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Letteratura italiana Einaudi Operette morali di Giacomo Leopardi

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Letteratura italiana Einaudi

Operette morali

di Giacomo Leopardi

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Letteratura italiana Einaudi ii

Edizione di riferimento:Edizioni Scolastiche Bruno Mondadori, Milano 1991Selezione e commento di Giorgio Panizza

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Sommario

Storia del genere umano 1Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo 42Dialogo di Malambruno e di Farfarello 53Dialogo delle Natura e di un’Anima 60La scommessa di Prometeo 72Dialogo di un Fisico e di un Metafisico 96Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare 112Dialogo della Natura e di un Islandese 137Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie 156Cantico del Gallo silvestre 175Dialogo di Timandro e di Eleandro 189Dialogo di un Venditore d’almanacchi edi un Passeggere 216Dialogo di Tristano e di un Amico 221

Letteratura italiana Einaudi iii

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1Letteratura italiana Einaudi

1 rr. 1-46. Primo stadio della storia umana. È un periodo del tut-to immaginario, ma funzionale, secondo quella che possiamo chia-mare una «ipotesi per assurdo», alle riflessioni che Leopardi inten-de proporre.

2 Narrasi: il verbo regge il primo periodo (che + cong.) e il se-condo (E che... si scuopre); ma già il terzo, molto lungo, è indipen-dente (Ma nondimeno... crescevano).

3 e tutti bambini: si noti l’irrealtà dell’invenzione; unita agli altridati di partenza (uomini creati per ogni dove a un medesimo tem-po), è questa una delle premesse più importanti per lo svolgimentodell’ipotesi formulata con il primo tratto di racconto.

4 fossero... Giove: le fonti sono ricordate da Leopardi in una no-ta dell’autografo: «api. Callim[aco]. colombe. Ateneo. capre. la ca-pra amaltea». Nutricati (latinismo) è la forma continuativa di «nu-trire» (sono forme che Leopardi studia a lungo in appunti delloZibaldone); educazione ha il senso latino di «crescita, sviluppo».

5 E che la terra... scuopre: e l’altro insieme di condizioni, an-ch’esse irreali, da cui può muovere l’ipotesi. Magnificenza: «mani-festazione di grandezza».

6 pascendosi: alimentandosi.

STORIA DEL GENERE UMANO

1Narrasi2 che tutti gli uomini che da principio popo-larono la terra, fossero creati per ogni dove a un medesi-mo tempo, e tutti bambini3, e fossero nutricati dalle api,dalle capre e dalle colombe nel modo che i poeti favo-leggiarono dell’educazione di Giove4. E che la terra fos-se molto più piccola che ora non è, quasi tutti i paesipiani, il cielo senza stelle, non fosse creato il mare, e ap-parisse nel mondo molto minore varietà e magnificenzache oggi non vi si scuopre5. Ma nondimeno gli uominicompiacendosi insaziabilmente di riguardare e di consi-derare il cielo e la terra, maravigliandosene sopra modoe riputando l’uno e l’altra bellissimi e, non che vasti, mainfiniti, così di grandezza come di maestà e di leggiadria;pascendosi6 oltre a ciò di lietissime speranze, e traendo

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7 contento: contentezza. 8 Ma nondimeno... felicità: la costruzione del periodo è rallenta-

ta dalla lunga serie dei gerundi, ma nello stesso tempo tesa verso laproposizione principale e verso la conclusione sulla parola chiavedel passo (felicità), rilevata per significato, posizione e accento. Inquesto modo è consentito al lettore di cogliere con un unico sguar-do effetto e cause, nel loro prodursi; può cioè percepire che la feli-cità degli uomini non è cosa diversa dalle sensazioni descritte. No-tiamo quali sono: piacere generato dall’idea di vastità e infinità delmondo; speranze; diletti provocati dal sentirsi vivi, cioè dal sentirele sensazioni. Poiché anche il secondo e terzo motivo sono causa dipiacere in quanto non limitati, conclusivamente felicità e piacereproveniente dalla sensazione di infinito vengono a coincidere. Ol-tre all’effetto determinato dalla struttura sintattica, altri fatti for-mali si collegano a rendere sensibile la descrizione di Leopardi. Ve-diamoli in sintesi: parole polisillabe, e in particolare dilatate quelleche indicano il sentimento umano (compiacendosi insaziabilmente,riguardare, considerare, meravigliandosene, ecc.); superlativi (bellis-simi, lietissime); composti con in- negativo (insaziabilmente, incre-dibili, infiniti); plurali non strettamente giustificati dall’oggetto de-scritto (quindi, a parte bellissimi... vasti… infiniti, anche lietissimesperanze, incredibili diletti). Sono tutti fenomeni che rientrano traquelli chiamati da uno studioso (Blasucci) «i segnali dell’infinito»,perché ad essi Leopardi ricorre tutte le volte in cui vuole che la pa-gina richiami sensazioni «vaste e indefinite», e insomma l’idea delpiacere. Anche a proposito della descrizione del mondo al tempodi Adamo nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi Leopardi notava: «Siprocuri di destare un’idea vasta e infinita di questa solitudine» (Lepoesie e le prose, op. cit., I, p. 429). 9 consumata dolcissimamente:ecco un altro superlativo; tutta l’espressione riassume per forma eper contenuto il passo precedente, preparando il lettore a una mu-tazione.

10 ferma: matura; cfr. Al conte Carlo Pepoli, v. 115, «nella fermae nella stanca etade» (e vedi tutto il passo).

da ciascun sentimento della loro vita incredibili diletti,crescevano con molto contento7, e con poco meno cheopinione di felicità8. Così consumata dolcissimamente9

la fanciullezza e la prima adolescenza, e venuti in età piùferma10, incominciarono a provare alcuna mutazione.

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11 Perciocchè: «Per il fatto che»; introduce come causale tutto ilcomplesso periodo che segue.

12 rimettendo: come se le spostassero avanti continuamente, inattesa di un compimento; cfr. Il Parini ovvero della gloria, X, r. 42 eseg.: «la speranza, quasi cacciata e inseguita di luogo in luogo, inultimo [...] si ferma nella posterità».

13 non si riducendo... effetto: non realizzandosi. 14 massimamente: soprattutto. 15 quella prima vivacità: vedi rr. 14-15. Per tutto il passo cfr. Zi-

baldone, p. 166: «perché questa è un’altra delle proprietà delle co-se, che tutto si logori, e tutte le impressioni a poco a poco svanisca-no, e che l’assuefazione, come toglie il dolore, così spenga ilpiacere».

16 ancorché grande... certi: esatto contrario di quanto sembravaprima («il cielo e la terra [...] non che vasti, ma infiniti»), come no-ta in Zibaldone, p. 1465: «L’esperienza dimostra necessariamente iconfini di molte cose anche all’uomo naturale e insocievole». Cfr.Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 30-31: «Vix ita limitibus dissaepseratomnia certis».

17 non... incomprensibili: «non tali da non poter essere contenu-

Perciocché11 le speranze, che eglino fino a quel tempoerano andati rimettendo12 di giorno in giorno, non si ri-ducendo ancora ad effetto13, parve loro che meritasseropoca fede, e contentarsi di quello che presentemente go-dessero, senza promettersi verun accrescimento di bene,non pareva loro di potere, massimamente14 che l’aspettodelle cose naturali e ciascuna parte della vita giornaliera,o per l’assuefazione o per essere diminuita nei loro ani-mi quella prima vivacità15, non riusciva loro di gran lun-go così dilettevole e grata come a principio. Andavanoper la terra visitando lontanissime contrade, poiché lopotevano fare agevolmente, per essere i luoghi piani, enon divisi da mari, né impediti da altre difficoltà; e doponon molti anni, i più di loro si avvidero che la terra, an-corché grande, aveva termini certi16, e non così larghiche fossero incomprensibili17 e che tutti i luoghi di essa

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ti dalla mente», cioè misurabili e rappresentabili. La «tendenza no-stra» è invece «verso un infinito che non comprendiamo» (Zibaldo-ne, p. 165). Cfr. poi r. 304 e seg. e, per tutto il passo, Ad AngeloMai, vv. 98-100: «e figurato è il mondo in breve carta; / Ecco tuttoè simile, e discoprendo, / Solo il nulla s’accresce».

18 la luce e lo spirito: per indicare la vita, come ne Le ricordanze,vv. 44-46, dove il perduto «caro tempo giovanil» sarà più caro an-che «che la pura / Luce del giorno, e lo spirar»; sulla parola spiritocfr. le osservazioni di Zibaldone, pp. 602 e 3854.

19 se ne privarono: attraverso una sintassi che tiene legato un pe-riodo all’altro (Per le quali cose, E di mano in mano) fino alla conse-cutiva (in sì fatta... che), siamo portati senza interruzione a questaconclusione violenta, segnata dal passato remoto come da un rim-bombo. Per l’idea narrativa, cfr. il passo di Zibaldone, p. 216.

20 rr. 47-124. Reazioni e provvedimenti degli dei. 21 Parve... Dei: la collocazione delle parole, con l’attesa creata

dalla prolessi di questo caso (vedi Galimberti), sottolinea il cambia-mento di scena, secondo l’alternanza su cui è costruita tutta l’ope-retta. L’attacco, che è del resto un endecasillabo, ricorda Bruto Mi-nore, v. 46 («Spiace agli Dei...»), ma l’argomento qui è tutt’altro.

terra e tutti gli uomini, salvo leggerissime differenze,erano conformi gli uni agli altri. Per le quali cose cresce-va la loro mala contentezza di modo che essi non eranoancora usciti dalla gioventù, che un espresso fastidiodell’esser loro gli aveva universalmente occupati. E dimano in mano nell’età virile, e maggiormente in sul de-clinare degli anni, convertita la sazietà in odio, alcunivennero in sì fatta disperazione, che non sopportando laluce e lo spirito18, che nel primo tempo avevano avuti intanto amore, spontaneamente, quale in uno e quale inaltro modo, se ne privarono19.

20Parve orrendo questo caso agli Dei21, che da crea-ture viventi la morte fosse preposta alla vita, e che que-sta medesima in alcun suo proprio soggetto, senza forzadi necessità e senza altro concorso, fosse instrumento a

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22 che questa medesima... disfarlo: «che la vita stessa, di per sé,senza motivi o necessità speciali, fosse un mezzo di morte per lecreature, cioè per coloro che sono l’unico suo ambito di realizza-zione (in alcun suo proprio soggetto)»; in breve, che la vita si auto-distruggesse. Per l’espressione, precisamente calibrata da Leopardinei suoi elementi, cfr. Dialogo di un Fisico e di un Metafisico, rr. 28-29, e soprattutto il passo di Zibaldone, pp. 3783-3784.

23 stanza: dimora. 24 con singolare studio: con impegno del tutto speciale.25 maravigliosa eccellenza: ripetendo la concezione tradizionale

dell’ordine perfetto delle cose create, l’autodistruzione degli uomi-ni, che sono il vertice di tale ordine, risulta ancora più assurda. Peril modo in cui Leopardi interpreta l’idea dell’eccellenza dell’uomonella scala degli esseri viventi, vedi Dialogo della Natura e di un’A-nima, r. 31 e seg. e r. 154 e seg.26 tocchi: toccati, commossi; cfr. Ilprimo amore, v. 60, «Ch’altro sarà, dicea, che il cor mi tocchi?».

27 tanta miseria… effetti: all’eccellenza stabilita dagli dei si con-trappone la miseria che la realtà dimostra.

28 eziandio: anche.

disfarlo22. Né si può facilmente dire quanto si maravi-gliassero che i loro doni fossero tenuti così vili ed abbo-minevoli, che altri dovesse con ogni sua forza spogliarse-li e rigettarli parendo loro aver posta nel mondo tantabontà e vaghezza, e tali ordini e condizioni, che quellastanza23 avesse ad essere, non che tollerata, ma somma-mente amata da qualsivoglia animale, e dagli uominimassimamente, il qual genere avevano formato con sin-golare studio24 a maravigliosa eccellenza25. Ma nel me-desimo tempo, oltre all’essere tocchi26 da non mediocrepietà di tanta miseria umana quanta manifestavasi daglieffetti27, dubitavano eziandio28 che rinnovandosi e mol-tiplicandosi quei tristi esempi, la stirpe umana fra pocaetà, contro l’ordine dei fati, venisse a perire, e le cose

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29 perfezione: cfr. Genesi, 2,1: «igitur perfecti sunt caeli et terraet omnis ornatus eorum».

30 dubitavano… uomini: lo spunto viene da Ovidio, Metamorfo-si, v. 246 e seg. Con le considerazioni degli dei svolte in questo pa-ragrafo, è chiarita la formulazione dell’«ipotesi per assurdo» diLeopardi: se la natura avesse fornito all’uomo un mondo comequello descritto all’inizio, gli uomini non avrebbero resistito e si sa-rebbero estinti.

31 querelavano: lamentavano. 32 che le cose non fossero... anzi essere: variazione nella struttura

sintattica (usata da Leopardi anche altrove), per cui in dipendenzada si querelavano un che + congiuntivo è coordinato a un infinito;quest’ultima è una forma di accusativo + infinito normale nella tra-dizione della prosa letteraria italiana.

33 dell’età provetta... gioventù: in scala decrescente; provetta si-gnifica «avanzata» (l’espressione è anche nel Cantico del gallo silve-stre, r. 123, e in Per una donna inferma di malattia lunga e mortale,v. 126; «provetti giorni» è ne Il passero solitario, v. 21, cfr. anche ilcommento di De Robertis).

34 essere tornati: si noti l’uso passivo, all’interno delle Operettemorali ripetuto solo in questa, r. 547 (nei Canti, «tornare» transiti-vo è in una variante rifiutata de Alla Primavera o delle favole anti-che, v. 92).

35 fanciullezza: perché l’unica età in cui avevano potuto conside-

fossero private di quella perfezione29 che risultava lorodal nostro genere, ed essi di quegli onori che ricevevanodagli uomini30.

Deliberato per tanto Giove di migliorare, poiché pa-rea che si richiedesse, lo stato umano, e d’indirizzarlo al-la felicità con maggiori sussidi, intendeva che gli uominisi querelavano31 principalmente che le cose non fosseroimmense di grandezza, né infinite di beltà, di perfezionee di varietà, come essi da prima avevano giudicato; anziessere32 angustissime, tutte imperfette, e pressoché diuna forma; e che dolendosi non solo dell’età provetta,ma della natura, e della medesima gioventù33, e deside-rando le dolcezze dei loro primi anni, pregavano ferven-temente di essere tornati34 nella fanciullezza35, e in quel-

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rare il mondo bellissimo e infinito, per la forza dell’immaginazionedi cui si parlerà tra poco [sulla fanciullezza vedi inoltre i passi cita-ti nelle note 60 e 211].

36 uffici: «compiti»; a uffici si connette in fine esercitare («com-piere attivamente»), a utilità, produrre.

37 comunicare: rendere comune. 38 Della qual cosa... uomini: attraverso la risposta di Giove è di-

chiarata da subito la condizione costitutiva del genere umano: gliuomini sono mortali, finiti, limitati; nessun sussidio divino può su-perare questo limite, posto dalle leggi universali della natura, edunque le richieste degli uomini non possono essere esaudite nellasostanza, ma solo alleviate da provvedimenti sostitutivi: la varietàdelle cose e le apparenze di infinito. A questo scopo si indirizzanogli aiuti di Giove descritti di seguito, che corrispondono alla effet-tiva «creazione del mondo», tradizionalmente intesa; fin dall’ini-zio, dice dunque Leopardi, il mondo fu disposto per «soccorrere»l’uomo, nei limiti che si sono visti, e per evitargli una precoce auto-distruzione. Oltre alla «teoria del piacere», vedi il Frammento sulsuicidio: «Tutto il piano della natura intorno alla vita umana si ag-gira sopra la gran legge di distrazione, illusione e dimenticanza»(Le poesie e le prose, cit., I, p. 1083).

39 Ben gli parve conveniente...: vari i punti di contatto con la de-scrizione ovidiana della creazione del mondo in Metamorfosi. I, v.32 e seg.; vedi in particolare vv. 43-44: «Iussit et extendi campos,subsidere valles, / fronde tegi silvas [per cui cfr. qui rr. 114-116],lapidosos surgere montes».

40 distinguerlo: renderlo diverso. 41 consiglio: decisione.

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la perseverare tutta la loro vita. Della qual cosa non po-tea Giove soddisfarli, essendo contraria alle leggi uni-versali della natura, ed a quegli uffici36 e quelle utilitàche gli uomini dovevano, secondo l’intenzione e i decre-ti divini, esercitare e produrre. Né anche poteva comu-nicare37 la propria infinità colle creature mortali, né farela materia infinita, né infinita la perfezione e la felicitàdelle cose e degli uomini38. Ben gli parve conveniente39

di propagare i termini del creato, e di maggiormenteadornarlo e distinguerlo40: e preso questo consiglio41,

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42 acciocchè: in modo che. 43 sembianza: aspetto. 44 impedisse che... non... conosciuti: il non è dovuto al senso di

divieto del verbo «impedire». Leopardi riprende l’idea antica percui l’attraversamento dei mari era stato uno dei principali atti di«disobbedienza» dell’uomo e tra i motivi della fine dell’età dell’o-ro. Cfr. Orazio, Odi, I, 3, v. 21 e seg., citato dallo stesso Leopardi inuna lunga riflessione sull’argomento, in Zibaldone, p. 3646; Ovi-dio, Metamorfosi, I, vv. 94-96, 132 e seg. Come tale, ma adattata al-la propria ricostruzione, l’immagine è ripresa più volte da Leopar-di: cfr. almeno Ad Angelo Mai, v. 84 e seg.; Inno ai Patriarchi. vv.67-69 («Agl’inaccessi / Regni del mar vendicatore illude / Profanadestra»).

45 depresse: abbassò. 46 suscitando: facendo sorgere. 47 cosperse: Leopardi avvicina l’italiano cospargere alla sua matri-

ce latina cospergere; recuperando così una parola «pellegrina», mariconoscibile.

48 aria: cfr. Ovidio, Metamorfosi , I, v. 23: «liquidum spisso se-crevit ab aëre caelum».

49 confuse: mescolò.

ringrandì la terra d’ogn’intorno, e v’infuse il mare, ac-ciocché42, interponendosi ai luoghi abitati, diversificassela sembianza43 delle cose, e impedisse che i confini loronon potessero facilmente essere conosciuti44 dagli uomi-ni, interrompendo i cammini, ed anche rappresentandoagli occhi una viva similitudine dell’immensità. Nel qualtempo occuparono le nuove acque la terra Atlantide,non solo essa, ma insieme altri innumerabili e distesissi-mi tratti, benché di quella resti memoria speciale, so-pravvissuta alla moltitudine dei secoli. Molti luoghi de-presse45, molti ricolmò suscitando46 i monti e le colline,cosperse47 la notte di stelle, rassottigliò e ripurgò la na-tura dell’aria48 ed accrebbe il giorno di chiarezza e di lu-ce, rinforzò e contemperò più diversamente che perl’addietro i colori del cielo e delle campagne, confuse49

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50 in guisa: in modo. 51 quell’infinito… desideravano: ecco riassunta in un’espressione

sola la ragione di tutte le richieste degli uomini. 52 pascere: vedi nota 6. 53 coloro: è l’uso letterario antico del pronome colui in senso

possessivo, che Leopardi mantiene (ma con significativi tentativi dicorrezione) in soli due casi, qui e in Dialogo di un Folletto e di unoGnomo (r. 116).

54 immaginazioni...fanciullezza: cfr. Zibaldone, p. 167 («teoriadel piacere»); vedi anche qui r. 401.

55 mare: vedi rr. 65-69. 56 l’eco... cime: vedi Zibaldone, pp. 1928-1929: «È piacevole

qualunque suono (anche vilissimo) che largamente e vastamente sidiffonda [...], massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A que-sta considerazione appartiene il piacere che può dare e dà (quandonon sia vinto dalla paura) il fragore del tuono, massime quand’èpiù sordo, quando è udito in aperta campagna; lo stormire del ven-to, massime nei detti casi, quando freme confusamente in una fore-sta, o tra i vari oggetti di una campagna [...]. Perocchè oltre la va-stità, e l’incertezza e confusione del suono non si vede l’oggettoche lo produce, giacché il tuono e il vento non si vedono. E piace-vole un luogo echeggiante, un appartamento ec. che ripeta il calpe-stio de’ piedi o la voce ec. Perocchè l’eco non si vede ec.». NegliErrori popolari aveva scritto: «Il timore aveva fatto riguardare il

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le generazioni degli uomini in guisa50 che la vecchiezzadegli uni concorresse in un medesimo tempo coll’altruigiovanezza e puerizia. E risolutosi di moltiplicare le ap-parenze di quell’infinito che gli uomini sommamentedesideravano51 (dappoi che egli non li poteva compiace-re della sostanza), e volendo favorire e pascere52 le colo-ro53 immaginazioni, dalla virtù delle quali principalmen-te comprendeva essere proceduta quella tantabeatitudine della loro fanciullezza54; fra i molti espe-dienti che pose in opera (siccome fu quello del mare)55,creato l’eco, lo nascose nelle valli e nelle spelonche, emise nelle selve uno strepito sordo e profondo, con unvasto ondeggiamento delle loro cime56. Creò similmente

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tuono e la folgore come cose soprannaturali. Esso fece qualche co-sa di più riguardo al vento. Per sua opera si attribuì a questo la Di-vinità! Si videro gli alberi agitarsi e crollare, mentre per l’aria udi-vasi un soffiai veemente e un romor forte, quasi di torrente chedall’alto precipitasse con empito. Guardando intorno, non vedeasicosa che cagionasse quel soffio. Questo fenomeno inconcepibilecolpì gli uomini primitivi» (cap. XIV, in Le poesie e le prose, op.cit., II, pp. 398-399). Si noti l’allitterazione in s e in o: «mise nelleselve uno strepito sordo e profondo».

57 il popolo dei sogni: l’immagine, come tutti i commentatori ri-cordano, è di Esiodo.

58 figurassero: «rappresentassero»; come in Amore e Morte, v.39: «Felicità che il suo pensier figura» (a sua volta da Petrarca, ve-di il commento di De Robertis).

59 perplesse: confuse; cfr. Detti memorabili di Filippo Ottonieri,IV, r. 9: «perplessità e sospensione d’animo».

60 Creò… reale: cfr. Zibaldone, p. 514: «Da fanciulli, se una ve-duta, una campagna, una pittura, un suono, ec. un racconto, unadescrizione, una favola, un’immagine poetica, un sogno, ci piace ediletta, quel piacere è sempre vago e indefinito: l’idea che ci desta èsempre indeterminata e senza limiti». È solo in questa immagina-zione che si possono placare i desideri degli uomini per quella pie-na felicità non realizzabile (ridurre in atto) e nemmeno intelligibile(vedi anche r. 35). Concludendo l’esposizione dei provvedimentidivini, si ripetono i dati di partenza, ma con nuovi elementi.

61 rr. 126-151. Secondo stadio della storia umana, conseguentealla prima serie di provvedimenti divini. È la fase primitiva, cheprecede il diluvio universale, corrispondente alla cosiddetta «etàdell’oro».

il popolo de’ sogni57, e commise loro che ingannandosotto più forme il pensiero degli uomini, figurassero58

loro quella pienezza di non intelligibile felicità, che eglinon vedeva modo a ridurre in atto, e quelle immaginiperplesse59 e indeterminate, delle quali esso medesimo,se bene avrebbe voluto farlo, e gli uomini lo sospirava-no ardentemente, non poteva produrre alcun esempioreale60.

61Fu per questi provvedimenti di Giove ricreato ed

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62 eretto: da avvilito che era (ma tra poco si tornerà all’abbatti-mento, r. 137, e agli animi affievoliti, r. 190); l’espressione è latina;cfr. inoltre Ovidio, Metamorfosi, I, v. 86: «erectos ad sidera tollerevultus».

63 grazia... vita: genitivo oggettivo: «il favore e l’amore verso lavita», in seguito di nuovo soppiantati da tedio e disistima (r. 135-136).

64 età verde: la giovinezza; metafora letteraria tra le più tradizio-nali, usata spesso da Leopardi (cfr. Al conte Carlo Pepoli, v. 116, e ilrelativo commento di De Robertis). Calore e speranze si contrap-pongono a freddi e stanchi.

65 affatto: del tutto. 65 bis serbarono: nota di leopardi: «(1) Erodoto, lib. 5, cap. 4.

Strabone, lib. 11, edit. Casaub. p. 519. Mela, lib. 2, cap. 2. Antolo-gia greca, ed. H. Steph. p. 16. Coricio sofista, Orat. fun. in Procop.gaz. cap. 35, ap. Fabric. Bibl. Graec. ed. vet. vol. 8, p. 859.» PerPlutarco si tratta dell’edizione recente (Firenze, Piatti, 1819) degliOpuscoli morali nella traduzione cinquecentesca dell’Adriani.

66 che nacque allora… estinto: dalle testimonianze sopravvissutenella fase successiva del genere umano, quella antica, si ricavano

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eretto62 l’animo degli uomini, e rintegrata in ciascuno diloro la grazia e la carità della vita63, non altrimenti chel’opinione, il diletto e lo stupore della bellezza e dell’im-mensità delle cose terrene. E durò questo buono statopiù lungamente che il primo, massime per la differenzadel tempo introdotta da Giove nei nascimenti, sicché glianimi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose, eranoconfortati vedendo il calore e le speranze dell’età ver-de64. Ma in progresso di tempo tornata a mancare affat-to65 la novità, e risorto e riconfermato il tedio e la disisti-ma della vita, si ridussero gli uomini in taleabbattimento, che nacque allora, come si crede, il costu-me riferito nelle storie come praticato da alcuni popoliantichi che lo serbarono65bis, che nascendo alcuno, sicongregavano i parenti e loro amici a piangerlo; e mo-rendo, era celebrato quel giorno con feste e ragionamen-ti che si facevano congratulandosi coll’estinto66. All’ulti-

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notizie sulle abitudini dello stadio in cui ora si trovano gli uomini,quello primitivo. I fatti citati da Leopardi al servizio del proprioracconto derivano dalle decisive letture da lui svolte durante il pri-mo soggiorno a Roma (novembre 1822-maggio 1823), che gli di-mostrarono chiaramente l’esistenza di un pensiero pessimista an-che nell’antichità. Tra gli appunti presi allora nello Zibaldone,eccone due riutilizzati in questa operetta: «Parmi plusieurs de cesnations que les Grecs appellent barbares, le jour de la naissanced’un enfant est un jour de deuil pour sa famille (HERODOT., 1. V,c. 4; STRAB., XI, p. 519, Anthol., p. 16). Assemblée autour de lui,elle le plaint d’avoir reçu le funeste présent de la vie. Ces plainteseffrayantes ne sont que trop conformes aux maximes des sages dela Grèce. Quand on songe, disent ils, à la destinée qui attendl’homme sur la terre, il faudroit arroser de pleurs son berceau:(EURIP., fragm. Ctesiph., p. 476; AXIOCH., ap. Plat., l. III, p. 368;CICER0, Tuscul., l. I, e. 48, t. II, p. 273)» [Zibaldone, p. 2671].«Pianger si de’ il dì nascente ch’incomincia Or a solcare il mar ditanti mali, E con gioia al sepolcro s’accompagni, L’uscito de’ trava-gli della vita. Poeta antico, appo Plutarco, Come debba il giovaneudir le poesie, volgarizzamento di Marcello Adriani il giovane» [Zi-baldone, p. 2673]. Il primo passo è una citazione da una delle lettu-re fondamentali di quel periodo, il Voyage du jeune Anacharsis enGréce di Jean-Jacques Barthélemy; da lì come si vede provengonoper gran parte i riscontri citati nella nota 1 di Leopardi.

67 a ogni modo: da ogni punto di vinta, comunque. 68 Perciocchè... calamità: interrotta la narrazione, al commento

diretto del narratore-autore tocca il compito di esprimere esplicita-mente il punto di più forte divergenza con le interpretazioni reli-giose, pagana e cristiana, della storia umana, in entrambe le quali èpresente l’idea che il dolore degli uomini provenga dalla loro em-pietà, dalla rottura di un patto che li lega alla divinità, tanto chequesta è costretta a punirli (in special modo col Diluvio Universa-

mo tutti i mortali si volsero all’empietà, o che paresse lo-ro di non essere ascoltati da Giove, o essendo proprianatura delle miserie indurare e corrompere gli animieziandio più bennati, e disamorarli dell’onesto e del ret-to. Perciocché s’ingannano a ogni modo67 coloro i qualistimano essere nata primieramente l’infelicità umanadall’iniquità e dalle cose commesse contro agli Dei; maper lo contrario non d’altronde ebbe principio la malva-gità degli uomini che dalle loro calamità68.

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le). Ovviamente la veste pagana copre il vero bersaglio polemico,che è il cristianesimo, indirizzandosi non solo al Diluvio, ma ancorpiù alla ricostruzione che la Genesi propone della cacciata dell’uo-mo dall’originaria condizione di felicità per sua colpa. A questoproblema Leopardi dedica numerose e importanti riflessioni delloZibaldone, sorte in seguito alla lettura del cattolico Lamennais (ve-di pp. 393-437, dicembre 1820), ma la sua impostazione è già chia-ra nelle Canzoni del 1824 (dalla cui edizione cito); cfr. Inno ai Pa-triarchi, v. 11 e seg.: «E se di vostro antico / Error che l’uman semea la tiranna / Possa de’ morbi e di sciagura offerse, / Grido anticoragiona, altre più dire / Colpe de’ figli, e pervicace ingegno, / E de-menza maggior l’offeso Olimpo / N’armaro incontra, e la neglettamano / De l’altrice Natura»; e Ultimo canto di Saffo, v. 37 e seg.(nel testo del 1824): «Qual de la mente mia nefando errore / Mac-chiommi anzi ’1 natale, onde sì crudo / Il Ciel mi fosse e di fortunail senno? / Qual ne la prima età (mentre di colpa / Nudi viviam)»ecc.

69 rr. 152-247. Dopo la punizione del diluvio, nuovi provvedi-menti degli dei.

70 protervia: superbia sfrontata. 71 Deucalione e Pirra: Deucalione, figlio di Prometeo, e sua mo-

glie Pirra sono gli unici scampati al diluvio secondo il mito greco,narrato distesamente da Ovidio. Il racconto tradizionale dice chela coppia, interrogata la dea Temi su come dar continuazione al ge-nere umano, ne ebbe come risposta di gettare dietro di sé le ossadella «gran madre», vale a dire le pietre, come interpretò Deucalio-ne, la «gran madre» essendo la Terra. Le pietre buttate si trasfor-marono appunto in uomini e donne. Opposto il racconto di Leo-pardi, che dei due superstiti fa uomini coscienti della loro sortedisperata e che dunque resistono a farsi strumento di perpetuazio-ne di una specie condannata all’infelicità. Rintracciabile anche inquesto passo qualche tassello dalle Metamorfosi ovidiane: «nuncgenus in nobis restat mortale duobus» (I, v. 365) rimanda a i duesoli; «desolatas... terras» (v. 349) e «populos reparare» (v. 363) ri-mandano a riparare alla solitudine della terra.

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69Ora poiché fu punita dagli Dei col diluvio di Deu-calione la protervia70 dei mortali e presa vendetta delleingiurie, i due soli scampati dal naufragio universale delnostro genere, Deucalione e Pirra71, affermando secomedesimi niuna cosa potere maggiormente giovare alla

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72 giovare... spenta: paradosso tragico: l’unico aiuto è la fine del-la specie.

73 chiamando… desiderio: cfr. Dialogo di Tristano e di un amico,r. 310 e seg.

74 non che... deplorassero: «tutt’altro che disposti a temere ecompiangere». Rovesciamento della narrazione di Ovidio, doveper bocca di Deucalione, i due si interrogano angosciati sul futuroloro e della specie (cfr. Metamorfosi, I, v. 350 e seg.). La costruzio-ne sintattica (principale + non che...) è la forma capovolta di quellapiù usuale non che… ma (vedi per esempio rr. 261, 330).

75 come: siccome. 76 dopo: dietro (cfr. «post terga», in Metamorfosi, I, v. 394); e di

uso frequente in Dante. 77 Ma Giove fatto accorto... felicità: torna il tema dominante del-

stirpe umana che di essere al tutto spenta72, sedevano incima a una rupe chiamando la morte con efficacissimodesiderio73, non che temessero né deplorassero74 il fatocomune. Non per tanto, ammoniti da Giove di ripararealla solitudine della terra; e non sostenendo, come75 era-no sconfortati e disdegnosi della vita, di dare opera allagenerazione; tolto delle pietre della montagna, secondoche dagli Dei fu mostrato loro, e gittatosele dopo76 lespalle, restaurarono la specie umana. Ma Giove fatto ac-corto, per le cose passate, della propria natura degli uo-mini, e che non può loro bastare, come agli altri animali,vivere ed essere liberi da ogni dolore e molestia del cor-po; anzi, che bramando sempre e in qualunque statol’impossibile, tanto più si travagliano con questo deside-rio da se medesimi, quando meno sono afflitti dagli altrimali; deliberò valersi di nuove arti a conservare questomisero genere: le quali furono principalmente due. L’u-na mescere la loro vita di mali veri; l’altra implicarla inmille negozi e fatiche, ad effetto d’intrattenere gli uomi-ni, e divertirli quanto più si potesse dal conversare colproprio animo, o almeno col desiderio di quella loro in-cognita e vana felicità77.

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l’operetta. L’espressione bramando... l’impossibile richiama quellaprecedente (r. 107-108), quell’infinito che gli uomini sommamentedesideravano (si noti il climax da «desiderare» a «bramare»), e chegià si è visto non era realizzabile; infatti è desiderio di una felicitàincognita e vana, come prima era non intellegibile (r. 119). Dunquela condizione «primitiva» all’uomo non basta, come sembra basta-re invece agli altri animali (cfn. Dialogo di Malambruno e di Farfa-rello, rr. 81-85). Perché? Per ciò che Leopardi chiama noia (è im-portante notare però che in questa operetta la parola non è maicitata: si descrive il fenomeno, senza darne il nome; solo «tedio», r.135), chiarendo fin dalla «teoria del piacere»: «Insomma la noianon è altro che una mancanza del piacere...» (vedi Zibaldone). Co-me dirà ne Al conte Carlo Pepoli: «e per se sola / La vita all’uomnon ha pregio nessuno» (vv. 16-17); è la riflessione che troveremopoi nella quinta strofa del Canto notturno di un pastore errante del-l’Asia (v. 105 e seg.). Ma a questa noia esiste ancora almeno qual-che tentativo di rimedio (in Zibaldone, p. 175: «E la natura è certoche ha provveduto in tutti i modi contro questo male [...]»; si ri-cordi ancora Ad Angelo Mai, vv. 70-72: «E pur men grava e morde/ Il mal che n’addolora / Del tedio che n’affoga». I rimedi sono ap-punto le nuove arti messe in opera da Giove, tutte con lo scopo didivertire (nel significato etimologico: «distogliere») gli uomini eraggruppabili in due categorie: mescere, «mescolare», la vita di ma-li, e implicarla, cioè «impiegarla, avvolgerla» in impegni gravosi(negozi, nel senso latino di «attività», e fatiche). Sotto questa formaLeopardi reinterpreta i dolori e le attività a cui l’uomo fu costrettouscendo dall’età dell’oro, secondo il racconto della mitologia clas-sica, ovvero dall’Eden, secondo la Genesi, cioè nel passaggio dalla«stato naturale» alla civiltà «antica».

78 Quindi: definiti i principi generali, si viene all’esposizionedettagliata (fino a r. 247) dei provvedimenti di Giove: in primo luo-go (rr. 179-211) mescere la […] vita di mali veri.

79 ovviare alla sazietà: «rimediare» alla sazietà, già vista comeuna delle cause principali del tedio umano.

80 crescere... beni: «accrescere il pregio dei beni nel contrasto

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Quindi78 primieramente diffuse tra loro una variamoltitudine di morbi e un infinito genere di altre sven-ture: parte volendo, col variare le condizioni e le fortunedella vita mortale, ovviare alla sazietà79 e crescere collaopposizione dei mali il pregio de’ beni80; parte accioc-

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con i mali», come Leopardi esemplifica ne La quiete dopo la tempe-sta (e cfr. qui rr. 203-211).

81 acciocchè... comportabile: «perché la mancanza dei godimentifinisse per essere, a chi aveva esperienza di cose peggiori, più sop-portabile».

82 la ferocia degli uomini: cfr. Dal greco di Simonide, I, vv. 27-28:«i miseri mortali / Volgo fiero e diverso».

83 sorte: si confronti con quanto Leopardi ebbe a dire di se stes-so: «L’animo, dopo lunghissima e ferocissima resistenza, finalmen-te è soggiogato, e ubbidiente alla fortuna» (lettera al Giordani del5 gennaio 1921); e, più in generale, si legga un pensiero degli stessigiorni in Zibaldone, pp. 503-504.

84 acume... veemenza: parole dalla sonorità spigolosa, che feri-sce. Cfr. «uno spron quasi mi punge» (Canto notturno di un pasto-re errante dell’Asia, v. 119), e qui r. 397 e seg. L’immagine vieneprobabilmente da Dante, Paradiso, I, vv. 83-84: «un disio / mai nonsentito di cotanto acume» (Della Giovanna).

85 interviene: avviene (ma Leopardi evita la ripetizione con r.142).

ché il difetto dei godimenti riuscisse agli spiriti esercitatiin cose peggiori, molto più comportabile81 che non ave-va fatto per lo passato; e parte eziandio con intendimen-to di rompere e mansuefare la ferocia degli uomini82,ammaestrarli a piegare il collo e cedere alla necessità, ri-durli a potersi più facilmente appagare della propriasorte83, e rintuzzare negli animi affievoliti non meno dal-le infermità del corpo che dai travagli propri, l’acume ela veemenza84 del desiderio. Oltre di questo, conoscevadovere avvenire che gli uomini oppressi dai morbi e dal-le calamità, fossero meno pronti che per l’addietro a vol-gere le mani contra se stessi, perocché sarebbero inco-darditi e prostrati di cuore, come interviene85 per l’usodei patimenti. I quali sogliono anche, lasciando luogo al-le speranze migliori, allacciare gli animi alla vita: imper-ciocché gl’infelici hanno ferma opinione che eglino sa-

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86 gl’infelici... mali: questa speranza è un’illusione, poiché, comesi è visto, agli uomini «non può […] bastare [...] vivere ed essere li-beri da ogni dolore» (rr. 123-124) per essere felici; ma è per Leo-pardi una delle illusioni tipiche dello «stato antico». «Sono semprestato sventurato, ma le mie sventure d’allora erano piene di vita, emi disperavo perché mi pareva [...] che m’impedissero la felicità,della quale gli altri credea che godessero. In somma il mio stato eraallora in tutto e per tutto come quello degli antichi», (così Leopar-di di se stesso, Zibaldone, p. 143; cfr. anche pp. 76-77). Il motivo ri-torna qui a rr. 376-377. «Riavere» ha il senso di «ristorare» (suquesto significato vedi un preciso appunto in Zibaldone, p. 4200).

87 la qualcosa... modo: vedi «il detto di Simonide» citato nel IlParini ovvero della gloria, X (è parziale anticipazione del testo datopoi per intero nei Canti): «La bella speranza tutti ci nutrica / Disembianze beate; / Onde ciascuno indarno si affatica; / Altri l’au-rora amica, altri l’etate / O la stagione aspetta; / E nullo in terra ilmortal corso affretta, / Cui nell’anno avvenir facili e pii / Con Plu-to gli altri iddii / La mente non prometta».

88 Appresso... nembi: cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, vv. 54-56: «illicet nebulas, illic consistere nubes / iussit et humana motura tonitruamentes».

89 tridente: «Al tridente di Nettuno attribuivano gli antichi lapotenza di scuoter la terra coi terremoti» (Porena). «Lui che la ter-ra scuote», inizia difatti l’Inno a Nettuno, il falso volgarizzamentodal greco di Leopardi giovane (Le poesie e le prose, op. cit., I, p.310).

90 sapendo...fuggirla: vedi qui rr. 181-183. Cfr., oltre al canto A

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rebbero felicissimi quando si riavessero dei propri ma-li86; la qual cosa, come è la natura dell’uomo, non man-cano mai di sperare che debba loro succedere in qual-che modo87. Appresso creò le tempeste dei venti e deinembi88, si armò del tuono e del fulmine, diede a Nettu-no il tridente89, spinse le comete in giro e ordinò le eclis-si; colle quali cose e con altri segni ed effetti terribili, in-stituì di spaventare i mortali di tempo in tempo:sapendo che il timore e i presenti pericoli riconciliereb-bero alla vita, almeno per breve ora, non tanto gl’infeli-ci, ma quelli eziandio che l’avessero in maggiore abbo-minio, e che fossero più disposti a fuggirla90.

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un vincitore nel pallone, l’operetta Dialogo di Cristoforo Colombo ePietro Gutierrez. La frase che l’avessero in maggior abbominio signi-fica «a cui ripugnasse di più».

91 E... oziosità: inizia l’esposizione della seconda serie di provve-dimenti, quelli destinati a implicare la vita in mille negozi e fatiche.La passata oziosità è quella attribuita all’«età dell’oro».

92 appetito: desiderio. 93 arbori: alberi. 94 vili: di poco valore. 95 California: fino al pensiero di Zibaldone, pp. 3773-3810, con

cui più criticamente Leopardi rivede le proprie approssimazionisullo «stato selvaggio» dell’umanità, gli indigeni della Californiasono per lui l’esempio più significativo, e alla fine «forse unico»(Zibaldone, p. 3801), di popolo che vive ancora allo stato di natura;idea che si è fatta da tempo: «per ciò che ne riferiscono i viaggiato-ri, vive con maggior naturalezza di quello ch’a noi paia, non diròcredibile, ma possibile nella specie umana», dice nelle Annotazionialle Canzoni (in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 181). Come tali i«Californi» sono infatti citati più volte nello Zibaldone e un «pane-girico» dei loro «costumi» è contenuto nell’Inno ai Patriarchi, chesi conclude contrapponendo la «beata prole» delle «Californie sel-ve», ultimo esempio di un’umanità a cui il mondo è ancora «dilet-toso e caro» come nell’età dell’oro dei patriarchi, all’infelice e cor-rotta condizione dei popoli «progrediti». Ancora più esplicito ilpasso corrispondente nella prosa dell’abbozzo, che presenta moltidegli elementi che tornano in questa operetta: i californiani nonhanno «nè desiderii nè timori», «ignorano i morbi», «la tempesta liturba per un momento», «non alberga tra loro nè tristezza nè noia»(Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 432, corsivo di Leopardi); ed è

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E per escludere la passata oziosità91, indusse nel ge-nere umano il bisogno e l’appetito92 di nuovi cibi e dinuove bevande, le quali cose non senza molta e grave fa-tica si potessero provvedere, laddove insino al diluvio gliuomini, dissetandosi delle sole acque, si erano pasciutidelle erbe e delle frutta che la terra e gli arbori93 sommi-nistravano loro spontaneamente, e di altre nutriture vi-li94 e facili a procacciare, siccome usano di sostentarsianche oggidì alcuni popoli, e particolarmente quelli diCalifornia95. Assegnò ai diversi luoghi diverse qualità ce-

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forse per essere fedele a questa immagine che Leopardi non hausato prima la parola noia (vedi nota 77). Ma la Storia del genereumano è l’ultimo testo di Leopardi in cui appare questo riferimen-to; pur legata al pensiero citato dello Zibaldone, ormai dimostrache quello dei Californiani è un esempio irraggiungibile, forse «fin-to»: solo un riferimento ideale.

96 Assegnò... cielo: cfr. in Ovidio, Metamorfosi, il passaggio dal-l’età aurea, quando «Ver erat aetemum» (v. 107), alle stagioni (vv.116-120); qualità celesti: climi; industrie: nel senso latino di «ope-rosità».

97 Mercurio: così nel mito del Protagora di Platone (XI-XII,320c-322d), ricordato da tutti i commentatori, secondo cui Zeus«inviò Ermes perché portasse agli uomini il pudore e la giustizia af-finché servissero da ordinamento della città e da vincoli costituentiunità di amicizia» (trad. Adorno, ed. Laterza). Come è stato nota-to, in Leopardi seguono invece gara e discordia (per cui vedi piutto-sto Esiodo, Le opere e i giorni, v. 11 e seg.), ma secondo Leopardil’«odio nazionale» era una caratteristica della vitalità degli stati an-tichi: «quanto più una nazione sentiva e amava se stessa, che avvie-ne massimamente ai popoli liberi, tanto più era nemica delle stra-niere» (Zibaldone, pp. 888-889).

98 divine: cfr. V. Monti, Musogonia, v. 3: «Arte figlia del cielo»(Della Giovanna); ma è luogo comune, vedi per esempio la Prefa-zione alle Favole e novelle del Pignotti (Pavia, 1796), p. 25: «LaPoesia fu un tempo venerata da’ popoli come un’arte divina».

99 incomparabile dono: che si aggiunge alla doppia serie di prov-vedimenti appena elencati.

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lesti, e similmente alle parti dell’anno, il quale insino aquel tempo era stato sempre e in tutta la terra benigno epiacevole in modo, che gli uomini non avevano avutouso di vestimenti; ma di questi per l’innanzi furono co-stretti a fornirsi, e con molte industrie riparare alle mu-tazioni e inclemenze del cielo96. Impose a Mercurio97

che fondasse le prime città, e distinguesse il genere uma-no in popoli, nazioni e lingue, ponendo gara e discordiatra loro; e che mostrasse agli uomini il canto e quelle al-tre arti, che sì per la natura e sì per l’origine, furonochiamate, e ancora si chiamano, divine98. Esso medesi-mo diede leggi, stati e ordini civili alle nuove genti; e inultimo volendo con un incomparabile dono99 beneficar-

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100 fantasmi: in seguito anche larve (rr. 254, 295), per dire «en-tità ideali, non reali». Cfr. Nelle nozze della sorella Paolina, vv. 2-3:«le beate / Larve e l’antico error, celeste dono»; Le ricordanze, v. 77e seg.: «O speranze, speranze; ameni inganni / Della mia primaetà! [...] / [...] Fantasmi, intendo, / Son la gloria e l’onor». Oltre aisurrogati di infinito e alle distrazioni, Giove fornisce agli uomini lapossibilità di entusiasmarsi per grandi illusioni, perseguendole co-me se fossero beni reali; è questo il dono che rende particolarmen-te apprezzabile e «beato» lo stato antico ed è a maggior ragione undono incomparabile perché rappresenta il massimo che gli dei po-tessero fare per aiutare gli uomini (vedi rr. 334-335). La natura illu-soria ma benefica delle «virtù» è uno dei fondamenti originari del-la riflessione e della poesia di Leopardi, tema conduttore delleCanzoni del 1824 (con la Comparazione delle sentenze di Bruto Mi-nore e di Teofrasto vicini a morte). Cfr. almeno Zibaldone, p. 272:«Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualcheconsiderabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati chesono pure illusioni: parlano scioccamente. Perchè quegli potrà edovrà rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nel-l’illusione, e di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita.Ora se io non posso averne, che piacere mi resta? e perchè vivo?Nella stessa maniera dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti afomentare l’entusiasmo, le illusioni, il coraggio, l’attività, il movi-mento, la vita. Erano illusioni, ma toglietele, come son tolte. Chepiacere rimane? e la vita che cosa diventa? Nella stessa maniera di-co: la virtù, la generosità, la sensibilità, la corrispondenza vera inamore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la magnanimità, ec. uma-namente parlando sono enti immaginari. E tuttavia l’uomo sensibi-le se ne trovasse fraequentemente nel mondo, sarebbe meno infeli-ce, e se il mondo andasse più dietro questi enti immaginari(astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno infelice[...]» (11 ottobre 1820). Vedi anche nota 119.

101 sembianze: cfr. r. 91. 102 uno chiamato Amore...: è questo il primo punto di una «sto-

ria di Amore», che sarà ripresa nella conclusione dell’operetta; sia-

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le, mandò tra loro alcuni fantasmi100 di sembianze101 ec-cellentissime e soprumane, ai quali permise in grandissi-ma parte il governo e la potestà di esse genti: e furonochiamati Giustizia, Virtù, Gloria, Amor patrio e con al-tri sì fatti nomi. Tra i quali fantasmi fu medesimamenteuno chiamato Amore102, che in quel tempo primiera-

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mo per ora informati che era proprio dell’età primitiva un sempliceimpeto animale, mentre è nell’età antica che si può parlare di Amo-re, in quanto è anch’esso uno dei fantasmi; vedi poi r. 502 e seg.

103 bruti: è il termine tradizionale per indicare gli animali prividi ragione.

104 nella guisa: «nel modo». 105 rr. 247-339. Terzo stadio della storia umana: lo stato «anti-

co». 106 larve: i fantasmi già citati. 107 geni: «divinità tutelari». 108 culte: «venerate». 109 nobili artefici: «artisti» nel senso moderno (le «arti nobili» si

contrappongono a quelle «meccaniche»).

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mente, siccome anco gli altri, venne in terra: perciocchéinnanzi all’uso dei vestimenti, non amore, ma impeto dicupidità, non dissimile negli uomini di allora da quelloche fu di ogni tempo nei bruti103, spingeva l’un sessoverso l’altro, nella guisa104 che è tratto ciascuno ai cibi ea simili oggetti i quali non si amano veramente, ma si ap-petiscono.

105Fu cosa mirabile quanto frutto partorissero questidivini consigli alla vita mortale, e quanto la nuova condi-zione degli uomini, non ostante le fatiche, gli spaventi e idolori, cose per l’addietro ignorate dal nostro genere,superasse di comodità e di dolcezza quelle che eranostate innanzi al diluvio. E questo effetto provenne ingran parte da quelle maravigliose larve106; le quali dagliuomini furono riputate ora geni107 ora iddii, e seguite eculte108 con ardore inestimabile e con vaste e portentosefatiche per lunghissima età; infiammandoli a questo dalcanto loro con infinito sforzo i poeti e i nobili artefici109,tanto che un grandissimo numero di mortali non dubita-rono chi all’uno e chi all’altro di quei fantasmi donare esacrificare il sangue e la vita propria. La qual cosa, non

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110 valsero in guisa: «ebbero tanta forza» (così una variante alter-nativa di Leopardi).

111 Le cagioni… alterarsi: la nuova «alterazione», preannunciatanel periodo precedente, ha due ordini di cause, il primo in corri-spondenza coi provvedimenti di Giove per distrarre gli uomini, ilsecondo, più importante e decisivo, col dono dei fantasmi.

112 ingegni: «invenzioni tecniche» (oggetto in particolare di sati-ra in una successiva operetta, la Proposta di premi fatta dall’Accade-mia dei Sillografi); si noti che nel mito del Protagora (op. cit.) l’uo-mo è fornito da Prometeo del «sapere tecnico» (†ntecnoj sofàa,312d).

113 vanità: nel senso etimologico di «vuotezza, inconsistenza».

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che fosse discara a Giove, anzi piacevagli sopra modo,così per altri rispetti, come che egli giudicava dovere es-sere gli uomini tanto meno facili a gittare volontaria-mente la vita, quanto più fossero pronti a spenderla percagioni belle e gloriose. Anche di durata questi buoniordini eccedettero grandemente i superiori, poichéquantunque venuti dopo molti secoli in manifesto ab-bassamento, nondimeno eziandio declinando e posciaprecipitando, valsero in guisa110, che fino all’entrare diun’età non molto rimota dalla presente, la vita umana, laquale per virtù di quegli ordini era stata già, massime inalcun tempo, quasi gioconda, si mantenne per beneficioloro mediocremente facile e tollerabile.

Le cagioni e i modi del loro alterarsi111 furono i mol-ti ingegni112 trovati dagli uomini per provvedere agevol-mente e con poco tempo ai propri bisogni; lo smisuratoaccrescimento della disparità di condizioni e di ufficiconstituita da Giove tra gli uomini quando fondò e di-spose le prime repubbliche; l’oziosità e la vanità113 cheper queste cagioni, di nuovo, dopo antichissimo esilio,occuparono la vita; l’essere, non solo per la sostanza del-le cose, ma ancora da altra parte per l’estimazione degliuomini, venuta a scemarsi in essa vita la grazia della va-

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114 la grazia della varietà: cfr. r. 127. 115 le altre cose... distinguere: come nota Fubini, Leopardi si rife-

risce ai delitti attribuiti alla decadenza dell’uomo nell’«età delbronzo», secondo il racconto di Ovidio.

116 rinfrescossi... universo: cfr. rr. 122-131; per l’espressione cfr.Petrarca, Rerum Vulgarum Fragmenta [Canzoniere], XXXVII, vv.49-50: «Lasso, se ragionando si rinfresca / quell’ardente desio»(Della Giovanna; si noti che rinfrescossi è lezione non dell’auto-grafo, ma della stampa 1827, cioè dopo che Leopardi aveva com-mentato Petrarca per l’editore Stella).

117 Ma... questa: l’attenzione del lettore è fortemente richiamata(Ma... cagione diversa... e fu questa) su ciò che si preannuncia comeil definitivo cambiamento nella storia del genere umano (totale, ul-timo esito), tanto da costituire il più importante elemento di perio-dizzazione di tutto il racconto: il passaggio dallo stato antico aquello moderno (cfr. Zibaldone, p. 144: «La mutazione totale in me,e il passaggio dallo stato antico al moderno […]»).

118 Era: il mutamento annunciato ha bisogno di una spiegazionepiù larga; nel filo principale del racconto si innesta una narrazionesecondaria, alla quale dà avvio – con procedimento tra i più con-sueti – la collocazione iniziale di Era (dello stesso Leopardi si ricor-di lo stacco di «Era il maggio odoroso», in A Silvia, v. 13), dopo diche la digressione continua all’imperfetto, riallacciandosi al filoprincipale solo con il passato remoto di volsero (r. 320).

119 una... Sapienza: l’accrescimento del sapere è un bene appa-

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rietà114, come sempre suole per la lunga consuetudine; efinalmente le altre cose più gravi, le quali per essere giàdescritte e dichiarate da molti, non accade ora distin-guere115. Certo negli uomini si rinnovellò quel fastidiodelle cose loro che gli aveva travagliati avanti il diluvio, erinfrescossi quell’amaro desiderio di felicità ignota edaliena dalla natura dell’universo116.

Ma il totale rivolgimento della loro fortuna e l’ulti-mo esito di quello stato che oggi siamo soliti di chiamareantico, venne principalmente da una cagione diversadalle predette: e fu questa117 . Era118 tra quelle larve, tan-to apprezzate dagli antichi, una chiamata nelle costorolingue Sapienza119; la quale onorata universalmente co-

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rente, in quanto conduce alla conoscenza del vero, che rivela al-l’uomo la sua infelicità (è quanto più avanti spiegherà ampiamenteGiove). Lo stesso processo è esposto nella Comparazione delle sen-tenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte: «Questi tali rin-negamenti, o vogliamo dire, apostasie da quegli errori magnanimiche abbelliscono o più veramente compongono la nostra vita, cioètutto quello che ha della vita piuttosto che della morte, riesconoordinarissimi e giornalieri dopo che l’intelletto umano coll’andaredei secoli ha scoperto, non dico la nudità, ma fino agli scheletridelle cose, e dopo che la sapienza, tenuta dagli antichi per consola-zione e rimedio principale della nostra infelicità, s’è ridotta a de-nunziarla e quasi entrarne mallevadrice a quei medesimi che, nonconoscendola, o non l’avrebbero sentita, o certo l’avrebbero medi-cata colla speranza» (Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1039); e perquanto riguarda se stesso, nella lettera a Perticari del 9 aprile 1821:«Tutti i beni di questo mondo sono inganni. Ma dunque toglietevia questi inganni: che bene ci resta? dove ci ripariamo? che cosa èla sapienza? che altro c’insegna fuorchè la nostra infelicità? In so-stanza il felice non è felice, ma il misero è veramente misero, permolto che la sapienza anche più misera s’adopri di consolarlo. Eraun tempo ch’io mi fidava della virtù, e dispregiava la fortuna: oradopo lunghissima battaglia son domo, e disteso per terra, perchèmi trovo in termine che se molti sapienti hanno conosciuto la tri-stezza e vanità delle cose, io, come parecchi altri, ho conosciuto an-che la tristezza e vanità della sapienza».

120 diceva… essere… sedere: ancora proposizioni dichiarative al-l’infinito (vedi r. 74); appena oltre, prometteva regge che intendevae dovere.

121 essa: la Sapienza.

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me tutte le sue compagne, e seguita in particolare damolti, aveva altresì al pari di quelle conferito per la suaparte alla prosperità dei secoli scorsi. Questa più e piùvolte, anzi quotidianamente, aveva promesso e giurato aiseguaci suoi di voler loro mostrare la Verità, la quale di-ceva ella essere un genio grandissimo, e sua propria si-gnora, né mai venuta in sulla terra, ma sedere120 cogliDei nel cielo; donde essa121 prometteva che coll’autoritàe grazia propria intendeva di trarla, e di ridurla perqualche spazio di tempo a peregrinare tra gli uomini:per l’uso e per la familiarità della quale, dovere il genere

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122 instantissime: molto pressanti. 123 invidiasse: rifiutasse per invidia (senso e costruzione sono la-

tini). 124 insieme: contemporaneamente. 125 odiose: per Giove; anticipa l’irritazione di Giove per gli uo-

mini che si manifesterà in pieno tra poco. 126 speciosissime: bellissime. 127 non... erano: che Giustizia, Virtù, Gloria, ecc. siano illusioni,

fantasmi, sarà rivelato agli uomini solo dopo l’arrivo della Verità.128 ignavia: indolenza, apatia.

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umano venire in sì fatti termini, che di altezza di cono-scimento, eccellenza d’instituti e di costumi, e felicità divita, per poco fosse comparabile al divino. Ma come po-teva una pura ombra ed una sembianza vota mandare adeffetto le sue promesse, non che menare in terra la Ve-rità? Sicché gli uomini, dopo lunghissimo credere e con-fidare, avvedutisi della vanità di quelle profferte; e nelmedesimo tempo famelici di cose nuove, massime perl’ozio in cui vivevano; e stimolati parte dall’ambizione dipareggiarsi agli Dei, parte dal desiderio di quella beati-tudine che per le parole del fantasma si riputavano, con-versando colla Verità, essere per conseguire; si volserocon instantissime122 e presuntuose voci dimandando aGiove che per alcun tempo concedesse alla terra quelnobilissimo genio, rimproverandogli che egli invidias-se123 alle sue creature l’utilità infinita che dalla presenzadi quello riporterebbero; e insieme124 si rammaricavanocon lui della sorte umana, rinnovando le antiche e odio-se125 querele della piccolezza e della povertà delle coseloro. E perché quelle speciosissime126 larve, principio ditanti beni alle età passate, ora si tenevano dalla maggiorparte in poca stima; non che già fossero note per quelleche veramente erano127, ma la comune viltà dei pensierie l’ignavia128 dei costumi facevano che quasi niuno oggi-

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129 gridavano: dopo essersi manifestata con progressiva intensità(instantissime e presuntuose voci, querele, bestemmiando scellerata-mente), esplode infine la ribellione degli uomini. Siamo ormai allesoglie dell’ultimo esito della storia, con la richiesta di qualcosa (laVerità), che per molti segni si preannuncia fatale agli uomini.

130 non essere: altra infinitiva, dipendente da gridavano insieme ache... non era degnata.

131 rr. 340-457. Provvedimenti finali degli dei, vista l’inutilità de-gli sforzi precedenti.

132 Molte cose...: l’esito finale è ancora ritardato da un «prologoin cielo»; alla crescita delle lamentele (e della corruzione) degli uo-mini si accompagna parallela quella dell’insofferenza di Giove; lanarrazione è ancora all’imperfetto, fino alla risoluzione.

133 alienata: resa diversa, allontanata. 134 dopo tante esperienze prese: cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, v.

190: «cuncta prius temptata, sed inmedicabile corpus», che richia-ma il successivo inquieta, insaziabile, immoderata natura umana.

135 quando bene: introduce la protasi di un periodo ipotetico.

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mai le seguiva; perciò gli uomini bestemmiando scellera-tamente il maggior dono che gli eterni avessero fatto epotuto fare ai mortali, gridavano129 che la terra non eradegnata se non dei minori geni; ed ai maggiori, ai qualila stirpe umana più condecentemente s’inchinerebbe,non essere130 degno né lecito di porre il piede in questainfima parte dell’universo.

131Molte cose132 avevano già da gran tempo aliena-ta133 novamente dagli uomini la volontà di Giove; e trale altre gl’incomparabili vizi e misfatti, i quali per nume-ro e per tristezza si avevano di lunghissimo intervallo la-sciate addietro le malvagità vendicate dal diluvio. Sto-macavalo del tutto, dopo tante esperienze prese134,l’inquieta, insaziabile, immoderata natura umana; allatranquillità della quale, non che alla felicità, vedeva ora-mai per certo, niun provvedimento condurre, niuno sta-to convenire, niun luogo essere bastante; perché quandobene135 egli avesse voluto in mille doppi aumentare gli

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136 università: totalità. 137 Stomacavalo... pregio: all’inizio del periodo una parola dal

contenuto «forte» (Galimberti) segna il limite dell’irritazione diGiove, cresciuta non più solo per i vizi e misfatti, ma per le caratte-ristiche proprie della natura umana. Ciò di cui Giove si era già ac-corto (l’impossibilità di esaudire il desiderio degli uomini: vedi rr.106-109 e 165-78), si rivela infine pienamente: nessun sussidio,provvedimento o arte può bastare ad accontentare gli uomini; latragedia della loro condizione è chiara: sono parimente incapaci ecupidi dell’infinito. Non resta che avviarli al loro destino terribile, aconoscere la verità della loro condizione. È il momento centraledell’operetta, quello in cui Leopardi condensa l’essenziale dellasua scoperta sulla condizione umana. L’architettura del periodo èsolennemente impiantata su una serie di elementi tripartiti, chedanno alle affermazioni un senso di conclusione e di completezza einsieme esprimono l’ultima noia di Giove per fatti che si ripetonocosì immutabili. Ma (come fa notare Galimberti) si veda che a taliaffermazioni conclusive si arriva per via di ripetute negazioni; siprende atto insomma di una limitazione, di una condizione negata,come è condensato nell’allitterazione di «INcapaci e cupidi», doveil movimento dato dal secondo termine è tenuto bloccato dal pri-mo.

138 Ma... dio: la narrazione torna al passato remoto e risolve l’a-spettativa creata dall’annuncio del totale rivolgimento (r. 292): sitratta di una punizione in perpetuo degli uomini, ottenuta mandan-do loro la Verità. Cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, v. 166: «ingentes ani-mo et dignas Iove concipit iras».

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spazi e i diletti della terra, e l’università136 delle cose,quella e queste agli uomini, parimente incapaci e cupididell’infinito, fra breve tempo erano per parere strette,disamene e di poco pregio137. Ma in ultimo quelle stoltee superbe domande commossero talmente l’ira deldio138, che egli si risolse, posta da parte ogni pietà, dipunire in perpetuo la specie umana, condannandola pertutte le età future a miseria molto più grave che le passa-te. Per la qual cosa deliberò non solo mandare la Veritàfra gli uomini a stare, come essi chiedevano, per alquan-to di tempo, ma dandole eterno domicilio tra loro, ed

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139 eterno… perpetua (e prima in perpetuo... per tutte le età futu-re): Leopardi insiste sull’eternità della condanna.

140 signora: la Verità è immediatamente contrapposta ai vaghifantasmi. Cfr. anche Ad Angelo Mai, vv. 100-103 (Galimberti).

141 E maravigliandosi... consigliò: è una domanda anche del let-tore (consiglio vale sempre «decisione»); perché la Verità, che sipresenterebbe di per sé come conquista positiva, è invece una cosìgrave punizione? Da qui la lunga e risolutiva spiegazione di Giove.

142 come quelli: corrisponde alla costruzione latina quippe qui,con valore causale.

143 egli: il consiglio. 144 maggioranza: «superiorità», come dice una variante scartata

dell’autografo (cfr. anche Dialogo della Natura e di un’Anima, nota16).

145 ingegno: indole. 146 non… fortuna: che è concezione propria dello stato antico

(cfr. nota 86), nel quale gli uomini «quando erano travagliati dallesventure, se ne dolevano in modo come se per queste sole fosseroprivi della felicità, che stimavano possibilissima a conseguire, anzipropria dell’uomo, se non quanto la fortuna gliela vietasse» (Com-parazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a mor-te, in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1040).

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esclusi di quaggiù quei vaghi fantasmi che egli vi aveacollocati, farla perpetua139 moderatrice e signora140 dellagente umana.

E maravigliandosi gli altri Dei di questo consiglio141,come quelli142 ai quali pareva che egli143 avesse a ridon-dare in troppo innalzamento dello stato nostro e in pre-giudizio della loro maggioranza144, Giove li rimosse daquesto concetto mostrando loro, oltre che non tutti i ge-ni, eziandio grandi, sono di proprietà benefici, non esse-re tale l’ingegno145 della Verità, che ella dovesse fare glistessi effetti negli uomini che negli Dei. Perocché laddo-ve agl’immortali ella dimostrava la loro beatitudine, di-scoprirebbe agli uomini interamente e proporrebbe aimedesimi del continuo dinanzi agli occhi la loro infeli-cità; rappresentandola oltre a questo, non come operasolamente della fortuna146, ma come tale che per niuno

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147 campare: «evitare, liberarsi [da]»; così spiega, con diversiesempi, Leopardi in un appunto della stesura manoscritta del Bru-to Minore, che ai vv. 33-34 portava scritto: «e s’a campar non vale /Gli oltraggi lor», poi corretto in cessar.

148 nocumento: danno. 149 Ed avendo… genio: cfr. Zibaldone, p. 169: «Tutti i piaceri, co-

me tutti i dolori ec. essendo tanto grandi quanto si reputano, ne se-gue che in proporzione della grandezza e copia delle illusioni va lagrandezza e copia de’ piaceri, i quali sebbene neanche gli antichi litrovassero infiniti, tuttavia li trovavano grandissimi, e capaci senon di riempierli, almeno di trattenerli a bada. La natura non vole-va che sapessimo, e l’uomo primitivo non sa che nessun piacere lopuò soddisfare». Fin dai primissimi pensieri dello Zibaldone (vedipp. 58-59), Leopardi annota un verso di Sannazzaro (Arcadia,VIII, v. 126): «E tanto è miser l’uom quant’ei si reputa», che tornapoi nell’abbozzo dell’Inno ai Patriarchi (Le poesie e le prose, op.cit., I, p. 432) come emblema di un convincimento ormai raggiun-to: che l’infelicità dell’uomo nasce dalla consapevolezza del suostato; nello stato antico invece «s’ignoravano le sventure che igno-rate non sono tali» (Abbozzo, op. cit.).

150 Ai quali… dolori: la forma paradossale (per ossimori) dà par-ticolare forza all’enunciato: vera...falsità; solida... vanità; solida vale(come nota Leopardi stesso nell’autografo rinviando al Vocabolariodella Crusca e al lessico latino del Forcellini) «di corpo», cioè «cor-posa, piena», al contrario di «vuotezza» (vedi r. 280). Leopardi siera già espresso in modi analoghi; cfr. Ad Angelo Mai, vv. 119-120:

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accidente e niuno rimedio non la possano campare147,né mai, vivendo, interrompere. Ed avendo la più partedei loro mali questa natura, che in tanto sieno mali inquanto sono creduti essere da chi li sostiene, e più o me-no gravi secondo che esso gli stima; si può giudicare diquanto grandissimo nocumento148 sia per essere agli uo-mini la presenza di questo genio149. Ai quali niuna cosaapparirà maggiormente vera che la falsità di tutti i benimortali; e niuna solida, se non la vanità di ogni cosafuorché dei propri dolori150. Per queste cagioni sarannoeziandio privati della speranza; colla quale dal principioinsino al presente, più che con altro diletto o confortoalcuno, sostentarono la vita. E nulla sperando, né veg-

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«Il certo e solo / Veder che tutto è vano altro che il duolo»; Saffo,vv. 46-47: «Arcano è tutto, / Fuor di nostro dolor»; ma si veda so-prattutto la lettera al Giordani del 6 marzo 1820: «questa è la mise-rabile condizione dell’uomo, e il barbaro insegnamento della ra-gione, che i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, queltravaglio che deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sem-pre e solamente giusto e vero. E se bene regolando tutta quanta lanostra vita secondo il sentimento di questa nullità, finirebbe ilmondo e giustamente saremmo chiamati pazzi, a ogni modo è for-malmente certo che questa sarebbe una pazzia ragionevole perogni verso, anzi che a petto suo tutte le saviezze sarebbero pazzie,giacchè tutto a questo mondo si fa per la semplice e continua di-menticanza di quella verità universale che tutto è nulla». A questeriflessioni sono molto vicine quelle di Zibaldone, p. 103, dalle qualiprenderà il via l’esposizione della «teoria del piacere» (Zibaldone,p. 165).

