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Democrazia come diarchia. Intervista a Nadia Urbinati di ALESSANDRO MULIERI Riprendendo alcuni spunti dal suo recente "Democrazia sfigurata. Il popolo fra opinione e volontà" (UBE), Nadia Urbinati spiega, in questa intervista concessa al “Rasoio di Occam”, perché la democrazia non è tale se non riposa su una duplice sorgente d'autorità, quella della volontà (l'autorità formale della legge) e quella dell'opinione (il giudizio dei cittadini). È questo delicato equilibrio fra volontà e opinione che è messo in pericolo da populismo e plebiscitarismo. Cominciamo dall’inizio. Il suo pensiero combina in maniera originale la storia delle idee politiche e un’attenzione particolare allo studio teorico delle realtà politiche contemporanee. Secondo lei, qual è l’importanza di una prospettiva storica nel fare teoria della politica e della democrazia? La politica è un’arte del discorso e della decisione. Si nutre della conoscenza umana, individuale e collettiva, psicologica e storica; questa conoscenza è la condizione che orienta il giudizio verso l’azione. Muovere la volontà comporta usare l’arma della parola per far valere un ragionamento e guidare le emozioni. Per questo Artistotle aveva incluso la politica nel genere del sillogismo retorico, non di quello scientifico. Questo vale soprattutto per la democrazia, un sistema di governo e una forma politica che riposa essenzialmente sul discorso, l’arte della persuasione che muove in concerto persone tra loro diverse ed estranee. Incanalare le azioni verso la decisione (ovvero verso un esito univoco) è opera delle procedure democratiche, convenzioni che sono coerenti ai principi di questa forma di governo: contare voti di egual peso secondo la regola di maggioranza e lasciare che ciascuno contribuisca con la parola alla costruzione della decisione. Il legame con il mondo sociale e storico è inevitabile in quanto queste procedure agiscono su una materia che à fatta di interessi e opinioni di individui concreti, i protagonisti del governo democratico. John Dewey scriveva che in quanto progetto in permanente formazione, la democrazia ha necessariamente una storia e si tinge della specificità della società nella quale si fa strada. Le democrazie rappresentative contemporanee sono l’esito e l’espressione permanente di una lunga serie di lotte volte a contenere poteri gerarchici fondati su ragioni non estendibili a tutti, e in questo senso arbitrarie, come l’età, una competenza specifica, la proprietà, la sacralità, la forza militare. La secolarizzazione, l’evoluzione di un sistema di scambio fondato sul mercato, l’invenzione della stampa, hanno contribuito in vario modo alla crescita di relazioni sociali rette su una qualche eguaglianza e infine alla costruzione di uno spazio pubblico separato nel quale un’eguaglianza più ampia potesse consentire al maggior numero di competere per incarichi pubblici. In questo senso possiamo dire che lo studio della democrazia non può essere concepito in una prospettiva antistorica o puramente astratta, anche se i suoi principi hanno una validità che trascende il tempo nel quale sono stati ideati e sperimentati. Il processo storico di sviluppo della democrazia è una sintesi composita di principi ed esperienze che si

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Democrazia come diarchia.

Intervista a Nadia Urbinati

di ALESSANDRO MULIERI

Riprendendo alcuni spunti dal suo recente "Democrazia sfigurata. Il popolo fra

opinione e volontà" (UBE), Nadia Urbinati spiega, in questa intervista concessa al

“Rasoio di Occam”, perché la democrazia non è tale se non riposa su una duplice

sorgente d'autorità, quella della volontà (l'autorità formale della legge) e quella

dell'opinione (il giudizio dei cittadini). È questo delicato equilibrio fra volontà e

opinione che è messo in pericolo da populismo e plebiscitarismo.

Cominciamo dall’inizio. Il suo pensiero combina in maniera originale la storia

delle idee politiche e un’attenzione particolare allo studio teorico delle realtà

politiche contemporanee. Secondo lei, qual è l’importanza di una prospettiva

storica nel fare teoria della politica e della democrazia?

La politica è un’arte del discorso e della decisione. Si nutre della conoscenza umana,

individuale e collettiva, psicologica e storica; questa conoscenza è la condizione che

orienta il giudizio verso l’azione. Muovere la volontà comporta usare l’arma della

parola per far valere un ragionamento e guidare le emozioni. Per questo Artistotle

aveva incluso la politica nel genere del sillogismo retorico, non di quello scientifico.

