voluto, che aveva fintroppo aspettato ad avere pietà di sé, ma tacqui e mi tur-bai, pensando attraverso quali svolgimenti di degrada-zione ci trovassimo lí nella luce noi due, cosí giovani, adesser divenuti spettatori inetti di noi stessi, senza aver laforza di opporre altro che bende di vanità all’aggressio-ne dell’idea della fine. E me ne venne, verso entrambi,una sorta di rabbiosa tenerezza, come un cociore che misaliva dal fondo della gola ed era, incomprensibilmente,simile a una felicità.

«Peccato» disse piú tardi Sebastiano, e con gli occhimi mostrò la luce. Alzai le spalle. Ricominciò: «Mi pia-cerebbe avere un figlio. Che dico? Una memoria qua-lunque in cui sopravvivere. Ma non ho nessuno. Voistessi, tu, è questione di mesi. Voglio cercarmi uno, unbambino per la strada, per lasciargli una traccia lunganegli occhi. Gli darò uno schiaffo, gli dirò un’oscenità,una bestemmia di quelle che non si scordano, Vogliodurare cinquant’anni ancora dentro di lui».

Conoscevo quella solfa, era di moda alla Rocca venirea piangere sulla mia spalla, ma da lui non me l’aspettavo,e dunque con una certa brutalità: «Una donna, di que-sto hai bisogno» gli dissi, e mi vantai: «Io ne ho una, civuole poco». E dopo un poco: «È Marta, sai, la bellissi-ma che ballava». E dissi questo perché alla Rocca tuttisapevano che m’ero incapricciato di Marta, ma nessuno

74Letteratura italiana Einaudi

Page 78: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

che fossi uscito con lei, e, insomma, a qualcuno volevodirlo.

Mi guardò curiosamente: «Era amica di Assunta, leteneva le mani quando è morta. Assunta era mia sorellae stravedeva per me. Anche Assunta diceva che unadonna m’avrebbe aiutato, e ogni volta che l’andavo atrovare mi offriva una delle sue amiche. Marta, no. Midiceva di starne lontano».

«E tu?».«Oh io volevo solo una grassa, una sana, che m’inse-

gnasse, prima di morire. Non una come me, da tossirciinsieme. Del resto mi sarebbe sempre mancato il corag-gio. E ora è troppo tardi. Ma che importa tutto questo aun uomo la cui moglie è vedova?» concluse, con la face-zia ch’era in uso fra noi, a derisione di chi incappavanella topica di discorrere del nostro futuro come se fos-simo vivi.

A questo punto mi venne a mente che avevo finoratradito il mio compito di samaritano, e m’accalorai:

«Ma siamo vivi! In questo istante sei vivo. Guarda laluce, come ti grida nelle pupille. Sei vivo e non è stupe-facente? Qui e ora, nel buco d’aria che riempi col volu-me del tuo corpo, e che possiedi tu solo nell’universodegli universi, non sei forse Dio? Questo è il miracolo,questo è il mistero!...».

Ero andato sopra le righe e mi puní sull’istante: «Gio-vinezza, giovinezza, primavera di bellezza!» intonò amezza voce, e soggiunse: «Non conoscevo quest’altrastrofe. Scrivimi le parole, voglio cantarla a Natale, al mi-crofono della rivista, vestito da Milite Ignoto!».

Allora tornai a tacere, abbastanza mortificato, e stan-co, anche, di vederlo giocare a pari e a dispari con le duemetà di sé, la fatua e la dannata, artefatte entrambe, co-me tutto era artefatto, perfino il silenzio, in quella speciedi sala di vigilia e d’aspetto dove la sorte ci aveva fattoincontrare. Cosí restammo per un pezzo, finché lo intesi

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

75Letteratura italiana Einaudi

Page 79: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

ridere da solo, ottusamente, e mi accorsi che gli stavasuccedendo qualcosa. S’era levato in ginocchio e, curvosu un monticello di formiche, aveva preso a recitare conloro non so che parte di Fortuna o Destino, ora facen-dole impazzire, ora rinsavire e ricomporsi in esercito, etutto questo con la sola estremità di un fuscello.

«L’hai detto tu, sono Dio» disse, e col pugno chiuso,affondato nel terreno, sconquassò cripte e crateri, la-sciando al loro posto una fistola nera, in fondo alla qua-le uno sterminio di zampine e d’antenne miseramente sitorceva.

«Dresda o Nagasaki, voilà» mi disse, volgendosi frat-tanto a un lombrico scuro che catturò e stordí sottoun’unghia, e gli punzecchiava l’addome, lo issava sullavetta di uno sterpo per farlo poi indi piombare di botto.Infine, con un rapimento, improvviso, estrasse un fiam-mifero, gli diede fuoco.

Non potei che dargli un pugno, udendo lo sfrigolíodegli anelli che s’incendiavano, senza avere però respironé voglia di contrastarlo, quando mi s’abbrancò addossotrascinandomi a lottare nell’erba. Fu lui a lasciarmi, marimase, mentre io mi stropicciavo gli abiti, a fare atti disconsolazione, picchiando capo e pugni contro il suolo egemendo gutturalmente. Una scena penosa.

Fu fortuna che in quel momento, inopinatamente,gocce larghe e rade di pioggia, calde come gocce di pe-ce, cominciassero a caderci sulla testa, obbligandoci adivallare e a cercare riparo insieme sotto la tettoiadell’obitorio, prima, e poi, quando ne fummo scacciatida una zaffata di miele marcio, che esalava, benché se-polto sotto lingotti di ghiaccio, l’ultimo morto della not-te, sull’altro versante del poggio, a ridosso del padiglio-ne-teatro dove il Magro preparava in segreto i figurantidei suoi spettacoli. La corsetta sotto la pioggia aveva fi-nito di stremarmi e, soffiando, con un grido di clacsonche mi squillava dentro le orecchie, m’abbandonai con-

76Letteratura italiana Einaudi

Page 80: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

tro la porta. Fu Sebastiano ad accorgersi che cedeva sot-to la spinta dei dorsi, era chiusa solo a metà. Non restòdunque che entrare, di nuovo federati, e in qualche mo-do riconciliati, dalla fatica di or ora e dal comune impul-so di esplorazione, a cui il grande ambiente offriva equa-mente le sue penombre, stipate di scene e casse percostumi e sacchi di iuta e attrezzi di giardiniere. Nessu-na presenza umana, d’altronde. Non fosse che in un re-cesso, dietro una piramide di corde, un giaciglio a terrac’insospettí, gualcito un poco da una pressura recente dimembra, e inoltre sparso di mucillagini e capelli, comeun letto di nozze abbandonato all’alba. Ammiccai a Se-bastiano, per darmi un contegno. Ma intanto volgevo gliocchi qua e là, disordinatamente, mentre un becco dibestia – un sospetto, che so, una gelosia – mi venivamordicchiando il cuore. Sebastiano, fu peggio. La facciagli si cangiò in una maschera losca, come di un bambinoche piangerà fra un istante, mi volse le spalle, e mor-morò: «Quando mi rubano tutto, voglio pure regalarequalcosa».

Non capii cosa volesse dire, ma gli misi lo stesso unamano sulla spalla e pietosamente gli dissi: «Ti passerà».

Al ritorno, sulla soglia del refettorio, ecco Adelmoche m’aspettava, con una lettera di Marta. Aveva decisodi rivedermi, l’appuntamento era per la domenica dopo.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

77Letteratura italiana Einaudi

Page 81: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

XI

Quella domenica 18 agosto è, fra i giorni della mia vi-ta, uno dei tre o quattro che mi recito da cima a fondo,quando voglio cercare di raggiungere l’estasi di riviver-mi. Mi spiego: io col passato ho rapporti di tipo vizioso,e lo imbalsamo in me, lo accarezzo senza posa, come ta-luno fa coi cadaveri amati. Le strategie per possederlosono le solite, e le adopero tutt’e due. Dapprincipio mivisito da forestiero turista, con agio, sostando davanti aogni cocciopesto, a ogni anticaglia regale; bracconiere diricordi, non voglio spaventare la selvaggina. Poi mettoda parte le lusinghe, l’educazione, lancio a ritroso den-tro me stesso occhi crudeli di Parto, lesti a cogliere e afuggire. Dagli attimi che dissotterro – quanti ne ho vis-suti apposta per potermeli ricordare! – non so cavarepensieri, io non ho una testa forte, e il pensiero o mi spa-venta o mi stanca. Ma bagliori, invece... bagliori di lucee ombra, e quell’odore di accaduto, rimasto nascostocon milioni d’altri per anni e anni in un castone invisibi-le, quassopra, dietro la fronte... Sento a volte che baste-rebbe un niente, un filo di forza in piú o un demonesuggeritore... e sforzerei il muro, otterrei, io che il NonEssere indigna e l’Essere intimidisce, il miracolo del Bis,il bellissimo Riessere...

Riessere, this is the question. Poiché non c’è gesto oscongiuro che non deluda, e quel tanto che riesce a ripe-tersi sotto le palpebre, nell’atto stesso che illumina, ac-ceca. Alla fine mi lascia solo parole. E tanto peggio sesono le stesse, grasse umide calde, di cui mi farcisco orae mi farcivo allora la bocca, incerto fra nausea e ingordi-gia, come chi recita la prima volta. Appoggiandomi coni due gomiti sull’inferriata del mio sequestro, spenzolan-domi a guardare giú in basso il brulichio, l’argento vivo,la ringhiosa e innamorante canea della vita. Allegrie, fa-

78Letteratura italiana Einaudi

Page 82: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

sti, gonfaloni, lacrime, infamie, e le impunità insperate,le pene spropositate, tutte le guerre e i processi di dolo-re contro dolore... Metafore, forse, ma non sapevo diche, e casuali, se nessuna divinità le aveva preparate opreviste, se di ogni accidente e sostanza il cinema si can-cellava a vista d’occhio, spruzzaglia d’acquazzone altret-tanto presto caduto che sciolto... Non mi restava chebandire l’asta, offrirmi a chiunque in vendita, da ciarla-tano eloquente e magnanimo: madamina, il catalogo èquesto... (Con tutto ciò, capace ancora di concupire,smaniare, agire. Pronto sempre a divincolarmi, pur conun piede o due nella fossa, perseverando nel movimentoa rischio di stringermi al collo di un altro punto il cape-stro che mi ci avevano imposto...).

Mi radevo dunque in maglietta, quel mattino di belladomenica, specchiandomi approssimativamente nellavetrata della veranda, e fischiettando insieme, con di-sturbo di tutti, un Verdi di scherzo o follia. Né avevoevitato, durante la notte, di svegliarmi dieci volte a con-sultare la sveglia fosforescente sulla mensola, e di sogna-re lei, negli intervalli di sonno, come l’avevo vista la seradello spettacolo, in quella figura d’elevazione che i bal-lerini chiamano ballon, vale a dire una mongolfiera chebalza in aria e va su. Visione ch’era venuta facilmente aconfondersi con altre mie, di Pasque infantili al paese:quando da una spalla di mio padre vedevo in cielo levar-si ondeggiando cammelli a colori, femmine incinte, bottipanciute, uno squadrone di cartaveline velivole, nutritedi fuoco, che un debole vento, come aquiloni, succhiavaverso una nuvola...

Mi sbarbai, dicevo, non senza spargimento di sanguee gloriosi cerotti maschili; indi mi avviai per andarmene,dedicando appena un brivido senza pietà al voluminosoferetro dalle maniglie di rame che su un carrello spinge-vano, lungo il corridoio, le morbide mani di suor Casi-mira. Il morto che l’avrebbe occupato non era dei miei,

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

79Letteratura italiana Einaudi

Page 83: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

della mia cosca, e piú svelto procedetti quindi a raggiun-gere appié della scalinata il gruppetto in libera uscita.Troppo svelto: tanto da sbattere in pieno contro le scar-se ossa del Magro e fargli cascare a terra le lenti che sta-va pulendo col fazzoletto. «Hai fretta?» mi chiese, men-tre raccoglieva la stanghetta staccata, insistendo poi,dopo un mio equivocabile mugolo: «Sí o no?». Presonella tenaglia dei due monosillabi, optai per il piú corte-se, di malavoglia peraltro, e con la riserva mentale che almedico non avrei concesso di trattenermi piú di qualcheminuto.

«Puoi fare» mi disse «una cosa per me in città? Bastascendere al porto», e si aggiustava frattanto sul capo lamozzettina da usuraio, di seta, squilibrata dall’urto.

«Purché non mi porti via troppo tempo» feci freddo,e tuttavia ringalluzzito per quella specie di ulivo che pa-reva porgermi, dopo tante settimane di sostenutezza e discrezio; e incuriosito, anche, dalla richiesta, stante che,nel caso di un mio precedente permesso, la commissioneera stata delle piú rare: di fare lo spione, giú alla Marto-rana, all’uscita dalla messa di mezzogiorno, per riferirglipoi di sua moglie, com’era vestita, e se rideva, se dava ilbraccio all’amante.

Stavolta no, la voce che mi curvò all’orecchio, quandogli chiesi «Che cosa?», non fece che ordinare «Búttati inmare», con cosí chioccia facezia e rancorosa golosità dilite da non lasciarmi altro scampo, poiché correvo a unconvegno d’amore, se non di replicare senza fantasia«Búttati tu», scappandogli cosí dalle mani.

Alla porta Carabillò, il vecchio guardaporta, che ama-va proverbiare all’antica: «Va’, va’», mi disse «petrasmossa nun pigghia lippu», e io me ne andai sorridendo,dicendomi che il forte muschio che m’era cresciuto so-pra il sasso dell’anima, ci voleva altro che una corsa set-timanale in città per scrostarlo. Ma intanto che mi diri-gevo alla fermata del tram, non potei che intenerirmi

80Letteratura italiana Einaudi

Page 84: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

alla vista d’un giovinetto, disceso appena da una vettura,il quale titubava, ed era certo una recluta del nostro con-vento, venuta a dare il cambio a quella salma in uscita,tanto era lo strazio con cui reggeva una valigia uguale af-fatto alla mia, e sulle spalle il peso della sua giovinezzacariata, l’ingombro d’una montagna che frana. «È quiche si entra?» mi fece con voce biondina e ansiosa, e iocondiscesi col mento, lo lasciai davanti al cancello, colsuo baule appeso a una mano, e nell’altra, ingenuamen-te, le carte dell’ammissione, una busta giallognola, gon-fia di anamnesi, diagnosi, prognosi...

Aspettare una donna... C’è un piacere nell’agonia diaspettare chi non arriva, una passione abbastanza catti-vante, che rassomiglia al gusto di perdere al gioco, ungettone dietro l’altro, un minuto dietro l’altro. E di que-sto piacere insaporivo ora le mie fantasie, appoggiando-mi a un muretto di CHI L’HA VISTO?, con foto di militari,mentre il tempo passava e Marta non si vedeva, lí, pres-so il chiosco di bibite e granite, dove secondo promessam’avrebbe dovuto raggiungere.

Non si vedeva, e io pensavo, con un acido orrido acu-leo di bramosia, alle sue membra emissarie d’umori, aisuoi sputi, colaticci, sudori, lacrime, essudati, ai suoiprofluvi d’emorroissa dannata, alle sue emottisi trionfa-li. Che strano innamorarsi di un corpo che mangia, se-cerne, si svuota: denso di villi, papille, isole del Malpi-ghi... Nomi del mio liceo di anteguerra, che mi ripetevoora, recuperandoli al di sopra del frastuono degli anni,per servirmene a investigare la geologia di quell’umidosepolcro di carne, con la solerzia d’un generale che sicurva, alla vigilia dell’invasione, su una carta di territo-rio nemico...

Cosí assorto, mi sorprese infine vederla d’improvvisoattraversare la strada, e non solo per i modi cauti delpasso, e il voltarsi due volte a guardarsi le spalle, ma so-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

81Letteratura italiana Einaudi

Page 85: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

prattutto perché pareva sbucare da una direzione chenon m’aspettavo, da un ronco laterale che non si capivabene di quale itinerario costituisse lo sbocco.

«Ho fatto il giro lungo» si scusò. «M’è toccato buscarel levante por el poniente» scherzò. «C’era in tram Pan-zera, l’anima nera del dottor Grifeo, e mi osservava, hoavuto l’impressione che mi seguisse».

Notai di sfuggita che non aveva chiamato Magro ilGran Magro, mentre feci piú caso assai alla vesticcioladi organza color gridellino, a pois bianchi, da cui lebraccine esangui, nude, sorgevano, e lo zampillo del col-lo, e il volto, non so se piú fiero o sonnambulo, con lepupille come timorose farfalle, e le labbra a falce, gon-fie, da cui, qualunque cosa dicesse, una musica parevaudirsi di antica pavana.

Che copertina di eleganze, pensai, sopra un tale qua-derno di escreti e fradici stagni, quanto mi repelle,quanto la amo. E la presi per mano, la trascinai quasi acorrere con me sul marciapiedi. Lei protestava, rideva,per un po’ si lasciò portare, infine fu colta da un accessodi tosse, e mi costrinse a fermarmi, a sedere al suo fian-co, all’uso dei ragazzi, su uno scalino di chiesa.