151 E nulla... sepolti: altro ossimoro (vivi… sepolti); la scopertadel vero toglie all’uomo ogni motivo di attività, tema centrale di al-cune operette (Dialogo d’Ercole e di Atlante, Dialogo della Moda edella Morte), ma già delle Canzoni del 1824.

152 lentezza: «inerzia»; cfr. All’Italia, v. 178: «affaticata e lenta»;Ad Angelo Mai, vv. 17-18: «ove più lento / E grave è il nostro di-sperato obblio».

153 desiderio… congenito: vedi qui rr. 170-171, 346, 352-353. Ve-di Zibaldone, p. 165: «Questo desiderio e questa tendenza [al pia-cere, n.d.c.] non ha limiti, perchè è ingenita o congenita coll’esi-stenza».

154 punga e cruci: vedi qui r. 141: «l’acume e la veemenza». Ana-loghe espressioni ne Al conte Carlo Pepoli, vv. 57-59: «al duro mor-so / Della brama insanabile che invano / Felicità richiede».

155 meno ingombro... azioni: vedi qui r. 173 e seg.

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gendo alle imprese e fatiche loro alcun degno fine, ver-ranno in tale negligenza ed abborrimento da ogni operaindustriosa, non che magnanima, che la comune usanzadei vivi sarà poco dissomigliante da quella dei sepolti151.Ma in questa disperazione e lentezza152 non potrannofuggire che il desiderio di un’immensa felicità, congeni-to153 agli animi loro, non li punga e cruci154 tanto piùche in addietro, quanto sarà meno ingombro e distrattodalla varietà delle cure e dall’impeto delle azioni155. E

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156 destituiti: privati. 157 naturale virtù immaginativa: vedi qui rr. 110-112, e Al conte

Carlo Pepoli, v. 112: «Virtù del caro immaginai». Cfr. T. Tasso, Ilmessaggiero: «Le forze de la virtù imaginatrice sono incredibili» (Idialoghi, I, 212). Virtù in questi passi ha il significato di «facoltà,potenzialità», proprio del lessico filosofico e scientifico pre-otto-centesco (cfr. Zibaldone, p. 2215).

158 questa felicità... sospirano: cfr., oltre a rr. 119 e 178, r. 290,«felicità ignota e aliena dalla natura dell’universo». Si noti come ildiscorso si sia trasformato da indiretto in diretto (nè da me), to-gliendo alle parole di Giove ogni carattere di disquisizione genera-le e ipotetica (r. 368 e seg.: Giove li rimoss… mostrando loro, oltreche... non essere... Perocché laddove... ella dimostrava... discoprireb-be... e proporrebbe... fino all’indicativo di Ai quali niuna cosa appa-rirà). Sospirano, qui come a r. 122, sostituisce la variante bramano(e cfr. Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, r. 250).

159 tutte... indeterminati: vedi r. 106 e seg.; per inclinazione, vediDialogo della Natura e di un’Anima, nota 15.

160 abiti: abitudini, modi. 161 instrutti: istruiti. 162 arcani: cfr. Zibaldone, p. 125: «tutte queste verità che la natu-

ra aveva nascoste sotto un profondissimo arcano».

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nel medesimo tempo si troveranno essere destituiti156

della naturale virtù immaginativa157, che sola poteva peralcuna parte soddisfarli di questa felicità non possibile enon intesa, né da me, né da loro stessi che la sospira-no158. E tutte quelle somiglianze dell’infinito che io stu-diosamente aveva poste nel mondo, per ingannarli e pa-scerli, conforme alla loro inclinazione, di pensieri vasti eindeterminati159, riusciranno insufficienti a quest’effettoper la dottrina e per gli abiti160 che eglino apprenderan-no dalla Verità. Di maniera che la terra e le altre partidell’universo, se per addietro parvero loro piccole, par-ranno da ora innanzi menome: perché essi saranno in-strutti161 e chiariti degli arcani162 della natura; e perchéquelle, contro la presente aspettazione degli uomini, ap-

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163 appaiono... notizia: cfr. Ad Angelo Mai, vv. 87-90: «Ahi, ahi,ma conosciuto il mondo! Non cresce, anzi si scema, e assai più va-sto / L’etra sonante e l’alma terra e il mare / Al fanciullin, che nonal saggio, appare» (e l’altro passo citato qui alla nota 17).

164 fantasmi: vedi r. 235 e seg. 165 insegnamenti: ancora un ossimoro (un insegnamento serve a

far mancare alla vita ogni valore).166 contezza: consapevolezza. 167 lo studio e la carità: da legare a delle nazioni e delle patrie; ge-

nitivo oggettivo. 168 recandosi... uomini: l’«amor di patria», che fa tutt’uno con la

«gloria», è la più attiva delle passioni antiche. Tra le moltissime ri-flessioni dello Zibaldone al proposito, vedi almeno pp. 457 e 885 (eanche Costumi degli italiani, in Le poesie e le prose, op. cit., II, p.555).

169 strani: stranieri.

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paiono tanto più strette a ciascuno quanto egli ne ha piùnotizia163. Finalmente, perciocché saranno stati ritolti al-la terra i suoi fantasmi164, e per gl’insegnamenti165 dellaVerità, per li quali gli uomini avranno piena contezza166

dell’essere di quelli, mancherà dalla vita umana ogni va-lore, ogni rettitudine, così di pensieri come di fatti; enon pure lo studio e la carità167, ma il nome stesso dellenazioni e delle patrie sarà spento per ogni dove; recan-dosi tutti gli uomini, secondo che essi saranno usati didire, in una sola nazione e patria, come fu da principio,e facendo professione di amore universale verso tutta laloro specie; ma veramente dissipandosi la stirpe umanain tanti popoli quanti saranno uomini168. Perciocchénon si proponendo né patria da dovere particolarmenteamare, né strani169 da odiare; ciascheduno odierà tuttigli altri, amando solo, di tutto il suo genere, se medesi-mo. Dalla qual cosa quanti e quali incomodi sieno pernascere, sarebbe infinito a raccontare. Né per tanta e sìdisperata infelicità si ardiranno i mortali di abbandona-

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170 Nè... rifiutarla: cfr. Zibaldone, p. 2030: «Quando gli uominiavevano pur qualche mezzo di felicità o di minore infelicità ch’alpresente, quando perdendo la vita, perdevano pur qualche cosa,essi l’avventuravano spesso e facilmente e di buona voglia, non te-mevano, anzi cercavano i pericoli, non si spaventavano della mor-te, anzi l’affrontavano tutto dì o coi nemici o tra loro, e godevanosopra ogni cosa e stimavano il sommo bene, di morire gloriosa-mente. Ora il timor dei pericoli è tanto maggiore quanto maggioreè l’infelicità e il fastidio di cui la morte ci libererebbe, e se non al-tro, quanto più e nullo quello che morendo abbiamo a perdere. El’amor della vita e il timor della morte è cresciuto nel genere uma-no e cresce in ciascuna nazione secondo che la vita val meno». Va-lore: forza.

171 fiera: violenta. 172 Amore: vedi r. 240 e seg., e più avanti rr. 503-511. 173 E non... se non di rado: cfr. Ad Angelo Mai, vv. 128-129:

«Amore, / Amor, di nostra vita ultimo inganno»; Inno ai Patriarchi,vv. 83-84. invitto / Amor»; e anche l’espressione usata nella letteracitata del 6 marzo 1820 a Giordani, dove Leopardi lamenta la finedella «stessa onnipotenza eterna e sovrana dell’amore». Il tema vaseguito fino ai canti più tardi come Il pensiero dominante e Amoree Morte.

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re la luce spontaneamente: perocché l’imperio di questogenio li farà non meno vili che miseri; ed aggiungendooltremodo alle acerbità della loro vita, li priverà del va-lore di rifiutarla170.

Per queste parole di Giove parve agli Dei che la no-stra sorte fosse per essere troppo più fiera171 e terribileche alla divina pietà non si convenisse di consentire. MaGiove seguitò dicendo. Avranno tuttavia qualche me-diocre conforto da quel fantasma che essi chiamanoAmore172; il quale io sono disposto, rimovendo tutti glialtri, lasciare nel consorzio umano. E non sarà dato allaVerità, quantunque potentissima e combattendolo dicontinuo, né sterminarlo mai dalla terra, né vincerlo senon di rado173. Sicché la vita degli uomini, parimenteoccupata nel culto di quel fantasma e di questo genio,

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174 età gravi: la vecchiaia. 175 il difetto: la mancanza. 176 essere… vita: cfr. Zibaldone, pp. 633-635. 177 come… animali: vedi qui r. 168. 178 rr. 58-480. Ultimo e definitivo stadio del genere umano,

quello «moderno». 179 appo: presso (latino apud). 180 luttuosi: «mortiferi»; cfr. Nelle nozze della sorella Paolina, 8-

9: «in gravi e luttuosi tempi». 181 con autorità di principe: cfr. r. 449 imperio e r. 461 signoria;

ma tra poco tirannide (r. 476).

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sarà divisa in due parti; e l’uno e l’altro di quelli avrannonelle cose e negli animi dei mortali comune imperio.Tutti gli altri studi, eccetto che alcuni pochi e di piccioloconto, verranno meno nella maggior parte degli uomini.Alle età gravi174 il difetto175 delle consolazioni di Amoresarà compensato dal beneficio della loro naturale pro-prietà di essere quasi contenti della stessa vita176, comeaccade negli altri generi di animali177, e di curarla dili-gentemente per sua cagione propria, non per diletto néper comodo che ne ritraggano.

178Così rimossi dalla terra i beati fantasmi, salvo sola-mente Amore, il manco nobile di tutti, Giove mandò tragli uomini la Verità, e diedele appo179 loro perpetuastanza e signoria. Di che seguitarono tutti quei luttuo-si180 effetti che egli avea preveduto. E intervenne cosa digran meraviglia; che ove quel genio prima della sua di-scesa, quando egli non avea potere né ragione alcuna ne-gli uomini, era stato da essi onorato con un grandissimonumero di templi e di sacrifici; ora venuto in sulla terracon autorità di principe181, e cominciato a conoscere dipresenza, al contrario di tutti gli altri immortali, che piùchiaramente manifestandosi, appaiono più venerandi,contristò di modo le menti degli uomini e percossele di

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182 percossele... orrore: l’uso figurato di percuotere per indicareuna commozione violenta è tradizionale già in latino e nell’italianoletterario (per l’espressione qui usata cfr. Dante, Paradiso,XXXIII, vv. 140-141: «se non che la mia mente fu percossa / da unfulgore»; di Leopardi vedi anche Amore e Morte, vv. 17-18: «cor...percosso d’amor»), ma qui contribuisce a riprodurre il suono d’uncolpo improvviso e cupo: perCOSSele di cOSì fatto OrrOre.

183 in vece che: mentre. 184 in che : sui quali. 185 sostengono... sosterranno: clausola definitiva, con la ripetizio-

ne sostengono... sosterranno disposta a chiasmo. 186 rr. 481-562. Nuovo speciale intervento degli dei: Amore Ce-

leste visita i pochi mortali che ne sono degni. 187 Se non che la pietà ...: molto efficacemente, dopo la chiusura

definitoria del capoverso precedente (lo nota in particolare Fubi-ni), la forma grammaticale esprime il rinascere di un movimentonel destino umano.

188 non è gran tempo: «in questi ultimi anni si è reso per la primavolta comune quell’amore che con nuovo nome, siccome nuova co-sa, si è chiamato sentimentale», si dice in Zibaldone, p. 3911.

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così fatto orrore182, che eglino, se bene sforzati di ubbi-dirlo, ricusarono di adorarlo. E in vece183 che quelle lar-ve in qualunque animo avessero maggiormente usata laloro forza, solevano essere da quello più riverite ed ama-te; esso genio riportò più fiere maledizioni e più graveodio da coloro in che184 egli ottenne maggiore imperio.Ma non potendo perciò né sottrarsi, né ripugnare allasua tirannide, vivevano i mortali in quella suprema mise-ria che eglino sostengono insino ad ora, e sempre soster-ranno185.

186Se non che la pietà187, la quale negli animi dei ce-lesti non è mai spenta, commosse, non è gran tempo188,la volontà di Giove sopra tanta infelicità; e massime so-pra quella di alcuni uomini singolari per finezza d’intel-letto, congiunta a nobiltà di costumi e integrità di vita; i

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189 fatture: «creature». La credenza nella visita degli dei sullaterra (trattata fin dal Saggio sopra gli errori popolari degli antichi,cap. VII) era per Leopardi uno dei frutti più vivi della capacità diimmaginazione che rendeva «beati» gli «antichi tempi», quando lanatura nei suoi fenomeni «parlava senza svelarsi» (Ad Angelo Mai,vv. 53-54), risultando «viva», animata dalla presenza divina. È il te-ma di Alla Primavera, o delle favole antiche (cfr. in particolare l’An-notazione a II, 9), presente anche nell’Inno ai Patriarchi, vv. 73-78.Nel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi e nelle Annotazionisono elencati numerosi passi classici e della Sacra Scrittura che te-stimoniano di tale credenza; il più vicino al nostro (come ricordaGalimberti) è quello di Catullo, 64, v. 384 e seg. Una discesa divinain terra volta in satira costituisce la trama narrativa di una successi-va operetta, La scommessa di Prometeo.

190 significando: cfr. Ovidio, Metamorfosi, I, v. 220: «signa dedivenisse deum».

191 stata: avvenuta. 192 compassionando: la reggenza col dativo è latina.

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quali egli vedeva essere comunemente oppressi ed afflit-ti più che alcun altro, dalla potenza e dalla dura domina-zione di quel genio. Avevano usato gli Dei negli antichitempi, quando Giustizia, Virtù e gli altri fantasmi gover-navano le cose umane, visitare alcuna volta le propriefatture189, scendendo ora l’uno ora l’altro in terra, e quisignificando190 la loro presenza in diversi modi: la qualeera stata191 sempre con grandissimo beneficio o di tutti imortali o di alcuno in particolare. Ma corrotta di nuovola vita, e sommersa in ogni scelleratezza, sdegnaronoquelli per lunghissimo tempo la conversazione umana.Ora Giove compassionando192 alla nostra somma infeli-cità, propose agl’immortali se alcuno di loro fosse perindurre l’animo a visitare, come avevano usato in antico,e racconsolare in tanto travaglio questa loro progenie, eparticolarmente quelli che dimostravano essere, quantoa se, indegni della sciagura universale. Al che tacendotutti gli altri, Amore, figliuolo di Venere Celeste, confor-

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193 Amore... diversissimo: il chiasmo (conforme... diversissimo)contribuisce a rilevare con nettezza l’opposizione. Come ricordaFoscolo, sulla scorta di un passo molto noto del Convito di Platone(180d-e) e dell’Epigramma XIII di Teocrito, «gli antichi distingue-vano due Veneri; una terrestre e sensuale, l’altra celeste e spiritua-le» (nota a Dei Sepolcri, v. 179), da cui discendevano due diversiAmori. L’immagine di Amore Celeste è da Leopardi però adattataa un proprio e diverso ragionamento, dovendo rappresentarel’«amore sentimentale» proprio solo dell’ultima fase della storiaumana (vedi Introduzione; l’espressione «di natura, di virtù e diopere diversissimo» riprende direttamente quella di Zibaldone, p.3913, lì citata: «di natura e di principio e di origine affatto diversoe distinto»).

194 come: siccome (cfr. in latino ut + indicativo). 195 sofferendo: sopportando 196 per: causale. 197 commercio: nel senso, già latino, di «compagnia, conversazio-

ne, società»; così spiega Leopardi, sulla scorta di un passo di Guic-ciardini, in una delle sue giunte al Vocabolario della lingua italianadel Manuzzi (Firenze 1833-1842), integrando il Vocabolario dellaCrusca (vedi Nencioni, Leopardi lessicologo e lessicografo, p. 282,citato in bibliografia). Sulla parola l’attenzione di Leopardi si è sof-fermata in modo particolare: vedi Zibaldone, pp. 1422-1423 e pp.1427-1428.

198 Se bene... Verità: l’«inganno» si riferisce a ciò che gli antichiuomini (con cui si intendono anche gli scrittori del Cinquecento,

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me di nome al fantasma così chiamato, ma di natura, divirtù e di opere diversissimo193; si offerse (come194 è sin-golare fra tutti i numi la sua pietà) di fare esso l’ufficioproposto da Giove, e scendere dal cielo; donde egli maiper l’avanti non si era tolto; non sofferendo il conciliodegl’immortali, per196 averlo indicibilmente caro, cheegli si partisse, anco per piccolo tempo, dal loro com-mercio. 197Se bene di tratto in tratto molti antichi uomi-ni, ingannati da trasformazioni e da diverse frodi delfantasma chiamato collo stesso nome, si pensarono ave-re non dubbi segni della presenza di questo massimo id-dio. Ma esso non prima si volse a visitare i mortali, cheeglino fossero sottoposti all’imperio della Verità. 198Do-

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come il Castiglione, che termina il Cortegiano con un’apologiadell’«amor santissimo» recitata dal Bembo, e il Bembo stesso) han-no chiamato «amore platonico», confondibile con l’amore idealedi cui parla Leopardi, ma che in realtà non era che una «trasforma-zione e frode» del fantasma di Amore, in quanto il vero amoreideale non nasce che dopo la scoperta del «vero».

199 in sulla: doppia preposizione non rara nell’uso leopardiano;vedi per esempio l’attacco de Il passero solitario (e commento diDe Robertis).

200 i cuori… magnanime: cfr. gli uomini singolari (r. 484). Si vedaquesto passo d’una lettera al Brighenti: «Tutti noi combattiamol’uno contro l’altro [...]. Ciascuno è nemico di ciascuno, e dalla suaparte non ha altri che se stesso [cfr. qui, r. 420 e seg.]. Eccetto queipochissimi che sortirono le facoltà del cuore, i quali possono averdalla loro parte alcuni di questo numero» (22 giugno 1821).Espressioni simili sono in altre lettere di quegli anni: a LeonardoTrissino («Quanto più conosco la scelleratezza e la viltà degli uo-mini, tanto più divento animato e fervoroso verso i cuori nobili ebuoni come il suo, stimando somma e rarissima fortuna il trovarne,e molto più l’esser degnato dell’amor loro», 27 settembre 1819); aGiordani («procuriamo di piangere insieme giacché la fortuna tan-to nemica in ogni altra cosa ci ha favoriti oltre dell’ordinario inquesto, che avessimo dove riporre sicuramente il nostro amore», 1ottobre 1819).

201 siede: «regna», secondo una caratteristica immagine stilnovi-stica; cfr. Dante: «Tre donne intorno ai cor mi son venute, / e seg-gonsi di fore: ché dentro siede Amore» (Rime, v. 104). Tutto il pas-so è costruito su una filigrana stilnovista, ripresa attraverso ilCanzoniere di Petrarca: da sceglie i cuori più teneri e più gentili (cfr.la canzone fondatrice del «nuovo stile», Al cor gentil rempaira sem-pre amore, di Guinizzelli); alla mirabile soavità; alla beatitudine (cfr.per esempio Dante, Vita nuova, X, 2: «lo suo dolcissimo salutarene lo quale stava tutta la mia beatitudine», e il nome stesso di Bea-trice). Leopardi fa sue queste immagini per rappresentare un amo-re non «reale», portatore di beatitudine in quanto slancio soggetti-

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po il qual tempo, non suole anco scendere se non di ra-do, e poco si ferma; così per la generale indegnità dellagente umana, come che gli Dei sopportano molestissi-mamente la sua lontananza. Quando viene in sulla199

terra, sceglie i cuori più teneri e più gentili delle personepiù generose e magnanime200; e quivi siede201 per breve

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vo, suscitatore di «idee vaste e indefinite», quale è cantato in Allasua donna. Lo stato d’animo di Leopardi è ben chiarito dal passodella lettera allo Jacopssen citato alla nota 22, del Dialogo di Tor-quato Tasso e del suo Genio familiare.

202 pellegrina: rara. 203 Rarissimamente... insieme: «rare volte si combinano de’ cuo-

ri umani sensibili e onesti», scrive Ferdinanda Melchiori al nipoteLeopardi, in una lettera tra le sue più vicine ai sentimenti di Giaco-mo (21 marzo 1821).

204 felicità: cfr. Consalvo, vv. 123-126: «Lice, lice al mortal, non ègià sogno / Come stimai gran tempo, ahi lice in terra / Provai feli-cità. Ciò seppi il giorno / che fiso io ti mirai» (il canto appartiene alciclo fiorentino, ma nella raccolta – l’edizione del 1835 – è signifi-cativamente anticipato appena prima di Alla sua donna).

205 ma Giove… divina: lo stesso concetto già in Alla sua donna,vv. 23-33: «Fra cotanto dolore / Quanto all’umana età propose ilfato, / Se vera e quale il mio pensier ti pinge, / Alcun t’amasse interra, a lui pur fora / Questo viver beato [...] / [...] Or non aggiun-se / Il ciel nullo conforto ai nostri affanni; / E teco la mortal vita sa-na / Simile a quella che nel cielo india». Cfr. anche Consalvo, vv.111-113: «Ahi, ma cotanto / Esser beato non consente il cielo / Anatura terrena».

206 migliori tempi: quelli dei buoni ordini dello stato antico. Per

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spazio; diffondendovi sì pellegrina202 e mirabile soavità,ed empiendoli di affetti sì nobili, e di tanta virtù e for-tezza, che eglino allora provano, cosa al tutto nuova nelgenere umano, piuttosto verità che rassomiglianza dibeatitudine. Rarissimamente congiunge due cuori insie-me203, abbracciando l’uno e l’altro a un medesimo tem-po, e inducendo scambievole ardore e desiderio in am-bedue; benché pregatone con grandissima instanza datutti coloro che egli occupa: ma Giove non gli consentedi compiacerli, trattone alcuni pochi; perché la felicità204

che nasce da tale beneficio, è di troppo breve intervallosuperata dalla divina205. A ogni modo, l’essere pieni delsuo nume vince per se qualunque più fortunata condi-zione fosse in alcun uomo ai migliori tempi206. Dove egli

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l’espressione di tutto il passo, cfr. Consalvo; vv. 110-111: «felice iofui / Sovra tutti i felici».

207 consuetudine umana: frequentazione degli uomini. 208 convenientemente: in maniera conforme. 209 quel primo voto... puerizia: il racconto si avvia alla conclusio-

ne tornando circolarmente alla fase iniziale: cfr. rr. 78-79, da cui ri-prende con piccola variazione l’espressione centrale (essere tornatinella fanciullezza).

210 si elegge: sceglie. 211 suscita... teneri: cfr. il seguente passo di una lettera al Giorda-

ni, tutta da leggere: «Che farò, mio povero amico, per te, o cheposso far io? Tramutare il mondo? ma neanche consolarti? Se nonaltro posso amarti, e questo infinitamente, come fo. Io ritorno fan-ciullo, e considero che l’amore sia la più bella cosa della terra, e mipasco di vane immagini» (30 giugno 1820); che ne richiama un’al-tra: «vedendo con eccessivo terrore che insieme colla fanciullezza èfinito il mondo e la vita per me e per tutti quelli che pensano e sen-tono; sicchè non vivono fino alla morte se non quelli che restanofanciulli tutta la vita» (17 dicembre 1819); cfr. anche Il risorgimen-to, vv. 145-146: «Pur sento in me rivivere / Gl’inganni aperti e no-ti».

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si posa, dintorno a quello si aggirano, invisibili a tutti glialtri, le stupende larve, già segregate dalla consuetudineumana207; le quali esso Dio riconduce per questo effettoin sulla terra, permettendolo Giove, né potendo esserevietato dalla Verità, quantunque inimicissima a quei fan-tasmi, e nell’animo grandemente offesa del loro ritorno:ma non è dato alla natura dei geni di contrastare agliDei. E siccome i fati lo dotarono di fanciullezza eterna,quindi esso, convenientemente208 a questa sua natura,adempie per qualche modo quel primo voto degli uomi-ni, che fu di essere tornati alla condizione della pueri-zia209. Perciocché negli animi che egli si elegge210 ad abi-tare, suscita e rinverdisce per tutto il tempo che egli visiede, l’infinita speranza e le belle e care immaginazionidegli anni teneri211. Molti mortali, inesperti e incapaci

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212 scherniscono e mordono: dittologia sinonimica. 213 obbrobri: insulti. 214 singolari: «singole», dei singoli uomini. 215 per proprio nome: per il fatto stesso di essere frodolenti, in-

giusti, ecc.; chi non è in grado di apprezzare Amore non ha biso-gno di speciali punizioni, perché è sufficiente la sua esclusione dal-la beatitudine che quel dio produce.

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de’ suoi diletti, lo scherniscono e mordono212 tutto gior-no, sì lontano come presente, con isfrenatissima auda-cia: ma esso non ode i costoro obbrobri213; e quando gliudisse, niun supplizio ne prenderebbe; tanto è da naturamagnanimo e mansueto. Oltre che gl’immortali, conten-ti della vendetta che prendono di tutta la stirpe, e del-l’insanabile miseria che la gastiga, non curano le singola-ri214 offese degli uomini; né d’altro in particolare sonopuniti i frodolenti e gl’ingiusti e i dispregiatori degli Dei,che di essere alieni anche per proprio nome215 dalla gra-zia di quelli.

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1folletto: «Folletti sono spiriti, che secondo la fantasia popo-

lare, e poetica vanno per l’aria, come uccel, vagando, al dir del Pulci(vedi Morgante, c. XXIV, v. 109) e si dilettano anche di darsi spas-so degli uomini» (Della Giovanna). Sulla parola, quando inizia lastesura dell’operetta, Leopardi segna un’annotazione linguisticanello Zibaldone: «Diminutivi positivati. Fou-follet. Vedi i Dizionarifrancesi in questa voce, e nota che questo è un aggettivo. Noi purefolletto benchè per lo più sostantivato per la soppressione del no-me spirito. E questa nostra voce (come fors’anche folle) par chevenga dal francese o dal provenzale. Del resto vedi la Crusca in fol-letto esempio 2 e § 2, e gli spagnoli» (Zibaldone, p. 4040, 3 marzo1824; nel Vocabolario della Crusca sono citati due degli autori la cuiprosa è studiata da Leopardi: Tasso e Speroni).

2 Sabazio: nome di un’antica divinità della Frigia, assimilata poianche a Bacco, considerata il padre degli gnomi.

3gnomo: gli gnomi sono «spiriti piccolissimi che, secondo la

fantasia dei cabalisti, dimorano nelle viscere della terra e ne custo-discono i metalli preziosi» (Della Giovanna); spiriti della terra,dunque, mentre dell’aria sono i folletti, distinzione sulla cui base sispiegano le battute alle rr. 81-85.

4 raccapezzare: ritrovare (Vocabolario della Crusca).5 in tutto il suo regno: quello appunto del sottosuolo, nel quale

non si vedono più scendere gli uomini a cer care metalli preziosi;da qui le ironiche supposizioni del periodo seguente, per spie garecome abbiano potuto sostituire le monete.

6 se però: a meno che.

DIALOGO DI UN FOLLETTOE DI UNO GNOMO

FOLLETTO1. Oh sei tu qua, figliuolo di Sabazio2? Do-ve si va?

GNOMO3. Mio padre m’ha spedito a raccapezzare4

che diamine si vadano macchinando questi furfanti degliuomini; perché ne sta con gran sospetto, a causa che daun pezzo in qua non ci danno briga, e in tutto il suo re-gno5 non se ne vede uno. Dubita che non gli apparec-chino qualche gran cosa contro, se però6 non fosse tor-

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7 non fosse ... argento: cioè che gli uomini fossero tornati al ba-ratto.

8 polizzine: «carta moneta», che effettivamente nei «popoli civi-li» sostituisce la moneta metallica; ma si noti il sarcasmo con cui lacarta moneta dei «civili» è messa sullo stesso piano dei paternostrodi vetro dei «barbari». Cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, vv.57-59: «Ben molte volte / Argento ed or disprezzerà, contenta / Apolizze di cambio».

9 paternostri di vetro: con paternostro si indicano i grani piùgrossi della corona del rosario e anche tutta la corona, ma perestensione è venuto a significare «ninnolo», «ornamento» di pococonto in genere. Tutta la locuzione paternostri di vetro è ampia-mente diffusa per indicare la bigiotteria donata dai popoli «civili»ai «selvaggi» come se fosse cosa di valore. Cfr., per esempio, fra ivari passi riportati dal Battaglia, questo di Benzoni: «Gli donò aciascuno una corona di paternostri di vetro, sonagli campanelli ealtre cose».

10 se pure ... credibile: le leggi di Licurgo permettevano a Spartala circolazione solo di monete di ferro; ma per i moderni il ritornoa tale uso «sarebbe segno di un’austerità tramontata da troppotempo» (Galimberti).

11 Voi... personaggi: si tratta di Rutzvanscad il giovane. Arcisopra-tragichissima tragedia elaborata ad uso del buon gusto de’ grecheg-gianti compositori da Cattuffio Panchianio Bubulco arcade (edita nel1724), composta da Zaccaria Valaresso come parodia di una trage-dia seria di Domenico Lazzarini (Ulisse il giovane) e in generale ditutte le tragedie truculente «all’uso greco». Il verso (l’ultimo dell’o-pera) è citato da Leopardi con un adattamento minimo: «Ma l’a-spettate invan...».

nato in uso il vendere e comperare a pecore, non a oro eargento7; o se i popoli civili non si contentassero di po-lizzine8 per moneta come hanno fatto più volte, o di pa-ternostri di vetro9, come fanno i barbari; o se pure nonfossero state ravvalorate le leggi di Licurgo, che gli pareil meno credibile10.

FOLLETTO. Voi gli aspettate invan: son tutti morti,diceva la chiusa di una tragedia dove morivano tutti ipersonaggi11.

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12 inferire: sostenere. 13 la razza è perduta: per chi osserva gli uomini da fuori, la loro

non è che una razza come le altre. 14 Oh... gazzette: il personaggio dello gnomo appare ancora lega-

to a un’idea antropocentrica, da cui viene distolto per le replicheironiche del folletto.

15 non si stampano più gazzette?: questo è il testo instaurato daLeopardi nell’edizione napoletana del 1835. Prima aveva scritto,più acremente: «non si trova chi voglia stampar le gazzette, perchèci metterebbe la spesa non avendo chi gli comperasse le menzognea contanti?». Il sarcasmo contro le pubblicazioni periodiche è fre-quente in Leopardi, che in esse identifica una delle manifestazionipiù caratteristiche della presunzione di progresso; cfr. il Dialogo diTristano e di un amico, r. 188 e seg.

16 Che nuove?...: è il primo apparire del tema dominante dell’o-peretta. Scomparsi gli uomini, il mondo procede ugualmente; alle«novità» (nuove), come connotazione tipica che gli uomini hannodel proprio attivo intervento nel mondo, si contrappone il percor-so ciclico della natura, il ripetersi uguale dei fenomeni. Del restol’idea che gli uomini avevano delle proprie azioni si rivela doppia-mente presuntuosa, poiché la loro vita era in realtà tanto dominatadalla fortuna, che questa ora, scomparsi uomini e regni, non ha piùnulla da fare.

GNOMO. Che vuoi tu inferire12?FOLLETTO. Voglio inferire che gli uomini son tutti

morti, e la razza è perduta13.GNOMO. Oh cotesto è caso da gazzette14. Ma pure

fin qui non s’è veduto che ne ragionino.FOLLETTO. Sciocco, non pensi che, morti gli uomini,

non si stampano più gazzette15?GNOMO. Tu dici il vero. Or come faremo a sapere le

nuove del mondo?FOLLETTO. Che nuove16? che il sole si è levato o co-

ricato, che fa caldo o freddo, che qua o là è piovuto onevicato o ha tirato vento? Perché, mancati gli uomini,la fortuna si ha cavato via la benda, e messosi gli occhia-li e appiccato la ruota a un arpione, se ne sta colle brac-

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17 la fortuna... sedere: la fortuna è tradizionalmente simboleggia-ta da una donna bendata che corre su una ruota; la raffigurazioneironica di un personaggio favoloso ridotto alle misure umane è an-cor più caricata dalla presenza degli occhiali, ricorrente topos deri-sorio per Leopardi, in quanto manifestazione della «corruzione»fisica cui porta la civilizzazione (vedi Dialogo della Moda e dellaMorte, p. 54; Paralipomeni della Batracomiomachia, II, 19; cfr. an-che Zibaldone, p. 256: «Si mise un paio di occhiali fatti della metàdel meridiano co’ due cerchi polari» [1 ottobre 1820], brevissimaidea per qualche «disegno satirico» all’alba delle Operette morali).

18 regni... bolle: cfr. Ariosto, Orlando furioso, XXXIV, 76, vv. 3-8: «Vide un monte di tumide vesiche / che dentro parea aver tu-multi e grida; / e seppe ch’eran le corone antiche / e degli assiri ede la terra lida, / e de’ Persi e de’ Greci, che già furo / incliti, et orn’è quasi il nome oscuro».

19 come uovo a uovo: cfr. Dialogo Galantuomo e Mondo, ed. a cu-ra di Besomi, p. 473: «tutti debbon essere come tante uova, in ma-niera che tu non possa distinguere questo da quello».

20 hai paura... non vengano?: i nomi sono artifici umani (è unodei temi principali del Dialogo della Terra e della Luna).

cia in croce a sedere17, guardando le cose del mondosenza più mettervi le mani; non si trova più regni né im-peri che vadano gonfiando e scoppiando come le bol-le18, perché sono tutti sfumati; non si fanno guerre, etutti gli anni si assomigliano l’uno all’altro come uovo auovo19.

GNOMO. Né anche si potrà sapere a quanti siamo delmese, perché non si stamperanno più lunari.

FOLLETTO. Non sarà gran male, che la luna per que-sto non fallirà la strada.

GNOMO. E i giorni della settimana non avranno piùnome.

FOLLETTO. Che, hai paura che se tu non li chiamiper nome, che non vengano20? o forse ti pensi, poichésono passati, di farli tornare indietro se tu li chiami?

GNOMO. E non si potrà tenere il conto degli anni.

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21 monelli: nel senso originario di «furfante», e collegandosi in-fatti a questi furfanti degli uomini (r. 4) e a quella ciurmaglia (r. 72),ma con la sfumatura ironica di «ragazzacci», di «furboni» che conle loro trovate sono finiti per capitar male (r. 44). Cfr. G. Folena,Semantica e storia di «monello», in «Lingua nostra», XVII, 1956,pp. 65-77, in particolare p. 71; fino all’edizione 1835 Leopardi ave-va scritto mariuoli.

22 mangiandosi l’un l’altro: cfr. la succes siva operetta La scom-messa di Prometeo.

23 in fine… natura: in questa frase si compendia tutto il non-sen-so della «civilizzazione» umana, già svilita e ridicolizzata dalle pre-cedenti espressioni del folletto. In un’indicazione aggiunta agli ab-bozzi (Dialogo di un cavallo e un bue) da cui deriverà questaoperetta, Leopardi dice esplicitamente: «Si può far derivare l’estin-zione della specie umana dalla sua corruzione, effetto ben probabi-le anche in filosofia considerando l’indebolimento delle generazio-ni, e paragonando la durata della vita, e la statura, il vigore ec; degliuomini moderni con quello degli antichi. E così rispetto ai cangia-menti dell’animo e dello spirito, alle sventure derivatene, al mal es-sere politico, corporale, morale, spirituale che cagionano ec.» (nel-l’edizione a cura di O. Besomi, p. 463).

24 di pianta: fin dalle radici, del tutto.

FOLLETTO. Così ci spacceremo per giovani anchedopo il tempo, e non misurando l’età passata, ce ne da-remo meno affanno, e quando saremo vecchissimi nonistaremo aspettando la morte di giorno in giorno.

GNOMO. Ma come sono andati a mancare quei mo-nelli21?

FOLLETTO. Parte guerreggiando tra loro, parte navi-gando, parte mangiandosi l’un l’altro22, parte ammaz-zandosi non pochi di propria mano, parte infracidandonell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte goz-zovigliando, e disordinando in mille cose; in fine stu-diando tutte le vie di far contro la propria natura23 e dicapitar male.

GNOMO. A ogni modo, io non mi so dare ad inten-dere che tutta una specie di animali si possa perdere dipianta24, come tu dici.

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25 maestro in geologia: in quanto, ironicamente, esperto di sotto-suolo.

26 impietriti: è il termine della scienza sei-settecentesca per indi-care i resti fossili. L’aggettivo è un’aggiunta dell’edizione napoleta-na (1835), in funzione di un cambiamento di tutta la frase, che nel-le precedenti stesure diceva: «Se come tu sei maestro inmineralogia, così fossi pratico dell’istoria degli animali, saprestiche il caso... salvo pochi ossami». Ma era una lezione rimasta inparte legata alla fase più antica di ideazione dell’operetta, mentreora Leopardi rende più asciutta l’ironia, potendo attribuire anche iresti fossili alla competenza di un «maestro in geologia».

27 E non volevano intendere… folletti: è una commedia nellacommedia, necessaria a illustrare la riflessione che per bocca delFolletto Leopardi avanza alla fine dell’episodio (rr. 89-96). Follettie gnomi (e qualunque altro essere) non sono diversi dagli uomininel ritenersi al centro dell’universo, come Leopardi notava nelpensiero di Zibaldone, p. 390; nel contesto del dialogo quella rifles-sione (tutte le specie animali s’immaginano di «essere il primo entedella natura») acuisce ancor di più la satira dell’antropocentrismo.

28 folleggi: paronoma sia con folletto. 29 sul sodo: seriamente.

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FOLLETTO. Tu che sei maestro in geologia25, dovrestisapere che il caso non è nuovo, e che varie qualità di be-stie si trovarono anticamente che oggi non si trovano,salvo pochi ossami impietriti26. E certo che quelle pove-re creature non adoperarono niuno di tanti artifizi che,come io ti diceva, hanno usato gli uomini per andare inperdizione.

GNOMO. Sia come tu dici. Ben avrei caro che uno odue di quella ciurmaglia risuscitassero, e sapere quelloche penserebbero vedendo che le altre cose, benché siadileguato il genere umano, ancora durano e procedonocome prima, dove essi credevano che tutto il mondo fos-se fatto e mantenuto per loro soli.

FOLLETTO. E non volevano intendere che egli è fattoe mantenuto per li folletti27.

GNOMO. Tu folleggi28 veramente, se parli sul sodo29.

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30 prima pelle: superficie.31 se... dispererei: nel pensiero citato di Zibaldone, p. 390, si spie-

ga infatti la cosa sulla base dell’«amor proprio», comune a tutti iviventi.

32 saprei: conoscerei. 33 Ora... presunzione: lo Gnomo riprende il discorso dal punto

in cui era divagato (vedi r.71 e seg.). 34 a questo e a quello: degli altri esseri non umani.35 s’inabissavano... fuori: cfr. Cicerone, De natura Deorum, II,

FOLLETTO. Perché? io parlo bene sul sodo.GNOMO. Eh, buffoncello, va via. Chi non sa che il

mondo è fatto per gli gnomi?FOLLETTO. Per gli gnomi, che stanno sempre sotter-

ra? Oh questa è la più bella che si possa udire. Che fan-no agli gnomi il sole, la luna, il mare, le campagne?

GNOMO. Che fanno ai folletti le cave d’oro e d’ar-gento, e tutto il corpo della terra fuor che la prima pel-le30?

FOLLETTO. Ben bene, o che facciano o che non fac-ciano, lasciamo stare questa contesa, che io tengo perfermo che anche le lucertole e i moscherini si credanoche tutto il mondo sia fatto a posta per uso della lorospecie. E però ciascuno si rimanga col suo parere, cheniuno glielo caverebbe di capo: e per parte mia ti dicosolamente questo, che se non fossi nato folletto, io midispererei31.

GNOMO. Lo stesso accadrebbe a me se non fossi na-to gnomo. Ora io saprei32 volentieri quel che direbberogli uomini della loro presunzione33, per la quale, tra l’al-tre cose che facevano a questo e a quello34, s’inabissava-no le mille braccia sotterra e ci rapivano per forza la ro-ba nostra, dicendo che ella si apparteneva al genereumano, e che la natura gliel’aveva nascosta e sepolta lag-giù per modo di burla, volendo provare se la trovereb-bero e la potrebbero cavar fuori35.

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60: «Nos e terrae cavernis ferrum elicimus, rem ad colendos agrosnecessariam, nos aeris, argenti, auri venas, penitus abditas, inveni-mus», passo citato da Della Giovanna, che aggiunge: «in qualchepunto questo dialoghetto pare una confutazione della tesi di Cice-rone che dimostra (‘omnia quae sint in hoc mundo, quibus utanturhomines hominum causa facta esse et parata’) nei capitoli 61 e seg.del libro II; libro che l’autore cita poco appresso» (alla sua nota 7,riportata qui in nota 42; ma è un passo aggiunto sul manoscritto inun secondo momento). L’idea della burla della natura da sfidare ri-flette la presunzione umana, poiché osserva Leopardi che tutti glistrumenti della civilizzazione umana sono stati ottenuti contro lanatura: «Il fuoco – dice nello Zibaldone, p. 3645 – è una di quellematerie, di quegli agenti terribili, come l’elettricità, che la naturasembra avere studiosamente seppellito e appartato, e rimosso dallavista e da’ sensi e dalla vita degli animali, e dalla superficie del glo-bo, dove essa vita e la vegetazione e la vita totale della natura haprincipalmente luogo [...]. Tanto è lungi ch’ella abbia avuto inten-zione di farne una materia d’uso ordinario e regolare nella vita de-gli animali o di qualsivoglia specie di animali, e nella superficie delglobo, e di sottometterlo all’arbitrio dell’uomo, come le frutta ol’erbe ec., e di destinarlo come necessario alla felicità e quindi allanatural perfezione della principale specie di esseri terrestri».

36 uffizio: compito. 37 bagattella: cosa da nulla. 38 E però... mondo: cfr. r. 19 e seg. Si noti l’antitesi proprie-lo-

ro/mondo che regge, ripetendosi, tutto il passo (però = «perciò»), eche risale allo Zibaldone, p. 55.

39 tante altre specie... quanti capi d’uomini vivi: il numero dellespecie animali è almeno pari a quello degli individui umani.

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FOLLETTO. Che maraviglia? quando non solamentesi persuadevano che le cose del mondo non avessero al-tro uffizio36 che di stare al servigio loro, ma facevanoconto che tutte insieme, allato al genere umano, fosserouna bagatella37. E però le loro proprie vicende le chia-mavano rivoluzioni del mondo e le storie delle loro gen-ti, storie del mondo38, benché si potevano numerare, an-che dentro ai termini nella terra, forse tante altre specie,non dico di creature, ma solamente di animali, quanticapi d’uomini vivi39: i quali animali, che erano fatti

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40 coloro: loro. 41 i quali animali… rivoltasse: il Folletto adotta ironicamente il

punto di vista degli uomini. 42 Crisippo: nota di leopardi: «(7) Sus vero quid habet praeter

escam? cui quidem, ne putisce ret, animam ipsam, pro sale, datam di-cit esse Chrysippus. Cicerone, de Nat. Deor. lib. 2, cap. 64.» Crsip-po (III sec. a. C.) è il «secondo fondatore» della scuola stoica, do-po Zenone; l’anima è, nella concezione stoica, il «soffio vitale»(pne„ma), che garantisce a ogni essere, anche di minimo valore, ilsuo fine virtuoso.

43 piacevole: divertente. 44 loro padroni: secondo il punto di vista umano, mentre nem-

meno erano in grado di vedere tutti i loro presunti dipendenti.

espressamente per coloro40 uso, non si accorgevanoperò mai che il mondo si rivoltasse41.

GNOMO. Anche le zanzare e le pulci erano fatte perbenefizio degli uomini?

FOLLETTO. Sì erano; cioè per esercitarli nella pazien-za come essi dicevano.

GNOMO. In verità che mancava loro occasione diesercitar la pazienza, se non erano le pulci.

FOLLETTO. Ma i porci, secondo Crisippo42, eranopezzi di carne apparecchiati dalla natura a posta per lecucine e le dispense degli uomini, e, acciocché non im-putridissero, conditi colle anime in vece di sale.

GNOMO. Io credo in contrario che se Crisippo aves-se avuto nel cervello un poco di sale in vece dell’anima,non avrebbe immaginato uno sproposito simile.

FOLLETTO. E anche quest’altra è piacevole43; che in-finite specie di animali non sono state mai viste né cono-sciute dagli uomini loro padroni44; o perché elle vivonoin luoghi dove coloro non misero mai piede, o per esseretanto minute che essi in qualsivoglia modo non le arriva-vano a scoprire. E di moltissime altre specie non se neaccorsero prima degli ultimi tempi. Il simile si può dire

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45 masserizie: arnesi, carabattole. 46 smoccolando le stelle: l’espressione è del Boccalini (come ri-

corda Bigi, Tono e tecnica delle «Operette morali», in Dal Petrarcaal Leopardi, p. 123).

47 Ma ora... spariti: resosi lo Gnomo ormai consapevole della fi-ne degli uomini, il dialogo s’avvia alla conclusione riallacciandosialle battute iniziali.

48 gramaglie: vesti da lutto. 49 E il sole... Virgilio: cfr. Virgilio, Georgiche, I, 466-467: «Ille

[sol] etiam exstincto miseratus Caesare Romam, / cum caput ob-scura nitidum ferrugine texit». Il confronto tra questo passo e il te-sto di Leopardi offre un esempio semplice, ma chiaro di come Leo-

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circa al genere delle piante, e a mille altri. Parimenti ditratto in tratto, per via de’ loro cannocchiali, si avvede-vano di qualche stella o pianeta, che insino allora, permigliaia e migliaia d’anni, non avevano mai saputo chefosse al mondo; e subito lo scrivevano tra le loro masse-rizie45: perché s’immaginavano che le stelle e i pianetifossero, come dire, moccoli da lanterna piantati lassùnell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notteavevano gran faccende.

GNOMO. Sicché, in tempo di state, quando vedevanocadere di quelle fiammoline che certe notti vengono giùper l’aria avranno detto che qualche spirito andavasmoccolando le stelle46 per servizio degli uomini.

FOLLETTO. Ma ora che ei sono tutti spariti47, la terranon sente che le manchi nulla, e i fiumi non sono stanchidi correre, e il mare, ancorché non abbia più da servirealla navigazione e al traffico, non si vede che si rasciu-ghi.

GNOMO. E le stelle e i pianeti non mancano di nasce-re e di tramontare, e non hanno preso le gramaglie48.

FOLLETTO. E il sole non s’ha intonacato il viso diruggine; come fece, secondo Virgilio49, per la morte di

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pardi riduca a linguaggio comico una fonte di tono più alto: bastache il sole, invece di «coprirsi il capo» in segno di lutto, si sia into-nacato il viso, come il patetico espediente di qualunque umano chetenti di mascherare le proprie fattezze; e anche l’obscura ferrugoperde la connotazione tragica del proprio colore, per diventareuna ridicola ruggine carnevalesca.

50 Pompeo: «Cesare, ferito dai congiurati, andò a cadere pressola statua del suo antagonista Pompeo» (Della Giovanna). A indica-re l’indifferenza Leopardi, nel corso dell’elaborazione manoscritta,aveva dapprima pensato a una contrapposizione di ordine diverso,scrivendo: «quanto che ne pigliarono i Messicani».

Cesare: della quale io credo ch’ei si pigliasse tanto affan-no quanto ne pigliò la statua di Pompeo50.

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1malambruno: «un gigante e incantatore di questo nome appa-

risce nei capitoli 39-41 della seconda parte del Don Chisciotte» (Sa-nesi), all’interno del fantastico racconto della Dama Tribolata; Ma-lambruno, che vi compare su un cavallo di legno, «oltre ad essercrudele, è anche un famoso incantatore», nonché «tracotante eperfido» (traduzione di Carlesi, Milano, Mondadori, pp. 919 e920). La lettura, in lingua originale, del capolavoro di Cervantesaccompagnò a lungo Leopardi, dal viaggio a Roma al maggio del1824.

2 Farfarello... Alichino: sono tutti nomi di provenienza letteraria(e da testi di genere comico): «Farfarello, Ciriatto e Alichino sonotre diavoli che Dante pone nella bolgia dei barattieri (vedi Inferno,canti XXI e XXII); Astarotte si trova nel Morgante di Luigi Pulci(vedi canto XXV); Baconero nel Malmantile racquistato di Loren-zo Lippi (vedi canto V)» (Della Giovanna). Nella rappresentazionedantesca Farfarello è un diavolo particolarmente furfante.

3 Belzebù: il principe dei diavoli. 4 sgangherare... cielo: già nel Saggio sopra gli errori popolari degli

antichi (cap. IV, Della magia) Leopardi ricorda la credenza «che imagi avessero il potere di trar giù dal cielo la luna con incantesimi»(espressione che torna anche altre volte nel capitolo), e più oltretraduce passi di Plutarco sulle maghe che promettono di «svellerela luna dal cielo» o che «han fama di staccar la luna dal cielo» (Lepoesie e le prose, op. cit., II, pp. 242 e 255-256); partendo da questabase, come l’aggiunta dell’espressione inchiodare il sole, così lascelta lessicale di sgangherare indicano immediatamente il tono co-mico della scena (e solo da testi comici provengono gli esempi disgangherare in senso metaforico nel Vocabolario della Crusca).

5 comando: mandato (che è la lezione dell’autografo, modificatanella prima edizione).

DIALOGO DI MALAMBRUNOE DI FARFARELLO

MALAMBRUNO1. Spiriti d’abisso, Farfarello, Ciriatto,Baconero, Astarotte, Alichino2, e comunque siete chia-mati; io vi scongiuro nel nome di Belzebù3, e vi coman-do per la virtù dell’arte mia, che può sgangherare la lu-na, e inchiodare il sole a mezzo il cielo4: venga uno di voicon libero comando5 del vostro principe e piena potestàdi usare tutte le forze dell’inferno in mio servigio.

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6 Sì... insieme: dalla presentazione di Farfarello risulta il suo po-tere di esaudire qualunque richiesta, e come tale è accolto da Ma-lambruno (Sta bene).

7 Tu... desiderio: si noti l’abbassamento a un tono più quotidia-no, rispetto all’evocazione iniziale.

8 Che vuoi?: per le offerte di Farfarello vedi quanto detto nel-l’Introduzione.

9 Atridi: la stirpe di Agamennone e Menelao, i principi achei fi-gli di Atreo.

10 Manoa: nota di leopardi: «(8) Città favolosa, detta altrimentiEl Dorado la quale immaginarono gli Spagnuoli, e la credettero es-sere nell’America meridionale, tra il fiume dell’Orenoco e quel del-le Amazzoni. Vedi i geografi.» In un’annotazione marginale del-l’autografo si rinvia a due repertori geografici; ma a El Doradocapita anche il protagonista del Candido di Voltaire (vedi capp.XVII-XVIII), libro che (nella traduzione italiana edita a Venezianel 1759) Leopardi aveva finito di leggere appena prima della ste-sura di quest’operetta.

11 Un impero: sui cui domini non tramontava mai il sole, esem-pio dell’impero più vasto mai creato. Carlo V è duramente giudica-to nei Paralipomeni della Batracomiomachia, III, v. 217 e seg. (vediil commento di Allodoli).

FARFARELLO. Eccomi.MALAMBRUNO. Chi sei?FARFARELLO. Farfarello, a’ tuoi comandi.MALAMBRUNO. Rechi il mandato di Belzebù?FARFARELLO. Sì recolo; e posso fare in tuo servigio

tutto quello che potrebbe il Re proprio, e più che nonpotrebbero tutte l’altre creature insieme6.

MALAMBRUNO. Sta bene. Tu m’hai da contentared’un desiderio7.

FARFARELLO. Sarai servito. Che vuoi8? nobiltà mag-giore di quella degli Atridi9?

MALAMBRUNO. No.FARFARELLO. Più ricchezze di quelle che si troveran-

no nella città di Manoa10 quando sarà scoperta?MALAMBRUNO. No.FARFARELLO. Un impero11 grande come quello che

dicono che Carlo quinto si sognasse una notte?

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12 più salvatica di Penelope: «più ritrosa», in quanto «zotica, roz-za» (Vocabolario della Crusca); difficile da conquistare, cioè, manon per fedeltà al marito.

13 ribaldo: «disonesto, sopraffatore» (cfr. i passi del Don Chi-sciotte citati alla nota 1); è un ulteriore abbassamento di tono: nonc’è alcuna grandezza eroica nel «mago» Malambruno.

14 Piuttosto... contrario: nella Proposta di premi fatta dall’Accade-mia dei Sillografi si parla appunto della «prospera fortuna degl’in-sensati, de’ ribaldi e de’ vili», accanto all’«universale noncuranza»e alla «miseria de’ saggi, de’ costumati e de’ magnanimi» (p. 64):condizioni caratteristiche dello «stato moderno» dell’uomo. Cfr.anche un abbozzo relativo al Dialogo Galantuomo e Mondo (ope-retta incompiuta): «Di tutto, eziandio che con gravissime ed estre-me minacce vietato, si può al mondo non pagare pena alcuna. De’tradimenti, delle usurpazioni, degl’inganni, delle avarizie, oppres-sioni crudeltà, ingiustizie, torti, oltraggi, omicidi, tirannia ec. ec.bene spesso non si paga pena; spessissimo ancora se n’ha premio, ocerto utilità» (ed. a cura di O. Besomi, p. 469).

15 Non posso: il dialogo ha finora preparato Malambruno (e i let-tori) al potere di Farfarello; quindi ancor più forte suona l’impossi-bilità di esaudire l’unico desiderio del mago.

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MALAMBRUNO. No.FARFARELLO. Recare alle tue voglie una donna più

salvatica di Penelope12?MALAMBRUNO. No. Ti par egli che a cotesto ci biso-

gnasse il diavolo?FARFARELLO. Onori e buona fortuna così ribaldo13

come sei?MALAMBRUNO. Piuttosto mi bisognerebbe il diavolo

se volessi il contrario14.FARFARELLO. In fine, che mi comandi?MALAMBRUNO. Fammi felice per un momento di

tempo.FARFARELLO. Non posso15.MALAMBRUNO. Come non puoi?FARFARELLO. Ti giuro in coscienza che non posso.MALAMBRUNO. In coscienza di demonio da bene.

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16 t’appicco... travi: altro tratto comico, di seguito a quello dellebattute precedenti.

17 mal anno: formula di malaugurio, usata «a modo di impreca-zione», come spiega il Vocabolario della Crusca, allegando esempidi Boccaccio e di Sacchetti.

18 Giudecca... Bolge: anche la toponomastica è tutta letteraria, ri-correndo a due delle zone in cui è diviso l’Inferno dantesco (e nel-l’autografo: «con tutto l’inferno dell’Odissea, dell’Eneide, della di-vina Commedia e del Paradiso perduto»).

19 Ma... infelicità: è l’ultimo tentativo di Malambruno. 20 Se tu...: non più una risposta negativa, ma una condizione,

che è però l’uomo stesso a dover riconoscere impossibile. 21 amarti supremamente: l’«amor proprio», o in altri termini

l’«amor di se e della propria conservazione» viene a coincidere conl’esistenza stessa, nessun vivente ne può essere privo. Cfr. Zibaldo-

FARFARELLO. Sì certo. Fa conto che vi sia de’ diavolida bene come v’è degli uomini.

MALAMBRUNO. Ma tu fa conto che io t’appicco quiper la coda a una di queste travi16, se tu non mi ubbidi-sci subito senza più parole.

FARFARELLO. Tu mi puoi meglio ammazzare, che nonio contentarti di quello che tu domandi.

MALAMBRUNO. Dunque ritorna tu col mal anno17, evenga Belzebù in persona.

FARFARELLO. Se anco viene Belzebù con tutta la Giu-decca e tutte le Bolge18, non potrà farti felice né te né al-tri della tua specie, più che abbia potuto io.

MALAMBRUNO. Né anche per un momento solo?FARFARELLO. Tanto è possibile per un momento, an-

zi per la metà di un momento, e per la millesima parte;quanto per tutta la vita.

MALAMBRUNO. Ma non potendo farmi felice in nes-suna maniera, ti basta l’animo almeno di liberarmi dal-l’infelicità19?

FARFARELLO. Se tu20 puoi fare di non amarti supre-mamente21.

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ne (sono le pagine finali della «teoria del piacere»), e quindi le in-troduzioni al Dialogo della Natura e di un’Anima e al Dialogo di unFisico e di un Metafisico.

22 dopo morto: in senso proprio, per quanto dice subito Farfa-rello.

23 amandoti necessariamente… propria: l’«amor proprio», l’amo-re del vivente per la propria conservazione e il proprio benesserenon può che essere il maggiore possibile, senza limiti; oltre ai passicui si rinvia nella nota 21. cfr. le espressioni di Zibaldone, p. 390:l’«amor proprio» è «necessariamente coesistente con noi, e neces-sariamente illimitato».

24 non: «il secondo non è dovuto a influenza della costruzionelatina fugere ne» (Porena; cfr. anche Storia del genere umano, nota44, rr. 92).

25 pago: appagato. Per tutto il passo cfr. i passi di Zibaldone,(«teoria del piacere»); così la successiva battuta di Malambrunosintetizza il seguito.

26 lascerò: cesserò.

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MALAMBRUNO. Cotesto lo potrò dopo morto22.FARFARELLO. Ma in vita non lo può nessun animale:

perché la vostra natura vi comporterebbe prima qualun-que altra cosa, che questa.

MALAMBRUNO. Così è.FARFARELLO. Dunque, amandoti necessariamente

del maggiore amore che tu sei capace, necessariamentedesideri il più che puoi la felicità propria23; e non poten-do mai di gran lunga essere soddisfatto di questo tuo de-siderio, che è sommo, resta che tu non24 possi fuggireper nessun verso di non essere infelice.

MALAMBRUNO. Né anco nei tempi che io proveròqualche diletto; perché nessun diletto mi farà né felicené pago25.

FARFARELLO. Nessuno veramente.MALAMBRUNO. E però, non uguagliando il desiderio

naturale della felicità che mi sta fisso nell’animo, nonsarà vero diletto; e in quel tempo medesimo che esso èper durare, io non lascerò26 di essere infelice.

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27 negli uomini... espressa: cfr. Storia del genere umano, rr. 165-179 e nota 77, con la significativa differenza che qui il fenomenointeressa tutti i viventi (perché, come ha detto prima Farfarello,«nessun animale» può evitare di «amarsi supremamente»); e vedianche il passo citato qui alla nota 23. Espressa vale «evidente, com-pleta».

28 Tanto che... istante: da cui la precedente risposta di Farfarello,rr. 43-44.

29 cessa... sensi: cfr. Zibaldone, p. 2861: «In ciascun punto dellavita, anche nell’atto del maggior piacere, anche nei sogni, l’uomo oil vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha un solo momen-to nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e sospensione del-l’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da qualunque cagioneesso venga) nel quale l’individuo non sia in istato di pena, tantomaggiore quanto egli [...] è in istato di maggior sensibilità ed eser-cizio alla vita, e viceversa»; e p. 3895: «Il sonno e tutto quello cheinduce il sonno, ec. è per se stesso piacevole, secondo la mia teoriadel piacere ec. Non c’è maggior piacere (nè maggior felicità) nellavita, che il non sentirla».

30 però: perciò. 31 assolutamente: noi diremmo «astrattamente». 32 il non vivere… vivere: cfr. Zibaldone, p. 4043: «Nè la occupa-

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FARFARELLO. Non lascerai: perché negli uomini e ne-gli altri viventi la privazione della felicità, quantunquesenza dolore e senza sciagura alcuna, e anche nel tempodi quelli che voi chiamate piaceri, importa infelicitàespressa27.

MALAMBRUNO. Tanto che dalla nascita insino allamorte, l’infelicità nostra non può cessare per ispazio,non che altro, di un solo istante28.

FARFARELLO. Sì: cessa, sempre che dormite senza so-gnare, o che vi coglie uno sfinimento o altro che v’inter-rompa l’uso dei sensi29.

MALAMBRUNO. Ma non mai però30 mentre sentiamola nostra propria vita.

FARFARELLO. Non mai.MALAMBRUNO. Di modo che, assolutamente31 par-

lando, il non vivere è sempre meglio del vivere32.

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zione nè il divertimento qualunque, non danno veramente agli uo-mini piacere alcuno. Nondimeno è certo che l’uomo occupato odivertito comunque, è manco infelice del disoccupato, e di quelloche vive vita uniforme senza distrazione alcuna. Perchè? se nè que-sti nè quelli sono punto superiori gli uni agli altri nel godimento enel piacere, ch’è l’unico bene dell’uomo? Ciò vuol dire che la vita èper se stessa un male. Occupata o divertita, ella si sente e si cono-sce di meno, e passa in apparenza più presto, e perciò solo, gli uo-mini occupati o divertiti, non avendo alcun bene nè piacere più de-gli altri, sono però manco infelici: e gli uomini disoccupati e nondivertiti, sono più infelici, non perchè abbiano minori beni, ma permaggioranza di mal e, cioè maggior sentimento, conoscimento, ediuturnità (apparente) della vita, benchè questa sia senza alcun al-tro male particolare. Il sentir meno la vita e l’abbreviarne l’appa-renza è il sommo bene, o vogliam dire la somma minorazione dimale e d’infelicità, che l’uomo possa conseguire. La noia è manife-stamente un male, e l’annoiarsi una infelicità. Or che cosa è lanoia? Niun male nè dolore particolare [...], ma la semplice vita pie-namente sentita, provata, conosciuta, pienamente presente all’indi-viduo, ed occupantelo. Dunque la vita è semplicemente un male: eil non vivere o il vivere meno, sì per estensione che per intensione,è semplicemente un bene, o un minor male, ovvero preferibile perse ed assolutamente alla vita ec.».

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FARFARELLO. Se la privazione dell’infelicità è sempli-cemente meglio dell’infelicità.

MALAMBRUNO. Dunque?FARFARELLO. Dunque se ti pare di darmi l’anima pri-

ma del tempo, io sono qui pronto per portarmela.

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1 tale: cioè prediletta; nell’autografo, in un passo poi cancellato,la Natura aggiungeva, a sottolineare l’unicità dell’anima appenaformata: «ed ecco che io spezzo la stampa che non ho adoperato aformare altra che te».

2 infelice: il tono trionfale di tutta la prima battuta urta con laparola conclusiva, mettendo in rilievo il contrasto su cui nasce e sisviluppa il dialogo. L’idea proviene da un passo letto in D’Alem-bert.

3 Che male… pena: la battuta rivela un punto di vista opposto:quello che per la Natura era frutto di «predilezione» all’Animasuona come una condanna, e infatti la Natura a sua volta non ca-pirà a che pena si riferisca l’Anima. Per l’espressione cfr. i versi del-l’Ultimo canto di Saffo citati in Storia del genere umano, r. 150-151.

4 Ma... infelici: due sono quindi le ragioni dell’infelicità, la pri-ma dovuta semplicemente all’essere uomini, la seconda uominigrandi; vivificare: rendere vivo.

5 sana di ragione: sarebbe ragionevole.

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DIALOGO DELLA NATURA E DI UN’ANIMA

NATURA. Va, figliuola mia prediletta, che tale1 saraitenuta e chiamata per lungo ordine di secoli. Vivi, e siigrande e infelice2.

ANIMA. Che male ho io commesso prima di vivere,che tu mi condanni a cotesta pena3?

NATURA. Che pena, figliuola mia?ANIMA. Non mi prescrivi tu di essere infelice?NATURA. Ma in quanto che io voglio che tu sii gran-

de, e non si può questo senza quello. Oltre che tu sei de-stinata a vivificare un corpo umano; e tutti gli uominiper necessità nascono e vivono infelici4.

ANIMA. Ma in contrario saria di ragione5 che tuprovvedessi in modo, che eglino fossero felici per neces-sità; o non potendo far questo, ti si converrebbe astene-re da porli al mondo.

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6 che sono sottoposta al fato: con fato Leopardi indica ciò che fasì che l’essere esista e non possa non esistere, e che solo raffiguratocome una forza a sé si distingue da quanto nomina altrimenti comeordine primigenio e perpetuo delle cose create (r. 43-44; cfr. anche inStoria del genere umano, r. 64: «l’ordine dei fati»). L’esistenza dellecose è il dato «a priori» che noi semplicemente non possiamo cheaccettare, e esistenza vuol dire amore di sé, con l’infelicità che neconsegue (vedi la successiva spiegazione della Natura); è «quell’or-dine di cose che esiste, e che noi concepiamo, e altro non possiamoconcepire», come dice un passo di Zibaldone, p. 648. A questo siriferisce la frase della Natura: «nè io nè tu non la possiamo inten-dere».

7 come: siccome. 8 informare: dare forma (a). 9 Io... intendo: si noti che l’anima non conosce nulla, non esisto-

no idee innate (cosa che diventa un espediente narrativo per per-mettere alla Natura di spiegarsi).

10 straordinaria: in aggiunta a quella comune. 11 scompagnare: dividere; cfr. Zibaldone, p. 2411: «non potendo-

si né scompagnare il sentimento dell’esistenza propria (ch’è ciò ches’intende per vita) dall’amore dell’esistente [...]». Cfr. anche Dialo-go di un Fisico e di un Metafisico, r. 49.

61Letteratura italiana Einaudi

NATURA. Né l’una né l’altra cosa è in potestà mia,che sono sottoposta al fato6; il quale ordina altrimenti,qualunque se ne sia la cagione; che né tu né io non lapossiamo intendere. Ora, come7 tu sei stata creata e di-sposta a informare8 una persona umana, già qualsivogliaforza, né mia né d’altri, non è potente a scamparti dal-l’infelicità comune degli uomini. Ma oltre di questa, tene bisognerà sostenere una propria, e maggiore assai,per l’eccellenza della quale io t’ho fornita.

ANIMA. Io non ho ancora appreso nulla; comincian-do a vivere in questo punto: e da ciò dee provenire ch’ionon t’intendo9. Ma dimmi, eccellenza e infelicità straor-dinaria10 sono sostanzialmente una cosa stessa? o quan-do sieno due cose, non le potresti tu scompagnare11 l’u-na dall’altra?

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12 Nelle anime… animali: come la Natura torna a spiegare versola conclusione del dialogo (rr. 154-158), tutti gli esseri viventi sipossono disporre lungo una scala che va dalla minore alla maggio-re vitalità, quindi capacità di sentire le sensazioni, di sentire la vita.Per il contenuto del discorso della Natura vedi i passi dello Zibal-done citati in Introduzione.

13 intensione: «intensità» (che è variante cancellata nell’auto-grafo, ma Leopardi vuole evitare la rima con infelicità).

14 amor proprio: nel senso settecentesco (e in particolare rous-seauiano) di «amore del vivente per se stesso»; l’espressione appa-re qui per la prima volta nelle Operette morali, ma il concetto ètrattato direttamente già nel Dialogo di Malambruno e di Farfarello.

15 s’inclini: «sia portato a muoversi, abbia inclinazione» (cfr. peresempio Il Parini ovvero della gloria: «Perciò veggiamo che i piùdegli scrittori eccellenti, e massime de’ poeti illustri, di questa me-desima età [...] furono da principio inclinati straordinariamente al-le grandi azioni»). «Inclinare» e «inclinazione’ in questo senso,usati frequentemente nelle Operette morali, sono termini della filo-sofia scolastica; cfr. Dante, Convivio, I, I, 1: «ciascuna cosa, daprovvidenza di prima natura impinta, è inclinabile a la sua propriaperfezione»; e Leopardi lo mantiene espressamente per indicare letendenze innate, non prodotte dall’assuefazione, che si riduconopoi solo alla tendenza alla «vivacità» (vedi Zibaldone, p. 2046, e In-dice del mio zibaldone).

16 maggioranza: nel senso di «quantità o grandezza maggiore»,come Leopardi spiega in un’annotazione dell’autografo, citandoun esempio di D. Compagni (vedi anche Storia del genere umano, r.368).

17 beatitudine: felicità.