Questo vale soprattutto per la democrazia, un sistema di governo e una forma politica

che riposa essenzialmente sul discorso, l’arte della persuasione che muove in concerto

persone tra loro diverse ed estranee. Incanalare le azioni verso la decisione (ovvero

verso un esito univoco) è opera delle procedure democratiche, convenzioni che sono

coerenti ai principi di questa forma di governo: contare voti di egual peso secondo la

regola di maggioranza e lasciare che ciascuno contribuisca con la parola alla

costruzione della decisione. Il legame con il mondo sociale e storico è inevitabile in

quanto queste procedure agiscono su una materia che à fatta di interessi e opinioni di

individui concreti, i protagonisti del governo democratico. John Dewey scriveva che

in quanto progetto in permanente formazione, la democrazia ha necessariamente una

storia e si tinge della specificità della società nella quale si fa strada. Le democrazie

rappresentative contemporanee sono l’esito e l’espressione permanente di una lunga

serie di lotte volte a contenere poteri gerarchici fondati su ragioni non estendibili a

tutti, e in questo senso arbitrarie, come l’età, una competenza specifica, la proprietà, la

sacralità, la forza militare. La secolarizzazione, l’evoluzione di un sistema di scambio

fondato sul mercato, l’invenzione della stampa, hanno contribuito in vario modo alla

crescita di relazioni sociali rette su una qualche eguaglianza e infine alla costruzione

di uno spazio pubblico separato nel quale un’eguaglianza più ampia potesse

consentire al maggior numero di competere per incarichi pubblici. In questo senso

possiamo dire che lo studio della democrazia non può essere concepito in una

prospettiva antistorica o puramente astratta, anche se i suoi principi hanno una validità

che trascende il tempo nel quale sono stati ideati e sperimentati. Il processo storico di

sviluppo della democrazia è una sintesi composita di principi ed esperienze che si

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sono consolidati nel corso di un tempo lungo. Comincia nell’antica Grecia e arriva

fino a noi, alle nostre democrazie rappresentative. Diverse condizioni storiche, diverse

istituzioni e diverse forme di governo democratico, ma un simile principio di libertà

politica come sfera separata dalla dimensione sociale.

Ci può spiegare più nel dettaglio quali sono questi principi?

Innanzitutto l’eguale libertà politica di darsi leggi, ovvero l’autonomia, un principio

che attraversa l’intera storia occidentale. Quella democratica è un’eguaglianza

artificiale per cui persone di diversa condizione sociale, economica, e oggi dobbiamo

aggiungere culturale, religiosa e di genere, hanno un potere eguale di prendere parte al

processo politico, sia approvando direttamente le leggi che votando per chi dovrà

coprire questa funzione. E’ questa la condizione per vivere liberi: non sottostare al

potere di chi lo reclama dichiarandosi superiore in una qualche cosa che non può

essere acquisita anche dagli altri e idealmente da tutti. Gli antichi ateniesi chiamavo

questa eguaglianza isonomia o per legge ovvero per una ragione che nulla aveva a che

fare con qualità naturali o situazioni sociali. Quando Solone dichiarò che i poveri

erano uguali ai ricchi, intese dire che come cittadini di Atene essi erano uguali e la

legge li doveva proteggere dal rischio derivante dalla traduzione delle diseguaglianze

sociali in diseguaglianze di potere politico. La democrazia fece dunque una promessa

di ugual potere in qualcosa, non in tutto. Due sono i principi correlati a questo:

isegoria o il potere eguale che ogni cittadino ha di partencipare con la parola alla

formazione della decisione, e parrhesia o il sapere di poter con sicurezza parlare

francamente in pubblico. La condizione democratica è di tranquillità e di sicurezza

non solo di libertà. Essa non promette se non questo e per tanto il suo valore come

ordine politico sta nell’essere un metodo, una procedura.

Parlando di quest’aspetto, mi viene in mente che nel suo libro lei insiste molto sul

rapporto stretto che lega la democrazia al liberalismo politico. Come lei scrive,

“la democrazia prima di tutto promette la libertà e usa l’eguaglianza politica e

legale per proteggere ed esaudire questa promessa”. In altre parole, sulla scia di

Bobbio e Habermas, lei insiste sul ruolo dell’eguaglianza come necessario

complemento della libertà. Come risponde a quei teorici, come Chantal Mouffe,

che guardano al rapporto tra liberalismo e democrazia in termini di

opposizione?

Credo che sia davvero difficile concepire la democrazia senza il principio della libertà

di scelta da parte dei cittadini. Sia Hans Kelsen che Norberto Bobbio (che si ispirava a

Kelsen) hanno ben spiegato la relazione tra democrazia e libertà. La mia visione del

rapporto tra democrazia e liberalismo è simile a quella di questi autori e riposa su

un’idea semplice: il liberalismo politico (governo moderato e fondato sui diritti

individuali) e la democrazia sono intrecciati perché senza le libertà di parola e

associazione i cittadini non possono contribuire a costruire opzioni politiche e a

scegliere di schierarsi, pro o contro, ovvero a formare una maggioranza o a finire

all’opposizione. Si ritorna insomma al ruolo fondamentale che la libertà politica

assume nel garantire l’isegoria. Autori come Chantal Mouffe che insistono sulla

centralità del conflitto in democrazia hanno però difficoltà a contemplare il momento

della decisione. Quando si decide, si verifica un’interruzione momentanea del

processo conflittuale o di antagonismo – o meglio quel processo si sposta fuori dalle

istituzioni, le quali procedono secondo quella specifica visione selezionata dalla