S’accorse in quel momento che un tacco era sul puntodi saltarle via, e se la prese con me, m’ingiuriò per que-sto, senza smettere di tossire e di ridere, e premendosiogni momento sulla bocca un fazzoletto di battista conuna cifra in ricamo che non era sicuramente una Emme.Non ci casco, troppi indizi e troppo in mostra, mi dissi,da lettore usuale di gialli. Subodorando che, col fined’una burla o d’un losco progetto, ma forse solo per far-si meglio ammirare, lei volesse convalidarsi ai miei occhieroina di perversioni e misteri, quale s’era forse fino a ie-ri piaciuta in un fumo della fantasia. Meno che mai cre-detti al granello di polvere bianca che si mise subdola-mente nella narice, traendolo da una bustina in borsetta.Non ci credetti, ma casomai tanto meglio: sarebbe valsoa darle lo slancio...

82Letteratura italiana Einaudi

Page 86: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Urgeva frattanto rimetterle la scarpa in sesto; benchélei si vantasse subito disposta a procedere scalza in aria,levitando sul lago d’asfalto, da Titania o Peri, scegliessiio: «Cammino sull’acque, io volo» proclamò. «Sono abi-tuata a fare miracoli!».

In quanto a me, piú in prosa, m’allontanai a piedi, lalasciai seduta i pochi minuti che mi ci vollero per andarea chiamare il ciabattino del quartiere, nella casupola si-nistrata dove teneva letto e bottega, lietissimo di guada-gnarsi, foss’anche giorno di festa, i pochi soldi dell’ope-ra. Fornendo gratis, mentre lavorava all’aperto, la giuntadei suoi monologhi di filosofo spicciolo, insalivati dallavanità di versarli nell’orecchio di una cosí attraente stra-niera. Uno d’essi la divertí, una storia di Firrazzano o al-tro furbo, non ricordo, quando voleva mettere il salesulla coda della morte e la fece scappare via. Ma si acci-gliò, appena io chiesi all’uomo se aveva un pugno di saleda regalarci. Poi volle che andassimo a guardare – ben-ché distanti – il Teatro Massimo e il Politeama, di cui ac-carezzò con la mano il portone come si accarezza unaguancia.

Le mostrai le colonne su in alto. «Sono scolpite nellapietra del mio paese» le raccontai. «Fu mio nonno, cheaveva una cava famosa nell’isola, a portare qui le molibianche da lavorare. Attraversò tutta l’isola, da un capoall’altro, su un congegno per piramidi, di corde e rulli,trainato da dieci cavalli. E si aprirono tutte le fine-stre...».

Anche questa storia le piacque, ma, volubilmente:«Non m’incanti,» disse «ho avuto ciceroni piú bravi, da-vanti a teatri piú belli. Né mostravano quel lampo chemostri tu, d’impazienza e di voglia nera negli occhi». Siaccorse di avermi offeso e mi prese a braccetto.

Cosí girovagammo ore, e lei sembrava resistere, seb-bene avesse una qualche febbre, alle fatiche della pas-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

83Letteratura italiana Einaudi

Page 87: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

seggiata. Dalla quale, anzi, ora traeva stimoli di semplicesvago, ora occasioni a sforzare (era un suo vezzo) qual-siasi oggetto oppure evento, finché diventasse un emble-ma. Come quando da una bancarella scelse e mi regalòdue volumi che le parvero fare al caso nostro: uno, sciol-to e bisunto, di un Mattia Naldi, che parlava della pestee dei modi di guardarsene nell’anno Domini millesei-cento e rotti; l’altro, che conservo e ho qui davanti, di unanonimo dell’Ottocento neonato: Guida per la Real Casadei Matti in Palermo, scritta da un frenetico nella sua con-valescenza, Stamperia degli Antichi Muratori...

Giunse cosí mezzogiorno, e cercammo una trattoria,dove, sospesa su una portata, e squadrando il cucchiaioche teneva in mano, Marta ricominciò a parlare, adagio,fra due puntate di tosse:

«Sí, l’analisi mi rassicura, dicono che fanno uscire so-lo i puliti. Eppure io sento, io so, che ogni mio fiato è unveleno, che tutto quanto tocco o mi tocca s’infetta. An-che quello stipite del Politeama, poc’anzi. Anche questaposata. E sento, so, di spargere e ungere dappertutto lamorte, su intonaci, tovaglioli, orli di piatto. A volte miviene un’idea: di usare di proposito un tale onnipotentepotere d’incubazione e di semina; mi vedo entrare inuna casa; e sia una casa felice; mi vedo sputare con dili-genza ai quattro canti di ciascuna stanza, su una federa,su un biberon... Chissà, un’idea cosí, col suo intreccio dibambinaggine e nefandezza, che semi l’hanno nutrita inme fino a farla salire alla luce; da quali catacombe e sco-nosciuti Piombi è fuggita... M’incuriosisco di me sempredi piú».

L’interruppi: «Sai come si dice, nel mio dialetto, dareil contagio? Ammiscari, si dice. Cioè mescolare, mesco-larsi con uno. Significa ch’è un travaso di sé nell’altro,altrettanto mistico, forse, di quello di due altre assai di-verse solennità: voglio dire la comunione col sacronell’ostia; e la confusione, su un letto, di due corpi ami-ci».

84Letteratura italiana Einaudi

Page 88: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Cosí dicendo la baciai davanti a tutti, cercai di volge-re in riso e in invito i capricci di rimorso che le turbava-no il pensiero: dopotutto eravamo lí insieme per dare ef-fetto a una cosa d’amore. «Macché amici, ogni volta perme è un cimento che mi fa male, e di cui sconto in anti-cipo l’esito» mi rispose, asciugandosi risoluta le labbracol tovagliolo. «Dai tempi del casello, da quelle notti. Etuttavia mi piace, oh come mi piace!» esclamò con lepupille illucidite da un ricordo o che so io. Poi si alzò discatto, mi promise: «Piú tardi, lo faremo piú tardi. Enon ti chiederò, come chiedono qui, carte annonarie!Per ora lasciami giocare, voglio giocare in tua compa-gnia un solitario mio di città, non è un solitario da tavo-lo, si fa camminando. L’ho inventato nei primi mesich’ero in città e non avevo nessuno, né amici né amiche.Uscivo di casa, la domenica, entravo nella folla, mi fissa-vo su una persona, solo che mi piacessero le sue spalle,la stanchezza del passo. Meglio se era un povero, unvecchio. Lo pedinavo senza parere, accrescendo ogniMomento di un poco la mia scienza di lui, del suo desti-no, contenta della mia sinecura di spettatrice non vista,insuperbita di poterlo dirigere da lontano, inerme eignaro fra due ali di sordomuti passanti. Di uno giunsiad appurare dove stava, era un ferroviere in pensione,salii da lui, fingendomi una vagabonda che legge la ma-no, era forse uno dei macchinisti che vedevo scorrere viadi notte, in un lampo, sul treno dell’una... La sua stanza,ci credi?, era identica – parati a righe rosa sbiaditi, pavi-mento di pece, piatti sporchi nell’acquaio – a quella che,solo seguendolo e guardandolo, m’ero formata dentro lamente...».

Sicché dovetti accontentarla, giocai con lei a seguireun uomo. E ci condusse, per viuzze e vie, fino al porto,quasi volesse ricordarmi la mala esortazione del Magro,sebbene né io a questa pensassi menomamente di obbe-dire né l’uomo potesse in qualche modo apparirmi un

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

85Letteratura italiana Einaudi

Page 89: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

ambasciatore spedito da lui per tentarmi. Era invece conevidenza un sensale di porto, dall’aria metà sfiduciatometà guerriera, e portava una maglia alla marinara, cal-zoni rimboccati su due caviglie marrone di sole, cammi-nava a piccoli balzi animali, lo perdemmo subito nellaressa della pescheria. Del resto lei s’era già stancata, se-dette su una bitta del molo, senza smettere perciò diparlare, parlava come chi racconta i suoi sogni o le vi-cende d’una visione.

Ora io, che pur incappo cosí spesso nel medesimo vi-zio, sopporto poco chi racconta i suoi sogni. Ma con leiera diverso, e l’ascoltavo amorosamente. Era come se leimi delirasse al fianco, referendaria di un al di là, dissi-pando nell’espanso delirio un subisso di monologazioniorecchiabili e artificiate, le stesse che amiamo nei dischidi canzonette o nelle querimonie dei poeti. Trucioli era-no, i suoi discorsi, trucioli d’oro finto, un piumaggio chesi spiuma, un pulviscolo di perline e minuzie d’una de-tronizzata dama di cuori, sotto il quale s’intravedeva –male ma s’intravedeva – l’implacabile osso della morte.Quello al quale volevo arrivare, non potendo altrimenti,con la spada curiosa del sesso...

Devo aggiungere ch’erano soprattutto le sue movenzea sedurmi? E che indovinandole ligie a una musica a cuitendevo inutilmente l’orecchio, mi veniva spontaneo in-titolarle col titolo d’un balletto immaginario? Fatto stache, soccorrendomi la cornice del mare alle spalle di lei,ch’era d’un blu mitologico, mi venne in mente Sirena, ladonna pesce, la donna uccello, nascosta sotto gli scogli,di cui sul traghetto avevo raccontato la favola ai contadi-ni compagni di leva. Trovandoli creduli al punto da in-ventare che ormai l’avevano catturata, e stava a Napoli,in una grande vasca d’acquario...

Sirena, Siren, o non piuttosto Charybdis, l’orca disquame e spine, la micidiale orca marina? No, forse solouna poveraccia al bando, una famelica solitudine che mi

86Letteratura italiana Einaudi

Page 90: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

tossiva vicino. Alzai gli occhi: la camionetta dei finanzie-ri avanzava adagio lungo la banchina, come per schivareuno scasso del lastricato; quando ci passò davanti, vidisulla testa di uno in piedi, là sopra, ammanettato, un’in-credibile paglietta rossa, un solecismo fra i chepí deglialtri, ma che aveva l’energica esistenza e la letizia di unfiore. Marta lo accompagnò con una specie d’invidia ne-gli occhi e il prigioniero ricambiò lo sguardo, si volsenon senza sfrontatezza e allusione a fissarla, finché lavettura non fu scomparsa alla curva dei silos, lasciandosidietro un odore di nafta cattiva.

«Hanno preso un contrabbandiere» commentò lei.«E noi che viviamo di frodo, e trasportiamo una mortedi frodo, nessuno ci perquisisce». E ricominciò, perquell’odore, a tossire, ma convenne ch’era sempre me-glio del tanfo d’emulsione e cripta, su alla Rocca, quan-do ci si spoglia dietro il paravento, nel Gabinetto deiRaggi.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

87Letteratura italiana Einaudi

Page 91: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

XII

Finalmente andammo in una camera a ore.

Stesi l’uno accanto all’altra, dopo il piacere (solo mio,non d’entrambi, mi parve), una luce senza vigore, goc-ciolando dal cartoccio di giornale avvolto attorno allalampada, ci si smagliava addosso in matasse e garbuglitremanti, con effetti di lanterna magica che bastava lamia mano a turbare.

Cautamente mi sollevai, scavalcai il trascurabile invol-to del suo corpo, raggiunsi fra letto e muro la radio mili-tare, lasciata forse in pegno alla tenutaria da qualche ca-porale americano in bolletta. La canzone che ne sgorgò– l’indice della stazione era fermo su Tunisi – parlavafrancese; una voce di ragazza, a bassissimo volume, erafelice dirimpetto a noi, al di là del tenue braccio di mare,e sporgendosi dal rettangolo di luce, tutto numeri e no-mi, ci chiamava a dividere giovinezza, salute e speranza:

Un monsieur que je ne connais pasme prendra un soir dans ses bras...

Guardai Marta. Giaceva col lenzuolo sugli occhi: av-versaria o assente. E allora tornai a stendermi lungo ilsuo fianco, m’assopii, la sentii nel dormiveglia rizzarsiun momento per tossire; poi curvarmisi sopra conun’asma materna, da far pensare che volesse dirmi unacosa e non osasse, mentre era chiaro che non aveva altracarta, quella era l’ultima che le restava.

Subii sulla fronte quel soffio come una tiepida, fretto-losa razzía che, se mi scosse un poco, non bastò a strap-parmi dal fondo di burrone dove un primo piano di vec-chio mi fissava; una serpaia di rughe fra due lembi dibavero; e mi faceva segno d’andarmene, si curvava a rac-

88Letteratura italiana Einaudi

Page 92: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

cogliere ai suoi piedi con mano pigra una pietra. «Chisei, che vuoi?» gli chiesi nella mente, mentre, senzaaspettare che mi rispondesse, riaprivo gli occhi, ricupe-ravo il mio nome, il mio peso, il mio tempo, la mia cuba-tura d’aria dentro la stanza. Ma la musica pronunciava lesue ultime battute, non era passato che un minuto, dun-que.

Ora lei s’era rimessa supina e sembrava guardare conostinazione un punto del lenzuolo ai suoi piedi, dove dauno strappo della tela un alluce di cera infantilmentesbocciava, sola nudità visibile, insieme al volto e alla go-la e alle braccia aperte in forma di croce.

«Baciamoci sulle labbra senza paura» disse poi. «Pos-siamo farlo». Ma io mi strinsi solo di piú contro di lei,insinuai una mano sulla sua pelle, cercai le lane dell’in-guine, le timide eminenze del grembo e del seno, se maipotessi aprirmi la strada sino a stanarlo, il gheriglio dimale che nascondevano sotto di sé.

«Da quanto tempo un uomo non mi toccava. Ricordosolo un orecchio freddo sulle mie costole, il mattino chegiunsi alla Rocca».

Diceva la verità? Se n’era stata in salvo dagli uominiper tutti questi mesi, lei che a me, dopo tutto, aveva ce-duto con indifferenza? Esitai a crederlo, ma non persitroppo tempo a pensarci, ora che lei pareva decisa a par-lare e mi sentivo cosí bene disposto all’ascolto.

Ero in quello stato d’ignavia e fiducia dei sensi chesuole seguire l’abbraccio amoroso: quando si vorrebbeassecondare sopra una barca la fluenza lenta di un fiu-me, udendo a poco a poco diradarsi sotto la camicia leintemperanze del cuore. E mi piaceva lasciarmi prende-re dalla lusinga della sua voce, nonostante mi desse penail luogo, cosí ingombro com’era di presenze intruse, daicanterani di legno vile, usati dagli anni, alle specchiere estampe ruffiane, al seggiolone di sparto a trecce, dove

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

89Letteratura italiana Einaudi

Page 93: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

s’agitavano al vento d’un ventilatore i nostri abiti accata-stati, come volessero simulare la siluetta d’un babau distoffa, svolazzante al centro di un campo.

«Per questo» disse Marta «sono venuta con te stasera.Volevo andarmene dal mondo col ricordo di una carez-za giovane addosso, dopo tante carezze di vecchio».

Ahimé, si sforzava poco di non contraddirsi. Ma io,come poc’anzi avevo dubitato fra me e me della sua di-chiarazione di antica astinenza, cosí non mi sorpresi oradi sentirle ammettere, e sia pure per enimmi, quello dicui m’ero persuaso sin da principio: che fosse stata colMagro, per debolezza o speculazione, su quel lettucciodel capannone o altrove... Ebbene, non me ne importa-va. Non m’importava piú della Rocca, dei miei pietosicompagni, ognuno col capo sul ceppo, in attesa; oppureoccupati, con lamette e legacci, a tentare rudimentalisuicidii nelle latrine. Né di lui, di quell’orbo e bizzosoGeronte, un antipapa dalla mitria di cenere, accampatonel ventre della Rocca, come le sue culture di germi nel-le pappe di gelatina. Anzi il pensiero di averlo forse tra-dito mi diede un sussulto di soddisfazione, mentre pas-savo adagio la mano sui capelli troppo corti di Marta.

«E questi?» chiesi solo.«Oh» fece «ne avevo tanti sulle spalle quando giunsi

nella città, nel freddo. Subito odiai la città, i banconi dizinco delle latterie, le scale a elice delle pensioni, i vetriappannati dall’umido, simili a lavagne che l’unghia rigadi segni e il palmo pazientemente scancella. Ancora oggiscrivere sulla nebbia è una ginnastica che mi distrae. So-lo che qui la materia prima fa difetto, e debbo pensarci asuscitarlo io stessa, col mio poco alito, quel visibilio dinuvole e veli, se voglio tracciarvi dentro il mio nome ecircondarlo di piccole croci».

Le piaceva commiserarsi, con evidenza. Senza chequesto le impedisse di cercare, divagando, di depistar-mi. Sicché mi misi in guardia, convinto che avrebbe an-

90Letteratura italiana Einaudi

Page 94: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

cora inventato, ma non dispiaciuto di ciò, poiché anzimi venivano sempre piú innamorando le sue cantilene,le sue ipotesi di vite inesistite.

«Non mi piace il mio nome» disse poi. «Meglio Isa-dora o Fanny. Come la Elssler, la mia dea. O Berta. È ilnome di una signora in un romanzo che ho preso alla Bi-blioteca Circolare. Io ero nata per un destino cosí. Contristezza e decoro. Un marito austroungarico in collettodi lontra, i sabati al concerto, le domeniche al Prater. Loavrei tradito, ne sarei stata infelice. Bello. Di Körmendi»proclamò con tale autorità che non ebbi cuore di cor-reggerla. Tanto piú che ora s’era messa a piangere, effu-sivamente:

«Morire, Dio mio, andarmene. Senza piú estati néballi d’estate. E dei passi dietro la porta del camerino,dei buchè, dei baci, dei segreti che so solo io, piú niente,piú niente... Scusami, è quella canzone di poco fa: un si-gnore che non conosco ancora mi prenderà fra le brac-cia, una sera... Parole che per me non vogliono dire piúnulla, oppure significano un signore vestito di nero».