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NATURA. Nelle anime degli uomini, e proporzionata-mente in quelle di tutti i generi di animali,12 si può direche l’una e l’altra cosa sieno quasi il medesimo: perchél’eccellenza delle anime importa maggiore intensione13

della loro vita; la qual cosa importa maggior sentimentodell’infelicità propria; che è come se io dicessi maggioreinfelicità. Similmente la maggior vita degli animi inchiu-de maggiore efficacia di amor proprio14, dovunque essos’inclini15, e sotto qualunque volto si manifesti: la qualmaggioranza16 di amor proprio importa maggior deside-rio di beatitudine17, e però maggiore scontento e affan-

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18 primigenio: «stabilito fin dalle origini». È l’ordine per cui esi-stere e amare se stessi sono elementi indivisibili; si esiste in quantoci si ama.

19 Oltre di ciò...: fin qui la Natura ha esposto le ragioni per cui«tutti gli uomini per necessità nascono e vivono infelici» (rr. 9-10);ora spiega la maggiore infelicità destinata alle «anime grandi».

20 ti escluderanno... stessa: «t’impediranno di poter usare ognitua facoltà o forza» (Della Giovanna); vedi rr. 57-58: «quindi im-potenti di se medesime».

21 animali bruti: vedi Storia del genere umano, nota 103. 22 immaginativa: «immaginazione» (come Leopardi aveva dap-

prima scritto); immaginativa è aggettivo sostantivato, per l’omissio-ne del sostantivo facoltà. Fin dalla «teoria del piacere» Leopardiaveva notato che «la forza e fecondità dell’immaginazione [...] co-me rende facilissima l’azione, così spessissimo renda facile l’inazio-ne» (Zibaldone, p. 176).

23 deliberare: «decidere». Si noti la precisione dell’analisi, chedistingue decisione (fatto ancora mentale) da esecuzione, e la con-seguente proprietà lessicale nel nominare diversamente dubbietà eritegni. Vedi anche alle rr. 54-55, con struttura a chiasmo: «i piùpronti al risolversi, e nell’operare i più efficaci».

24 usati: abituati. 25 seco medesimi: con se stessi.

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no di esserne privi, e maggior dolore delle avversità chesopravvengono. Tutto questo è contenuto nell’ordineprimigenio18 e perpetuo delle cose create, il quale io nonposso alterare. Oltre di ciò19, la finezza del tuo propriointelletto, e la vivacità dell’immaginazione, ti esclude-ranno da una grandissima parte della signoria di te stes-sa20. Gli animali bruti21 usano agevolmente ai fini cheeglino si propongono, ogni loro facoltà e forza. Ma gliuomini rarissime volte fanno ogni loro potere; impeditiordinariamente dalla ragione e dall’immaginativa22; lequali creano mille dubbietà nel deliberare23, e mille rite-gni nell’eseguire. I meno atti o meno usati24 a ponderaree considerare seco medesimi25, sono i più pronti al risol-

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26 Ma le tue pari: dopo aver ripercorso la «scala degli esseri», da-gli animali bruti, agli uomini… meno atti, il discorso torna alle tuepari, da cui era partito alla r. 34.

27 implicate: «ripiegate», quasi «avvolte»: è la rappresentazionedi chi riflette su se stesso.

28 soverchiate: superate, sopraffatte. 29 impotenti di se medesime: «espressione foggiata sulla latina

potens sui» (Fubini). 30 Ma le tue pari... vita umana: cfr. Zibaldone, pp. 538-539 (21

gennaio 1821): «È cosa evidente e osservata tuttogiorno, che gliuomini di maggior talento, sono i più difficili a risolversi tanto alcredere quanto all’operare; i più incerti, i più barcollanti, e tempo-reggianti, i più tormentati da quell’eccessiva pena dell’irresoluzio-ne: i più inclinati e soliti a lasciar le cose come stanno; i più tardi,restii, difficili a mutar nulla del presente, malgrado l’utilità o neces-sità conosciuta. E quanto è maggiore l’abito di riflettere, e laprofondità dell’indole, tanto è maggiore la difficoltà e l’angustia dirisolvere». E p. 3040 (26 luglio 1823): «L’uomo in cui concorresse-ro grande e colto ingegno, e risolutezza, si può affermare senz’al-cun dubbio che farebbe e otterrebbe gran cose nel mondo, e checerto non potrebbe restare oscuro, in qualunque condizione l’aves-se posto la fortuna dalla nascita. Ma l’abito della prudenza nel deli-berare esclude ordinariamente la facilità e prontezza del risolvere,ed anche la fermezza nell’operare. Di qui è che gli uomini d’inge-gno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre prigio-nieri, per così dire, dell’irresolutezza, difficili a risolvere, timidi, so-spesi incerti, delicati, deboli nell’eseguire» (si noti la fortevicinanza al lessico dell’operetta). Sull’argomento Leopardi si sof-ferma anche nella lettera allo Jacopssen del 23 giugno 1823.

31 Aggiungi che...: per questa aggiunta vedi Zibaldone, pp. 3187-3190, dove si parla di coloro in cui alla forza della natura, cioè del-la sensibilità, si unisce «una sorta di debolezza» (ne è un esempioRousseau): «Ciò sono quelle persone di vastissimo, finissimo e al-tissimo ingegno, al quale per la troppa capacità e ampiezza sfuggo-

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versi, e nell’operare i più efficaci. Ma le tue pari26, impli-cate27 continuamente in loro stesse, e come soverchiate28

dalla grandezza delle proprie facoltà, e quindi impotentidi se medesime29, soggiacciono il più del tempo all’irre-soluzione, così deliberando come operando: la quale èl’uno dei maggiori travagli che affliggano la vita uma-na30. Aggiungi che31 mentre per l’eccellenza delle tue di-

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no e in essa ampiezza si perdono le cose piccole; per la troppa fi-nezza riescono difficilissime e impossibili ad apprendersi, a seguir-si, a possedersi le grosse; per la troppa altezza escono di vista le co-se basse. Non già ch’essi sempre le sdegnino, anzi bene spesso consomma e intensissima cura le cercano e studiano, ma con gran me-raviglia loro e dei pochi che ben li conoscono, non viene lor fattodi conseguire in quelle cose appena una centesima parte di quell’a-bilità e di quel successo che gl’ingegni mediocri, e talora piccoli,con molto minor cura e studio, facilmente e perfettamente conse-guono, possiedono e adoprano»; le stesse ragioni, l’eccesso di ri-flessione e la mancanza di disinvoltura, impediscono «a quei rariingegni di mai, se non imperfettissimamente, conseguire, di mai, senon con grandissima difficoltà e stento, adoperare ed esercitare lequalità che nel mondo si apprezzano ed amano e premiano [...]».

32 trapasserai: sorpasserai. 33 tua specie: quella umana. 34 gravi: impegnative. 35 menome: minime. 36 conversare: nel senso di «trattare, avere a che fare». Vedi Det-

ti memorabili di Filippo Ottonieri, cap. IV, rr. 74-76: «non vengonoa capo, nonostante qualunque cura e diligenza vi pongano, di ad-destrarsi all’uso pratico della vita, né di rendersi nella conversazio-ne tollerabili a se, non che altrui».

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sposizioni trapasserai32 facilmente e in poco tempo, qua-si tutte le altre della tua specie33 nelle conoscenze piùgravi34, e nelle discipline anco difficilissime, nondimenoti riuscirà sempre o impossibile o sommamente malage-vole di apprendere o di porre in pratica moltissime cosemenome35 in se, ma necessarissime al conversare36 coglialtri uomini; le quali vedrai nello stesso tempo esercitareperfettamente ed apprendere senza fatica da mille inge-gni, non solo inferiori a te, ma spregevoli in ogni modo.Queste ed altre infinite difficoltà e miserie occupano ecircondano gli animi grandi. Ma elle sono ricompensateabbondantemente dalla fama, dalle lodi e dagli onoriche frutta a questi egregi spiriti la loro grandezza, e dalladurabilità della ricordanza che essi lasciano di se ai loroposteri.

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37 Ma... altro: l’Anima dubita che questa «ricompensa» alle suepene non sia in realtà così facile da ottenere, per i motivi che spie-ga subito dopo.

38 Ora vedi...: l’Anima riprende le affermazioni della Natura, rr.64-67 (commercio corrisponde a conversare; cfr. Storia del genereumano, nota 197), facendone però discendere conclusioni ben di-verse.

39 come: in quanto. 40 prenunziarti: preannunciarti. 41 Ben è vero...: la Natura conferma i dubbi dell’Anima; del re-

sto aveva già parlato di «altre infinite difficoltà e miserie» (r. 71); ri-traggo significa «ritengo, deduco».

42 col dispregio e la noncuranza: cfr. Ad Angelo Mai, vv. 147-148:«Nè livor più, ma ben di lui più dura / La noncuranza avviene aisommi» (Fubini).

66Letteratura italiana Einaudi

ANIMA. Ma coteste lodi e cotesti onori che tu dici, gliavrò io dal cielo, o da te, o da chi altro37?

NATURA. Dagli uomini: perché altri che essi non lipuò dare.

ANIMA. Ora vedi38, io mi pensava che non sapendofare quello che è necessarissimo, come tu dici, al com-mercio cogli altri uomini, e che riesce anche facile insinoai più poveri ingegni; io fossi per essere vilipesa e fuggi-ta, non che lodata, dai medesimi uomini; o certo fossiper vivere sconosciuta a quasi tutti loro, come39 inetta alconsorzio umano.

NATURA. A me non è dato prevedere il futuro, néquindi anche prenunziarti40 infallibilmente quello chegli uomini sieno per fare e pensare verso di te mentre sa-rai sulla terra. Ben è vero41 che dall’esperienza del passa-to io ritraggo per lo più verisimile, che essi ti debbanoperseguitare coll’invidia; la quale è un’altra calamità so-lita di farsi incontro alle anime eccelse; ovvero ti sienoper opprimere col dispregio e la noncuranza42. Oltreche la stessa fortuna, e il caso medesimo, sogliono essereinimici delle tue simili. Ma subito dopo la morte, come

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43 Camoens: Luìs Vaz de Camões (1524-1580) è autore del mag-gior poema in lingua portoghese, Os Lusìadas (cioè i discendenti diLuso, fondatore mitico del Portogallo; Leopardi ne utilizza un pas-so nel Dialogo della Natura e di un Islandese), pubblicato nel 1572,quasi al termine di una vita travagliatissima. È incluso già nel Dia-logo Galantuomo e Mondo; e anche nello Zibaldone, occupandosidella sua opera, Leopardi lo ricorda come «lo sfortunato Ca-moens» (p. 3146).

44 Milton: l’inglese John Milton (1608-1674), autore del ParadiseLost (Paradiso perduto), pubblicato nel 1667, opera più volte pre-sente a Leopardi, al quale durante la progettazione degli Inni cri-stiani, poi non realizzati, era sembrata la miglior opera poetica diargomento religioso (cfr. Le poesie e le prose, op. cit., I, pp. 426-427; in casa Leopardi del Paradiso perduto esisteva la traduzioneitaliana di P. Rossi, Venezia, 1783). Di Milton Leopardi si ricorderàanche nella stesura dell’operetta Il Parini ovvero della gloria, doveera destinato a rappresentare il tipo di «sommo poeta» che è anche«sommo filosofo», ma nell’edizione del 1835 fu sostituito conShakespeare (cfr. ed. a cura di O. Besomi, p. 212; così l’inferno delParadiso perduto è in una variante dell’autografo del Dialogo di Ma-lambruno e di Farfarello). Il poeta inglese soffrì di una cecità piut-tosto precoce e in quanto seguace della rivoluzione puritana fuperseguitato al sopravvenire della restaurazione monarchica.

45 levata al cielo: si intenda «il tuo nome osannato». 46 non dirò… giudizio: quindi un’ulteriore limitazione; subito

dopo ancora un forse. 47 fattezze: forme, lineamenti. 48 imitate in diverse guise: riprodotte in diversi modi.

67Letteratura italiana Einaudi

avvenne ad uno chiamato Camoens43, o al più di quiviad alcuni anni, come accadde a un altro chiamato Mil-ton44, tu sarai celebrata e levata al cielo45, non dirò datutti, ma, se non altro, dal piccolo numero degli uominidi buon giudizio46. E forse le ceneri della persona nellaquale tu sarai dimorata, riposeranno in sepoltura magni-fica; e le sue fattezze47, imitate in diverse guise48, an-dranno per le mani degli uomini; e saranno descritti damolti, e da altri mandati a memoria con grande studio,gli accidenti della sua vita; e in ultimo tutto il mondo ci-

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49 Eccetto se...: cfr. un passo della lettera di Leopardi al Brighen-ti del 28 aprile 1820, scritta nella crisi di impotenza e di rabbia cheseguì al veto posto dal padre alla stampa delle sue canzoni: «Essen-do pur troppo vero che l’ingegno il più raro e il più sublime (quan-do anche io ne avessi punto) non basta neppure a far conoscere ilproprio nome, senza l’aiuto di circostanze indispensabili»; nellastessa lettera (citata da Della Giovanna) Leopardi parla della sua«infelicità particolare», e spiega: «dico particolare, perchè delle co-muni nessuno va esente». Vedi anche il passo del Dialogo Galan-tuomo e Mondo e Zibaldone, pp. 1176-1179.

50 mostrare… segno: «far conoscere» (in una nota dell’autografoLeopardi cita a riscontro dell’espressione un passo del Galateo diDella Casa).

51 di che.., esempi: sono insomma davvero del tutto precarie leeventuali «ricompense» all’infelicità delle «anime grandi».

52 noti… fato: perché appunto mai gli uomini se ne sono accorti. 53 Madre mia: corrisponde a figliuola mia (rr. 1 e 6, e poi 140),

ma il vocativo iniziale prepara al forte contrasto che l’anima de-nuncerà nella parte finale del suo discorso.

54 non ostante... cognizioni: vedi rr. 20-21. 55 io sento... felicità: questo è infatti un desiderio congenito,

tutt’uno coll’amore del vivente per sé, cioè col sentimento (io sen-to) della propria vitalità.

56 appetire: desiderare. 57 questo... male: come chiamare con certezza «bene» la gloria,

se è raggiungibile solo da anime così soggette all’infelicità?

68Letteratura italiana Einaudi

vile sarà pieno del nome suo. Eccetto se49 dalla mali-gnità della fortuna, o dalla soprabbondanza medesimadelle tue facoltà, non sarai stata perpetuamente impedi-ta di mostrare agli uomini alcun proporzionato segno50

del tuo valore: di che non sono mancati per verità moltiesempi51, noti a me sola ed al fato52.

ANIMA. Madre mia53, non ostante l’essere ancorapriva delle altre cognizioni54, io sento tuttavia che ilmaggiore, anzi il solo desiderio che tu mi hai dato, èquello della felicità55. E posto che io sia capace di queldella gloria, certo non altrimenti posso appetire56 questonon so se io mi dica bene o male57, se non solamente co-

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58 se non... acquistarla: il desiderio della gloria non può essereche subordinato a quello della felicità (tanto grande da poter esse-re definito il solo desiderio).

59 o di bisogno o di profitto: o necessaria o utile. 60 mena: conduce. 61 beatitudine: vedi r. 41. 62 che mi conduca: soggetto è sempre l’eccellenza.63 innanzi alla morte: «prima di morire» (sempre secondo le pa-

role della Natura). 64 ritrosa: «sfuggente». Si noti la retorica della contrapposizione

tra sì ritrosa... tanta infelicità e la possibilità di non ottenere nulla. 65 eziandio: anche. 66 come... principio: vedi r. 1, «figliuola mia prediletta», cui corri-

sponde qui amarmi singolarmente (cioè in misura particolare).67 calamitoso: «portatore di calamità, sciagurato». Nell’ossimoro

calamitoso dono è condensata tutta l’antitesi tra i punti di vista del-la Natura e dell’Anima, che prosegue segnando il proprio distaccoda «cotesta eccellenza che tu mi vanti».

69Letteratura italiana Einaudi

me felicità, o come utile ad acquistarla58. Ora, secondole tue parole, l’eccellenza della quale tu m’hai dotata,ben potrà essere o di bisogno o di profitto59 al consegui-mento della gloria; ma non però mena60 alla beatitudi-ne61, anzi tira violentemente all’infelicità. Né pure allastessa gloria è credibile che mi conduca62 innanzi allamorte63: sopraggiunta la quale, che utile o che diletto mipotrà pervenire dai maggiori beni del mondo? E per ul-timo, può facilmente accadere, come tu dici, che questasì ritrosa64 gloria, prezzo di tanta infelicità, non mi vengaottenuta in maniera alcuna, eziandio65 dopo la morte. Dimodo che dalle tue stesse parole io conchiudo che tu, inluogo di amarmi singolarmente, come affermavi a prin-cipio66, mi abbi piuttosto in ira e malevolenza maggioreche non mi avranno gli uomini e la fortuna mentre sarònel mondo; poiché non hai dubitato di farmi così cala-mitoso67 dono come è cotesta eccellenza che tu mi vanti.

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68 La quale... beatitudine: la conclusione corrisponde all’iniziodel discorso; la premessa dichiarata allora è ora ribadita («giungereal mio solo intento, cioè la beatitudine»), dimostrando che il dononon è tale.

69 Figliuola mia: di fronte all’accusa dell’Anima, la Natura riba-disce la propria predilezione (vedi nota 71).

70 diletto e vantaggio: perché non possono appagare veramenteil desiderio di felicità (cfr. Dialogo di Malambruno e di Farfarello,rr. 73-75); vanità significa «vuotezza, inconsistenza», vedi ancheStoria del genere umano, r. 386, ma qui l’espressione riprende quel-la precocissima dello Zibaldone: «Oh infinita vanità del vero» (p.69), che tornerà poi in A se stesso, v. 16, «E l’infinita vanità del tut-to».

71 la gloria.., loro: mentre prima la Natura aveva parlato di «ri-compense», ora chiarisce che la gloria è l’unico senso che la migliorparte degli uomini ha trovato per una vita altrimenti vana. Per que-sto intende la grandezza dell’anima come un dono.

72 Onde, non per odio...: ribatte alle accuse dell’Anima, r. 131 eseg.

73 Dimmi... uomini: la domanda è in funzione della decisioneche l’Anima intende ormai prendere; per avventura: «per caso».

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La quale sarà l’uno dei principali ostacoli che mi viete-ranno di giungere al mio solo intento, cioè alla beatitu-dine68.

NATURA. Figliuola mia69; tutte le anime degli uomini,come io ti diceva, sono assegnate in preda all’infelicità,senza mia colpa. Ma nell’universale miseria della condi-zione umana, e nell’infinita vanità di ogni suo diletto evantaggio70, la gloria è giudicata dalla miglior parte degliuomini il maggior bene che sia concesso ai mortali, e ilpiù degno oggetto che questi possano proporre alle curee alle azioni loro71. Onde, non per odio72, ma per vera especiale benevolenza che ti avea posta, io deliberai diprestarti al conseguimento di questo fine tutti i sussidiche erano in mio potere.

ANIMA. Dimmi: degli animali bruti, che tu menzio-navi, è per avventura alcuno fornito di minore vitalità esentimento che gli uomini73?

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74 tengono: hanno i caratteri. 75 copia: abbondanza. 76 Cominciando... più perfetto: cfr. r. 31 e seg. In questa maggior

vitalità consiste l’unica perfezione, l’eccellenza del genere umano(cfr. Storia del genere umano, r. 56).

77 alluogami: mettimi. 78 funeste doti che mi nobilitano: altro ossimoro; l’espressione è

del tutto parallela a quella di r. 135-136. 79 immortalità: quella dovuta alla gloria. 80 pregoti... possa: cfr. la conclusione del Dialogo di Malambruno

e di Farfarello.

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NATURA. Cominciando da quelli che tengono74 dellapianta, tutti sono in cotesto, gli uni più, gli altri meno,inferiori all’uomo; il quale ha maggior copia75 di vita, emaggior sentimento, che niun altro animale; per esseredi tutti i viventi il più perfetto76.

ANIMA. Dunque alluogami77, se tu m’ami, nel piùimperfetto: o se questo non puoi, spogliata delle funestedoti che mi nobilitano78, fammi conforme al più stupidoe insensato spirito umano che tu producessi in alcuntempo.

NATURA. Di cotesta ultima cosa io ti posso compia-cere; e sono per farlo; poiché tu rifiuti l’immortalità79,verso la quale io t’aveva indirizzata.

ANIMA. E in cambio dell’immortalità, pregoti di ac-celerarmi la morte il più che si possa80.

NATURA. Di codesto conferirò col destino.

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1 L’anno... Giove: la data, nella sua meticolosa e assurda preci-sione, introduce da subito all’impostazione lucianea della primaparte del racconto, ambientata in un «paese degli dei» dalle prosai-che caratteristiche umane.

2 il collegio: come dire «l’ordine professionale». 3 Ipernéfelo: cioè «Sopranuvole»; è la trasposizione del greco

¤pernûfeloj che fa da sottotitolo a un testo di Luciano, l’Icaro-menippo.

4 cedole: «avvisi, manifestini»; Leopardi avrà presente questopasso di Guicciardini, citato nel Vocabolario della Crusca: «eranoappiccate, ne’ luoghi pubblici, le cedole, per le quali se gli intimavala convocazione del concilio» (Storia d’italia, libro IX, cap. XVIII;Bari, ed. Laterza, vol. III, pp. 100-101).

5 effettualmente: con l’oggetto stesso. 6 liberale: generoso. 7 gittato: gittare è il termine tecnico per indicare la fusione, spe-

LA SCOMMESSA DI PROMETEO

L’anno ottocento trentatremila dugento settantacin-que del regno di Giove1, il collegio2 delle Muse diedefuora in istampa, e fece appiccare nei luoghi pubblicidella città e dei sobborghi d’Ipernéfelo3, diversecedole4, nelle quali invitava tutti gli Dei maggiori e mi-nori, e gli altri abitanti della detta città, che recentemen-te o in antico avessero fatto qualche lodevole invenzio-ne, a proporla, o effettualmente5 o in figura o periscritto, ad alcuni giudici deputati da esso collegio. Escusandosi che per la sua nota povertà non si poteva di-mostrare così liberale6 come avrebbe voluto, promettevain premio a quello il cui ritrovamento fosse giudicatopiù bello o più fruttuoso, una corona di lauro, con privi-legio di poterla portare in capo il dì e la notte, privata-mente e pubblicamente, in città e fuori; e poter esseredipinto, scolpito, inciso, gittato7, figurato in qualunque

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Giacomo Leopardi - Operette morali

cialmente in bronzo; l’elenco copre quindi tutti i possibili modi diriproduzione artistica.

8 con privilegio… capo: con un’evidente sproporzione tra l’insi-gnificanza del premio e l’ampiezza dei diritti cui darebbe luogo.

9 cosa... città: anche da questo punto di vista (la necessità di di-strarsi dalla noia) non c’è differenza tra gli dei e gli uomini.

10 se gli uomini… la disprezzano: come viene spiegato nella Sto-ria del genere umano, r. 415 e seg.

11 Pitagora e Platone: come si desume da una nota dell’auto-grafo, Leopardi per Pitagora si riferisce a un passo di DiogeneLaerzio, per Platone a un passo del Fedro (LXIV; 278 d).

12 con esempio unico… meritevoli: ma appunto perché si trattadi premio di nessun valore.

13 anteposti: «preferiti» (latinismo; diversi esempi trecenteschinel (Vocabolario della Crusca).

14 Bacco... Minerva... Vulcano: l’unica invenzione che corrispon-de alla tradizione mitologica è quella di Bacco, dalla quale le altre

modo e materia, col segno di quella corona dintorno alcapo8.

Concorsero a questo premio non pochi dei celestiper passatempo; cosa non meno necessaria agli abitatorid’Ipernéfelo, che a quelli di altre città9; senza alcun desi-derio di quella corona; la quale in se non valeva il pregiodi una berretta di stoppa; e in quanto alla gloria, se gliuomini, da poi che sono fatti filosofi, la disprezzano10, sipuò congetturare che stima ne facciano gli Dei, tantopiù sapienti degli uomini, anzi soli sapienti secondo Pi-tagora e Platone11. Per tanto, con esempio unico e finoallora inaudito in simili casi di ricompense proposte aipiù meritevoli12, fu aggiudicato questo premio, senza in-tervento di sollecitazioni né di favori né di promesse oc-culte né di artifizi: e tre furono gli anteposti13: cioè Bac-co per l’invenzione del vino; Minerva per quelladell’olio, necessario alle unzioni delle quali gli Dei fannoquotidianamente uso dopo il bagno; e Vulcano14 per

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procedono in un crescendo di prosaicità: al vino si accompagna l’o-lio, sia pure da bagno, per finire con la pentola economica, ritrovatadal dio addetto alle fucine dell’Olimpo. Questa premiazione dissa-crante prepara i motivi dello svolgimento narrativo e logico dell’o-peretta, con la rivendicazione di Prometeo.

15 pentola... speditamente: anche nella Palinodia al marchese Gi-no Capponi «nove forme di paioli, e nove / Pentole» (vv. 120-121)saranno derise come esempi dei ritrovati «moderni», con cui ilprogresso presume di raggiungere «la mortal felicità». Il riferimen-to è tutt’altro che generico. Negli anni precedenti uno scienziatopiuttosto avventuroso, Benjamin Thompson, conte di Rumford(1753-1814), impegnato tra l’altro in ricerche sulla natura del calo-re, su cui il dibattito era allora molto vivo, si era ripetutamente oc-cupato della tecnologia necessaria alla cottura dei cibi con la massi-ma economia possibile, proponendo dettagliate modifiche allecucine, ai camini e alle pentole. I suoi studi, dedicati in particolarealla creazione di «cucine economiche» per la vita in comunità (ca-serme, ospizi, ecc.) furono editi anche in italiano: Saggi politici, eco-nomici e filosofici del conte di Rumford che hanno servito di base al-lo stabilimento di Monaco per i poveri, Prato, V. Vestri, 1819. Moltodifficile che Leopardi conoscesse questo libro, ma le trovate diRumford erano largamente divulgate, contraddistinte proprio dal-l’epiteto di economiche; se ne parla per esempio sul Conciliatore(cito dall’edizione a cura di V. Branca, Firenze, Le Monnier, 1948-1953): «Ho osservato con mio piacere che vi si praticano i fornellieconomici secondo gli insegnamenti del celebre conte diRumford» (articolo di Serristori, II, pp. 756-757); «Il conte diRumford sì noto per le sue invenzioni economiche [...], la pratica el’applicazione delle sue invenzioni non mancarono d’occupare l’at-tenzione di questo istituto. Vi fu una bottega per la costruzione de-gli utensili, e una cucina montata alla Rumford» (articolo di Si-smondi. III, pp. 316-317). Casi analoghi di riferimenti satirici diLeopardi all’attualità tecnologica sono commentati da A. Parron-chi, «Il computar», in La nascita dell’Infinito, Amadeus, Montebel-luna 1989.

16 ricusarono: rifiutarono.

aver trovato una pentola di rame, detta economica, cheserve a cuocere che che sia con piccolo fuoco e spedita-mente15. Così, dovendosi fare il premio in tre parti, re-stava a ciascuno un ramuscello di lauro: ma tutti e tre ri-cusarono16 così la parte come il tutto; perché Vulcano

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17 allegò: si scusò dicendo. 18 come scrive Omero: una nota manoscritta rinvia all’Iliade, V,

vv. 743-744. Sono versi «di dubbia lezione e interpretazione, cosìtradotti dal Monti: “Indi alla fronte, L’aurea celata impone, irta diquattro Eccelsi coni, a ricoprir bastante Eserciti e città” (vv. 991-994): il Leopardi, che li interpreta come Monti e li traduce piùesattamente, ne cava un nuovo motivo di sorriso su quelle incredi-bili favole» (Fubini), o piuttosto li utilizza per la propria ricostru-zione parodica.

19 non le conveniva… modo: come se un ramo d’alloro facessequalche sensibile aggiunta a quell’elmo smisurato.

20 mutare: scambiare. 21 mitra: non è un copricapo, ma la fascia che gli cingeva la fron-

te; oltre alla corona di pampini è l’ornamento caratteristico del dio. 22 insegna… taverna: una frasca era l’insegna tipica delle osterie;

lo spirito di passatempo con cui gli dei hanno affrontato il concorsovolge in aperta derisione.

23 erario: tesoro. 24 ebbe invidia ai: costruzione latina col complemento di termine.

allegò17 che stando il più del tempo al fuoco della fucinacon gran fatica e sudore, gli sarebbe importunissimoquell’ingombro alla fronte; oltre che lo porrebbe in peri-colo di essere abbrustolato o riarso, se per avventuraqualche scintilla appigliandosi a quelle fronde secche, vimettesse il fuoco. Minerva disse che avendo a sostenerein sul capo un elmo bastante, come scrive Omero18, acoprirsene tutti insieme gli eserciti di cento città, non leconveniva aumentarsi questo peso in alcun modo19. Bac-co non volle mutare20 la sua mitra21, e la sua corona dipampini, con quella di lauro: benché l’avrebbe accettatavolentieri se gli fosse stato lecito di metterla per insegnafuori della sua taverna22; ma le Muse non consentironodi dargliela per questo effetto: di modo che ella si rimasenel loro comune erario23.

Niuno dei competitori di questo premio ebbe invi-dia ai24 tre Dei che l’avevano conseguito e rifiutato, né si

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25 Prometeo: in contrapposizione all’atteggiamento degli altridei, è l’unico che prende sul serio il concorso, fatto che muove nonpoca maraviglia.

26 venuto a parte: «che aveva partecipato» (ma il participio serveprobabilmente a evitare la ripetizione di un che).

27 uffici: compiti. 28 privilegio: cioè per un motivo (vedi r. 13) ancor meno apprez-

zabile dell’onore, subito messo in ridicolo; fin dalle prime battutePrometeo appare nella parte dello sciocco.

29 prevalersi: approfittare. 30 fulmini: nota di Leopardi: «(16) Plinio, lib. 16, cap. 30; lib. 2,

cap. 55. Svetonio, Tiber, cap. 69». I passi erano già stati utilizzatinel Saggio sopra gli errori popolari degli antichi (cfr. Le poesie e leprose, II, 392-393).

31 più probabilmente: «più attendibilmente» (Galimberti). 32 gittare: perdere.

dolse dei giudici, né biasimò la sentenza; salvo solamen-te uno, che fu Prometeo25, venuto a parte26 del concorsocon mandarvi il modello di terra che aveva fatto e ado-perato a formare i primi uomini, aggiuntavi una scrittu-ra che dichiarava le qualità e gli uffici27 del genere uma-no, stato trovato da esso. Muove non poca maraviglia ilrincrescimento dimostrato da Prometeo in caso tale, cheda tutti gli altri, sì vinti come vincitori, era preso in giuo-co: perciò investigandone la cagione, si è conosciuto chequegli desiderava efficacemente, non già l’onore, ma be-ne il privilegio28 che gli sarebbe pervenuto colla vittoria.Alcuni pensano che intendesse di prevalersi29 del lauroper difesa del capo contro alle tempeste, secondo si nar-ra di Tiberio, che sempre che udiva tonare, si ponea lacorona; stimandosi che l’alloro non sia percosso dai ful-mini30. Ma nella città d’Ipernéfelo non cade fulmine enon tuona. Altri più probabilmente31 affermano chePrometeo, per difetto degli anni, comincia a gittare32 icapelli; la quale sventura sopportando, come accade a

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33 Sinesio: Sinesio di Cirene, scrittore dell’ultimo ellenismo diun certo interesse storico e documentario (vissuto tra il 370 e il415, fu vescovo di Tolemaide). Leopardi, che lo cita di sfuggita an-che nella Storia dell’astronomia e nel Saggio sopra gli errori popolaridegli antichi, si riferisce qui a un testo scherzoso, il FalßkrajùnkÎmion (Encomio della calvizie).

34 Momo: nella letteratura greca rappresenta il biasimo personi-ficato, e a lui Leopardi può dunque affidare la parte del «critico»contro l’ingenuo ottimismo di Prometeo. Il personaggio si ritrovain un brano dell’Ermotimo o delle sette di Luciano, che può averdato qualche spunto a Leopardi.

35 querelava: lamentava. 36 diceva essere: dichiarativa con l’infinito, alla latina; così subito

dopo (parendogli non persuaderlo). 37 non persuaderlo... a Momo: costruzione latina con l’accusativo

dell’oggetto e il dativo della persona (lo vale «di ciò»). 38 questa scommessa... universo: indicato nel titolo, ecco il tema

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molti, di malissima voglia, e non avendo letto le lodi del-la calvizie scritte da Sinesio33, o non essendone persua-so, che è più credibile, voleva sotto il diadema nascon-dere, come Cesare dittatore, la nudità del capo.

Ma per tornare al fatto, un giorno tra gli altri ragio-nando Prometeo con Momo34, si querelava35 aspramen-te che il vino, l’olio e le pentole fossero stati anteposti algenere umano, il quale diceva essere36 la migliore operadegl’immortali che apparisse nel mondo. E parendoglinon persuaderlo bastantemente a Momo37, il quale ad-duceva non so che ragioni in contrario, gli propose discendere tutti e due congiuntamente verso la terra, e po-sarsi a caso nel primo luogo che in ciascuna delle cinqueparti di quella scoprissero abitato dagli uomini; fattaprima reciprocamente questa scommessa: se in tutti cin-que i luoghi, o nei più di loro, troverebbero o no mani-festi argomenti che l’uomo sia la più perfetta creaturadell’universo38. Il che accettato da Momo, e convenuti

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dell’operetta; attraverso l’invenzione narrativa della scommessa l’e-sposizione del ragionamento assume la forma di un dibattito.

39 nuovo mondo: il continente americano. Il primo quadro delviaggio di Prometeo e Momo dipende da diversi passi del libro cheLeopardi cita alla nota 17 [riportata qui alla nota 58] (molti altrisono i rinvii nell’autografo), letto tra il settembre e il novembre del1823 e già utilizzato, come si è visto, nelle riflessioni dello Zibaldo-ne.

40 Popaian: nell’attuale Colombia. 41 vestigi di cultura: «resti di coltivazione» (vedi nota 43). 42 vivo: in contrapposizione alle sepolture e alle ossa; è l’assenza

di vita umana il dato più impressionante. 43 Andarono… solitudine: ai due visitatori appare un paesaggio

di misteriosa desolazione, che insospettisce Momo e che troveràspiegazione solo al termine della visita; ne è causa la guerra inevita-bile in una «società stretta», come spiega il passo dello Zibaldonecitato alla nota 59, dal quale deriva questa descrizione (cfr. lì vesti-gi di coltivazione con vestigi di cultura della nota 41, ecc.).

del prezzo della scommessa, incominciarono senza in-dugio a scendere verso la terra; indirizzandosi primiera-mente al nuovo mondo39; come quello che pel nomestesso, e per non avervi posto piede insino allora niunodegl’immortali, stimolava maggiormente la curiosità.Fermarono il volo nel paese di Popaian40, dal lato set-tentrionale, poco lungi dal fiume Cauca, in un luogo do-ve apparivano molti segni di abitazione umana: vestigidi cultura41 per la campagna; parecchi sentieri, ancorchétronchi in molti luoghi, e nella maggior parte ingombri;alberi tagliati e distesi; e particolarmente alcune che pa-revano sepolture, e qualche ossa d’uomini di tratto intratto. Ma non perciò poterono i due celesti, porgendogli orecchi, e distendendo la vista per ogn’intorno, udireuna voce né scoprire un’ombra d’uomo vivo42. Andaro-no, parte camminando parte volando, per ispazio dimolte miglia; passando monti e fiumi; e trovando da pertutto i medesimi segni e la medesima solitudine43.

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44 Come: introduce un’interrogativa: «come mai». 45 tremuoti: terremoti. 46 e veramente… acqua: nell’assenza di voci, il paesaggio è ricon-

quistato dalla voce primigenia della natura: i rami agitati dall’aria elo stillare dell’acqua.

47 disfare: «distruggere» (come scrive Leopardi stesso tra le va-rianti alternative); cfr. Storia del genere umano, r. 99, e Palinodia almarchese Gino Capponi, v. 161 e seg.: «Così natura ogni opra sua[...] / [...] non prima / Vede perfetta, ch’a disfarla imprende».

48 sciaguari: giaguari. 49 cerigoni: «è nome d’un animale di color del bossolo, e grande

quant’una volpe»: così Leopardi impara da una passo di FrancescoSerdonati (1540-1602?) sul Brasile che sceglie per la Crestomaziaitaliana (La Prosa) [p. 98; vedi Galimberti]. Il libro di Serdonati gliè prestato dal Pepoli a Bologna, e infatti cerigoni fa parte di un’ag-giunta marginale del manoscritto.

50 piccolo mucchio: in forte contrasto con i deserti incontrati pri-ma e con la valle immensa; è la «piccola e incolta e povera borga-

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Come44 sono ora deserti questi paesi, diceva Momo aPrometeo, che mostrano pure evidentemente di esserestati abitati? Prometeo ricordava le inondazioni del ma-re, i tremuoti45, i temporali, le piogge strabocchevoli,che sapeva essere ordinarie nelle regioni calde: e vera-mente in quel medesimo tempo udivano, da tutte le bo-scaglie vicine, i rami degli alberi che, agitati dall’aria,stillavano continuamente acqua46. Se non che Momonon sapeva comprendere come potesse quella parte es-sere sottoposta alle inondazioni del mare, così lontanodi là, che non appariva da alcun lato; e meno intendevaper qual destino i tremuoti, i temporali e le piogge aves-sero avuto a disfare47 tutti gli uomini del paese, perdo-nando agli sciaguari48, alle scimmie, a’ formichieri, a’ ce-rigoni49, alle aquile, a’ pappagalli, e a cento altre qualitàdi animali terrestri e volatili, che andavano per quei din-torni. In fine, scendendo a una valle immensa, scopriro-no, come a dire, un piccolo mucchio50 di case o capanne

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tella di quattro capannucce» di Zibaldone, p. 3790 (citato alla nota59). Tutto accentua il divario tra le aspettative di Prometeo e larealtà.

51 vaso di terra: una gran marmitta di terracotta. 52 Si accostarono... umana: cfr. nota 189 della Storia del genere

umano. 53 accennava: manifestava. 54 che si fa?: nessuno stupore e venerazione per l’arrivo degli dei

(siamo del resto nel «mondo nuovo»); Prometeo è anzi nella condi-zione di inferiorità dell’estraneo che con un attacco spigliato e ma-nifestando partecipazione («Che buone vivande») tenta di inserirsinella conversazione; ma alle sue curiosità risponde il tono dimessoe imperturbabile con cui il Selvaggio descrive il proprio comporta-mento. Il rilievo «antropologico» (per il Selvaggio è naturale ciòche a noi appare stupefacente) diventa in Leopardi idea narrativa,prendendo spunto dal passo citato nella sua nota 17 (riportata quialla nota 58), del quale sottolinea la «forma di dire naturalissima»(e cfr. nel testo spagnolo respondio mansamente).

55 anzi: come dire «la più domestica che ci sia». 56 Pasifae: la moglie di Minosse che, congiungendosi con un to-

ro, diede alla luce il Minotauro.

di legno, coperte di foglie di palma, e circondata ognunada un chiuso a maniera di steccato: dinanzi a una dellequali stavano molte persone, parte in piedi, parte sedu-te, dintorno a un vaso di terra51 posto a un gran fuoco.Si accostarono i due celesti, presa forma umana52; e Pro-meteo, salutati tutti cortesemente, volgendosi a uno cheaccennava53 di essere il principale, interrogollo: che sifa54?

SELVAGGIO. Si mangia, come vedi.PROMETEO. Che buone vivande avete?SELVAGGIO. Questo poco di carne.PROMETEO. Carne domestica o salvatica?SELVAGGIO. Domestica, anzi55 del mio figliuolo.PROMETEO. Hai tu per figliuolo un vitello, come eb-

be Pasifae56?

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57 come... altri: in reazione a come ebbe Pasifae. Si noti il giocodelle parti che domina queste battute: mentre Prometeo si stupiscedel comportamento del selvaggio e non vuole credere alle proprieorecchie, l’altro si stupisce delle domande del dio.

58 campo: nota di leopardi: «(17) Voglio recare qui un luogo po-co piacevole veramente e poco gentile per la materia, ma pure mol-to curioso da leggere, per quella tal forma di dire naturalissima,che l’autore usa. Questi è un Pietro di Cieza, spagnuolo, vissuto altempo delle prime scoperte e conquiste fatte da’ suoi nazionali inAmerica, nella quale militò, e stettevi diciassette anni. Della sua ve-racità e fede nelle narrative, si può vedere la prima nota del Ro-bertson al sesto libro della Storia d’America. Riduco le parole al-l’ortografia moderna. ‘La segunda vez que volvìmos por aquellosvalles, cuando la ciudad de Antiocha fué poblada en la sierras queestàn por encima dellos, oì decir, que los señores ó caciques destosvalles de Nore buscaban por las tierras de sus enemigos todas las mu-geres que podian; las quales traidas á sus casas, usaban con ellas co-mo con la suyas proprias; y si se empreñaban dellos, los hijos que na-cian los criaban con mucho regalo, hasta que habian doce ó treceaiños; y desta edad, estando bien gordos, los comian con gran sabor,

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SELVAGGIO. Non un vitello, ma un uomo, come eb-bero tutti gli altri57.

PROMETEO. Dici tu da senno? mangi tu la tua carnepropria?

SELVAGGIO. La mia propria no, ma ben quella di co-stui: che per questo solo uso io l’ho messo al mondo, epreso cura di nutrirlo.

PROMETEO. Per uso di mangiartelo?SELVAGGIO. Che maraviglia? E la madre ancora, che

già non debbe esser buona da fare altri figliuoli, pensodi mangiarla presto.

MOMO. Come si mangia la gallina dopo mangiate leuova.

SELVAGGIO. E l’altre donne che io tengo, come sienofatte inutili a partorire, le mangerò similmente. E questimiei schiavi che vedete, forse che li terrei vivi, se nonfosse per avere di quando in quando de’ loro figliuoli, emangiarli? Ma invecchiati che saranno, io me li mangeròanche loro a uno a uno, se io campo58.

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sin mirar que eran su substancia y carne propria: y desta manera te-nien mugeres para solamente engendrar hijos en ellas para despuescomer; pecado mayor que todos los que ellos hacen. Y hàceme tenerpor cierto lo que digo, ver lo que pasò con el licienciado Juan de Va-dillo (que en este año està en España; y si le preguntan lo que digodirá ser verdad): y es, que la primera vez que entraron Christianosespagñoles en estos valles, que fuímos yo y mis compañeros, vino depaz un señorete, que habia por nombre Nabonuco, y traia consigotres mugeres; y viniendo la noche, las dos dellas se echaron á la largaencima de un tapete ó estera, y la otra atraversada para servir de al-mohada; y el Indio se echó encima de los cuerpos dellas, muy tendi-do; y tomó de la mano otra muger hermosa que quedaba atras conotra gente suya, que luego vino. Y como el licenciado Juan de Vadillole viese de aquella suerte, preguntéle que para qué habia traidoaquella muger que tenia de la mano: y mirandolo al rostro el Indio,respondió mansamente, que para comerla; y que si él no hubiera ve-nido, lo hubiera yà hecho. Vadillo, oido esto, mostrando espantàrse,le dijo: ¿pues como, siendo tu muger, la has de comer? El cacique, al-zando la voz, torné ó responder diciendo: mira, mira; y aun al hijoque pariere tengo tambien de comer. Esto que he dicho, pasó en elvalle de Nore: y en él de Guaca, que es él que dije quedar atras, oí de-cir á este licenciado Vadillo algunas vezes, como supo por dicho de al-gunos Indios viejos, por las lenguas que traíamos, que cuando los na-turale dél iban à la guerra, à los Indios que prendian en ella, haciansus esclavos; á los quales casaban con sus parientas y vecinas; y loshijos que habian en ellas aquellos esclavos, los comian: y que despuesque los mismos esclavos eran muy viejos, y sin potencia para engen-drar, los comian tambien á ellos. Y á la verdad, como estos Indiosnon tenian fe, ni conocian al demonio, que tales pecados les hacia ha-cer, cuan malo y perverso era; no me espanto dello: porque hacer esto,mas lo tenian ellos por valentia, eque por precado’. Parte primera dela Chronica del Perù hecha por Pedro de Cieza, cap. 12, ed. de An-vers 1554, hoja 30 y seguiente». Riferendosi a questi stessi passi,nel pensiero dello Zibaldone, citato, Leopardi scriveva: «Qual cosapiù contraria a natura di quello che una specie di animali serva almantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver de-stinato un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effetti-vamente quelle proprie parti di ch’ei si nutrisse. La natura ha desti-nato molte specie di animali a servir di cibo e sostentamento l’unealle altre, ma che un animale si pasca del suo simile, e ciò non pereccesso straordinario di fame, ma regolarmente, e che lo appetisca,e lo preferisca agli altri cibi; questa incredibile assurdità non si tro-va in altra specie che nell’umana. Nazioni intere, di costumi quasiprimitive, se non che sono strette in una informe società, usano or-dinariamente o usarono per secoli e secoli questo costume, e nonpure verso i nemici, ma verso i compagni, i maggiori, i genitori vec-chi, le mogli, i figli» (Zibaldone, p. 3797).

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59 Lontanissima... rigagnolo: cfr. Zibaldone, pp. 3789-3791: «Ve-nendo ora da più presso a mostrare quanto sia vero che l’odio ver-so gli altri, specialmente verso i simili, è assai maggiore nell’uomoche negli altri animali, e quindi l’uomo è il più insociale di tutti glianimali, perchè una società stretta di uomini [...] nuoce assai piùche non farebbe in niun’altra specie; considereremo la guerra [...].E come la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta qualch’ella sia, notisi che non v’ha popolo sì selvaggio e sì poco corrot-to, il quale avendo una società, non abbia guerra, e continua e cru-delissima. Videsi questo, per portare un esempio, nelle selvatichenazioni d’America, tra le quali non v’aveva così piccola e incolta epovera borgatella di quattro capannucce, che non fosse in continuae ferocissima guerra con questa o con quell’altra simile borgatellavicina, di modo che di tratto in tratto le borgate intere scompariva-no, e le intere provincie erano spopolate di uomini per man del-l’uomo, e immensi deserti si vedevano e veggonsi ancora da’ viag-giatori, dove pochi vestigi di coltivazione e di luogo anticamente orecentemente abitato attestano i danni, la calamità e la distruzioneche reca alla specie umana l’odio naturale verso i suoi simili postoin atto e renduto efficace dalla società»; l’esempio deriva dal Cieça.

60 distrutta: nota di leopardi: «(18) ‘Le nombre des indigènesindépendans qui habitent les deux Amériques décroît annuellement.On en compte encore environ 500.000 au nord et à l’ouest des Etats-Units, et 400.000 au sud des républiques de Rio de la Plata et duChili. C’est moins aux guerres qu’ils ont à soutenir contre les gouver-nemens américains, qu’à leur funeste passion pour les liqueurs forteset aux combats d’extermination qu’ils se livrent entr’eux, que l’ondoit attribuer leur décroissement rapide. Ils portent à un tel point cesdeux excés, que l’on peut prédire, avec certitude, qu’avant un siècleils auront complètement disparu de cette partie du globe. L’ouvragede M. Schoolcraft (intitolato, Travels in the central portions of theMississipi valley; pubblicato a NewYork, l’anno 1825) est plein dedétails curieux sur ces propiétaires primitifs du Nouveau-Monde; il

PROMETEO. Dimmi: cotesti schiavi sono della tua na-zione medesima, o di qualche altra?

SELVAGGIO. D’un’altra.PROMETEO. Molto lontana di qua?SELVAGGIO. Lontanissima: tanto che tra le loro case e

le nostre, ci correva un rigagnolo59.E additando un collicello, soggiunse: ecco là il sito

dov’ella era; ma i nostri l’hanno distrutta60. In questo

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devra être d’autant plus récherché, que c’est, pour ansi dire, l’histoirede la dernière période d’existence d’un peuple qui va s’éteindre’. Re-vue Encyclopédique, tom. 28, novembre 1825, pag. 444». Anchequesta nota, da cui Leopardi trae nuove conferme alle tesi giàespresse nell’operetta, è aggiunta durante il soggiorno bolognese,durante il quale Leopardi poté leggere la Revue Encyclopédique,che mancava nella sua biblioteca.

61 guardatura: modo di guardare (cfr. Vocabolario della Crusca). 62 fatture: creature (cfr. Storia del genere umano, nota 189). 63 seco: con lui. 64 e fu… troiane: cfr. Virgilio, Eneide, III, v. 209 e seg.: i troiani

di Enea e Anchise, sbarcati sulle isole Strofadi, ne sono scacciati daun attacco delle Arpie, la cui «foedissima ventris proluvies» insoz-za il cibo imbandito.

65 incontanente: subito. 66 Agra: tra le principali città antiche dell’India, sede della corte

del Gran Mogol (o Mogor). Il nome del luogo e l’episodio sonotratti (come Leopardi annota sull’autografo) dal libro di DanieiloBartoli, Missione al Gran Mogor del P. Ridolfo Acquaviva dellaCompagnia di Giesù..., che Leopardi possedeva nell’edizione diRoma, 1663. Il caso è citato anche in Zibaldone, p. 3798: «Le su-perstizioni, le vittime umane, anche di nazionali e compagni, im-molate non per odio, ma per timore, come altrove s’è detto, e poiper usanza; i nemici ancora immolati crudelissimamente agli Dei

parve a Prometeo che non so quanti di coloro lo stesseromirando con una cotal guardatura61 amorevole, come èquella che fa il gatto al topo: sicché, per non essere man-giato dalle sue proprie fatture62, si levò subito a volo; eseco63 similmente Momo: e fu tanto il timore che ebberol’uno e l’altro, che nel partirsi, corruppero i cibi dei bar-bari con quella sorta d’immondizia che le arpie sgorga-rono per invidia sulle mense troiane64. Ma coloro, piùfamelici e meno schivi de’ compagni di Enea, seguitaro-no il loro pasto; e Prometeo, malissimo soddisfatto delmondo nuovo, si volse incontanente65 al più vecchio, vo-glio dire all’Asia: e trascorso quasi in un subito l’inter-vallo che è tra le nuove e le antiche Indie, scesero ambe-due presso ad Agra66 in un campo pieno d’infinito

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senza passione alcuna, ma solo per costume; il tormentare il muti-lare ec. se stessi per vanità, per superstizione per uso; l’abbruciarsivive le mogli spontaneamente dopo le morti de’ mariti; il seppellireuomini e dorme vive insieme co’ lor signori morti, come s’usava inmoltissime parti dell’America meridionale; ec. ec. son cose notissi-me».

67 torchi: torce. 68 Prometeo… immaginava: di nuovo Prometeo legge gli avveni-

menti secondo la propria visione idealizzata, destinata a scontrarsicon la realtà (cfr. rr. 197-198: Intendendo poi… pensò; rr. 201: Masaputo...).

69 Lucrezia... Virginia: eroine romane il cui onore fu riscattato odifeso con la morte contro la violenza tirannica, diventando cosìesempio di riscossa per tutti i cittadini. Virginia è personaggio caroalla poesia di Leopardi; dopo aver immaginato un’intera canzone«dove si finga di vedere in sogno l’ombra di Lei, e di parlargli tene-ramente tanto sul suo fatto quanto sui mali presenti d’Italia» (Lepoesie e le prose, op. cit., I, p. 700), ne fa la protagonista delle stro-fe finali di Nelle nozze della sorella Paolina.

70 qualche... patria: serie di esempi di eroine o eroi dell’età classi-ca, tutti immolatisi secondo rituali antichi (seguitando la fede diqualche oracolo), che pretendevano il sacrificio della vita per il be-ne della patria (la devotio romana). L’elenco deriva quasi tutto daun passo di Cicerone (Tusculanae disputationes I, 48) richiamato daLeopardi in un’annotazione dell’autografo insieme ad altre fontierudite. Vedi il passo di Zibaldone, pp. 3641-3642, dove si parla deisacrifici umani rimasti nell’antica Roma.

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popolo, adunato intorno a una fossa colma di legne: sul-l’orlo della quale, da un lato, si vedevano alcuni con tor-chi67 accesi, in procinto di porle il fuoco; e da altro lato,sopra un palco, una donna giovane, coperta di vesti sun-tuosissime, e di ogni qualità di ornamenti barbarici, laquale danzando e vociferando, faceva segno di grandis-sima allegrezza. Prometeo vedendo questo,immaginava68 seco stesso una nuova Lucrezia o nuovaVirginia69, o qualche emulatrice delle figliuole di Eret-teo, delle Ifigenie, de’ Codri, de’ Menecei, dei Curzi edei Deci, che seguitando la fede di qualche oracolo,s’immolasse volontariamente per la sua patria70. Inten-

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71 Intendendo poi... colui: svanita la prima immaginazione, Pro-meteo s’illude di trovarsi di fronte a una nuova Alceste (altrimentiAlcesti), «l’eroina della tragedia omonima di Euripide, votatasi allamorte per salvare il marito Admeto» (Fubini).

72 Ma saputo... fuoco: ben diverso il caso da quello eroico e amo-roso di Alcesti (e ormai rapida la disillusione di Prometeo): si usavadi fare, odio al marito, ubriaca.

73 Europa: il viaggio segue le tappe di un avvicinamento alla «ci-viltà».

74 dove… andavano: «e mentre vi andavano»; è un ricalco, pro-prio dell’italiano letterario, dell’uso latino di ubi prolettico, confunzione di nesso relativo (= et ibi); vedi anche qui, r. 220, e Dettimemorabili di Filippo Ottonieri, p. 263. La locuzione intanto che èannotata da Leopardi, poco prima di stendere quest’operetta, trale espressioni perfettamente corrispondenti nel greco antico e nellelingue romanze (cfr. Zibaldone, p. 4061, 7 aprile 1824; dove citaesempi italiani da Guicciardini).

75 colloquio: dopo essersi limitato a esprimere dubbi (vedi rr. 84-85, 113, 119 e seg.), ora, dopo le prime due visite, Momo ha ele-menti sufficienti per negare l’opinione di Prometeo.

76 Avresti... spontaneamente: ecco a cosa è servita la massima be-nemerenza di Prometeo, quel furto del fuoco agli dei, per cui ha

dendo poi che la cagione del sacrificio della donna era lamorte del marito, pensò che quella, poco dissimile daAlceste, volesse col prezzo di se medesima, ricomperarelo spirito di colui71. Ma saputo che ella non s’inducevaad abbruciarsi se non perché questo si usava di fare dal-le donne vedove della sua setta, e che aveva sempre por-tato odio al marito, e che era ubbriaca, e che il morto, incambio di risuscitare, aveva a essere arso in quel medesi-mo fuoco72; voltato subito il dosso a quello spettacolo,prese la via dell’Europa73; dove intanto che andavano74,ebbe col suo compagno questo colloquio75.

MOMO. Avresti tu pensato quando rubavi con tuograndissimo pericolo il fuoco dal cielo per comunicarloagli uomini, che questi se ne prevarrebbero, quali percuocersi l’un l’altro nelle pignatte, quali per abbruciarsispontaneamente76?

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patito la punizione di essere incatenato a una rupe e roso quotidia-namente da un’aquila. Momo sottolinea sarcasticamente (cuocersil’un l’altro, pignatte) il comportamento umano, che annulla ognigrandezza tragica del gesto di Prometeo.

77 No per certo... stupore: la fiducia di Prometeo non è ancorascalfita, poiché è nello stadio «incivilito» che si aspetta di vederrealizzata la natura «perfetta» dell’uomo (sarà la posizione poi diTimandro, vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr. 267-269).Èquesta la tesi cui si oppone subito Momo, ma l’aspettativa creatadalle certezze di Prometeo è destinata a una disillusione ancor piùviva: nella visita all’Europa si dovrà davvero stupire, ma per motivimolto diversi da quelli previsti.

78 Io per me: nella lunga replica di Momo Leopardi raccoglie lariflessione proposta in questa operetta. Si noti all’inizio la ripetizio-ne del pronome di prima persona: di fronte alle parole di Prome-teo, in cui sono rispecchiate idee dominanti, Momo Leopardi op-pone la differenza della propria personale osservazione; la formulaè caratteristica di Leopardi, in particolare con Timandro e Trista-no.

79 veggo: «vedo»; regge il successivo come. 80 se gli uomini… universo: ripete l’oggetto della scommessa (rr.

67-69). 81 faccia di bisogno: sia necessario. 82 quando che: dal momento che. 83 inciviliti... barbari: riprende l’opposizione usata da Prometeo.

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PROMETEO. No per certo. Ma considera, caro Mo-mo, che quelli che fino a ora abbiamo veduto, sono bar-bari: e dai barbari non si dee far giudizio della naturadegli uomini; ma bene dagl’inciviliti: ai quali andiamo alpresente: e ho ferma opinione che tra loro vedremo eudremo cose e parole che ti parranno degne, non sola-mente di lode, ma di stupore77.

MOMO. Io per me78 non veggo79, se gli uomini sonoil più perfetto genere dell’universo80, come faccia di bi-sogno81 che sieno inciviliti perché non si abbrucino dase stessi, e non mangino i figliuoli propri: quando che82

gli altri animali sono tutti barbari83, e ciò non ostante,

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Questa la prima argomentazione di Momo: se l’uomo è la creaturapiù perfetta, perché deve aspettare di incivilire per non commette-re tutti gli atti contro la propria specie, ai quali gli altri animali,senza aver bisogno di alcun incivilimento, non ricorrono?

84 a bello studio: apposta. 85 la fenice, che non si trova: l’«araba fenice», l’uccello favoloso

che, dopo essersi bruciato, rinasce dalle proprie ceneri. 86 molto più rari: in correlazione con nessuno... rarissimi. 87 Avverti eziandio: (eziandio = «anche») Momo avanza una se-

conda serie di argomenti: se la perfezione dell’uomo si realizza conla civiltà, come è possibile che ad essa arrivi solo una minoranza, eneanche tutta, e attraverso scoperte occasionali?

88 una sola: l’Europa. 89 alcune… mondo: le zone «civilizzate» dell’America. 90 Parigi... Filadelfia: le capitali della «civilizzazione» in Europa

e in America.

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nessuno si abbrucia a bello studio84, fuorché la fenice,che non si trova85; rarissimi si mangiano alcun loro simi-le; e molto più rari86 si cibano dei loro figliuoli, per qual-che accidente insolito, e non per averli generati a que-st’uso. Avverti eziandio87, che delle cinque parti delmondo una sola88, né tutta intera, e questa non parago-nabile per grandezza a veruna delle altre quattro, è dota-ta della civiltà che tu lodi; aggiunte alcune piccole por-zioncelle di un’altra parte del mondo89. E già tumedesimo non vorrai dire che questa civiltà sia compiu-ta, in modo che oggidì gli uomini di Parigi o di Filadel-fia90 abbiano generalmente tutta la perfezione che puòconvenire alla loro specie. Ora, per condursi al presentestato di civiltà non ancora perfetta, quanto tempo hannodovuto penare questi tali popoli? Tanti anni quanti sipossono numerare dall’origine dell’uomo insino ai tem-pi prossimi. E quasi tutte le invenzioni che erano o dimaggiore necessità o di maggior profitto al consegui-

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91 Dico io dunque: Momo riprende tutte le proprie obiezioni inuna serie ordinata e serrata di domande.

92 acconciandola: «adattandola»; ma è un eufemismo, poichéMomo propone il capovolgimento della sentenza di Prometeo.

93 sommo... perfezione: riprende i termini usati in Zibaldone, pp.2898-2902.

94 quantunque... palpabili: è un’aggiunta successiva, che alludeprobabilmente (come, in forma più estesa e complessa, Paralipo-meni della Batracomiomachia, IV, vv. 1-20; si veda il commento diAllodoli) al pensiero cattolico reazionario (De Maistre, De Bonald,primo Lamennais), in cui si sosteneva che la perfezione dell’uomoconsistesse nella sua creazione a uno stadio di civiltà e di conoscen-za già compiuto e corrispondente al volere divino, dal quale l’uo-mo per sua colpa era decaduto e al quale doveva tornare. Era un ti-

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mento dello stato civile, hanno avuto origine, non da ra-gione, ma da casi fortuiti: di modo che la civiltà umana èopera della sorte più che della natura: e dove questi talicasi non sono occorsi, veggiamo che i popoli sono anco-ra barbari; con tutto che abbiano altrettanta età quanta ipopoli civili. Dico io dunque91: se l’uomo barbaro mo-stra di essere inferiore per molti capi a qualunque altroanimale; se la civiltà, che è l’opposto della barbarie, nonè posseduta né anche oggi se non da una piccola partedel genere umano; se oltre di ciò, questa parte non è po-tuta altrimenti pervenire al presente stato civile, se nondopo una quantità innumerabile di secoli, e per benefi-cio massimamente del caso, piuttosto che di alcun’altracagione; all’ultimo, se il detto stato civile non è per an-che perfetto; considera un poco se forse la tua sentenzacirca il genere umano fosse più vera acconciandola92 inquesta forma: cioè dicendo che esso è veramente sommotra i generi, come tu pensi; ma sommo nell’imperfezio-ne, piuttosto che nella perfezione93; quantunque gli uo-mini nel parlare e nel giudicare, scambino continuamen-te l’una coll’altra; argomentando da certi cotalipresupposti che si hanno fatto essi, e tengonli per veritàpalpabili94. Certo che gli altri generi di creature fino nel

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pico modo di riporre la perfezione umana in un’ambito assoluto, aldi fuori della natura, che Leopardi combatteva.

95 l’essere… l’uomo: per i motivi esposti nel passo citato delloZibaldone (pp. 2898-2902), cioè per il fatto di essere l’animale piùconformabile, cioè modificabile; questo è appunto ciò che viene te-nuto in conto di perfezione, mentre andrebbe considerato il contra-rio.

96 In somma...: Momo conclude con una serie di battute ironi-che.

97 se tuo fratello... conseguito: la frecciata è sarcastica; nel rac-conto greco (esposto da Platone nel Protagora, XI, 320c-322a; citonella traduzione di Adorno, ed. Laterza) Epimeteo, «al quale man-cava compiuta sapienza», nel dare la vita ai modelli degli esseri vi-venti dotò tutti gli animali di diverse facoltà, lasciandone però pri-vo l’ultimo, l’uomo, a cui dovette provvedere Prometeo rubando ilfuoco.

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principio furono perfettissimi ciascheduno in se stesso.E quando eziandio non fosse chiaro che l’uomo barba-ro, considerato in rispetto agli altri animali, è meno buo-no di tutti; io non mi persuado che l’essere naturalmenteimperfettissimo nel proprio genere, come pare che sial’uomo95, s’abbia a tenere in conto di perfezione mag-giore di tutte l’altre. Aggiungi che la civiltà umana, cosìdifficile da ottenere, e forse impossibile da ridurre acompimento, non è anco stabile in modo, che ella nonpossa cadere: come in effetto si trova essere avvenutopiù volte, e in diversi popoli, che ne avevano acquistatouna buona parte. In somma96 io conchiudo che se tuofratello Epimeteo recava ai giudici il modello che debbeavere adoperato quando formò il primo asino o la primarana, forse ne riportava il premio che tu non hai conse-guito97. Pure a ogni modo io ti concederò volentieri chel’uomo sia perfettissimo, se tu ti risolvi a dire che la suaperfezione si rassomigli a quella che si attribuiva da Plo-tino al mondo: il quale, diceva Plotino, è ottimo e per-

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98 vi può capire: «ve ne può essere contenuto» (vedi nota se-guente).

99 Pure... possibili: le idee di perfezione e di armonia assolute eprestabilite di Plotino e di Leibniz rappresentano sistemi opposti eaddirittura risibili rispetto ai convincimenti di Leopardi (l’armoniaprestabilita viene considerata «assurda e ridicola» già nelle Disser-tazioni filosofiche, p. 248). Tutto il brano è un’aggiunta successivanel manoscritto, insieme alla seguente annotazione: «Buhle Stor.della Filos. mod. Mil. 1821. ec. t. 3 p. 200-201. 206». Il libro cuiLeopardi si riferisce è G. A. Buhle, Storia della filosofia modernadal risorgimento delle lettere sino a Kant... tradotta in lingua italia-na da Vincenzo Lancetti, Milano, Dalla Tipografia di Commercio,1821-1825 (in 12 tomi), che tratta a lungo anche della filosofia an-tica; Leopardi non lo possedeva, ma l’ebbe in prestito dall’amicoPepoli durante il soggiorno bolognese (vedi la lettera dell’ottobre1826). Ecco i passi in questione: «Perchè l’universo derivava dallaDivinità, Plotino conchiudea ch’esso è perfetto, e non ha nè difetti,nè lacune, nè imperfezioni. La causa suprema che lo ha prodotto èl’idea della maggior perfezione, e l’ente che basta a se medesimopiù che nessun altro; essa non creò dunque il mondo per bisogno,nè sopra un disegno, nè per uno scopo che potesse condurla a sod-disfar quel bisogno; quindi l’universo è perfetto appunto per essersortito da un ente che possiede la perfezione in supremo grado[…]. Plotino fu astretto di ammettere la perfezione assoluta delmondo, perchè la facea derivare dal solo pensiero della Divinità,con cui l’universo formava per conseguenza un solo e medesimoente» (Buhle, op. cit., pp. 200-201); «Ma Plotino valevasi parimen-ti di altre più importanti ragioni per far comprendere l’esistenzadel male. L’intelligenza divina è l’idea di tutte le cose immaginabili,e per conseguenza le abbraccia in se tutte. Tutto esiste per lo pen-siero di Dio. E dappoi che l’intelligenza divina comprende, ed ètutto ciò che può esistere, essa dunque presenta e diversità e molte-plicità. Tale diversità dee pure estendersi al grado di perfezionedelle cose, di maniera che sono esse più o meno perfette, potendoessere così pensate dalla intelligenza divina, e così esistere realmen-

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fetto assolutamente; ma perché il mondo sia perfetto,conviene che egli abbia in se, tra le altre cose, anco tuttii mali possibili: però in fatti si trova in lui tanto male,quanto vi può capire98. E in questo rispetto forse io con-cederei similmente al Leibnizio che il mondo presentefosse il migliore di tutti i mondi possibili99.

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te. Debbe dunque essere al mondo tanto male quant’era possibile cheve ne fosse» (Buhle, op. cit., pp. 205-206; in corsivo una frase ripre-sa quasi letteralmente da Leopardi). Per quanto riguarda Io sloganche caratterizza Leibniz (autore che Leopardi non conosceva diret-tamente, ma i punti fondamentali della cui filosofia, «monadi, otti-mismo, armonia prestabilita, idee innate», considerava da tempo«favole e sogni» [Zibaldone, p. 1857]), è ben probabile che sia unricordo del Candido, o dell’ottimismo di Voltaire (vedi Dialogo diMalambruno e di Farfarello, nota 10), in cui fa da continuo ritornel-lo ed è il primo oggetto di satira. Plotino sarà uno dei due locutoridel Dialogo di Plotino e di Porfirio, ma in un ruolo sostanzialmentenon dipendente dalla sua filosofia.

100 avesse a ordine: «tenesse pronta» (ma la locuzione con averea è forse un’innovazione di Leopardi).

101 dialettica: in senso tecnico; la dialettica «c’insegna tenziona-re, contendere e disputare l’uno contro l’altro, e fare questione edifese» (così un passo citato dal Vocabolario della Crusca, dal volga-rizzamento del Tesoro di B. Latini, erroneamente attribuito a BonoGiamboni).

102 Non si dubita... diede: con tono ossequioso e formale si rico-nosce ironicamente a Prometeo ciò che in realtà non può dare; daqui «il contrasto tra la sostenutezza latineggiante della prima partedel periodo [..] e la rapidità della negazione che la liquida» (Ga-limberti).

103 Londra: per la scelta della città e la fonte dell’episodio vedipiù oltre.

104 dove scesi: vedi nota 74. 105 veduto: forma invariabile del participio passato attivo, secon-

do il tipo «veduto la bellezza» (come è definito dai grammatici),tradizionale nella prosa italiana (cfr. Serianni, Grammatica italiana,XI, pp. 415-416).

106 privata: per questo sorprende il concorso della folla.