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maggioranza. Quindi non è sufficiente dire che la democrazia è basata sul conflitto (o

il suo opposto, il consenso); bisogna specificare che la democrazia è prima di tutto

metodo di decisione basato sulla regola di maggioranza. Questa specificazione è

fondamentale perché elimina alla radice il consenso unanimistico, che non fa parte

della democrazia anche perchè esso può conferire il potere di veto anche a uno solo,

ovvero assegnare potere alla minoranza invece che alla maggioranza. La democrazia

comincia quando non si è d’accordo e si deve poter decidere e quando di decide di

decidere contando i singoli voti secondo il principio di maggioranza, che, come si

intuisce, presuppone l’esistenza di una minoranza (cosa che, invece, il principio

unanimista non presuppone: qui, infatti, l’esistenza dell’opposizione è vista come una

sconfitta). La regola di maggioranza e il voto individuale sono le condizioni

fondamentali che caratterizzano la democrazia rispetto a sistemi non-democratici. E’

per questo che liberalismo (quello politico) e democrazia si implicano a vicenda,

hanno bisogno l’uno dell’altro.

‘Democrazia sfigurata’. Questo il titolo del suo ultimo libro in uscita con

università Bocconi editore in cui racconta la crisi delle democrazie

contemporanee (edizione in Inglese Democracy Disfigured. Opinion, Truth and the

People per Harvard University Press). Lei descrive la democrazia come un

sistema diarchico basato sui concetti di volontà e opinione. Allo stesso tempo, la

sua intenzione dichiarata è quella di difendere una concezione procedurale della

democrazia. Può spiegarci cosa intende?

L’espressione ‘diarchia” vuol significare che in democrazia ci sono due poteri o due

sorgenti di autorità e poi che essi non sono in opposizione ma che, pur restando

diversi e distinti, sono in permanente relazione. Una, la volontà, è l’autorità formale

della legge e di chi la fa e l’applica (il voto dei cittadini, quello dei corpi elettivi, le

regole e le istituzioni dello Stato) e il cui procedere è secondo norme stabilite in una

costituzione scritta; uso il termine volontà riferendomi alla tradizione delle teorie

della sovranità che identificavano la legge con la volontà (Rousseau in particolare,

dove la volontà è la legge del sovrano). L’altro potere, quella che chiamo opinione, sta

e vive fuori delle istituzioni, nel mondo regolato dai diritti individuali politici che

servono ad articolare il giudizio dei cittadini e a esprimere il dissenso nella società, a

raccogliere informazioni. Questa seconda forma di autorità include forme diverse di

partecipazione. Per opinione (che dovrebbe essere pensata al plurale), intendo il

mondo vario di formazione delle idee che coinvolge settori diversi della società civile.

L’opinione ha tre funzioni: la prima è conoscitiva-cognitiva e cioè raccoglie e

diffonde informazioni grazie alle quali noi formuliano i nostri giudizi politici; la

seconda è politica e consiste nello schierarsi al momento di costruire o scegliere

agende politiche; la terza è estetica nel senso che si basa sull’idea dell’esposizione

pubblica da parte di chi gestisce il potere e le istituzioni (noi cittadini vogliamo vedere

quello che avviene dentro il palazzo per poter giudicare). Queste tre funzioni

costituiscono insieme l’idea di autorità dell’opinione.

Una concezione, questa della diarchia democratica, che sembra molto simile a

quella di Habermas per cui la democrazia deliberativa si basa su una struttura

doppia della deliberazione formale e informale. Quali le differenze con la teoria

habermasiana?

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Sicuramente queste due forme di autorità politica, volontà e opinione, sono presenti in

diversi autori, soprattutto nel lavoro di Jürgen Habermas. Tuttavia, in Fatti e Norme di

Habermas le due forme di autorità, le procedure che corrispondono alla volontà e

l’opinione, rimangono indipendenti l’una dall’altra. Inoltre, la democrazia come

deliberazione sulla quale Habermas ha focalizzato la sua teoria politica dà molto

rilievo alla funzione integrativa dell’interazione etica tra cittadini che argomentano

delle questioni pubbliche e meno alla funzione decisionale che nasce dal suffragio e si

manifesta con le opzioni partigiani ovvero in partiti politici. Infine, l’opinione

ragionata di cui parla Habermas intende in qualche modo emendare gli interessi e le

opinioni non riflessive, modi se così si può dire inferiori di partecipazione perchè

esposti alla ragione strumentale. Secondo me le due dimensioni devono essere pensate

insieme benchè ciascuna abbia una funzione sua propria e il loro potere sia diverso; e

infine, la dimensione dell’opinione deve contemplare le ragioni partigiane e interessi e

non escluderle come forme contaminate di deliberazione.

E qual è la posizione di Bobbio su quest’aspetto?