Andai a spegnere la radio, dove alla musica era su-bentrato un indignato monologo in arabo, e tornando:

«La morte» volli scherzare «non è un signore, ma unadama senza naso, ed è morta, le bombe dei bombardieriinglesi l’hanno sotterrata nel cortile di un vecchio palaz-zo, di fronte a Villa Bonanno, dove su un muro una ma-no d’ignoto la dipinse cinque secoli fa».

Scosse il capo: «Sai bene che non è vero, l’affresco s’èsalvato. L’ho letto sul giornale, c’erano le foto. Non lei,è Marta ch’è morta. Marta morta, elementare cambio divocale, da Angolino della Sfinge, nella pagina dei giochi.Sono morta, un pezzetto per volta. Quel che rimane èun soffio, una brezza glaciale, un poco d’aria remota,come quella che i crociati riportavano dal Santo Sepol-cro dentro un’ampolla di vetro: un niente incartato inun niente. Vuoi sapere a chi rassomiglio in questi giorni

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

91Letteratura italiana Einaudi

Page 95: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

che sopravvivo? A una folaga impallinata, con monche-rini cerulei che non smettono di sanguinare. E tuttaviasaprò rassegnarmi, vedrai. Finivo sempre con l’alzarmi,le mattine d’inverno, al casello».

«Ma questi?» tornai a chiedere, cocciutamente.

«L’ho visto morire» proruppe, e non capii per unpezzo di chi parlasse. «Ci presero insieme in un sotterra-neo di campagna, scavato dietro la stalla per distillarcidi nascosto la grappa. E loro cercavano nel deposito lagrappa dell’anno prima, per questo ci hanno trovato. Lofecero uscire con le braccia in su, lui trascinava un pocoil piede, per un suo vecchio reuma o incidente di caccia,non mi ricordo. Feci in tempo a guardarlo mentre risali-va la scala di terra battuta, e io lo accompagnavo allespalle. Coi pantaloni borghesi, alla zuava, il collo chiusoda un camiciotto di tela grezza, i capelli attaccati dal su-dore alla nuca, saliva verso la luce, sciancato, spaventatoe smargiasso come un eroe. Era cosí alto, dovette chi-narsi sbucando dal cunicolo, annaspare col braccio perappoggiarsi alla volta, misurando quasi l’aria sopra il suocapo. Rammento, a partire dalla ascella, sul camiciottola stampa bianchiccia del suo sudore, l’odore di volpedella sua paura. Era lui, ora, la volpe circondata fra i fu-cili e i cani, e non gli restava che morire. Andava alto estanco, parve a un tratto che avesse solo sonno e cercas-se un posto giusto nell’erba per il suo corpo troppo lun-go. Io venivo dietro, fra due che prima m’avevano tenu-to i polsi e poi smisero, si staccarono da me sempre piú,finché uno si volse a gridarmi furiosamente d’andarme-ne, che non rompessi piú le scatole. Ma io ero serva del-la mia irragionevole pazienza, e del fruscío che facevano,ogni secondo, nel grano che già spigava, quei passi d’uo-mo davanti a me. E seguii dunque, benché da lontano.

«Varcammo il Ponte del Vecchio Mulino. Mi corse esi perse nella mente il pensiero che non gli sarebbe pia-

92Letteratura italiana Einaudi

Page 96: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

ciuto farsi vedere da me mentre moriva, come non glipiaceva spogliarsi se lo guardavo. E intanto la compa-gnia s’ingrossava: dalle cascine usciva gente e imprecavacontro di lui. Una bambina in sottana mi venne accanto,avida, leggera. Mi chiese chi ero, non so quante volte,poi s’avvilí e tacque, camminandomi al fianco con ariaoffesa, come una anziana dalle calze lunghe. Sudavamosotto il sole, nelle nostre vesti ancora pesanti. Mi dissich’era come in tutti i cortei funebri dei poveri – sebbenestavolta il morto fosse lí, davanti a tutti, alto e tremante– quando si affretta il passo e qualcuno rimane indietro,lo perdiamo per sempre.

«Un latrato ci accompagnò da una roggia, un carroera in riposo presso il ciglione, con le braccia puntate alcielo e, sotto, nel piccolo astuccio d’ombra, un uomoche dormiva, aprí gli occhi, li richiuse. Non si turbò ilcavallo a vederci passare, ch’era legato a una pianta, po-co lontano. Andavamo. Lui si voltò, ma non mi vide.C’era in ogni suo atto, oramai, un segno di sollecitudineirosa, non piú di paura. Come se avesse dimenticato unoggetto e tornasse in fretta in un luogo inutile. Mentre iltreno già fischia, e l’alba è qui, e bisogna partire.

«Pensai che mi sarebbe piaciuto stargli accanto, do-potutto, legata alla sua mano, e aspettare insieme a lui ilcolpo di fiamma fra gli occhi, e il buio, dopo, il balsamofreddo nel sangue, per sempre. Come tutti sono intelli-genti e cattivi attorno a lui, pensai. No, non sono cattivi,sono finti, hanno schioppi da giardino d’infanzia, nonpossono sparare che a salve. E intanto andiamo, e nessu-no si ferma, nessuno dice di no. È un uomo, lui, che nesanno loro. Hanno il palato di carta vetrata, hanno ilsonno che gli mangia gli occhi, devono finire e dormire,e domani ricominciare. Hanno piedi di Cristo, stanchi,sporchi, questa scarpa morde, quest’unghia s’incarna eva in pus, la barba contro la collottola punge. E cammi-nano, camminano. Ecco, io sono rimasta sola, prima

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

93Letteratura italiana Einaudi

Page 97: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

dieci poi venti metri dietro di loro, con questa bambinaavida che trotta al mio fianco. Che vuol vedere? Un uo-mo morto, un uomo nudo? Non sa che veder morire unuomo è piú importante che dormirci insieme?

«Si fermarono sull’orlo del bosco. Vidi il comandantedare l’alt, spostarsi per usare l’ombra di un ippocastano,lo vidi in faccia, ora. Era giovane ma con barba e crini divecchio, dove si scorgevano chiazze spelate, una malat-tia forse o un sigillo, una solenne tonsura. Passeggiavasenza guardare nessuno, dinanzi al plotone, e agitava lelabbra ma non parlava. Ora Andrea stava in piedi, e im-mobile, lo avevano bendato. Una benda immacolata, lasola cosa pulita addosso a lui. Non un fazzoletto, pro-prio una benda da ospedale, fresca, pulita, tranquilla,per chiudergli la vista come si chiude una piaga che but-ta.

«Un vento sorse, mosse l’erba attorno alle sue scarpedi città, egli dovette sentirne la tenerezza sulle mani e sibaciò appena, per berlo, labbro con labbro. Passò qual-che minuto. Non s’udiva piú nulla, neanche quel cane diprima, dalla roggia. Lui parve innervosirsi, alzava il capocome lo alzano i ciechi, non vedeva niente sotto la ben-da. Il comandante si decise alfine, si volse a quelli conun gesto che sembrò stanco, ed essi levarono i fucili,puntarono le canne lucenti. Le loro larghe facce operaie,battute dal mezzogiorno, non avevano ormai piú chenoia e pietà».

Bussarono, ribussarono: l’orario era scaduto. Martacontinuò, mentre si rivestiva, con voce sempre piú tar-pata:

«Sí, i capelli me li tosarono per questo, qualche gior-no dopo, in città. Per essere stata con lui sino alla fine. Edissero che lui aveva fatto una cosa. E che io, un motivoci doveva essere se m’aveva salvata dal lager. Tu non

94Letteratura italiana Einaudi

Page 98: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

chiedermi se era vero, potrei acconsentire. Mentre nonso piú niente, fra me e quei giorni è calata una saracine-sca senza fine. Mi ricordo solo di dopo, del mese che se-guí. Vivevo in una pensione di lusso, soldi ne avevo tan-ti. Ma uscire divenne un’avventura mortale, da quandocontro una colonna dei portici, su una prima pagina inmostra, ebbi riconosciuta una mia foto di scena, Gisellao Coppelia, e dalla voce degli strilloni seppi ch’eranotornati a cercarmi, che ci avevano ripensato. Allora co-minciai a fuggire, è la cosa che piú mi affascina al mon-do. Cambiai abbigliamento, indirizzo, abitudini. Anda-vo confusamente da una pigione all’altra, non durandoin un posto piú di una notte, come suole accadere alprincipio, quando il pericolo è nuovo e la valigia fiam-mante. Poi, e me ne sentii sollevata, mi accorsi che nonsarei mai riuscita a salvarmi e che fra me e quell’uscioch’era la libertà si moltiplicavano ad ogni passo distanzedisabitate, inabitabili, un’Artide senza oggetti. E che perattraversarla mi ci volevano movimenti imperiosi e alle-gri, una bravura che avevo perduto. Continuai lo stesso,si capisce, a cercare gente che m’aiutasse a sconfinare,dazieri, guide alpine, pescatori di lago, e tuttavia i vali-chi e battelli che mi promettevano, non riuscivano adesistere altro che sottovoce, in un retrobottega, una sera,entro un gioco di date e di cifre inutilmente preciso. Co-me precari fantasmi che piú tardi, uscendo nella strada,avrei avuto cura di respingere con la mano verso unorizzonte dubbioso di giorni, un’impossibile domenicadi là da venire. In verità, dell’aria di trappola in cui vive-vo, dei chiavistelli che m’aspettavano a casa, dei trilli ditelefono simili a nitriti d’apocalisse, non avrei saputo piúfare a meno. A tal punto è vero che tutto, perfino la di-sperazione, sa tramutarsi in vizio dentro di me.

«Andare fra la gente fu allora come esporsi a una go-gna terribile e dolce. Camminavo furtiva, maldestra, ri-dotta a lesinare i miei gesti come un prestigiatore invec-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

95Letteratura italiana Einaudi

Page 99: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

chiato. A volte, mentre aspettavo che il semaforo cam-biasse colore, mi bastava restare chiusa fra gomiti e dor-si, ed ecco non sapevo che mettermi a tremare, fosseropure innocenti gli occhi che sentivo posarsi sulla miazazzera scarsa, la mia spudorata flagranza. Finché poi,rincasando alla sera, lui, Andrea, mi aspettava sulle sca-le, seduto su un gradino, e si baciava, come quel giornonel bosco, labbro con labbro. Si faceva da lato, stringen-dosi al muro, per lasciarmi passare, ma esitando, comese appena all’ultimo momento, per un ritegno improvvi-so, avesse rinunziato a parlare. Solo nell’atto di girare lachiave nella toppa, mi lasciavo convincere di non averlovisto, senza per questo voltarmi a cercarne la contropro-va sul pianerottolo vuoto. Quelle volte mi addormenta-vo tardi e con una certa sordida mansuetudine, sicurache m’avrebbero presa nel sonno, sicura e felice che du-rante il sonno avrei veduto la porta aprirsi lentamente,come in tanti film l’avevo veduto, e uomini come cuci-nieri entrare in silenzio, con un’accetta nelle mani guan-tate di gomma rossa. Nessuno veniva, ma svegliandomipensavo: basta; l’indomani sarei uscita presto, mi sareibuttata a terra gridando il mio nome. Seppure non erameglio uccidersi in disparte, senza sporcare, senza bi-glietti nella borsetta, dopo avere abbandonato i bagagliin un bagagliaio. E sarebbe stato il modo piú spiccio dinascondersi e lasciare tutti con un pugno di mosche.

«Infine sputai sangue, e l’epilogo si scrisse da sé».

96Letteratura italiana Einaudi

Page 100: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

XIII

Tali, press’a poco, le parole di Marta. E posso averciaggiunto qualche trucco di crome, ci casco sempre. Mal’intonazione era quella: febbricitante, tenera, pomposa.Un assolo di belcanto, che pareva invocare nello stessotempo applausi e misericordia. Non diversamentenell’isola, nei giorni di fiera, un cantastorie vestito di vel-luto, in piedi davanti a un telone dipinto, bandisce alpopolo che lo circonda i tristi casi della baronessa di Ca-rini; oppure in chiesa, in occasione del lutto piú amaro,un tenore paladino compiange ad una ad una le piaghedi Nostra Madre dei Sette Dolori, e ci conficca la spadaper sette volte nel seno.

Solo che lei, la malata, mentre si lasciava muovere dauna consimile ridondanza di sentimento, dove entrava-no in parti uguali crepacuore e teatro, non per questodava meno l’impressione di aver predisposto ogni ab-bandono con oculatezza e pedanteria; sí da far sospetta-re che, nei suoi volteggi da un trapezio all’altro, nessunrischio di caduta intendesse correre, ma solo indurmi acredere fino all’ultimo che sarebbe caduta.

Ora io so – ora che Marta è scomparsa e il suo nome èsolo una cicatrice nella mia mente – che, cosí giudican-dola, la calunniavo abbastanza, e che nel suo falsificarsicon bussolotti e parrucche il tornaconto entrava per unaassai piccola parte. Piú vero è che lei dal suo passato(unico bene che non fosse ipotecato e malconcio) rita-gliava senza farlo apposta talune privilegiate sequenze,mentre respingeva con tutt’e due le mani in un riposti-glio della coscienza il prima, il dopo, il perché. Ne veni-va un rimpiattino perpetuo fra menzogne e omissioni eammissioni imperfette, quanto bastava a dare alle sueconfidenze un bagliore intermittente e maligno, come diun faro in una sirte, manovrato da un traditore. E dun-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

97Letteratura italiana Einaudi

Page 101: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

que io che già da un po’ per mio conto m’ero sentitopromosso a protagonista di casi altrettanto alteri, avida-mente ascoltavo, ma non senza una curiosità poliziesca, irecitativi e gli a parte del suo concorde copione, destina-to con ogni verosimiglianza a mescolarsi e concludersiinsieme col mio.

Certo, l’ho sperimentato invecchiando, in ogni esi-stenza, anche la meno offerta, si nasconde un germe difinzione e d’allegoria. Ma questo io allora lo sapevo solodai libri, ero poco piú che un ragazzo, e nella vita mimuovevo a tentoni, con le mani cieche di chi, quandol’elettricità si guasta, cerca invano nei molti cassetti diun mobile un mozzicone di stearica dimenticato. Equindi è con sempre maggiore imbarazzo che le presta-vo orecchio, non perdonandole dentro di me nessunadelle tante incongruenze di casi e stagioni; e chiedendo-mi ad ogni momento in virtú di quali mitologie di edu-canda lei si ostinasse a decorare di medaglie, oltre che dipietà, quel barbarossa cavaradossi, dietro il cui martirioprofano una truce patria e mansione si nascondevanomale; e se vi fosse strazio vero o soltanto truffa sottoquella parola, lager, affiorata e sommersa immediata-mente nel fiume delle altre sue mille.

Ricacciai indietro, e fu forse uno sbaglio, le domandeutilitarie, meticolose e crudeli che m’erano venute allelabbra. Umiliarla, mi dissi, significava perderla. E tac-qui, dunque: ma d’ora innanzi sarei stato piú attento;avrei osservato le manipolazioni della donna con sospet-to e rispetto insieme. Come le mosse d’una partita chemi premeva almeno pattare.

Accadde a questo punto, non ne seppi mai il motivo,che lei si rifiutò di continuare a vedermi. Un regalo diprofumi francesi che feci la pazzia di comprarle in città ele mandai col ragazzo, mi ritornò suggellato. E cosí sen-za risposta rimasero i successivi messaggi. Infine Adel-

98Letteratura italiana Einaudi

Page 102: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

mo morí, ne ho già parlato, e ogni tramite di comunica-zione si spense.

Seppi, interrogando con astuzia la caposala, che nonstava peggio del solito e tuttavia non si muoveva piú dal-la sua camera. M’intrigò il pensiero di quell’ulterioreconfino, anche se in certo modo me ne sentivo menomortificato, potendo attribuire il suo disinteresse perme a un piú vasto proposito di negarsi al mondo e allemisere feste del nostro vivere insieme, di tutti noi, dico,lassú alla Rocca.