92Letteratura italiana Einaudi

Non si dubita che Prometeo non avesse a ordine100

una risposta in forma distinta, precisa e dialettica101 atutte queste ragioni; ma è parimente certo che non ladiede102: perché in questo medesimo punto si trovaronosopra alla città di Londra103: dove scesi104, e veduto105

gran moltitudine di gente concorrere alla porta di unacasa privata106, messisi tra la folla, entrarono nella casa: e

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107 ritta: mano destra. 108 e trovarono… morti: si faccia attenzione alla sintassi. Con

funzione predicativa di uomo si succedono una serie di elementi,variati tra loro (participio passato con aggettivo in funzione avver-biale [disteso supino], frase relativa [che aveva], altro participiopassato con determinazione [ferito nel petto]), che si concludonoseccamente con morto; ma una eoordinazione riapre il quadro suifanciullini, con una frase all’infinito posta come improvvisata, al difuori di legami sintattici prestabiliti e «corretti» col resto del perio-do (mantenendo però un parallelismo nella conclusione: medesi-mamente morti). Con questa esposizione dall’apparenza sponta-nea, Leopardi raggiunge il fine di rendere più impressivamente lerivelazioni successive della scena.

109 officiale: funzionario. 110

famiglio: servitore.

93Letteratura italiana Einaudi

trovarono sopra un letto un uomo disteso supino, cheavea nella ritta107 una pistola; ferito nel petto, e morto; eaccanto a lui giacere due fanciullini, medesimamentemorti108. Erano nella stanza parecchie persone della ca-sa, e alcuni giudici, i quali le interrogavano, mentre cheun officiale109 scriveva.

PROMETEO. Chi sono questi sciagurati?UN FAMIGLIO110. Il mio padrone e i figliuoli.PROMETEO. Chi gli ha uccisi?UN FAMIGLIO. Il padrone tutti e tre.PROMETEO. Tu vuoi dire i figliuoli e se stesso?UN FAMIGLIO. Appunto.PROMETEO. Oh che è mai cotesto! Qualche grandis-

sima sventura gli doveva essere accaduta.UN FAMIGLIO. Nessuna, che io sappia.PROMETEO. Ma forse era povero, o disprezzato da

tutti, o sfortunato in amore, o in corte?UN FAMIGLIO. Anzi ricchissimo, e credo che tutti lo

stimassero; di amore non se ne curava, e in corte avevamolto favore.

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Giacomo Leopardi - Operette morali

111 S’informano… ricada: secondo la legge inglese, ricordata daDella Giovanna, il suicida per libera scelta (e non per qualche for-ma di costrizione) commetteva un reato e i suoi beni erano confi-scati. È l’ultimo tratto per informare che è un caso di suicidio pie-namente deliberato e senza motivi esterni. (Si ricordi il suicidiodegli uomini nella Storia del genere umano, r. 45 e seg., che avviene«spontaneamente», «senza forza di necessità e senza altro concor-so»).

112 intrinseco: amico. 113 cane: nota di leopardi: «(19) Questo fatto è vero». Nota ag-

giunta nell’edizione di Napoli, 1835, per certificare della realtà del-l’ultima notizia, troppo dura per essere accettata come documento.La fonte dell’episodio era già stata indicata da Della Giovanna inun fatto raccontato sia alla voce Suicide dell’Encyclopédie di Dide-rot e D’Alembert, sia a quella De Caton, du Suicide del Dictionnairephilosophique di Voltaire. Si può essere più precisi, perché l’artico-lo del Dictionnaire è tradotto nel primo torno di Voltaire, Operescelte appartenenti alla storia, alla letteratura ed alla filosofia, Lon-dra [ma Venezia], Milocco, 1760, libro posseduto a Recanati e uni-ca fonte volteriana (a parte Candido e le lettere a Federico II) cheLeopardi conoscesse prima delle Operette morali (negli Elenchi diletture è registrato al marzo 1824). La «frequenza dei suicidi in In-ghilterra» è una notizia che aveva colpito Leopardi già da tempo:

94Letteratura italiana Einaudi

PROMETEO. Dunque come è caduto in questa dispe-razione?

UN FAMIGLIO. Per tedio della vita, secondo che halasciato scritto.

PROMETEO. E questi giudici che fanno?UN FAMIGLIO. S’informano se il padrone era impaz-

zito o no: che in caso non fosse impazzito, la sua roba ri-cade al pubblico per legge: e in verità non si potrà fareche non ricada111.

PROMETEO. Ma, dimmi, non aveva nessun amico oparente, a cui potesse raccomandare questi fanciullini,in cambio d’ammazzarli?

UN FAMIGLIO. Sì aveva; e tra gli altri, uno che gli eramolto intrinseco112, al quale ha raccomandato113 il suocane.

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cfr. Zibaldone, p. 177 («teoria del piacere»): «La profondità dellamente e la facoltà di penetrare nei più intimi recessi del vero dell’a-stratto ec. [...] forma tutta l’occupazione e quindi l’infelicità deisettentrionali colti (osservate perciò la frequenza de’ suicidi in In-ghilterra), i quali non hanno cosa che li distragga dalla considera-zione del vero»; p. 484: «Non si è mai letto di nessun antico che sisia ucciso per noia della vita, laddove si legge di molti moderni, evedi il suicidio ragionato di Buona-fede. Nè perchè questo accadeoggidì massimamente in Inghilterra, si creda che questo fosse co-mune in quel paese anche anticamente»; e vedi anche il cosiddettoFrammento sul suicidio, in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1082.

104 nessun altro animale... medesimo: oltre a Zibaldone, pp.3932-3936, vedi Zibaldone, pp. 3882-3884 (14 novembre 1823),dove ritornando alla «snaturatezza» della società si nota: Per esem-pio il suicidio, disordine contrario a tutta la natura intera, alle leggifondamentali dell’esistenza, ai principii, alle basi dell’essere di tut-te le cose, anche possibili; contraddizione ec. da che cosa è nato senon dalla società? […]. Ora in niuna specie d’animali, neanche lapiù socievole, si potrà trovare che abbiano mai nè mai avesseroluogo non pur costumi, ma fatti particolari, non pur così snaturaticome quelli degl’individui e popoli umani in qualunque società,ma molto meno».

95Letteratura italiana Einaudi

Momo stava per congratularsi con Prometeo sopra ibuoni effetti della civiltà, e sopra la contentezza che ap-pariva ne risultasse alla nostra vita; e voleva anche ram-memorargli che nessun altro animale fuori dell’uomo, siuccide volontariamente esso medesimo114, né spegneper disperazione della vita i figliuoli: ma Prometeo loprevenne; e senza curarsi di vedere le due parti del mon-do che rimanevano, gli pagò la scommessa.

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1 Eureca, eureca: nota di leopardi: «(20) Famose voci di Archi-mede, quando egli ebbe trovato la via di conoscere il furto fattodall’artefice nel fabbricare la corona votiva del re Gerone».

2 hai trovato: eureca significa in greco «ho trovato». 3 lungamente: nota di Leopardi: «(21) I desiderosi di quest’arte

potranno in effetto, non so se apprenderla, ma studiarla certamen-te in diversi libri, non meno moderni che antichi: come, per mododi esempio, nelle Lezioni dell’arte di prolungare la vita umana scrit-te ai nostri tempi in tedesco dal signor Hufeland, state anco volga-rizzate e stampate in Italia. Nuova maniera di adulazione fu quelladi un Tommaso Giannotti medico di Ravenna, detto per sopranno-me il filologo, e stato famoso a’ suoi tempi; il quale nell’anno 1550scrisse a Giulio terzo, assunto in quello stesso anno al pontificato,un libro de vita hominis ultra CXX annos protrahenda, molto a pro-posito dei Papi, come quelli che quando incominciano a regnare,sogliono essere di età grande. Sarebbe libro da ridere, se non fosseoscurissimo. Dice il medico, averlo scritto a fine principalmente diprolungare la vita al nuovo Pontefice, necessaria al mondo; confor-tato anche a scriverlo da due Cardinali, desideroso oltremodo del-lo stesso effetto. Nella dedicatoria, vives igitur, dice, beatissime pa-ter, ni fallor, diutissime. E nel corpo dell’opera, avendo cercato inun capitolo intero cur Pontificum supremorum nullus ad Petri annospervenerit, ne intitola un altro in questo modo: Iulius III papa vide-bit annos Petri et ultra; huius libri, pro longaeva hominis vita ac ch-ristianae religionis commodo, immensa utilitate. Ma il Papa morìcinque anni appresso, in età di sessantasette. Quanto a se, il medi-co prova che se egli per caso non passerà o non toccherà il cento-ventesimo anno dell’età sua, non sarà sua colpa, e i suoi precettinon si dovranno disprezzare per questo. Si conchiude il libro conuna ricetta intitolata, Iulii III vitae longaevae ac semper sanae consi-lium.»

4 libro: come se si trattasse di uno dei due autori citati da Leo-pardi nella nota 21 (qui riportata alla nota 3).

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DIALOGO DI UN FISICOE DI UN METAFISICO

FISICO. Eureca, eureca1.METAFISICO. Che è? che hai trovato2?FISICO. L’arte di vivere lungamente3.METAFISICO. E cotesto libro4 che porti?

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5 dichiaro: espongo. 6 di piombo: per resistere molto a lungo, visto quanto si dice su-

bito dopo; ma commenta Porena: «non sfugga l’amara ironia: dipiombo si facevano solitamente le casse da morto».

7 vivere felicemente: in contrapposizione a vivere lungamente; insordina, è introdotto il tema del dialogo.

8 in questo mezzo: nel frattempo. 9 perché... lunga: ecco pienamente enunciato il tema, il cui con-

trasto col senso comune (r. 24: «così credono gli uomini») lasciastupito il Fisico.

10 il volgo... luce: esempio tra i più significativi di inganno dovu-to a una considerazione superficiale, che ritiene oggettivamente

97Letteratura italiana Einaudi

FISICO. Qui la dichiaro5: e per questa invenzione, segli altri vivranno lungo tempo, io vivrò per lo meno ineterno; voglio dire che ne acquisterò gloria immortale.

METAFISICO. Fa una cosa a mio modo. Trova unacassettina di piombo6, chiudivi cotesto libro, sotterrala,e prima di morire ricordati di lasciar detto il luogo, ac-ciocché vi si possa andare, e cavare il libro, quando saràtrovata l’arte di vivere felicemente7.

FISICO. E in questo mezzo8?METAFISICO. In questo mezzo non sarà buono da

nulla. Più lo stimerei se contenesse l’arte di viver poco.FISICO. Cotesta è già saputa da un pezzo; e non fu

difficile a trovarla.METAFISICO. In ogni modo la stimo più della tua.FISICO. Perché?METAFISICO. Perché se la vita non è felice, che fino a

ora non è stata, meglio ci torna averla breve che lunga9.FISICO. Oh cotesto no: perché la vita è bene da se

medesima, e ciascuno la desidera e l’ama naturalmente.METAFISICO. Così credono gli uomini; ma s’inganna-

no: come il volgo s’inganna pensando che i colori sienoqualità degli oggetti; quando non sono degli oggetti, madella luce10. Dico che l’uomo non desidera e non ama se

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esistente ciò che invece dipende dalla condizione percettiva delsoggetto. Come spiegava Leopardi già in una delle Dissertazioni fi-losofiche giovanili (Sopra la luce): «La diversa rifrangibilità della lu-ce, provenendo secondo il Newton dalla diversa massa e velocitàdelle particelle di luce, egli è facile il comprendere come l’animapercepisca le diverse sensazioni dei colori poichè le particelle, chehanno maggior velocità, e maggior mole commuovendo più forte-mente la retina eccitano nell’anima la sensazione di un colore piùvivo quale è il rosso, e così viceversa. Un corpo poi apparisce di untal colore allorchè, secondo il sistema Newtoniano, le sue parti so-no disposte in modo da riflettere solamente quelle molecole di lu-ce, che lo compongono, ed assorbire le altre» (p. 137).

11 Dico... propria: il Metafisico riprende e rivela punto per puntol’inganno dell’opinione del Fisico; per prima cosa risponde all’af-fermazione che ciascuno ama e desidera la vita.

12 Però: perciò. 13 instrumento: «mezzo a conseguire un dato fine od effetto»

(così il Vocabolario della Crusca). 14 subbietto: (= soggetto) «campo d’azione». Per la vicinanza dei

termini instrumento e subbietto, vedi anche Storia del genere uma-no, rr. 36-37.

15 Ma che l’amore...: il discorso risponde ora al naturalmente delFisico. Si segua il ragionamento: naturale è l’inganno, come le in-numerevoli illusioni favorite dalla natura, non di per sé l’amore del-la vita; per evitare confusioni, Leopardi stesso specifica: «o voglia-mo dire [...] necessario». Con necessario si intende ciò che appenadopo è definito natura dell’uomo e natura di ogni vivente, vale a di-re un dato immodificabile, inerente all’esistenza in sé, senza il qua-le l’esistenza non ci sarebbe; necessario è l’amore della propria feli-cità, non quello per la vita.

16 Ma che... vedi che: secondo un uso latino, poi molto diffuso

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non la felicità propria11. Però12 non ama la vita, se nonin quanto la reputa instrumento13 o subbietto14 di essafelicità. In modo che propriamente viene ad amare que-sta e non quella, ancorché spessissimo attribuisca all’unal’amore che porta all’altra. Vero è che questo inganno equello dei colori sono tutti e due naturali. Ma che l’amo-re15 della vita negli uomini non sia naturale, o vogliamodire non sia necessario, vedi che16 moltissimi ai tempi

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nella prosa letteraria italiana (ma raro in Leopardi), il che «equiva-le a un quod nel senso di quanto a ciò che» (Porena); il Metafisicosta appunto richiamando un’affermazione del Fisico (rr. 22-23),come farà più oltre (r. 43: «Che poi la vita...»).

17 elessero: scelsero. 18 Come... modo: cfr. Dialogo di Malambruno e di Farfarello, rr.

63-65. Il Come vale «così come invece». 19 Che poi... medesima: riprende la prima affermazione del Fisi-

co (r. 20). 20 Per me: vedi La scommessa di Prometeo, r. 221.21 senza fallo: senza dubbio. 22 la natura... scompagnare: cfr. Dialogo della Natura e di un’Ani-

ma, r. 29-30.23 discorri: «considera, passa in rassegna mentalmente» (cfr. Det-

ti memorabili di Filippo Ottonieri, VI, rr. 81-82). 24 malinconica: non è un generico richiamo alla «tristezza»; la

malinconia è in Leopardi l’inevitabile compagna dell’«infelicità deimoderni», di chi ha scoperto la verità delle illusioni: «lo sviluppodel sentimento e della melanconia, è venuto soprattutto dal pro-

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antichi elessero17 di morire potendo vivere, e moltissimiai tempi nostri desiderano la morte in diversi casi, e al-cuni si uccidono di propria mano. Cose che non potreb-bero essere se l’amore della vita per se medesimo fossenatura dell’uomo. Come essendo natura di ogni viventel’amore della propria felicità, prima cadrebbe il mondo,che alcuno di loro lasciasse di amarla e di procurarla asuo modo18. Che poi la vita sia bene per se medesima19,aspetto che tu me lo provi, con ragioni o fisiche o meta-fisiche o di qualunque disciplina. Per me20, dico che lavita felice, saria bene senza fallo21; ma come felice, noncome vita. La vita infelice, in quanto all’essere infelice, èmale; e atteso che la natura, almeno quella degli uomini,porta che vita e infelicità non si possono scompagnare22,discorri23 tu medesimo quello che ne segua.

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gresso della filosofia, e della cognizione dell’uomo, e del mondo, edella vanità delle cose, e della infelicità umana, cognizione che pro-duce appunto questa infelicità, che in natura non dovevamo maiconoscere» (Zibaldone, p. 78-79). Il Fisico invece non vuole diven-tare Metafisico: «La malinconia per esempio fa vedere le cose e leverità (così dette) in aspetto diversissimo e contrarissimo a quelloin cui le fa vedere l’allegria [...]. E l’allegro e il malinconico ec. (sia-no pur due pensatori e filosofi, o uno stesso filosofo in due diversitempi e stati) sono persuasissimi di vedere il vero, ed hanno le loroconvincenti ragioni per crederlo. Vero è purtroppo che astratta-mente parlando, l’amica della verità, la luce per discoprirla, la me-no soggetta ad errare è la malinconia [...]; ed il vero filosofo nellostato di allegria non può far altro che persuadersi, non che il verosia bello o buono, ma che il male cioè il vero si debba dimenticare,e consolarsene, o che sia conveniente di dar qualche sostanza allecose, che veramente non l’hanno» (Zibaldone, pp. 1690-1691). IlFisico dunque si sottrae all’invito; senza neanche contrapporre unproprio ragionamento, si trattiene al di qua degli approfondimenticui intende portarlo il Metafisico.

25 e senza... sinceramente: richiamo tipico al «senso comune»,come se in esso solo stesse la «sincerità», mentre gli approfondi-menti del Metafisico sarebbero sottigliezze, puri artifici intellettua-li.

26 dico... morto: «vuol dire che non intende parlare d’immorta-lità dell’anima, ma d’immortalità del corpo» (Porena).

27 piacesse: si noti il congiuntivo invece del condizionale. 28 presupposto favoloso: impossibile «rispondere sinceramente»

al Fisico: l’immortalità non esiste, è una «favola»; così il Metafisi-co, dopo qualche battuta ironica, prosegue la propria dimostrazio-ne sullo stesso terreno del Fisico, per via di «favole» (cioè con rac-conti tratti dall’invenzione mitologica, o altri di «mitologia»moderna, come la fama di Cagliostro).

100Letteratura italiana Einaudi

FISICO. Di grazia, lasciamo cotesta materia, che ètroppo malinconica24; e senza tante sottigliezze, rispon-dimi sinceramente25: se l’uomo vivesse e potesse viverein eterno; dico senza morire, e non dopo morto26;creditu che non gli piacesse27?

METAFISICO. A un presupposto favoloso28 rispon-derò con qualche favola: tanto più che non sono mai vis-

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29 Se fosse... immortale: celeberrimo in tutta Europa il caso diAlessandro Cagliostro, nome d’arte (se così possiamo dire) di Giu-seppe Balsamo; condannato dal Sant’Ufficio romano al carcereperpetuo e rinchiuso nel forte romagnolo di San Leo, non troppolontano da Recanati, vi morì, dopo maltrattamenti disumani, il 26agosto 1795. Tra le altre cose sosteneva appunto di essere vissutoin tempi remotissimi e contrabbandava la ricetta di un «elixir dilunga vita» (si legga la bella voce di C. Francovich nel DizionarioBiografico degli Italiani).

30 morì: nota di leopardi: «(22) Vedi Luciano, Dial. Menip. etChiron. opp. tom. 1, pag. 514.» «Il Centauro Chirone maestro d’A-chille, nel dialogo di Luciano, dice di essersi stancato dell’immor-talità e d’aver voluto morire per variare stato» (Della Giovanna).

31 Or... uomini: ecco, pur attraverso il ricorso alle «favole», la ri-sposta al Fisico.

32 Iperborei: per gli antichi Greci, nome di una popolazione mi-tica, abitante nell’estremo nord del mondo conosciuto. Tutto ilpasso che li riguarda (fino ad annegano, r. 76) è stato aggiunto sulmanoscritto da Leopardi in un secondo tempo, in fondo all’operet-ta, basandosi sulle fonti citate nella sua nota 23 (riportata alla notaseguente).

101Letteratura italiana Einaudi

suto in eterno, sicché non posso rispondere per espe-rienza; né anche ho parlato con alcuno che fosse immor-tale; e fuori che nelle favole, non trovo notizia di perso-ne di tal sorta. Se fosse qui presente il Cagliostro, forseci potrebbe dare un poco di lume; essendo vissuto pa-recchi secoli: se bene, perché poi morì come gli altri,non pare che fosse immortale29. Dirò dunque che il sag-gio Chirone, che era dio, coll’andar del tempo si annoiòdella vita, pigliò licenza da Giove di poter morire, emorì30. Or pensa, se l’immortalità rincresce agli Dei, chefarebbe agli uomini31. Gl’Iperborei32, popolo incognito,ma famoso; ai quali non si può penetrare, né per terra néper acqua; ricchi di ogni bene; e specialmente di bellissi-mi asini, dei quali sogliono fare ecatombe; potendo, seio non m’inganno, essere immortali; perché non hannoinfermità né fatiche né guerre né discordie né carestie névizi né colpe; contuttociò muoiono tutti: perché, in capo

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33 annegano: nota di Leopardi: «(23) Pindaro, Pyth. od. 10 v. 46 etseqq. Strabone, lib. 15, p. 710 et seqq. Mela, lib. 3, cap. 5. Plinio,lib. 4, cap. 12 in fine.»

34 Bitone e Cleobi fratelli: l’episodio qui ripreso, sempre trattoda racconti greci, deriva da uno dei vari passi che colpirono l’inte-resse di Leopardi leggendo l’opera del Barthélemy e insieme gliOpuscoli morali di Plutarco tradotti da Marcello Adriani (vedi Sto-ria del genere umano, nota 66). Ecco l’appunto che ne trasse allorasullo Zibaldone, p. 2675: «Dans les transports de sa joie (Cydippela prêtesse de Junon), elle supplia la Déesse d’accorder à ses fils(Biton et Cleobis) le plus grand des bonheurs. Ses voeux furent,dit-on, exaucés: un doux sommeil les saisit dans le temple même(de Junon, entre Argos et Mycènes) et les fit tranquillement passerde la vie à la mort; comme si les dieux n’avoient pas de plus grandbien à nous accorder, que d’abréger nos jours [...]. Aggiungi Plu-tarco nel libro della consolazione ad Apollonio, volgarizzamento diMarcello Adriani il giovine, Firenze, 1819, t. I, p. 189, e vedi ciòch’egii soggiunge a questo proposito».

35 pian piano: cfr. il passo del Barthélemy citato nella nota prece-dente: «et les fit traquillement passer...».

36 Agamede... Trofonio: nell’opera di Plutarco utilizzata per l’e-pisodio precedente, a quello segue subito quest’altro.

37 in questo mezzo: vedi nota 8. 38 rispose… attendessero: sintassi sveltita e variata a fini narrati-

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a mille anni di vita o circa, sazi della terra, saltano spon-taneamente da una certa rupe in mare, e vi si annega-no33. Aggiungi quest’altra favola. Bitone e Cleobi fratel-li34, un giorno di festa, che non erano in pronto le mule,essendo sottentrati al carro della madre, sacerdotessa diGiunone, e condottala al tempio; quella supplicò la deache rimunerasse la pietà de’ figliuoli col maggior beneche possa cadere negli uomini. Giunone, in vece di farliimmortali, come avrebbe potuto; e allora si costumava;fece che l’uno e l’altro pian piano35 se ne morirono inquella medesima ora. Il simile toccò ad Agamede e aTrofonio36. Finito il tempio di Delfo, fecero instanza adApollo che li pagasse: il quale rispose volerli soddisfarefra sette giorni; in questo mezzo37 attendessero38 a far

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vi; da rispose dipendono una dichiarativa implicita e una esplicita,entrambe con l’omissione della preposizione.

39 Ma... questione: senza lasciare il tono leggero e ironico delsuo discorso, col quale ha del resto già risposto all’obiezione delFisico, il Metafisico porta il ragionamento a un punto successivo.

40 i vostri pari: gli altri «fisici». 41 antico: nota di leopardi: «(24) Plinio, lib. 6, cap. 30; lib. 7,

cap. 2. Arriano, Indic., cap. 9.» 42 sappiamo: un’annotazione dell’autografo indica la fonte della

notizia in Buffon. 43 Ottentotti: così spiega Della Giovanna: «Di questi abitatori

della parte più meridionale dell’Africa, si è creduto che non pernaturale disposizione, ma per acquisita debolezza non avessero vitalunga […]. Ma l’aut. che doveva aver letto, nella Raccolta delCook, a cui egli s’era associato, come si apprende dall’Epistolario(vol. I, lett. 10 [v. lettere all’editore Stella del 12 e del 30 maggio1817]), i viaggi del Le Vaillant nell’Africa, attribuisce ad altre ca-

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gozzoviglia a loro spese. La settima notte, mandò loroun dolce sonno, dal quale ancora s’hanno a svegliare; eavuta questa, non dimandarono altra paga. Ma poichésiamo in sulle favole, eccotene un’altra, intorno alla qua-le ti vo’ proporre una questione39. Io so che oggi i vostripari40 tengono per sentenza certa, che la vita umana, inqualunque paese abitato, e sotto qualunque cielo, duranaturalmente, eccetto piccole differenze, una medesimaquantità di tempo, considerando ciascun popolo ingrosso. Ma qualche buono antico42 racconta che gli uo-mini di alcune parti dell’India e dell’Etiopia non campa-no oltre a quarant’anni; chi muore in questa età, muorvecchissimo; e le fanciulle di sette anni sono di età damarito. Il quale ultimo capo sappiamo che, appresso apoco, si verifica nella Guinea, nel Decan e in altri luoghisottoposti alla zona torrida. Dunque, presupponendoper vero che si trovi una o più nazioni, gli uomini dellequali regolarmente non passino i quarant’anni di vita; eciò sia per natura, non, come si è creduto degli Otten-totti43, per altre cagioni; domando se in rispetto a que-

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Giacomo Leopardi - Operette morali

gioni la breve durata di vita degli Ottentotti»; infatti una nota del-l’autografo rinvia a Buffon, che riporta l’idea comune, aggiungen-do «V. però le Vaillant [...]».

44 ti pare... altri: ecco la questione preannunciata a r. 93 e seg. 45 Più miseri… presto: opinione conseguente a ciò che il Fisico

sostiene fin dall’inizio. 46 Ma qui... punto: il Metafisico ha posto la questione per arriva-

re ad un ulteriore approfondimento, o sottigliezza, come direbbe ilFisico.

47 Fa... avvertenza: «segui col pensiero». Su «avvertire nel sensodi por mente» si sofferma l’appunto di Zibaldone, p. 3992, che rin-via anche al Vocabolario della Crusca, dove troviamo questo esem-pio del Segneri: «Fatevi un poco d’avvertenza speciale».

48 Io negava che...: il Metafisico si riallaccia a quanto diceva all’i-nizio, r. 25 e seg., proponendo però una distinzione più accurata;con vita si intende sempre un sentire l’esistenza, ma in ciò che indi-ca la stessa parola occorre distinguere due gradi diversi: una speciedi «grado zero» («pura vita»), che è il «semplice sentimento dell’es-ser proprio»; e un grado più intenso, che è la vita cosciente nel pie-no sentire le sensazioni; a questo livello (che potremmo chiamare«vitalità») spetta più degnamente il nome di vita, o, come il Metafi-sico dirà alla fine, di vera vita.

49 Ma quello… dilettevole: la vita consiste nelle sensazioni, e cre-

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sto, ti pare che i detti popoli debbano essere più miserio più felici degli altri44?

FISICO. Più miseri senza fallo, venendo a morte piùpresto45.

METAFISICO. Io credo il contrario anche per cotestaragione. Ma qui non consiste il punto46. Fa un poco diavvertenza47. Io negava che48 la pura vita, cioè a dire ilsemplice sentimento dell’esser proprio, fosse cosa ama-bile e desiderabile per natura. Ma quello che forse piùdegnamente ha nome altresì di vita, voglio dire l’effica-cia e la copia delle sensazioni, è naturalmente amato edesiderato da tutti gli uomini: perché qualunque azioneo passione viva e forte, purché non ci sia rincrescevole odolorosa, col solo essere viva e forte, ci riesce grata,eziandio mancando di ogni altra qualità dilettevole49.

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sce con il crescere della loro efficacia e copia; l’essere vivente ama ericerca dunque le sensazioni, non l’esistenza in sé. Oltre alla «teoriadel piacere», cfr. Storia del genere umano, rr. 14-15: «traendo daciascun sentimento della loro vita incredibili diletti»; e Beccaria,Ricerche intorno alla natura dello stile, in Scritti filosofici e letterari,a cura di L. Firpo, G. Francioni e G. Gaspari, Milano, Medioban-ca, 1984 (Edizione Nazionale, vol. II), p. 90: «Al numero e alla va-rietà delle sensazioni è preferibile la grandezza e la vivacità di esse».

50 in quella specie... quarant’anni: richiama le popolazioni di cuiha parlato prima (r. 78 e seg.), ma il congiuntivo consumasse indicache al Metafisico interessa elaborare un’ipotesi («Posto che possaesistere una specie d’uomini che...»), secondo un’impostazione giàdata da Leopardi nel pensiero che è tra le fonti più importanti diquesta operetta (vedi Zibaldone, p. 3512, nota 1).

51 estrinseca: verso l’esterno. 52 vita: s’intende appunto quella che «più degnamente ha nome

di vita».

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Ora in quella specie d’uomini, la vita dei quali si consu-masse naturalmente in ispazio di quarant’anni50, cioènella metà del tempo destinato dalla natura agli altri uo-mini; essa vita in ciascheduna sua parte, sarebbe più vivail doppio di questa nostra: perché, dovendo coloro cre-scere, e giungere a perfezione, e similmente appassire emancare, alla metà del tempo; le operazioni vitali dellaloro natura, proporzionalmente a questa celerità, sareb-bero in ciascuno istante doppie di forza per rispetto aquello che accade negli altri; ed anche le azioni volonta-rie di questi tali, la mobilità e la vivacità estrinseca51,corrisponderebbero a questa maggiore efficacia. Di mo-do che essi avrebbero in minore spazio di tempo la stes-sa quantità di vita52 che abbiamo noi. La quale distri-buendosi in minor numero d’anni basterebbe ariempierli, o vi lascerebbe piccoli vani; laddove ella nonbasta a uno spazio doppio: e gli atti e le sensazioni di co-loro, essendo più forti, e raccolte in un giro più stretto,sarebbero quasi bastanti a occupare e a vivificare tutta la

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53 La quale... viva: con la metafora dello spazio pieno e vuoto ilMetafisico torna a chiarire la propria idea; il «semplice sentimentodell’essere proprio» è come uno spazio vuoto, che si riempie soloquando si hanno azioni e sensazioni, quando è vivificato. Le stesseriflessioni erano già svolte nello Zibaldone, pp. 4062-4063. Si notiinoltre il gioco dei sinonimi: «azione e affezione viva» sostituiscenell’autografo «sensazioni vive», e richiama a distanza «azione opassione viva e forte» (r. 122).

54 E poiché... desiderabile: la ripresa del discorso svolto nella pri-ma parte (rr. 27-28) è ora arricchita dalle riflessioni intermedie,benché il passaggio non sia del tutto esplicito; distinguendosi dalsemplice essere, l’essere felice coincide appunto col diletto provoca-to da «qualunque azione e passione viva e forte» (cfr. il passo delloZibaldone citato nella nota precedente).

55 o di quello.., nome: perché in realtà non si tratta di un piacerevero (ma è un altro discorso: vedi Dialogo di Malambruno e di Far-farello, rr. 73-75).

56 anteporre: preferire. 57 Leeuwenhoek: il riferimento deriva (come dichiara una nota

marginale dell’autografo) da Buffon, che, a proposito della grandelongevità dei pesci, commenta: «Non dirò col Leeuwenhoek, che ipesci sieno immortali, o per lo meno che non possano morir di vec-chiezza» (t. III, p. 374). Anton van Leeuwenhoek fu un celebre na-turalista olandese (1632-1723), che per primo identificò al micro-scopio gli spermatozoi.

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loro età; dove che nella nostra, molto più lunga, restanospessissimi e grandi intervalli, vòti di ogni azione e affe-zione viva53. E poiché non il semplice essere, ma il soloessere felice, è desiderabile54; e la buona o cattiva sortedi chicchessia non si misura dal numero dei giorni; ioconchiudo che la vita di quelle nazioni, che quanto piùbreve, tanto sarebbe men povera di piacere, o di quelloche è chiamato con questo nome55, si vorrebbe antepor-re56 alla vita nostra, ed anche a quella dei primi re del-l’Assiria, dell’Egitto, della Cina, dell’India, e d’altri pae-si; che vissero, per tornare alle favole, migliaia d’anni.Perciò, non solo io non mi curo dell’immortalità, e sonocontento di lasciarla a’ pesci; ai quali la dona ilLeeuwenhoek57, purché non sieno mangiati dagli uomi-

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58 Maupertuis: nota di leopardi: «(25) Lettres philosophiques,let. 11.»

59 alcuni insetti… trisavoli: come indica una nota dell’autografo,la fonte di queste righe è un passo di Genovesi, che Leopardi avevada tempo trascritto e commentato sullo Zibaldone. La precisazione«chiamati efimeri» è aggiunta invece da Leopardi nell’edizione fio-rentina del 1834, perché l’aveva desunta da un articolo dell’Ency-clopédie methodique solo nell’aprile del 1827, proprio mentre laprima edizione delle Operette morali era in stampa, mentre attornoagli «efimeri» nasceranno nuove riflessioni, riprese e messe a fruttonello stendere il Dialogo di Tristano e di un amico, scritto nel 1832 eper la prima volta edito appunto nel 1834 (vedi Zibaldone, pp.4270 e 4272, e nel Dialogo di Tristano e di un amico, nota 72).

60 noia: che corrisponde dunque al vuoto «di ogni azione e affe-zione viva» ( vedi infatti r. 208); il tema, qui appena toccato, è svol-to poi nel Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio familiare, vedir. 166 e seg.

61 voglio dire... contento: cfr. rr. 51-55. 62 senza… microscopio: lo sguardo del Metafisico andrebbe così

tanto pel sottile che è necessario il microscopio. 63 giudico... morte: si noti che il Fisico non risponde propria-

mente al ragionamento del Metafisico, che non affermava affatto lasuperiorità della morte sulla vita; da qui la successiva risposta.

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ni o dalle balene; ma, in cambio di ritardare o interrom-pere la vegetazione del nostro corpo per allungare la vi-ta, come propone il Maupertuis58, io vorrei che la potes-simo accelerare in modo, che la vita nostra si riducessealla misura di quella di alcuni insetti, chiamati efimeri,dei quali si dice che i più vecchi non passano l’età di ungiorno, e contuttociò muoiono bisavoli e trisavoli59. Nelqual caso, io stimo che non ci rimarrebbe luogo allanoia60. Che pensi di questo ragionamento?

FISICO. Penso che non mi persuade; e che se tu amila metafisica, io m’attengo alla fisica: voglio dire che setu guardi pel sottile, io guardo alla grossa, e me ne con-tento61. Però senza metter mano al microscopio62, giudi-co che la vita sia più bella della morte63, e do il pomo aquella, guardandole tutte due vestite64.

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64 do il pomo... vestite: «La frase è tutta allusiva al giudizio di Pa-ride, che dovendo aggiudicare il pomo gittato fra Giunone, Miner-va e Venere, alla più bella delle tre dee, volle vederle nude. Il Fisicoinvece si contenta di veder la Vita e la Morte vestite, ossia vuol giu-dicarle senza sofisticare troppo» (Porena).

65 Così... anch’ io: naturalmente, posta l’alternativa vita/morte;ma subito il Metafisico cerca di riportare il discorso al proprio ra-gionamento, cui il Fisico è sfuggito.

66 turcasso: come faretra di r. 177, è il contenitore cilindrico del-le frecce.

67 bianca: nota di Leopardi: «(26) Suida, voc. Leuc¬ Ωmera.» 68 alla morte: «è frase, tra gli altri, del Guicc[iardini] 3.348», an-

nota Leopardi sul manoscritto, preferendola alla variante alternati-va dopo la morte.

69 quanto: avverbio. 70 sceverandole: distinguendole. 71 bianco torbido: per il motivo già detto alla nota 55. 72 paragone: normale, fino a tempi recenti, invece di «pietra di

paragone». 73 e anche la morte... modo: per dire che tutti questi tentativi non

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METAFISICO. Così giudico anch’io65. Ma quando mitorna a mente il costume di quei barbari, che per cia-scun giorno infelice della loro vita, gittavano in un tur-casso66 una pietruzza nera, e per ogni dì felice, una bian-ca67, penso quanto poco numero delle bianche èverisimile che fosse trovato in quelle faretre alla morte68

di ciascheduno, e quanto69 gran moltitudine delle nere.E desidero vedermi davanti tutte le pietruzze dei giorniche mi rimangono; e, sceverandole70, aver facoltà di git-tar via tutte le nere, e detrarle dalla mia vita; riserbando-mi solo le bianche: quantunque io sappia bene che nonfarebbero gran cumulo, e sarebbero di un bianco torbi-do71.

FISICO. Molti, per lo contrario, quando anche tutti isassolini fossero neri, e più neri del paragone72; vorreb-

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avranno un vero risultato (cfr. la nota 21 di Leopardi, riportata allanota 3).

74 numero e di gagliardia: cfr. rr. 118-119, l’efficacia e la copia del-le sensazioni. Per tutto il passo cfr. la lettera allo Jacopssen del 23giugno 1823: «Sans doute, mon cher ami, ou il ne faudrait pas vi-vre, ou il faudrait toujours sentir, toujours aimer, toujours espérer.La sensibilité ce serait le plus précieux de tous les dons, si l’onpouvait le faire valoir, ou s’il y avait dans ce monde à quoi l’appli-quer».

75 smisurati... tempo: riprende la metafora usata in precedenza,ma la perorazione conclusiva del Metafisico lascia che al linguaggiodell’analisi morale more geometrico usato in precedenza (r. 127 eseg.: «essa vita… sarebbe più viva il doppio... nella metà del tem-po... proporzionatamente» «spessissimi e grandi intervalli», ecc.) simescolino parole più evocative: smisurati intervalli.

76 Nel qual modo... prolungarla: è una questione di intensità, nondi lunghezza. Durare equivale al semplice sentimento dell’esser pro-prio (r. 116), e rappresenta molto meglio, con meno concretezzadella variante alternativa campare una vuota continuità di tempo.Cfr. per contro Al conte Carlo Pepoli, vv. 12-18: «La schiera indu-stre/ [...] / Se oziosa dirai, da che la vita / È per campar la vita, e

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bero potervene aggiungere, benché dello stesso colore:perché tengono per fermo che niun sassolino sia così ne-ro come l’ultimo. E questi tali, del cui numero sono an-ch’io, potranno aggiungere in effetto molti sassolini allaloro vita, usando l’arte che si mostra in questo mio libro.

METAFISICO. Ciascuno pensi ed operi a suo talento: eanche la morte non mancherà di fare a suo modo73. Mase tu vuoi, prolungando la vita, giovare agli uomini vera-mente; trova un’arte per la quale sieno moltiplicate dinumero e di gagliardia74 le sensazioni e le azioni loro.Nel qual modo, accrescerai propriamente la vita umana,ed empiendo quegli smisurati intervalli di tempo neiquali il nostro essere è piuttosto durare che vivere, ti po-trai dar vanto di prolungarla76. E ciò senza andare incerca dell’impossibile, o usar violenza alla natura77, anzisecondandola78. Non pare a te che gli antichi vivesseropiù di noi, dato ancora che, per li pericoli gravi e conti-

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per se sola / La vita all’uom non ha pregio nessuno / Dritto e verodirai»; passo come si vede conseguente anche alle riflessioni quisvolte.

77 senza... natura: come vorrebbe fare invece il Fisico con le sue«invenzioni».

78 anzi secondandola: perché corrisponde all’ordine da lei stabi-lito, secondo il disegno con cui Leopardi concludeva il seguito del-le riflessioni che portano a questa operetta. Del «vitalismo» di Leo-pardi è documento particolare (quasi unico nelle sue espressioni,in seguito infatti messe in discussione) il pensiero di Zibaldone, p.3813 (31 ottobre 1823), dove si legge: «L’amor della vita, il piaceredelle sensazioni vive, dell’aspetto della vita ec. […], è ben consen-taneo negli animali. La natura è vita. Ella è esistenza. Ella stessaama la vita, e proccura in tutti i modi la vita, e tende in ogni suaoperazione alla vita».

79 Non pare... presto: cfr. Zibaldone, p. 625 e seg., e pp. 1330-1332 (che a quello si richiama): «Ho detto altrove che nell’anticosistema delle nazioni la vitalità era molto maggiore e la mortalitàminore che nel moderno. Non intendo con ciò fondarmi sopra lamaggior durata possibile della vita umana in quei tempi che adesso[…]. Ma io suppongo, e bisogna generalmente supporre, che l’an-tichità nota a noi non potesse viver più di quello che si possa vivereoggidì. La maggior vitalità del tempo antico, non è quanto alla po-tenza, ma quanto all’effetto, vale a dire la realizzazione della poten-za. Vale a dire che, non potendo gli antichi vivere più lungamentedi quello che possano i moderni, vivevano però, generalmente par-lando, più di quello che i moderni vivano».

80 la cui vita… disagio: cfr. r. 92 e seg. e rr. 112-113. Vedi ancheAl conte Carlo Pepoli, vv. 33-34: «e pieno, / Poi che lieto non può,corresse il giorno».

81 Ma... vacua: cfr. r. 165. 82 dà luogo: «dare adito, modo, facoltà», come spiega il Vocabo-

lario della Crusca (voce Luogo).

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nui che solevano correre, morissero comunemente piùpresto79? E farai grandissimo beneficio agli uomini: lacui vita fu sempre, non dirò felice, ma tanto meno infeli-ce, quanto più fortemente agitata, e in maggior parte oc-cupata, senza dolore né disagio80. Ma piena d’ozio e ditedio, che è quanto dire vacua81, dà luogo82 a creder ve-

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83 Pirrone: il più celebre filosofo della scuola scettica. 84 dalla vita… divario: il Metafisico risponde così alle afferma-

zioni di «buon senso» del Fisico: la vita può essere uguale alla mor-te, se non è vita vera.

85 Il che... poco: si noti la forza paradossale dell’affermazione,che da sola capovolge tutta l’impostazione dell’altro interlocutore;il Fisico si basa sul rifiuto della morte in ogni modo, mentre il Me-tafisico rifiuta la noia, la mancanza di vita felice, ecc.; cfr. questopasso di una lettera ad Angelo Mai: «Io sarò debitore a V. S. dimolto più che della vita, perché la vita non è un bene per se mede-sima; bensì l’infelicità e la disperazione totale della vita, è un som-mo male quaggiù» (30 marzo 1821).

86 Ma infine… pregio: cfr. Zibaldone, p. 2415: «La vita è fatta na-turalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire è fatta perl’attività, e per tutto quello che v’ha di più vitale nelle funzioni de’viventi».

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ra quella sentenza di Pirrone83, che dalla vita alla mortenon è divario84. Il che se io credessi, ti giuro che la mor-te mi spaventerebbe non poco85. Ma in fine, la vitadebb’essere viva, cioè vera vita; o la morte la supera in-comparabilmente di pregio86.

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1nota di leopardi: «(27) Ebbe Torquato Tasso, nel tempo del-

l’infermità della sua mente, un’opinione simile a quella famosa diSocrate; cioè credette vedere di tratto in tratto uno spirito buonoed amico, e avere con esso lui molti e lunghi ragionamenti. Cosìleggiamo nella vita del Tasso descritta dal Manso: il quale si trovòpresente a uno di questi o colloqui o soliloqui che noi li vogliamochiamare.» genio familiare: corrisponde al daàmon («demone»)con cui Socrate aveva continua e interiore (familiare, appunto)conversazione, secondo il racconto di Platone; vedi specialmenteApologia 31d: «c’è dentro me non so che spirito divino e demonia-co [...]. Ed è come una voce che io ho in me fino da fanciullo»(trad. Valgimigli edita da Laterza). E così ne parla Cicerone nel Dedivinatione che Leopardi aveva da poco finito di leggere prima del-la stesura di questa operetta: «Hoc nimirum est illud, quod de So-crate accepimus, quodque ab ipso in libris Socraticorum saepe di-citur: esse divinum quiddam, quod daim’nion appellat, cui semperipse paruerit numquam impellenti, saepe revocanti» (I, LIV 122).Il paragone tra lo «spirito» dei soliloqui del Tasso e il demone diSocrate e proposto dal Muratori, come si è visto; ma è già indicatodal Tasso ne Il Messaggero: «[demone] buono fu quello che conSocrate così era usato di ragionare, com’io teco da alcuni anni ra-giono» (I, 243).

2 Come stai, Torquato?: l’attacco colloquiale del Genio dà l’into-nazione all’atmosfera e allo stile dell’operetta.

3 dopo cenato... dolersene: vedi infatti la conclusione dell’operet-ta; cfr. Zibaldone, p. 3835: «L’esaltamento di forze proveniente da’liquori o da’ cibi o da altro accidente (non morboso), se non cagio-na, come suole sovente, un torpore e una specie di assopimento le-targico [...], essendo un accrescimento di vita, accresce l’effetto es-senziale di essa, ch’è il desiderio del piacere, perocchècoll’intensità della vita cresce quella dell’amor proprio, e l’amorproprio è desiderio della propria felicità, e la felicità è piacere»; e

DIALOGO DI TORQUATO TASSO E DEL SUOGENIO FAMILIARE1

GENIO. Come stai, Torquato2?TASSO. Ben sai come si può stare in una prigione, e

dentro ai guai fino al collo.GENIO. Via, ma dopo cenato non è tempo da doler-

sene3. Fa buon animo, e ridiamone insieme.5

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p. 3881: «Il vino, il cibo, ec. dà talvolta una straordinaria prontezzavivacità, rapidità, facilità, fecondità d’idee».

4 Oh... Leonora: la prima, la più pressante, delle immagini ches’affacciano alla mente di Tasso è quella della donna amata, che do-mina la prima parte del «colloquio» col Genio. Leonora è Eleono-ra d’Este, sorella di Alfonso II, duca di Ferrara, di cui una tradizio-ne nata almeno colla biografia del Manso ha voluto che Tasso fosseinnamorato e che questa fosse la causa principale delle sue disgra-zie; questo amore infelice è uno dei motivi principali della fortunadi Tasso nell’età romantica (vedi qui anche rr. 56-57).

5 Talora… morto: i «due tempi» del Tasso, prima e dopo «averfatto esperienza delle sciagure e degli uomini», corrispondono almutamento con cui Leopardi rappresentava la propria evoluzione:vedi i passi dello Zibaldone citati in Introduzione. Lo schema auto-biografico (qui realizzato attraverso Tasso) rimane vivo anche peropere progettate in seguito, ma non realizzate; vedi la lettera alColletta del marzo 1829: «Colloqui dell’io antico e dell’io nuovo;cioè di quello che io fui, con quello ch’io sono; dell’uomo anterioreall’esperienza della vita e dell’uomo sperimentato» (cfr. anche neiDisegni letterari, IX, in Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 701). Il ri-torno delle «immagini» e degli «affetti», come si chiarirà maggior-mente in seguito, indica il rinnovarsi della sensibilità «antica», fan-ciullesca, delle illusioni; cfr. la conclusione della Storia del genereumano, in particolare rr. 548-551. Ma vedi anche testimonianze po-steriori alle Operette morali: Il risorgimento, v. 37 e seg.: «Giacqui:insensato, attonito, / Non dimandai conforto: / Quasi perduto emorto, / Il cor s’abbandonò. / Qual fui! quanto dissimile / Da quel

TASSO. Ci son poco atto. Ma la tua presenza e le tueparole sempre mi consolano. Siedimi qui accanto.

GENIO. Che io segga? La non è già cosa facile a unospirito. Ma ecco: fa conto ch’io sto seduto.

TASSO. Oh potess’io rivedere la mia Leonora4. Ognivolta che ella mi torna alla mente, mi nasce un brivido digioia, che dalla cima del capo mi si stende fino all’ultimapunta de’ piedi; e non resta in me nervo né vena che nonsia scossa. Talora, pensando a lei, mi si ravvivano nell’a-nimo certe immagini e certi affetti, tali, che per quel po-co tempo, mi pare di essere ancora quello stesso Torqua-to che fui prima di aver fatto esperienza delle sciagure edegli uomini, e che ora io piango tante volte per morto5.

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che tanto ardore, Che sì beato errore / Nutrii nell’alma un dì!» evv. 89-92: «Siete pur voi quell’unica / Luce de’ giorni miei? / Gliaffetti ch’io perdei / Nella novella età?»; le lettere a Paolina con gliannunci del ritorno alla poesia, del 25 febbraio 28: «Vi assicuroche in materia d’immaginazioni, mi pare di essere tornato al miobuon tempo antico», e del 2 maggio 28: «dopo due anni, ho fattodei versi quest’aprile; ma versi veramente all’antica, e con quel miocuore d’una volta». Vedi anche Zibaldone, p. 1651: «Non v’è uomocosì certo della malizia delle donne ec. che non senta un’impressio-ne dilettevole, e una vana speranza all’aspetto di una beltà che gliusi qualche piacevolezza [...]. Egli è sempre più o meno soggetto aricadere in tutte le stravagantissime illusioni dell’amore, ch’egli haconosciuto e sperimentato impossibile, immaginario, vano. Nonv’è uomo così profondamente persuaso della nullità delle cose, del-la certa e inevitabile miseria umana, il cui cuore non si apra d’alle-grezza anche la più viva, (e tanto più viva quanto più vana) allesperanze le più dolci, ai sogni ancora i più frivoli, se la fortuna glisorride un momento».

6 esercizio de’ patimenti: richiama il racconto dell’Islandese (ve-di Dialogo della Natura e di un Islandese, rr. 39-40 e 51-52); già nel-la Storia del genere umano, r. 145, uso dei patimenti, ma qui (sosti-tuendo esercizio a uso, che è stata spostata nella locuzioneprecedente) è ancora più forte il contrasto tra l’idea attiva di eserci-zio e la passiva di patimenti: la sofferenza è costitutiva della vita.

7 profondare: far scendere nel profondo. 8 E se... felice: cfr. Alla sua donna, vv. 25-30: «Se vera e quale il

mio pensier ti pinge, / Alcun t’amasse in terra, a lui pur fora / Que-

In vero, io direi che l’uso del mondo, e l’esercizio de’ pa-timenti6, sogliono come profondare7 e sopire dentro aciascuno di noi quel primo uomo che egli era: il quale ditratto in tratto si desta per poco spazio, ma tanto più dirado quanto è il progresso degli anni; sempre più poi siritira verso il nostro intimo, e ricade in maggior sonno diprima; finché durando ancora la nostra vita, esso muore.In fine, io mi maraviglio come il pensiero di una donnaabbia tanta forza, da rinnovarmi, per così dire, l’anima,e farmi dimenticare tante calamità. E se non fosse che ionon ho più speranza di rivederla, crederei non avere an-cora perduta la facoltà di essere felice8.

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sto viver beato: / E ben chiaro vegg’io siccome ancora / Seguir lo-da e virtù qual ne’ prim’anni / L’amor tuo mi farebbe»; anche dalraffronto con questa canzone del 1823 risulta evidente che la Leo-nora del Tasso è la donna immaginata, la «donna che non si trova»di Leopardi (questa è la sua stessa definizione presentando la poe-sia), artefice «sentimentale» del rinnovamento, secondo quantoesposto nella canzone e nella parte conclusiva della Storia del gene-re umano. Si vedano infatti le espressioni usate da Tasso: «ella mitorna in mente», «il pensiero di una donna»; e poi «lontana… unadea».

9 Quale... pensarne?: l’intervento del Genio mira a rendere piùesplicito, più cosciente, quanto risulta dal discorso di Tasso.

10 lontana… dea: cfr. ancora (come sottolinea Galimberti) Allasua donna, vv. 1-2: «Cara beltà che amore / Lunge m’inspiri». VediZibaldone, pp. 3305-3306 e 3308 (nota): «E però l’uomo si rappre-senta la donna in genere, e in ispecie quella ch’egli ama, come cosadivina, come un ente di stirpe diversa dalla sua ec.». Cfr. tuttaviaanche il passo di Byron citato alla nota seguente.

11 Coteste... innanzi: la donna reale è ben diversa dalla «dea» im-maginata. La rappresentazione coi caratteri tipici del tono comicocarica l’ironia del Genio (vedi «ripiegano la loro divinità, si spicca-no [staccano] i raggi d’attorno e se li pongono in tasca, per non ab-bagliare...»; cfr. la rappresentazione della Fortuna nel Dialogo di unFolletto e di uno Gnomo, r. 29 e seg., e inoltre la vicinanza lessicale«spiccare»/«appiccare»); ma è in special modo una parodia de I la-menti di Tasso di Byron, vedi: «Idol mi sembravi al culto espostoSovr’ara cinta di cristal: da lungi Ti adoravo, e baciavo umilementeIl suol dall’aura tua santificato. Non era già la Principessa, ch’ioVeneravo così: ti avea l’amore Quasi di gloria circondata, e sparseAvea le forme tue di tal bellezza Che timor m’inspiravano... chedissi? Ah no! che m’inspiravano rispetto, Simile a quel, che un san-to Nume inspira. In quella tua severità soave Eravi un non so che

GENIO. Quale delle due cose stimi che sia più dolce:vedere la donna amata, o pensarne9?

TASSO. Non so. Certo che quando mi era presente,ella mi pareva una donna; lontana, mi pareva e mi pareuna dea10.

GENIO. Coteste dee sono così benigne, che quandoalcuno vi si accosta, in un tratto ripiegano la loro divi-nità, si spiccano i raggi d’attorno, e se li pongono in ta-sca, per non abbagliare il mortale che si fa innanzi11.

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di ancor più grato Della stessa pietà» (Byron, op. cit., p. 12). Byronderiva da una nota canzone di Tasso per Leonora d’Este: «Mentrech’a venerar movon le genti Il tuo bel nome in mille carte accolto,quasi in sacrato tempio idol celeste» (vv. 1-3), che dal confrontonon pare però direttamente presente a Leopardi.

12 alla prova: nei fatti. 13 Io... nettare: prosegue il parallelo donna/dea avviato dal Tasso

(ambrosia e nettare sono il cibo e la bevanda degli dei dell’Olim-po). Come nota Della Giovanna, Leopardi svolgerà poi l’ideanell’Aspasia, vv. 37-48.

14 Qual cosa... donne?: per il tema misogino, oltre alle finali, cru-de espressioni di Aspasia, vedi l’operetta Proposta di premi fattadall’Accademia dei Sillografi (una delle cui invenzioni è la «donnaideale»).

15 Con tutto questo... riparlarle: Tasso riporta il discorso al puntoda cui l’aveva avviato (r. 10: «Oh potess’io rivedere la mia Leono-ra»).

16 bella come la gioventù: altro tratto colloquiale del Genio, conun paragone di semplicità popolare.

TASSO. Tu dici il vero pur troppo. Ma non ti pareegli cotesto un gran peccato delle donne; che alla pro-va12, elle ci riescano così diverse da quelle che noi le im-maginavamo?

GENIO. Io non so vedere che colpa s’abbiano in que-sto, d’esser fatte di carne e sangue, piuttosto che di am-brosia e nettare13. Qual cosa del mondo ha pure un’om-bra o una millesima parte della perfezione che voipensate che abbia a essere nelle donne14? E anche mipare strano, che non facendovi maraviglia che gli uomi-ni sieno uomini, cioè creature poco lodevoli e poco ama-bili; non sappiate poi comprendere come accada, che ledonne in fatti non sieno angeli.

TASSO. Con tutto questo, io mi muoio dal desideriodi rivederla, e di riparlarle15.

GENIO. Via, questa notte in sogno io te la condurròdavanti; bella come la gioventù16; e cortese in modo, che

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17 favellarle: rivolgerle la parola. 18 guardandoti fiso: fiso è avverbio (come prima franco e spedito)

e l’espressione, di lunga tradizione letteraria, corrisponde a guarda-valo fissamente, del Dialogo della Natura e di un Islandese (rr. 17-18). Per tutta la scena cfr. Il sogno, vv. 79 e seg.: «concedi, o cara, /Che la tua destra io tocchi. Ed ella, in atto / Soave e tristo, la por-geva», «d’affannosa / Dolcezza palpitante all’anelante / Seno lastringo», «Quando colei teneramente affissi / Gli occhi negli occhimiei [...]»; vedi anche Consalvo, v. 60, «fiso il guardo» della «bellis-sima donna». Come ricorda Galimberti, «sono aspetti canonici diuna situazione ricorrente nella tradizione poetica italiana»; ma vanotato il ricorso in particolare alla tradizione stilnovista, nei modigià riscontrati nella Storia del genere umano (cfr. nota 201). Al no-stro proposito, cfr. Dante, Vita nuova, XI, 3 «E quando questa gen-tilissima salute salutava, non che Amore fosse tal mezzo che potes-se obumbrare a me la intollerabile beatitudine, ma elli quasi persoverchio di dolcezza divenia tale, che lo mio corpo [...] molte vol-te si movea come cosa grave inanimata»; XXVI, Tanto gentile, 9-10, «Mostrasi sì piacente a chi la mira, / che dà per li occhi unadolcezza al core / che ‘ntender no la può chi no la prova».

19 Gran... vero: è la battuta che introduce il secondo motivo deldialogo.

20 Pilato... io: cfr. Vangelo secondo Giovanni, 18: «Dixit itaque eiPilatus: ‘Ergo rex es tu?’. Respondit Iesus: ‘Tu dicis quia rex sumego. Ego in hoc natus sum et ad hoc veni in mundum, ut testimo-nium perhibeam veritati; omnis qui est ex veritate audit meam vo-cem’. Dicit ei Pilatus: ‘Quid est veritas?’».

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tu prenderai cuore di favellarle17 molto più franco e spe-dito che non ti venne fatto mai per l’addietro: anzi all’ul-timo le stringerai la mano; ed ella guardandoti fiso18, timetterà nell’animo una dolcezza tale, che tu ne sarai so-praffatto; e per tutto domani, qualunque volta ti sov-verrà di questo sogno, ti sentirai balzare il cuore dalla te-nerezza.

TASSO. Gran conforto: un sogno in cambio del ve-ro19.

GENIO. Che cosa è il vero?TASSO. Pilato non lo seppe meno di quello che lo so

io20.

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21 Sappi... mai: l’origine di queste considerazioni va rintracciatanelle riflessioni sulla «teoria del piacere»: «L’immaginazione comeho detto è il primo fonte della felicità umana [...]. La cognizionedel vero cioè dei limiti e definizioni delle cose circoscrive l’immagi-nazione [...]. E notate in secondo luogo che la natura ha voluto chel’immaginazione non fosse considerata dall’uomo come tale, cioènon ha voluto che l’uomo la considerasse come facoltà ingannatri-ce, ma la confondesse con la facoltà conoscitrice, e perciò avesse isogni dell’immaginazione per cose reali e quindi fosse animato dal-l’immaginario come dal vero (anzi più, perchè l’immaginario haforze più naturali, e la natura è sempre superiore alla ragione)» (Zi-baldone, p. 168); vedi anche Zibaldone, p. 57: «Una terza sorgentedegli stessi diletti e delle stesse romanzesche idee sono i sogni»; equindi Storia del genere umano, rr. 116-124.

22 uno: è Leopardi stesso; cfr. la lettera allo Jacopssen del 23 giu-gno 1823 in cui Leopardi, dopo essersi chiesto: «Celle-ci [la socié-te] ne devrait-elle pas s’appliquer à réaliser les illusions autant qu’ilserait possible, puisque le bonheur de l’homme ne peut consisterdans ce qui est réel?» (cfr. qui la domanda di Tasso delle rr. 73-74),così prosegue: «Dans l’amour, toutes les jouissances qu’éprouventles âmes vulgaires, ne valent pas le plaisir que donne un seul in-stant de ravissement et d’émotion profonde. Mais comment faireque ce sentiment soit durable, ou qu’il se renouvelle souvent dansla vie? où trouver un coeur qui lui réponde? Plusieurs fois j ‘aiévité pendant quelques jour de rencontrer l’objet qui m’avaitcharmé dans un songe délicieux. Je savais que ce charme aurait étédétruit en s’approchant de la réalité. Cependant je pensais toujoursà cet objet, mais je ne le considérais d’après ce qu’il était; je le con-templais dans mon imagination, tel qu’il m’avait paru dans monsonge».

23 gentile: cioè nobile, elevato, e insieme dolce (nella lettera alloJacopssen il songe délicieux si distingue dai piaceri delle anime vul-

GENIO. Bene, io risponderò per te. Sappi che dal ve-ro al sognato, non corre altra differenza, se non che que-sto può qualche volta essere molto più bello e più dolce,che quello non può mai21.

TASSO. Dunque tanto vale un diletto sognato, quan-to un diletto vero?

GENIO. Io credo. Anzi ho notizia di uno22 che quan-do la donna che egli ama, se gli rappresenta dinanzi inalcun sogno gentile23, esso per tutto il giorno seguente,

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gaires; cfr. anche Il pensiero dominante, v. 123: «gentili inganni»).Anche Socrate in Detti memorabili di Filippo Ottonieri è detto «na-to con animo assai gentile» (p. 258).

24 Però: Perciò. 25 Però… sogni: per il motivo detto più chiaramente alle rr. 94-

95; i riferimenti provengono tutti dai materiali del giovanile Saggiosopra gli errori popolari degli antichi (capitolo V, Dei sogni). Si notiche il Genio, rivolgendosi a Tasso, lo comprende all’interno dei«moderni» in cui rientrano Leopardi e i suoi lettori: «gli antichi,molto più... di voi [moderni]».

26 intorbidarli: nota di leopardi: «(28)Apollonio, Hist. com-mentit. cap. 46. Cicerone, de Divinat. lib. 1, cap. 30; lib. 2, cap. 58.Plinio, lib. 18, cap. 12. Plutarco, Convival. Quaestion. lib. 8, quae-st. 10, opp. tom. 2, p. 734. Dioscoride, de Materia Medica lib. 2,cap. 127.» Cfr. Saggio sopra gli errori popolari degli antichi, in Lepoesie e le prose, II, p. 265.

27 orare: pregare. 28 libazioni: offerte rituali di liquidi. 29 lettiere: nota di leopardi: «(29) Meursio, Exercitat. critic.

par. 2, lib. 2, cap. 19, opp. vol. 5, col. 662.» Cfr. Saggio..., in Le poe-sie e le prose, II, p. 259.

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fugge di ritrovarsi con quella e di rivederla; sapendo cheella non potrebbe reggere al paragone dell’immagineche il sonno gliene ha lasciata impressa, e che il vero,cancellandogli dalla mente il falso, priverebbe lui del di-letto straordinario che ne ritrae. Però24 non sono dacondannare gli antichi, molto più solleciti, accorti e in-dustriosi di voi, circa a ogni sorta di godimento possibilealla natura umana, se ebbero per costume di procurarein vari modi la dolcezza e la giocondità dei sogni25; néPitagora è da riprendere per avere interdetto il mangiaredelle fave, creduto contrario alla tranquillità dei medesi-mi sogni, ed atto a intorbidarli26, e sono da scusare i su-perstiziosi che avanti di coricarsi solevano orare27 e farlibazioni28 a Mercurio conduttore dei sogni, acciò nemenasse loro di quei lieti; l’immagine del quale tenevanoa quest’effetto intagliata in su’ piedi delle lettiere29. Co-

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30 vigilia: il periodo in cui si è svegli (cfr. per esempio «dalla vi-gilia al sonno, dal sonno alla vigilia», Dissertazione sopra i sogni, inDissertazioni filosofiche, p. 24).

31 al: per il. 32 Per tanto... ridurre: il Tasso comincia ad assecondare i ragio-

namenti del Genio, benché arretri ancora davanti a una conclusio-ne che appare paradossale.

33 poiché: «nel momento in cui» (si consideri la congiunzionecome divisa, poi infatti ripresa dal secondo che). Ciò che al Tassosuona paradossale è invece il fondamento della possibilità di vive-re; non solo vi è ridotto passivamente, ma attivamente determinato,in quanto consente, è d’accordo a vivere.

34 Che cosa è il piacere?: anticipata la conclusione, il Genio in-calza socraticamente Tasso a ragionare da sé.

35 poterlo: lo è «il piacere». 36 Nessuno... reale: cfr. Zibaldone, p. 2629: «Da quello che altro-

ve ho detto e provato, che il piacere non è mai presente, ma sem-pre solamente futuro, segue che propriamente parlando, il piacereè un ente (o una qualità) di ragione, e immaginario», creato cioèdalla nostra mente, non esistente in rerum natura.

sì, non trovando mai la felicità nel tempo della vigilia30,si studiavano di essere felici dormendo: e credo che inparte, e in qualche modo, l’ottenessero; e che da Mercu-rio fossero esauditi meglio che dagli altri Dei.

TASSO. Per tanto, poiché gli uomini nascono e vivo-no al31 solo piacere, o del corpo o dell’animo; se da altraparte il piacere è solamente o massimamente nei sogni,converrà ci determiniamo a vivere per sognare: alla qualcosa, in verità, io non mi posso ridurre32.

GENIO. Già vi sei ridotto e determinato, poiché33 tuvivi e che tu consenti di vivere. Che cosa è il piacere34?

TASSO. Non ne ho tanta pratica da poterlo35 cono-scere che cosa sia.

GENIO. Nessuno lo conosce per pratica, ma solo perispeculazione: perché il piacere è un subbietto speculati-vo, e non reale36; un desiderio, non un fatto; un senti-

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37 e non un sentimento: perché anche il sentimento è una formadi esperienza, cioè un avvenimento in qualche misura reale.

38 Non vi accorgete voi...: per tutto il passo che segue cfr. Zibal-done, p. 532 e seg.: «Il piacere umano (così probabilmente quellodi ogni essere vivente, in quell’ordine di cose che noi conosciamo)si può dire ch’è sempre futuro, non è se non futuro, consiste sola-mente nel futuro. L’atto proprio del piacere non si dà. Io spero unpiacere; e questa speranza in moltissimi casi si chiama piacere. Ioho provato un piacere, ho avuto una buona ventura: questo non èpiacevole se non perchè ci dà una buona idea del futuro; ci fa spe-rare qualche godimento più o meno grande; ci apre un nuovo cam-po di speranze; ci persuade di poter godere; ci fa conoscere la pos-sibilità di arrivare a certi desideri; ci mette in migliori circostanzepel futuro, sia riguardo al fatto e alla realtà, sia riguardo all’opinio-ne e persuasione nostra, ai successi, alle prosperità che ci promet-tiamo dietro quella prova, quel saggio fattone, ec. Io provo un pia-cere: come? ciascun individuale istante dell’atto del piacere, èrelativo agl’istanti successivi; e non è piacevole se non relativamen-te agl’istanti che seguono, vale a dire al futuro. In questo istante ilpiacere ch’io provo, non mi soddisfa, e siccome non appaga il miodesiderio, così non è ancora piacere, ma ecco che senza fallo io loproverò immediatamente; ecco che il piacere crescerà, ed io saròintieramente soddisfatto. Andiamo più avanti: ancora non provovero piacere, ma ora (chi ne dubita?) sono per provarlo. Questo èil discorso, il cammino, l’occupazione, l’operazione, e la sensazionedell’animo nell’atto di qualunque siasi piacere. Giunto l’ultimoistante, e terminato l’atto del piacere, l’uomo non ha provato anco-ra il piacere: resta dunque o scontento, o soddisfatto comunque,per una opinione debole, falsa, e poco, anzi niente persuasiva, diaverlo provato; e va ruminando, e compiacendosi di quello che hasentito, e provando così un altro piacere, il di cui oggetto è bensìpassato, ma non il piacere (perché come può essere passato quelloche non è mai stato, e che è sempre futuro?) e l’atto di questo nuo-vo piacere è composto di una successione d’istanti della stessa na-tura che l’altro atto; e quindi parimente futuro: o finalmente restacon una certa letizia e si rallegra, perchè quantunque non possa ilsuo piacere riferirsi più agl’istanti successivi di quell’atto, ch’è giàfinito, si riferisce ad altri atti; l’idea del così detto piacere provato,gli dà un’idea di quelli ch’egli crede di poter provare; concepìsceuna migliore idea del futuro, una speranza, un disegno, una risolu-

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mento che l’uomo concepisce col pensiero, e non prova;o per dir meglio, un concetto, e non un sentimento37.Non vi accorgete voi38 che nel tempo stesso di qualun-

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zione o di proccurarsi altri piaceri, o qualunque ella sia. Così provaun piacere, ma sempre ed ugualmente futuro [...]. Così il piacerenon è mai nè passato nè presente, ma sempre e solamente futuro. Ela ragione è, che non può esserci piacer vero per un essere vivente,se non è infinito; (e infinito in ciascun istante, cioè attualmente) einfinito non può mai essere, benché ciascuno creda che può essere,e sarà, o che anche non essendo infinito, sarà piacere: e questa cre-denza […] è quello che si chiama piacere; è tutto il piacere possibi-le. Quindi il piacer possibile non è altro che futuro, o relativo al fu-turo, e non consiste che nel futuro».

39 innanzi ai: prima del. 40 fingere: «rappresentare» come se fosse vero. 41 con raccontarlo… stessi: cfr. anche Zibaldone, p. 2685: «A noi

pare bene spesso di provar del piacere dicendo, o fra noi stessi ocon altri, che noi ne abbiamo provato. Tanto è vero che il piacerenon può mai esser presente, e quantunque da ciò segua ch’essonon può neanche mai esser passato, tuttavia si può quasi direch’esso può piuttosto esser passato che presente».