A differenza di Habermas, Bobbio sembra suggerire l’idea della democrazia come

diarchia. Quando in Il futuro della democrazia Bobbio definisce la democrazia un

metodo, egli aggiunge che questo metodo presuppone che la società sia luogo di

espressione e contestazioni delle opinioni, un esercizio di dissenso che necessita di un

metodo per convergere verso decisioni. In Bobbio la democrazia promette l’elezione

dei rappresentanti, e si basa anche su un processo di partecipazione regolata diretta e

indiretta alla formazione del consenso, di condivisione del potere da parte di tutti. La

forma razionale della deliberazione è una componente, non però ciò che vale a

nobilitare la democrazia: sono invece le procedure a nobilitarla perchè consentono il

libero gioco delle idee e degli interessi, il rispetto dell’esito della gara a patto che le

regole consentano sempre di provare a vincere domani. E’ la temporaneità di ogni

decisione che ci rende liberi, il fatto che nessuna vittoria è ultima. Quello che faccio

rispetto a Bobbio è di schematizzare la distinzione servendono dell’idea diarchica di

volontà e opinione. La mia idea è che i due poteri debbano rimanere separati e distinti

e interagire senza mai confondersi o sovrapporsi. Questo equilibrio o meglio la

tendenza a mantenere questo equilibrio è il lavoro in cui consiste la democrazia, un

ordine politico e insieme un modo di agire nello spazio pubblico (definito sia dal voto

che dalla sfera dell’opinione).

Il libro arriva a conclusione di un periodo decennale in cui il suo pensiero si è

contraddistinto per un’attenzione particolare, storica e teorica, al concetto di

democrazia rappresentativa. L’idea alla base del suo libro del 2006

Representative Democracy: Principles and Genealogy è che la democrazia

rappresentativa sia “una forma unica di governo democratico peculiare delle

società moderne” che non costituisca un'alternativa alla partecipazione. In

contrasto rispetto al democratismo radicale alla Rousseau e l’elitismo

schumpeteriano (che convergono nel definire rappresentanza e partecipazione

come opposti concettuali) lei sostiene che la partecipazione ha bisogno della

rappresentanza per dispiegarsi e dipinge la rappresentanza come una forma

complessa di partecipazione, un processo politico che genera e si sostiene su un

continuo flusso di influenza, controllo e comunicazione tra cittadini e

rappresentanti. In che modo quest’idea della rappresentanza come

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partecipazione si rapporta (o si evolve) nel concetto diarchico di democrazia

come volontà e opinione?

La diarchia di cui parlo in questo libro è lo svolgimento di quello che già avevo messo

in luce nel libro del 2006. Comune a entrambi è l’idea che la democrazia sia fatta

delle regole che conosciamo proprio perchè retta sull’opinione e quindi il dissenso (in

quanto contrariamento alla verità l’opinione non ha altra autorità che il numero dei

consensi che riesce a ottenere). Tuttavia, in quest ultimo lavoro faccio un passo

ulteriore approfondendo il concetto di potere dell’opinione e individuando le possibili

deformazioni cui la diarchia può andare incontro. Mi sembra che le maggiori

metamorfosi avvengano proprio sul versante dell’opinione, nel modo in cui le tre

funzioni dell’opinione sono espresse. Presumendo la democrazia procedurale come la

figura essenziale, parlo di variazioni della sua figura e anche di sfiguramenti.

Si può pensare che le deformazioni della democrazia convivano con la concezione

diarchica?

Le deformazioni non devono essere viste come alternative rispetto alla democrazia,

ovvero come forme non-democratiche; nella maggior parte dei casi, esse convivono e

nascono dall’interno della democrazia, come forme estreme di stiracchiamento di una

funzione dell’opinione rispetto alle altre. Proprio in virtù di questa coabitazione della

democrazia con le sue sfigurazioni, è importante interrogarci su quali sono le

condizioni che portano allo sviluppo di quest’ultime. Ce ne sono molte e tutte attuali.

Penso ad esempio all’invenzione di Internet, la cui importanza è sicuramente

paragonabile a quella che l’invenzione della stampa ebbe per la nascita della

democrazia moderna. Ma penso anche al problema della regolamentazione dei

finanziamenti economici e agli squilibri legati alla globalizzazione che mettono in

crisi la forma statale della democrazia. Credo che la particolare pericolosità delle

deformazioni della democrazia cominci a essere evidente quando queste cominciano a

diventare narrative dominanti.

Come spiega lei stessa, il concetto di democrazia epistemica è particolarmente

attuale perché guarda in modo falsato al tema del rapporto tra democrazia e

verità. In che modo le concezioni epistemiche della democrazia si rapportano o

modificano la democrazia come diarchia?