D’altronde, di una eccitazione diversa ero preda inquelle settimane. Se n’era andata senza preavviso la feb-bre, quel tepore, oltraggio e memento di ogni minuto, emi sentivo stranamente rifiorire, benché il Gran Magro,ogni volta che mi batteva con le nocche sul torace, si ca-lasse sul volto una celata di nume, speculando perversa-mente (cosí cominciavo a credere) sulle tante insidie delsilenzio, al solo scopo di spaventarmi. Da quando, dopola sera della recita, aveva smesso ogni premura verso dime, cercava come poteva di farmi male, benché quellesue ritorsioni di coetaneo mi rimanessero inesplicabili.Contro ogni apparenza mi rifiutavo di attribuire al vec-chio un movente cosí frivolo come la gelosia. Di che,poi? Se io e la sua pupilla (o compagna di letto, o quelche era) avevamo diligentemente evitato che nulla gli ar-rivasse all’orecchio dei nostri convegni; se lei se ne stavalà sopra, quattr’ossa in sudario di percalle, fra tosse esciroppi, a marcire? Che inciampo poteva dargli il mioconclamato e probabilmente platonico invaghimentoper la ragazza? Non capiva che era per me un modo diriempire la bolla vacante dei giorni; di viverli con forza,irrigidendo ogni corda dei nervi in un atto assoluto?Era, per traslato, un no alla morte che io gridavo attra-verso quelle indiscipline focose; tutta una suprema far-macia cercavo nella chimica dei sentimenti, posto chedall’altra non osavo sperare piú aiuto. Senza contare, ma

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

99Letteratura italiana Einaudi

Page 103: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

questo a lui disgraziatamente non avevo modo di farloné credere né sapere, che, in conseguenza dell’odiernalontananza, e col trascorrere dei giorni, in me il caloreper Marta s’era venuto un poco degradando in un mi-scuglio di commiserazione e risentimento: in parte perquesta sua ripulsa senza scuse; in parte per un suo appa-rirmi, dopo l’ultimo incontro, un’icona artifiziosa e fa-natica, che sembrava incarnare in sé ogni suppurazionee insensatezza dei tempi. Devo dirlo? Man mano chem’andavo riattaccando alla vita e germogliavano in mesotterranee, sfibrate speranze, sentivo sormontare in meper lei come uno svogliamento e quasi un’ombra di fa-stidio, se cosí posso interpretare quel conato d’igieneche mi spingeva a sgombrare la mente da ogni espansio-ne e a lasciarla immobile e bianca. Va a capire poi per-ché, stando cosí le cose, mi mordesse tanto di non ve-derla, di non aver potuto dare un séguito a quei nostripomeriggi in città: ore nemmeno tutte felici, di cui m’erarimasto un ricordo tra mellifluo e sazio, come quando siodora per troppo tempo una rosa. Cosí sconclusionato ea me stesso problematico essendo il mio teatrino d’affet-ti, non poté che sorprendermi, e ancora di piú irritarmi,trovare un giorno, rientrando dalla sala di ricreazione,scritte a mano su un foglio di ricettario e fermate con unbicchiere rovesciato sul piano di vetro del tavolo, le pa-role che subito qui appresso ricopio:

O disgraziato Giufà, rinsavisci ormai,e se una cosa è perduta, non stare a sperare che torni.Giorni belli ne avesti, e, si suppone, anche notti.Ora lei piú non vuole. Tu fa’ lo stesso, Giufà;sta sulle tue, non vivere infelice.Lesbia peggiora, ma tu non stai meglio,né fra i vivi sei altro che solamente un ostaggio.Bada: il ludo d’amore alle flussioni di pettonon giova, né ti scherma dall’omicida lombrico,

100Letteratura italiana Einaudi

Page 104: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

m’intendi?, l’omicida lillipuziano girovago(Cfr. RE ORSO, passim, Universale Caddeo).Basta, lasciala in pace. Ché, se mi spazientisco,pedicabo te atque inrumabo.

Non c’era firma, e l’intestazione era strappata, ma lacalligrafia, e il malesalso cibreo, non potevano che ap-partenergli, e dunque, senza che mi trattenesse la diffidadi una suora a guardia del pavimento appena lavato, at-traversai il corridoio e mi diressi a passi veloci e vendica-tivi verso la camera del Gran Magro, odorosa di lisofor-mio.

Se ne stava, con segni d’abbandono, sdraiato su unapoltrona, e questo, conoscendone le abitudini di cammi-natore, mi stupí. Come anche la libertà del vestiario, illivore delle occhiaie sotto gli occhiali, lo schieramentodei flaconi sul mobiletto da gioco che gli serviva da scri-vania. Tutto in verità nel suo aspetto di aggrondato epresbite lemure sembrava mettere in difficoltà il visita-tore indiscreto. Tanto che al suo «Salute», pronunziatocon disamore, non contrapposi il fiotto d’improperi chem’ero portato sulle labbra, bensí un conforme e quasiservile «Salute».

«Oh,» cominciò lui stucchevolmente, senza mutarel’ossimoro ch’era ogni volta il suo esordio, «oh il mioimpaziente paziente. Suvvia, per quei versastri senza ca-po né coda non prendertela piú di tanto. Non era un av-vertimento mafioso, ma uno scherzo dei miei; un prete-sto per inaugurare il verso libero. E soprattutto per farela pace. Ma poi, sei sicuro d’essere tu il citrullo Giufà?Non potrebbe trattarsi addirittura di me? Ascolta:

O misero Mariano, smettila di fare il pazzo,e se una cosa è kaputt, convinciti ch’è kaputt...».

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

101Letteratura italiana Einaudi

Page 105: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

Ridacchiò: «Non è una variante piú cotta?». E ag-giunse, a voce piú bassa: «Mariano kaputt, kappaò, pervia di Lesbia kapò...».

Mi guardai dal rispondere, con lui conveniva aspetta-re. D’altronde, non ci fosse stato altro motivo, ho sem-pre diffidato dei vecchi.

Ma lui: «Potresti almeno sorridere, no?» fece. «Nonti diverto?». E dopo un po’: «Va’ là, ti passerà giocando,togli quelle medicine, metti a posto la scacchiera. Eprenditi pure la mossa, te la regalo».

Eseguii, la collera m’era sbollita, lasciando in sua vecesolo l’agrume di scoprire cosa significasse questamess’in scena e che rapporto avesse con quel nostro sca-leno triangolo, di me, lui e Marta. Quel che ci volevaperché mi distraessi dalla partita; e m’infuriassi, veden-do la sua Regina, col sussidio di un Alfiere alle spalle,penetrare entro i placidi tabernacoli del mio arrocco evenirsi a proporre impudicamente a una triplice presa inG uno, immolandosi sí ma non senza ribadire intorno almio Re un soffocante cemento di pezzi. Tanto da per-mettere all’accorrente Cavallo di infliggermi il piú ironi-co e doloroso dei matti: il matto affogato.

Ma mentre rovesciavo il mio Re, com’è d’uso: «Ube-rius» proclamò il mio avversario, e soggiunse, improvvi-samente meditabondo: «Chissà perché il sacrificio diRegina dà a chi lo compie un cosí equivoco orgasmo,non lontano da quello amoroso?».

«Forse è un piacere da soriano» rispose dopo un po’a se stesso. «Da gatto gesuita e boia. Il quale si diverte aprestare al sorcio una momentanea ilarità di salvezza, elo disinganna poi di botto, vibrando la zampata mortale.Finge atti di pietà e intanto indossa il cappuccio nero».

«C’è piú di questo, suppongo» lo interruppi, e pensa-vo a me, a frate Vittorio, alla nostra riuscita, fallita, ten-tata imitazione della Passione. «C’è il prestigio e l’ideaantica dell’olocausto, quella per cui il Figlio di Dio è

102Letteratura italiana Einaudi

Page 106: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

sceso sulla terra a pagare per tutti, Lui solo; e ancora og-gi qualche laico veggente promette sui giornali la reden-zione perpetua all’umanità che verrà, a patto che una so-la generazione, la nostra, si danni e perisca per tutte».

Il riso fece fatica a forzare le sue labbra, i suoi zigomibigi. E tuttavia affiorò, sia pure in forma di ghigno, e perpoco.

«Figlio di Dio?» fece. «Di un centurione romano,vuoi dire. Sai come vanno subito in caldo le indigene coimilitari in colonia». E fischiettò Ziki Paki.

Ero abituato a laidezze cosí, fiori sparsi di quello chechiamavamo il Vangelo secondo Mariano, e mi vergo-gno di confessare che lo adulai con un’incauta risatina.Andò in solluchero subito, smorfieggiando, e rincarò ladose con Un bel dí vedremo. Poi: «Oh sí,» riprese «nonè che uno dei nostri, un pio galoppino, il rampollo di unpresepe meticcio. E ti concedo ch’è morto bene, senzafrignare troppo. Glorificando il gesto della morte altrui-sta. Gli si potrebbe intitolare un complesso, come m’in-segnavano a Vienna. Il complesso di Cristo. Der Christu-scomplex, suona benissimo, sembra il nome d’unavitamina. Sia dunque santificato l’Agnello pasquale, cosíin cielo come nel bosco, dove, legato a un palo, aspetta iltrinciante del sacerdote. Ma dimmi, conosci la storia deitre ladroni e dei cinque cappelli?».

«No» risposi, anche se era la terza volta che tornava apropormi l’abracadabra, e, quasi per scoraggiarlo dalproseguire, misi a caso sul grammofono un disco. Malui, mentre voci multiple strenuamente coniugavanoPeccantem me cotidie, senza badarci o, tutt’al piú, accor-dando al sottofondo qualche ammicco e lampeggio diconnivenza, «I tre» disse «sono condannati a morte. Daun potente, in un tempo antico. Il luogo, lo preferisci inAsia, in Europa?».

«Importa?».«No, non importa, ma è bene che ti pronunzi lo stes-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

103Letteratura italiana Einaudi

Page 107: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

so. Mettiamo qualche puntello di circostanze alla favo-la».

«Meglio il Vecchio della Montagna che il Grande In-quisitore» risposi, per contentarlo.

«Sia come vuoi, ma da te m’aspettavo Ponzio Pilato»fece il Magro e proseguí:

«Dunque il Signore degli Assassini offre a quelliun’opportunità. Dovranno, ciascuno ad occhi bendati,indossare a caso un cappello fra i tre bianchi e due neriche sono a mucchio sul tavolo. Si salverà chi saprà conragionate ragioni indovinare il colore del copricapo cheha scelto. Avviene che i tre, l’uno all’insaputa dell’altro,estraggano tutti, unanimi, il bianco. Sbendati, si guarda-no. Ora una cosa è chiara: che può salvarsi solo chi vedaaddosso ai compagni due cappelli neri, e possa quindiper esclusione dedurre il colore del proprio. Ma ognunodei tre non scopre sulla testa degli altri che bianco, ine-sorabile bianco...».

«E allora?».«I primi due riflettono a lungo, rinunziano. Vengono

decappellati, decapitati. Ma il terzo indovina. Sta a tedirmi come e perché».

«Se indovino anch’io, posso sperare in una sfinge be-nigna» chiesi, facendomi serio, mentre un sospetto mibalenava, che quell’arzigogolo fosse o pretendesse di es-sere una parabola. E aggiunsi:

«Anche per il mio male vale la stessa percentuale disopravvivenza, lo dicono le vostre statistiche».

(Era vero, l’avevo letto su un trattato di Sebastiano, ene avevo fatto parola a lui e ad Angelo, insieme. «Unosu tre» avevo detto, e ci eravamo sorpresi tutt’e tre aguardarci malinconicamente ridendo e pensando tutt’etre la medesima cosa).

«Non è bassa, contentati. Era piú bassa per Deucalio-ne o Don Blasco» rispose, sbalestrandomi al punto chenon stetti a chiedergli conto di avere schivato la mia do-

104Letteratura italiana Einaudi

Page 108: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

manda di prima, ma chiesi: «Don Blasco?». Al che lui:«Oh, un arcavolo mio di Tarragona, un almirante super-stite dell’Invincibile Armata. Nuotò tre giorni e tre not-ti. Lo trovi dietro di te, sul quinto ramo a destra dell’al-bero...».

E a questo punto richiuse sugli occhi i macigni dellepalpebre, parve assopirsi senza riguardo.

La musica s’era taciuta, intanto, e mi sforzavo, senzariuscirci, di sciogliere il rompicapo. Eppure non men’andai, ero certo che non dormiva ma mi spiava dal suobuio, e aspettava. Allora mi distrassi, gironzolai per lastanza, perlustrando, occhieggiando, ora la fogliolinaDon Blasco sulla quercia genealogica, ora la fotografiadella moglie trafitta da spilli nel cuore, ora i grossi fasci-coli manoscritti che teneva ammucchiati sul ripiano del-la stufa, legati con un elastico. Tuttavia ogni tanto mivoltavo di sorpresa, finché giunsi a ghermire le sue pu-pille puntate sulla mia schiena, un istante prima che tor-nassero a rintanarsi nella loro borsa tranquilla.

«Ti ho svegliato?» finsi, mentre mi veniva in menteche non gli avevo ancora chiesto cosa avesse e se stavacosí male come sembrava. Quasi avesse intuito il miopensiero:

«Una cirrosi» disse. «Morirò prima di te».E ancora una volta, fra soffi e raschi e pizzicati di vio-

loncello, un borboglío assai simile a un riso gli si mossein fondo alla gola, mentre il consueto ghignetto gli tra-mutava la bocca.

Si era alzato, ora, aveva inforcato sui piedi scalzi, do-po aver tribolato senza profitto con le stringhe di Gor-dio delle sue polacchine, un paio di sformate calosce, esulle spalle seminude, sulla canottiera appiccicata per ilsudore e che bucavano i marziali pungiglioni del suo pe-lame, s’era buttato un asciugamano. Cosí camuffato, cia-battando e aiutandosi col bastone, attraversò la stanza,fino a me, venne a porsi al mio fianco dinanzi la libreria.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

105Letteratura italiana Einaudi

Page 109: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

Fu la prima volta che veramente mi ripugnò: quel riso, ilpezzetto di carnagione decrepita e bruna sotto la calotti-na di seta, l’odore di bertuccia inutilmente dissuaso daun’irrigazione di brillantina recente, tutto veramente sa-peva e parlava di sfacelo e di spregevole morte.

«Ragazzo,» disse il vecchio, e puntò il dito su un pac-co inceralaccato che s’intravedeva sotto una pila di Te-stutt, «qui c’è l’unica e vera storia di Marta: testimonian-ze, certificati, interrogatori. Inventario clinico e catalogodei suoi errori. Tutto su cuore, mente e polmoni. Con lemie pensate su questo, il mio colpo del cartoccio e arse-nico lungo per te. Tra qualche settimana lo leggerai. Al-lora di noi tre sarai rimasto tu solo».

Non nascosi la mia meraviglia. E lui:«Guarirai» mi disse. «Ti salverai».Lo udii con molto piú sospetto che gioia, e mi torna-

rono a mente i ladroni di prima. Anche perché una su-perstizione mi aveva colto proprio in quell’istante dalvedermi riflesso, ahimé decollato, in una specchiera dicomò troppo bassa che gli stava dietro le spalle. Ma luidi nuovo mi precedette:

«Intendimi, le probabilità per i tre non sono pari. An-zi per i primi due sono zero. Tuttavia è la loro sconfittache garantisce al terzo di trovare la chiave. Per cui vieneda chiedersi: essi se ne rendono conto? La loro rinunziae morte sa di servire a chi verrà dopo di loro? Non èquesto che i teologi chiamano soddisfazione vicaria?Perché, vedi, l’azzardo assai bello del ragionamentodell’ultimo è di puntare la vita sulla scienza di sacrificiodei due che l’han preceduto. Solo a questo patto il biril-lo casca e la palla va in buca. Te lo ripeto, è la morte deiprimi che aiuta il terzo a salvarsi. È chiaro?».

Feci di no col capo, non si scoraggiò.«Supponi» riprese «di essere rimasto solo col tuo

cappello dal colore che non sai, e le due teste mozze, inbianco, ai tuoi piedi. Prova a chiederti che mai sarebbe

106Letteratura italiana Einaudi

Page 110: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

successo se il tuo cappello fosse stato nero. Mettiti neipanni degli altri, pensa col loro cervello».

Cominciai a intravedere una luce:«Se il mio cappello fosse stato nero, ebbene, il secon-

do...».«Si sarebbe salvato, avrebbe capito d’avere in capo

un cappello bianco, di non poterlo avere che bianco.Poiché, se anche lui come te avesse avuto il nero, il pri-mo...».

«Giusto, il primo, vedendo due neri...».Qui la risata del Magro si fece clamorosa, impertinen-

te: «Acqua, fuochino, fuoco!» gridò quasi, e concluse:«Come vedi, ogni enigma ha il suo specchio. E in ogni

trinità c’è una coppia di martiri e uno sciacallo che cam-pa su loro. Sei tu, puoi rivestirti: non era per te la terzacroce piantata sul Golgota della Rocca... E ora basta,vattene via. Se no c’è questo: argumentum baculinum».

E mi puntò contro scherzosamente il bastone.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

107Letteratura italiana Einaudi

Page 111: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

XIV

Lettore, ti è mai capitato, stando in piedi sulla scalamobile di una Rinascente, di vedere i gradini che ti sepa-rano dalla piattaforma d’arrivo inesorabilmente assotti-gliarsi, e uno dopo l’altro nel loro guscio sparire? Cosí igiorni di quell’estate. Trista stagione, a dir poco. Conquel sole senza tramonto: un orbe di plenario fulgore, lacui brocca cercava le mie pupille alla stessa stregua cheun taglio di selce un calcagno nudo.

E tuttavia fuggivano i giorni. Ma il loro fuggire, sep-pure sembrava avere smesso di trascinarmi verso il tra-guardo peggiore, non cessava di spaventarmi. Quasi cheun nerofumo di corvi con svolacchi di malaventura adora ad ora oscurasse la spera vuota del cielo. Vero è chedi fronte all’impensato regalo di sopravvivenza che ilmio corpo pareva promettermi – beni parafernali nonprevisti dal contratto – io non riuscivo a sottrarmi a unsentimento di scontento e di colpa. Pensando ai compa-gni, ai quali un’identica immunità non sarebbe stata ir-rogata; e a me stesso, al compito che m’incombeva, san-cito dalle parole del Magro, di rifare da cima a fondo imiei conti e riinnamorarmi di me. Tregua o condonoche fosse in arrivo, sapevo che avrei durato fatica a rivi-sitare la vita, e le sue insolenze, il parapiglia preoccupan-te dei suoi commerci. A somiglianza di un Po, il cui al-veo sia stato sconvolto dal malinverno, e che devecercarsi nuove strade nel limo, io sentivo ogni mia forzadi sangue, prima protesa in corsa verso la foce segnata,svenarsi ora in mille diverticoli, sfrangiature e canali,fragili come intrecci di arteriole in un occhio. Il domani,perciò, tornava, sia pure in modo diverso, ad apparirmiirto di punte. Con quali membra, del resto, e disposizio-ni dell’animo, ne avrei accolto l’assalto, se tutto in mepativa ancora la doppia offesa, cosí della guerra come

108Letteratura italiana Einaudi

Page 112: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

del morbo nemico? Dove ritrovare il me stesso ragazzo,come sanarlo di quell’infezione: l’ingresso dell’idea dimorte nell’intimità di un cuore innocente? Un peculioincalcolabile d’anni, se il medico non mentiva, si sareb-be aggiunto ai magri centesimi che finora stringevo nelpugno. Ma non sapevo come spenderlo, ai nuovi ricchisuccede.