42 Però...: è ancora il Genio a chiudere la dimostrazione, tornan-do alle conclusioni già anticipate.

43 sognare: qui, come nota Fubini, per mantenere il discorso

que vostro diletto, ancorché desiderato infinitamente, eprocacciato con fatiche e molestie indicibili; non poten-dovi contentare il goder che fate in ciascuno di quei mo-menti, state sempre aspettando un goder maggiore e piùvero, nel quale consista insomma quel tal piacere; e an-date quasi riportandovi di continuo agl’istanti futuri diquel medesimo diletto? Il quale finisce sempre innanzial39 giungere dell’istante che vi soddisfaccia; e non vi la-scia altro bene che la speranza cieca di goder meglio epiù veramente in altra occasione, e il conforto difingere40 e narrare a voi medesimi di aver goduto, conraccontarlo anche agli altri, non per sola ambizione, maper aiutarvi al persuaderlo che vorreste pur fare a voistessi41. Però42 chiunque consente di vivere, nol fa in so-stanza ad altro effetto né con altra utilità che di sogna-re43; cioè credere di avere a godere, o di aver goduto; co-se ambedue false e fantastiche.

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coerente lungo il tema del sognare, il senso della parola s’allarga alsignificato più generale di «immaginare».

44 presentemente: in quel momento. 45 Ma narrami tu... presente: cfr. Zibaldone, pp. 3745-3746: «Il

piacere è sempre passato o futuro, e non mai presente, nel modostesso che la felicità è sempre altrui e non mai di nessuno, o semprecondizionata e non mai assoluta: e così è impossibile che altri dicacon pieno sentimento di vero dire, e con piena sincerità e persua-sione, io provo un piacere, ancorchè menomo, quantunque tutti di-cono io n’ho provato e proverò» (vedi anche 2883-2884 e 3526, e ilpasso citato alla nota 41). Cfr. anche il Dialogo di un venditore d’al-manacchi e di un passeggere, rr. 23-25: «passeggere: Non vi ricor-date di nessun anno in particolare, che vi paresse felice? vendito-

re: No in verità, illustrissimo». 46 E tuttavia...: è finalmente Tasso a procedere sulla strada indi-

cata dal Genio. 47 essenziale: nel senso proprio di «necessario all’esistenza». 48 che debbe... procedere: la coincidenza di piacere e felicità è uno

dei dati fondamentali della riflessione leopardiana (basti rinviare a

TASSO. Non possono gli uomini credere mai di gode-re presentemente44?

GENIO. Sempre che credessero cotesto, godrebberoin fatti. Ma narrami tu se in alcun istante della tua vita, tiricordi aver detto con piena sincerità ed opinione: io go-do. Ben tutto giorno dicesti e dici sinceramente: io go-drò; e parecchie volte, ma con sincerità minore: ho go-duto. Di modo che il piacere è sempre o passato ofuturo, e non mai presente45.

TASSO. Che è quanto dire è sempre nulla.GENIO. Così pare.TASSO. Anche nei sogni.GENIO. Propriamente parlando.TASSO. E tuttavia46 l’obbietto e l’intento della vita

nostra, non pure essenziale47 ma unico, è il piacere stes-so; intendendo per piacere la felicità, che debbe in effet-to esser piacere; da qualunque cosa ella abbia a procede-re48.

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Zibaldone, p. 165; la felicità, qualunque ne sia l’origine, deve esseresensibilmente percepibile come piacere. Significativo a questo pro-posito il confronto con le affermazioni scolastiche di Leopardi gio-vane: «Epicuro Filosofo, il di cui solo nome è bastante per iscredi-tare qualsivoglia ipotesi, afferma che la felicità non consiste che nelpiacere [...]. Per quanto speciosa però apparir possa questa ipotesi,essa non è in conto alcuno ammissibile [...]» (Dissertazione sopra laFelicità, in Dissertazioni filosofiche, pp. 166-167).

49 mancando… imperfetta: vedi Zibaldone, p. 1355: «Giacchè laperfezione o imperfezione e corruzione, si deve misurare dal finedi ciascheduna cosa, e non già assolutamente».

50 stato violento: cfr. lettera al Giordani del 21 novembre 1817:«e pensando al futuro non vedea come potessi vivere altrimentiche in uno stato simile a quello dell’anima divisa dal corpo il qualedicono i filosofi che sia violento». Il riferimento si può forse spie-gare sulla base di un concetto tradizionale della filosofia scolastica,cfr. Aristotele, De anima, 413 : «È chiaro dunque che l’anima non èseparabile dal corpo, o almeno – se per natura essa è divisibile –non sono separabili certe sue parti» (trad. di Alda Barbieri, Bari,Laterza, 1957, p. 37). Ma l’espressione proviene forse dal francesee in particolare, per Leopardi, da Rousseau, cfr. La Nouvelle Héloï-se, VI, 6: «On supporte un état violent, quand il passe. Six mois,un an ne sont rien; on envisage un terme et l’on prend courage.Mais quand cet état doit durer toujours, qui est-ce qui le suppor-te?». Stato violento è un ossimoro che Leopardi adotta per signifi-care una condizione di fortissima, impossibile agitazione per lamancanza di un appagamento però necessario. Vedi infatti Zibal-done, pp. 1988-1990 (pensiero che vedremo utilizzato anche in se-guito): «L’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazio-ne. Il tempo che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, nondistrugge mai nè indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo pro-va nel non far nulla. L’assuefazione in tanto può influire sull’inazio-ne, in quanto può trasportare l’azione dall’esterno all’interno, el’uomo forzato a non muoversi, o in qualunque modo a non opera-re al di fuori, acquista appoco appoco l’abito di operare al di den-tro, di farsi compagnia da se stesso, di pensare, d’immaginare, ditrattenersi insomma vivamente col proprio solo pensiero (comefanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i carcerati ec.). Ma la pu-ra noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza possibile (se non

GENIO. Certissimo.TASSO. Laonde la nostra vita, mancando sempre del

suo fine, è continuamente imperfetta49: e quindi il vivereè di sua propria natura uno stato violento50.

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quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà umane, co-me il sonno, l’oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze ec.)non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di purainazione è tanto grave all’uomo dopo dieci anni di assuefazione,quanto la prima volta. La nullità, il non fare, il non vivere, la morte,è l’unica cosa di cui l’uomo sia incapace, e alla quale non possa av-vezzarsi. Tanto è vero che l’uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, ènato per fare, e per fare tanto vivamente, quanto egli è capace, valea dire che l’uomo è nato per l’azione esterna ch’è assai più viva del-l’interna [...]. Quanto all’azione interna dell’immaginazione, essasprona e domanda impazientemente l’esterna, e riduce l’uomo astato violento, se questa gli è impedita. E quella infatti agognano igiovani, i primitivi, gli antichi, e non si può loro impedire senzametter la loro natura in istato violento» (26 ottobre 1821). E quin-di pp. 4074-4075: «Dunque la vita è un male e un dispiacere perse, poichè la privazione di essa in quanto si può è naturalmentepiacere. In fatti la vita è naturalmente uno stato violento, poichènaturalmente priva del suo sommo e naturale bisogno, desiderio,fine e perfezione, che è la felicità. E non cessando questa violenza,non v’è un solo momento di vita sentita che sia senza positiva infe-licità e positiva pena e dispiacere» (20 aprile 1824).

51 Io... forse: Tasso è giunto rapidamente a domande radicali. 52 consentiamo: tutta l’espressione riprende quella del Genio, rr.

79-80. 53 Domandane... savi: «Chiedilo a qualcun’altro tra i più sapien-

ti»; domandare regge, come il latino quaerere, il complemento og-getto.

54 forse... dubbio: detto ironicamente, perché, come risulta an-che dalla battuta seguente di Tasso, nessuno può essere «più sa-piente» di chi ha patito la sventura.

125Letteratura italiana Einaudi

GENIO. Forse.TASSO. Io non ci veggo forse51. Ma dunque perché

viviamo noi? voglio dire, perché consentiamo52 di vive-re?

GENIO. Che so io di cotesto? Meglio lo saprete voi,che siete uomini.

TASSO. Io per me ti giuro che non lo so.GENIO. Domandane altri de’ più savi53, e forse tro-

verai qualcuno che ti risolva cotesto dubbio54.

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55 Così… violento: qualunque possa essere la risposta altrui,Tasso torna all’affermazione di prima, perché è in ogni modo vali-da per lui. Analogo procedimento (lo nota anche Galimberti) nelDialogo di Tristano e di un amico (rr. 300-301) e nel Canto notturnodi un pastore errante dell’Asia, vv. 103-104 («Qualche bene o con-tento / Avrà fors’altri; a me la vita è male»).

56 uccide: cfr. il passo di Zibaldone, p. 175 citato nella nota se-guente. Per «tedio della vita» si uccide l’inglese de La scommessa diPrometeo.

57 A me pare che la noia...: è per bocca del Tasso che Leopardisvolge la prima analisi della noia nelle Operette morali. Cfr. Zibal-done, pp. 174-175 («teoria del piacere»): «In somma la noia non èaltro che una mancanza del piacere che è l’elemento della nostraesistenza, e di cosa che ci distragga dal desiderarlo. Se non fosse latendenza imperiosa dell’uomo al piacere sotto qualunque forma, lanoia, quest’affezione tanto comune, tanto frequente, e tanto ab-borrita, non esisterebbe. E infatti per che motivo l’uomo dovrebbesentirsi male, quando non ha male nessuno? [...] E pur vediamoche soffre, e si dispera, e preferirebbe qualunque travaglio a quellostato (Anzi è famosa la risposta affermativa data dai medici consul-tati dal duca di Brancas, se la noia potesse uccidere [...]). Non peraltro se non per un desiderio ingenito e compagno inseparabiledell’esistenza, che in quel tempo non è soddisfatto, non ingannato,non mitigato, non addormentato». E quindi Zibaldone, p. 3622 (7ottobre 1823): «Sempre che l’uomo non prova piacere alcuno, eiprova noia, se non quando o prova dolore, o vogliam dir dispiacerequalunque, o e’ non s’accorge di vivere. Or dunque non accaden-do mai propriamente che l’uomo provi piacer vero, segue che maiper niuno intervallo di tempo ei non senta di vivere, che ciò non siacon dispiacere o con noia [...]»; dal quale Leopardi rimanda al pas-so successivo di pp. 3713-3715, che è la preparazione diretta diquesto punto dell’operetta: «L’idea e natura della quale [noia,n.d.c.] esclude essenzialmente sì quella del piacere che quella deldispiacere, e suppone l’assenza dell’uno e dell’altro; anzi si può di-re la importa; giacchè questa doppia assenza è sempre cagione di

TASSO. Così farò. Ma certo questa vita che io meno,è tutta uno stato violento55: perché lasciando anche daparte i dolori, la noia sola mi uccide56.

GENIO. Che cosa è la noia?TASSO. Qui l’esperienza non mi manca, da soddisfa-

re alla tua domanda. A me pare che la noia57 sia della na-165

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noia, e posta quella v’è sempre questa. Chi dice assenza di piaceree dispiacere, dice noia, non che assolutamente queste due cose sie-no tutt’una, ma rispetto alla natura del vivente, in cui l’una senzal’altra (mentre ch’ei sente di vivere) non può assolutamente stare.La noia corre sempre e immediatamente a riempire tutti i vuoti chelasciano negli animi de’ viventi il piacere e il dispiacere; il vuoto,cioè lo stato d’indifferenza e senza passione, non si dà in esso ani-mo, come non si dava in natura secondo gli antichi. La noia è comel’aria quaggiù, la quale riempie tutti gl’intervalli degli altri oggetti,e corre subito a stare là donde questi si partono, se altri oggetti nongli rimpiazzano. O vogliamo dire che il vuoto stesso dell’animoumano, e l’indifferenza, e la mancanza d’ogni passione, è noia, laqual è pur passione. Or che vuol dire che il vivente, sempre chenon gode nè soffre, non può fare che non s’annoi? Vuol dire ch’e’non può mai fare ch’e’ non desideri la felicità, cioè il piacere e ilgodimento. Questo desiderio, quando e’ non è nè soddisfatto, nèdirittamente contrariato dall’opposto del godimento, è noia. Lanoia è il desiderio della felicità, lasciato per così dir, puro. Questodesiderio è passione. Quindi l’animo del vivente non può mai vera-mente essere senza passione. Questa passione, quando ella si trovasola, quando altra attualmente non occupa l’animo, è quello chenoi chiamiamo noia […]» (17 ottobre 1823).

58 i Peripatetici: la scuola di Aristotele; cfr. «secondo gli antichi»in Zibaldone, p. 3714 citato nella nota precedente.

59 intermette: smette, sospende (cfr. latino intermittere). 60 in se proprio: in se stesso.

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tura dell’aria: la quale riempie tutti gli spazi interpostialle altre cose materiali, e tutti i vani contenuti in ciascu-na di loro; e donde un corpo si parte, e altro non gli sot-tentra, quivi ella succede immediatamente. Così tuttigl’intervalli della vita umana frapposti ai piaceri e ai di-spiaceri, sono occupati dalla noia. E però, come nelmondo materiale, secondo i Peripatetici58, non si dà vó-to alcuno; così nella vita nostra non si dà vóto; se nonquando la mente per qualsivoglia causa intermette59 l’u-so del pensiero. Per tutto il resto del tempo, l’animo,considerato anche in se proprio60 e come disgiunto dal

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61 disgiunto dal corpo: cfr. nota 50. 62 come quello… noia: per la metafora vacuo/pieno (e così prima

vani e intervalli) vedi anche Dialogo di un Fisico e di un Metafisico,rr. 137-145 e 208-209 («Ma piena d’ozio e di tedio, che è quantodire vacua»). Per la costruzione sintattica come quello a cui, cfr.Storia del genere umano, r. 366.

63 la quale anco è passione: cfr. Zibaldone, pp. 3714-3715 citatoalla nota 57, pensiero ripreso in Zibaldone, pp. 3879-3880.

64 tutti… trasparenti: la similitudine del Tasso tra noia e ariaprosegue nel Genio con un’invenzione di singolare efficacia poeti-ca, per la semplicità e novità insieme dell’immagine, aiutata da unasonorità su toni acuti (in i) e dalla disposizione trimembre degli ag-gettivi (con all’interno la variazione di gusto finissimo: i primi dueal superlativo, il terzo ugualmente lungo, ma in forma base e ina/e). Pare di sentire la lingua descrittiva, precisa ma evocativa, dicerta prosa scientifica del Seicento (in particolare Magalotti).

65 Veramente... felicità: cfr. ancora il passo dello Zibaldone, p.3715 citato alla nota 57.

66 innanzi: vedi r. 82 e seg.

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corpo61, si trova contenere qualche passione; come quel-lo a cui l’essere vacuo da ogni piacere e dispiacere, im-porta essere pieno di noia62; la quale anco è passione63,non altrimenti che il dolore e il diletto.

GENIO. E da poi che tutti i vostri diletti sono di ma-teria simile ai ragnateli; tenuissima, radissima e traspa-rente64; perciò come l’aria in questi, così la noia penetrain quelli da ogni parte, e li riempie. Veramente per lanoia non credo si debba intendere altro che il desideriopuro della felicità65; non soddisfatto dal piacere, e nonoffeso apertamente dal dispiacere. Il buon desiderio, co-me dicevamo poco innanzi66, non è mai soddisfatto; e ilpiacere propriamente non si trova. Sicché la vita umana,per modo di dire, è composta e intessuta, parte di dolo-re, parte di noia; dall’una delle quali passioni non ha ri-

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67 Sicché... altra: vedi anche Dialogo di Malambruno e di Farfarel-lo, r. 107 e seg.

68 E questo... uomini: così il Genio riconduce a valore universalela riflessione volutamente personale di Tasso.

69 Il sonno... dolore: nella forma emblematica e incisiva che ri-chiede il dialogo sono condensati i rimedi analizzati da Leopardifin dalla «teoria del piacere»: vedi Zibaldone, pp. 173-174, riporta-to in Appendice; rimedi che anche erano stati esposti sotto la for-ma di provvedimenti di Giove nella Storia del genere umano (rr.165-179 e nota 77). Cfr. inoltre Dialogo di Malambruno e di Farfa-rello, rr. 92-93, e Dialogo della Terra e della Luna, p. 116 (la Terranon vuole interrompere il sonno degli uomini, perché «è il maggiorbene che abbiano»). Cfr. anche Zibaldone, p. 1989, citato alla nota50.

70 In cambio... vita: per prima cosa, fuggire il dolore; è la stessascelta dell’Islandese (vedi Dialogo della Natura e di un Islandese, rr.53-54: «non mi proposi altra cura che di tenermi lontano dai pati-menti»). Cfr. Zibaldone, pp. 2433-2434: «Amando il vivente quasisopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che odi quasi sopra ognicosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale (come dice Cice-rone in Laelius). Ed in tanto non l’odia sempre sopra ogni cosa, inquanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; per esem-pio quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche natu-ralmente la morte, e preferirla a quel dolore; vale a dire quando l’a-mor proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che collamorte. E perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perchèegli preferisce eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsidal dolore, e il desiderio della vita è così mantenuto puramentedalla speranza» (8 maggio 1822).

71 varietà: è l’altro principalissimo rimedio: la distrazione (men-tre sonno e oppio indicano l’altra possibilità dell’«assopimento»). ÈTasso ad aggiungerlo all’elenco del Genio, proprio per osservare

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poso se non cadendo nell’altra67. E questo non è tuo de-stino particolare, ma comune di tutti gli uomini68.

TASSO. Che rimedio potrebbe giovare contro lanoia?

GENIO. Il sonno, l’oppio, e il dolore69. E questo è ilpiù potente di tutti: perché l’uomo mentre patisce, nonsi annoia per niuna maniera.

TASSO. In cambio di cotesta medicina, io mi conten-to di annoiarmi tutta la vita70. Ma pure la varietà71 delle

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che a lui, carcerato, non è però concesso. Come conferma il docu-mento prodotto alla nota 74, è il punto di massima coincidenza diLeopardi col personaggio Tasso.

72 commercio: vedi Storia del genere umano, nota 197. 73 toltomi... scrivere: come era accaduto a Leopardi a Recanati

nei periodi di più acuta malattia. 74 ridotto… oriuolo: «È un passo autobiografico. Cfr. lettera al

Perticani del 9 aprile 1821» (Bianchi). Vedi infatti: «Al vostro caroe pietoso invito rispondo ch’eccetto il caso di una provvisione, ionon potrò veder cielo nè terra che non sia recanatese, prima diquell’accidente che la natura comanda ch’io tema, e che oltracciò,secondo natura, avverrà nel tempo della mia vecchiezza; dico lamorte di mio padre. Il quale non ha altro a cuore di tutto ciò chem’appartiene, fuorchè lasciarmi vivere in quella stanza dov’io trag-go tutta quanta la giornata, il mese, l’anno, contando i tocchi dell’o-riuolo» (corsivo del curatore; è la lettera citata in Introduzione, do-ve si ricorda anche il Tasso «sventurato»).

75 annoverare i correnti: correnti è il nome delle travi piccole checorrono tra trave e trave, o tra trave e muro, per sostenere i soffittiin legno, chiamati palchi. Una nota dell’autografo rinvia a Berni,Orlando Innamorato, libro III, VII, 56 («Che voltati con gli occhiverso il tetto / Si stavano i correnti a numerare»), citazione desuntadal Vocabolario della Crusca che, alla voce Correnti, spiega: «Con-tare, od anche Numerare i correnti; detto in maniera proverbiale dichi se ne sta a letto oziando, ovvero per cagione di malattia».

76 moscherini: forma parallela di «moscerini». 77 scemi: diminuisca.

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azioni, delle occupazioni e dei sentimenti, se bene non cilibera dalla noia, perché non ci crea diletto vero, contut-tociò la solleva ed alleggerisce. Laddove in questa pri-gionia, separato dal commercio72 umano, toltomi ezian-dio lo scrivere73, ridotto a notare per passatempo itocchi dell’oriuolo74, annoverare i correnti75, le fessure ei tarli del palco, considerare il mattonato del pavimento,trastullarmi colle farfalle e coi moscherini76 che vannoattorno alla stanza, condurre quasi tutte le ore a un mo-do; io non ho cosa che mi scemi77 in alcuna parte il cari-co della noia.

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78 Dimmi...vita?: il Genio vuole spingere il Tasso a una riflessio-ne ulteriore sulla sua condizione, che parrebbe senza possibilità dirimedio alla noia.

79 accostumando: come appena dopo acquistando un abito. 80 seco medesima: con se stessa. 81 sollazzo: nel senso di «sollievo». 82 abito... virtù: «abitudine» e «capacità». Cfr. Zibaldone, 1989,

citato alla nota 50, dove si citano «fanciulli» e «carcerati» comeesempi di uomini forzati a non agire e che quindi «acquistano l’a-bito» di parlare con se stessi, ecc.

83 favellare... ragionando: la serie favellare, cicalare, ragionare ri-sale a una passo di Cellini registrato nello Zibaldone, p. 2592; cica-lare serve a indicare il chiacchiericcio indistinto della compagnia dipersone. Sul passo vedi Zibaldone, p. 153: «Tutti più o meno parla-no e gestiscono da se soli, ma principalmente gli uomini di grandeimmaginazione, sempre facili a considerar l’immaginato come pre-sente. Così l’Alfieri nei pareri sulle tragedie, racconta di questo suocostume, massime nei punti di passione o di calore. Il qual costu-me è proprio più che mai dei fanciulli, dove l’immaginazione puòmolto più che negli uomini». L’Alfieri dedica infatti un capitolo delParere dell’autore sulle presenti tragedie ai Soliloqui, in cui tra l’al-tro scrive: «Aggiungerò, quanto all’inverosimile di questi, che io,senza esser persona tragica, mosso il più delle volte da passioncellenon degne del coturno per certo, tuttavia parlo spessissimo con mestesso; e molte altre volte, ancorché io non favello con bocca, parlo

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GENIO. Dimmi: quanto tempo ha che tu sei ridotto acotesta forma di vita78?

TASSO. Più settimane, come tu sai.GENIO. Non conosci tu dal primo giorno al presen-

te, alcuna diversità nel fastidio che ella ti reca?TASSO. Certo che io lo provava maggiore a principio:

perché di mano in mano la mente, non occupata da altroe non isvagata, mi si viene accostumando79 a conversareseco medesima80 assai più e con maggior sollazzo81 diprima, e acquistando un abito e una virtù82 di favellarein se stessa, anzi di cicalare, tale, che parecchie volte mipare quasi avere una compagnia di persone in capo chestieno ragionando83, e ogni menomo soggetto che mi si

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con la mente, e perfino dialogizzo idealmente con altri» (vedi V.Alfieri, Parere sulle tragedie e altre prose critiche, a cura di M. Pa-gliai, Asti, Casa d’Alfieri, 1978 [Opere di Vittorio Alfieri da Asti,XXXV], p. 152). Vedi poi Zibaldone, p. 393: «I fanciulli parlanoad alta voce da se delle cose che faranno, delle speranze che hanno,si raccontano le cose che hanno fatte, vedute ec. o che loro sonoaccadute, si lodano, si compiacciono, predicano ed ammirano adalta voce le cose che fanno, e non v’è per loro tanta solitudine edinazione materiale, che non sia piena società, conversazione edazione spirituale» (che riprende un’osservazione già della «teoriadel piacere» sui «fanciulli» che «anche in una quasi perfetta inazio-ne, pur di rado o non mai sentano il vero tormento della noia»; epoco più avanti si parla di «una specie di rêve, come i fanciulliquando son soli»; vedi Zibaldone, pp. 175-176, in Appendice).

84 facoltà: possibilità. 85 usare cogli: frequentare gli. 86 ti parrà... solitudine: cfr. Zibaldone, pp. 717-718: «Numquam

minus solus quam cum solus. Ottimamente vero: ma (contro quelloche si usa credere e dire) perchè oggidì colui che si trova in compa-gnia degli uomini si trova in compagnia del vero, (cioè del nulla, equindi non c’è maggior solitudine), chi lontano dagli uomini incompagnia del falso. Laonde questo detto sebbene antico e riferitoal sapiente, conviene molto più a’ nostri secoli, e non al sapientesolo, ma alla universalità degli uomini, e massime agli sventurati».

87 consueti: abituati. 88 E quest’assuefazione... chicchessia: cfr. rr. 193-194.89 eziandio: anche.

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appresenti al pensiero, mi basta a farne tra me e me unagran diceria.

GENIO. Cotesto abito te lo vedrai confermare e ac-crescere di giorno in giorno per modo, che quando poiti si renda la facoltà84 di usare cogli85 altri uomini, tiparrà essere più disoccupato stando in compagnia loro,che in solitudine86. E quest’assuefazione in sì fatto teno-re di vita, non credere che intervenga solo a’ tuoi simili,già consueti87 a meditare; ma ella interviene in più omen tempo a chicchessia88. Di più, l’essere diviso dagliuomini e, per dir così, dalla vita stessa, porta seco questautilità; che l’uomo, eziandio89 sazio, chiarito e disamora-

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90 Di modo che la solitudine...: l’uomo esperimentato, o, come èdetto appena sopra, l’uomo, eziandio sazio, chiarito e disamoratodelle cose umane per l’esperienza, corrisponde a come si è descrittoTasso all’inizio dell’operetta (vedi r. 16 e seg.), nel passo cui riman-da anche la frase quella prima inesperienza che tu sospiri. Sulla«consolazione» che all’«uomo di oggidì» deriva dalla solitudine, inquanto ricreatrice dell’immaginazione e dell’illusione vedi già Zi-baldone, p. 678 e seg. (20 febbraio 1821); la riflessione è riespostain modo del tutto coincidente con questa operetta nel Discorso so-pra lo stato presente dei costumi degl’Italiani (in Le poesie e le prose,op. cit., II, pp. 567-568): «Nella solitudine anche dell’uomo il piùsapiente, esperimentato e disingannato, la lontananza degli oggettigiova infinitamente a ingrandirli, apre il campo all’immaginazioneper l’assenza del vero e della realtà e della pratica, risveglia e susci-ta sovente le illusioni in luogo di sopirle o finir di distruggerle, l’a-nimo dell’uomo torna a creare e a formarsi il mondo a suo modo; efinalmente la mancanza di occupazioni o distrazioni vive, e il conti-nuo e non diviso nè divagato pensiero che necessariamente si ponenelle cose presenti, e l’attenzione totale dell’animo che nasce dallamancanza di sensazioni che la trasportino qua e là, fanno che all’ul-timo si dà peso a menomissimi oggetti, e molto più che non si davae che gli altri non danno nel mondo a oggetti molto maggiori (o co-sì detti), e vi si pone tanta cura che finalmente essi riempiono tuttoil tempo, ed occupano la vita, e alcune volte eziandio d’avanzo. L’e-sperienza lo prova a quelli che hanno potuto farla in se o in altri»;aggiungendo in nota: «La solitudine rinfranca l’anima e ne rinfre-sca le forze, e massime quella parte di lei che si chiama immagina-zione. Ella ci ringiovanisce. Ella scancella quasi o ristringe e inde-bolisce il disinganno, quando abbia avuto luogo, sia pure statointerissimo e profondissimo. Ella rinnuova la vita interna. Insom-ma, bench’ella sembri compagna indivisibile e quasi sinonimo del-la noia, nondimeno per un animo che vi abbia contratto una certaabitudine, e con questa sia divenuto capace di agire e spiegare e

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to delle cose umane per l’esperienza; a poco a poco as-suefacendosi di nuovo a mirarle da lungi, donde ellepaiono molto più belle e più degne che da vicino, si di-mentica della loro vanità e miseria; torna a formarsi equasi crearsi il mondo a suo modo; apprezzare, amare edesiderare la vita; delle cui speranze, se non gli è tolto oil potere o il confidare di restituirsi alla società degli uo-mini, si va nutrendo e dilettando, come egli soleva a’suoi primi anni. Di modo che la solitudine90 fa quasi

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mettere in attività nella solitudine le sue facoltà, ella è più propria ariconciliare o affezionare alla vita, che ad alienare, a rinnovare oconservare o accrescere la stima verso gli uomini e verso la vitastessa, che a distruggerla o diminuirla o finir di spegnerla. E ciònon per altro se non perchè gli uomini e la vita sono lontani da lei,giacchè ella affeziona o riconcilia propriamente e più particolar-mente non alla vita presente, cioè a quella che si mena in essa soli-tudine, ma a quella del mondo che s’è abbandonata intermessa condisgusto», rimandando a pensieri dello Zibaldone. Decisiva ancheal proposito di queste riflessioni l’esperienza del viaggio a Roma(ciò che consente a Leopardi a questa altezza di chiamarsi «esperi-mentato» delle «cose umane»): vedi le lettere al fratello Carlo del25 novembre 1822 e del 6 dicembre 1822. Cfr. inoltre nota 83.

91 sospiri: per «sospirare» nel senso, già stilnovista e petrarche-sco, di «desiderare fortemente una cosa lontana», vedi Storia delgenere umano, rr. 122-124 e 403-404; cfr. inoltre: Il passero solita-rio, vv. 20-21: «amore, / Sospiro acerbo de’ provetti giorni», e Can-to notturno di un pastore errante dell’Asia, vv. 62-64: «tu forse in-tendi / [...] / il patir nostro, il sospirar, che sia».

92 Io ti lascio: portando a termine la sua dimostrazione, il Genioha concluso il proprio compito dialogico.

93 consumando la vita: vedi almeno Dialogo della Natura e di unIslandese, r. 73 (e Al conte Carlo Pepoli, 48-49).

94 non con altra utilità... svegliarvi: poiché la «vita vitale» rivoltaverso l’esterno è impossibile, rimane solo la possibilità di «consu-mare» la vita ricreandosi tra sognare e fantasticare.

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l’ufficio della gioventù, o certo ringiovanisce l’animo,ravvalora e rimette in opera l’immaginazione, e rinnuovanell’uomo esperimentato i beneficii di quella prima ine-sperienza che tu sospiri91. Io ti lascio92; che veggo che ilsonno ti viene entrando; e me ne vo ad apparecchiare ilbel sogno che ti ho promesso. Così, tra sognare e fanta-sticare, andrai consumando la vita93; non con altra uti-lità che di consumarla; che questo è l’unico frutto che almondo se ne può avere, e l’unico intento che voi vi do-vete proporre ogni mattina in sullo svegliarvi94. Spessis-simo ve la conviene strascinare co’ denti: beato quel dìche potete o trarvela dietro colle mani, o portarla in sul

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95 Spessissimo... dosso: questo il senso dell’espressione: «reputa-te fortunati quei giorni in cui la vita, pur essendo un peso, non vidarà tanta tanta pena. Insomma il trascinar coi denti indica, me-taforicamente, una pena maggiore, rispetto al trarre con le mani oal portare sul dosso» (Porena); dosso significa «schiena» (vedi an-che Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 15).

96 carcere: la parola è uno dei casi più tipici di oscillazione nelgenere (l’italiano di oggi dice il carcere/le carceri); il femminile alsingolare è del toscano parlato e quindi anche della lingua lettera-ria.

97 orti: giardini. 98 Ma... opprime: frase consolatoria del Genio, che riprende

però le affermazioni sulla validità per tutti di quanto considerato(cfr. rr. 232-235).

99 pure: riferito a la tua conversazione. 100 ma questa... crepuscoli: un’altra similitudine; per l’impressio-

ne poetica del «crepuscolo» vedi gli appunti schematici («sventu-re. crepuscolo. nulla. pianto nella maggiore allegrezza») e il pensie-ro di Zibaldone, p. 136.

101 In qualche liquore generoso: fino all’edizione 1834, Nel tuobicchiere, espressione nello stesso tempo troppo dettagliata e trop-po poco chiara. Oltre a un passo de Il Messaggero: «mi giova nondimeno di credere che la mia follia sia cagionata o da ubbriachezzao d’amore: perchè so ben io (ed in ciò non m’inganno) che sover-

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dosso95. Ma, in fine, il tuo tempo non è più lento a cor-rere in questa carcere96, che sia nelle sale e negli orti97

quello di chi ti opprime98. Addio.TASSO. Addio. Ma senti. La tua conversazione mi ri-

conforta pure99 assai. Non che ella interrompa la mia tri-stezza: ma questa per la più parte del tempo è come unanotte oscurissima, senza luna né stelle; mentre son teco,somiglia al bruno dei crepuscoli100, piuttosto grato chemolesto. Acciò da ora innanzi io ti possa chiamare o tro-vare quando mi bisogni, dimmi dove sei solito di abita-re.

GENIO. Ancora non l’hai conosciuto? In qualche li-quore generoso101.

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chiamente bevo» (Tasso, ed. cit., III, p. 332); cfr. anche Muratori,Della forza della fantasia umana, cap. X (p. 131 dell’ed. cit.), dove aproposito di alcune donne accusate di stregoneria si dice che nelleloro fantasie «si aiutano ancora con generosi liquori». Ma lo stessoVocabolario della Crusca registra l’espressione (generoso vale «po-tente, gagliardo»), anche con un esempio dalle lettere del Tasso (evedi anche il brano di Galilei, in Crestomazia italiana (La Prosa), p.296). In molti pensieri dello Zibaldone Leopardi parla del vino co-me uno degli agenti di «vigore», cioè di ritorno della natura, e/o dirimedio attraverso il «torpore» alla noia e all’infelicità.

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1un islandese...: al dialogo vero e proprio è premessa una bre-

ve cornice; viene in questo modo creato lo spazio fantastico perl’incontro tra i due interlocutori, e vengono anche poste le condi-zioni per sciogliere alla fine narrativamente un dialogo, che, comesi vedrà, deve rimanere inconcluso.

2 per... Affrica: «attraverso l’interno dell’Africa». La forma Affri-ca, con la doppia, è quella letteraria derivata dall’uso toscano, sop-piantata da Africa solo nel tardo Ottocento. I motivi del vagabon-daggio dell’Islandese saranno chiariti tra poco; ma l’interioredell’Africa risponde alla scelta di un luogo remotissimo, dove fossepossibile ambientare l’incontro e dove la Natura regnasse incontra-stata.

3 linea equinoziale: l’equatore. 4 intervenne: capitò. 5 Vasco de Gama: il navigatore portoghese (1469-1524) che ol-

trepassò per primo il Capo di Buona Speranza e a cui è in gran par-te dedicato il poema Os Lusiadas di Camoens (vedi Dialogo dellaNatura e di un’Anima, nota 43).

6 acque: nota di Leopardi: «(30) Camoens, Lusiad. canto 5.» an-dando una volta... acque: il senso di infrazione dal caso di Vasco deGama si diffonde anche sul viaggio dell’Islandese, pure diretto inun luogo non mai prima penetrato da uomo alcuno.

7 busto: perché da lontano ne vede solo la parte superiore.

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DIALOGO DELLA NATURA E DIUN ISLANDESE

Un Islandese1, che era corso per la maggior parte

del mondo, e soggiornato in diversissime terre; andandouna volta per l’interiore dell’Affrica2, e passando sotto lalinea equinoziale3 in un luogo non mai prima penetratoda uomo alcuno, ebbe un caso simile a quello che inter-venne4 a Vasco di Gama5 nel passare il Capo di Buonasperanza; quando il medesimo Capo, guardiano dei ma-ri australi, gli si fece incontro, sotto forma di gigante,per distorlo dal tentare quelle nuove acque6. Vide dalontano un busto7 grandissimo; che da principio imma-

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8 ermi: «Nella 1a ediz. l’aut. aveva adoperato il femminile, che èveramente la forma in uso, poi ha preferito il maschile, forse per-ché più conforme al corrispondente vocabolo greco e latino. Erma,originariamente il busto marmoreo di Mercurio (Ermete), quindiogni pietra quadrata sormontata da una testa» (Della Giovanna).«Colossale» è anche nei Paralipomeni della Batracomiomachia, I,40, 5: «La statua colossal di Lucerniere».

9 Pasqua: «Troviamo nell’autografo la postilla «La Pérouse t. I.p. 100-102», che ci dimostra avere il Leopardi tratto le sue notiziedal Voyage de la Pérouse autour du mond... rédigé par M. L. A. MI-LET-MUREAU, Paris, Plassan 1798; dove si parla, infatti, assai mi-nutamente (non, però, nel vol. I, ma nel II [...]) di questi «bustesgrossieres» (p. 96) e «de taille colossale» (p. 99) che sorgevano inquell’isola numerosissimi. E, certo, il poeta esaminò anche l’Atlasdu Voyage de la Pérouse che si accompagna, come quinto volumecomplementare, ai quattro volumi del testo del Voyage e che, nellatav. II, reca un disegno del Duché rappresentante una veduta d’in-sieme dell’isola di Pasqua: terra aspra e rocciosa, sparsa di virgultiqua e là; con, a destra, due enormi torsi di pietra (simili, più che atorsi, a grossolani pilastri) su cui s’innestano i colli e si appoggianole teste di due colossali figure umane» (Sanesi). Ma per la raffigu-razione della Natura vedi anche i rilievi proposti qui.

10 una forma smisurata: «un qualcosa con l’aspetto smisurato, aldi là delle dimensioni note». Cfr. appena sopra «sotto forma di gi-gante» (o per esempio Storia del genere umano, r. 118); Leopardiprima di forma aveva infatti scritto sembianza. La rappresentazionedella Natura, singolarmente viva, risente forse di tradizionali sche-mi pittorici, in cui le figure allegoriche erano appunto sdraiate eappoggiate come qui Leopardi immagina la sua donna smisurata. Aquesto si aggiunga qualche vicinanza di tratti con le descrizionidell’Africa e dell’America contenute in un diffusissimo repertoriodi immagini simboliche (C. RIPA, Iconologia; in casa Leopardi sitrovava l’edizione del 1613), in cui l’Africa è presentata come «unadonna mora, quasi nuda, haverà li capelli crespi e sparsi [...]; da unlato appresso a lei vi sarà un ferocissimo leone», e i capelli saranno«neri»; l’America, altro luogo «selvaggio», come «donna ignuda, dicarnagione fosca, di giallo color mista, di volto terribile» (citazionidall’edizione di Padova, per Pietro Paolo Tozzi, 1611, pp. 358-359e 360).

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ginò dovere essere di pietra, e a somiglianza degli ermi8

colossali veduti da lui, molti anni prima, nell’isola di Pa-squa9. Ma fattosi più da vicino, trovò che era una formasmisurata10 di donna seduta in terra, col busto ritto, ap-

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11 dosso: dorso. 12 e non finta: come invece gli ermi dell’isola di Pasqua. 13 guardavalo fissamente: cfr. Dialogo di Torquato Tasso e del suo

Genio familiare, r. 59. 14 e stata... disse: su una scena abbandonata da ogni altro fre-

quentatore, rimangono isolati da una parte il viaggiatore, dall’altrala forma smisurata di donna ancora sconosciuta, nello stesso tempoaffascinante e repellente. Una lunga pausa ritarda però ancora loscioglimento dell’attesa (fissamente, un buono spazio senza parlare,all’ultimo).

15 incognita: sconosciuta (vedi rr. 4-5). 16 Io... fuggi: ecco, ancora ritardata e detta con una perifrasi (co-

sì che tocca all’Islandese riconoscerla col nome), la rivelazione. 17 fino all’anima: «grandissimamente, estremamente» (come

spiega il Vocabolario della Crusca, sotto la voce Anima, con unesempio, tra gli altri, del Redi: «Mi dispiace fino all’anima»).

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poggiato il dosso11 e il gomito a una montagna; e nonfinta12 ma viva; di volto mezzo tra bello e terribile, di oc-chi e di capelli nerissimi; la quale guardavalo fissamen-te13; e stata così un buono spazio senza parlare, all’ulti-mo gli disse14.

NATURA. Chi sei? che cerchi in questi luoghi dove latua specie era incognita15?

ISLANDESE. Sono un povero Islandese, che vo fug-gendo la Natura; e fuggitala quasi tutto il tempo dellamia vita per cento parti della terra, la fuggo adesso perquesta.

NATURA. Così fugge lo scoiattolo dal serpente a so-naglio, finché gli cade in gola da se medesimo. Io sonoquella che tu fuggi16.

ISLANDESE. La Natura?NATURA. Non altri.ISLANDESE. Me ne dispiace fino all’anima17; e tengo

per fermo che maggior disavventura di questa non mipotesse sopraggiungere.

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18 dove… potenza: perché terra priva di qualunque forma di ci-vilizzazione.

19 Tu dei sapere che io...: la spiegazione dell’Islandese prende laforma di un lungo racconto autobiografico, nel quale è facilmenteidentificabile un ritratto di Leopardi. Si veda infatti come Leopar-di si presenta in Alla vita abbozzata di Silvio Sarno (che è, secondola dimostrazione di Monteverdi, un appunto relativo all’abbozzodi romanzo autobiografico che va sotto il titolo di Ricordi d’infan-zia e di adolescenza): «La cosa più notabile e forse unica in lui è chein età quasi fanciullesca avea già certezza e squisitezza di giudiziosopra le grandi verità non insegnate agli altri se non dall’esperien-za, cognizione quasi intera del mondo, e di se stesso in guisa checonosceva tutto il suo bene e il suo male, e l’andamento della suanatura, e andava sempre au devant de’ suoi progressi, e secondoqueste cognizioni regolava anche le sue azioni e il suo contegnonella conversazione dov’era sempre taciturno, e non curante di farmostra di se» (Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 689). E a fronte diquella dell’Islandese vedi questa autopresentazione di Leopardinella lettera allo Jacopssen: «Sans doute, mon cher ami, ou il nefaudrait pas vivre, ou il faudrait toujours sentir, toujours aimer,toujours espérer. La sensibilité ce serait le plus précieux de tous ledons, si l’on pouvait le faire valoir, ou s’il y avait dans ce monde àquoi l’appliquer. Je vous ai dit que l’art de ne pas souffrir est main-tenant le seul que je tâche d’apprendre. Ce n’est que précisémentparce que j’ai renoncé à l’espérance de vivre [...]. Pendant un cer-tain temps j’ai senti le vide de l’existence comme si ç’avait été unechose réelle qui pesât rudement sur mon âme. Le néant des chosesétait pour moi la seule chose qui existait» (23 giugno 1823).

20 a: dopo. 21 chiaro: in una variante alternativa certo; ma la dittologia (per-

suaso e chiaro) vuole indicare il raggiungimento della conoscenza,ed è ricorrente in Leopardi; vedi Storia del genere umano, r. 412,«instrutti e chiariti», dopo molte varianti; Aspasia, vv. 82-83, «co-noscente e chiaro dell’esser tuo» (su cui vedi il commento De Ro-

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NATURA. Ben potevi pensare che io frequentassi spe-cialmente queste parti; dove non ignori che si dimostrapiù che altrove la mia potenza18. Ma che era che ti mo-veva a fuggirmi?

ISLANDESE. Tu dei sapere che io19 fino nella primagioventù, a20 poche esperienze, fui persuaso e chiaro21

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bertis); vedi anche Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio fami-liare, rr. 237-238, «chiarito e disamorato delle cose umane».

22 fino… uomini: cfr. la lettera di Leopardi al Giordani del 19novembre 1819: «e sono così spaventato della vanità di tutte le co-se, e della condizione degli uomini, morte tutte le passioni, comesono spente nell’animo mio, che ne vo fuori di me, considerandoch’è un niente anche la mia disperazione». Vedi anche Storia delgenere umano, rr. 384-387 e nota 150, ma soprattutto quanto Leo-pardi fa dire a Eleandro (Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr.136-139): «il concetto della vanità delle cose umane, mi riempiecontinuamente l’animo in modo, che non mi risolvo a mettermi pernessuna in battaglia».

23 sollecitudini: spesso nelle Operette morali col senso negativolatino (sostituisce nell’autografo fatiche). Si noti che a sollecitudiniè riferito affannano, a mali, nocciono.

24 tanto più... cercano: spiega il giudizio di stoltezza. Cfr. Zibaldo-ne, pp. 4041-4042 (7 marzo 1824): «Gli uomini sarebbero felici senon avessero cercato e non cercassero di esserlo [...] la vita umanaè come il commercio; tanto più prospera quanto men gli uomini, ifilosofi ec. se ne impacciano, men proccurano la sua felicità, lascia-no più far la natura».

25 non procurando... stato: «senza cercare in nessun modo diavanzare socialmente” vedi anche Dialogo di Timandro e di Elean-dro, rr. 90-93: «non desiderando niente da loro, nè in concorrenzacon loro, io non mi sono esposto alle loro offese più di tanto».

26 disperato: con valore attivo: «non avendo più speranza».

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della vanità della vita, e della stoltezza degli uomini22; iquali combattendo continuamente gli uni cogli altri perl’acquisto di piaceri che non dilettano, e di beni che nongiovano; sopportando e cagionandosi scambievolmenteinfinite sollecitudini23, e infiniti mali, che affannano enocciono in effetto, tanto più si allontanano dalla feli-cità, quanto più la cercano24. Per queste considerazioni,deposto ogni altro desiderio, deliberai, non dando mole-stia a chicchessia, non procurando in modo alcuno diavanzare il mio stato25, non contendendo con altri pernessun bene del mondo, vivere una vita oscura e tran-quilla; e disperato26 dei piaceri, come di cosa negata alla

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27 come… specie: cfr. Storia del genere umano, rr. 352-354.28 cura: impegno. 29 patimenti: così anche Eleandro (Dialogo di Timandro e di

Eleandro, rr. 164-165): «quel maggiore, anzi solo bene che sono ri-dotto a desiderare per me stesso, cioè di non patire». Il punto cuiprovvisoriamente giunge l’Islandese (che nel vivere una vita oscurae tranquilla richiama il precetto epicureo del «vivi nascosto») èfrutto di un processo di esclusione, di progressiva rinuncia, scandi-to dalla costruzione sintattica dominata dalla negazione: deposto...non... non... non..., disperato... (negata)... non...; ma si noti che èuna rinuncia operata per scelta, attivamente (deliberai). Su due or-dini avviene questo processo di rinuncia, al termine del quale stan-no gli unici vantaggi in cui l’Islandese pensa di restringersi: vitaoscura ma tranquilla; negati i piaceri ma lontano dai patimenti.

30 che ben sai... ozioso: di questo Leopardi ha appena parlato inDialogo di un Fisico e di un Metafisico (cfr. in particolare il finale),dove è indicato come la natura persegua la vitalità (ben sai le diceappunto l’Islandese).

31 E già... risoluzione...: la prima soluzione dell’islandese si rivelapresto inadeguata: per raggiungere la tranquillità non basta restrin-gersi in se stessi, occorre separarsi dagli altri uomini.

32 menomo: minimo. 33 Ma... solitudine: cfr. quanto Leopardi dice di se stesso in Zi-

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nostra specie27, non mi proposi altra cura28 che di tener-mi lontano dai patimenti29. Con che non intendo direche io pensassi di astenermi dalle occupazioni e dalle fa-tiche corporali: che ben sai che differenza è dalla faticaal disagio, e dal viver quieto al vivere ozioso30. E già nelprimo mettere in opera questa risoluzione31, conobbiper prova come egli è vano a pensare, se tu vivi tra gliuomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggire chegli altri non ti offendano; e cedendo sempre spontanea-mente, e contentandosi del menomo32 in ogni cosa, otte-nere che ti sia lasciato un qualsivoglia luogo, e che que-sto menomo non ti sia contrastato. Ma dalla molestiadegli uomini mi liberai facilmente, separandomi dallaloro società, e riducendomi in solitudine33: cosa che nel-

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baldone, p. 2472 (11 giugno 1822): «quanto [io] era prima inclina-to a comunicare altrui ogni mia sensazione non ordinaria (interioreo esteriore), così oggi fuggo ed odio non solo il discorso, ma spessoanche la presenza altrui nel tempo di queste sensazioni. Non peraltro se non per l’abito che ho contratto di dimorar quasi sempremeco stesso, e di tacer quasi tutto il tempo, e di viver tra gli uominicome isolatamente e in solitudine» (cfr. anche Dialogo di Timandroe di Eleandro, nota 31).

34 recare ad effetto: realizzare. 35 immagine: qualcosa tra «sensazione» e «idea». 36 Fatto questo... patimento: richiama le righe 52-54; anche eli-

minati i disagi del vivere in società, l’Islandese si accorge che rima-ne un’altra fonte di patimenti, e che la stessa tranquillità non ècompleta.

37 verno: inverno. 38 state: estate. 39 e il fuoco... fumo: cfr. il passo di Buffon citato alla nota 69. 40 Ecla: uno dei vulcani più importanti.41 alberghi: residenze, abitazioni.

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l’isola mia nativa si può recare ad effetto34 senza diffi-coltà. Fatto questo, e vivendo senza quasi verun’imma-gine35 di piacere, io non poteva mantenermi però senzapatimento36: perché la lunghezza del verno37, l’intensitàdel freddo, e l’ardore estremo della state38, che sonoqualità di quel luogo, mi travagliavano di continuo; e ilfuoco, presso al quale mi conveniva passare una granparte del tempo, m’inaridiva le carni, e straziava gli oc-chi col fumo39; di modo che, né in casa né a cielo aperto,io mi poteva salvare da un perpetuo disagio. Né anchepotea conservare quella tranquillità della vita, alla qualeprincipalmente erano rivolti i miei pensieri: perché letempeste spaventevoli di mare e di terra, i ruggiti e leminacce del monte Ecla40, il sospetto degl’incendi, fre-quentissimi negli alberghi41, come sono i nostri, fatti di

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42 intermettevano: «smettevano» (cfr. Dialogo di Torquato Tassoe del suo Genio familiare, r. 175).

43 momento: importanza.44 Per tanto... tribolassero: è la crisi interna della soluzione che

l’Islandese pensava di aver raggiunto. Come l’Islandese ha dettoprima in generale, proprio la ricerca della quiete ha spogliato la vitadi ogni desiderio e di ogni occupazione, rendendola indifesa difronte alle incomodità. Ora rappresenta la tensione per lui stesso diquella rinuncia con immagini di evidenza fisica: ristringeva, con-traeva. Dal punto di vista grammaticale, si noti l’uso della negazio-ne (di tradizione latina) dopo verbi che indicano «impedimento».

45 cangiar: cambiare. 46 E... nacque...: l’islandese ribadisce il programma iniziale

(«non offendendo non essere offeso, e non godendo non patire»)ma con una nuova speranza: che ci fosse un clima adatto per natu-ra agli uomini. È un’idea più volte ripresa e sviluppata da Leopardi(vedi passi dello Zibaldone), ma alla quale ora, attraverso la «verifi-ca» dell’Islandese, non dà più credito.

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legno, non intermettevano42 mai di turbarmi. Tutte lequali incomodità in una vita sempre conforme a se me-desima, e spogliata di qualunque altro desiderio e spe-ranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta; rie-scono di non poco momento43, e molto più gravi cheelle non sogliono apparire quando la maggior parte del-l’animo nostro è occupata dai pensieri della vita civile, edalle avversità che provengono dagli uomini. Per tantoveduto che più che io mi restringeva e quasi mi contrae-va in me stesso, a fine d’impedire che l’esser mio nondesse noia né danno a cosa alcuna del mondo; meno miveniva fatto che le altre cose non m’inquietassero e tri-bolassero44; mi posi a cangiar45 luoghi e climi, per vede-re se in alcuna parte della terra potessi non offendendonon essere offeso, e non godendo non patire. E a questadeliberazione fui mosso anche da un pensiero che minacque46, che forse tu non avessi destinato al genereumano se non solo un clima della terra (come tu hai fat-

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47 abitazioni: stanziamenti. 48 Quasi... paesi: chiasmo (complemento – predicato/predicato

– complemento), dovuto all’inversione della prima frase per mette-re in rilievo quanto mondo ha girato; cercato vale «indagato».

49 commozioni: «perturbazioni» (Della Giovanna). 50 battaglia formata: cioè ordinata, condotta secondo le regole di

un vera battaglia (vedi Vocabolario della Crusca, sotto la voce For-mato).

51 ordinaria: condizione normale. 52 mi ho sentito crollare: in un appunto dello Zibaldone, pp.

4083-4085, Leopardi sottolinea che è più giusto l’uso dell’ausiliare

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to a ciascuno degli altri generi degli animali, e di queidelle piante), e certi tali luoghi; fuori dei quali gli uomininon potessero prosperare né vivere senza difficoltà e mi-seria; da dover essere imputate, non a te, ma solo a essimedesimi, quando eglino avessero disprezzati e trapas-sati i termini che fossero prescritti per le tue leggi alleabitazioni47 umane. Quasi tutto il mondo ho cercato, efatta esperienza di quasi tutti i paesi48; sempre osservan-do il mio proposito, di non dar molestia alle altre creatu-re, se non il meno che io potessi, e di procurare la solatranquillità della vita. Ma io sono stato arso dal caldo frai tropici, rappreso dal freddo verso i poli, afflitto nei cli-mi temperati dall’incostanza dell’aria, infestato dallecommozioni49 degli elementi in ogni dove. Più luoghi hoveduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che èquanto dire che tu dai ciascun giorno un assalto e unabattaglia formata50 a quegli abitanti, non rei verso te dinessun’ingiuria. In altri luoghi la serenità ordinaria51 delcielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dallamoltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimentosotterraneo di tutto il paese. Venti e turbini smoderatiregnano nelle parti e nelle stagioni tranquille dagli altrifurori dell’aria. Tal volta io mi ho sentito crollare52 il tet-

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avere con le forme verbali che noi chiamiamo «riflessive indirette»(vedi Serianni, XI, 21-22).

53 la stessa terra... piedi: «si riferisce alle frane» (Della Giovan-na).

54 che m’inseguivano: per le inondazioni. 55 gl’insetti... ossa: cfr. la descrizione del Monti nel primo canto

del Prometeo, vv. 290 e seg.: «Nudo intanto ed inerme e degli inset-ti / Al pungolo protervo abbandonato, / L’uom, de’ venti trastulloe delle piogge, / Or tremando di gelo or da’ cocenti / Raggi del so-le abbrustolato e bruno, / Ovunque fermi, ovunque volga il piede,/ Sia là dove d’Ammo, ferve l’arena, / Sia dove ha cuna o dove hatomba il sole, / Dappertutto di vesti è l’infelice / Il molle corpo aricoprir dannato». Ma cfr. anche il passo di Buffon citato alla nota69.

56 imminenti: incombenti. 57 un filosofo antico: nota di leopardi: «(31) Seneca, Natural.

Quaestion. lib. 6, cap. 2.» 58 Nè... perdonato: alle ostilità del mondo esterno si aggiungono

le malattie.

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to in sul capo pel gran carico della neve, tal altra, perl’abbondanza delle piogge la stessa terra, fendendosi, misi è dileguata di sotto ai piedi53; alcune volte mi è biso-gnato fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano54,come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria.Molte bestie salvatiche, non provocate da me con unamenoma offesa, mi hanno voluto divorare; molti serpen-ti avvelenarmi; in diversi luoghi è mancato poco chegl’insetti volanti non mi abbiano consumato infino alleossa55. Lascio i pericoli giornalieri, sempre imminenti56

all’uomo, e infiniti di numero; tanto che un filosofo anti-co57 non trova contro al timore, altro rimedio più vale-vole della considerazione che ogni cosa è da temere. Néle infermità mi hanno perdonato58; con tutto che io fos-si, come sono ancora, non dico temperante, ma conti-

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59 non dico temperante, ma continente: non solo mi moderavo,evitando gli eccessi, dice l’Islandese, ma, come ripete più sotto, miastenevo dai piaceri «quasi sempre e totalmente».

60 soglio prendere: sono solito avere. 61 ferma: determinata, inamovibile. 62 calamitosa: pericolosa. 63 durabilità: «possibilità di conservarsi» (cfr. anche Dialogo del-

la Natura e di un’Anima, rr. 75-76). 64 Io soglio... vita: l’Islandese interrompe la serie descrittiva dei

propri patimenti per esprimere una riflessione; è come un’idea ap-pena germogliata, uno stupore (soglio prendere non piccola ammi-razione) per aver toccato un punto così radicale, senza però affer-marne le piene conseguenze, cosa che farà solo alla fine del suolungo discorso alla Natura. È lo stesso itinerario di Leopardi, chedieci giorni prima di stendere questa operetta per la primissimavolta parlava di contraddizione interna della natura, nel pensierodello Zibaldone in cui notava che «Non è forse cosa che tanto con-sumi e abbrevi o renda nel futuro infelice la vita, quanto i piaceri»(Zibaldone, p. 4087, 11 maggio 1824).

65 Ma in qualunque modo: come dire: riprendiamo il filo del di-scorso, lasciando stare per ora il punto appena toccato.

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nente59 dei piaceri del corpo. Io soglio prendere60 nonpiccola ammirazione considerando come tu ci abbi infu-so tanta e sì ferma61 e insaziabile avidità del piacere; di-sgiunta dal quale la nostra vita, come priva di ciò che el-la desidera naturalmente, è cosa imperfetta: e da altraparte abbi ordinato che l’uso di esso piacere sia quasi ditutte le cose umane la più nociva alle forze e alla sanitàdel corpo, la più calamitosa62 negli effetti in quanto aciascheduna persona, e la più contraria alla durabilità63

della stessa vita64. Ma in qualunque modo65, astenendo-mi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, io non hopotuto fare di non incorrere in molte e diverse malattie:delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della mor-te; altre di perdere l’uso di qualche membro, o di con-durre perpetuamente una vita più misera che la passata;

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66 E certo...: ritorna di fatto la riflessione interiore dell’Islandese;l’aumento di male della malattia non è mai compensato dalla Natu-ra in altri momenti, con un «di più» corrispondente di sanità.

67 infermità, mali: uno dei casi più significativi del valore di indi-cazione ritmica nella lettura (non logico-sintattico) che Leopardiattribuisce ai segni di punteggiatura: la virgola separa mali benchécomplemento oggetto di sperimenti.

68 inusitata: corrisponde al precedente disusati. 69 Ne’ paesi... loro: passo aggiunto in seguito, per rallentare an-

cora, esponendo altri documenti, le deduzioni finali. Da notare co-me si riaffacci il tema della contraddizione in natura: Dal sole e dal-l’aria, cose vitali, anzi necessarie alla nostra [..] siamo ingiuriati dicontinuo. L’esempio dei Lapponi deriva, come dichiarato in un’an-notazione dell’autografo, da un passo di Buffon che serve anche inaltri punti del racconto; cfr. Storia naturale, op. cit., VI, p. 10:«Nell’estate non vivono più agiatamente dell’inverno, mentre sonocostretti a passare l’intere giornate in un densissimo fumo, essendoquesto l’unico mezzo da essi immaginato per sottrarsi dalle puntu-re de’ moscherini, che sono forse più abbondanti in quel clima ag-

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e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpoe l’animo con mille stenti e mille dolori. E certo66, ben-ché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infer-mità, mali67 per lui nuovi o disusati, e infelicità maggioreche egli non suole (come se la vita umana non fosse ba-stevolmente misera per l’ordinario); tu non hai dato al-l’uomo, per compensarnelo, alcuni tempi di sanità so-prabbondante e inusitata68, la quale gli sia cagione diqualche diletto straordinario per qualità e per grandez-za. Ne’ paesi coperti per lo più di nevi, io sono stato peraccecare: come interviene ordinariamente ai Lapponinella loro patria. Dal sole e dall’aria, cose vitali, anzi ne-cessarie alla nostra vita, e però da non potersi fuggire,siamo ingiuriati di continuo: da questa colla umidità,colla rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col ca-lore, e colla stessa luce: tanto che l’uomo non può maisenza qualche maggiore o minore incomodità o danno,starsene esposto all’una o all’altro di loro69. In fine70, io

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ghiacciato, che ne’ più caldi paesi. Con un metodo di vivere sì sten-tato, essi però non s’ammalano quasi mai, e giungono tutti ad un’e-strema vecchiezza. I vecchi stessi sono sì vigorosi, che appena pos-sono distinguersi da’ giovani; e il solo incomodo a cui sonosoggetti, è la cecità, ch’è molto comune fra essi. Siccome vengonodi continuo abbagliati dallo splendore della neve in tutto il tempodell’inverno, dell’autunno, e della primavera, ed acciecati nell’esta-te dal fumo, così perdono facilmente per la maggior parte gli occhiavanzando in età».

70 In fine... : siamo alla parte conclusiva, dove si tirano le som-me.

71 non posso numerare: perché sono troppi, infiniti. 72 avveggo: accorgo. 73 e mi risolvo a conchiudere: si noti la formula, che sottolinea il

processo di «scioglimento» del problema verso quella che apparel’unica soluzione possibile, nello stesso tempo sospendendo l’at-tenzione prima di precipitare nel drastico, e per Leopardi dram-matico, enunciato conclusivo.

74 scoperta: «evidente». Cfr. quanto dirà Porfirio (Dialogo di Plo-tino e di Porfirio): «tu vedi, Platone, quanto o la natura o il fato o lanecessità, o qual si sia potenza autrice e signora dell’universo, è sta-ta ed è perpetuamente inimica alla nostra specie».

75 per costume e per instituto: «per abitudine e per proprietà co-stitutiva».

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non mi ricordo aver passato un giorno solo della vitasenza qualche pena; laddove io non posso numerare71

quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godi-mento: mi avveggo72 che tanto ci è destinato e necessa-rio il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il vi-ver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquietosenza miseria: e mi risolvo a conchiudere73 che tu sei ne-mica scoperta74 degli uomini, e degli altri animali, e ditutte le opere tue; che ora c’insidii ora ci minacci ora ciassalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempreo ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per in-stituto75, sei carnefice della tua propria famiglia, de’ tuoi

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76 sei carnefice… viscere: la metafora, con la concretezza striden-te delle immagini (quasi da concettismo barocco), dà forza al para-dosso che l’Islandese è costretto a riconoscere per vero; si ricordiche una simile insensatezza, ma non attribuita alla Natura, era rile-vata ne La scommessa di Prometeo, dove un padre mangia i figli(vedi r. 138 e seg., e rr. 221-222). La metafora inaugurata qui tornasuccessivamente in altri testi di Leopardi; vedi Sopra un bassorilie-vo antico sepolcrale, dove una giovane morta è rappresentata in attodi partire, accomiatandosi dai suoi, vv. 44-47: «Madre temuta epianta / Dal nascer già dell’animal famiglia, / Natura, illaudabilmaraviglia, / Che per uccider partorisci e nutri»; Palinodia al mar-chese Gino Capponi, vv. 180-181 (citato a nota 78); La ginestra o ilfiore del deserto, vv. 123-125: «ma dà la colpa a quella / Che vera-mente è rea, che de’ mortali / Madre è di parto e di voler matri-gna»; Paralipomeni della Batracomiomachia, IV 12, vv. 7-8: «[natu-ra] de’ suoi figli antica / E capital carnefice e nemica» (per leOperette morali vedi il passo del Dialogo di Plotino e Porfirio citatoa nota 74).

77 finiscono: cessano.78 Pertanto... opprimi: la riflessione chiude la lunga ricerca del-

l’Islandese. Cfr. Palinodia al marchese Gino Capponi, vv. 176-181:«indi una forza / Ostil, distruggitrice, e dentro il fere / E di fuor daogni lato, assidua, intenta / Dal dì che nasce; e l’affatica e stanca, /Essa indefatigata; insin ch’ei giace / Alfin dall’empia madre op-presso e spento».

79 E già mi veggo...: tutto il passo, fino alla fine del discorso del-l’Islandese, aggiunto in seguito sul manoscritto. La E riprende l’e-sposizione già conclusa, portando lo sguardo più avanti. Ma è unmovimento bloccato; un ritmo lento, in una tonalità minore, scan-disce un futuro che non è tale; «privo di ogni speranza», non è cheuna conferma della legge appena scoperta.

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figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tueviscere76. Per tanto rimango privo di ogni speranza:avendo compreso che gli uomini finiscono77 di persegui-tare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera difuggirli o di occultarsi; ma che tu, per niuna cagione,non lasci mai d’incalzarci, finché ci opprimi78. E già miveggo79 vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiez-za; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di mise-rie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma de-stinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi,

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80 quinto suo lustro: venticinque anni. 81 Immaginavi… vostra?: la Natura subito capovolge il punto di

vista dell’uomo. Cfr. anche Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo,r. 74 e seg.

82 fatture: creazioni. 83 trattone pochissime: solo pochissime sono appositamente in-

dirizzate al genere umano. 84 come: allo stesso modo. 85 estinguere... specie: come accade nel Dialogo di un Folletto e

di uno Gnomo. 86 Ponghiamo: «Poniamo». La risposta della Natura non meravi-

glia più di tanto l’Islandese (cfr. rr. 233-234: «So bene che tu nonhai fatto il mondo in servigio degli uomini»), al quale tuttavia lascoperta dell’infelicità necessaria pone una questione più profonda(sul senso dell’esistenza), che esprime ora con un apologo, nel qua-

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preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza, epreparato in lui di continuo, dal quinto suo lustro80 inlà, con un tristissimo declinare e perdere senza sua col-pa: in modo che appena un terzo della vita degli uominiè assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfe-zione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi chene seguono.

NATURA. Immaginavi tu forse che il mondo fosse fat-to per causa vostra81? Ora sappi che nelle fatture82, negliordini e nelle operazioni mie, trattone pochissime83,sempre ebbi ed ho l’intenzione a tutt’altro, che alla feli-cità degli uomini o all’infelicità. Quando io vi offendo inqualunque modo e con qual si sia mezzo, io non men’avveggo, se non rarissime volte: come84, ordinaria-mente, se io vi diletto o vi benefico, io non lo so; e nonho fatto, come credete voi, quelle tali cose, o non foquelle tali azioni, per dilettarvi o giovarvi. E finalmente,se anche mi avvenisse di estinguere tutta la vostraspecie85, io non me ne avvedrei.

ISLANDESE. Ponghiamo86 caso che uno m’invitasse

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le è simboleggiato il rapporto tra singoli esseri viventi nel mondo(gli invitati alla villa) e la Natura (il padrone della villa).

87 villa: nel senso già latino di «possedimento di campagna». 88 instanza: insistenza. 89 oppresso: rovinato, distrutto (vedi poi opprimi, r. 188).90 villaneggiare: trattare con modi volgari. 91 famiglia: servitù. 92 querelandomi io seco: lamentandomi con lui. 93 farti le buone spese: nutrirti, trattarti bene.94 spontaneamente: cfr. r. 213. 95 egli: pleonastico.

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spontaneamente a una sua villa87, con grande instanza88,e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato perdimorare una cella tutta lacera e rovinosa, dove io fossiin continuo pericolo di essere oppresso89; umida, fetida,aperta al vento e alla pioggia. Egli, non che si prendessecura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi al-cuna comodità, per lo contrario appena mi facesse som-ministrare il bisognevole a sostentarmi; e oltre di ciò milasciasse villaneggiare90, schernire, minacciare e battereda’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia91. Se querelandomiio seco92 di questi mali trattamenti, mi rispondesse: for-se che ho fatto io questa villa per te? o mantengo io que-sti miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? e,bene ho altro a pensare che de’ tuoi sollazzi, e di farti lebuone spese93; a questo replicherei: vedi, amico, che sic-come tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu intua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontanea-mente94 hai voluto che io ci dimori, non ti si appartieneegli95 di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, civiva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Cosìdico ora. So bene che tu non hai fatto il mondo in servi-gio degli uomini. Piuttosto crederei che l’avessi fatto e

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96 saputa: notizia, informazione (cfr. Vocabolario della Crusca,che tra le locuzioni riporta un «senza vostra saputa»).

97 ufficio: compito. 98 Tu... mente: come nella sua prima risposta, la Natura oppone

all’Islandese un altro punto di vista. 99 sempre che: se, nel caso in cui. 100 Per tanto... patimento: la Natura conferma le conclusioni del-

l’Islandese: il patimento dei viventi è necessario alla conservazionedel mondo.

101 Cotesto... tutti i filosofi: il riferimento è generico (probabil-mente ad indicare che tale idea è ritenuta un punto d’arrivo in ge-nere della «filosofia»).

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ordinato espressamente per tormentarli. Ora domando:t’ho io forse pregato di pormi in questo universo? o mivi sono intromesso violentemente, e contro tua voglia?Ma se di tua volontà, e senza mia saputa96, e in manierache io non poteva sconsentirlo né ripugnarlo, tu stessa,colle tue mani, mi vi hai collocato; non è egli dunque uf-ficio97 tuo, se non tenermi lieto e contento in questo tuoregno, almeno vietare che io non vi sia tribolato e stra-ziato, e che l’abitarvi non mi noccia? E questo che dicodi me, dicolo di tutto il genere umano, dicolo degli altrianimali e di ogni creatura.