Nel rapporto tra le due autorità è possibile che questa seconda, l’autorità

dell’opinione, si trasformi così da voler svolgere la funzione della volontà. Questo

avviene nella prima sfigurazione della democrazia che analizzo, quella sostenuta dalle

teorie epistemiche della democrazia. La mia critica a questa sfigurazione parte dal

fatto che la democrazia ha e ha sempre avuto un rapporto molto complicato con la

verità e la teoria politica con la filosofia. Questo perché il suo metodo di decisione

non ammette che ci sia una verità assoluta. Sulla verità non si ha senso votare.

Quando Rousseau dice che in assemblea chi si trova in opposizione sbaglia, egli non

presuppone una concezione di verità assoluta, ma un’idea di verità legata alla nozione

di cittadinanza (la volontà generale). Secondo il filosofo ginevrino, per il cittadino la

giustizia e l’utilità devono andare insieme: questo è il senso del patto sociale. La

volontà generale non ha contenuto ma è un medoto grazie al quale i cittadini si fanno

la domanda alla quale devono rispondere quando sono chiamati a votare, a operare

cioè come attori pubblici, come cittadini. Quando un cittadino deve giudicare una

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proposta da votare non si deve chiedere: “mi piace questa proposta?”. Si deve invece

chiedere: “è questa proposta in accordo col patto fondativo del contratto sociale per il

quale l’utilità individuale deve andare insieme alla giustizia?” Rousseau non dice

quindi che chi è all’opposzione sbaglia nel senso che si oppone a u certo contenuto o a

una verità assoluta; lo dice invece presumendo che come cittadini dobbiamo farci la

domanda giusta, alla quale, secondo lui, non ci possono essere due risposte diverse ma

una sola. Il punto di riferimento – i principi fondamentali – è il termine centrale sul

quale il goudizio politico si forma, rispetto al quale chi ha ottenuto meno voti è

prevedibilmente nel torto (presupponendo che tutti ragionino senza malevolenza o che

nessuno usi l’arte della retorica per persuadere). La lezione di Rousseau è importante

per questa ragione: ci ricorda che la democrazia presume la diversità di opinione e

l’argomentazione, anche se non possiamo seguire Rousseau nella regola del silenzio

per tenere lotanto il discorso e l’arte della persuasione (sulle quali del resto riposa la

rappresentanza, che Rousseau come sappiamo esclude). Retorica e ideologia sono le

armi che i cittadini usano quendo partecipano alla formazione delle opinioni, le quali

sono plurali. I filosofi alla ricerca della verità non sono contenti di questa soluzione e

credono che la democrazia non debba soltanto concederci di vivere nell’eguale

opportunità di participare alla formazione della volontà politica; vorrebbero inoltre

che le sue procedure ci diano la possibilità di ottenere decisioni buone o migliori di

quelle che otterremmo se seguissimo procedure non-democratiche. Tuttavia, le

procedure democratiche non sono costruite perché noi otteniamo risultati di un certo

tipo. Noi abbiamo quelle procedure perché prendiamo decisioni all’interno di

situazioni per nulla omogenee o organiche e questo ci può portare anche a decisioni

non soddisfacenti. Lo scopo delle procedure non è di darci buoni risultati ma risultati

che siano sempre modificabili – direi quindi che la democrazia è il regno delle

decisioni penultime.

In altre parole, le teorie epistemiche della democrazia rigettano una visione

procedurale della democrazia e preferiscono considerarla un mezzo per ottenere

certi risultati. Ma quale può essere una risposta democratica a queste teorie?

Un esponente di punta delle teorie epistemiche della democrazia, David Estlund,

critica Habermas per diferere il proceduralismo senza dargli nessun valore oltre la

procedura stessa; in questo senso il proceduralismo habermasiano sarebbe indicativo

di un atteggiamento nichilista. Questa è la visione propria delle teorie epistemiche

della democrazia che vedono nella procedura una struttura in sè priva di valore se non

finalizzata a un esito buono. La mia risposta a questa visione consequenzialista è che

nella procedura c’è un valore perché le regole dicono chi siamo, cioè uguali cittadini

che liberamente partecipano alla costruzione delle decisioni. Le procedure della

democrazia sono piene di contenuto in questo senso. Tra l’altro, l’idea epistemica

della democrazia è storicamente infondata. La democrazia non ci promette dove

andare ma soltanto come dobbiamo camminare, non è uno strumento quindi ma un

fine in se stesso. Questo si porta alla mente Machiavelli, secondo il quale la politica

assomiglia all’acqua che gli argini incanalano per approfittare al massimo della sua

forza e tener sotto controllo le sue potenzialità disastrose. La democrazia procedurale

fa le veci degli argini. La visione epistemica ci porta invece a vedere la procedura

politica come un mezzo per raggiungere certi risultati ovvero per correggere le nostre

opinioni nella ricerca di ottenere risposte vere o corrette ai problemi. Gli epistemici

vogliono una democrazia la cui bontà sta nelle buone leggi che produce. E invece, la

democrazia produce anche decisioni pessime, eppure noi continuiamo a preferirla a

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sistemi dispotici che promettono e forse anche producono bone decisioni. Perchè

scegliamo la democrazia invece del dispotismo illuminato? Se noi ci basiamo su

quello che produce, rischiamo davvero di svalutare la democrazia, la quale come

regime politico produce molto spesso mediocri o pessime decisioni.