Seduti sulla veranda, all’imbrunire, un brivido appe-na percettibile d’aria ci sorprese nei nostri lini leggeri.Uno solo. Ma «Agustu è capu d’inviernu» sentenziò indialetto, incredibilmente, il colonnello, ritrovando inquell’istante, dopo tante spocchie di presidio e di piazzad’armi, un’antica inattuata innocenza di fattezze conta-dine sotto la bianca visiera della chioma militaresca.

Eravamo sdraiati accanto, noi cinque ancora vivi, io,lui, Sebastiano, i due Luigi, sempre piú divaricati, questiultimi, di comportamento e di umore. All’Allegro, all’examico di Adele, le espansioni del quale, ben piú dellamestizia del Pensieroso, mi avevano aiutato tante volte avincere le tautologie della noia, mi rivolsi bisbigliando achiedere aiuto per Marta. Ero infatti tornato, secondo ilturno dell’altalena, a infiammarmene, a scriverle lettereche sapevo di non poter spedire, a cercare orecchie econsolazioni di confessori. E m’ero messo in testa di ri-vederla, né sapevo come, se lui e la sua nuova ragazzanon m’aiutavano. Oppure c’erano altri modi di ricucire icontatti? Che so io, un messaggio a matita sopra un mu-ro di Sala Raggi, un’occasione durante la messa o allospaccio della Rocca, che ne pensava?

Il Pascià non tollerò i miei sussurri, ma coinvolse agran voce i commilitoni nella consulta. L’altro Luigi pri-ma si schermí, poi chiese invano le sorti ai soliti Ossi diseppia, mentre Sebastiano restava in silenzio a guardarestupidamente davanti a sé. Solo il colonnello, smessol’abito di gerarchico gelo, e tuttavia levando nell’aria

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

109Letteratura italiana Einaudi

Page 113: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

l’unica mano, come se comandasse una partitura, accon-discese a discutere, a persuadere, accalorandosi in tantoborghese strategia non meno che in una Grande Mano-vra di Rossi e Azzurri del tempo di pace. Fu sua la pro-posta che accolsi, una variante del Piano Von Schlieffen.

La prossima feria, dunque, ottenuto il permesso checi voleva e indossato l’abito dell’uscita, non appena daltram in arrivo fu scesa la truppa dei parenti in visita, fecidietro front e m’imbrancai con loro, con loro ripassai ilcancello, scegliendo, quando si furono divisi in due flus-si divergenti, quello diretto verso il padiglione femmini-le, con la speranza, fra tanti colori e strepiti, di eluderela dogana delle suore, le piú delle quali d’altronde nonm’avevano forse mai visto. Pervenni cosí fino al capezza-le di Marta, nella stanza che con lei divideva un’altra,non meno intenta a tormentarsi fra dita aguzze le bretel-line della sottoveste che a cercare di identificare con oc-chiate di straforo lo sconosciuto ospite dell’altezzosacompagna. Ma costei (eccola lí, la mia ciarliera Sciaraza-da di una sola misera notte!) volse vivacemente lo sguar-do quando le apparvi al fianco, dal letto dove vestita gia-ceva in riposo.

«Non su quella» avvertí poi, mentre mi accingevo asedere su una sedia di ferro, «ma qui, vicino a me» e mifece posto con vezzi che non m’aspettavo. Poi cosí bene-volmente mi prese fra le mani una mano da spegnermisulla lingua i rinfacci per il suo silenzio e svelenirmi,quasi, d’ogni diffidenza e dispetto. Né tuttavia osai par-larle delle mie speranze di guarigione, sia per paura chegliene venisse un moto d’invidia, sia perché avvertivo inconfuso che se un filo c’era che poteva tenerla legata ame, questo era la comunanza delle nostre sorti, un filoche non conveniva spezzare. Non ebbi da pentirmenequando la udii, fra perentoria e supplichevole, propormidi fuggire insieme, con motivazioni e secondo un piano

110Letteratura italiana Einaudi

Page 114: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

quali pensano soltanto le menti dei collegiali o dei dispe-rati: poiché tutto per noi era perduto, tanto valeva an-darsene via in giro, fuori città, a ripassarsi con gli occhiun’ultima volta cielo, terra e mare. Avremmo preso anolo una moto col sidecar o una vecchia due posti; sape-va che si poteva; io avrei simulato un’impellenza di an-dare a casa, lei sarebbe semplicemente uscita senza chie-dere nulla a nessuno, nella confusione di un giorno divisita. Che importavano, nelle nostre condizioni, le col-lere del Gran Magro?

Il mio primo impulso fu naturalmente di rifiutare.Fuori città, noi due? Con tante diligenze svaligiate, am-mazzatine, ferocie? Noi due cosí insoliti, lei specialmen-te, che pareva uscire da un libro, inventata... Questo vo-levo dirle, e tuttavia, non so come, per unillanguidimento o mancamento della ragione, senza direuna parola, dal pacchetto di profumi che le avevo ripor-tato strappai un lacerto d’involucro e sopra vi tracciaiun SI radioso, puerile e gigantesco, che ripetei sul rove-scio, in tutti i possibili spazi, non senza prima avervischizzato un disegno, con me e lei a bordo di una Bugat-ti a gara col vento.

Rosso al pari di una Bugatti, ma di meno nobile stirpee tenuto su col respiro, il cabriolet dai parafanghi spaiatiin cui l’attesi alla fermata della Cuba, la mattina del gior-no previsto. E come mi parve bella nell’atto di balzaredal predellino del tram e di incamminarsi verso di mecon passo eccitato, facendo svolazzare la gonna in mo-venze di mulinello attorno alle lievi elegantissime gam-be! Mi schiaffeggiò affettuosamente col guanto di pizzo,con l’altra mano reggeva un’ampia borsa, colma di cian-frusaglie da donna. Persino un occhiale da sole neestrasse, e una lunga sciarpa di seta, quando si fu sedutaaccanto a me, e ci fummo lasciati lontano la città e, piúlontano, la Rocca, con la sua provvisione di mortali pe-stilenze e lamenti.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

111Letteratura italiana Einaudi

Page 115: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

112Letteratura italiana Einaudi

Eravamo usciti per il Ponte dell’Ammiraglio, ma pre-sto abbandonammo la via del mare, per vagabondare acapriccio lungo stradette di campagna a S, strette framuri di sassi, dietro cui cespi di mortella crescevano eoleastri mangiucchiati dal bestiame. Un’agave che ci ap-parve d’improvviso su un ciglione, tutta parata a festacome di candele un altare, ci fermò. E Marta, facendosila croce, chissà perché: «Fiorisce una volta ogni diecianni, dicono, e poi muore subito. Vorrà pur significarequalcosa che sia capitato a noi di vederla cosí».

S’era avvolta il capo nella sciarpa per ripararsi dalvento della corsa, e, per quel ch’era possibile, dalla pol-vere, e sembrava contenta, com’ero anch’io, del tumultodi vedute e scene che il nostro viaggio ci veniva porgen-do. Cosí non ci spaventò piombare, dopo qualche chilo-metro, nel mezzo di una schiera di contadini e contadinein marcia, come informavano i cartelloni branditi, versoun’occupazione di terre, nel feudo del barone BasilioTrigona.

Dietro un campiere a cavallo, in abbigliamento permetà militare, la processione di carri e persone si svolge-va lunga e lenta sulla trazzera, un mulo dietro l’altro,una faccia dietro l’altra, abbrustolita dalla canicola. Par-simoniosi i gesti, e sottesi da una intimidita letizia. Quel-la che prova un’avanguardia di vincitori, penetrando inun salone di specchi, con la mano attorno all’impugna-tura di una picca. Ma c’erano quei bambini: farfarelli la-dri d’uva, angeli spettinati con le mani piene di scaccia-cani, scomparivano, comparivano, sebbene senzarumore di voci o di risa. Ora a cavalcioni di un argine asecco, là in fondo; ora attraverso un campo, qui presso,dove avevano rincorso un caprone dal muso oblungoprognato a brucare fra gramigne e stoppie bruciate ametà. Solo la voce delle madri si udiva, che li chiamava-no, e avevano grosse crocchie di capelli raccolte sopra lanuca.

Page 116: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Risalimmo la fila in cammino, salutando con amicizia,senza ricevere di ritorno altro che due dita a taglio sullatesa della berretta, insieme a un buio sorriso, in cui osti-lità e rispetto in parti uguali si mescolavano. Con in piúun trasalimento di stupore per quegli imprevisti visi dicittà sporgenti dalla portiera.

«Siamo finti noi o sono finti loro?» chiese Marta,quando ce li fummo lasciati dietro, nella polvere dellacampagna.

«Che domanda!» risposi.. «Basta aver fame per esserveri, piú veri di tutti. Siamo noi, invece, i pesci dentro laboccia. Ci vuol poco a capirlo».

«Io pensavo» mormorò «che il nostro esser vicini amorire... Che ne sanno loro della morte?».

La sgridai: «Piú di noi due insieme. E la guardanocon occhi giusti. Mentre noi, imbalsamati entro aromi diparole, non facciamo da mane a sera che carezzare le no-stre vanitose agonie. Senza sapere piú se abbiamo sul ca-po una corona di spine o un diadema di carnevale».

«Io...» fece lei.«Anche tu, anche tu, con la tua sciarpa da Isadora

Duncan e gli appiccicosi sciroppi nella borsetta. Mentreloro sono veri, sudano storia, puzzano di storia. La stes-sa storia che senza tregua noi due ci affanniamo a can-cellare con una gomma da quattro soldi...».

Avrei continuato, ma qui Marta m’interruppe col suosolito ricatto, la tosse. E quando si fu calmata, si pose,con un gesto che ormai le avevo visto fare tante volte, lamano davanti al viso.

«Che mi rimproveri a fare, se tu confessi la stessa col-pa» disse, e poi: «Ascoltami» aggiunse, con una torvasolennità, «e ricòrdati: io sola sono vera e sarò finché vi-vo. Voi, gli altri, siete appena barlumi e finzioni che sen-to respirare e parlare al mio fianco. E la storia non ri-guarda che voi, io non so cosa vuol dire. Capiscimi: neimiliardi dei secoli passati e futuri io non so trovare even-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

113Letteratura italiana Einaudi

Page 117: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

to piú importante della mia morte. E tutte le carneficinee derive di continenti e scoppi di stelle sono soltantocanzonetta e commedia al confronto di questo minusco-lo e irripetibile cataclisma, la morte di Marta. Cosa nonfarei per ritardarlo di un attimo. La puttana, la spia,l’aguzzina. E chissà che non l’abbia già fatto».

Questi discorsi e altri tali ci tennero compagnia finoal paese vicino, su un’amba di terra soda, avvisaglia del-le montagne dell’interno ma ancora a poca distanza dalmare. Pensammo di dormirci, eravamo stanchi. Io nontroppo veramente. Ma lei, tanto. Eppure volle che salis-simo a piedi sullo sprone piú alto, a guardare la sotto-stante pianura, e le vele all’orizzonte, che vacillavanonella foschia.

«A quest’ora alla Rocca mi cercano».«Inspiegabile scomparsa di una ex ballerina» cosí,

mimando il ragazzo dei giornali, riuscii a farla sorridere,e aggiunsi: «Pensa che nei tempi andati scomparire era ilsegno di un privilegio. Succedeva solo ai re, nella caligi-ne di una tempesta».

«Ed io non sono dunque una regina?» scherzò anchelei. «Sua Disgrazia Marta Prima, con un suddito o dueappena, che se la giocano a scacchi».

E si staccò da me, corse giú, dove a mezza costa, su la-vatoi di sasso, con le iniziali dei padroni incise, donne,cantando, insaponavano robe di gala: per la festa delsanto – dissero, quando le raggiunsi – dell’indomanimattina. Con queste scambiammo un poco, seduti su unorlo, ragionamenti quieti e in qualche modo felici. Poiripresero a cantare e, andandocene, il loro canto ci ac-compagnò.

Intanto l’aria, benché il giorno volgesse alla fine, ap-pariva ancora tutta stordita di luce. Non solo quella delsole, di cui durava ad occidente, al centro di una schiu-ma di vapori, fra braci già di cenere, la barbarica porpo-

114Letteratura italiana Einaudi

Page 118: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

ra; bensí un’altra, di un incarnato diverso, che parevabalenare da una palpebra o corolla di cielo socchiusa sulnostro capo, e accompagnarci lungo la strada come unsegnale di spada o di stella. E questa oscillava su gibbi epetraie delle colline intorno; penetrava nelle gole gremi-te di cardi; si librava sui terrapieni, dove qualche stentavite, fra due frangivento di opunzie, chiedeva con osti-nazione qualche magro sugo di linfa alla terra. Allora ri-pensai ai gabelloti e capipopolo in marcia coi loro muli ecavalli di manto baio; alle fiere scarpe di pezza con cuibattevano il suolo; ai loro bruschi frustini, ai rotoli dicorda e ai picchetti che reggevano sulle spalle. Per cir-condare di confine quali porzioni di sterpo e di crosta?Per edificarci sopra quale dimora, quale simulacro di vi-ta? Inutili dunque i loro passi come i nostri? Come il fu-mo dei nostri anni dilapidati? E quel sole, galeone del redi Spagna, che affondava in fiamme sul mare; quei para-petti e obelischi e crollanti navate di nuvole, da cui pare-va pendere e imputridirsi un trofeo di ermellini e di ro-se... Immaginaria ogni cosa, tranne la nostra morte,come diceva Marta? «Credi agli occhi soltanto» mi ri-sposi in silenzio. «E a questi uomini, se ti salvi, cerca do-mani di somigliare».

Ma sapevo che non l’avrei fatto.

Quando un’ultima unghia di luce si fu spenta e il vo-lume della notte ci cadde addosso come le pieghe di ungrande mantello, fu obbligatorio rientrare. La cameradella locanda era piú vasta di quanto ci potessimo atten-dere e con un balcone aperto ai sussurri della campagnae al mare lontano, già tutto lustro di un fosforo di notti-luche.

Marta indugiò a guardare fuori, mentre mi spogliavo,sorda alle premure che le facevo, perché smettesse di of-frirsi all’umidità che cresceva. Malconvinte premure, inverità. Dal momento che in quell’avventura ormai non

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

115Letteratura italiana Einaudi

Page 119: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

mi sentivo di poter essere di lei né balio né guardaspalle,ma soltanto testimonio e notaio. Troppo inutile sarebbestato tenerla ancora per un dito in bilico sul discriminemortale, col corpo intero traboccante nel precipizio. Edora che le viole degli occhi e i cavernosi oracoli della tos-se annunziavano in lei prossimo lo sfasciamento finale,mentre a me era dato in sorte sottrarmene, fuggendo peruna feritoia sottile quanto un capello, ora io capivo cheil prezzo da pagare era questo: lasciare dietro di me, do-po essermi solo voltato un momento, ogni insalvabileombra, Sesta, Marta, Euridice, o come diavolo si chia-mava...

Marta non si muoveva dal riquadro della finestra difronte al mare. «Sí» disse solo due volte, qualunque cosavolesse dire con questo.

Piú tardi, al buio, al mio fianco, mi cercò le mani, levolle su di sé, sull’addome, tenendovele ferme con lesue, dove potessero sentire come una smussatura dellacarne attorno a un lieve perlaceo gonfiore.

«Se fosse un bambino...» disse, e rise, cambiando su-bito diapason e tema. «Ricordami domani di portar viale lenzuola infette. Pagheremo, soldi ne ho».

«Magnifico» non potei fare a meno di deriderla, ben-ché le dessi ragione dentro di me. «Magnifico. Potrai ri-cavarne il corredo. Ma non sarebbe piú semplice attac-carsi un sonaglio alla caviglia? Piú economico, anche».

Ma lei mi pose, per farmi stare zitto, un dito sulle lab-bra, mi si strinse contro, mi morse, mi respinse, mi sof-fiò nell’orecchio la sua febbre di dentro. Tutti taciti invi-ti ad amarla, che il rimorso non m’impedí di raccogliere.

Dalla finestra non giungeva nessun rumore, salvo unodi ruote, di tanto in tanto, sull’acciottolato. Ma un pallo-re d’aria entrava di striscio, debole come quello chesparge la luna prima di spuntare dalla collina. Quantobastava perché la sua fronte, sotto l’aureola dei brevi ca-pelli, disegnasse una pozza di chiaro dentro il nero della

116Letteratura italiana Einaudi

Page 120: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

notte. Allora, con bocca stancata cercandole io sul colloun’antica piaga da inferocire, la udii, con uno strascicodi vanità nella voce, parlarsi, come nell’infanzia, da sola:

«Amen anche per questo, Marta, amore mio. E da do-mani, poi, giú buona a cuccia, a morire».