NATURA. Tu mostri non aver posto mente98 che la vi-ta di quest’universo è un perpetuo circuito di produzio-ne e distruzione, collegate ambedue tra se di maniera,che ciascheduna serve continuamente all’altra, ed allaconservazione del mondo; il quale sempre che99 cessasseo l’una o l’altra di loro, verrebbe parimente in dissolu-zione. Per tanto risulterebbe in suo danno se fosse in luicosa alcuna libera da patimento100.

ISLANDESE. Cotesto medesimo odo ragionare a tutti ifilosofi101. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quelche distrugge, non gode, e a poco andare è distrutto me-

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102 nessun filosofo: in opposizione a tutti i filosofi. 103 a chi piace... universo: la stessa domanda che ritorna in Al

conte Carlo Pepoli, v. 140 e seg.: «L’acerbo vero, i ciechi / Destiniinvestigar delle mortali / E dell’eterne cose; a che prodotta, / A ched’affanni e di miserie carca / L’umana stirpe; a quale ultimo intento/ Lei spinga il fato e la natura; a cui / Tanto nostro dolor diletti ogiovi; / Con quali ordini e leggi a che si volva / Questo arcano uni-verso; il qual di lode / Colmano i saggi, io d’ammirar son pago»; enella quarta strofe del Canto notturno di un pastore errante dell’A-sia, v. 61 e seg.

104 Mentre...: l’estrema domanda dell’Islandese non ha risposta;ritorna il narratore fuori campo a chiudere la narrazione, esponen-do un finale che è come una dimostrazione di quanto è stato detto.

105 rifiniti: mal conci (cfr. Vocabolario della Crusca). Per l’ideadei leoni, cfr. l’immagine dell’Africa del Ripa, citata alla nota 10.

106 inedia: sfinimento per mancanza di cibo. 107 fierissimo: violentissimo. 108 sotto il quale... Europa: la conclusione è sarcastica: nei musei

europei viene studiato come mummia, per di più antica, l’uomo

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desimamente; dimmi quello che nessun filosofo102 mi sadire: a chi piace o a chi giova cotesta vita infelicissimadell’universo103, conservata con danno e con morte ditutte le cose che lo compongono?

Mentre104 stavano in questi e simili ragionamenti èfama che sopraggiungessero due leoni, così rifiniti105 emaceri dall’inedia106, che appena ebbero la forza dimangiarsi quell’Islandese; come fecero; e presone unpoco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Masono alcuni che negano questo caso, e narrano che unfierissimo107 vento, levatosi mentre che l’Islandese parla-va, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimomausoleo di sabbia: sotto il quale colui disseccato per-fettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritro-vato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non soquale città di Europa108.

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che ha individuato la realtà della contraddizione che condanna i vi-venti a essere infelici. Il gioco ironico (seppure di tono «tragico»)coinvolge lo stesso Buffon che ha presieduto a tanta parte dell’in-venzione dell’operetta. Nella Storia naturale (op. cit.), infatti, allatrattazione di ogni animale segue una «Descrizione della parte diGabinetto» (cioè di «Museo») relativa a quell’animale, stesa dalConservatore Daubenton; nel tomo V, dedicato all’uomo, una par-te considerevole è sulle mummie, e proprio a questa parte si rifà aLeopardi; si veda p. 294: «Le mummie, delle quali ora si tratta, so-no corpi imbalsamati: si dà particolarmente questo nome a quelli,che sono stati cavati da’ sepolcri degli antichi Egizi, ma la significa-zione di questa voce è stata di poi più oltre estesa, chiamandosi an-che col nome di mummia i cadaveri, che sono stati disseccati nelleinfiammate atene dell’Africa, e dell’Asia»; e ancora p. 304: «Si sa,che gli uomini, e gli animali, che vengono sepolti nelle arene del-l’Arabia si disseccano prontamente, e si conservano per molti seco-li, come se fossero stati imbalsamati. È accaduto spesso, che dellecarovane intere sono perite ne’ diserti dell’Arabia, sia pe’ venti ar-denti, che si sollevano, e che rarefanno l’aria a segno, che gli uomi-ni, e gli animali non possano più respirare, sia per le arene che iventi sollevano ad una grande altezza, e ch’essi trasportano ad unagran distanza: questi cadaveri si conservano nel loro intero, e ven-gono in seguito trovati per qualche fortuito caso» (e le mummieavranno la parte principale nel Dialogo di Federico Ruysch e dellesue mummie).

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1nota di leopardi: «(39) Vedi, tra gli altri, circa queste famose

mummie, che in linguaggio scientifico si direbbero preparazionianatomiche, il Fontenelle, Eloge de mons. Ruysch.» In un appuntomarginale del manoscritto Leopardi invece annota: «FontenelleEloge de M. Ruysch. Thomas Eloge de Descartes, not. 32». Questaseconda opera è la fonte effettiva; Leopardi aveva letto l’Eloge deDescartes di Antoine-Léonard Thomas nel luglio del 1824, metten-dolo a frutto nella precedente operetta Il Parini ovvero della gloria;è in questo testo che ritrova il rinvio al Fontenelle e da cui ricavadiversi spunti per la sua invenzione. Ecco infatti il brano di Tho-mas cui si riferisce: «Ruysch, un de plus grands hommes de la Hol-lande, anatomiste, médecin et naturaliste. Il porta à la plus grandeperfection l’art d’injecter […] Perfectionner ainsi, c’est être soi-même inventeur. Sa méthode n’a jamais été bien connue. Il eut uncabinet qui fut long ternps l’admiration de tous les étrangers, etune des merveillcs de la Hollande. Ce cabinet étoit composé d’unetrès-grande quantité de corps injectés et embaumés, dont les mem-bres avoient toute leur mollesse, et qui conservaient un teint fleuri,sans desséchement et sans rides. Les momies de M. Ruysch prolon-geoient en quelque sorte la vie, dit M. de Fontenelle, au lieu quecelles de l’ancienne Egypte ne prolongeoient que la mort. On eûtdit que c’étoient des hommes endormis, prêts à parler à leur réveil[…]. Le Czar Pierre, à son premier voyage en Hollande en 1698,fut transporté de ce spectacle [...]. A son second voyage en 1717, ilacheta le cabinet et l’evoya à Petersbourg» (corsivi del curatore).In realtà, partito dalla immagine delle «mummie», che ritrovava inBuffon e in Thomas, Leopardi si rende conto in seguito che nel ca-so di Ruysch la definizione è impropria, come si vede dal fatto chel’espressione: «che in linguaggio scientifico si direbbero prepara-zioni anatomiche», è aggiunta nella seconda edizione del libro.

2 Sola... eterna: «Unica ad essere eterna nell’universo», riferito amorte di v. 3 e in contrapposizione con la caducità di ogni creata co-sa. Vedi Cantico del gallo silvestre, rr. 90-91. Tutto converge in que-st’attacco nell’evocare un’unica esclusiva suggestione: il significatodi Sola è rafforzato e addirittura imposto dalla posizione sintattica

DIALOGO DI FEDERICO RUYSCH E DELLESUE MUMMIE1

Coro di morti nello studio di Federico Ruysch

Sola nel mondo eterna2, a cui si volve3

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in forte rilievo (anticipa e fa attendere il sostantivo cui si riferisce) edalla posizione metrica, portando il primo accento forte del verso,da cui proviene anche l’intonazione generale del coro, quella tona-lità in o che lo domina.

3 si volve: «è destinata a ritornare» (latino volvitur). Cfr. i duepassi, tra loro legati, di Al conte Carlo Pepoli, vv. 147-148, «a che sivolva / Questo arcano universo», e del Canto notturno di un pasto-re errante dell’Asia, vv. 93-96, «Poi di tanto adoprar, di tanti moti /D’ogni celeste, ogni terrena cosa, / Girando senza posa, / Per to-mar sempre là donde son mosse».

4 Ogni creata cosa: «qualunque esistenza». La stessa considera-zione è svolta nel Cantico del gallo silvestre, tra le operette la più vi-cina a questa: «Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprioed unico obbietto il morire» (rr. 90-91), «In qualunque genere dicreature mortali, la massima parte del vivere è un appassire. Tantoin ogni opera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte» (rr.97-99), «Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente allamorte, con sollecitudine e celerità mirabile» (rr. 101-102). Ma al-l’origine sta la consapevolezza raggiunta nel Dialogo della Natura edi un Islandese, quando la Natura sottolinea che «la vita di quest’u-niverso è un perpetuo circuito di produzione e distruzione», e l’I-slandese osserva che tale «vita infelisissima è «conservata con dan-no e con morte di tutte le cose che lo compongono».

5 In te... natura: è la proposizione principale. La «canzone» deimorti è dunque una sorta di inno alla morte, visto il vocativo del v.3 si posa, che fa coppia con si volve, è parola cara al Leopardi (eanalizzata nello Zibaldone) per la sua ambiguità, tra «collocarsi» e«riposarsi», tra l’idea di «porre» e quella di «pausa»; cfr. soprattut-to A se stesso, vv. 1-2, «Or poserai per sempre, / Stanco mio cor».Con ignuda Leopardi preleva un’espressione tradizionale (in Pe-trarca indica l’anima priva del corpo dopo la morte: CanzoniereCXXVI, 19, «torni l’alma al proprio albergo ignuda» e CXXVIII,101. «l’alma ignuda e sola»), che aveva già usato in Alla sua donna(v. 14, «ignudo e solo»), per indicare una natura, una condizione,senza più nulla di vitale; di grado zero, per usare le parole di D. DeRobertis (Sul «Coro dei morti»...). Sul piano concettuale, infatti, lamorte è rappresentata non come mancanza di essere, ma come esi-stenza del non-essere: natura, ma ignuda; mente, ma confusa; pen-sier ma grave; manca la lena, non la speme, il desio in sé, ecc. Cfr.

Ogni creata cosa4,In te, morte, si posaNostra ignuda natura5, 5

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poi quanto si dirà nel dialogo, sulla morte come mancanza di «sen-timento vivo», come «estinguersi della facoltà di sentire» (r. 135 eseg.). Si noti l’assonanza interna -uda :-ura (- una in rima).

6 sicura: «al riparo». Ai morti non tocca nessuna felicità, ma so-no salvi dal dolore che è proprio della vita. Il distico Nostra… sicu-ra torna in chiusura quasi come un ritornello, marcando specular-mente l’inizio e la fine del coro; un’espressione analoga è statasegnalata (da D. De Robertis, op. cit.) nel Pastor fido del Guarini,in un verso che fa appunto da ritornello nel recitativo di Amarilli,atto II, sc. V: «nuda sì, ma contenta». Vedi anche Al conte CarloPepoii, vv. 33-4, «e pieno, / Poi che lieto non può, corresse il gior-no».

7 antico dolor: il dolore proprio della vita (vedi i versi seguenti);antico per dirne l’allontanamento.

8 Profonda... oscura: dopo ignuda, è la prima immagine dellacondizione dei morti; dominante la metafora dell’oscurità (notte,oscura; profonda: «intensa, impenetrabile»), insieme ad un’idea dilontananza e di immobilità (ancora profonda; grave nel senso di«pesante, sprofondato, immobile»: cfr. per esempio Al conte CarloPepoli, vv. 70-72, «Nell’imo [= profondo, n.d.c.] petto, grave, saldaimmota / [...] siede / Noia immortale», e Il risorgimento, vv. 81-82,«Chi dalla grave, immemore / Quiete or mi ridesta?»; di «gravezzadel sonno» si parla in Zibaldone, p. 2566); confusa mente vale «me-moria che non è più in grado di distinguere, di riconoscere» (cfr.poi confusa ricordanza). Vedi anche Cantico del gallo silvestre, rr.47-50.

9 Alla speme, al desio: la «speranza» e il «desiderio» indicanoqui sinteticamente gli effetti dell’amor proprio, che in quanto tale èconnaturato in ogni vivente, secondo quanto è stato illustrato in al-tre operette (vedi almeno il Dialogo di Malambruno e di Farfarello),e cui solo ora appunto è venuta meno la lena, la spinta.

10 arido spinto: come prima ignuda natura. 11 Così: «di conseguenza», perché mancata la lena a quel conti-

Lieta no, ma sicura6

Dall’antico dolor7. Profonda notteNella confusa menteIl pensier grave oscura8;Alla speme, al desio9, l’arido spirto10 10Lena mancar si sente:

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nuo e inappagabile desiderio di felicità che è inseparabile dalla vi-ta, lo spirito è sciolto, libero, dal dolore che necessariamente neconseguiva; affanno e temenza («timore»; cfr. Cantico dei gallo sil-vestre, r. 112-113: «molte cause di timore e d’affanno»; ma si notiqui la scelta lessicale arcaica) indicano in compendio tutte le mani-festazioni di quel dolore.

12 l’età vote e lente: «dato che non v’accade nulla e nessun senti-mento le vana. Ma lente, tanto più in rima, è espressivo per il suo-no e la suggestione anche più che per il significato proprio» (Bac-chelli). Lento è l’aggettivo caratteristico in Leopardi per indicareun tempo immobile e privo di vita; vedi per esempio Ad AngeloMai, vv. 17-18: «più lento / E grave è il nostro disperato obblio»; Aun vincitore nel pallone, vv. 62-63: «putri e lente / Ore»; e Dialogodi Torquato Tasso e del suo Genio familiare, r. 259.

13 senza tedio: anche la noia, frutto della «tendenza imperiosa alpiacere» (cfr. ancora il Dialogo di Torquato Tasso e del suo Genio fa-miliare, r. 164), era una componente inevitabile della vita.

14 Vivemmo: l’aspetto puntuale del passato remoto caratterizzala vita e la separa come esperienza definitivamente conclusa, incontrasto con l’eterno presente della morte; il verbo si concentra inuno rilievo fonico e sintattico fortissimo, e così si isola dentro unapausa che è rievocativa della vita, ormai punto erratico nella confu-sa ricordanza dei morti. Cfr. Ultimo canto di Saffo, vv. 55-56, «Mor-remo. Il velo indegno a terra sparto. / Rifuggirà l’ignudo animo aDite», che propone a distanza il confronto speculare tra vivi (Mor-remo) e morti (Vivemmo), esposto in questo Coro (vedi versi se-guenti; per di più «rifuggire» è il verbo del v. 27).

15 e qual: correlato a tal (v. 18), dà inizio ad una similitudine, chesvolge un tema già anticipato ai vv. 6-8; la memoria che i morti han-no della vita è come il ricordo confuso che un bambino ha di unbrutto sogno (si ha quindi un maggior grado di lontananza e di in-certezza, essendo: il ricordo, di un sogno, di lattante; il sogno inol-tre è pauroso, come la vita dolorosa). Cfr. poi nota 21. Per l’ideadella smemoratezza dello stato precedente, Leopardi potrà esserstato stimolato da un passo di Buffon, anche se di senso contrario:gli agonizzanti che tornati in vita non ricordano più nulla.

16 di paurosa larva /E di sudato sogno: è un caso di dittologia si-

Così11 d’affanno e di temenza è sciolto,E l’età vote e lente12

Senza tedio13 consuma.Vivemmo14: e qual15 di paurosa larva, 15

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nonimica; paurosa larva vale «spaventosa apparizione spettrale»(Bacchelli), sudato ha senso attivo, «che provoca sudore» per lospavento.

17 fanciullo: nel senso di «bambino», come nota anche Leopardia margine del manoscritto, con rinvio al Vocabolario della Crusca.

18 erra nell’alma: «vaga nell’animo»; cfr. Paralipomeni della Ba-tracomiomachia, II 4, 5: «e qual notturno spirto erra e confonde».

19 confusa: vedi v. 7. 20 n’avanza: rimane. 21 ma... rimembrar: al contrario di quanto succede al lattante

fanciullo, che sarà spaventato dal ricordo del sogno (tema = timo-re). «Ai morti il ricordo non fa paura. Lunge, con valore enfatico,significa ch’essi son tanto «sicuri» dalla paura, quanto son certi dinon averla a riprovare, e che non rivivranno» (Bacchelli). Alla temasi sostituisce in loro il sentimento di stupore esposto nei versi suc-cessivi.

22 fummo: riprende Vivemmo, ed è a sua volta ripreso conanafora nel seguente Che fu; per l’uso del passato remoto, vedi no-ta 14.

23 punto: nel senso di fenomeno momentaneo, rapidissimo, dicontro all’eternità della morte, ma forse soprattutto nel senso dicosa lontanissima, quasi impercettibile. Oltre ai Paralipomeni dellaBatracomiomachia, III 4, «il varco [...] / Colà dove all’entrar subitopiomba / Notte in sul capo al passegger che vede / Quasi un puntolontan d’un lume incerto / L’altra bocca onde poi riede all’aperto»,cfr. soprattutto La Ginestra o il fiore del deserto, v. 163 e seg., «Veg-go dall’alto fiammeggiar le stelle, / Cui di lontan fa specchio / Ilmare, e tutto di scintille in giro / Per lo voto seren brillare il mon-do. / E poi che gli occhi a quelle luci appunto, / Ch’a lor sembranoun punto, / E sono immense, in guisa / Che un punto a petto a lorson terra e mare / Veracemente; [...] / [...] e quando miro / Quegliancor più senz’alcun fin remoti / Nodi quasi di stelle / Ch’a noipaion qual nebbia, a cui non l’uomo / E non la terra sol, ma tutte

E di sudato sogno16,A lattante fanciullo17 erra nell’alma18

Confusa19 ricordanza:Tal memoria n’avanza20

Del viver nostro: ma da tema è lunge 20Il rimembrar21. Che fummo22?Che fu quel punto23 acerbo24

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in uno, / Del numero infinite e della mole, / Con l’aureo sole in-siem, le nostre stelle / O sono ignote, o così paion come / Essi allaterra, un punto / Di luce nebulosa; al pensier mio / Che sembri al-lora, o prole / Dell’uomo?» [corsivi del curatore], dove è presentelo stesso schema speculare che troviamo tra pochi versi nel Coro(vedi anche nota 29).

24 acerbo: «crudo»; cfr. I nuovi credenti, vv. 1-3: «le carte ove l’u-mana / Vita esprimer tentai, con Salomone / Lei chiamando, qualsoglio, acerba e vana».

25 Che... nome: cfr. Al conte Carlo Pepoli, vv. 1-2, «Questo affan-noso e travagliato sonno / Che noi vita nomiam»; qui (come poi neLa Ginestra o il fiore del deserto, vv. 190-191: «in questo oscuro /Granel di sabbia, il qual di terra ha nome») l’espressione dimostral’allontanamento, anzi il capovolgimento del punto di vista dei«mortali» da parte dei morti.

26 arcana e stupenda: «misteriosa e tale da destare stupore»; cfr.l’«arcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale» con cuisi chiude il Cantico del gallo silvestre.

27 Oggi: nell’eterno presente dei morti. 28 è la vita… e tale / Qual... appar: altra similitudine, impostata

con gli stessi elementi grammaticali (tale/quale), ma disposti achiasmo rispetto alla precedente (vv. 14-19). Su un chiasmo è poiorganizzato tutto il paragone: la vita (1) – al pensier (2) – nostro =dei morti (3) / de’ vivi (3) – al pensiero (2) – morte (1), tale da strin-gere con semplicità perfetta più che il parallelismo, la specularitàtra i due membri; nessuna coloritura offusca l’intensità conoscitivadel paragone, che è qui straordinaria (Bacchelli ha parlato di «esta-si»), perché non porta a un chiarimento (il termine ignoto spiegatocol noto), ma è il rispecchiamento di due ignoti: «la vita al pensierodei morti è uguale alla morte nel pensiero dei vivi: ignota». Ancheil paragone precedente è impostato sullo stesso schema (la vita è aimorti come un sogno al bambino: una confusa ricordanza), ma èperò ancora legato ad altre immagini; parla infatti di «confusa ri-cordanza», mentre ora si parla di «ignoto».

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Che di vita ebbe nome25?Cosa arcana e stupenda26

Oggi27 è la vita al pensier nostro, e tale 25Qual de’ vivi al pensieroL’ignota morte appar28. Come da morte

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29 Come... rifugge: ribadisce lo schema speculare dei versi prece-denti, ancora con un paragone disposto a chiasmo [anche se noncompleto: da morte (1) — vivendo (2) — rifuggia (3) / rifugge (3)— dalla fiamma vitale (1)]. Cfr. il riscontro citato alla nota 14. Perl’immagine vedi Zibaldone, p. 282 (tra i pensieri alla base di que-st’operetta, citato in Introduzione): «l’anima non si svelle come unmembro, ma parte naturalmente quando non può più rimanere,nello stesso modo che una fiamma si estingue e parte da quel corpodove non trova più alimento»; l’ignuda natura è ciò che, immagino-samente, rimane di una fiamma senza materia che l’alimenti. Ma sipuò riconoscere anche il contributo di Buffon, nella rappresenta-zione della vita suscettibile d’aumento e di diminuzione, fino adestinguersi (cfr. Zibaldone, pp. 290-291). Vedi anche Appressamen-to della monte, V, 4-5: «Sento che va languendo entro mio petto /La vital fiamma».

30 Nostra... sicura: cfr. vv. 4-5. 31 Però: «perciò»; diversamente da quanto disposto nel v. 5 e

seg., che spiegavano il sicura, qui la spiegazione è relativa al primoelemento, lieta no, anche in questo modo rispettando lo schema achiasmo che appare dominare il Coro, e concludendo sulla notanegativa.

32 beato: felice. 33 Nega... fato: in questa forma il verso appare nell’edizione fio-

rentina del 1834, mentre fin dall’autografo si leggeva «Nega agliestinti ed ai mortali il fato» (cfr. anche Palinodia al marchese GinoCapponi, v. 175, «il fragil mortale, a perir fatto»). L’innovazione èuna conquista decisiva non solo perché l’affermazione è più peren-toria, ma soprattutto perché riporta la conclusione a una pienacontinuità di forma col resto del Coro. Il verso viene organizzato indue membri che ripetono il parallelismo fin qui svolto, ma nel mo-mento stesso in cui si accostano e distinguono i due mondi (vivi emorti), tramite la ripetizione del verbo e la paronomasia, se ne farisaltare l’unico fondamento, che è la morte: la paronomasia distin-gue i viventi in quanto destinati anch’essi alla morte (mortali); dun-

Vivendo rifuggia, così rifugge29

Dalla fiamma vitaleNostra ignuda natura30; 30Lieta no ma sicura,Però31 ch’esser beato32

Nega ai mortali e nega a’ morti il fato33.

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que si chiude il cerchio tornando all’inizio: Sola nel mondo eterna,a cui si volve / Ogni creata cosa (i mortali «si volvono» alla morte).Inoltre la ripetizione di nega rende universale la negazione della fe-licità, come un’enorme cappa di infelicità che tutti avvolge. Insom-ma, «null’altro di bene ci dà la morte, fuorché liberarci di quel gra-ve dolore che fu il vivere» (Antognoni). Tra inizio e fine del Corodue dati quindi emergono: l’eternità della non-vita e della non-feli-cità.

34 spiragli: una nota manoscritta di Leopardi rinvia alla voce«Buco» del Vocabolario della Crusca.

35 Diamine: con questo tipico intercalare da lingua parlata(«esclamazione familiare», dice il Vocabolario della Crusca), l’iniziodi battuta dà il tono degli interventi di Ruysch, con stacco che nonpotrebbe essere più forte da quello del Coro. Tutto l’intervento èdi registro comico: vedi in particolare «Chi ha insegnato la musicaa questi morti, che cantano di mezza notte come galli?»; «Mal ab-bia quel diavolo...»; «o non escano pel buco della chiave, e mi ven-gano a trovare a letto?».

36 con tutta la filosofia: altro tratto colloquiale («nonostante tut-ta la sicurezza che dovrebbe venirmi dallo studio»).

37 Mal abbia quel diavolo: cfr. Dialogo di Malambruno e di Farfa-rello, r. 48: «Dunque ritorna tu col mal anno».

38 a che giuoco giochiamo: espressione familare usata «per rim-

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RUYSCH fuori dello studio, guardando per gli spiragli34

dell’uscio. Diamine35! Chi ha insegnato la musica a que-sti morti, che cantano di mezza notte come galli? In ve-rità che io sudo freddo, e per poco non sono più mortodi loro. Io non mi pensava perché gli ho preservati dallacorruzione, che mi risuscitassero. Tant’è: con tutta la fi-losofia36, tremo da capo a piedi. Mal abbia quel diavo-lo37 che mi tentò di mettermi questa gente in casa. Nonso che mi fare. Se gli lascio qui chiusi, che so che nonrompano l’uscio, o non escano pel buco della chiave, emi vengano a trovare al letto? Chiamare aiuto per paurade’ morti, non mi sta bene. Via, facciamoci coraggio, eproviamo un poco di far paura a loro.

Entrando. Figliuoli, a che giuoco giochiamo38? non

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proverare alcuno, o per dimostrargli il nostro malcontento» (Voca-bolario della Crusca); Ruysch mette in atto il proposito di fingersicoraggioso e di trattare da una posizione di forza i morti come fos-sero dei sottoposti indisciplinati.

39 Czar: nota di leopardi: «(40) Lo studio del Ruysch fu visitatodue volte dallo Czar Pietro primo: il quale poi, comperato, lo fececondurre a Pietroburgo.» Le informazioni spiegate da Leopardi inquesta sua nota e nella successiva dipendono sempre dal brano delThomas che abbiamo riportato all’inizio, ma che Leopardi nonaveva segnalato al lettore.

40 soggetti: «sottoposti». Come cioè se i morti non ritenesseropiù di «obbedire» alle leggi naturali come facevano prima della vi-sita.

41 far le spese: nutrire (cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese,rr. 226-227).

42 però: perciò.43 liberale: generoso. 44 vene: nota di leopardi: «(41) Il mezzo usato dal Ruysch a con-

servare i cadaveri, furono le iniezioni di una certa materia compo-sta da esso, la quale faceva effetti meravigliosi».

45 stanga: la traversa di legno che serviva da chiusura.

vi ricordate di essere morti? che è cotesto baccano? for-se vi siete insuperbiti per la visita dello Czar39, e vi pen-sate di non essere più soggetti40 alle leggi di prima? Iom’immagino che abbiate avuto intenzione di far da bur-la, e non da vero. Se siete risuscitati, me ne rallegro convoi; ma non ho tanto, che io possa far le spese41 ai vivi,come ai morti; e però42 levatevi di casa mia. Se è veroquel che si dice dei vampiri, e voi siete di quelli, cercatealtro sangue da bere; che io non sono disposto a lasciar-mi succhiare il mio, come vi sono stato liberale43 di quelfinto, che vi ho messo nelle vene44. In somma, se vorretecontinuare a star quieti e in silenzio, come siete stati fi-nora, resteremo in buona concordia, e in casa mia non vimancherà niente; se no, avvertite ch’io piglio la stanga45

dell’uscio, e vi ammazzo tutti46.

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46 vi ammazzo tutti: fedele al ruolo che si è assunto, Ruysch fini-sce coll’enunciare una grottesca spacconata.

47 fantasia: «capriccio», «ghiribizzo» (che è lezione poi rifiutatada Leopardi).

48 anno… matematico: «L’anno grande e matematico era, secon-do gli antichi, un periodo di tempo dopo il quale i sette pianeti tor-navano ad avere tutti la stessa posizione che avevano avuta al prin-cipio del loro moto. Gli si attribuivano diverse durate, ma sempredi molte migliaia d’anni ordinari» (Porena).

49 E non solo noi... sentita: non si tratta di una «fantasia»; salen-do e allargandosi lo sguardo fino all’orizzonte indefinito e stermi-nato di tutti i morti, nelle parole del Morto ritorna l’evocazioneuniversale del Coro.

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MORTO. Non andare in collera; che io ti promettoche resteremo tutti morti come siamo, senza che tu ciammazzi.

RUYSCH. Dunque che è cotesta fantasia47 che vi è na-ta adesso, di cantare?

MORTO. Poco fa sulla mezza notte appunto, si ècompiuto per la prima volta quell’anno grande e mate-matico48, di cui gli antichi scrivono tante cose; e questasimilmente è la prima volta che i morti parlano. E nonsolo noi, ma in ogni cimitero, in ogni sepolcro, giù nelfondo del mare, sotto la neve o la rena, a cielo aperto, ein qualunque luogo si trovano, tutti i morti, sulla mezzanotte, hanno cantato come noi quella canzoncina chehai sentita49.

RUYSCH. E quanto dureranno a cantare o a parlare?MORTO. Di cantare hanno già finito. Di parlare han-

no facoltà per un quarto d’ora. Poi tornano in silenzioper insino a tanto che si compie di nuovo lo stesso anno.

RUYSCH. Se cotesto è vero, non credo che mi abbiatea rompere50 il sonno un’altra volta. Parlate pure insiemeliberamente; che io me ne starò qui da parte, e vi ascol-terò volentieri, per curiosità, senza disturbarvi.

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50 rompere: interrompere. 51 si accheta: ritorna quieto, silenzioso. 52 sollazzo: divertimento (cfr. invece Dialogo di Torquato Tasso e

del suo Genio familiare, r. 220). 53 Quando... dire: la curiosità di Ruysch corrisponde all’abituale

immaginazione del mondo dei morti come una sorta di continua-zione di quello dei vivi, del quale ripete in qualche forma passioni,morali, eventi, ecc. Il mondo dei morti di Leopardi è invece real-mente del tutto diverso, autonomo, senza vita: nelle «età vote e len-te» che i morti consumano non c’è nulla da dire.

54 Mille... mente: cfr. il primo amore, vv. 29-31, «oh come / Millenell’alma instabili, confusi / Pensieri si volgean!»; e Canto notturnodi un pastore errante dell’Asia, vv. 77-78, «Mille cose sai tu, millediscopri, / che son celate al semplice pastore».

55 datemi ad intendere: fatemi capire.56 Del punto... accorsi: cfr. Buffon (IV, p. 292): «Muor dunque la

maggior parte degli uomini senza saperlo». Da questo momentol’operetta svolge la sostanza concettuale che Leopardi era venutoelaborando sulla scorta della lettura di Buffon nei pensieri citatidello Zibaldone.

MORTO. Non possiamo parlare altrimenti, che ri-spondendo a qualche persona viva. Chi non ha da repli-care ai vivi, finita che ha la canzone, si accheta51.

RUYSCH. Mi dispiace veramente: perché m’immagi-no che sarebbe un gran sollazzo52 a sentire quello che vidireste fra voi, se poteste parlare insieme.

MORTO. Quando anche potessimo, non sentirestinulla; perché non avremmo che ci dire53.

RUYSCH. Mille domande da farvi mi vengono inmente54. Ma perché il tempo è corto, e non lascia luogoa scegliere, datemi ad intendere55 in ristretto, che senti-menti provaste di corpo e d’animo nel punto dellamorte.

MORTO. Del punto proprio della morte, io non mene accorsi56.

GLI ALTRI MORTI. Né anche noi.RUYSCH. Come non ve n’accorgeste?

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57 Verbigrazia: «A modo di esempio», come dice altrimenti Leo-pardi; ma la scelta dell’espressione latina rappresenta, nei tre casiin cui è usata nelle Operette morali, una caricatura del linguaggioaffettato e cerimonioso; qui con intento di riverenza ironica versoRuysch.

58 come... porre: vedi Zibaldone: «L’uomo non si avvede mai pre-cisamente del punto in cui egli si addormenta, per quanto vogliaproccurarlo» ecc.

59 E il morire… muoia: cfr. Buffon, IV, p. 265: «Tutto cangia nel-la Natura, tutto s’altera, tutto perisce».

60 poeta italiano: «Berni Orlando innamorato canto 53, stanza60», come annota Leopardi sull’autografo (parte II, XXIV, 60). Iversi del Berni sono riecheggiati anche in un’espressione ironicausata da Leopardi in una lettera alla sorella Paolina del 1° marzo1826 (da Bologna): «Io non sono mai stato a Firenze, ch’io me nesia accorto».

61 il sentimento della morte: il «sentire», il percepire la morte.

MORTO. Verbigrazia57, come tu non ti accorgi maidel momento che tu cominci a dormire, per quanta at-tenzione ci vogli porre58.

RUYSCH. Ma l’addormentarsi è cosa naturale.MORTO. E il morire non ti pare naturale? mostrami

un uomo, o una bestia, o una pianta, che non muoia59.RUYSCH. Non mi maraviglio più che andiate cantan-

do e parlando, se non vi accorgeste di morire.Così colui, del colpo non accorto,

Andava combattendo, ed era morto,dice un poeta italiano60. Io mi pensava che sopra questafaccenda della morte, i vostri pari ne sapessero qualchecosa più che i vivi. Ma dunque, tornando sul sodo, nonsentiste nessun dolore in punto di morte?

MORTO. Che dolore ha da essere quello del quale chilo prova, non se n’accorge?

RUYSCH. A ogni modo, tutti si persuadono che ilsentimento della morte61 sia dolorosissimo.

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62 il contrario: cioè una mancanza di sentimento, come il Mortospiega distesamente nella replica successiva. Cfr. in particolare ipassi dello Zibaldone (pp. 281 e seg., 2182, 2566) citati in Introdu-zione. La battuta del Morto è come un «a parte», che non inter-rompe la continuità del discorso di Ruysch (vedi l’inizio: «E tan-to...»).

63 tanto quelli… comune: cioè sia coloro che considerano «l’ani-ma come materiale», sia coloro che la considerano «come spiritua-le» (secondo lo schema già impostato nel pensiero dello Zibaldone,p. 281).

64 concorrono: vengono a essere d’accordo. 65 la morte… vivissimo: cfr. il passo di Zibaldone. p. 2566: «co-

me dunque credere che la morte rechi, e sia essa stessa, e non pos-sa non recare un dolor vivissimo?».

66 non più che interrotte: mentre nella morte cessano del tutto; lasostanza dell’argomentazione ricalca quanto detto nelle prime bat-tute della discussione (vedi r. 102 e seg.).

67 sincope: perdita di coscienza, improvvisa e non definitiva. 68 Oltre di ciò...: tutta questa porzione (fino a r. 143) riprende

quasi alla lettera la prima parte del pensiero dello Zibaldone, p.2566, citato in Introduzione, del quale mantiene identica la strut-

MORTO. Quasi che la morte fosse un sentimento, enon piuttosto il contrario62.

RUYSCH. E tanto quelli che intorno alla natura dell’a-nima si accostano col parere degli Epicurei, quantoquelli che tengono la sentenza comune63, tutti, o la piùparte, concorrono64 in quello ch’io dico; cioè nel crede-re che la morte sia per natura propria, e senza nessunacomparazione, un dolore vivissimo65.

MORTO. Or bene, tu domanderai da nostra parte agliuni e agli altri: se l’uomo non ha facoltà di avvedersi delpunto in cui le operazioni vitali, in maggiore o minorparte, gli restano non più che interrotte66, o per sonno oper letargo o per sincope67 o per qualunque causa; comesi avvedrà di quello in cui le medesime operazioni cessa-no del tutto, e non per poco spazio di tempo, ma in per-petuo? Oltre di ciò68, come può essere che un sentimen-

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tura (si veda la serie di interrogative; l’espressione Quando tutti isentimenti vitali… che diventa Quando la facoltà di sentire...).

69 abbia luogo: si trovi. 70 questo... sentire: è quanto nel Coro Leopardi indica con l’im-

magine della «natura ignuda».71 Vedete… dolorosi: vedi in Introduzione il passo di Zibaldone,

p. 2182, che corregge un’osservazione di Buffon (riprendendo unafrase dello Zibaldone, p. 291: «E ciò in qualunque malattia, anchenelle acutissime, nelle quali il Buffon pare che convenga che lamorte possa essere dolorosa»).

72 non… dolore: «non basta neanche a sentire più il dolore». 73 Epicurei: vedi r. 123. Non sfugge a Ruysch che identificare la

morte con l’«estinguersi della facoltà di sentire» è idea pienamentematerialista.

74 e farò... morti: si noti l’ironia da parte di Leopardi.

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to vivo abbia luogo69 nella morte? anzi, che la stessamorte sia per propria qualità un sentimento vivo?Quando la facoltà di sentire è, non solo debilitata e scar-sa, ma ridotta a cosa tanto minima, che ella manca e siannulla, credete voi che la persona sia capace di un sen-timento forte? anzi questo medesimo estinguersi dellafacoltà di sentire70, credete che debba essere un senti-mento grandissimo? Vedete pure che anche quelli chemuoiono di mali acuti e dolorosi71, in sull’appressarsidella morte, più o meno tempo avanti dello spirare, siquietano e si riposano in modo, che si può conoscereche la loro vita, ridotta a piccola quantità, non è più suf-ficiente al dolore72, sicché questo cessa prima di quella.Tanto dirai da parte nostra a chiunque si pensa di averea morir di dolore in punto di morte.

RUYSCH. Agli Epicurei73 forse potranno bastare co-teste ragioni. Ma non a quelli che giudicano altrimentidella sostanza dell’anima; come ho fatto io per lo passa-to, e farò da ora innanzi molto maggiormente, avendoudito parlare e cantare i morti74. Perché stimando che il

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75 Perché… corpo: l’anima essendo immortale, si deve separaredal corpo; si capisce insomma che la questione trattata da Buffontocca un punto delicato: negare il dolore della separazione potreb-be essere una negazione anche dell’immortalità dell’anima.

76 conglutinate: in allitterazione con congiunte. 77 una grandissima violenza… indicibile: è l’idea che Buffon

combatte (cfr. anche i passi da noi riportati nel Dialogo di TorquatoTasso e del suo Genio familiare, nota 50) e da cui si sviluppa la ri-flessione di Leopardi sull’argomento; travaglio è parola ricorrentenello Zibaldone, pp. 2182-2184.

78 Dimmi: per tutto il passo che segue vedi Buffon, IV, pp. 293-294 e Zibaldone, pp. 281-283.

79 non… luogo: «non vi ha più la sua sede» (cfr. la citazione del-la nota seguente).

80 strappi e sradichi: altra allitterazione. Le frasi dello Zibaldone(p. 282) sono qui particolarmente vicine: la morte è «un impedi-mento che le vieta di più rimanervi, posto il quale impedimento,l’anima parte da se, perché manca il come abitare il corpo, nonperchè una forza violenta ne la sradichi e rapisca» [corsivi del cura-tore], anche qui con un accenno di allitterazione.

morire consista in una separazione dell’anima dalcorpo75, non comprenderanno come queste due cose,congiunte e quasi conglutinate76 tra loro in modo, checonstituiscono l’una e l’altra una sola persona, si possa-no separare senza una grandissima violenza, e un trava-glio indicibile77.

MORTO. Dimmi78: lo spirito è forse appiccato al cor-po con qualche nervo, o con qualche muscolo o mem-brana, che di necessità si abbia a rompere quando lo spi-rito si parte? o forse è un membro del corpo, in modoche n’abbia a essere schiantato o reciso violentemente?Non vedi che l’anima in tanto esce di esso corpo, inquanto solo è impedita di rimanervi, e non v’ha più luo-go79; non già per nessuna forza che ne la strappi e sradi-chi80? Dimmi ancora: forse nell’entrarvi, ella vi si senteconficcare o allacciare gagliardamente, o come tu dici,

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81 come... conglutinare: il Morto, al posto dei termini più comuniusati prima (conficcare, allacciare), riprende quello «scientifico»adottato da Ruysch: vedi r. 158.

82 spiccarsi: contrario appunto di «appiccare» (vedi r. 162), co-me spiega il Vocabolario della Crusca.

83 veementissima: violentissima. 84 per fermo: per sicuro. 85 quiete, facili e molli: quiete e facili rispondono a grandissima

violenza e travaglio indicibile (rr. 160-161); molli contrasta con ladurezza espressa da appiccato, conficcare, allacciare.

86 Piuttosto piacere: Leopardi riprende ora le riflessioni dello Zi-baldone, p. 290 e seg.

87 per gradi: vedi ancora Buffon, op. cit., IV, pp. 290-291. 88 secondo... morte: come Leopardi spiega nello Zibaldone, p.

2184 (citato in Introduzione). 89 perchè.. viva: per tutto quest’ordine di considerazioni vedi la

seconda parte del pensiero dello Zibaldone, pp. 2566-2567.

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conglutinare81? Perché dunque sentirà spiccarsi82 all’u-scirne, o vogliamo dire proverà una sensazione veemen-tissima83? Abbi per fermo84, che l’entrata e l’uscita del-l’anima sono parimente quiete, facili e molli85.

RUYSCH. Dunque che cosa è la morte, se non è dolo-re?

MORTO. Piuttosto piacere86 che altro. Sappi che ilmorire, come l’addormentarsi, non si fa in un solo istan-te, ma per gradi87. Vero è che questi gradi sono più omeno, e maggiori o minori, secondo la varietà delle cau-se e dei generi della morte88. Nell’ultimo di tali istanti lamorte non reca né dolore né piacere alcuno, come néanche il sonno. Negli altri precedenti non può generaredolore: perché il dolore è cosa viva89, e i sensi dell’uomoin quel tempo, cioè cominciata che è la morte, sono mo-ribondi, che è quanto dire estremamente attenuati diforze. Può bene esser causa di piacere: perché il piacere

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90 la maggior... consistono: «Concordanza ad sensum» (Contini). 91 perché... medesima: come Leopardi ripete infatti più volte a

partire della «teoria del piacere» (vedi Zibaldone, p. 172, e almenoanche p. 1779); cfr. infatti Zibaldone, p. 290: «Che il torpore sia di-lettevole l’ho notato già in questi pensieri nella teoria del piacere, eassegnatane la ragione».

92 Sicché... patimento: cfr. sempre Zibaldone, p. 291: «E però ge-neralmente e sempre, il torpore della morte dev’essere più grato diquello del sonno, perchè succede a molto maggior travaglio».

93 Per me: è il segnale, come sappiamo (vedi La scommessa diPrometeo, nota 78), del momento in cui Leopardi fa aderire stretta-mente la dichiarazione del personaggio a un suo punto di vista piùindividualmente personale; esattamente come accade infatti nelpensiero dello Zibaldone, pp. 290-292, in cui l’autore interviene inprima persona. Qui inoltre il Per me è messo in evidenza, perché,creando un anacoluto, è anticipato, e ripreso, dopo il lungo incisocon il mi, all’inizio della principale (e anche nell’inciso si notino lesottolineature, sia pure per ragioni narrative, «quel che io sentiva»,«mi era proibito»).

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non sempre è cosa viva; anzi forse la maggior parte deidiletti umani consistono90 in qualche sorta di languidez-za. Di modo che i sensi dell’uomo sono capaci di piacereanche presso all’estinguersi; atteso che spessissime voltela stessa languidezza è piacere; massime quando vi liberada patimento; poiché ben sai che la cessazione di qua-lunque dolore o disagio, è piacere per se medesima91.Sicché il languore della morte debbe esser più grato se-condo che libera l’uomo da maggior patimento92. Perme93, se bene nell’ora della morte non posi molta atten-zione a quel che io sentiva, perché mi era proibito daimedici di affaticare il cervello, mi ricordo però che ilsenso che provai, non fu molto dissimile dal diletto cheè cagionato agli uomini dal languore del sonno, nel tem-po che si vengono addormentando.

GLI ALTRI MORTI. Anche a noi pare di ricordarci al-trettanto.

RUYSCH. Sia come voi dite: benché tutti quelli coi

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94 ma... propria: in chiusura dell’operetta ritorna il registro co-mico caratteristico del personaggio Ruysch; si noti l’ironia unpo’ottusa dell’espressione «mentre sentivate quella dolcezza» (e an-che di «che quel diletto fosse una cortesia della morte»), con cuiRuysch sintetizza rozzamente e senza crederci sul serio le definizio-ni ben altrimenti raffinate del Morto (che parla di piacere, di lan-guore).

95 Finché... muoiono: cfr. Zibaldone, p. 291: «Quanto alle malat-tie dove l’uomo si estingue appoco appoco, e con piena conoscen-za fino all’ultimo, è certo che non v’è momento così immediata-mente vicino alla morte, dove l’uomo, anche il meno illuso non siprometta un’ora almeno di vita, come si dice de’vecchi ec. E così lamorte non è mai troppo vicina al pensiero del moribondo per lasolita misericordia della natura»; e Buffon IV, p. 292, citato in In-troduzione: «Muor dunque la maggior parte degli uomini senza sa-perlo» ecc.

96 Cicerone: nota di leopardi: «(42) De Senect., cap. 7.» Leopar-di si riferisce a un passo che aveva appuntato sullo Zibaldone (p.599): «Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet posse vi-vere», collegandolo già allora alle riflessioni della p. 290 e seg.

97 in ultimo: alla fine.

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quali ho avuta occasione di ragionare sopra questa ma-teria, giudicavano molto diversamente: ma, che io mi ri-cordi, non allegavano la loro esperienza propria94. Oraditemi: nel tempo della morte, mentre sentivate quelladolcezza, vi credeste di morire, e che quel diletto fosseuna cortesia della morte; o pure immaginaste qualche al-tra cosa?

MORTO. Finché non fui morto, non mi persuasi maidi non avere a scampare di quel pericolo; e se non altro,fino all’ultimo punto che ebbi facoltà di pensare, speraiche mi avanzasse di vita un’ora o due: come stimo chesucceda a molti, quando muoiono95.

GLI ALTRI MORTI. A noi successe il medesimo.RUYSCH. Così Cicerone96 dice che nessuno è talmen-

te decrepito, che non si prometta di vivere almanco unanno. Ma come vi accorgeste in ultimo97, che lo spirito

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98 Non rispondono: come è accaduto all’Islandese, un eventoesterno impedisce la risposta alla domanda più problematica. Siveda in Introduzione quanto Leopardi aveva scritto alla fine delpensiero più volte citato dello Zibaldone, pp. 290-293, sul proble-ma del momento «non sensibile, nè conoscibile, nè ricordabile»del passaggio alla morte, «il quale – concludeva – pare che debbaessere istantaneo, giacché il passaggio dal conoscere al non cono-scere, dall’essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma alnulla, non ammette gradazione, ma si fa necessariamente per saltoe istantaneamente». Ma dopo il Dialogo della Natura e di un Islan-dese il problema si è posto per Leopardi in modo del tutto diverso,e alla questione i morti hanno in realtà già risposto, non razional-mente, poiché sarebbe impossibile, ma poeticamente: con l’evoca-zione nel Coro del loro stato, altrimenti indicibile, di esistenza delnon-essere.

99 Figliuoli: Ruysch ha iniziato il dialogo con lo stesso vocativo(r. 47).

100 Tastiamogli... letto: l’aria di commedia riavvolge l’eventostraordinario negli atti più quotidiani.

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era uscito del corpo? Dite: come conosceste di esseremorti? Non rispondono98. Figliuoli99, non m’intendete?Sarà passato il quarto d’ora. Tastiamogli un poco. Sonorimorti ben bene: non è pericolo che mi abbiano da farpaura un’altra volta: torniamocene a letto100.

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1 cielo: nota di leopardi: «(54) Vedi, tra gli altri, il Buxtorf,Lexic. Caldaic. Talmud. et Rabbin. col. 2653 et seq.» Si tratta delLexicon Chaldaicum Talmudicum et Rahbinicum, Basilea, «Sumpti-bus et Typis Ludovicis Regis», 1639. Alla voce citata Leopardi tro-vava riportati tra gli altri questi passi: «Gallus sylvestris, cujus pe-des consistunt in terra, et caput ejus pertingit in caelum usque,cantai coram me, Psal. 50, v. 11»; «Gallo sylvestri intellegentia estad laudandum me, Job 38. 36»; dai quali derivano i tratti della rap-presentazione del Gallo nell’operetta. Mentre i commentatori ri-portano le citazioni come se provenissero direttamente dai passibiblici indicati, ha giustamente notato Sanesi che non corrispondo-no affatto, e che anzi in tutto il Vecchio Testamento non si trova al-cun riferimento specifico a tale «gallo silvestre» in Job 38. 36 si leg-ge in effetti: «quis posuit in visceribus hominis sapientiam vel quisdedit gallo intelligentiam»); le frasi appartengono invece a qualchetargum, cioè parafrasi amplificata della Bibbia, e come tale difattile riporta il Buxtorf, ispirando in questo modo l’immaginazioneleopardiana.

2 ha uso di ragione: cfr. il passo targumico sopra riportatosull’«intelligenza» del Gallo.

3 come un pappagallo: è la spia più significativa di un trattamen-to ironico della materia.

4 a guisa degli: come gli. 5 perocchè: poiché. 6 cartapecora: o pergamena.

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CANTICO DEL GALLO SILVESTRE

Affermano alcuni maestri e scrittori ebrei, che tra ilcielo e la terra, o vogliamo dire mezzo nell’uno e mezzonell’altra, vive un certo gallo salvatico; il quale sta in sul-la terra coi piedi, e tocca colla cresta e col becco il cielo1.

Questo gallo gigante, oltre a varie particolarità chedi lui si possono leggere negli autori predetti, ha uso diragione2; o certo, come un pappagallo3, è stato ammae-strato, non so da chi, a profferir parole a guisa degli4 uo-mini: perocché5 si è trovato in una cartapecora6 antica,

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7 in lettera ebraica: cioè secondo l’alfabeto ebraico. 8 in lingua... talmudica: «Il caldeo è l’aramaico [la lingua semiti-

ca parlata all’epoca di Gesù in tutta l’area tra Palestina e Mesopo-tamia]; il targumico è la lingua dei targu-mi-m, «traduzioni» (per ec-cellenza quelle della Bibbia in aramaico); il rabbinico è ilneo-ebraico usato dai rabbini (comparabile al latino scolastico); ca-balistica è la lingua (ebraica) della Qa-bbala-h, l’insieme dei testiesoterici; il talmudico ? la lingua, prevalentemente aramaica, delTalmu-d, corpo di scritture soprattutto giuridiche» (Contini). Leo-pardi gioca sull’effetto comico prodotto dall’elenco di lingue dainomi esotici (e un altro catalogo è subito dopo: «più d’un rabbino,cabalista, teologo, giuriconsulto e filosofo ebreo»). Cfr. Paralipo-meni della Batracomiomachia, VIII, vv. 42-43: «Perchè se ben le an-tiche pergamene, / Dietro le quali ho fino a qui condotta / La sto-ria mia, qui mancano, e se bene / Per tal modo la via m’erainterrotta, / La leggenda che in quella si contiene / Altrove in qualsi fosse lingua dotta / Sperai compiuta ritrovar: ma vòto / Ritor-nommi il pensiero e contro il voto. // Questa in lingua sanscrita etibetana, / Indostanica, pahli e giapponese, / Arabica, rabbinica,persiana, / Etiopica, tartara e cinese, / Siriaca, caldaica, egiziana, /Mesogotica, sassone e gallese, / Finnica, serviana e dalmatina, / Va-lacca, provenzal, greca e latina, // Celata in molte biblioteche emolte / di levante si trova e di ponente».

9 Scir... letzafra: è, come spiega Contini, un montaggio di «cita-zioni targumiche»: de-tarn e gôl ba-r-? «del gallo del bosco», le-sapr-â«al mattino»; a si-r corrisponde «cantico».

10 ritrarre: dedurre, capire.

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scritto in lettera ebraica7, e in lingua tra caldea, targumi-ca, rabbinica, cabalistica e talmudica8, un cantico intito-lato, Scir detarnegòl bara letzafra9, cioè Cantico mattuti-no del gallo silvestre: il quale, non senza fatica grande, nésenza interrogare più d’un rabbino, cabalista, teologo,giurisconsulto e filosofo ebreo, sono venuto a capo d’in-tendere, e di ridurre in volgare come qui appresso si ve-de. Non ho potuto per ancora ritrarre10 se questo Canti-co si ripeta dal gallo di tempo in tempo, ovvero tutte lemattine; o fosse cantato una volta sola; e chi l’oda canta-re, o chi l’abbia udito; e se la detta lingua sia proprio lalingua del gallo, o che il Cantico vi fosse recato da qual-

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11 Lo stile… gonfio: sono i fatti principali con cui veniva identifi-cato lo stile dei testi biblici che Leopardi ha in particolare presentinella sua imitazione (Salmi e Cantico dei cantici) e in cui si riassu-mevano genericamente le caratteristiche della poesia cosiddetta«orientale». Interrotto riguarda la costruzione del discorso per fra-si brevi e giustapposte, secondo la sintassi della lingua ebraica, chenon conosce quasi ipotassi; cfr. Zibaldone, p. 2615, dove Leopardiparla dello scrivere «spezzato, come si vede ne’ libri poetici e sa-pienziali della scrittura», e spiega: «La lingua ebraica manca quasiaffatto di congiunzioni d’ogni sorta e non può a meno di passar daun periodo all’altro senza legame, se pure vuoi servire alla varietà,perché altrimenti tutti i suoi periodi comincerebbero, come moltis-simi cominciano, dall’uau» (che è la congiunzione elementare e po-livalente dell’ebraico). Lo stile gonfio consiste in una ridondanzadelle immagini e delle espressioni, in particolare per un’esuberanzadi immagini figurate.

12 massime: soprattutto. 13 Su... destatevi: è il richiamo del gallo, ripetuto a metà canto,

che suona come la sveglia dei prigionieri, dei mortali condannati avivere: ripigliatevi la soma, il peso, della vita; così che implicita-mente, per contrapposizione, risulta più dolce il mondo falso, delleimmagini vane sognate, che quello non gradito del vero.

14 ricorre: ripercorre.

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che altra. Quanto si è al volgarizzamento infrascritto;per farlo più fedele che si potesse (del che mi sono an-che sforzato in ogni altro modo), mi è paruto di usare laprosa piuttosto che il verso, se bene in cosa poetica. Lostile interrotto, e forse qualche volta gonfio11, non midovrà essere imputato; essendo conforme a quello deltesto originale: il qual testo corrisponde in questa parteall’uso delle lingue, e massime12 dei poeti, d’oriente.

Su, mortali, destatevi13. Il dì rinasce: torna la veritàin sulla terra, e partonsene le immagini vane. Sorgete; ri-pigliatevi la soma della vita; riducetevi dal mondo falsonel vero.

Ciascuno in questo tempo raccoglie e ricorre14 col-l’animo tutti i pensieri della sua vita presente; richiama

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15 i disegni, gli studi e i negozi: i progetti, gli impegni e le attività. 16 si propone: si mette davanti. 17 a tutti: si noti: E ciascuno... Ma pochi... a tutti. 18 vigilia: il periodo in cui si è svegli; letizia e speranza si manten-

gono finché non torna la verità. 19 in questa: nella vigilia. 20 Se il sonno dei mortali fosse perpetuo...: per questa ricorrente

immaginazione leopardiana Fubini ha citato La vita solitaria, vv.26-38: «Ivi, quando il meriggio in ciel si volve, / La sua tranquillaimago il Sol dipinge, / Ed erba o foglia non si crolla al vento, / Enon onda incresparsi, e non cicala / Strider, nè batter penna augel-lo in ramo, / Nè farfalla ronzar, nè voce o moto / Da presso nè dalunge odi nè vedi. / Tien quelle rive altissima quiete: / Ond’io qua-si me stesso e il mondo obblio / Sedendo immoto; e già mi par chesciolte / Giaccian le membra mie, nè spirto o senso / Più le com-muova, e lor quiete antica / Co’ silenzi del loco si confonda»; espontaneo è il ricordo de L’infinito (con la «profondissima quiete»del v. 6). Ma questa specie di nuova variante funebre corrispondeall’immaginazione di uno stato di minimo vitale che presiede al«Coro dei morti» nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mum-mie; il sonno perpetuo, la profondissima quiete corrispondono ap-punto alla profonda notte in cui iena mancar si sente; così qui nonvoce, non moto alcuno, come là i morti sono immobili e non parla-no; e languendo richiama precisamente il «languore della morte».Questo «sonno perpetuo» anticipa infatti la metafora sonno=mor-te, esplicita nella «stanza» successiva.

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alla memoria i disegni, gli studi e i negozi15; si propone16

i diletti e gli affanni che gli sieno per intervenire nellospazio del giorno nuovo. E ciascuno in questo tempo èpiù desideroso che mai, di ritrovar pure nella sua menteaspettative gioconde, e pensieri dolci. Ma pochi sonosoddisfatti di questo desiderio: a tutti17 il risvegliarsi èdanno. Il misero non è prima desto, che egli ritorna nel-le mani dell’infelicità sua. Dolcissima cosa è quel sonno,a conciliare il quale concorse o letizia o speranza. L’unae l’altra insino alla vigilia18 del dì seguente, conservasiintera e salva; ma in questa19, o manca o declina.

Se il sonno dei mortali fosse perpetuo20, ed una cosa

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21 astro diurno: il sole. 22 opera: attività. 23 banda: parte. 24 certo… inutile: al quadro della profondissima quiete lenta-

mente evocato e assaporato nella protasi, si oppone bruscamente laconclusione dell’apodosi.

25 copia: quantità. 26 ma, forse... trova?: domande retoriche; è nella vigilia, nella vi-

ta attiva che si trovano infelicità e miseria. 27 o sole: che sta sorgendo. 28 autore... vigilia: una delle più artificiose tra le espressioni me-

taforiche con cui Leopardi imita lo «stile gonfio»; preside vale «chepresiede, a capo».

29 un solo: nella contrapposizione tra un solo e lo spazio dei seco-li sta l’efficacia della domanda; così appena dopo,innumerabili/pur una.

30 beato: al solito significa «felice».

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medesima colla vita; se sotto l’astro diurno21, languendoper la terra in profondissima quiete tutti i viventi, nonapparisse opera22 alcuna; non muggito di buoi per liprati, né strepito di fiere per le foreste, né canto di uc-celli per l’aria, né sussurro d’api o di farfalle scorresseper la campagna; non voce, non moto alcuno, se nondelle acque, del vento e delle tempeste, sorgesse in alcu-na banda23; certo l’universo sarebbe inutile24; ma forseche vi si troverebbe o copia25 minore di felicità, o più dimiseria, che oggi non vi si trova26? Io dimando a te, o so-le27, autore del giorno e preside della vigilia28: nello spa-zio dei secoli da te distinti e consumati fin qui sorgendoe cadendo, vedesti tu alcuna volta un solo29 infra i viven-ti essere beato30? Delle opere innumerabili dei mortalida te vedute finora, pensi tu che pur una ottenesse l’in-tento suo, che fu la soddisfazione, o durevole o transito-ria, di quella creatura che la produsse? Anzi vedi tu di

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31 illustrano: illuminano. 32 imo: intimo (che è variante scartata da Leopardi).33 cosa animata: animale. 34 quai... animali: per dire qualunque «cosa creata». 35 quasi un gigante: una nota dell’autografo rinvia al Salmo 18, 7:

«Exultavit ut gigas ad currendam viam suam». 36 infelice: nota di leopardi: «(55) Come un buon numero di

Gentili e di Cristiani antichi, molti anco degli Ebrei (tra’ quali Filo-ne di Alessandria, e il rabbino Mosè Maimonide) furono di opinio-ne che il sole, e similmente i pianeti e le stelle, avessero anima e vi-ta. Veggasi il Gassendi, Physic. sect. 2, lib. 2, cap. 5; e il Petau,Theologic. dogm. de sex. dier. opific. lib. 1, cap. 12, § 5 et seqq.» Lanota riprende osservazioni e riferimenti già svolti da Leopardi nelSaggio sopra gli errori popolari degli antichi, cap. X (Le poesie e leprose, op. cit., II, pp. 326-327), dove anche è citato il versetto delsalmo richiamato nella nota precedente.

37 Mortali, destatevi: cfr. r. 23. Ma ora il richiamo torna dopo ladimostrazione della mancanza di felicità e dell’insensatezza del ri-sveglio per tutti i viventi (e per tutte le cose).

38 liberi dalla vita: cfr. il «Coro di morti» nel Dialogo di FedericoRuysch e delle sue mummie, vv. 5-6: «sicura / Dall’antico dolor».

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presente o vedesti mai la felicità dentro ai confini delmondo? in qual campo soggiorna, in qual bosco, in qualmontagna, in qual valle, in qual paese abitato o deserto,in qual pianeta dei tanti che le tue fiamme illustrano31 escaldano? Forse si nasconde dal tuo cospetto, e siedenell’imo32 delle spelonche, o nel profondo della terra odel mare? Qual cosa animata33 ne partecipa; qual piantao che altro che tu vivifichi; qual creatura provveduta osfornita di virtù vegetative o animali34? E tu medesimo,tu che quasi un gigante35 instancabile, velocemente, dì enotte, senza sonno né requie, corri lo smisurato cammi-no che ti è prescritto; sei tu beato o infelice36?

Mortali, destatevi37. Non siete ancora liberi dalla vi-ta38. Verrà tempo, che niuna forza di fuori, niuno intrin-

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39 sempre e insaziabilmente riposerete: «sempre e insaziabilmen-te» è una dittologia sinonimica resa particolarmente efficace dalcontrasto tra «insazabilmente» e «riposerete»: è un riposo che simuove continuamente perché ricerca un riposo sempre maggiore.

40 Perocchè... frequentemente: cfr., benché all’interno di una ri-flessione sul piacere generato dalla «varietà», il pensiero di Zibal-done, pp. 193-194 (del luglio 1820): «Gran magistero della naturafu quello d’interrompere, per modo di dire la vita col sonno. Que-sta interruzione è quasi una rinnovazione, e il risvegliarsi come unrinascimento. Infatti anche la giornata ha la sua gioventù ec.: vedip. 151 [è il passo qui citato alla nota 48, n.d.c.]. Oltre alla gran va-rietà che nasce da questi continui interrompimenti, che fanno diuna vita sola come tante vite. E lo staccare una giornata dall’altra èun sommo rimedio contro la monotonia dell’esistenza. Nè questasi poteva diversificare e variare maggiormente, che componendolain gran parte quasi del suo contrario, cioè di una specie di morte».

41 Troppo lungo difetto: «una mancanza troppo lunga». Si notil’opposizione a chiasmo «lungo difetto – sonno breve».

42 portarla: cfr. l’inizio del Cantico: «ripigliatevi la soma della vi-ta»; e si ricordi anche l’immagine del «vecchierel» «con gravissimofascio in su le spalle» del Canto notturno di un pastore errante del-l’Asia (vedi nota 47).

43 Pare... morire: vedi il «Coro dei morti» del Dialogo di FedericoRuysch e delle sue mummie, in particolare l’inizio: «Sola nel mondoeterna, a cui si volve / Ogni creata cosa, / In te, morte, si posa /

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seco movimento, vi riscoterà dalla quiete del sonno; main quella sempre e insaziabilmente riposerete39. Per oranon vi è concessa la morte: solo di tratto in tratto vi èconsentita per qualche spazio di tempo una somiglianzadi quella. Perocché la vita non si potrebbe conservare seella non fosse interrotta frequentemente40. Troppo lun-go difetto41 di questo sonno breve e caduco, è male perse mortifero, e cagione di sonno eterno. Tal cosa è la vi-ta, che a portarla42, fa di bisogno ad ora ad ora, depo-nendola, ripigliare un poco di lena, e ristorarsi con ungusto e quasi una particella di morte.

Pare che l’essere delle cose abbia per suo proprio edunico obbietto il morire43. Non potendo morire quel

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Nostra ignuda natura». E la contraddizione, l’«orribile misterodelle cose e dell’esistenza universale» (Zibaldone, p. 4099), qualeper Leopardi risulta definito a partire dal Dialogo della Natura e diun islandese, dal quale prende spunto il pensiero citato, che cosìspiega: «L’essere effettivamente, e il non potere in alcun modo es-ser felice, e ciò per impotenza innata e inseparabile dall’esistenza,anzi pure il non poter non essere infelice, sono due verità tantoben dimostrate e certe intorno all’uomo e ad ogni vivente, quantopossa esserlo verità alcuna secondo i nostri principii e la nostraesperienza. Or l’essere, unito all’infelicità, ed unitovi necessaria-mente e per propria essenza, è cosa contraria dirittamente a se stes-sa, alla perfezione e al fine proprio che è la sola felicità, dannoso ase stesso e suo proprio inimico. Dunque l’essere dei viventi è incontraddizione naturale essenziale e necessaria con se medesimo.La qual contraddizione apparisce ancora nella essenziale imperfe-zione dell’esistenza (imperfezione dimostrata dalla necessità di es-sere infelice, e compresa in lei); cioè nell’essere, ed essere per ne-cessità imperfettamente, cioè con esistenza non vera e non propria.Di più che una tale essenza comprenda in se una necessaria cagio-ne e principio di essere malamente, come può stare, se il male persua natura è contrario all’essenza rispettiva delle cose e perciò soloè male? Se l’essere infelicemente non è essere malamente, l’infeli-cità non sarà dunque un male a chi la soffre nè contraria e nemicaal suo subbietto, anzi gli sarà un bene poichè tutto quello che sicontiene nella propria essenza e natura di un ente dev’essere unbene per quell’ente. Chi può comprendere queste mostruosità? In-tanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa. E però, secondo tut-ti i principii della ragione ed esperienza nostra, è meglio assoluto aiviventi il non essere che l’essere. Ma questo ancora come si puòcomprendere? che il nulla e ciò che non è, sia meglio di qualchecosa?» (Zibaldone, p. 4099, 2 giugno 1824; corsivo del curatore).

44 Non... sono: l’unico senso dell’essere è tornare nel non-essere. 45 Certo: in confronto al Pare di prima; cfr., nel passo citato del-

lo Zibaldone: «Intanto l’infelicità […] è certa». 46 Vero... ottengono: cfr. rr. 61-64.

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che non era, perciò dal nulla scaturirono le cose che so-no44. Certo45 l’ultima causa dell’essere non è la felicità;perocché niuna cosa è felice. Vero è che le creature ani-mate si propongono questo fine in ciascuna opera loro;ma da niuna l’ottengono46: e in tutta la loro vita, inge-gnandosi, adoperandosi e penando sempre, non patisco-

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47 e in tutta... morte: da qui l’idea, che, passando per un abbozzoin prosa nello Zibaldone, pp. 4162-4163, sarà svolta nel Canto not-turno di un pastore errante dell’Asia, vv. 21-38: «Vecchierel bianco,infermo, / Mezzo vestito e scalzo, / Con gravissimo fascio in su lespalle, / Per montagna e per valle, / Per sassi acuti, ed alta rena, efratte, / Al vento, alla tempesta, e quando avvampa / L’ora, e quan-do poi gela, / Corre via, corre, anela, / Varca torrenti e stagni, / Ca-de, risorge, e più e più s’affretta, / Senza posa o ristoro, / Lacero,sanguinoso; infin ch’arriva / Colà dove la via / E dove il tanto affa-ticar fu volto: / Abisso orrido, immenso, / Ov’ei precipitando, iltutto obblia. / Vergine luna, tale / È la vita mortale». Vedi anchepiù avanti, rr. 135-136.

48 comportabile: «tollerabile». Vedi Zibaldone, pp. 151-152 (4luglio 1820): «Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato colriposo, parte per la dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parteper una certa rinnuovazione della vita, cagionata da quella specied’interrompimento datole, tu ti senti ordinariamente o più lieto omeno tristo, di quando ti coricasti. Nella mia vita infelicissima l’orameno trista è quella del levarmi. Le speranze e le illusioni ripiglia-no per pochi momenti un certo corpo, ed io chiamo quell’ora lagioventù della giornata per questa similitudine che ha con la gio-ventù della vita. E anche riguardo alla stessa giornata, si suol sem-pre sperare di passarla meglio della precedente. E la sera che ti tro-vi fallito di questa speranza e disingannato, si può chiamare lavecchiezza della giornata».

49 eziandio senza materia: anche senza argomenti.

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no veramente per altro, e non si affaticano, se non pergiungere a questo solo intento della natura, che è lamorte47.

A ogni modo, il primo tempo del giorno suol essereai viventi il più comportabile48. Pochi in sullo svegliarsiritrovano nella loro mente pensieri dilettosi e lieti; maquasi tutti se ne producono e formano di presente: pe-rocché gli animi in quell’ora, eziandio senza materia49 al-cuna speciale e determinata, inclinano sopra tutto allagiocondità, o sono disposti più che negli altri tempi allapazienza dei mali. Onde se alcuno, quando fu soprag-giunto dal sonno, trovavasi occupato dalla disperazione;destandosi, accetta novamente nell’animo la speranza,

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50 immaginazioni vane: come sogni (vedi r. 24). 51 La sera... : vedi il passo dello Zibaldone, alla nota 48, da cui

deriva tutta questa immagine. 52 confidente: «fiducioso»; cfr. Le ricordanze, vv. 154-156:

«splendea negli occhi / Quel confidente immaginar, quel lume / Digioventù».