Tra l’altro, è difficile non riscontrare delle somiglianze tra le teorie epistemiche

della democrazia e la crescente importanza della tecnocrazia o dei tecnici nei

governi democratici contemporanei. Ad esempio, al livello europeo adesso si

parla spesso di ‘output democracy’ intendendo con quest’espressione il fatto che

la democrazia debba essere un regime in grado di raggiungere risultati tanto

legittimi quanto efficienti. Che rapporto c’è tra le teorie epistemiche e questa

visione efficientista della democrazia?

Credo che gli epistemici, a differenza degli efficientisti, partano dal concetto di

eguaglianza. La democrazia dà la stessa voce a tutti perché c’è una base di

uguaglianza di potenzialità intellettuali in tutti. Secondo la visione epistemica, la

procedura è già contenuta nel principio di eguaglianza della capacità intellettiva. Per

gli efficientisti, invece, la situazione è più estrema e, credo, pericolosa perché

trasformano la democrazia in una questione di problem-solving, proprio come accade

nella governance. Il ragionamento sembra sia il seguente: dato che le democrazie sono

incapaci di prendere con certezza decisioni efficaci o efficienti, occorre restringere il

raggio d’azione della scelta politica. Questo è il discorso che emerge per esempio dal

libro Republicanism di Philip Pettit, che discuto nel secondo capitolo del mio libro.

Secondo Pettit, i parlamenti devono diventare silenti mentre tutto il lavoro deve essere

fatto da commissioni di esperti che sanno meglio ragionare imparzialmente perchè

non soggetti al verdetto popolare; ai parlamenti si lascia il voto finale si/no. In

quest’ottica, l’opinione deve essere superata, non può entrare nel gioco deliberativo se

la democrazia deve raggiungere ‘buone’ decisioni. Ma se le decisioni nei luoghi

deliberativi elettivi non sono più rilevanti, allora ci dirigiamo verso una forma di

deliberazione spoliticizzata. Come si vede, il rischio è l’esautoramento dei corpi

elettivi. Ma al di là di ciò, la procedura non ha bisogno di una giustificazione basata

sull’eguaglianza delle capacità intellettive per essere legittima: del resto l’idea di

universalità del suffragio è una risposta radicale contro il principio della capacità

intellettiva. Bobbio ha ben chiarito questo: la democrazia non ha un fine specifico da

raggiungere. Se riempi il fine della democrazia con qualcosa, da quel momento tu

limiti le possibilità dei cittadini, la loro libertà. La democrazia ci lascia quindi la

capacità di sbagliare e rifare decisioni. E’ un sistema aperto di decisione: il regno,

appunto, delle decisioni penultime. Tra l’altro, se la ragione dovesse essere il

fondamento della sovranità allora dovrebbero votare solo i più sapienti (un’idea

permanente nella storia, da Platone fino a Guizot). Invece, è la nostra libertà la

ragione della nostra partecipazione. E’ per questo che credo che, sia la democrazia

epistemica che quella efficientista siano un ossimoro. Nel dialogo platonico del

Protagora c’è un esempio interessante per capire il rapporto tra la democrazia e la

competenza tecnica. In questo dialogo, Platone ci spiega che se il popolo vuole

costruire una nave si rivolge ovviamente ai tecnici competenti e ai costruttori di navi,

non le costruisce da solo. Però è il popolo che decide se quelle navi servono e se

devono essere costruite: questo è il loro potere politico, che risiede appunto nel potere

eguale di decidere non nel potere di decidere bene o correttamente (per cui si possono

delegare competenti o tecnici).

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Passiamo a quella che lei considera nel libro la seconda disfigurazione della

politica, e cioè il populismo. In che modo esso si appropria del concetto di volontà

in una democrazia e lo riformula in senso anti-democratico?

Delle tre disfigurazioni, il populismo è l’unico che agisce in maniera radicale anche

sulla trasformazione del concetto di volontà. Per i populisti, l’ideologia del popolo

unisce volontà e opinione: l’opinione più omogenea o quella che ha più largo

sostegno dovrebbe essere eo ipso la volontà o la legge. Mentre la democrazia

epistemica si concentra sull’opinione (per negarla) qua abbiamo a che fare con una

critica serrata al concetto di rappresentanza che svuota la volontà di qualsiasi aspetto

formale e procedurale per essere espressione dell’opinione popolare. Il populismo usa

le procedure solo nella fase della propria affermazione, allo scopo di vincere. In un

secondo momento, il leader populista tenta in tutti i modi di realizzare la propria idea

facendo ad essa coincidere il potere dello stato. Se nella visione epistemica la

democrazia è giudicata dal punto di vista della verità esterna alla procedura, qui è

giudicata dal punto di vista dell’aderenza della procedura a quel che il popolo (ovvero

il leader) vuole che la verità sia. Un esempio di questa visione viene o è spesso venuto

dall’America latina, dove i leader populisti o i caudilli hanno utilizzato il potere dello

stato per favorire la propria costituency e quindi togliere le armi all’opposizione.