E non trattenne piú i fragili meccanismi del pianto.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

117Letteratura italiana Einaudi

Page 121: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

XV

Già prima, fra i sì e i no del sonno, m’era parso diudire castagnole e scampanii lontani, ma a destarmi fu-rono, sotto il balcone, con voci melodiose e malandrine,i banditori del tirassegno. E allora mi tornò a mente diaver visto la sera prima, attraversando il paese, festoni dilampioncini e tralicci di fuochi d’artificio innalzati lungola via principale, e, in uno spiazzo, momentaneamenteimmoti e disabitati, i veicoli di una giostra. Era dunquegiorno di festa, benissimo. Aspettavo da tanto di potermettere a confronto in mezzo alla gente i miei compor-tamenti con quelli degli altri e rallegrarmi gli occhi conrobe di colore e diverse, dopo tante uniformi. Del restonon dovevo forse tornare io stesso, di lí a poco, a farconfusione e coro con i piú nel cafarnao della vita? Nonconveniva allenarsi?

A meno che... Ecco, una spina nuova di angustia e dimalaugurio, mi teneva compagnia da qualche ora; daquando, dopo l’amore, stentando a prendere sonno pernon so che caldo alle tempie, m’ero contato i battiti conun dito, scoprendoli di nuovo, non già galoppanti, no,ma sostenuti piú di quanto fosse lecito attendersi. Percui m’era sopraggiunto il sospetto che con la sua eufori-ca prognosi il Magro si fosse solo divertito a rassicurar-mi, imitando il soriano e il boia di cui aveva tessuto l’en-comio. Per creare, cosí facendo, fra me e la donna, unadisuguaglianza, e minare la nostra intesa, staccarmi dalei: com’era poi in parte veramente avvenuto.

Mi levai, ciò nonostante. Né, mi presi la briga di sve-gliarla dal covile in cui s’era rannicchiata col lenzuoloavvolto sul capo, come la vittima che aspetta il colpo.Bensí, senza far rumore, dopo averle lasciato un bigliet-to d’avviso sul tavolo, uscii dalla stanza e m’avviai matti-niero verso il cuore del borgo.

118Letteratura italiana Einaudi

Page 122: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Era un paesotto popoloso e non triste, mi parve. Po-vero quanto quelli dell’entroterra piú fondo, dove bieca-mente e bambinamente regnava Giuliano, ma non triste.A giudicare dalle case dipinte di blu metilene, ciascunadelle quali sui grami usci inalberava a cornice un’odoro-sa pergola di gelsomino. Scurissime le facce, ma allegredi sapone recente, nell’atto in cui si affacciavano fra gra-ste di basilico a vedermi passare. E già uscivano per laprima messa le ragazze come asinette bardate per la fie-ra del santo. Accordellate nei busti di velluto, con gonnedi rafia a fiocchi e calze turchine, costumi che pensavoin disuso, camminavano come signore, distribuendo adestra e a manca la tenera mafia degli occhi. E l’umilefondale del vicolo da cui sbocciavano, fra gabbie di gal-line e zacchere sparse, piuttosto che mortificare l’alteri-gia del passo, pareva conferire un di piú di gloria e diteatro alla scena. Fino a quando, almeno, dall’altopar-lante del lunapark, alla canzone di prima (’U sàbbatu sichiama alleria cori / bbiatu cu avi bedda la muggheri...)essendo subentrata l’irriverenza di un bughivughi, legiovani si accesero di malizie moderne negli occhi emancò poco che si mettessero a ballare da sole.

Contento le guardavo e ascoltavo, sostando sotto ibalconi adorni di drappi o andando su e giú per il corso,se cosí si poteva chiamare quella via. Né mi sfuggirono,dai ruscelli di straducce adiacenti, altri scorci e lampi diesistenza immediata: lí due mani di donna tese a reggereun piatto spaso di Caltagirone su cui il venditore facevapiovere una cascata di lupini gialli; qui, attraverso i vetridi un caffè, ricciute teste alluttate, curve su un tappetoverdebandiera dove con pazienza biglie si rincorrevano.

«Ecco dunque la vita» pensai. «Stracciona e ronzante:una polpa di semi e di sangue. E io la mangio, la palpo,la odoro. Ma Marta...». Ero davanti alla chiesa, entro lafolla che aspettava l’uscita del simulacro. Ed ecco, pro-prio mentre un frastuono di timpani e piatti salutava

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

119Letteratura italiana Einaudi

Page 123: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

l’evento, e salivano in cielo palloni, e dalle finestre pio-vevano fiori, sentii una piccola mano avvinghiarmisi sulbraccio e la voce di lei irosamente implorarmi: «Non de-vi lasciarmi sola mai piú!». Marta era venuta a raggiun-germi e mi si stringeva addosso, torcendo sul collo il ca-po con collere di colomba. Non feci in tempo asollevarle il mento con due dita per consolarla che già leritornava nel pozzo delle pupille il sorriso. Che divenneriso piú tardi, quando in un baraccone ebbe lanciato avuoto sulle rotaie, verso un irraggiungibile campanello,un mobile congegno di ferro che al termine di una cor-setta senza speranza le ritornò fra le mani.

«Che dobbiamo fare?» chiese Marta soprappensiero,mentre mangiavamo in piedi ciambelle e fritture compe-rate alla fiera, da un carrettino-cucina. E senza aspettarerisposta, indicandomi il flutto di persone a passeggio:

«Com’è il tuo paese, cosí?».«Oh no» mi vantai. «Il mio paese è un’altra Sicilia.

Con acque dal nome antico in mezzo alla campagna, efanciulle come disegni di vasi. Là una carne piú lieve ècresciuta sopra l’ossame rude dell’isola. Lo stesso vulca-no, quando spinge le sue nevi contro il turchino, sembrauna di quelle stampe di Oriente di un secolo fa: unFujiyama di seta. Forse è per questo, per essere nato nel-la parte greca, che io riesco cosí male ad assumere la te-traggine e l’umor tragico della gente che vedi. Coi lorodietrocarica, le loro guardate».

«Non ti capisco» rispose. «Per me siete tutti uguali:piccoli, smaniosi, sofistici. Non riuscirei a stare moltocon uno di voi. Né vorrei averne un figlio» e si toccò conla mano il ventre.

La proposizione non era cortese, ma non seppe incre-scermi troppo. Al contrario mi venne da pensare che sa-rebbe stato peggio se lei m’avesse corrisposto e coinvol-to in qualche sua irrespirabile aria di perdizione.

120Letteratura italiana Einaudi

Page 124: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Quando invece, amandola io solo e in cosí pusillanime econtraddetta maniera, bastava solo aspettare un pocoperché il paraffo della sua morte concludesse placida-mente la pratica, consegnandola per sempre alla polve-re, nell’archivio della mia vita.

Tanto piú volentieri acconsentii alle inquisizioni chelei compiva, dall’altra parte del tavolo, mentre, sedutifuori di un bar, nelle pause di un’Aida della banda mu-nicipale, conversavamo al centro di un cerchio di occhiavidi e seri.

Mi chiese, ed era la prima volta che mostrava curio-sità delle cose mie, di spiegarle la mia infanzia, l’infanziacom’è da noi.

M’abbandonai, m’invitano a nozze quando possoparlare ad alta voce di me.

«A quei tempi» poetai «amavo l’isola come si amauna persona grande che gioca con noi. Lo so, c’è scrittoin troppi libri, ma io, sui verdi paradisi, mi ci commuovolo stesso. Mi piaceva dormire nei solai di campagna, sot-to le ghirlande di cipolle e i melloni insaccati nelle calze;bagnarmi nelle acque dei mulini, delle norie; romperecon un pugno i nidi di vespe a grappolo fra lo stipite el’architrave. Sai tu cos’è un ragazzo del Sud nell’ora dimezzogiorno? Quando si sdraia con la nuca su un sassoa seguire gli zig zag degli uccelli impigliati nel cielo; op-pure scende nei torrenti a catturare le mignatte da ven-dere alla femmina guaritrice; e poi per asciugarsi si roto-la nell’erba... Quanti scongiuri e fatture sapevo, allora. Esarebbe stato sufficiente pronunziarne uno, facendo lemosse con un coltello, per tagliare la chioma della trom-ba marina, quando la vedi attorcigliarsi scura scuraall’orizzonte. Ma non volli mai dirlo, quello scongiuro, eora che servirebbe, me lo sono dimenticato».

Cercavo, cosí fantasiando, di riempire il vuoto chesembrava essersi fatto fra noi e crescere, come di luglioin un terreno bruno una crepa. E anche perché un capo-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

121Letteratura italiana Einaudi

Page 125: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

giro soave mi veniva dall’ascoltarmi, dal dar corpo esuono al museo d’ombre che da tanto mi portavo dentrola testa.

«Sapevi delle donne, allora?» mi domandò Marta.«Come hai saputo?».

«Sapevo sí, ma contavano piú gli amici. Tutti insieme,che amici eravamo! E sempre piú congiurati e fedeli amisura che il mondo offriva, solo a rivoltare una pietra,sempre piú gravi ragioni di raccapriccio. Un obbligo cilegava, ed era un modo di schivare la fellonia degli anni,un caro pretesto per somigliarci: saremmo stati sempreinsieme sulle vie della terra, come nei Reali di Francia;avremmo opposto al destino, per confondergli la mira,le nostre stature gemelle e i nostri nomi scambiati; erabello amarsi nel viso di un altro. Finché un giorno, nelmezzo di una corsa, dovetti buttarmi sull’erba, con lemani che mi tremavano. Sento ancora lo scirocco accal-darmi le guance, sparpagliarmi le foglie dei capelli. Ri-devo, non so cos’era. Ad occhi chiusi, con la bocca sec-ca, ascoltavo il mio sangue e le sue inondazioniimprovvise. Ed ecco il cuore mi diede un balzo di volpesotto la mano, gridai, seppi di essere io sulla terra, colmio odore e la mia morte. Ma già i compagni mi chiama-vano, già correvo per la campagna, cancellando sotto iltallone le lunghe file di formiche rosse.

«Dopo fu tutto diverso. Persi gli amici ad uno ad uno.Imparai ad andare con la gente dei campi, a raccoglierela senape, le ulive, le lumie: solo per stancarmi le mani,per poter dormire la sera. Appresi il piacere delle grandicamminate notturne, quando una luce di luna riempiefino all’orlo la valle e piace accompagnarsi alle ombrelunghe che fa. Piú non stavo ore al balcone a inventarenelle nuvole lettighe e pariglie di mule sonanti di sona-gliere; ma passeggiavo solo fra due cigli di sentiero, ripe-tendo adagio il mio nome fino a saziarmene la bocca. Daallora mi sopravvive questa dissennatezza dei sensi e un

122Letteratura italiana Einaudi

Page 126: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

cuor’in gola da fuggiasco appena arriva l’estate. Mi sem-bra che quindi qualcuno, un padrone senza pietà,confonda apposta sulla mia strada ore false e ore inno-centi. Cosí, al pari di chi brancola in una moscacieca disconosciuti, sotto le mie dita deluse non so trovare chemostri».

Ma Marta non m’ascoltava.

Verso sera, al teatro dei pupi, sedevamo all’aperto sulunghe panche per un trattenimento insolito che il car-tellone annunziava. Non Guerino il Meschino e nemme-no Compare Turiddu, bensí la fine di Troia e la Morti diAcamennoni re. Il puparo che passò in mezzo a noi perraggiungere il suo posto dentro il casotto ci attirò gli oc-chi. Per la gravità malinconica e il candore dei capellisulla cotta sembianza di negromante.

Un forestiero, non uno di qui, ci piacque credere: unalbanese di Piana degli Albanesi, forse, o un profeticozingaro. Mentre il compare che, armato di mandolino,avrebbe adornato di musiche i vertici dell’azione, sem-brava di piú semplice pasta e sedeva con la testa legger-mente inclinata in avanti, ora sbirciando la scena, ora ilgioco e la malavoglia delle corde sotto la penna di tarta-ruga.

Ma noi, sin da quando il preludio si udí, e il falso orodelle corazze brillò sulle cartapeste della bastia, un pen-siero ci aveva presi e ce lo scambiammo con uno sguar-do: che lí davanti si trattava di noi, non so chi ci chiama-va per nome, lí davanti, a rispondere di persona.Appena poi Cassandra cominciò a lagnarsi con la vocelupesca del vecchio, e il vento degli alberi attorno lescarmigliò sulla fronte i capelli gialli, di stoppa; appenail re ebbe vociferato la sua fine: «Ahimé sono ammazza-to da una coltellata mortale», il re ch’era tornato comenoi dalla guerra e dal male; ebbene, allora non ci fu piúragione di dubitare, fra l’eloquenza di quel tempo impa-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

123Letteratura italiana Einaudi

Page 127: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

rata a scuola e il nostro oggi e ieri, patito e pudendo,una corrispondenza, forse premeditata, vigeva; quellametafora ci riguardava.

Mi parve allora che le parole che udivo, quanto piú ri-sonavano d’impervie cadenze indigene, tanto piú nelprofondo sommuovessero un antico e familiare presa-gio: era necessario morire, nella storia di ognuno c’eraun tradimento, e un trincetto inferocito con l’aglio, euna scarpa sopra la nuca. Era come recarsi, con la giaccaattorta su un braccio, in un bosco di sugheri, per unduello rusticano inutile, eterno. E non avremmo mai vi-sto in faccia il nemico, ci avrebbero ogni volta preso allespalle. La voce del puparo ripeteva nell’ombra: «Ah idestini degli uomini, una spugna bagnata li cancella, co-me una pittura».

Io non mi volsi, nell’aria già tarda, a osservare glispettatori che avevo visto prima entrare in silenzio e se-dermisi dietro. Sapevo quel che m’aspettava, un conses-so che sconosciuto non m’era. Di fantasmi grigi, di om-bre vestite di tuniche bianche come impermeabilibianchi, non so se uomini o donne, ma no, erano uominie donne insieme, una giuria di milioni sulle soglie di unafossa senza fondo. E m’incolpavano, mi scolpavano, migridavano con spente orbite: vattene via, sàlvati almenotu.

Riconobbi allora, o credetti, l’ingranaggio del mio de-siderio diviso e del mio sogno di tutte le notti.

Fu all’ultimo atto che le Menadi s’addormentarono eil mondo guarí di fronte all’Areopago: al posto di quelfurore una clemenza fioriva, un arcobaleno di pace. Eseppure il sole era presso a morire, resisteva sulle miemani la sua lontana carezza. «Come si sta bene» pensai.«Questo momento è bello». E levai gli occhi, come daragazzo, a cavalcare nel cielo la forma taurina di una nu-vola, sempre piú impallidita nel viola della sera che cre-

124Letteratura italiana Einaudi

Page 128: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

sceva. Mi parve in quel momento che il mio guasto, lag-giú in fondo alle vene, non fosse piú che un rimasugliod’ombra e di fumo, le poche lettere del nome di una sta-zione notturna che lo sguardo carpisce in un lampo difinestrino e di cui si scorda dopo un istante. Ci si potevadunque ancora salvare? Essere perdonati, veder tramu-tarsi ogni nostra ira e miseria in una cronaca di colpe fe-lici? E le furie che c’infestavano, avevano anch’esse son-no dopo tanta corsa? Lo dissi a Marta, senza voce, soloposandole la mano sulla spalla. Ma lei, a questa notizia,o dovrei dire sesamo e strenna, che la sera sembrava of-frirci, oppose un acquiescente, inerte profilo: quello diun adulto a un bambino che gli millanta in una conchi-glia il mare.

Cosí, quando il siparietto calò, e la folla si disperse, enelle strade già solitarie lanterne di carro, traballando, euomini, s’allontanavano, Marta si staccò da me, s’avviòsola verso la macchina, mi lasciò solo per qualche minu-to a custodire nel crepuscolo, come un’esca di fuoco,quella speranza d’assoluzione. Poi ragazzi vennero asmontare il palco, a portar via le panche; dalle bocchedelle grotte vicine nacque un miasma di terra marcia, difiori consunti; si sparse nello stellato, con movenze digelso, la luna. Noi scendevamo adagio, a fari spenti, ver-so il mare, finché la festa fu solamente dietro di noi unarissa remota di frettolosi splendori.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

125Letteratura italiana Einaudi

Page 129: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

XVI

Questo fu l’ultimo sorso di luce per Marta. Già lungola via, sfiorandola per caso, m’ero accorto che avvampa-va di febbre. E i ronchi secchi e crepitanti della tosseche durante il giorno avevano chissà come taciuto, eranoora ininterrotti, strazianti. Cercai dove fermarmi. Tantopiú che un difetto ai fari non m’avrebbe consentito,benché con l’aiuto della luna, di raggiungere la città. Al-la costa comunque volevo arrivare, dove piú fittamentesi susseguivano i luoghi di villeggiatura e maggiori appa-rivano le possibilità di soccorso. Continuai dunque lacorsa al mare, e che fosse vicinissimo, dietro quel velod’ulivi, un ragazzo ce lo disse, che si levò con diffidenzada una soglia di sasso quando si sentí chiamare. E subitovedemmo un gabbiano disperso, scuro e bianco comeuna rondine, volteggiare sul colmo di dune davanti anoi. Allora Marta volle, con una testardaggine innervosi-ta, smontare dalla vettura e rimanere in piedi, nella fre-scura della sera, a guardare il mare. Era calata la sera, e ilmare, che mille volte in passato m’era parso nascere dal-la curva delle colline domestico e balneare come nelleguide, non ci fu verso qui che risparmiasse uno solo deisuoi veleni: né il borbottio dei suoi contrabbassi arrochi-ti; né le stereotipie delle onde contro la riva; né il secola-re malodore di calafature e disastri. Piú ancora mi sgo-mentò, entrando nel porticciuolo, scorgere attraverso gliusci semiaperti, a lume di candela, donne in cerchio, se-dute sui pavimenti di pece, che con mani eterne ram-mendavano reti.