53 provetta: avanzata (cfr. Storia del genere umano, nota 33). 54 Il fior... misera: riprende la conclusione della «stanza» prece-

dente. Per la metafora «fior degli anni», usata unicamente qui nelleOperette morali, cfr. A Silvia, vv. 42-43, «E non vedevi / Il fior deglianni tuoi»: «È un modo di dire affatto comune; ma che tale, senzamai del resto divenir popolare, fu reso dall’uso poetico e perciò haancora presso il Petrarca qualcosa di peregrino che il Leopardi glisa stupendamente serbare nella classicità del suo contesto» (DeLollis, Petrarchismo leopardiano, p. 200).

55 declinazione: l’avviarsi alla fine. 56 nè: «e nemmeno». Si noti la struttura sintattica: alle due reg-

genti «appena ne ha sperimentato» e «non [ha] potuto sentire e

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quantunque ella in niun modo se gli convenga. Moltiinfortuni e travagli propri, molte cause di timore e di af-fanno, paiono in quel tempo minori assai, che non par-vero la sera innanzi. Spesso ancora, le angosce del dìpassato sono volte in dispregio, e quasi per poco in riso,come effetto di errori, e d’immaginazioni vane50. La se-ra51 è comparabile alla vecchiaia; per lo contrario, ilprincipio del mattino somiglia alla giovanezza: questoper lo più racconsolato e confidente52; la sera trista, sco-raggiata e inchinevole a sperar male. Ma come la gio-ventù della vita intera, così quella che i mortali provanoin ciascun giorno, è brevissima e fuggitiva; e prestamen-te anche il dì si riduce per loro in età provetta53.

Il fior degli anni, se bene è il meglio della vita, è cosapur misera54. Non per tanto, anche questo povero benemanca in sì piccolo tempo, che quando il vivente a piùsegni si avvede della declinazione55 del proprio essere,appena ne ha sperimentato la perfezione, nè56 potuto

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conoscere», coordinate tra loro dal nè (= «e non»), si legano a chia-smo le due dipendenti quando... si avvede e che già scemano. Per ilpasso cfr. il pensiero dello Zibaldone in cui Leopardi riporta (daDiogene Laerzio) le ultime parole del filosofo Teofrasto (oggettopoi della Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofra-sto vicini a morte): «Ma non così tosto comincia a vivere che lamorte gli sopravviene» (Zibaldone, p. 316).

57 Non per tanto... scemano: cfr. Dialogo della Natura e di unIslandese, r. 188 e seg. Vedi la successiva e importante riflessionedello Zibaldone, p. 4127 e seg. (5-6 aprile 1825), dove riprende iltema della «contraddizione spaventevole» rappresentata dal fattoche «la natura, la esistenza non ha in niun modo per fine il piacerenè la felicità degli animali», e in cui si legge tra l’altro: «Poichè da-to ancora, che è falsissimo, che la propria conservazione sia l’og-getto immediato e necessario della natura dell’animale, certo essanon lo è della natura universale […]. Anzi il fine della natura uni-versale è la vita dell’universo, la quale consiste ugualmente in pro-duzione, conservazione e distruzione dei suoi componenti, e quin-di la distruzione di ogni animale entra nel fine della detta naturaalmen tanto quanto la conservazione di esso, ma anche assai piùche la conservazione, in quanto si vede che sono più assai quellecose che cospirano alla distruzione di ciascun animale che nonquelle che favoriscono la sua conservazione; in quanto naturalmen-te nella vita dell’animale occupa maggior spazio la declinazione econsumazione ossia invecchiamento (il quale incomincia nell’uo-mo anche prima dei trent’anni) che tutte le altre età insieme (vediDialogo della natura e di un Islandese, e Cantico del gallo silvestre),[...]; in quanto finalmente lo spazio della conservazione cioè duratadi un animale è un nulla rispetto all’eternità del suo non essere,cioè della conseguenza e quasi durata della sua distruzione»; rifles-sione che riprende precisamente il tema di questo Cantico del gallosilvestre.

58 Tanto… morte: ripete, in altro modo, quanto già affermatoprima (rr. 90-91).

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sentire e conoscere pienamente le sue proprie forze, chegià scemano57. In qualunque genere di creature mortali,la massima parte del vivere è un appassire. Tanto in ogniopera sua la natura è intenta e indirizzata alla morte58:poiché non per altra cagione la vecchiezza prevale sì ma-nifestamente, e di sì gran lunga, nella vita e nel mondo.Ogni parte dell’universo si affretta infaticabilmente alla

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59 Ogni parte... mirabile: cfr. rr. 72-75; mirabile: «stupefacente». 60 verno: inverno. 61 Solo l’universo... ringiovanisce: sullo stesso confronto si baserà

l’ultima strofa de Il tramonto della luna. 62 Ma siccome...: si noti il ripetersi della struttura sintattica di Ma

come... (r. 120), per riproporre un’analoga similitudine. 63 finalmente: alla fine. 64 E nel modo… alcuna: cfr. La sera del dì di festa. v. 28 e seg.: «E

fieramente mi si stringe il core, / A pensar come tutto al mondopassa, / E quasi orma non lascia. Ecco è fuggito / Il dì festivo, ed alfestivo il giorno / Volgar succede, e se ne porta il tempo / Ogniumano accidente. Or dov’è il suono / Di que’ popoli antichi? ordov’è il grido / De’ nostri avi famosi, e il grande impero / Di quellaRoma, e l’armi, e il fragorio / Che n’andò per la terra e l’oceano? /Tutto è pace e silenzio, e tutto posa / Il mondo, e più di lor non siragiona» (e prima cfr. anche Ricordi d’infanzia e d’adolescenza, inLe poesie e le prose, op. cit., I, p. 676, e Zibaldone, pp. 50-51).

65 vestigio: resto.

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morte, con sollecitudine e celerità mirabile59. Solo l’uni-verso medesimo apparisce immune dallo scadere e lan-guire: perocché se nell’autunno e nel verno60 si dimostraquasi infermo e vecchio, nondimeno sempre alla stagio-ne nuova ringiovanisce61. Ma siccome62 i mortali, se be-ne in sul primo tempo di ciascun giorno racquistano al-cuna parte di giovanezza, pure invecchiano tutto dì, efinalmente63 si estinguono; così l’universo, benché nelprincipio degli anni ringiovanisca, nondimeno continua-mente invecchia. Tempo verrà, che esso universo, e lanatura medesima, sarà spenta. E nel modo che di gran-dissimi regni ed imperi umani, e loro maravigliosi moti,che furono famosissimi in altre età, non resta oggi segnoné fama alcuna64; parimente del mondo intero, e delleinfinite vicende e calamità delle cose create, non rimarràpure un vestigio65; ma un silenzio nudo, e una quiete al-

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66 ma... immenso: come rivela il tornare degli stessi «segnali del-l’infinito» (silenzio, quiete altissima, spazio immenso), dopo quelladella profondissima quiete (r. 49), è questa un’ulteriore variazionedell’immaginazione che ha generato L’infinito; si ripete qui in par-ticolare il senso di indefinito che nasce per contrasto con lo scorre-re del tempo e le stagioni umane. Risuona però un segnale nuovo,estraneo al sistema de L’infinito: è l’aggettivo nudo, che è parolaanti-evocativa e che riecheggia la nostra ignuda natura del «Corodei morti» (nel Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie).

67 questo arcano… universale: cfr. nota 43. L’insensatezza dell’e-sistere è confermata dal fatto che nessun senso sarà trovato primache l’essere sparisca. Mirabile e spaventoso: «che non può che pro-vocare sorpresa e spavento».

68 dichiarato: spiegato apertamente. 69 perderassi: «l’enclisi impedisce la rima tronca e accentua il

senso di sfacimento» (Galimberti). nota di leopardi: «(56) Questaè conclusione poetica, non filosofica. Parlando filosoficamente, l’e-sistenza, che mai non è cominciata, non avrà mai fine.» La nota ap-pare per la prima volta nell’edizione fiorentina del 1834 e rispondedunque a un’esigenza sorta in Leopardi in un secondo momento,assente durante la prima composizione. Sembra in effetti difficiletener slegata questa precisazione dall’operetta che nell’edizionepostuma del 1845 segue a questa, il Frammento apocrifo di Stratoneda Lampsaco, testo in cui Leopardi finge di tradurre da un codicegreco alcune riflessioni «della origine» e «della fine del mondo».La filosofia di tale Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco ècompiutamente materialista, e, cosa che ci interessa ora, vi si so-stiene il principio dell’eternità della materia: «Le cose materiali,siccome elle periscono tutte ed hanno fine, così tutte ebbero inco-minciamento. Ma la materia stessa niuno incominciamento ebbe,cioè a dire che ella è per sua propria forza ad eterno»; «Venuti me-no i pianeti, la terra, il sole e le stelle, ma non la materia loro, si for-meranno di questa nuove creature, distinte in nuovi generi e spe-cie, e nasceranno per le forze eterne della materia nuovi ordinidelle cose ed un nuovo mondo» (ed. a cura di O. Besomi, pp. 335 e340). È evidente che Leopardi doveva annullare l’effetto contrad-dittorio determinato dall’incontro tra la «conclusione poetica» di

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tissima, empieranno lo spazio immenso66. Così questoarcano mirabile e spaventoso dell’esistenza universale67,innanzi di essere dichiarato68 né inteso, si dileguerà eperderassi69.

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questo Cantico del gallo silvestre e quella «filosofica» del Frammen-to apocrifo di Stratone da Lampsaco. Il Frammento apocrifo di Stra-tone da Lampsaco è appunto scritto nel 1825, con ogni probabilitàa Bologna, ambiente a cui si devono letture e aggiornamenti filoso-fici, quali Leopardi non poté fare a casa sua. Solo per ragioni cen-sorie, come accade per Il Copernico e per il Dialogo di Plotino e diPorfirio, il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco rimane fuo-ri dal libro, ma Leopardi ritiene comunque importante chiarire ilsuo pensiero. Un’annotazione dello Zibaldone stesa a Bologna (Zi-baldone, pp. 4181-4182, 4 Giugno 1826) parla infatti dell’«ipotesidell’eternità della materia», proprio in relazione a un pensiero sul«nulla infinito» (Zibaldone, p. 4178).

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1timandro: cioè «colui che onora gli uomini».

2 liberamente: senza dissimulare. 3eleandro: cioè «colui che prova compassione per gli uomini».

4 non... tanto: cfr. Al conte Carlo Pepoli, v. 152 e seg.: «E se delvero / Ragionando talor, fieno alle genti / O mal grati i miei detti onon intesi, / Non mi dorrò, che già del tutto il vago / Desio di glo-ria antico in me fia spento».

5 perché... poco: cfr. Il Parini ovvero della gloria, cap. I: «E vera-mente, se il soggetto principale delle lettere è la vita umana, e il pri-mo intento della filosofia l’ordinare le nostre azioni; non è dubbioche l’operare è tanto più degno e più nobile del meditare e delloscrivere, quanto è più nobile il fine che il mezzo, e quanto le cose ei soggetti importano più che le parole e i ragionamenti. Anzi niuningegno è creato dalla natura agli studi; nè l’uomo nasce a scrivere,ma solo a fare. Perciò veggiamo che i più degli scrittori eccellenti, emassime de’ poeti illustri, di questa medesima età; come, a cagionedi esempio, Vittorio Alfieri; furono da principio inclinati straordi-nariamente alle grandi azioni: alle quali ripugnando i tempi, e forseanche impediti dalla fortuna propria, si volsero a scrivere cosegrandi» (p. 185); il passo deriva da un pensiero dello Zibaldone,pp. 2453-2454.

6 veggo: vedo.

DIALOGO DI TIMANDRO E DI ELEANDRO

TIMANDRO1. Io ve lo voglio anzi debbo pur dire libe-ramente2. La sostanza e l’intenzione del vostro scrivere edel vostro parlare, mi paiono molto biasimevoli.

ELEANDRO3. Quando non vi paia tale anche l’opera-re, io non mi dolgo poi tanto4: perché le parole e gliscritti importano poco5.

TIMANDRO. Nell’operare, non trovo di che ripren-dervi. So che non fate bene agli altri per non potere, eveggo6 che non fate male per non volere. Ma nelle paro-le e negli scritti, vi credo molto riprensibile, e non viconcedo che oggi queste cose importino poco; perché la

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7 perché... altro: Timandro ripete come ovvio ciò che Leopardiha sempre sostenuto essere una delle principali caratteristiche ne-gative del mondo moderno; nell’età della filosofia, della scopertadel «vero», l’agire, che si basa sempre sulle illusioni, è impossibileo quasi annullato (vedi per esempio, oltre alla nota 5, la Storia delgenere umano, rr. 392-394; il tema tornerà, in forma diversa, nelDialogo di Tristano e di un amico, vedi r. 112 e seg.).

8 primieramente... moda: emerge il motivo che fa da filo condut-tore all’operetta, e ne determina la stessa struttura: la diversità eopposizione di Eleandro/Leopardi al proprio tempo. La formainoltre già dice (e lo conferma la dura risposta di Eleandro) qualescarsa considerazione abbia Leopardi di tali argomenti; la richiestastessa di «essere alla moda» qualifica i tempi moderni, nella loro ri-cerca di uniformità e nella loro corsa verso la decadenza; nel Dialo-go della Moda e della Morte, la Moda è sorella della Morte e figliadella Caducità.

9 Anche... moda: così dall’edizione fiorentina in poi; prima sileggeva Anch’io sono fuor di moda; ma è chiaro che Leopardi havoluto evitare qualunque confusione con questioni di comporta-mento e di persona.

10 i figliuoli: cioè gli scritti.11 Non... usci: «non si piegheranno a chiedere la carità». 12 Quaranta... contrario: detto per rilevare ancor più l’isolamen-

to di Eleandro, di fronte al moto concorde degli altri filosofi. Cfr.

nostra vita presente non consiste, si può dire, in altro7.Lasciamo le parole per ora, e diciamo degli scritti. Quelcontinuo biasimare e derider che fate la specie umana,primieramente è fuori di moda8.

ELEANDRO. Anche il mio cervello è fuori di moda9. Enon è nuovo che i figliuoli10 vengano simili al padre.

TIMANDRO. Né anche sarà nuovo che i vostri libri,come ogni cosa contraria all’uso corrente, abbiano catti-va fortuna.

ELEANDRO. Poco male. Non per questo andrannocercando pane in sugli usci11.

TIMANDRO. Quaranta o cinquant’anni addietro, i fi-losofi solevano mormorare della specie umana; ma inquesto secolo fanno tutto al contrario12.

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Palinodia al marchese Gino Capponi. p. 38 e seg.: «Aureo secolo or-nai volgono, o Gino, / I fusi delle Parche. Ogni giornale, / Genervario di lingue e di colonne, / Da tutti i lidi lo promette al mondo /Concordemente. Universale amore, / Ferrate vie, moltiplici com-merci, / Vapor, tipi e choléra i più divisi / Popoli e climi stringeran-no insieme: /Nè maraviglia fia se pino o quercia / Suderà latte emele, o s’anco al suono / D’un walser danzerà». L’indicazione«quaranta o cinquant’anni addietro», pur generica ma non impre-cisa, sembra riferirsi più all’Alfieri (per cui vedi nota 5), che agli il-luministi francesi.

13 monta: «importa». Timandro sfugge, qui e nella risposta suc-cessiva, alla domanda.

14 facendo... antica: cioè illudendoli; più avanti parlerà di «ma-schere e travestimenti per ingannare gli altri, o per non essere co-nosciuti» (rr. 143-144), e dei «molti filosofi di questo secolo» che si«dilettano» e «pascono» di «buone aspettative», di «sogni e imma-ginazioni liete circa il futuro» (r. 178 e seg.). Cfr. Per la Novella Se-nofonte e Machiavello, r. 161 e seg.: «E dove gli altri filosofi senzaodiar gli uomini quanto me, cercano pure di nuocer loro effettiva-mente co’ loro precetti, io effettivamente giovai, giovo, e gioveròsempre a chiunque voglia e sappia praticare i miei». La battuta diEleandro, amaramente sarcastica (si noti in particolare l’opposizio-

ELEANDRO. Credete voi che quaranta o cinquant’an-ni addietro, i filosofi, mormorando degli uomini, dices-sero il falso o il vero?

TIMANDRO. Piuttosto e più spesso il vero che il falso.ELEANDRO. Credete che in questi quaranta o cin-

quant’anni, la specie umana sia mutata in contrario daquella che era prima?

TIMANDRO. Non credo; ma cotesto non monta13 nul-la al nostro proposito.

ELEANDRO. Perché non monta? Forse è cresciuta dipotenza, o salita di grado; che gli scrittori d’oggi sienocostretti di adularla, o tenuti di riverirla?

TIMANDRO. Cotesti sono scherzi in argomento grave.ELEANDRO. Dunque tornando sul sodo, io non igno-

ro che gli uomini di questo secolo, facendo male ai lorosimili secondo la moda antica14, si sono pur messi a dir-

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ne facendo male... dirne bene), compendia il motivo generatore ditutta l’operetta, poi via via svolto e ampliato.

15 Se la mia specie... a me: per il tema della «scellerataggine» edella guerra tra gli uomini vedi il Dialogo della Natura e di un Islan-dese, r. 58 e seg.: «conobbi per prova come egli è vano a pensare, setu vivi tra gli uomini, di potere, non offendendo alcuno, fuggireche gli altri non ti offendano»; e Per la Novella Senofonte e Machia-vello, r. 67 e seg., r. 152 e seg.

16 ponghiamo: poniamo. 17 se non posso: perché, come si torna a chiarire nelle battute

successive, i libri hanno un limitatissimo potere di «giovare». 18 E... assaissimo: si veda come un recensore delle Operette mo-

rali (Francesco Ambrosoli) ricalcherà le orme di Timandro: «Enon è utile indurre o disamore o fastidio di quelle cose fra le qualisi è costretti a vivere; bensì è bello insegnare come si possano vol-gere o in tutto o in parte o all’utilità o al diletto» (in «Biblioteca ita-liana», gennaio 1828, p. 87, citato dal Moroncini in Epistolario, IV,p. 284). continuamente: «come a dire per partito preso» (DellaGiovanna).

ne bene, al contrario del secolo precedente. Ma io, chenon fo male a simili né a dissimili, non credo essere ob-bligato a dir bene degli altri contro coscienza.

TIMANDRO. Voi siete pure obbligato come tutti gli al-tri uomini, a procurar di giovare alla vostra specie.

ELEANDRO. Se la mia specie procura di fare il contra-rio a me15, non veggo come mi corra cotesto obbligo chevoi dite. Ma ponghiamo16 che mi corra. Che debbo iofare, se non posso17?

TIMANDRO. Non potete, e pochi altri possono, coifatti. Ma cogli scritti, ben potete giovare, e dovete. Enon si giova coi libri che mordono continuamente l’uo-mo in generale; anzi si nuoce assaissimo18.

ELEANDRO. Consento che non si giovi, e stimo chenon si noccia. Ma credete voi che i libri possano giovarealla specie umana?

TIMANDRO. Non solo io, ma tutto il mondo lo crede.

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19 come... Socrate: il riferimento, indicato da Leopardi anche inun’annotazione dell’autografo, è al seguente passo del Convivio diPlatone (dialogano Diotima e Socrate): «‘E però, risposi io, tuttipensano d’accordo che sia un grande dio.’ ‘Quali tutti? Quelli chenon sanno o anche quelli che sanno?’. ‘Tutti, tutti, dico.’ E lei ri-dendo: ‘E come possono mai sostenere concordi, o Socrate, cheAmore sia un grande dio, coloro che affermano che egli non è nep-pure un dio?’. ‘E chi sono questi?’ esclamai. ‘Uno, rispose, sei pro-prio tu, un’altra io.» (Convivio, XXII, 202b-c; trad. di P. Pucci; Ba-ri, Laterza).

20 dico poetici... versi: quella del «sentire» è per Leopardi la for-ma più «vera» di conoscenza (‘Perocchè tutto ciò ch’è poetico sisente piuttosto che si conosca e s’intenda, o vogliamo anzi dire,sentendolo si conosce e s’intende, nè altrimenti può essere cono-sciuto, scoperto ed inteso, che col sentirlo. Ma la pura ragione e lamatematica non hanno sensorio alcuno. Spetta all’immaginazionee alla sensibilità lo scoprire e l’intendere tutte le sopraddette cose[...]», Zibaldone, p. 3242), nella quale si incontrano poesia e filoso-fia, ma che appunto per i prevalere del «cuore», dell’immaginativa,del «caldo» ecc. prende il nome «largamente» di poesia. Vedi inparticolare Il Parini ovvero della gloria, cap. VII: «Penserai forseche derivando la filosofia dalla ragione, di cui l’universale degli uo-mini inciviliti partecipa forse più che dell’immaginativa e delle fa-coltà del cuore; il pregio delle opere filosofiche debba essere cono-sciuto più facilmente e da maggior numero di persone, che quellode’ poemi, e degli altri scritti che riguardano il dilettevole e il bello.Ora io, per me, stimo che il proporzionato giudizio e il perfettosenso, sia poco meno raro verso quelle, che verso queste. Primiera-mente abbi per cosa certa, che a far progressi notabili nella filoso-fia, non bastano sottilità d’ingegno, e facoltà grande di ragionare,ma si ricerca eziandio molta forza immaginativa; e che il Descartes,

ELEANDRO. Che libri?TIMANDRO. Di più generi; ma specialmente del mo-

rale.ELEANDRO. Questo non è creduto da tutto il mondo;

perché io, fra gli altri, non lo credo; come rispose unadonna a Socrate19. Se alcun libro morale potesse giova-re, io penso che gioverebbero massimamente i poetici:dico poetici, prendendo questo vocabolo largamente;cioè libri destinati a muovere la immaginazione; e inten-do non meno di prose che di versi20. Ora io fo poco sti-

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Galileo, il Leibnitz, il Newton, il Vico, in quanto all’innata disposi-zione dei loro ingegni, sarebbero potuti essere sommi poeti; e perlo contrario Omero, Dante, lo Shakespeare, sommi filosofi» (p.212). Ma è uno dei temi più importanti della riflessione di Leopar-di; vedi almeno anche Zibaldone, p. 1650: «Quanto l’immaginazio-ne contribuisca alla filosofia (ch’è pur sua nemica), e quanto sia ve-ro che il gran poeta in diverse circostanze avria potuto essere ungran filosofo, promotore di quella ragione ch’è micidiale al genereda lui professato, e viceversa il filosofo, gran poeta, osserviamo.Proprietà del vero poeta è la facoltà e la vena delle similitudini.(Omero ” poihtøj n’è il più grande e fecondo modello). L’animoin entusiasmo, nel caldo della passione qualunque ec. ec. discoprevivissime somiglianze fra le cose […]». Ancora dello Zibaldone ve-di pp. 1856, 3382 e seg., 3237 e seg., 3245.

21 per mezz’ora... un’ora dopo la lettura: non è vera poesia quellache non lascia un senso di nobiltà, di innalzamento, nell’animo dellettore, ma ugualmente, come dimostra l’esperienza, non le si puòchiedere di avere un’influenza pedagogica totale e definitiva.

22 città grandi: vedi Il Parini ovvero della gloria, IV, r. 50 e seg.:«Chiunque poi vive in città grande, per molto che egli sia da natu-ra caldo e svegliato di cuore e d’immaginativa, io non so […] comepossa mai ricevere dalle bellezze o della natura o delle lettere, al-cun sentimento tenero o generoso, alcun’immagine sublime o leg-giadra. Perciocchè poche cose sono tanto contrarie a quello statod’animo che ci fa capaci ditali diletti, quanto la conversazione diquesti uomini, lo strepito di questi luoghi, lo spettacolo della ma-gnificenza vana, della leggerezza delle menti, della falsità perpetua,delle cure misere, e dell’ozio più misero, che vi regnano».

ma di quella poesia che letta e meditata, non lascia al let-tore nell’animo un tal sentimento nobile, che permezz’ora, gl’impedisca di ammettere un pensier vile, edi fare un’azione indegna. Ma se il lettore manca di fedeal suo principale amico un’ora dopo la lettura21, io nondisprezzo perciò quella tal poesia: perché altrimenti miconverrebbe disprezzare le più belle, più calde e più no-bili poesie del mondo. Ed escludo poi da questo discor-so i lettori che vivono in città grandi22: i quali, in casoancora che leggano attentamente, non possono esseregiovati anche per mezz’ora, né molto dilettati né mossi,da alcuna sorta di poesia.

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23 malignamente: «per avversione»; cfr. Bruto Minore, v. 45, «Emaligno alle nere ombre sorride» (vedi anche il commento di DeRobertis).

24 per l’ordinario: di solito. 25 fanno professione: dichiarano apertamente.26 Voi... specie: visti vani i tentativi di far recedere Eleandro dal-

la sua posizione, Timandro prova a sminuirne il significato e l’im-portanza, riconducendone l’origine a risentimenti personali. Inquesto modo Leopardi mette in mostra una delle «spiegazioni»che spesso dovette subire delle sue riflessioni (cfr. poi Dialogo diTristano e di un amico, in particolare rr. 20-23).

27 Veramente... unico: cfr. nota 15. 28 perché... tanto: cfr. Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 46

e seg., 64-66. 29 vi dico e vi accerto... conosco e veggo: «vi comunico perché ne

siate del tutto certo» e «riconosco e continuo a sperimentare»; duedittologie parallele per scandire con fermezza la replica di Elean-dro.

30 apertissimamente: in modo evidentissimo.

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TIMANDRO. Voi parlate, al solito vostro, maligna-mente23, e in modo che date ad intendere di essere perl’ordinario24 molto male accolto e trattato dagli altri:perché questa il più delle volte è la causa del mal animoe del disprezzo che certi fanno professione25 di avere al-la propria specie26.

ELEANDRO. Veramente io non dico che gli uomini miabbiano usato ed usino molto buon trattamento: massi-me che dicendo questo, io mi spaccerei per esempiounico27. Né anche mi hanno fatto però gran male: per-ché, non desiderando niente da loro, né in concorrenzacon loro, io non mi sono esposto alle loro offese più chetanto28. Ben vi dico e vi accerto, che siccome io conoscoe veggo29 apertissimamente30 di non saper fare una me-noma parte di quello che si richiede a rendersi grato allepersone; e di essere quanto si possa mai dire inetto a

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31 siccome... mia propria: cfr. questo passo della lettera di Leo-pardi a Vieusseux del 4 marzo 1826: «La mia vita, prima per neces-sità di circostanze e contro mia voglia, poi per inclinazione natadall’abito convertito in natura e divenuto indelebile, è stata sem-pre, ed è, e sarà perpetuamente solitaria, anche in mezzo alla con-versazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent diquel che sarebbe un cieco e sordo. Questo vizio dell’absence èinme incorreggibile e disperato». Vedi anche Dialogo della Natura edi un’Anima, rr. 61-67.

32 però: «perciò»; riprende la lunga causale iniziata da un sicco-me rimasto lontano, per introdurre la protasi e la reggente.

33 misantropia: dal greco, «odio del genere umano»; appena sot-to il suo contrario, filantropia.

34 Timone: filosofo scettico, nell’età classica misantropo per an-tonomasia, tanto da dare il titolo a un dialogo di Luciano (Timoneo il misantropo). Da Plutarco (nella traduzione cinquecentesca del-l’Adriani letta da Leopardi) è ricordato così: «Questo Timone fuateniese e visse al tempo della guerra peloponnesiaca, come dallecommedie di Aristofane e del comico Platone si può comprendere;i quali lo notano col nome di maligno e nimico al genere umano,sfuggendo ed aborrendo ogni conversazione: solo abbracciava e ba-ciava volentieri Alcibiade giovane fiero ed ardito: di che maravi-gliato Apemanto domandò della cagione. Ed egli rispose d’amarequel giovanetto solo, perché sapeva che saria un giorno cagione digran mali agli Ateniesi» (Le vite. Antonio. cap. LXX, passo citatoda Della Giovanna; corsivi del curatore).

35 abbominevole: ripugnante.

conversare cogli altri, anzi alla stessa vita; per colpa odella mia natura o mia propria31; però32 se gli uomini mitrattassero meglio di quello che fanno, io gli stimereimeno di quel che gli stimo.

TIMANDRO. Dunque tanto più siete condannabile:perché l’odio, e la volontà di fare, per dir così, una ven-detta degli uomini, essendone stato offeso a torto, avreb-be qualche scusa. Ma l’odio vostro, secondo che voi dite,non ha causa alcuna particolare; se non forse un’ambi-zione insolita e misera di acquistar fama dalla misantro-pia33, come Timone34: desiderio abbominevole35 in se,

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36 alieno... filantropia: un’altra ragione dunque dell’essere «fuorimoda» di Eleandro (alieno: «estraneo»). In un lungo pensiero del1821 (da cui ha origine tra l’altro il confronto tra Senofonte e Ma-chiavelli) la filantropia dei moderni era fatta discendere dalla finedelle illusioni «antiche» e rappresenta in realtà il trionfo degli egoi-smi: «E infatti la filantropia. o amore universale e della umanità,non fu proprio mai nè dell’uomo nè de’ grandi uomini, e non si no-minò se non dopo che, parte a causa del Cristianesimo, parte delnaturale andamento dei tempi, sparito affatto l’amor di patria, esottentrato il sogno dell’amore universale, (ch’è la teoria del nonfar bene a nessuno) l’uomo non amò veruno fuorchè se stesso, edodiò meno le nazioni straniere, per odiar molto più i vicini e com-pagni» (Zibaldone, p. 885). Vedi anche Storia del genere umano, r.420 e seg., e i versi della Palinodia al marchese Gino Capponi, citatiqui alla nota 12.

37 l’ambizione non mi muova: «non può essere l’ambizione amuovermi».

38 Dall’odio… lontano: è così segnata chiaramente la distanzadalla maschera originariamente impostata del «misantropo» comeè ancora Machiavello.

39 emendare: correggere.

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alieno poi specialmente da questo secolo, dedito sopratutto alla filantropia36.

ELEANDRO. Dell’ambizione non accade che io vi ri-sponda; perché ho già detto che non desidero niente da-gli uomini: e se questo non vi par credibile, benché siavero; almeno dovete credere che l’ambizione non mimuova37 a scriver cose che oggi, come voi stesso affer-mate, partoriscono vituperio e non lode a chi le scrive.Dall’odio poi verso tutta la nostra specie, sono così lon-tano38, che non solamente non voglio, ma non posso an-che odiare quelli che mi offendono particolarmente; an-zi sono del tutto inabile e impenetrabile all’odio. Il chenon è piccola parte della mia tanta inettitudine a prati-care nel mondo. Ma io non me ne posso emendare39:perché sempre penso che comunemente, chiunque sipersuade, con far dispiacere o danno a chicchessia, far

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40 far comodo: dipende da si pensuade con l’omissione della pre-posizione di.

41 ma per fan bene a se: per tutto il passo cfr. Zibaldone, p. 55:«chi segue il suo odio fa per se, chi l’amore per altrui, chi si vendi-ca giova a se, chi benefica giova altrui, nè alcuno è mai tanto in-fiammato per giovare altrui quanto a se» (è la conclusione di unpensiero che sarà ripreso poi nei Detti memorabili di Filippo Otto-nieni, cap. V); e p. 872: «L’amor proprio dell’uomo, e di qualun-que individuo di qualunque specie, è un amore di preferenza. Cioèl’individuo amandosi naturalmente quanto può amarsi, si preferi-sce dunque agli altri, dunque cerca di soverchiarli in quanto può,dunque effettivamente l’individuo odia l’altro individuo, e l’odiodegli altri è una conseguenza necessaria e immediata dell’amore dise stesso»; vedi anche p. 293. Si noti l’esclusione, su queste basi il-luministe, dell’esistenza di un «male» in assoluto e ricercato cometale (su questo vedi Zibaldone, pp. 2232-2233, e 4100: male è solociò che si contrappone all’«essenza rispettiva delle cose»).

42 Finalmente: «Per finire». 43 Finalmente… vita: cfr. il ritratto che l’Islandese fa di se stesso,

Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 38 e seg., e vedi la lettera aGiordani del 19 novembre 1819 lì citata alla nota 22.

comodo40 o piacere a se proprio; s’induce ad offendere;non per far male ad altri (che questo non è propriamen-te il fine di nessun atto o pensiero possibile), ma per farbene a se41; il qual desiderio è naturale, e non meritaodio. Oltre che ad ogni vizio o colpa che io veggo in al-trui, prima di sdegnarmene, mi volgo a esaminare mestesso, presupponendo in me i casi antecedenti e le cir-costanze convenevoli a quel proposito; e trovandomisempre o macchiato o capace degli stessi difetti, non mibasta l’animo d’irritarmene. Riserbo sempre l’adirarmi aquella volta che io vegga una malvagità che non possaaver luogo nella natura mia: ma fin qui non ne ho potutovedere. Finalmente42 il concetto della vanità delle coseumane, mi riempie continuamente l’animo in modo, chenon mi risolvo a mettermi per nessuna di loro in batta-glia; e l’ira e l’odio mi paiono passioni molto maggiori epiù forti, che non è conveniente alla tenuità della vita43.

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44 Dall’animo di Timone...: vedi nota 34. 45 Timone...: si noti la contrapposizione speculare con l’atteggia-

mento di Eleandro (Timone.../Io...). 46 accarezzava: «trattava con riguardo» (la fonte è comunque il

passo citato della traduzione di Plutarco). 47 causa… comune: in quanto Alcibiade fu ritenuto tra i maggio-

ri responsabili della rovina ateniese nella fase finale della guerracon Sparta.

48 Io... provvedervi: è già una dichiarazione di solidarietà con gliuomini, benché, si badi, all’interno di un «amor di patria» am-bientato nella Grecia antica, che è tra i miti più vivi di Leopardi.Cfr. anche il ritratto di Teofrasto nella Comparazione delle senten-ze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte, in Le poesie e leprose, op. cit., I, p. 1043: «Ma s’ha da sapere che Teofrasto fu edoperò tutto il contrario. In quanto alle azioni, abbiamo in Plutarconel libro contra Colote che il nostro filosofo liberò due volte la pa-tria dalla tirannide»; e quindi in Per la Novella Senofonte e Machia-vello.

49 Io... fiere: cfr. rr. 32-33, «non fo male a simili nè a dissimili». 50 Sentite, amico mio: quasi seguito naturale della dimostrazione

di non odio, il dialogo lascia, per iniziativa di Eleandro, i modi del-lo scontro polemico, dopo aver difeso e riconfermato la propriaautonomia; è il momento per Eleandro di esprimere distesamenteil proprio punto di vista. Il segnale di «non belligeranza» è datodalla formula amico mio, consueta nelle Operette morali, per intro-durre il discorso più scoperto: cfr. Dialogo della Natura e di unIslandese, r. 227; amici sono Colombo e Gutierrez, Plotino e Porfi-rio; mentre più ambiguo è il caso del Dialogo di Tristano e di unamico; cfr. anche Il Copernico, «Senti, Copernico» (p. 378).

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Dall’animo di Timone44 al mio, vedete che diversità cicorre. Timone45, odiando e fuggendo tutti gli altri, ama-va e accarezzava46 solo Alcibiade, come causa futura dimolti mali alla loro patria comune47. Io, senza odiarlo,avrei fuggito più lui che gli altri, ammoniti i cittadini delpericolo, e confortati a provvedervi48. Alcuni dicono cheTimone non odiava gli uomini, ma le fiere in sembianzaumana. Io non odio né gli uomini né le fiere49.

TIMANDRO. Ma né anche amate nessuno.ELEANDRO. Sentite, amico mio50. Sono nato ad ama-

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51 Sono nato ad amare...: cfr. Per la Novella Senofonte e Machia-vello, r. 140 e seg. Si cfr. anche la ricostruzione posteriore (1828)de Il risorgimento; v. 1 e seg.: «Credei ch’al tutto fossero / In me,sul fior degli anni, / Mancati i dolci affanni / Della mia prima età»(e tutta la descrizione che segue) e vv. 109-112: «Proprii mi diede ipalpiti, / Natura, e i dolci inganni. / Sopiro in me gli affanni / L’in-genita virtù».

52 benché... tepida: nel 1824, pochi giorni dopo (29 giugno) averfinito la stesura di quest’operetta, Leopardi compiva 26 anni.

53 fuorché... natura: per il minimo di amor proprio congenito al-la vita.

54 il meno che mi è possibile: cfr. il «ritrarsi» e «contrarsi» in sestesso dell’Islandese (Dialogo della Natura e di un Islandese, r. 90;ma si veda tutto il suo racconto).

55 eleggere: «scegliere». Anche questa è in sostanza già la sceltadell’Islandese.

56 costumi: modi di vita. 57 rispetto proprio: per se stesso, in vigore secondo quanto detto

prima (r. 92 e seg.). 58 quel maggiore... patire: cfr. Dialogo della Natura e di un Islan-

dese, rr. 52-54.

re51, ho amato, e forse con tanto affetto quanto può maicadere in anima viva. Oggi, benché non sono ancora, co-me vedete, in età naturalmente fredda, né forse anco te-pida52; non mi vergogno a dire che non amo nessuno,fuorché me stesso, per necessità di natura53, e il menoche mi è possibile54. Contuttociò sono solito e pronto aeleggere55 di patire piuttosto io, che esser cagione di pa-timento agli altri. E di questo, per poca notizia che ab-biate de’ miei costumi, credo mi possiate essere testimo-nio.

TIMANDRO. Non ve lo nego.ELEANDRO. Di modo che io non lascio di procurare

agli uomini per la mia parte, posponendo ancora il ri-spetto proprio57, quel maggiore, anzi solo bene che sonoridotto a desiderare per me stesso, cioè di non patire58.

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59 che cosa... scrivere?: è il punto da cui era partito il discorso,cui Timandro ritorna dopo aver abbandonato i toni polemici e iltentativo di ricondurre Eleandro alla «moda del suo secolo» (cfr.infatti prima Non ve lo nego, Bene, sia così).

60 Diverse cose: sulla scena si impone ora Eleandro, per rivendi-care e spiegare le ragioni del suo essere «fuori moda».

61 l’intolleranza... dissimulazione: vedi rr. 39-44; a simulazione edissimulazione corrispondono poi (r. 190) per ingannare gli altri, oper non essere conosciuti.

62 sollazzo: divertimento. 63 stillarmi... carte: cfr. Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, r.

57. 64 al presente: «oggi». Il caso del latino quale lingua morta serve

come esempio di una lingua usata ancora nonostante gli oggetti dicui parli non esistano più, si siano modificati ecc..; nell’«età del ve-ro» non esistono più le «illusioni antiche», e invece sono continua-mente nominate come se ci fossero; appena oltre Eleandro parleràappunto di «maschere», di «finzione».

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TIMANDRO. Ma confessate voi formalmente, di nonamare né anche la nostra specie in comune?

ELEANDRO. Sì, formalmente. Ma come tuttavia, setoccasse a me, farei punire i colpevoli, se bene io non gliodio; così, se potessi, farei qualunque maggior benefizioalla mia specie, ancorché io non l’ami.

TIMANDRO. Bene, sia così. Ma in fine, se non vi muo-vono ingiurie ricevute, non odio, non ambizione; checosa vi muove a usare cotesto modo di scrivere59?

ELEANDRO. Diverse cose60. Prima, l’intolleranza diogni simulazione e dissimulazione61: alle quali mi piegotalvolta nel parlare, ma negli scritti non mai; perchéspesso parlo per necessità, ma non sono mai costretto ascrivere; e quando avessi a dire quel che non penso, nonmi darebbe un gran sollazzo62 a stillarmi il cervello so-pra le carte63. Tutti i savi si ridono di chi scrive latino alpresente64, che nessuno parla quella lingua, e pochi la

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65 Io non veggo...: tutto il ragionamento segue l’impostazione giàpresente in Per la Novella Senofonte e Machiavello, r. 112 e seg.,dove è ancora più chiaramente esposta l’idea della «lingua falsa»per tradurre gli» insegnamenti del vero». Vedi anche in particolareil ripetersi dei nessi discorsivi: «Io non veggo...» (in Per la NovellaSenofonte e Machiavello, r. 120: «Ora io non so perché...»); «Che siusino maschere...», r. 189 (in Per la Novella Senofonte e Machiavel-lo, r. 115: «Che questo sia...»).

66 certi... fantastici: sono i «fantasmi [...] chiamati Giustizia,Virtù, Gloria, Amor patrio e con altri sì fatti nomi», di cui parla laStoria del genere umano (rr. 237-239), le illusioni cioè dello «statoantico». L’espressione enti razionali (per cui una nota manoscrittadi Leopardi rimanda al Vocabolario della Crusca, sotto Entità), o«enti di ragione», era usata dal linguaggio filosofico scolastico perindicare un’«entità» che esiste solo nella mente, come concetto,senza una corrispondenza reale.

67 internamente: in privato. 68 Cavinsi... si rimangano: si noti l’enclisi del pronome atono con

verbo all’inizio di periodo (a differenza di si rimangano), fatto ca-ratteristico della lingua antica (secondo la «legge Tobler-Mussa-fia») e adottato anche altrove da Leopardi (vedi Storia del genereumano); qui però serve a far emergere l’accento forte di cAvinsi, e afar risuonare una frustata sarcastica contro l’ipocrisia delle «ma-schere».

intendono. Io non veggo65 come non sia parimente ridi-colo questo continuo presupporre che si fa scrivendo eparlando, certe qualità umane che ciascun sa che oramainon si trovano in uomo nato, e certi enti razionali o fan-tastici66, adorati già lungo tempo addietro, ma ora tenutiinteramente67 per nulla e da chi gli nomina, e da chi gliode a nominare. Che si usino maschere e travestimentiper ingannare gli altri, o per non essere conosciuti; nonmi pare strano: ma che tutti vadano mascherati con unastessa forma di maschere, e travestiti a uno stesso modo,senza ingannare l’un l’altro, e conoscendosi ottimamen-te tra loro; mi riesce una fanciullaggine. Cavinsi le ma-schere, si rimangano68 coi loro vestiti; non faranno mi-nori effetti di prima, e staranno più a loro agio. Perchépur finalmente, questo finger sempre, ancorché inutile,

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69 silvestre: come «selvaggio»; solitario e silvestre «rappresenta-no i caratteri dello stato primitivo, in cui mancavano la societàstretta e le città» (Bianchi).

70 Se gli uomini… sopra?: solo la lentezza nel cambiamento dellecose ha reso possibile il mantenimento di nomi, forme, ecc., che al-trimenti sarebbero anch’essi decaduti.

71 alienissime: cfr. r. 108.72 scrivo… troiani: dei tempi troiani vale a dire l’estremo più an-

tico della lingua letteraria (essendo Omero il primo poeta); cfr. ilparagone precedente della lingua latina (rr. 181-182). Alle spalledell’argomento si intravede la ricchissima riflessione di Leopardisulla lingua (vedi per esempio Zibaldone, p. 3861).

73 mordere: cfr. r. 53. 74 non tanto... fato: per bocca di Eleandro Leopardi arriva a una

formulazione decisiva. La parola fato indica l’«ordine primigenio eperpetuo delle cose create» (cfr. Dialogo della Natura e di un’Ani-ma, nota 6). Come spiega lo Zibaldone: «l’uomo essendo sempreinfelice, naturalmente tende ad incolparne altresì sempre non lanatura delle cose e degli uomini […], ma ad incolpar sempre qual-che persona o cosa particolare in cui possa sfogar l’amarezza chegli cagionano i suoi mali [...]. Questa naturale tendenza opera poi

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e questo sempre rappresentare una persona diversissimadalla propria, non si può fare senza impaccio e fastidiogrande. Se gli uomini dallo stato primitivo, solitario esilvestre69, fossero passati alla civiltà moderna in un trat-to, e non per gradi; crediamo noi che si troverebberonelle lingue i nomi delle cose dette dianzi, non che nellenazioni l’uso di ripetergli a ogni poco, e di farvi mille ra-gionamenti sopra70? In verità quest’uso mi par comeuna di quelle cerimonie o pratiche antiche, alienissime71

dai costumi presenti, le quali contuttociò si mantengo-no, per virtù della consuetudine. Ma io che non mi pos-so adattare alle cerimonie, non mi adatto anche a quel-l’uso; e scrivo in lingua moderna, e non dei tempitroiani72. In secondo luogo; non tanto io cerco morde-re73 ne’ miei scritti la nostra specie, quanto dolermi delfato74. Nessuna cosa credo sia più manifesta e palpabile,

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che il misero si persuade anche effettivamente di quello che egliimmagina, e quasi desidera che sia vero. Da ciò è nato che egli haimmaginato i nomi e le persone di fortuna, di fato, incolpati sì lun-gamente dei mali umani, e sì sinceramente odiati dagli antichi infe-lici, e contro i quali anche oggi, in mancanza d’altri oggetti, rivol-giamo seriamente l’odio e le querele delle nostre sventure»(Zibaldone. pp. 4070-4071, 17 aprile 1824). Dopo Dialogo dellaNatura e di un Islandese, «fato» e Natura vengono a coincidere, eidentificano l’ordine universale delle cose così come esiste.

75 Nessuna... viventi: benché enunciato senza alcuna particolarepreparazione, questo (che è considerazione fondamentale di tuttele Operette morali) è il primo fondamento dell’esperienza di Elean-dro, come è infatti subito dichiarato.

76 Ridendo... mali: cfr. l’accusa di Timandro, rr. 14-15. 77 Se questo...vi si trovi: per l’origine di questo atteggiamento in

Leopardi vedi la lettera al Giordani del 18 giugno 1821: «Ma dim-mi, non potresti tu di Eraclito convertirti in Democrito? La qualcosa va pure accadendo a me che la stimava impossibilissima. Veroè che la disperazione si finge sorridente. Ma il riso intorno agli uo-mini ed alle mie stesse miserie, al quale mi vengo accostumando,quantunque non derivi dalla speranza, non viene però dal dolore,ma piuttosto dalla noncuranza, ch’è l’ultimo rifugio degli infelicisoggiogati dalla necessità collo spogliarli non del coraggio di com-batterla, ma dell’ultima speranza di poterla vincere, cioè la speran-za della morte». Il tema ha una sua evoluzione, ma per quanto im-porta qui è da vedere l’abbozzo di «storia del riso» tracciatonell’Elogio degli uccelli: «Cosa certamente mirabile è questa, chenell’uomo, il quale infra tutte le creature è la più travagliata e mise-

che l’infelicità necessaria di tutti i viventi75. Se questa in-felicità non è vera, tutto è falso, e lasciamo pur questo equalunque altro discorso. Se è vera, perché non mi hada essere né pur lecito di dolermene apertamente e libe-ramente, e dire, io patisco? Ma se mi dolessi piangendo(e questo si è la terza causa che mi muove), darei noianon piccola agli altri, e a me stesso, senza alcun frutto.Ridendo dei nostri mali76, trovo qualche conforto; eprocuro di recarne altrui nello stesso modo. Se questonon mi vien fatto, tengo pure per fermo che il ridere deinostri mali sia l’unico profitto che se ne possa cavare, el’unico rimedio che vi si trovi77. Dicono i poeti che la di-

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ra, si trovi la facoltà del riso, aliena da ogni altro animale. Mirabileancora si è l’uso che noi facciamo di questa facoltà: poiché si veg-gono molti in qualche fierissimo accidente, altri in grande tristezzad’animo, altri che quasi non serbano alcuno amore alla vita, certis-simi della vanità di ogni bene umano, presso che incapaci di ognigioia, e privi di ogni speranza; nondimeno ridere. Anzi, quanto co-noscono meglio la vanità dei predetti beni, e l’infelicità della vita; equanto meno sperano, e meno eziandio sono atti a godere; tantomaggiormente sogliono i particolari uomini essere inclinati al riso.La natura del quale generalmente, e gl’intimi principii e modi, inquanto si è a quella parte che consiste nell’animo, appena si po-trebbero definire e spiegare; se non se forse dicendo che il riso èuna specie di pazzia non durabile, o pure di vaneggiamento e deli-rio»; nei tempi moderni il riso «si trova essere in dignità e statomaggiore che fosse mai; tenendo nelle nazioni civili un luogo, e fa-cendo un ufficio, coi quali esso supplisce per qualche modo alleparti esercitate in altri tempi dalla virtù, dalla giustizia, dall’onore esimili; e in molte cose raffrenando e spaventando gli uomini dallemale opere» (pp. 313-316).

78 Dicono... sorriso: vedi la lettera citata nella nota precedente;cfr. Zibaldone: «Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera cala-mità è segno di disperazione già matura» (Zibaldone, p. 107; vedianche p. 188).

79 nessuna… patto: cfr. Storia del genere umano, rr. 348-349. 80 disperazione magnanima: la forza dell’espressione sta nell’es-

sere in sostanza un ossimoro, se, come è in particolare per Leopar-di, la disperazione produce inattività, mentre la magnanimità è ladisposizione alle grandi azioni (si noti anche il contrasto fonico tral’asprezza di disperazione e la distensione di magnanima, in a e innasale). Ma è in questa tensione che si rappresenta Leopardi; inmezzo, come dice in un pensiero subito successivo a questa operet-ta, tra la «disperazione placida», in cui ogni spinta alla vita è annul-lata, e la «disperazione furiosa», che «anela smaniosamente alla fe-licità nell’atto stesso che impugna il ferro o il veleno contro semedesimo» (Zibaldone, p. 4106, 29 giugno 1824). La «disperazio-ne magnanima» è, in altri termini, la grandezza d’animo di chi sa dinon avere speranze, ma che in questo pur vive.

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sperazione ha sempre nella bocca un sorriso78. Non do-vete pensare che io non compatisca all’infelicità umana.Ma non potendovisi riparare con nessuna forza, nessunaarte, nessuna industria, nessun patto79; stimo assai piùdegno dell’uomo, e di una disperazione magnanima80, il

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81 sospirare... stridere: climax; per stridere cfr. la lezione origina-ria (1820, poi modificata) di Ad Angelo Mai, v. 138: «Se vuoi stri-der d’angoscia».

82 pascere: nutrire. 83 come… secolo: cfr. rr. 23-25. Le «buone aspettative» sono

quelle della «perfettibilità» dell’uomo, come si chiarirà tra poco. 84 per essere… certezza: ancora una costruzione con due dittolo-

gie. 85 e che: dipende sempre da sapete.86 Ma... vostro: Timandro cerca di far leva sul punto che sorreg-

ge tutte le osservazioni di Eleandro: vedi rr. 214-216. 87 Io giudico quanto a me...: questa è l’«unità di misura» di

Eleandro, nessuno può modificare il risultato conoscitivo della suaesperienza. La risposta rivela il nudo schema che presiede a tuttal’operetta: Io... Se gli altri... Io... Se gli altri...

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ridere dei mali comuni; che il mettermene a sospirare,lagrimare e stridere81 insieme cogli altri, o incitandoli afare altrettanto. In ultimo mi resta a dire, che io deside-ro quanto voi, e quanto qualunque altro, il bene dellamia specie in universale; ma non lo spero in nessun mo-do; non mi so dilettare e pascere82 di certe buone aspet-tative, come veggo fare a molti filosofi in questo seco-lo83; e la mia disperazione, per essere intera, e continua,e fondata in un giudizio fermo e in una certezza84, nonmi lascia luogo a sogni e immaginazioni liete circa il fu-turo, né animo d’intraprendere cosa alcuna per vederedi ridurle ad effetto. E ben sapete che l’uomo non si di-spone a tentare quel che egli sa o crede non doverglisuccedere, e quando vi si disponga, opera di mala vogliae con poca forza; e che85 scrivendo in modo diverso ocontrario all’opinione propria, se questa fosse anco fal-sa, non si fa mai cosa degna di considerazione.

TIMANDRO. Ma bisogna ben riformare il giudizioproprio quando sia diverso dal vero; come il vostro86.

ELEANDRO. Io giudico quanto a me87 di essere infeli-

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88 Voi mostrate... perfettibile: neanche Timandro dunque puònegare l’infelicità dell’uomo, ma ad essa oppone il rimedio della«perfettibilità» umana, della sua possibilità di perfezionarsi: tuttisiamo e siamo stati infelici, ma non lo saremo in futuro.

89 perfettibile: nelle Operette morali il termine appare solo qui,ma è concetto a cui Leopardi dedica nello Zibaldone numerose ri-flessioni critiche, messe a frutto in particolare ne La scommessa diPrometeo (vedi il commento a questa operetta). Il concetto di «per-fettibilità» (e la parola) si diffonde a partire dall’opera di Condor-cet e ha grandissima fortuna anche in Italia, dove si registra una vi-vace discussione proprio nel primo trentennio dell’Ottocento (vediF. Rigotti, L’umana perfezione, Napoli, Bibliopolis, 1981). Per Leo-pardi l’idea era assurda in quanto era appunto l’«incivilimento» adallontanare l’uomo da quelle condizioni «naturali» di ignoranza espontaneità che gli garantivano l’unica felicità possibile (vedi Zibal-done, pp. 2392-2395); la «perfettibilità» inoltre rimandava secondolui all’esistenza di idee assolute, mentre il concetto stesso di perfe-zione è un concetto relativo; piuttosto che di «perfettibilità» biso-gnava parlare di «conformabilità» dell’uomo (vedi Zibaldone, pp.1570-1572 e 1618-1619, del 1821). Questa è l’impostazione ancoravigente fino a La scommessa di Prometeo. A maggior ragione l’ideadi «perfettibilità» e di «perfezione» dell’uomo all’interno del siste-ma naturale risultano assurde dopo aver raggiunto la convinzione,nei modi visti nel Dialogo della Natura e di un islandese, che tuttal’esistenza delle cose manchi di senso.

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ce, e in questo so che non m’inganno. Se gli altri non so-no, me ne congratulo seco loro con tutta l’anima. Io so-no anche sicuro di non liberarmi dall’infelicità, primache io muoia. Se gli altri hanno diversa speranza di se,me ne rallegro similmente.

TIMANDRO. Tutti siamo infelici, e tutti sono stati: ecredo non vorrete gloriarvi che questa vostra sentenzasia delle più nuove. Ma la condizione umana si può mi-gliorare di gran lunga da quel che ella è, come è già mi-gliorata indicibilmente da quello che fu. Voi mostratenon ricordarvi, o non volervi ricordare, che l’uomo èperfettibile88.

ELEANDRO. Perfettibile89 lo crederò sopra la vostrafede; ma perfetto, che è quel che importa maggiormen-

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90 ma perfetto... chi: cfr. La scommessa di Prometeo, e in partico-lare il discorso di Momo, che propone di considerare piuttosto ilgenere umano «sommo nell’imperfezione» (r. 261-262).

91 Non... giungere: cfr. appunto la risposta di Prometeo, nell’o-peretta citata, r. 214 e seg.

92 Nè io ne dubito: l’affermazione, parallela alla precedente(«Perfettibile lo crederò sopra la vostra fede») è sarcastica, comesubito dimostra il resto della battuta.

93 Certo...: Timandro non dà segno di cogliere l’ironia. Studiovale «impegno».

94 copia: abbondanza. 95 Però...: «perciò»; ecco la ragione più profonda del biasimo

verso Eleandro: la sua verità è nociva all’«aureo secolo».

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te, non so quando l’avrò da credere né sopra la fede dichi90.

TIMANDRO. Non è giunto ancora alla perfezione,perché gli è mancato tempo; ma non si può dubitare chenon vi sia per giungere91.

ELEANDRO. Né io ne dubito92. Questi pochi anni chesono corsi dal principio del mondo al presente, non po-tevano bastare; e non se ne dee far giudizio dell’indole,del destino e delle facoltà dell’uomo: oltre che si sonoavute altre faccende per le mani. Ma ora non si attendead altro che a perfezionare la nostra specie.

TIMANDRO. Certo93 vi si attende con sommo studioin tutto il mondo civile. E considerando la copia94 e l’ef-ficacia dei mezzi, l’una e l’altra aumentate incredibil-mente da poco in qua, si può credere che l’effetto si ab-bia veramente a conseguire fra più o men tempo: equesta speranza è di non piccolo giovamento a cagionedelle imprese e operazioni utili che ella promuove o par-torisce. Però95 se fu mai dannoso e riprensibile in alcuntempo, nel presente è dannosissimo e abbominevole l’o-stentare cotesta vostra disperazione, e l’inculcare agli

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96 la necessità della loro miseria: «la loro condizione necessaria-mente misera».

97 imbecillità: debolezza. 98 io vorrei… falso: se il biasimo pare riguardare solo l’opportu-

nità degli scritti di Eleandro, è il momento di riportare Timandroal centro del problema, dopo le sue ammissioni di r. 256. Si vedainfatti la risposta.

99 arme: l’uscita in -e al sing. (per metaplasmo) è di radicata tra-dizione letteraria e costantemente adottata da Leopardi.

100 dico e non predico: (nell’autografo era indicato l’accento: pré-dico) in reazione al predicare usato da Timandro, la paronomasiaaccentua la distinzione di significato, e quindi di comportamento,cui tiene Eleandro; sono gli altri che dicono e predicano.

101 o pure: sempre disgiunti nelle Operette morali. 102 lo... me: riprende la formula di Eleandro (vedi nota 87).

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uomini la necessità della loro miseria96, la vanità della vi-ta, l’imbecillità97 e piccolezza della loro specie, e la mal-vagità della loro natura: il che non può fare altro fruttoche prostrarli d’animo; spogliarli della stima di se mede-simi, primo fondamento della vita onesta, della utile,della gloriosa; e distorli dal procurare il proprio bene.

ELEANDRO. Io vorrei che mi dichiaraste precisamen-te, se vi pare che quello che io credo e dico intorno al-l’infelicità degli uomini, sia vero o falso98.

TIMANDRO. Voi riponete mano alla vostra solita ar-me99; e quando io vi confessi che quello che dite è vero,pensate vincere la questione. Ora io vi rispondo, chenon ogni verità è da predicare a tutti, né in ogni tempo.

ELEANDRO. Di grazia, soddisfatemi anche di un’altradomanda. Queste verità che io dico e non predico100, so-no nella filosofia, verità principali, o pure101 accessorie?

TIMANDRO. Io, quanto a me102, credo che sieno la so-stanza di tutta la filosofia.

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103 Dunque s’ingannano grandemente quelli che...: è il discorsorivolto contro gli altri filosofi (quelli che... sono «poco meno chetutti i filosofi antichi e moderni», come è chiarito più oltre), cuicorrisponderà poi quello in propria apologia. Cfr. la lettera a Gior-dani del 6 marzo 1820 (citata in Storia del genere umano, nota 150),in cui, dopo aver ricordato il «barbaro insegnamento della ragioneche i piaceri e i dolori umani essendo meri inganni, quel travaglioche deriva dalla certezza della nullità delle cose, sia sempre e sola-mente giusto e vero», aggiunge: «Queste considerazioni io vorreiche facessero arrossire quei poveri filosofastri che si consolano del-lo smisurato accrescimento della ragione, e pensano che la felicitàumana sia riposta nella cognizione del vero. quando non c’è altrovero che il nulla».

104 E... moderni: il che vale anche come risposta a quanto dettoda Timandro alle rr. 23-25.

105 Ecco che...: questa la contraddizione in cui Eleandro intendecogliere i «filosofi».

106 Io non ignoro: litote per dire: «è appunto ciò che io ho sem-pre sostenuto.

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ELEANDRO. Dunque s’ingannano grandemente quel-li che103 dicono e predicano che la perfezione dell’uomoconsiste nella conoscenza del vero, e tutti i suoi maliprovengono dalle opinioni false e dalla ignoranza, e cheil genere umano allora finalmente sarà felice, quandociascuno o i più degli uomini conosceranno il vero e anorma di quello solo comporranno e governeranno laloro vita. E queste cose le dicono poco meno che tutti ifilosofi antichi e moderni105. Ecco che105 a giudizio vo-stro, quelle verità che sono la sostanza di tutta la filoso-fia, si debbono occultare alla maggior parte degli uomi-ni; e credo che facilmente consentireste che debbanoessere ignorate o dimenticate da tutti: perché sapute, eritenute nell’animo, non possono altro che nuocere. Ilche è quanto dire che la filosofia si debba estirpare dalmondo. Io non ignoro106 che l’ultima conclusione che siricava dalla filosofia vera e perfetta, si è, che non biso-

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107 l’ultima... filosofare: cfr. Zibaldone, pp. 304-305 (7 novembre1820), tipica riflessione di quel periodo per la svalutazione della fi-losofia e l’apologia della natura istintiva: «Quel detto scherzevoledi un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas a me pare che con-tenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto e il risul-tato della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Maquesto insegnamento ci era già dato dalla natura, e non al nostrointelletto nè alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tuttinoi l’avevamo messo in pratica da fanciulli. Che cosa dunque ab-biamo imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori,dolori? e la filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fan-ciulli ci era connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perdutoa forza di sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sa-pevano ed eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi, e senza stentinè fatiche nè ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicchè lanatura ci aveva già fatto saggi quanto qualunque massimo saggiodel nostro o di qualsivoglia tempo [...]. Così l’apice del sapereumano e della filosofia consiste a conoscer la di lei propria inutilitàse l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a corregger idanni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella condi-zione in cui sarebbe sempre stato, s’ella non fosse mai nata. E per-ciò solo è utile la sommità della filosofia, perchè ci libera e disin-ganna dalla filosofia». Analogamente Zibaldone, p. 2711 (21maggio 1823): «Di qui si conferma quel mio principio che la som-mità della sapienza consiste nel conoscere la propria inutilità, e co-me gli uomini sarebbero già sapientissimi s’ella mai non fosse nata:e la sua maggiore utilità, o per lo meno il suo primo e proprio sco-po, nel ricondurre l’intelletto umano (s’è possibile) appresso a po-co a quello stato in cui era prima del di lei nascimento’. E vedi an-che la Comparazione delle sentenze di Bruto Minore e di Teofrastovicini a morte: ‘non e maraviglia che Teofrasto arrivasse a conosce-re la somma della sapienza, cioè la vanità della vita e della sapienzamedesima» (Le poesie e le prose, op. cit., I, p. 1041).

108 s’inferisce: si ricava.

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gna filosofare107. Dal che s’inferisce108 che la filosofia,primieramente è inutile, perché a questo effetto di nonfilosofare, non fa di bisogno esser filosofo; secondaria-mente è dannosissima, perché quella ultima conclusionenon vi s’impara se non alle proprie spese, e imparata chesia, non si può mettere in opera; non essendo in arbitriodegli uomini dimenticare le verità conosciute, e depo-

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109 domando... passate: che è quanto ha sostenuto Timandro (rr.279-280), prendendone motivo per biasimare Eleandro.

110 Forse...: segue una serie di domande retoriche, in cui è chiarala risposta negativa. Solo l’ultima domanda lascia apparentementeuna risposta aperta, ma è infatti elusa da Timandro (il ragionamen-to infinito non si può tenere).

111 ma... infinito: in modo analogo Prometeo non risponde aMomo, vedi La scommessa di Prometeo, r. 287 e seg.

112 e tornando al fatto mio: è il momento del discorso di apologiadi Eleandro; cfr. la posizione di Teofrasto nella Comparazione dellesentenze di Bruto Minore e di Teofrasto vicini a morte.

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nendosi più facilmente qualunque altro abito che quellodi filosofare. In somma la filosofia, sperando e promet-tendo a principio di medicare i nostri mali, in ultimo siriduce a desiderare invano di rimediare a se stessa. Po-sto tutto ciò, domando perché si abbia da credere chel’età presente sia più prossima e disposta alla perfezioneche le passate109. Forse110 per la maggior notizia del ve-ro; la quale si vede essere contrarissima alla felicità del-l’uomo? O forse perché al presente alcuni pochi cono-scono che non bisogna filosofare, senza che peròabbiano facoltà di astenersene? Ma i primi uomini infatti non filosofarono, e i selvaggi se ne astengono senzafatica. Quali altri mezzi o nuovi, o maggiori che non eb-bero gli antenati, abbiamo noi, di approssimarci allaperfezione?

TIMANDRO. Molti, e di grande utilità: ma l’esporglivorrebbe un ragionamento infinito111.

ELEANDRO. Lasciamoli da parte per ora: e tornandoal fatto mio112, dico, che se ne’ miei scritti io ricordo al-cune verità dure e triste, o per isfogo dell’animo, o perconsolarmene col riso, e non per altro; io non lascio tut-tavia negli stessi libri di deplorare, sconsigliare e ripren-

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113 misero: povero, limitato. 114 freddo: perché contrario alla vita; cfr. Storia del genere uma-

no, r. 132, «gli animi freddi e stanchi per l’esperienza delle cose», esoprattutto A Silvia, vv. 60-63, «All’apparir del vero / Tu, misera,cadesti: e con la mano / La fredda morte ed una tomba ignuda /Mostravi di lontano».

115 infingardaggine: poltroneria. 116 barbari: Leopardi si riferisce in questo modo al Medioevo, ai

«tempi bassi» tra età classica e rinascita moderna della «filosofia».La distinzione tra i due tipi di errori (antichi e barbari) è fondamen-tale in Leopardi, che dimostra una convinzione definitiva sullaquestione, nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli ita-liani (scritto probabilmente tra marzo e aprile del 1824, durante lastesura delle Operette morali); in esso, opponendosi esplicitamentealle idee reazionarie di Chateaubriand, afferma: «Si potrà forse di-sputare non poco se l’antica civiltà sia da preporre o posporre allamoderna, in ordine alla felicità sì dell’uomo sì de’ popoli ed allavirtù, valore, vita, energia ed attività delle nazioni. Ma lo stato dellaSpagna [di cui parla appunto lo scrittore francese, n.d.c.] non haniente a fare coll’antica civiltà. Tutto quello in che la Spagna (e ipopoli che se le assomigliano) si distingue dagli altri popoli d’Eu-ropa [...] appartiene alla barbarie de’ tempi bassi, è una derivazio-ne, o piuttosto una continuazione di quella [...] Ora i costumi, leopinioni e lo stato propriamente antico favorivano, conducevano,e generavano il grande, ma quelli del tempo basso in generale con-siderandoli, non hanno mai nè favorito nè prodotto niente di gran-de, nè sono di natura da poterne produrre o da esser compatibilicolla vera grandezza nè dell’individuo nè molto meno delle nazio-ni. È un falsissimo modo di vedere quello di considerar la civiltàmoderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico [...]. Il ri-

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dere lo studio di quel misero113 e freddo114 vero, la co-gnizione del quale è fonte o di noncuranza e infingar-daggine115, o di bassezza d’animo, iniquità e disonestà diazioni, e perversità di costumi: laddove, per lo contrario,lodo ed esalto quelle opinioni, benché false, che genera-no atti e pensieri nobili, forti, magnanimi, virtuosi, edutili al ben comune o privato; quelle immaginazioni bel-le e felici, ancorché vane, che danno pregio alla vita; leillusioni naturali dell’animo; e in fine gli errori antichi,diversi assai dagli errori barbari116; i quali solamente, e

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sorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stadioantico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando epropagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla tota-le e orribile corruzione dell’antico» (Le poesie e le prose, op. cit., II,pp. 577-578).

117 Ma queste... prima: cfr. Zibaldone, p. 162 (10 luglio 1820):«Lo scopo dell’incivilimento moderno doveva essere di ricondurciappresso a poco alla civiltà antica offuscata ed estinta dalla barba-rie dei tempi di mezzo. Ma quanto più considereremo l’antica ci-viltà, e la paragoneremo alla presente, tanto più dovremo conveni-re ch’ella era quasi nel giusto punto, e in quel mezzo tra i dueeccessi, il quale solo poteva proccurare all’uomo in società una cer-ta felicità! La barbarie de’ tempi bassi non era una rozzezza primi-tiva, ma una corruzione del buono, perciò dannosissima e funestis-sima. Lo scopo dell’incivilimento dovea esser di togliere la rugginealla spada già bella o accrescergli solamente un poco di lustro. Masiamo andati tanto oltre volendola raffinare e aguzzare, che siamopresso a romperla».

118 e però... intrinseca: mentre la barbarie nata dall’ignoranza(quella dei «tempi bassi») si manifestava in attività esterne (corpo,opere: violenze, distruzioni, ingiustizie, ecc.), quella moderna agi-sce sull’attività sentimentale e intellettuale. Secondo una riflessionedi alcuni anni prima (dicembre 1820) l’ignoranza dei «tempi bassi»«richiamava parte delle credenze e abitudini naturali, perchè la na-tura trionfa ordinariamente, facilmente e naturalmente quandomanca il suo maggiore ostacolo ch’è la scienza. E però quella bar-barie produceva una vita meno lontana dalla natura e meno infeli-ce, più attiva ec. di quella che produce l’incivilimento non medioma eccessivo del nostro secolo». E evidente nell’operetta che la di-stinzione non è più svolta sulla base della maggiore vicinanza allanatura in quanto fonte vitale.