Questo modo di concepire il potere, tuttavia, toglie valore alle procedure

democratiche concepire come mezzi al servizio di un’idea di popolo. In questa visione

della democrazia, il liberalismo è espunto. Il vero obiettivo polemico del populismo è

la democrazia rappresentativa, la competizione e il pluralismo partitico, espressioni

del fatto che nella società ci sono interessi diversi e non tutti unificabili sotto un’idea

egemonica di popolo.

La sua critica alla deformazione populista della democrazia ha come obiettivo

principale il libro di Ernesto Laclau, la ragione populista. Qual è la sua critica

principale al libro del filosofo argentino scomparso recentemente?

Laclau è stato forse l’unico pensatore contemporaneo che ha cercato di dare al

populismo una statura teorica autonoma; per fare questo ha sostenuto un’identità di

populismo, democrazia e politica. Quest’ultima avrebbe a che fare con la costruzione

collettiva del sovrano (Laclau non lo chiama sovrano ma popolo). Il popolo di Laclau

è tale nel senso romano di plebe, cittadini meno abbienti, coloro che cercano

nell’unità sotto un tribuno la loro protezione dai potenti. La politica è costruzione

ideologica dell’unità del popolo. Laclau è giungo a questo esito con due mosse

teoriche notevoli: ha prima emancipato il popolo dall’identificazione con la massa

ignorante e la democrazia oclocratica (nella tradizione di Gustave le Bon o Ortega-i-

Gasset); poi, ha emancipato l’azione politica della massa dall’accusa di irrazionalità

che è servita a giusitificare la teoria della scelta razionale, cioè la dissoluzione del

soggetto collettivo immettendo nella politica il ragionamento strumentale economico

individuale. Laclau emancipa la politica dalla razionalità economica ed emancipa la

massa dall’irrazionalità rivendicando l’unicità della ragione politica, che è fatta di miti

e di retorica ed in questo profondamente razionale allo scopo: uniformare una massa

di individui portatori di varie rivendicazioni in un popolo attore collettivo è agire

politico. Laclau rivendica l’originalità dell’azione politica e popolare collettiva

attraverso un processo egemonico. Questo è indubbiamente un importante contributo.

Se non che la politica non è soltanto costruzione dell’egemonia. Oltretutto, come

spiego nel libro, il modo in cui Laclau usa l’idea gramsciana di egemonia è

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discutibile. La teoria di Laclau è inquietante perché l’identificazione tra populismo e

politica ci dice che tutto è populismo. Se è così, allora perché parlare di democrazia e

di populismo? Secondo me le cose stanno in un modo diverso. Il populismo per essere

definito ha bisogno della democrazia, esso non è la democrazia. E’ una

radicalizzazione del principio maggioritario che non è abolito ma realizzato e poi

usato in maniera così intensa da rendere l’opposizione nana o inutile. Questo utilizzo

strumentale del principio maggioritario fa del populismo una creatura parassita della

democrazia, che sugge dalla democrazia la linfa e che per questo può corromperla. Il

populismo sta al confine estremo della democrazia, oltre il quale ci può essere

dittatura.

Tuttavia lei distingue il populismo da certi movimenti popolari come gli

Indignados o OccupyWallStreet…

E’ impossibile dare una definizione categorica del populismo. Quel che faccio è

identificare alcune categorie che lo contraddistinguono. Lo distinguo prima di tutto

dal movimento popolare. Un movimento popolare è democratico e non è la stessa

cosa del populismo. Indignados e OccupyWallStreet sono stati movimenti popolari

che non hanno voluto e avuto un capo unico e hanno invece contribuito alla dialettica

democratica dei regimi rappresentativi, anche se li hanno radicalmente contestati. Al

contrario, il populismo è un progetto di governo e di trasformazione della democrazia

da parlamentare e partitica a consensuale e mono-archica. In quest’ultimo caso, il

rischio è di andar fuori dalla democrazia e avere un altro regime.

Qualcuno potrebbe leggere la sua critica al populismo come un tentativo di

mettere sullo stesso piano fenomeni molto diversi come quello quelli del

populismi europei di Le Pen o della Lega Nord e i populismi sud-Americani di

Chavez e Correa. E’ possibile distinguere politiche populiste ‘buone’ e populismi

‘cattivi’?

Non credo. Il populismo è l’affermazione di un maggioritarismo estremo e in questo

senso la distinzione tra populismo di destra e di sinistra non è rilevante; essa è

contingente. La forma populista ha delle caratteristiche costanti. Se dovessero

prendere in mano il potere, i due populismi farebbero le stesse cose. Il populismo è

antiliberale e non sopporta le minoranze politiche. Unisce il popolo contro l’élite e per

raggiungere quest’obiettivo la distinzione tra destra e sinistra non ha grande

importanza.