«Atropo, Lachesi... dimentico sempre la terza...» misforzai di sorridere, senza che Marta mostrasse di capi-re, intenta com’era a fissare la spiaggia come si fissa unnemico.

Era decisamente un’ora povera, un’ora infelice.

126Letteratura italiana Einaudi

Page 130: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Com’è sempre nelle sere di moribondo settembre su unlido sporco di stracci d’alghe e di giornali d’agosto. Nonindugiammo a soffrirla, ma, chiusa la macchina, ci av-viammo, stampando pedate uguali sul bagnasciuga, allaricerca di un alloggio. Marta s’era stretta dentro unoscialle e camminava con sforzo, appesa al mio braccio,lamentandosi a bassa voce. Io mi sentivo invece, dissipa-te le apprensioni della mattina, e i contraddittori am-maestramenti dello spettacolo, tutto preso da una nuovaesultanza: sciolto nei miei moti acerbi, lievemente esalta-to dalla minutaglia di gocciole che la brezza salina m’in-sinuava nelle narici, e in quell’istante finalmente sicurodi trovarmi sulla cresta di un riflusso amico che dal cen-tro dell’imbuto d’abisso, dall’attirante vortice, per mira-colo, m’allontanava. Me ne veniva a momenti uno stoli-do orgoglio, come una fisica arroganza, specie alparagone della creatura che stavo a passo a passo ac-compagnando alla fine. Per la cui sorte, tuttavia, un ri-gurgito di pena sopravveniva poi subito dal fondo piúnascosto del sangue, mescolandosi a quel benessere eistigandolo senza tregua a diventare vergogna.

Un bunker in abbandono, relitto delle previste difesecontro l’invasione, su un piccolo dorso di promontorio,ci offerse fra i suoi calcestruzzi un po’ di riparo e riposo,quando già appariva l’alberghetto sul mare, spopolatoormai d’avventori, in cui secondo le indicazioni del ra-gazzo, avremmo potuto far sosta, prima di rientrare l’in-domani alla Rocca. Da esso rare figure e voci, che attra-verso gli strombi del fortilizio pervenivano fino a noi,c’incoraggiarono a proseguire. Ma veramente Marta nonpoteva piú muovere un passo. E piuttosto portandola inbraccio che sorreggendola, riuscii a farle superare le in-terminabili decine di metri – baratri fra astri lontani –che la dividevano da un letto.

Vi si lasciò cadere vestita com’era, con la superstite

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

127Letteratura italiana Einaudi

Page 131: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

grazia d’una figura di danza, ma del pasto freddo, cheper sua volontà ordinai di portare, non toccò nulla salvoun pezzetto di pesca. Con lo scialle di cascemír buttatosopra le spalle, mi guardava dal letto mentre mangiavo.A un colpo piú forte di tosse, come alzai gli occhi dalpiatto per interrogarla, m’impose di voltarmi. Ma feci intempo a scorgere sul fazzoletto, che riponeva in frettadentro la guaina del cuscino, il colore portentoso delsangue.

Vi fu allora silenzio nella stanza come in un luogo do-ve non c’è nessuno. O piuttosto era il silenzio che ac-compagna le imboscate di mezzogiorno. Quando l’ese-cutore avverte nella vittima un sollievo e una pace che lecose, intorno, non posseggono piú: chissà perché si agitanel sonno la capra; che malore gonfia la vigna come unafronte lebbrosa; perché impazzisce il cielo negli occhidei volatili, li vedi d’un tratto radere l’erba, precipitare.

Mi levai, accorsi accanto a lei, non sapevo che fare.Era chiaro dai suoi occhi atterriti, dalla plumbea tintadel viso, che qualcosa era imminente, stava bussandodietro un muro. Una paratia sottile, oh quanto sottile,resisteva ancora, lo vedevo, dentro di lei a una pressuradi nascosta alluvione. Ma non c’era speranza che noncedesse da un momento all’altro. Intanto l’affanno cre-sceva, gli sputi sanguinosi si facevano piú ricchi e fre-quenti. Finché mi trovai a reggerle il capo, come nellesfide di carnevale alle matricole ubbriache di triple-sec,mentre lei si sentiva salire alle labbra un irrefrenabilezampillo di rossa schiuma e di morte. Un sangue im-menso, seminato di bollicine rotonde, le irruppe dal pet-to e allagò le lenzuola, enfatico, esclamativo.

«Marta, aiutami!» gridai senza senso, mentre miriempivo le mani inutilmente di catini, di asciugamani.

Non durò molto, quando tornai a guardarla era mor-ta. E mi venne di cercare dove fosse il coltello, tanti era-no attorno a lei i segni di una selvaggia macelleria.

128Letteratura italiana Einaudi

Page 132: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Era morta, questo era ora il suo stato naturale e paci-fico. Come se non fosse stata mai altro: di botto impie-trita, uccisa e neutra, una cosa.

Mi chinai a pulirle con un lembo le labbra che gron-davano ancora e mi sedetti accanto al capezzale. Non soimmaginare perché. Capivo che avrei dovuto chiamarequalcuno, gridare, disperarmi. Invece in me c’era soltan-to un sentimento di curioso languore, un ingorgo ch’erasimile insieme a una sazietà e a una fame, quasi lo spasi-mo finto che si sente dove prima c’era un arto amputato.E tuttavia trovai la forza di chiuderle i due occhi e dimormorare in quell’atto, non una preghiera, non ne sa-pevo, ma il versetto di Bibbia trovato fra le carte di pa-dre Vittorio, e di cui sentivo ora l’annunzio rifiammeg-giarmi nella memoria. Poiché veramente le cateratte deldiluvio di Dio rombavano, cantavano in quelle lordatelenzuola, senza che da nessuna colomba potesse veniresalvezza.

Infine le volsi le spalle, mi feci alla finestra a guardareil lido, dove non c’era anima viva, salvo quel ragazzo diprima, come mai non era andato a dormire, che giocavacon l’ombra di una barca in secco. Alzai la fronte. Cherotonda moneta, lassú, la luna. E i colori e le ombre chene piovevano, bianchi e neri di una pellicola muta, comedavano alla scena l’inverosimiglianza di una neve sogna-ta. Senonché un vento che sopravvenne dal largo comin-ciò a svegliare nella risacca, poco fa cosí fievole, una vo-ce sempre piú monotona e alta, di lamentela ferina, cheal mio stesso cordoglio rassomigliava. E allora il piantomi sciolse finalmente il groppo nel petto e mi ricondussesulle labbra le vecchie cadenze di lutto imparate nell’in-fanzia da grandi contadine vestite di nero:

«Marta,» cominciai «Marta, ascoltami» dissi. «Dovesei ora, Marta, dove cammini? In quale notte? Con chenome mi chiami, con che nome devo chiamarti? Ci sonofiumi dove abiti ora? da varcare a nuoto? su passerelle

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

129Letteratura italiana Einaudi

Page 133: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

che tremano? E sei sola, siete tanti, ti ricordi ancora dime? Tornami in sogno, Marta. Anche se l’aria duole sot-to i tuoi piedi scalzi, e non trovi labbra per dirmi le pa-role che vuoi. Guarda come mi lasci in mezzo alla via:una guasta semenza, una sconsacrata sostanza, un pu-gno di terra su cui casca la pioggia...».

Cosí in una cabaletta di parole a memoria, come eragiusto, finiva una storia di palcoscenico, stonata a turno,un po’ da ciascuno, da due moribondi inesperti. Di cuil’uno, mescolando sino alla fine in uno stesso vaso impo-stura e dolore, piagnucolava ora contro la notte; mentrel’altra – e quanto sangue capiva in un corpo cosí pallido– opponeva a quella nenia, di rimando, non so che par-volo invariabile broncio e nient’altro piú che il vermigliodel suo vomito supremo. Spensi la luce per cancellarlo,e nella stanza, al chiarore della luna, tornai a cercarlacon gli occhi: sembrava dormire, come nella cuna d’unaillesa natività; e sul cuscino, attorno al viso che vi posavasenza imprimervi segno, tanto era leggero, l’incurvaturaa elmetto dei mozzi capelli componeva ancora un’aureo-la quasi di serpi pacificate.

«Erebo, Eros, Erine...», lo scioglilingua per Adelmomi ritornò nel pensiero. Poiché ormai, sull’esempio delMagro, mi buttavo preferibilmente sul classico.

Delle ore che seguirono (che setaccio strano è la men-te, come sceglie a caso quando ricorda!) mi restano sola-mente fotogrammi a pezzi, una specie di album incarbo-nito. Lei, non la rivedo piú, la cesura di una tela cerata sifrappone ogni volta fra me e la sua faccia, esposta sul bi-gliardo, fra quattro ceri, all’agonia viscosa delle ultimemosche. Ma sopravvivono, e mi seguiranno per sempre,taluni ritagli d’ironica vivacità: la balbuzie del medicocondotto, accorso dal capoluogo, per constatare il de-cesso; il foruncolo rigoglioso, malamente fasciato da unafilaccia, sul collo del fornitore di cataletti. E risento la

130Letteratura italiana Einaudi

Page 134: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

sete inestinguibile che mi prese durante la veglia, nel si-lenzio della notte marina, e mi durava ancora l’indoma-ni, mentre aspettavo che il Gran Magro, il quale al te-lefono aveva accolto la notizia con una dolcezza che miparve sospetta, mandasse dalla Rocca qualcuno a ripor-tarci a casa, me e la morta. Nella cui borsa frugai pocodopo, quando l’albergatore me ne chiese, burocratica-mente preoccupato, il cognome, e mi resi conto d’im-provviso che a quel Blundo, sotto cui la schedavano allaRocca, non avevo mai veramente creduto. Fu un respon-so quale da un pezzo temevo, né potevo piú eluderlo,quello che il passaporto mi offrí, pescato fra bastoncinidi rossetto e lime e fasci di dollari e am-lire: Levi, un co-gnome da mormorare all’orecchio. Non mi domandai fi-no a che punto esso quadrasse coi monconi di biografiache sapevo o credevo di sapere di lei; e quanto sinistra-mente quel bagliore di stella gialla potesse risarcirne iltesto. Non era tempo di polizia ma di pietà. E da bassogià chiamavano...

Sulla berlina funebre, venuta dalla città, il viaggio ver-so il tramonto fu bello. Avevo preso posto accanto alguidatore, lasciando che il suo inserviente ci seguissecon la mia macchina, e il nostro convoglio minuscolocamminava sul litorale, fra guizzi di rondini di mare ebaluginii di sole calante negli occhi, con un passo pacatodi gita. Lui, un ex cocchiere, mi parlò della sua gio-ventú, dei tempi delle carrozze, quando ogni nero soffit-to di veicolo celava piú segreti di un confessionale; iocon abbandono gli raccontai di Marta, del suo ingenuomistero. Verso sera, già in vista dei primi sobborghi, cisorprese la nebbia. Piccoli banchi fioccosi che venivanoa rompersi contro il cofano come i flutti di un lattigino-so Acheronte. Questo ritardò il cammino ed era già buioquando sentimmo da presso, alla solita svolta, l’odoredella Rocca, un odore che riconoscerei fra mille: di for-malina e di soave putrefazione.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

131Letteratura italiana Einaudi

Page 135: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

132Letteratura italiana Einaudi

Finalmente vedemmo all’ingresso, in piedi accanto al-la garitta del portinaio, il Magro che m’aspettava. Mi ac-colse con l’unzione di un padre, gli bastò un gesto perricacciare nel nulla il mio insensato pas de deux con laballerina.

«Non giustificarti, ragazzo» mi disse. «Dopotutto èmeglio cosí. È morta fin troppo tardi. Ma nessuno haorecchio a capire la musica della propria esistenza, e afermarla al momento giusto. E per lei quel momento eragià venuto due volte».

Capí dall’avidità con cui bevevo le sue parole cheavrei voluto saperne di piú, e aggiunse:

«Pazienza, non ora. Del resto non manca piú molto,la mia musica stessa è agli sgoccioli. Una fuga, è stata,una fuga. Ho corso attraverso la vita, senza capirci nien-te. Ma ormai, fra una o due parasanghe, c’è il mare: lesaette di Artaserse non mi raggiungono piú».

Ai funerali di Marta non volli assistere. Bensí al bru-ciamento delle cose di lei nel forno crematorio dellaRocca. Il Magro era al mio fianco, e insieme seguimmocon lo sguardo le vestaglie, le babbucce, i tutú della suacassapanca d’attrice, spinti dall’attizzatoio dell’infermie-re a pigiarsi nella cavità del congegno, ardere, crepitare,incenerirsi. Anche un mazzetto di foto, che avrei pretesodi risparmiare, seguí la medesima sorte, e fra le molteuna – dove era lei sulle ginocchia di un oberleutnant inuniforme, con una dedica dietro «a Garance», firmataVon Tizio o Von Caio – m’inferse una punta di baionet-ta nel ventre, mentre s’attorcigliava fra le fiamme e ilMagro la commentava (essendo che in lui ogni cosa,apoteosi o rovina, era sempre dannata a travestirsi in pa-role di libri) con una citazione di cui solo dopo mi parvedi poter cogliere il senso:

cosí s’osserva in lor lo contrappasso.

Page 136: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Di ritorno nella mia stanza mi buttai sul letto a pensa-re e m’addormentai a tradimento, con un braccio serra-to sugli occhi. La stanza era scura quando mi svegliai.Scura e umida. Guardai fuori e vidi un cielo tanto nero,non capivo cos’era. Quand’ecco un odore che avevo giàsentito prima, senza decifrarlo, entrare nel mio sonno,s’illuminò d’improvviso, e fu odore di piccola pioggiasull’erba, odore di nebbia, fioca aria di temporale lonta-no. Allora uscii sulla veranda e m’affacciai a guardare ilgiardino. Era buio, il giardino, ma distinsi il lustrare diuna cesoia dimenticata nell’erba, percepii la soddisfazio-ne delle radici dentro la terra bruna e bagnata. È piovu-to, ecco dunque l’autunno. Bisogna che parta, mi dissi,troppo tempo ho perduto fra i morti, simulandomi mor-to, scordandomi dell’ironia. E ripensai a un vecchio delmio paese, un Ecce Homo da Venerdí Santo, che paga-vano per mimare ogni anno sul sagrato una posticciaMort’e Passione. Amava, dopo la recita, pavoneggiarsiun poco fra la folla nella divisa divina, prima di restituir-si alla sua bottiglia di peccatore feriale. Chissà se è mor-to, mi chiesi, chissà se la parte è vacante...

Intanto quieta quieta veniva giú di nuovo la pioggia.Io restavo col capo sporto fuori a metà, sotto l’acquache gocciava dai coppi del tetto, e mi sentivo stranamen-te lieto. O pago, piuttosto, mentre guardavo nel giardi-no il prato imbeversi ancora e l’acqua battere il suo mitealfabeto sulle sedie di ferro rovesce, sul fogliame e gliaghi degli alberi.

E mi dicevo che l’estate era finita, e la mia gloria in-sieme. E che di tante febbri, e frasi, e fazzoletti zuppi dilacrime e sangue, perfino il ricordo presto si sarebbeconsumato, una vacanza era stata, una debolezza delcuore che voleva educarsi a morire. Come tutte le grandipesti, anche questa infima mia finiva con una pioggia. Incompagnia dell’acqua che mi colava dai capelli e mi ri-gava le gote, il male si scorporava da me, se ne andava.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

133Letteratura italiana Einaudi

Page 137: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

Ma con esso ogni resto d’orgoglio; con esso, forse, lagioventú. Mi attendevano altre strade, domani. Facili,rumorose, comuni. Le mezze fedi, le false bandiere. Mici sarei rassegnato, che altro potevo fare? Poiché la se-duzione del nulla era inutile, riluttando il cuore per tan-ti segni a farsene persuadere. E l’infelicità, col suo mieleamaro, neppure essa mi serviva piú.

134Letteratura italiana Einaudi

Page 138: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

XVII

Anche stanotte, cinque novembre del settantuno,venticinquesimo anniversario della mia dimissione dallaRocca, mi sono svegliato a metà del sonno col sapore delsangue nella gola. Ho acceso la lampada, ho sputato co-me un tempo, rozzamente, nel palmo della mano, perispezionare subito e da vicino ogni minima stilla. Mac-ché, niente. Solo candida, miracolosa, beneaugurantesaliva. È dunque vero che sono guarito, anche se durofatica a capacitarmene e la memoria s’intestardisce anco-ra a suscitarmi nel palato, dopo tanti anni, la minaccia diquel gusto dolcigno e fatale. Coazione a ripetere, avreb-be detto il Gran Magro, che era stato in Austria a studia-re: la emottisi come vocazione, inclinazione viziosadell’animo...

Bisognava chiamare col campanello la suora di turno;farsi sollevare il capo piano piano, perché venisse insi-nuato sotto le spalle un secondo e piú alto guanciale;aspettare che una borsa di ghiaccio, ancile e ciborio aprotezione del petto, serrasse le termopili contro il ne-mico, ne sventasse l’invasione e la silente marea. Frat-tanto la morfina sarebbe venuta ad accendere cerchi diluce sempre piú ampi, in corsa verso un raggiante puntodi fuga: petali arancione sfogliantisi senza tempo inun’aria di efferato silenzio. Poi, l’indomani e dopo, l’ine-vitabile rito: l’indagine dei raggi, i cibi freddi, il riposo aletto per almeno tre giorni, le gazzette a iosa sul capez-zale, piene di Montelepri e di Partinichi. Mentre io, di-fensivamente, m’impressionavo per titoli piú lontani:Gilda cala, bomb away, su capre e navi alla fonda a Biki-ni; ghigliottinato Pétiot; una ragazza è annegata nel Ser-chio...