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non quelli, sarebbero dovuti cadere per opera della ci-viltà moderna e della filosofia. Ma queste, secondo me,trapassando i termini (come è proprio e inevitabile allecose umane); non molto dopo sollevati da una barbarie,ci hanno precipitati in un’altra, non minore della pri-ma117; quantunque nata dalla ragione e dal sapere, e nondall’ignoranza; e però meno efficace e manifesta nel cor-po che nello spirito, men gagliarda nelle opere, e per dircosì, più riposta ed intrinseca118. In ogni modo, io dubi-

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119 In ogni modo... rinnovarveli: è il necessario chiarimento ri-spetto a quanto detto prima: indietro non si può tornare (cfr. rr.246-247: «non essendo in arbitrio degli uomini dimenticare le ve-rità conosciute»).

120 avrei scritto… umano: ironicamente, di fronte a un avveni-mento grandioso e tragicamente impossibile come la «perfezione»dell’uomo, Eleandro si adeguerebbe alla piccineria dei filosofi «al-la moda». Tutto il finale è «in accordo con la componente ironica esatirica delle Operette morali: si pensi ai premi proposti dall’Acca-demia dei Sillografi [nell’operetta con questo titolo, n.d.c.] o stabi-liti dal collegio delle Muse ne La scommessa di Prometeo» (Galim-berti).

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to, o inclino piuttosto a credere, che gli errori antichi,quanto sono necessari al buono stato delle nazioni civili,tanto sieno, e ogni dì più debbano essere, impossibili arinnovarveli119. Circa la perfezione dell’uomo, io vi giu-ro, che se fosse già conseguita, avrei scritto almeno untomo in lode del genere umano. Ma poiché non è tocca-to a me di vederla, e non aspetto che mi tocchi in mia vi-ta, sono disposto di assegnare per testamento una buonaparte della mia roba ad uso che quando il genere uma-no120 sarà perfetto, se gli faccia e pronuncisi pubblica-mente un panegirico tutti gli anni; e anche gli sia rizzatoun tempietto all’antica, o una statua, o quello che saràcreduto a proposito.

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1 Passeggere: passante, viandante. 2 Almanacchi.. lunari nuovi: Galimberti riporta opportunamen-

te la voce del Dizionario dei sinonimi di Tommaseo, che spiega ladiversità tra «lunario» e «almanacco», entrambe pubblicazioni dif-fuse in grande tiratura alla fine dell’anno. Lunario è il «libro dovestanno registrati i giorni dell’anno solare, a cui si fanno corrispon-dere quelli dell’anno lunare; coi nomi dei giorni della settimana, lefeste de’ Santi, la cui commemorazione cade a ciascun dì, l’ora dellevare e del tramontare del Sole, i fenomeni straordinarii, ma pre-vedibili, di natura e simili»; l’almanacco «oltre alle cose nel lunariocomprese, contiene osservazioni astronomiche, e altre notizie».Nell’editoria di quegli anni, in particolare a Milano, ma anche a Fi-renze proprio su iniziativa dell’«Antologia», si registrava un note-vole rinnovamento di quel genere di pubblicazioni.

3 illustrissimo: questa cadenza di rispetto formale è un inserto«dal vero», che si aggiunge a quelli dei richiami iniziali (vengono inmente, in ambito letterario opposto, entrambi gli attacchi delle De-sgrazzi de Giovannin Bongee di Carlo Porta); contrassegna inoltre iruoli degli interlocutori, alternando nella parte centrale con signo-re, ma tornando a ripetersi nella conclusione.

4 Più più, illustrissimo: con le sue risposte il Venditore pensa diassecondare l’acquirente, dando per scontato che anche lui condi-vida l’idea corrente che la felicità di anno in anno aumenti; ma il

216Letteratura italiana Einaudi

DIALOGO DI UN VENDITORED’ALMANACCHI E DI UN PASSEGGERE1

VENDITORE. Almanacchi, almanacchi nuovi; lunarinuovi2. Bisognano, signore, almanacchi?

PASSEGGERE. Almanacchi per l’anno nuovo?VENDITORE. Sì signore.PASSEGGERE. Credete che sarà felice quest’anno

nuovo?VENDITORE. Oh illustrissimo3 sì, certo.PASSEGGERE. Come quest’anno passato?VENDITORE. Più più assai.PASSEGGERE. Come quello di là?VENDITORE. Più più, illustrissimo4.

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Passeggere, che non domandava a caso, utilizza proprio quelle ri-sposte per sollecitare una riflessione meno superficiale.

5 egli: pleonastico. 6 Non vi… felice?: vedi Dialogo di Torquato Tasso e del suo Ge-

nio familiare, nota 45. 7 E pure... vero?: il Non è vero? segnala la distanza del Passegge-

re dall’affermazione: dopo la risposta negativa del Venditore (nonsi ricorda nessun anno felice), è a lui che vuole far trarre le conse-guenze ultime del discorso, contrapponendo l’esperienza reale al-l’affermazione generica che «la vita è una cosa bella».

8 si sa: l’affermazione comune non viene contestata, ma la rispo-sta è impersonale (così la successiva).

9 Non tornereste... nasceste: il Passeggere insiste e torna in formadiversa al tipo di domanda già formulato (r. 20 e seg.: «A quale dicotesti vent’anni ...?», «Non vi ricordate ...?»).

217Letteratura italiana Einaudi

PASSEGGERE. Ma come qual altro? Non vi piace-rebb’egli5 che l’anno nuovo fosse come qualcuno diquesti anni ultimi?

VENDITORE. Signor no, non mi piacerebbe.PASSEGGERE. Quanti anni nuovi sono passati da che

voi vendete almanacchi?VENDITORE. Saranno vent’anni, illustrissimo.PASSEGGERE. A quale di cotesti vent’anni vorreste

che somigliasse l’anno venturo?VENDITORE. Io? non saprei.PASSEGGERE. Non vi ricordate di nessun anno in

particolare, che vi paresse felice6?VENDITORE. No in verità, illustrissimo.PASSEGGERE. E pure la vita è una cosa bella. Non è

vero7?VENDITORE. Cotesto si sa8.PASSEGGERE. Non tornereste voi a vivere cotesti

vent’anni, e anche tutto il tempo passato, cominciandoda che nasceste9?

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10 caro signore: la gerarchia dei ruoli non è mutata, ma la conver-sazione si sta prolungando oltre le forme solite, diventa più perso-nale.

11 Cotesto non vorrei: condotto di nuovo all’esperienza persona-le, la risposta è ancora negativa.

12 principe: per indicare il potente in genere. 13 con questo patto: cioè rifacendo esattamente la vita già fatta. 14 Oh... dunque? cfr. r. 38; ma ormai il Venditore ha riconosciu-

to che il rifiuto di rifare la propria vita è generale, non dipende daparticolari condizioni.

15 così: su quest’uso di così Leopardi si sofferma nello Zibaldone,p. 3170 (12 agosto 1823): «Così ridondante, o con un certo cotal si-gnificato che non si può altrimenti esprimere se non col gesto, sicrede esser proprietà della nostra lingua, e idiotismo del nostro dirfamiliare (benchè molto usato dagli eleganti scrittori) [...]. Ma que-st’uso è latino e greco [...]». Cfr. il Preambolo a Lo Spettatore Fio-rentino, testo contemporaneo a questa operetta (Le poesie e le pro-se, II. p. 715): «ne hanno un certo concetto così nella mente».

218Letteratura italiana Einaudi

VENDITORE. Eh, caro signore10, piacesse a Dio che sipotesse.

PASSEGGERE. Ma se aveste a rifare la vita che avetefatta né più né meno, con tutti i piaceri e i dispiaceri cheavete passati?

VENDITORE. Cotesto non vorrei11.PASSEGGERE. Oh che altra vita vorreste rifare? la vita

ch’ho fatta io, o quella del principe12, o di chi altro? Onon credete che io, e che il principe, e che chiunque al-tro, risponderebbe come voi per l’appunto; e che aven-do a rifare la stessa vita che avesse fatta, nessuno vorreb-be tornare indietro?

VENDITORE. Lo credo cotesto.PASSEGGERE. Né anche voi tornereste indietro con

questo patto13, non potendo in altro modo?VENDITORE. Signor no davvero, non tornerei.PASSEGGERE. Oh che vita vorreste voi dunque14?VENDITORE. Vorrei una vita così15, come Dio me la

mandasse, senz’altri patti16.

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16 senz’altri patti: come dire: «senza tante condizioni e compli-cazioni» (riferendosi a con questo patto di prima).

17 Una vita… nuovo: il Passeggere interpreta e finisce la rispostaapprossimativa dell’interlocutore, riportando il discorso all’occa-sione iniziale, per dimostrare che l’attesa dell’anno nuovo ha basiben diverse da quelle che presupponeva il semplice Venditore; al-tro ha il senso di «nulla» (a questo proposito sono numerosissimele schede di Leopardi nello Zibaldone).

18 Ma questo... male: al contrario di quanto era dato per sconta-to dal Venditore.

19 E si vede chiaro... rinascere: è il nucleo logico generatore del-l’operetta (vedi Zibaldone, pp. 4283-4284 citato in Introduzione):il fatto che nessuno voglia rifare la propria vita dimostra che vi haprevalso l’infelicità.

20 Quella… bella: cfr. r. 26. 21 Non è vero?: come in precedenza, anche qui è il segnale di

una conclusione provvisoria, fittizia; l’anno che viene non ha nes-sun motivo per essere diverso dai precedenti, cioè felice. Il discor-so non è concluso, ma solo interrotto.

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PASSEGGERE. Una vita a caso, e non saperne altroavanti, come non si sa dell’anno nuovo17?

VENDITORE. Appunto.PASSEGGERE. Così vorrei ancor io se avessi a rivivere,

e così tutti. Ma questo è segno che il caso, fino a tuttoquest’anno, ha trattato tutti male18. E si vede chiaro checiascuno è d’opinione che sia stato più o di più peso ilmale che gli è toccato, che il bene; se a patto di riavere lavita di prima, con tutto il suo bene e il suo male, nessu-no vorrebbe rinascere19. Quella vita ch’è una cosa bel-la20, non è la vita che si conosce, ma quella che non siconosce; non la vita passata, ma la futura. Coll’annonuovo, il caso incomincerà a trattar bene voi e me e tuttigli altri, e si principierà la vita felice. Non è vero21?

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22 Speriamo: il Venditore ripete l’unica conclusione possibile: sicontinua a vivere solo «per una illusione della speranza» (Zibaldo-ne, p. 4284).

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VENDITORE. Speriamo22.PASSEGGERE. Dunque mostratemi l’almanacco più

bello che avete.VENDITORE. Ecco, illustrissimo. Cotesto vale trenta

soldi.PASSEGGERE. Ecco trenta soldi.VENDITORE. Grazie, illustrissimo: a rivederla. Alma-

nacchi, almanacchi nuovi; lunari nuovi.

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1tristano: è l’eroe di uno dei maggiori miti medievali (la storia

di Tristano e Isotta) la cui sostanza è stata descritta come «una pas-sione adultera più forte di qualsiasi legge umana o divina, nata fa-talmente, vissuta con dolorosa intensità e tragicamente conclusa»(A. Roncaglia, Le più belle pagine delle letterature d’oc e d’oïl, Mila-no, Nuova Accademia, p. 175). Per questo motivo è chiamato arappresentare Leopardi al termine di una vicenda di «amore emorte» (vedi comunque nota 115).

2 Malinconico… solito: vedi Dialogo di un Fisico e di un Metafisi-co, nota 24. Ma si noti che la qualifica di «malinconico» ricorre peresempio nelle recensioni sull’Antologia» di G. Montani (pur ap-prezzato da Leopardi) sia all’edizione 1826 dei Versi; sia alla primaedizione delle Operette morali («Certo il rider suo è più melanconi-co di qualunque pianto»; vedi ora Scritti letterari, a cura di A. Fer-raris, Torino, Einaudi, 1980, pp. 196 e 199).

3 Sì...: per il modo di accettazione delle ‘accuse», vedi anche lebattute iniziali del Dialogo di Timandro e di Eleandro.

4 si vede… brutta cosa: anticipa il giudizio riduttivo poi riportatoesplicitamente da Tristano (r. 20 e seg.).

5 Che... infelice: adottando il punto di vista dell’Amico (l’ideache la vita sia infelice sarebbe una pazzia), preannuncia la (finta)palinodia delle battute successive.

6 Infelice...fine...: cfr. Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 256 eseg.; e Dialogo di un Venditore d’almanacchi e di un passeggere, r.26-27.

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DIALOGO DI TRISTANO E DI UN AMICO1

AMICO. Ho letto il vostro libro. Malinconico al vo-stro solito2.

TRISTANO. Sì1, al mio solito.AMICO. Malinconico, sconsolato, disperato; si vede

che questa vita vi pare una gran brutta cosa4.TRISTANO. Che v’ho a dire? io aveva fitta in capo

questa pazzia, che la vita umana fosse infelice5.AMICO. Infelice sì forse. Ma pure alla fine6...TRISTANO. No no, anzi felicissima. Ora ho cambiata

opinione. Ma quando scrissi cotesto libro, io aveva quel-

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7 ciascuna di esse: le osservazioni. 8 Solo… osservazioni: è infatti argomento del Dialogo di Timan-

dro e di Eleandro (vedi in particolare r. 45 e seg.), l’operetta che,chiudendo la prima edizione del libro, ne doveva costituire l’«apo-logia».

9 E sentendo... particolare: è il giudizio che Leopardi doveva piùspesso sentir ripetere per togliere validità generale alle sue riflessio-ni. Vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro, rr. 81-86.

10 rimasi… sasso: cfr. un passo di una disperata lettera giovanileal Giordani: «Se in questo momento impazzissi, io credo che la miapazzia sarebbe di seder sempre con gli occhi attoniti, colla boccaaperta, colle mani tra le ginocchia, senza nè ridere nè piangere, nèmuovermi altro che per forza dal luogo dove mi trovassi» (letteradel 12 novembre 1819).

11 poi risi, e dissi: gli uomini...: si noti la forma da «motto o ri-sposta arguta» (come nei Detti memorabili di Filippo Ottonieri) cheTristano dà alla sua proposizione; prima enuncia un parallelo inso-lito («gli uomini in generale sono come i mariti»), quindi lo spiegaper fasi successive, partendo da una considerazione ironica, da tut-ti facilmente condivisa, e svelando con progressive generalizzazioni

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la pazzia in capo, come vi dico. E n’era tanto persuaso,che tutt’altro mi sarei aspettato, fuorché sentirmi volge-re in dubbio le osservazioni ch’io faceva in quel proposi-to, parendomi che la coscienza d’ogni lettore dovesserendere prontissima testimonianza a ciascuna di esse7.Solo immaginai che nascesse disputa dell’utilità o deldanno di tali osservazioni8, ma non mai della verità: anzimi credetti che le mie voci lamentevoli, per essere i malicomuni, sarebbero ripetute in cuore da ognuno che leascoltasse. E sentendo poi negarmi, non qualche propo-sizione particolare, ma il tutto, e dire che la vita non èinfelice, e che se a me pareva tale, doveva essere effettod’infermità, o d’altra miseria mia particolare9, da primarimasi attonito, sbalordito, immobile come un sasso10, eper più giorni credetti di trovarmi in un altro mondo;poi, tornato in me stesso, mi sdegnai un poco; poi risi, edissi: gli uomini11 sono in generale come i mariti. I mari-

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il senso del paragone: I mariti...; Chi vuole o dee vivere...; Gli uomi-ni universalmente.... Tutto il passo è anticipato in questo appuntodello Zibaldone, p. 4525 (23 maggio 1832): «Gli uomini verso la vi-ta sono come i mariti in Italia verso le mogli: bisognosi di crederlefedeli, benchè sappiano il contrario. Così chi dee vivere in un pae-se ha bisogno di crederlo bello e buono; così gli uomini di crederela vita una bella cosa. Ridicoli agli occhi miei, come un marito bec-co e tenero della sua moglie».

12 volendo vivere: l’ultima e più generale proposizione rispetto ase vogliono vivere tranquilli e vivere in un paese. Questo è infattil’«assioma generale» esposto poi nel Pensiero LIV: «che [...] l’uo-mo non ostante qualunque ragione ed evidenza delle cose contra-rie, non lascia mai tra se e se, e anche nascondendo ciò a tutti gli al-tri, di creder vere quelle cose, la credenza delle quali gli ènecessaria alla tranquillità dell’animo, e, per dir così, a poter vive-re».

13 chi pensa altrimenti: come Tristano/Leopardi. Cfr., dal I deiPensieri: «Anche sogliono essere odiatissimi i buoni e generosi per-chè ordinariamente sono sinceri, e chiamano le cose coi nomi loro.Colpa non perdonata dal genere umano, il quale non odia mai tan-to chi fa male, nè il male stesso, quanto chi lo nomina» (che riman-da ai «nomi falsi» di cui si parla nel Dialogo di Timandro e di Elean-dro).

14 nè di non saper nulla... sperare: che è invece la verità. Cfr. Zi-baldone, p. 4525: «Due verità che gli uomini generalmente noncrederanno mai: l’una di non saper nulla, l’altra di non esser nulla.Aggiungi la terza, che ha molta dipendenza dalla seconda: di non

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ti, se vogliono viver tranquilli, è necessario che credanole mogli fedeli, ciascuno la sua; e così fanno; anchequando la metà del mondo sa che il vero è tutt’altro. Chivuole o dee vivere in un paese, conviene che lo credauno dei migliori della terra abitabile; e lo crede tale. Gliuomini universalmente, volendo vivere12, conviene checredano la vita bella e pregevole; e tale la credono; e siadirano contro chi pensa altrimenti13. Perché in sostan-za il genere umano crede sempre, non il vero, ma quelloche è, o pare che sia, più a proposito suo. Il genere uma-no, che ha creduto e crederà tante scempiataggini, noncrederà mai né di non saper nulla, né di non essere nul-la, né di non aver nulla a sperare14. Nessun filosofo che

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aver nulla a sperare dopo la morte». Evidente nel testo dell’operet-ta l’offuscamento del giudizio sulla mancanza di un futuro ultrater-reno dell’uomo, giudizio ancora chiaramente ribadito nella letteraa De Sinner del 24 maggio 1832: «j’ai eu assez de courage pour nepas chercher à en diminuer le poids ni par de frivoles espérancesd’une prétendue félicité future et inconnue, ni par une lâche rési-gnation».

15 farebbe setta: formerebbe dei seguaci. 16 vogliono coraggio: vedi ancora il passo citato della lettera a De

Sinner. 17 codardi: cfr. la «lâcheté» di cui parla la lettera citata.18 d’animo ignobile e angusto: è l’opposto della disperazione ma-

gnanima manifestata da Timandro. 19 Petrarca: nota di leopardi: «(61) Parte 2, Canzone 5, Solea

dalla fontana di mia vita.» Cioè Canzoniere, CCCXXXI, vv. 7-8: «etl’arme rendo / a l’empia et vïolenta mia fortuna» (fortuna vale lati-namente «sorte»).

20 gagliarde e ferme: forti e sicure.

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insegnasse l’una di queste tre cose, avrebbe fortuna néfarebbe setta15, specialmente nel popolo: perché, oltreche tutte tre sono poco a proposito di chi vuol vivere, ledue prime offendono la superbia degli uomini, la terza,anzi ancora le altre due, vogliono coraggio16 e fortezzad’animo a essere credute. E gli uomini sono codardi17,deboli, d’animo ignobile e angusto18; docili sempre asperar bene, perché sempre dediti a variare le opinionidel bene secondo che la necessità governa la loro vita;prontissimi a render l’arme, come dice il Petrarca19, allaloro fortuna, prontissimi e risolutissimi a consolarsi diqualunque sventura, ad accettare qualunque compensoin cambio di ciò che loro è negato o di ciò che hannoperduto, ad accomodarsi con qualunque condizione aqualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sie-no privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenzefalse, così gagliarde e ferme20, come se fossero le più ve-

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21 Io per me...: riprendendo il parallelo tra mariti e uomini, il di-scorso ritorna al punto in cui era stato lasciato, e spiega le ragionidel ridere di Tristano (poi risi, r. 26); al comportamento degli uomi-ni prima esposto e condannato, si contrappone ora quello di Tri-stano; come segno della distinzione, dello stacco individuale, tornaqui e più oltre (r. 300) la formula Io per me che già conosciamo (ve-di La scommessa di Prometeo), e che può essere assunta a emblemadi questa operetta.

22 virile: «coraggioso, magnanimo», ma il termine si mantienenel campo semantico stabilito dai mariti innamorati.

23 inganni... intelletto: la precisazione per Leopardi è semprefondamentale: inganni dell’immaginazione sono gli «ameni ingan-ni» delle «illusioni», fonti di vita sempre aperte finché dura l’igno-ranza del «freddo vero» (cfr. almeno Storia del genere umano, nota100, e soprattutto il Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 345 eseg.). Conoscere il vero, invece, ma conoscerlo in modo errato, la-sciarsi ingannare, è segno insieme di presunzione e di debolezza.Cfr. il pensiero di Zibaldone, pp. 4206-4208 (26 settembre 1826),in cui, manifestando la propria totale distanza dal secolo che si de-finisce «éminentement religieux, cioè spiritualista», Leopardi ag-giunge: «Giacchè è manifesto che questa e simili innumerabili fol-lie, dalle quali pare ormai impossibile e disperato il guarire gliintelletti umani, sono puri parti, non mica dell’ignoranza, ma dellascienza».

24 Se... malattia...: risponde, con forza, all’accusa di r. 22-23. 25 ho il coraggio... speranza: vedi rr. 39-40 e nota 14.

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re o le più fondate del mondo. Io per me21, come l’Euro-pa meridionale ride dei mariti innamorati delle mogli in-fedeli, così rido del genere umano innamorato della vita;e giudico assai poco virile22 il voler lasciarsi ingannare edeludere come sciocchi, ed oltre ai mali che si soffrono,essere quasi lo scherno della natura e del destino. Parlosempre degl’inganni non dell’immaginazione, ma del-l’intelletto23. Se questi miei sentimenti nascano da ma-lattia24, non so: so che, malato o sano, calpesto la vigliac-cheria degli uomini, rifiuto ogni consolazione eogn’inganno puerile, ed ho il coraggio di sostenere laprivazione di ogni speranza25, mirare intrepidamente il

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26 il deserto della vita: cfr. Al conte Carlo Pepoli, vv. 110-118:«Ben mille volte / Fortunato colui che la caduca / Virtù del caroimmaginar non perde / Per volger d’anni; a cui serbare eterna / Lagioventù del cor diedero i fati; / che nella ferma e nella stanca eta-de, / Così come solea nell’età verde, / In suo chiuso pensier naturaabbella, / Morte, deserto avviva». Ma è da sottolineare che l’imma-gine torna in due dei canti fiorentini: Il pensiero dominante, v. 97(«Per lo mortal deserto») e Amore e Morte, v. 35 («questo deser-to»).

27 non dissimularmi... vera: vedi lettera a De Sinner citata: «Ç’àété par suite de ce même courage, qu’étant amené par mes recher-ches à une philosophie désespérante, je n’ai pas hésité a l’embras-ser toute entière».

28 coperta... umano: è «l’arcano mirabile e spaventoso dell’esi-stenza universale» su cui si chiude il Cantico del Gallo silvestre. Cfr.Amore e Morte, v. 95, «Se non quella del fato, altra possanza», e so-prattutto A se stesso, vv. 14-15, «il brutto / Poter che, ascoso, a co-mun danno impera». Sull’immagine del «destino» vedi anche Dia-logo di Timandro e di Eleandro, nota 74.

29 quanto Salomone e quanto Omero: come a dire le fonti insiemedella poesia e della sapienza umane (quali archetipi dell’«ingegno»umano sono già in Galantuomo e Mondo, ed. a cura di O. Besomi,p. 470). Salomone è citato come autore dell’Ecclesiaste, in cui ri-suona il «Vanitas vanitatum et omnia vanitas»; Omero per un pas-so dell’Iliade (XVII, 446-447) così tradotto dal Monti: «Forse per-ché partecipi de’ mali / Foste dell’uomo di cui nulla al mondo, / Diquanto in terra ha spiro e moto, eguaglia / L’alta miseria?» (Iliade,XVII, 562-565); il passo era ricordato anche nel Dialogo di Plotinoe di Porfirio ed è ripreso qui appena sotto. Cfr. inoltre I nuovi cre-

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deserto della vita26, non dissimularmi nessuna parte del-l’infelicità umana, ed accettare tutte le conseguenze diuna filosofia dolorosa, ma vera27. La quale se non è utilead altro, procura agli uomini forti la fiera compiacenzadi vedere strappato ogni manto alla coperta e misteriosacrudeltà del destino umano28. Io diceva queste cose frame, quasi come se quella filosofia dolorosa fosse d’in-venzione mia, vedendola così rifiutata da tutti, come sirifiutano le cose nuove e non più sentite. Ma poi, ripen-sando, mi ricordai ch’ella era tanto nuova, quanto Salo-mone e quanto Omero29, e i poeti e i filosofi più antichi

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denti, vv. 1-3: «Ranieri mio, le carte ove l’umana / Vita esprimertentai, con Salomone / Lei chiamando, qual soglio, acerba e vana».

30 figure: immagini. 31 e chi di loro… animali: vedi il passo di Omero citato sopra. 32 cuna: culla. 33 andare: nota di leopardi: «(62) Vedi Stobeo, Serm. 96, p. 527

et seqq. Serm. 119, p. 601 et seqq.» La prima «sentenza» è quellacitata da Omero; la seconda è da Euripide; la terza, da Menandro,è usata da Leopardi anche come epigrafe per Amore e Morte (e nel-lo stesso 1832 l’affermazione ritorna, come ricorda D. De Robertis,nell’iscrizione per Raffaello, «felicissimo per la morte ottenuta nelfiore degli anni»).

34 finché...: evidente in questo finale, nel contrasto con la con-vinzione manifestata prima, la simulazione di palinodia, che nellabattute successive arriva allo scherno.

35 inveterati: che durano per vecchiaia.36 confesso... credeva: cfr. l’inizio della Palinodia al marchese Gi-

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che si conoscano; i quali tutti sono pieni pienissimi di fi-gure30, di favole, di sentenze significanti l’estrema infeli-cità umana; e chi di loro dice che l’uomo è il più misera-bile degli animali31; chi dice che il meglio è non nascere,e per chi è nato, morire in cuna32; altri, che uno che siacaro agli Dei, muore in giovanezza, ed altri altre cose in-finite su questo andare33. E anche mi ricordai che daquei tempi insino a ieri o all’altr’ieri, tutti i poeti e tutti ifilosofi e gli scrittori grandi e piccoli, in un modo o in unaltro, avevano ripetute o confermate le stesse dottrine.Sicché tornai di nuovo a maravigliarmi: e così tra la ma-raviglia e lo sdegno e il riso passai molto tempo: finché34

studiando più profondamente questa materia, conobbiche l’infelicità dell’uomo era uno degli errori inveterati35

dell’intelletto, e che la falsità di questa opinione, e la fe-licità della vita, era una delle grandi scoperte del secolodecimonono. Allora m’acquetai, e confesso ch’io avevail torto a credere quello ch’io credeva36.

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no Capponi: «Errai, candido Gino; assai gran tempo / E di granlunga errai».

37 perfettibilità indefinita: vedi Dialogo di Timandro e di Elean-dro, nota 89. Si ricorderanno Le magnifiche sorti e progressive cheLeopardi deride ne La Ginestra o ilfiore del deserto, v. 51. Il verso,come è noto, è una citazione adattata dalla dedica agli Inni sacri diT. Mamiani, libro uscito a Parigi nello stesso 1832 in cui composequest’operetta e da Leopardi avuto in prestito quell’anno dalVieusseux (vedi Epistolario, op. cit.,Vl, p. 210).

38 È ben vero… noi: quello del vigore corporale degli antichi edella decadenza fisica dei moderni è un terna che ricorre fin dalleprime riflessioni di Leopardi; vedi Zibaldone, pp. 207-208, 830 eseg., 1597-1602, 1624-1625, 1631-1632, e in particolare pp. 3179-3182, dove tra l’altro si dice: «È indubitato che la civiltà debilita ilcorpo umano, a cui per natura (siccome a ogni altra cosa propor-zionatamente) si conviene la forza, e il quale, privo di forza, o conminor forza della sua natura, non può essere che imperfettissimo; ech’ella rende propria dell’uomo civile la delicatezza rispettiva dicorpo, qualità che in natura non è propria nè dell’uomo nè di veru-no altro genere di cose, nè dev’esserlo […]. È indubitato che le ge-nerazioni umane peggiorano in quanto al corpo di mano in mano,ogni generazione più, sì per se stessa, si perch’ella così peggioratanon può non produrre una generazione peggior di se ec. ec. Datutte queste e da cento altre cose, da me altrove in diversi altri luo-ghi considerate, si fa più che certissimo e si tocca con mano, che iprogressi della civiltà portano seco e producono inevitabilmente il

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AMICO. E avete cambiata opinione?TRISTANO. Sicuro. Volete voi ch’io contrasti alle ve-

rità scoperte dal secolo decimonono?AMICO. E credete voi tutto quello che crede il seco-

lo?TRISTANO. Certamente. Oh che maraviglia?AMICO. Credete dunque alla perfettibilità indefini-

ta37 dell’uomo?TRISTANO. Senza dubbio.AMICO. Credete che in fatti la specie umana vada

ogni giorno migliorando?TRISTANO. Sì certo. E` ben vero che alcune volte

penso che gli antichi valevano, delle forze del corpo, cia-scuno per quattro di noi38. E il corpo è l’uomo; perché

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successivo deterioramento del suo fisico, deterioramento semprecrescente in proporzione d’essa civiltà. Nei progressi della civiltà, enon in altro, consiste quello che i nostri filosofi, e generalmentetutti, chiamano oggidì ( e molti anche in antico) il perfezionamentodell’uomo e dello spirito umano. È dunque dimostrato e fuori dicontroversia che il perfezionamento dell’uomo include, non acci-dentalmente ma di necessità inevitabile, il corrispondente e sempreproporzionato deterioramento e, per così dire, imperfezionamentodi una piccola parte di esso uomo, cioè del suo corpo: di modo chequanto l’uomo s’avanza verso la perfezione, tanto il suo fisico cre-sce nella imperfezione; e quando l’uomo sarà pienamente perfetto,il corpo umano, generalmente parlando, si troverà nel peggiore sta-to ch’e’ mai siasi trovato, e in che gli sia possibile di trovarsi gene-ralmente» (Zibaldone, 17 agosto 1823). Il tema è già presente nelDialogo della Moda e della Morte, dove la Moda afferma: «A pocoper volta, ma il più in questi ultimi tempi, io per favorirti ho man-dato in disuso e in dimenticanza le fatiche e gli esercizi che giovanoal ben essere corporale, e introdottone o recato in pregio innume-rabili che abbattono il corpo in mille modi e scorciano la vita» (ed.a cura di O. Besomi, p. 58; il tema era utilizzato anche nell’operet-ta solo abbozzata Dialogo di un cavallo e di un bue; vedi in Appen-dice). Qui tuttavia, nell’opposizione di corpo a spirito e nella pre-minenza affidata al primo («E il corpo è l’uomo», «tutto ciò che fanobile e viva la vita, dipende dal vigore del corpo, e senza quellonon ha luogo»), acquista i connotati di una decisa polemica anti-spiritualista.

39 perché... luogo: cfr. anche Dialogo di un Fisico e di un Metafisi-co, r. 192 e seg.

40 al più chiacchierare: ricorda l’opposizione tra scrivere e agireall’inizio del Dialogo di Timandro e di Eleandro. Vedi Zibaldone, p.115: «Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore delcorpo non erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amordella gloria ec., ma contribuivano, anzi erano necessari a mantene-re il vigor dell’animo, il coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che nonsaranno mai in un corpo debole (vedete gli altri miei pensieri) in

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(lasciando tutto il resto) la magnanimità, il coraggio, lepassioni, la potenza di fare, la potenza di godere, tuttociò che fa nobile e viva la vita, dipende dal vigore delcorpo, e senza quello non ha luogo39. Uno che sia debo-le di corpo, non è uomo, ma bambino; anzi peggio; per-ché la sua sorte è di stare a vedere gli altri che vivono, edesso al più chiacchierare40, ma la vita non è per lui. E

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somma quelle cose che cagionano la grandezza e l’eroismo dellenazioni. Ed è cosa già osservata che il vigor del corpo nuoce alle fa-coltà intellettuali, e favorisce le immaginative, e per lo contrariol’imbecillità del corpo è favorevolissima al riflettere, (7 giugno1820), e chi riflette non opera, e poco immagina, e le grandi illusio-ni non son fatte per lui».

41 però: perciò. 42 ignominiosa: vergognosa, disprezzata. 43 dato che: posto il caso che. 44 in ciò: «in questo singolo problema». Ma è un punto talmente

costitutivo dello «stato moderno», che anche solo se si partisse daqui, il cambiamento sarebbe radicale.

45 poco più che bambini: ridotti dunque come si è detto poco so-pra.

46 per usare... moderna: vedi anche più avanti, rr. 204-205. «Nelsenso politico massa è un francesismo (masse) dell’epoca della Ri-voluzione, ma il significato di quantità di persone è già latino cri-stiano» (Dizionario etimologico italiano). In particolare, la parola

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però41 anticamente la debolezza del corpo fu ignominio-sa42, anche nei secoli più civili. Ma tra noi già da lunghis-simo tempo l’educazione non si degna di pensare al cor-po, cosa troppo bassa e abbietta: pensa allo spirito: eappunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo:senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicendaanche lo spirito. E dato che43 si potesse rimediare inciò44 all’educazione, non si potrebbe mai senza mutareradicalmente lo stato moderno della società, trovare ri-medio che valesse in ordine alle altre parti della vita pri-vata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospiraronoanticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e og-gi cospirano a depravarlo. L’effetto è che a paragone de-gli antichi noi siamo poco più che bambini45, e che gliantichi a confronto nostro si può dire più che mai chefurono uomini. Parlo così degl’individui paragonatiagl’individui, come delle masse (per usare questa leggia-drissima parola moderna46) paragonate alle masse. Ed

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masse (al plurale) si stava imponendo a partire dal dibattito france-se durante la Restaurazione (vedi in proposito Il problema delle«masse» in A. Omodeo, Studi sull’età della restaurazione, Torino,Einaudi, 1970, pp. 81-88) ed era concetto fondamentale nelle nuo-ve scienze statistiche (dove la singolarità in quanto tale degli indivi-dui è irrilevante, mentre conta la generalità della massa), anche perquesto aborrite da Leopardi; vedi la lettera del 5 dicembre 1831 al-la Targioni Tozzetti: «Sapete ch’io abbomino la politica, perchècredo, anzi vedo che gl’individui sono infelici sotto ogni forma digoverno; colpa della natura che ha fatti gli uomini all’infelicità; e ri-do della felicità delle masse perchè il mio piccolo cervello non con-cepisce una massa felice, composta d’individui non felici».

47 più virili: cioè meno «deboli» (cfr. r. 61) nel lasciarsi inganna-re da sistemi filosofici accomodanti. Si tenga presente quanto diceLeopardi nella lettera citata a De Sinner, sul fatto che i suoi «senti-menti verso e contro il destino» sono sempre come quelli di Bruto,della canzone e della Comparazione delle sentenze di Bruto Minoree di Teofrasto vicini a morte.

48 A ogni modo… acquistando: come prima, evidente il sarcasmo(piccole obbiezioni) del mutamento d’idee simulato; acquistando:«migliorando».

49 o, come si dice, i lumi: cfr. Paralipomeni della Batracomioma-chia, VI, 22, 6, «D’augumentar come si dice i lumi»; la metaforadei lumi per indicare il sapere, del tutto tradizionale, è il simbolodel rinnovamento culturale che dal tardo Seicento porta, appunto,all’Illuminismo; ma qui l’ironia è in particolare verso il dilagaredell’immagine, in quei primi decenni dell’Ottocento, sempre difonte francese, come sinonimo di progresso.

50 Certissimo. Sebbene vedo...: cfr. r. 83: «Sì certo. È ben vero...»;se prima ha parlato del corpo, ora viene a «ciò che appartiene allospirito» (vedi rr. 183). Vicino a tutto questo passo è un pensierodello Zibaldone, ricordato da Galimberti: «Non solo della ragione,

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aggiungo che gli antichi furono incomparabilmente piùvirili47 di noi anche ne’ sistemi di morale e di metafisica.A ogni modo io non mi lascio muovere da tali piccoleobbiezioni, credo costantemente che la specie umanavada sempre acquistando48.

AMICO. Credete ancora, già s’intende, che il sapere,o, come si dice, i lumi49, crescano continuamente.

TRISTANO. Certissimo. Sebbene vedo50 che quanto

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ma anche del sapere, della dottrina, della erudizione, delle cogni-zioni umane, si può dubitare, se facciano progressi reali. Pel mo-derno si dimentica e si abbandona l’antico. Non voglio già dir l’ar-cheologia, ma la storia civile e politica, la letteraria, la notizia degliuomini insigni, la bibliologia, la letteratura, le scoperte, le scienzestesse degli antichi. Si apprende, si sa quel che sanno i moderni;quel che seppero gli antichi (che forse equivaleva), si trascura e s’i-gnora. Nè voglio dir solo i greci o i latini, ma i nostri de’ secoli pre-cedenti, non escluso pure il diciottesimo. Guardate i più dotti ederuditi moderni: eccetto alcuni pochi mostri di sapere (come qual-che tedesco) che conoscono egualmente l’antico e il moderno, lascienza degli altri, enciclopedica, immensa, non si stende, per cosìdire, che nel presente: del passato hanno una notizia sì superficiale,che non può servire a nulla. Invece di aumentare il nostro sapere,non facciamo che sostituire un sapere a un altro, anco in uno stessogenere (senza che poi uno studio prevale in una età a spese degli al-tri). Ed è cosa naturalissima; il tempo manca: cresce lo scibile, lospazio della vita non cresce, ed esso non ammette più che tanto dicognizioni. Anche le scienze materiali non so quanto progredisca-no, a ben considerare la cosa. Bastando appena il tempo a conosce-re le innumerabili osservazioni che si fanno da’ contemporanei,quanto si può profittare di quelle d’un tempo addietro? I materialinon crescono, si cambiano. E quante cose si scuoprono giornal-mente, che i nostri antenati avevano già scoperte! non vi si pensavapiù. Ripeto che non parlo solo degli antichissimi; anco de’ recenti.Un’occhiata a’ Dizionari biografici, agli scritti, alle osservazioni, al-le scoperte, alle istituzioni di uomini ignoti o appena noti, e purvissuti pochi lustri o poche diecine d’anni sono: si avrà il comentoe la prova di queste mie considerazioni. Gli uomini imparano ognigiorno, ma il genere umano dimentica, e non so se altrettanto» (Zi-baldone, pp. 4507-4508, 13 maggio [1829]). Vedi anche il pensierodi Rousseau copiato a p. 4500-4501, a cui questo rinvia.

51 cencinquant’anni addietro: «Se presi alla lettera, gli anni diLocke, Newton, Leibniz (tuttavia sottovalutato dal Leopardi [vediin La scommessa di Prometeo, nota 991). Bayle. Mabillon ecc. ecc.»(Contini)

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cresce la volontà d’imparare, tanto scema quella di stu-diare. Ed è cosa che fa maraviglia a contare il numerodei dotti, ma veri dotti, che vivevano contemporanea-mente cencinquant’anni51 addietro, e anche più tardi, evedere quanto fosse smisuratamente maggiore di quello150

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52 copia: gran quantità. 53 e’ = ei, «egli». È un fiorentinismo, con un valore ritmico, per

scandire le due parti dell’affermazione; ed è un tratto del tono pro-verbiale, da sentenza popolare, di queste righe.

54 capitale: riprende la metafora delle «ricchezze». 55 eccetto... Germania: vedi il passo dello Zibaldone, citato alla

nota 50; nello stesso periodo in cui stendeva quest’operetta, cosìLeopardi scriveva a De Sinner (lettera del 18 dicembre 1832): «Enon mi fa punto meraviglia che la Germania, solo paese dotto og-gidì, sia più giusta verso di Voi, che la presuntuosissima, e superfi-cialissima, e ciarlatanissima Francia».

56 dottrina: cioè l’insieme di conoscenze dei «dotti». 57 Io fo queste riflessioni...: la conclusione ripete schema e inten-

zioni delle altre, accentuando il sarcasmo nel professare fede per ilprogresso anche quando al mondo fossero solo «ignoranti impo-stori» e «ignoranti presuntuosi», che è per Leopardi la situazionedel momento.

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dell’età presente. Né mi dicano che i dotti sono pochiperché in generale le cognizioni non sono più accumula-te in alcuni individui, ma divise fra molti; e che la co-pia52 di questi compensa la rarità di quelli. Le cognizioninon sono come le ricchezze, che si dividono e si aduna-no, e sempre fanno la stessa somma. Dove tutti sannopoco, e’53 si sa poco; perché la scienza va dietro allascienza, e non si sparpaglia. L’istruzione superficiale puòessere, non propriamente divisa fra molti, ma comune amolti non dotti. Il resto del sapere non appartiene senon a chi sia dotto, e gran parte di quello a chi sia dottis-simo. E, levati i casi fortuiti, solo chi sia dottissimo, efornito esso individualmente di un immenso capitale54

di cognizioni, è atto ad accrescere solidamente e con-durre innanzi il sapere umano. Ora, eccetto forse inGermania55, donde la dottrina56 non è stata ancora po-tuta snidare, non vi par egli che il veder sorgere di questiuomini dottissimi divenga ogni giorno meno possibile?Io fo queste riflessioni57 così per discorrere, e per filoso-

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58 che... di continuo: riprende l’affermazione dell’Amico. 59 Così... con lui: già una riflessione di molti anni prima dello Zi-

baldone diceva: «Nessun secolo de’ più barbari si è creduto maibarbaro, anzi nessun secolo è stato mai, che non credesse di essereil fiore dei secoli, e l’epoca più perfetta dello spirito umano e dellasocietà. Non ci fidiamo dunque di noi stessi nel giudicare del tem-po nostro, e non consideriamo l’opinione presente, ma le cose, equindi congetturiamo il giudizio della posterità, se questa sarà taleda poter giudicarci rettamente» (Zibaldone, p. 646, 12 febbraio1821); pensiero ripreso più tardi: «Non solo, come ho detto altro-ve, nessun secolo barbaro si credette esser tale, ma ogni secolo sicredette e si crede essere il non plus ultra dei progressi dello spiritoumano, e che le sue cognizioni, scoperte ec. e massime la sua civi-lizzazione difficilmente o in niun modo possano essere superatedai posteri, certo non dai passati» (Zibaldone, p. 4120, 10 ottobre1824; vedi anche p. 4124).

60 mi rimetterei alle cose dette dianzi: che dimostrano la presun-zione di superiorità del secolo.

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fare un poco, o forse sofisticare; non ch’io non sia per-suaso di ciò che voi dite. Anzi quando anche vedessi ilmondo tutto pieno d’ignoranti impostori da un lato, ed’ignoranti presuntuosi dall’altro, nondimeno crederei,come credo, che il sapere e i lumi crescano di conti-nuo58.

AMICO. In conseguenza, credete che questo secolosia superiore a tutti i passati.

TRISTANO. Sicuro. Così hanno creduto di se tutti isecoli, anche i più barbari; e così crede il mio secolo, edio con lui59. Se poi mi dimandaste in che sia egli superio-re agli altri secoli, se in ciò che appartiene al corpo o inciò che appartiene allo spirito, mi rimetterei alle cosedette dianzi60.

AMICO. In somma, per ridurre il tutto in due parole,pensate voi circa la natura e i destini degli uomini e del-le cose (poiché ora non parliamo di letteratura né di po-litica) quello che ne pensano i giornali?

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61 Credo e abbraccio: si noti la parodia nell’adottare le espressio-ni di una professione di fede, ma indirizzata verso i giornali (cfr.anche r. 130).

62 la profonda filosofia dei giornali: il sarcasmo, già evidente nelcontrasto tra profonda filosofia e l’effimero di un giornale, è piùesplicito nell’affermazione successiva: «uccidendo ogni altro stu-dio... sono maestri e luce dell’età presente». Pur espressi anche pri-ma (vedi Dialogo di un Folletto e di uno Gnomo, nota 15), è in que-sti ultimi anni che si concentrano gli attacchi di Leopardi allepubblicazioni periodiche; vedi soprattutto la Palinodia al marcheseGino Capponi, v. 18 e seg.: «viva rifulse / Agli occhi miei la gioma-liera luce / Delle gazzette. Riconobbi e vidi / La pubblica letizia, ele dolcezze / Del destino mortal»; v. 151 e seg.: «le gazzette, animae vita / Dell’universo, e di savere a questa / Ed alle età venture uni-ca fonte!» (e ancora vv. 38-42; 102-107; 205-207); e i Paralipomenidella Batracomiomachia, I, vv. 34-36 e 42.

63 spiacevole: è il punto di vista dell’«età presente», che rinunciaallo studio perché troppo faticoso e innalza dunque a «profonda fi-losofia» gli articoli dei giornali.

64 Non è vero?: come nel Dialogo di un venditore d’almanacchi edi un passeggere (cfr. rr. 25-26 e soprattutto r. 65) la locuzione se-gnala una distanza tra il personaggio e le sue affermazioni, indical’ironia di Tristano, che lascia all ‘Amico il compito di confermare(«Verissimo») un giudizio che è in realtà sarcastico. E l’Amico in-fatti comincia a dubitare: «Se... è detto da vero...

65 libro: da qui era partito il colloquio.

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TRISTANO. Appunto. Credo ed abbraccio61 laprofonda filosofia de’ giornali62, i quali uccidendo ognialtra letteratura e ogni altro studio, massimamente gravee spiacevole63, sono maestri e luce dell’età presente.Non è vero64?

AMICO. Verissimo. Se cotesto che dite, è detto da ve-ro e non da burla, voi siete diventato de’ nostri.

TRISTANO. Sì certamente, de’ vostri.AMICO. Oh dunque, che farete del vostro libro65?

Volete che vada ai posteri con quei sentimenti così con-trari alle opinioni che ora avete?

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66 e se... più riderei; cioè, se voi credeste sul serio all’importanzadei posteri, riderei ancora di più per la vostra ingenuità.

67 Non dirò... posteri: per quanto riguarda i posteri, dice Trista-no, non occorre guardare al mio caso personale, ma al problema,già accennato, di qual è la condizione presunta degli individui inquesto secolo. Poiché, secondo l’opinione diffusa (che è quella so-stenuta dall’Amico) «Gl’individui sono spariti dinanzi alle masse»,non è più necessario occuparsi dei posteri; ecco perché l’Amicodoveva «scherzare», non potendo prendere sul serio tale argomen-to.

68 i quali… antenati: interpreto il ne come riferito a a riguardod’individui o di cose individuali: sull’argomento i posteri rimarran-no della stessa idea dei loro antenati, cioè di noi (dice Tristano)«del secolo decimonono».

69 Gl’ individui… moderni: vedi nota 46. 70 in vigilia: da sveglio. 71 Lasci…individui: oltre alla lettera citata alla nota 46, vedi

quella al Giordani del 24 luglio 1828. Vedi anche Palinodia al mar-chese Gino Capponi, v. 199 e seg.

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TRISTANO. Ai posteri? Io rido, perché voi scherzate;e se fosse possibile che non ischerzaste, più riderei66.Non dirò a riguardo mio, ma a riguardo d’individui o dicose individuali del secolo decimonono, intendete beneche non v’è timore di posteri67, i quali ne sapranno tan-to, quanto ne seppero gli antenati68. Gl’individui sonospariti dinanzi alle masse, dicono elegantemente i pensa-tori moderni69. Il che vuol dire ch’è inutile che l’indivi-duo si prenda nessun incomodo, poiché, per qualunquesuo merito, né anche quel misero premio della gloria gliresta più da sperare né in vigilia70 né in sogno. Lasci farealle masse; le quali che cosa sieno per fare senza indivi-dui, essendo composte d’individui71, desidero e speroche me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse,che oggi illuminano il mondo. Ma per tornare al propo-sito del libro e de’ posteri, i libri specialmente, che oraper lo più si scrivono in minor tempo che non ne biso-

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72 che ora... leggerli: vedi Zibaldone, pp. 4272-4273: «Molti librioggi, anche dei bene accolti, durano meno del tempo che è biso-gnato a raccorne i materiali, a disporli e comporli, a scriverli. Sepoi si volesse aver cura della perfezione dello stile, allora certamen-te la durata della vita loro non avrebbe neppur proporzione alcunacon quella della lor produzione; allora sarebbero più che mai simi-li agli efimeri, che vivono nello stato di larve e di ninfe per ispaziodi un anno, alcuni di due anni, altri di tre, sempre affaticandosi perarrivare a quello d’insetti alati, nel quale non durano più di due, ditre, o di quattro giorni, secondo le specie; e alcune non più di unasola notte, tanto che mai non veggono il sole; altre non più di una,di due o di tre ore […]» (2 aprile 1827). Ma è da vedere tutto ilpensiero alla p. 4268 e seg., del quale questo è un’aggiunta (in par-te citato alla nota 83).

73 siccome... vagliono: uno dei fenomeni più caratteristici e im-ponenti dell’editoria in quegli anni furono le collezioni economi-che, composte da molti volumetti di poco costo.

74 Io per me: cfr. r. 58. 75 la verisimiglianza è che: è verosimile che. 76 questo... ragazzi: cfr. rr. 132-135.

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gna a leggerli72, vedete bene che, siccome costano quelche vagliono73, così durano a proporzione di quel checostano. Io per me74 credo che il secolo venturo farà unbellissimo frego sopra l’immensa bibliografia del secolodecimonono; ovvero dirà: io ho biblioteche intere di li-bri che sono costati quali venti, quali trenta anni di fati-che, e quali meno, ma tutti grandissimo lavoro. Leggia-mo questi prima, perché la verisimiglianza è che75 daloro si cavi maggior costrutto; e quando di questa sortanon avrò più che leggere, allora metterò mano ai libriimprovvisati. Amico mio, questo secolo è un secolo diragazzi76, e i pochissimi uomini che rimangono, si deb-bono andare a nascondere per vergogna, come quelloche camminava diritto in paese di zoppi. E questi buoniragazzi vogliono fare in ogni cosa quello che negli altritempi hanno fatto gli uomini, e farlo appunto da ragazzi,così a un tratto, senza altre fatiche preparatorie. Anzi

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77 assolvano: sciolgano. 78 atti: adatti, capaci. 79 Mi diceva… faccende: si noti che anche il conte Leccafondi

nei Paralipomeni della Batracomiomachia è detto «ne’ maneggi nu-trito», cosa che è sembrata rafforzare l’identità del comune riferi-mento a Gino Capponi, amico fiorentino di Leopardi, benché di-stante ideologicamente (e infatti destinatario della Palinodia almarchese Gino Capponi).

80 uffici: compiti. 81 esercizi: attività. 82 elezione: scelta. 83 Onde è tale il romore... una via: svolge in altro modo conside-

razioni analoghe un passo dello Zibaldone, p. 4269: «Troppa è lacopia dei libri o buoni o cattivi o mediocri che escono ogni giorno,e che per necessità fanno dimenticare quelli del giorno innanzi,sian pure eccellenti. Tutti i posti dell’immortalità in questo genere,sono già occupati. Gli antichi classici, voglio dire, conserverannoquella che hanno acquistata, o almeno è credibile che non morran-no così tosto. Ma acquistarla ora, accrescere il numero degl’im-mortali; oh questo io non credo che sia più possibile».

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vogliono che il grado al quale è pervenuta la civiltà, eche l’indole del tempo presente e futuro, assolvano77 es-si e loro successori in perpetuo da ogni necessità di su-dori e fatiche lunghe per divenire atti78 alle cose. Mi di-ceva, pochi giorni sono, un mio amico, uomo dimaneggi e di faccende79, che anche la mediocrità è dive-nuta rarissima: quasi tutti sono inetti, quasi tutti insuffi-cienti a quegli uffici80 o a quegli esercizi81 a cui necessitào fortuna o elezione82 gli ha destinati. In ciò mi pare checonsista in parte la differenza ch’è da questo agli altri se-coli. In tutti gli altri, come in questo, il grande è stato ra-rissimo; ma negli altri la mediocrità ha tenuto il campo,in questo la nullità. Onde è tale il romore e la confusio-ne, volendo tutti esser tutto, che non si fa nessuna atten-zione ai pochi grandi che pure credo che vi sieno; aiquali, nell’immensa moltitudine de’ concorrenti, non èpiù possibile di aprirsi una via83. E così, mentre tutti

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84 Ma viva la statistica... secolo: vedi la lettera del 1828 al Gior-dani cit. (e la satira della statistica nella Palinodia al marchese GinoCapponi, v. 135 e seg.); per la triade economiche, morali e politichecfr. Paralipomeni della Batracomiomachia, I, op. cit., 35, 7-8, «biso-gni universali / Politici, economici e morali».

85 ma... parole: cfr. Il pensiero dominante, vv. 59-61: «questa etàsuperba, / Che di vote speranze si nutrica, / Vaga di ciance, e divirtù nemica».

86 sessantasei anni: dal 1834, data di edizione di quest’operetta(infatti nell’autografo, steso nel 1832, sessantotto).

87 Voi parlate… ironico: cfr. Dialogo di Timandro e di Eleandro,rr. 81-82: «Voi parlate, al solito vostro, malignamente».

88 questo... transizione: un’altra delle espressioni più diffuse delmomento.

89 stato: condizione. 90 punto: per niente.

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gl’infimi si credono illustri, l’oscurità e la nullità dell’esi-to diviene il fato comune e degl’infimi e de’ sommi. Maviva la statistica! vivano le scienze economiche, morali epolitiche, le enciclopedie portatili, i manuali, e le tantebelle creazioni del nostro secolo84! e viva sempre il seco-lo decimonono! forse povero di cose, ma ricchissimo elarghissimo di parole85: che sempre fu segno ottimo, co-me sapete. E consoliamoci, che per altri sessantaseianni86, questo secolo sarà il solo che parli, e dica le sueragioni.

AMICO. Voi parlate, a quanto pare, un poco ironi-co87. Ma dovreste almeno all’ultimo ricordarvi che que-sto è un secolo di transizione88.

TRISTANO. Oh che conchiudete voi da cotesto? Tuttii secoli, più o meno, sono stati e saranno di transizione,perché la società umana non istà mai ferma, né mai verràsecolo nel quale ella abbia stato89 che sia per durare. Sic-ché cotesta bellissima parola o non iscusa punto90 il se-colo decimonono, o tale scusa gli è comune con tutti i

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91 In tal caso... ridere: cfr. rr. 199-200. 92 la natura non va a salti: «‘Natura non facit saltus’, adagio at-

tribuito a Linneo e a Leibniz, ma che ha precedenti addirittura me-dievali» (Contini); come «assioma de’ Leibniziani (se non erro)» loricorda infatti Leopardi nella forma «nihil in naturafieri persaltum» (Zibaldone, p. 1658).

93 non fate... nemici: tanto l’immagine di un secolo di veloce mu-tamento (e progresso) era cara ai contemporanei. La pur traspa-rente simulazione di Tristano sta per essere del tutto abbandonata;già l’Amico notava la possibile burla e il parlare un poco ironico diTristano, tra poco chiederà Ma infine avete voi mutato opinioni ono?

94 Poco importa... male: l’accomunare amici e nemici in unaeguale indifferenza è il primo segno del totale distacco di Tristano(e si veda infatti dove porterà lo schema nè... nè, ripreso alle rr.255-256).

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secoli. Resta a cercare, andando la società per la via cheoggi si tiene, a che si debba riuscire, cioè se la transizio-ne che ora si fa, sia dal bene al meglio o dal male al peg-gio. Forse volete dirmi che la presente è transizione pereccellenza, cioè un passaggio rapido da uno stato dellaciviltà ad un altro diversissimo dal precedente. In tal ca-so chiedo licenza di ridere91 di cotesto passaggio rapido,e rispondo che tutte le transizioni conviene che sienofatte adagio; perché se si fanno a un tratto, di là a brevis-simo tempo si torna indietro, per poi rifarle a grado agrado. Così è accaduto sempre. La ragione è, che la na-tura non va a salti92, e che forzando la natura, non si fan-no effetti che durino. Ovvero, per dir meglio, quelle talitransizioni precipitose sono transizioni apparenti, manon reali.

AMICO. Vi prego, non fate di cotesti discorsi controppe persone, perché vi acquisterete molti nemici93.

TRISTANO. Poco importa. Oramai né nimici né amicimi faranno gran male94.

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95 sarete disprezzato: cfr. Consalvo, in cui il protagonista è «Daipiù diletti amici abbandonato: / Ch’amico in terra al lungo andarnessuno / Resta a colui che della terra è schivo» (vv. 7-9). Il tema èfrequente negli ultimi testi: vedi Palinodia al marchese Gino Cappo-ni, v. 245 e seg., La Ginestra o il fiore del deserto, vv. 68-69, e i nuo-vi credenti.

96 e che… libro?: cfr. r. 196, ma ribatte a Tristano («ma che s’haa fare?»).

97 Bruciarlo è il meglio...: rispondendo solo alla seconda doman-da, Tristano replica anche alla prima, e in senso contrario a ciò cheaveva lasciato credere quando l’Amico gliene aveva posto unaidentica (r. 99, «E avete cambiato opinione?»). Ora la finzione dipalinodia si è dissolta, Tristano non ha affatto mutato opinioni, maha definitivamente provato l’isolamento suo dai contemporanei; illibro nel quale era esposta l’idea che la vita umana fosse infelice,con la persuasione che la coscienza d’ogni lettore dovesse rendereprontissima testimonianza alle sue osservazioni, a questo punto nonpuò che essere bruciato, oppure accolto attraverso una lettura ri-duttiva: solo come un libro al di fuori della realtà, puramente fan-tastico e derivato da un umore bizzarro (un libro di sogni poetici,d’invenzioni e di capricci malinconici), appunto espressione dell’in-felicità dell’autore, fatto soggettivo e non generalizzabile.

98 serbano: conservarlo. 99 capricci: nel senso di «bizzarrie». È nome diventato istituzio-

nale in ambito artistico, soprattutto nelle arti figurative, dal Cin-quecento ai Caprichos di Goya, e in ambito musicale (vedi Diziona-rio etimologico italiano).

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AMICO. O più probabilmente sarete disprezzato95,come poco intendente della filosofia moderna, e pococurante del progresso della civiltà e dei lumi.

TRISTANO. Mi dispiace molto, ma che s’ha a fare? semi disprezzeranno, cercherò di consolarmene.

AMICO. Ma in fine avete voi mutato opinioni o no? eche s’ha egli a fare di questo libro96?

TRISTANO. Bruciarlo è il meglio97. Non lo volendobruciare, serbarlo98 come un libro di sogni poetici, d’in-venzioni e di capricci99 malinconici, ovvero come un’e-spressione dell’infelicità dell’autore: perché in confiden-

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100 in confidenza... amico: cfr. il Dialogo di Timandro e di Elean-dro, r. 150.

101 io quanto a me: vedi r. 58; tutto il passo ripete l’espressionedi Eleandro, in Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 250 e seg. (evedi nota 87).

102 e tale mi credo: si noti la precisazione: io, dice Tristano, sonoinfelice e tale anche mi credo, cioè riconosco; voi vi credete felici, ese me lo dite lo credo anch’io, ma (la domanda è sottintesa) lo sietedavvero?

103 Io non conosco...: ben diversa dalla risposta di Timandro(Dialogo di Timandro e di Eleandro, r. 256), questa dell’Amico se-gna il distacco più completo dalle riflessioni di Tristano/Leopardi;il dialogo non ha più ragione d’essere e qui finisce, ma da qui, nellospazio dove nessuno è giudice se non la persona stessa, Tristano puòergersi solo, a parlare di cose su cui nessuno può interferire.

104 fallare: sbagliare.105 E di più... uomini: in questo ritratto Tristano si contrappone

a distanza a quello degli altri uomini che ha tracciato all’inizio. 106 e ardisco desiderare la morte...: invece «gli uomini universal-

mente, volendo vivere...» (r. 33). Cfr. Consalvo, v. 42 e seg.: «desia-ta, e molto, / Come sai, ripregata a me discende, / Non temuta, lamorte; e lieto apparmi / Questo feral mio dì». Si noti il processo diamplificazione, con la ripetizione disposta a chiasmo (ardisco desi-derarla... desiderarla... ardore...).

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za, mio caro amico100, io credo felice voi e felici tutti glialtri; ma io quanto a me101, con licenza vostra e del seco-lo, sono infelicissimo; e tale mi credo102; e tutti i giornalide’ due mondi non mi persuaderanno il contrario.

AMICO. Io non conosco103 le cagioni di cotesta infeli-cità che dite. Ma se uno sia felice o infelice individual-mente, nessuno è giudice se non la persona stessa, e ilgiudizio di questa non può fallare104.

TRISTANO. Verissimo. E di più vi dico francamente,ch’io non mi sottometto alla mia infelicità, né piego ilcapo al destino, o vengo seco a patti, come fanno gli altriuomini105; e ardisco desiderare la morte106, e desiderarlasopra ogni cosa, con tanto ardore e con tanta sincerità,

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107 se non da pochissimi: cfr. lettera al padre del 3 luglio 1832:«Se mai persona desiderò la morte così sinceramente e vivamentecome la desidero io da gran tempo, certamente nessuna in ciò mifu superiore».

108 Troppo... morte: sono parole di semplice potenza, come tuttein questo discorso finale di Tristano; qui la pienezza di maturo èdrammaticamente spenta da morte, in un legame stretto anche dal-l’allitterazione.

109 morto... spiritualmente: come se vivesse, cioè, per la sola vitavegetativa; cfr. l’espressione usata nella lettera dedicatoria Agliamici suoi di Toscana dell’edizione fiorentina (1831) dei Canti: «Hoperduto tutto: sono un tronco che sente e pena» (e vedi anche lalettera cit. qui alla nota 10).

110 conchiusa... vita: riprende il distico di Petrarca già adottatoda Leopardi come epigrafe nella dedicatoria citata: «La mia favolabreve è già compita, / E fornito il mio tempo a mezzo gli anni» (Pe-trarca, Canzoniere, CCLIV, vv. 13-l4; compita: «compiuta», fornito:«finito»); a tale dedica quindi si richiama, ma per aggiungere qui«conchiusa in me da ogni parte».

111 minacciati: non destinati. 112 questo: di continuare a vivere.

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con quanta credo fermamente che non sia desiderata almondo se non da pochissimi107. Né vi parlerei così senon fossi ben certo che, giunta l’ora, il fatto non ismen-tirà le mie parole; perché quantunque io non vegga an-cora alcun esito alla mia vita, pure ho un sentimentodentro, che quasi mi fa sicuro che l’ora ch’io dico nonsia lontana. Troppo sono maturo alla morte108, troppomi pare assurdo e incredibile di dovere, così morto co-me sono spiritualmente109, così conchiusa in me da ogniparte la favola della vita110, durare ancora quaranta ocinquant’anni, quanti mi sono minacciati111 dalla natura.Al solo pensiero di questa cosa io rabbrividisco. Ma co-me ci avviene di tutti quei mali che vincono, per così di-re, la forza immaginativa, così questo112 mi pare un so-gno e un’illusione, impossibile a verificarsi. Anzi se

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113 avvenire lontano: il censore ecclesiastico fiorentino aveva im-posto e ottenuto di correggere la lezione con l’altra vivere molti an-ni, che non lasciava nessun possibile richiamo alla negazione di unmondo ultraterreno.

114 Libri e studi...: cfr. la dedicatoria Agli amici suoi di Toscana,citata: «Sia dedicato a voi questo libro [...] col quale al presente (nèposso già dirlo senza lacrime) prendo commiato dalle lettere e da-gli studi». Si noti che in questo elenco finale Leopardi passa in ras-segna tutti gli strumenti di rinnovamento delle «illusioni antiche»che ha in qualche modo considerato efficaci per se stesso ma cheora non lo sono più (fino addirittura alla rinascita della poesia gra-zie alle «ricordanze»); dunque ora non si oppone più nessun dia-framma all’attesa di annullarsi nella morte (vedi rr. 352-357). Nonfa parola però dell’amore, che era l’unica forte possibilità di vita ri-masta e la cui fine è stata determinante nel consegnare Leopardi aldesiderio di morte; l’unica traccia rimane nel nome di Tristano.

115 disegni: progetti. 116 desidero... possibile: vedi Dialogo di Timandro e di Eleandro,

r. 176 e seg. 117 gli sciocchi e gli stolti... se medesimi: gli uni e gli altri dotati di

una maggiore sicurezza di vivere, contrariamente a Tristano, trop-po «implicato continuamente in se stesso» (vedi Dialogo della Na-tura e di un’Anima, r. 45 e seg.).

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qualcuno mi parla di un avvenire lontano113 come di co-sa che mi appartenga, non posso tenermi dal sorriderefra me stesso: tanta confidenza ho che la via che mi restaa compiere non sia lunga. E questo, posso dire, è il solopensiero che mi sostiene. Libri e studi114, che spesso mimaraviglio d’aver tanto amato, disegni115 di cose grandi,e speranze di gloria e d’immortalità, sono cose dellequali è anche passato il tempo di ridere. Dei disegni edelle speranze di questo secolo non rido: desidero lorocon tutta l’anima ogni miglior successo possibile116, e lo-do, ammiro ed onoro altamente e sincerissimamente ilbuon volere: ma non invidio però i posteri, né quelli chehanno ancora a vivere lungamente. In altri tempi ho in-vidiato gli sciocchi e gli stolti, e quelli che hanno un granconcetto di se medesimi117; e volentieri mi sarei cambia-

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118 Ogni immaginazione… uscire: riecheggia il «Coro dei morti»del Dialogo di Federico Ruysch e delle sue mummie, v. 1 e seg.: «So-la nel mondo eterna, a cui si volve / Ogni creata cosa, / In te, mor-te, si posa / Nostra ignuda natura»; e più oltre il Morto, risponden-do alla domanda di Ruysch «che cosa è la morte», dice: «Piuttostopiacere che altro».

119 Nè... solevano: il riferimento, come ricorda Della Giovanna,è a Le ricordanze (richiamate anche direttamente dalla parola tema-tica ricordanza); cfr. v. 87 e seg.: «Ahi, ma qualvolta / A voi ripenso,o mie speranze antiche, / Ed a quel caro immaginar mio primo; /Indi riguardo il viver mio sì vile / E sì dolente, e che la morte èquello / Che di cotanta speme oggi m’avanza; / Sento serrarmi ilcor, sento ch’al tutto / Consolarmi non so del mio destino. / Equando pur questa invocata morte / Sarammi allato, e sarà giuntoil fine / Della sventura mia; quando la terra / Mi fia straniera valle,e dal mio sguardo / Fuggirà l’avvenir; di voi per certo / Risovver-rammi; e quell’imago ancora / Sospirar mi farà, farammi acerbo /L’esser vissuto indarno, e la dolcezza / Del dì fatal tempererà d’af-fanno»; come si vede, anche con autocitazione diretta («il pensierod’esser vissuto invano»).

120 come... mondo: mentre non è vero, come documentano am-piamente gli scritti precedenti (e tra i primi Le ricordanze); ma nel-lo stacco da essi, ancor più forte si disegna il nuovo ritratto di Leo-pardi.

121 fortuna: nel senso latino di successo nei tempi a venire.

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to con qualcuno di loro. Oggi non invidio più né stoltiné savi, né grandi né piccoli, né deboli né potenti. Invi-dio i morti, e solamente con loro mi cambierei. Ogni im-maginazione piacevole, ogni pensiero dell’avvenire ch’iofo, come accade, nella mia solitudine, e con cui vo pas-sando il tempo, consiste nella morte, e di là non sa usci-re118. Né in questo desiderio la ricordanza dei sogni del-la prima età, e il pensiero d’esser vissuto invano, miturbano più, come solevano119. Se ottengo la mortemorrò così tranquillo e così contento, come se mai nul-l’altro avessi sperato né desiderato al mondo120. Questoè il solo benefizio che può riconciliarmi al destino. Se mifosse proposta da un lato la fortuna121 e la fama di Cesa-

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122 e che... scegliere: dipende, con variatio, da fosse proposta. 123 e... risolvermi: «e non vorrei si perdesse neanche il tempo per

decidere».

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re o di Alessandro netta da ogni macchia, dall’altro dimorir oggi, e che dovessi scegliere122, io direi, morir og-gi, e non vorrei tempo a risolvermi123.

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