Avevo guadato il Serchio anni prima, con le scarpe le-

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

135Letteratura italiana Einaudi

Page 139: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

gate attorno al collo, e gli abiti e il modello 91 sollevati abraccia sopra il pelo dell’acqua, com’è possibile morirein un metro d’acqua, deve esserci un risucchio, una per-fidia in agguato. Sarebbe stato bello muoversi come al-lora, nudi, nell’acqua; scendere a queste spiagge di qui,Isola delle Femmine, Valdesi. Non potevo, non avreipotuto mai piú. Allora una bagnante entrava nel mio so-gnare, con un costume tutto nero e una gocciola di maresulla coscia sporca di sabbia, e oscillava su e giúnell’aria, come da un’amaca di nebbia che dondolassesul mio capo adagio, su e giú sempre, per l’eternità. Ilventilatore parlava da un angolo della stanza, e le scom-pigliava i capelli. Ed erano i capelli di Marta, i capelli diun’annegata.

Dopo la morte di Marta rimasi ancora poche settima-ne alla Rocca. L’autunno era giunto, coi suoi gracili gelie le foglie secche a turbine contro i vetri. Le seminava ilvento per la veranda, e noi le spazzavamo all’alba, minu-ziosamente. Tanto per fare qualcosa, per dare una ma-no. M’avevano messo in un’altra stanza, con un compa-gno diverso, un taciturno separatista che leggeva i BeatiPaoli da cima a fondo e senza posa ricominciava. Coivecchi commilitoni ci vedevamo lo stesso nelle ore disdraio e di giardino, ma una cosa era mutata fra noi,troppo vicini eravamo, con opposte destinazioni, al con-gedo. Del resto le loro morti si susseguirono svelte, fuun repulisti, una svendita. Si uccise Sebastiano un matti-no, nell’ora in cui le inservienti passano fra branda ebranda con un secchio e uno straccio bagnato, e si la-sciano dietro le spalle un sentore amaro di segatura.Morí il colonnello, due giorni dopo, per un insulto chechiamarono pneuma spontaneo. Morí, dopo il Pensiero-so, l’Allegro, come non sopportasse di restar scompa-gnato. Morí il Gran Magro, infine, il nobiluomo Maria-no Grifeo Cardona di Canicarao.

136Letteratura italiana Einaudi

Page 140: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Fu qualche giorno prima che io partissi, e me ne stavonella camera a torso nudo davanti allo specchio, guar-dandomi e catalogando i segni di lapis blu, le chiose diVasquez non ancora sbiadite dopo l’ultima visita. Guar-davo ed ero dubbioso se conservare ancora per un po’quello stemma di Mano Nera o cancellarlo a forza di sa-pone, come l’assassino strofina con una pelle di camo-scio l’impugnatura della pistola. Ed ecco sentii dietro laporta la voce di suor Crocifissa che mi chiamava. IlGran Magro ne aveva per poco e mi voleva vedere. Miaugurai, mentre mi rivestivo, di arrivare troppo tardi, etuttavia, contraddittoriamente, feci in fretta piú che po-tei e quasi di corsa raggiunsi l’uscio semichiuso, sormon-tato da una targhetta d’ottone che i suoi nomi e i suoi ti-toli riempivano fino all’orlo.

Ritrovai, entrando, lo stesso squallore dell’ultima vol-ta. In piú, nell’aria, nonostante che sulle piastrelle delpavimento un lingua di sole pigramente si torcesse, unfiato caldo e carnoso di stufa. Mi avvicinai al letto, don-de lui offriva allo sguardo, con una sottomissione, final-mente, la povertà risoluta della barba lunga, della facciacolor terra, che s’andava corrompendo a vista, di minu-to in minuto. Come lavorava presto, con che abili dita,la malabestia dentro di lui, come aveva fretta di finire.

Accostai una sedia al letto, mi sedetti, ero pratico diagonie. Il vecchio non diceva parola, solo ogni momentochiedeva con un cenno, e beveva, grandi bicchieri d’ac-qua, asciugandosi poi le labbra con un batuffolo di bam-bagia che teneva dentro la manica della camicia, come ilfazzoletto le donne. Parve infine accorgersi di me, masolo per additarmi con gli occhi sul marmo del comodi-no un involto. Mi accorsi allora che a portata della miamano l’eredità promessa m’aspettava: il fascicolo diMarta, e con esso una pila di calepini, i segreti diari dilui. Uno ne sfogliai, il cui titolo in inchiostro rosso (Soli-loquia, Turpiloquia, Somniloquia) mi attrasse. Ma smisi

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

137Letteratura italiana Einaudi

Page 141: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

subito quando vidi ch’era colmo di bestemmie e pezzet-ti di ricordi incollati e cedole e foto oscene, con a com-mento processioni di endecasillabi, il cui meccanico pas-so dell’oca smentiva le inquietudini promesse dalfrontespizio.

«Che devo farne?» domandai, curvandomi sugli oc-chi chiusi del malato, senza riceverne risposta, a menoche non fosse risposta il moto impaziente della sua ma-no che, chiusa a pugno, debolmente mi picchiò controla gamba. Poi di colpo udii la sua voce, e non me l’aspet-tavo piú, che in un rantolo: «Mandali a mia moglie, co-glione» mi disse.

Ma eravamo ormai veramente alla fine. Lui mi guar-dava ora con un’espressione bizzarra, divisa fra indigna-zione e stupore. Poi per l’ultima volta stentatamentecitò: «Già sente Orlando che la vista ha perduto» eprovò con labbra incapaci un sorriso, che s’interruppe ametà, mentre una minuscola goccia d’umore dall’angolodella bocca gli sfuggiva sul collo con rivoltante lentezza,e il supremo gong della morte gli risonava nel petto.

Rimase cosí, con una sorta di ghigno, non perversoma lieto, dipinto sul viso, un ghignetto che gli conosce-vo, cosí vivido che mi ci volle tempo per capire ch’era fi-nita, e che ogni minuto, a partire da quello, sarebbe sta-to uguale per lui: una catena uguale di neri minuti, unfiume senza sponde di identici, eterni, inaccaduti minu-ti.

Fu allora che si sentí nella stanza un breve ringhio, se-guito da un silenzio. Era suor Crocifissa che cominciavail suo pianto. Stava con lui alla Rocca dai tempi dellagiovinezza, gli era caninamente legata, fino ad assisterlocon le sue mani nella miseria finale, quando defecava frale lenzuola. E ora si lamentava, in dialetto, senza velo,coi grigi cernecchi sulla fronte, scapigliata e monotonacome una rugosa Madonna, tenendo il capo di lui fra lebraccia. Io mi sentivo stanchissimo, troppo stanco per

138Letteratura italiana Einaudi

Page 142: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

spendere un sospetto su quella commozione di vedova.Né dopotutto in quel momento pensavo ad altro se nonal prezioso quaderno che stringevo nel pugno. Che avreitrovato – mi chiedevo – sotto la copertina delle impassi-bili carte intestate a Levi Marta, di Levi Tullio e di DellaPergola Miriam? Che scolopendre sotto quella pietra?Le prove di una colpa senza nome, di un patimento sen-za colpa? O che avrei appreso in aggiunta a quel che giàsapevo di lei; quali immagini avrebbero osato stravolge-re o cancellare l’unica che volevo me ne restasse, di unserafino dalla vita sottile, con occhi come ciottoli d’eba-no nel fiero ovale ammansito da una corta chioma di lu-ce?

La stufa era lí accanto, non esitai.

Rimasi ancora fino alla fine del mese per i controllidefinitivi. «Routine» ammise con bontà il successore delMagro, un albino glabro e roseo, un medico nato, chequando si toglieva il camice, pareva spretarsi. «In realtàavresti potuto andartene da un bel po’». Assentii, m’eragià sorto il sospetto che il Magro avesse insistito, confor-me alla sua natura malinconica e occulta, e meno per in-sipienza che per malizia, a tenermi prigioniero alla Roc-ca, continuando a insufflarmi vento fra le pleure al di làdei termini che comanda la terapia.

Non stetti a domandarmi perché. Mi venni poi con glianni persuadendo che di me egli avesse voluto servirsitorbidamente per insinuare una terza scenica presenzanel suo altrimenti corrivo sodalizio con Marta. Una pie-tra d’inciampo, un germe di peripezia e di teatro, che loeccitava, forse, e in ogni caso movimentava le sue gior-nate. Tanto riescono a essere feroci le uggie della solitu-dine e della senilità. D’altronde, cosí trattenendomi, eglisapeva di blandire una mia ormai attempata claustrofiliae quel terrore che m’assaliva quando pensavo di doverperdere un giorno la coltre d’aria che m’aveva finora

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

139Letteratura italiana Einaudi

Page 143: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

protetto e quasi amorosamente fasciato. Chi mi garanti-va che, riespandendosi nel pieno respiro, le mie cicatricinon si sarebbero stracciate di colpo, come le cuciture diun abito di rigattiere? Non sarebbe riesploso il male agola spiegata, con lo stesso processo di un tema di sinfo-nia che, appena enunciato all’inizio, e poi perso, alluso,ripreso, torna infine nel finale con tutti gli strumenti acantare?

Il nuovo curante mi rincuorò. E benché gli sfuggisseil soprasenso che a quella paura ero tentato di attribuire,trovò le parole appropriate: «Accade a tutti cosí. È unvizio, ma ci vuole poco a svezzarsene. Non è il caso difare un dramma».

Un dramma non era, me ne convinsi. Anche se nonpotevo esimermi di titubare di fronte all’impegno nuovoche mi attendeva e m’imponeva di recidere il mio como-do cordone ombelicale col sublime: non sarebbe statofacile, d’ora innanzi, trasgredire i precetti di questo re-cente apprendistato di morte e al posto di una parte diprim’attore, già scritta, improvvisare le battute di unacomparsa. Come quindi mi sembravano ora intempesti-ve e aliene la sicurezza e la salute di cui m’ero cinica-mente gonfiato il petto sulla spiaggia, a fianco della miacondannata compagna! Non piú da lei, o dagli altri tutti,mi toccava ora divorziare per sempre. Ma da un’effigiedoppia, un trompe-l’oeil di me stesso, un ectoplasmaelusivo che avevo imparato ad amare, e che avrei dovutolasciarmi in pegno dietro le spalle, come il giovinettoevangelico il suo mantello agli sgherri. Cosí sulle sogliedell’improrogabile epilogo, il mio spirito dubitava, in al-talena fra delusione e speranza, senza che mai cessassedi considerare, nel medesimo tempo, la guarigione unacaduta e la morte uno scandalo.

Convenne decidersi, partire. Fu in un’alba di novem-bre, fredda. Con mani ghiacciate, nel buio, per non sve-

140Letteratura italiana Einaudi

Page 144: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

gliare il mio compagno di stanza, feci i miei preparativi,assistito solo dal rigo giallo, acceso tutta la notte, chetrapelava sotto la porta del corridoio.

Alla finestra la Conca d’Oro appariva colma di neb-bia, a perdita d’occhio. Schiacciai invano sui vetri lafronte per guardare commemorativamente il giardino.Troppo denso l’untume che la foschia ci aveva spalmatosopra, e su cui, prima di andarmene, rifeci il gioco diMarta, scrivendo con un dito il suo nome al centro di unpungente quadrato di croci.

Nel parco l’aria, ancora quasi notturna, mi strizzò lapelle con un certo piglio animoso, mi sentii simile a unoperaio che esce col suo fagotto, riprovai la casta, sfeb-brata felicità di essere vivi, svegli in un giorno giovane,delle mattine di caserma. Cosí raggiunsi l’uscita, dovenon mi disse che scarse parole il vecchio Carabillònell’atto di restituirmi senza guardarlo il passi che gliporgevo. Scarse e vernacole, al solito: un augurio bisbe-tico di non tornare piú. «Acqua davanti» mi disse «eventu darreri», a cui remissivamente risposi col saluto dirispetto che m’aveva insegnato mia madre e che mi ri-sorrise nuovo nuovo nella memoria: «Vassa benedica».

Rivolgendolo uguale, ma a voce piú bassa, per ingra-ziarmele, alle maschere del mio futuro, m’avviai quindi aquest’altro bando di leva, con le dita un’altra volta ardi-te sulla maniglia d’una valigia, e fra le labbra, per cimen-to, una sigaretta, mentre il cancello della Rocca mi sichiudeva alle spalle con un silenzio di tenda.

Non mi restò, dopo, che passeggiare sotto la pensili-na, fumando, in attesa del tram che mi avrebbe condot-to in città, e battendo ogni momento i piedi sul marcia-piedi, per tenermi compagnia. Fredda, colore del peltro,era la strada, e camminarci su e giú era come confonder-si ombra fra le ombre di un paese cimmerio. Mi parveuna d’esse il fattorino in bicicletta che mi guizzò accantocon morbidezze di giocoliere, e si perse subito dietro

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

141Letteratura italiana Einaudi

Page 145: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

una curva prima che potessi gridargli di prendermi sultelaio, di portarmi con sé, da un’edicola all’altra, coisuoi pacchi di giornali, alla buon’ora.

Il tram non spuntava, tuttavia. Ero solo nel mondo,senza nemmeno la mazza ferrata del guardiano nottur-no, il cui casalingo rumore m’incoraggiava nelle inson-nie dell’infanzia. E la città pareva in guerra contro dime, tutta catrami e cavi e pietre, un pugno di spine dure.Come m’avrebbero accolto, essa e il mondo, me con lamia sporcizia invisibile? Era un nastrino, il tatuaggio cheportavo nel petto, o il segno d’un’empietà da coprire colvelo nero? Io avevo compiuto un viaggio, un viaggio im-portante, ma ora era difficile capire se fra gli angeli osottoterra; e se ne riportavo un bottino di fuoco o soloun poco di cenere sotto grigi bendaggi di mummia. «Ve-ni foras» mi ordinai nel pensiero. «Lazzaro, vieni fuori».E mi rituffai nell’aria di fuori, la sentii con riconoscenzaaprirsi amica ad accogliermi, farmi posto dentro di sé,come la sabbia ad un corpo nudo.

Allora, in gara col fiato dei pini che mi giungeva a fo-late di sopra il muro di cinta dell’ospedale, volli inghiot-tire un sorso lungo di nebbia, fino a irrigarmene e a nu-trirmene ogni piú remoto e vulnerabile alveolo:parendomi, quel gesto, un novissimo battesimo, da cuidovesse cominciare a contarsi la vita che mi restava.

Cosí, sotto la tettoia, seduto ora sulla cassetta d’ordi-nanza, rimasi per un pezzo a respirare il vapore dell’aria,finché non vidi il primo convoglio della giornata lam-peggiare da lontano e scendere lungo il corso rapida-mente, sostando solo un istante alle fermate deserte, masubito accelerando, quasi per recarmi al piú presto laparticola sperata di remissione e di pace. Non c’era nes-suno con me ad attendere, e feci appena in tempo, men-tre posavo il piede sul predellino, a volgermi un istante,prima che il veicolo ripartisse, per guardare un’ultimavolta, fra pini, palme e cipressi, la Rocca.

Mi sarebbe rimasta poi sempre negli occhi cosí, la

142Letteratura italiana Einaudi

Page 146: Diceria Dell'Untore - Gesualdo Bufalino

vecchia arca in disarmo, senza una luce a bordo né unrumore, se non quello di una tosatrice invisibile che ra-deva l’erba dietro il garage; cosí l’avrei sempre rivistonei miei sogni futuri: un livido colombario di pietra, unacarena di bastimento, incagliata per l’eternità fra le radi-ci dei rampicanti, col suo carico d’annegati. Io ne eroevaso, per chissà quale disguido o colpo felice di dadi,ma, anche se salvo, piú derelitto e piú triste. Simile a unvetro ragnato, a un parabrezza scheggiato da un sasso;ricco, ma d’una ricchezza furtiva e inusabile, moneta dimala zecca; giovane solo a metà, e vecchissimo l’altrametà, sarei ora disceso fra gli uomini. M’aspettava unavita nuda, uno zero di giorni previsti, senza una brace néun grido. Uscire mi toccava dalla cruna dell’individuoper essere uno dei tanti della strada, che amministranoumanamente la loro piccina saviezza d’alito e d’anni.Ma, allo stesso modo dell’istrione in ritiro che riponenel guardaroba i corredi sanguinosi di un Riccardo o diun Cesare, io avrei serbato i miei coturni, e le tirate alproscenio dell’eroe che avevo presunto di essere, in unangolo della memoria. Per questo forse m’era stato con-cesso l’esonero; per questo io solo m’ero salvato, e nes-sun altro, dalla falcidia: per rendere testimonianza, senon delazione, d’una retorica e d’una pietà. Benché sa-pessi già allora che avrei preferito starmene zitto e por-tarmi lungo gli anni la mia diceria al sicuro sotto la lin-gua, come un obolo di riserva, con cui pagare ilbarcaiolo il giorno in cui mi fossi sentito, in séguito adaltra e meno remissibile scelta o chiamata, sulle sogliedella notte.

Gesualdo Bufalino - Diceria dell'untore

143Letteratura italiana Einaudi