Nell’ultima parte del libro, lei discute una terza disfigurazione della democrazia

che lei definisce plebiscitarismo. Quali sono le differenze col populismo?

Il plebiscitarismo è imparentato al populismo ma mantiene la distinzione tra

procedure e opinione e le distribuisce tra due gruppi diversi: chi opera nelle istituzioni

(l’elite) e il pubblico che sta fuori. Nel plebiscitarismo i pochi sono eletti e i molti

fanno un’altra cosa, assistono all’esercizio del potere da parte dei primi. C’è una

divisione del corpo sovrano in due gruppi, e quindi la funzione del popolo viene ad

essere passiva in rapporto a quella svolta dai pochi. Il popolo diventa spettatore o

occhio (come lo chiama Jeffrey Edward Green) ma è privato dell’elemento della

cittadinanza attiva. Dato che il popolo è svilito a plebiscito, la figura della leadership

fa tutto il lavoro e le procedure si risolvono nell’andare a votare, nel sancire il leader,

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secondo una logica Schumpeteriana, che ben si lega a questa visione della

democrazia. E’ chiaro che nel caso del populismo c’è una presenza dirigistica assai

forte, come nel caso del plebiscitarismo; ma la differenza è che nel primo l’elemento

popolare è più attivo che nel secondo. Nel populismo c’è la massa mobilitata mentre

nel plebiscitariamo ci sono soprattutto gli spettatori che guardano la televisione o

usano Twitter o seguono il leader nelle sue permanenti esternazioni pubbliche. Nel

populismo la voce è centrale mentre nel plebiscitarismo è la vista a farla da padrone.

Nel plebiscitarismo non c’è bisogno che il tema del popolo sia centrale perchè ci sia

un leader. Come dice Bernard Manin, nella democrazia dell’audience i veri attori sono

gli esperti di comunicazione dei partiti che diventano mezzi di costruzione

dell’audience e non sono più strumenti di elaborazione politica.

Nel suo libro, lei spiega che il concetto di Cesarismo (cioè il rapporto diretto tra

un leader carismatico e il suo popolo) ha varie declinazioni e può essere

interpretato sia come una conseguenza del populismo che come una componente

del plebiscitarismo. Quali sono gli elementi di specificità del cesarismo populista

in rapporto a quello plebiscitario?

In effetti, il concetto di Cesarismo assume un aspetto diverso nel populismo e nel

plebiscitarismo. Il leader plebiscitario è un leader carismatico come di insegna Max

Weber, e ha bisogno di essere amato dalle masse e di dare loro quella forma che esse

non sanno darsi da sole. Il leader del nostro tempo tuttavia non cresce nel parlamenro

e nemmeno nel partito, ma nella sfera dell’opinione. Ecco perchè uso l’espressione

plebiscitarismo dell’audience. Questo leader non ha più vita privata e paga questo

prezzo in cambio del potere. Questo nuovo plebiscitarismo pensa che finalmente il

pubblico riesca a controllare il leader senza più doversi affidare a istituzioni non

democratiche, come le corti costituzionali o la dovisione dei poteri o il

bicamenralismo. Si tratta di visione idealistica del ruolo dei mezzi di comunicazione,

che si scontra con l’esperienza recente e recentissima: noi non abbiamo in effetti alcun

controllo o potere sul leader, è la sua immagine che controlla noi; egli vuole il nostro

consenso e di serve di strategie commerciali o mediatiche per ottenerlo. Quel che noi

facciamo è vedere quel che qualcuno ha deciso che dobbiamo vedere. Al contrario,

nel populismo il leader cesarista è un attore politico: c’è unione mistica tra popolo e

leader in tutti e due i casi, ma viene raggiunta in maniera diversa in ciascun caso. Nel

populismo, il leader va in piazza, interagisce col popolo, talvolta si confonde con esso

e in mezzo a questo. Nel caso del plebiscitarismo, invece, la costruzione del leader

carismatico dei media è un’immagine, una costruzione mediatica dai contorni mitici e

sfumati. Il leader rappresenta se stesso: è un esemplare di uno di noi. L’aspetto

estetico è essenziale mentre nel populismo c’è un aspetto politico preminente. Credo

tuttavia che la deformazione totalitaria sia molto più pericolosa nel caso del

plebiscitarismo perché qui il popolo scompare per diventare pubblico. In entrambi, i

corpi intermedi sono comuque esautorati. Esempi di leader plebiscitari sono stati

Bettino Craxi, Tony Blair e, più recentemente Matteo Renzi. Silvio Berlusconi

combinava fattori populisti e plebiscitari, se non altro perchè aveva un apparato

ideologico (liberali contro comunisti) del quale si serviva per gestire la dialettica

“amici”/”nemici”. Ma queste semplificazioni sono semopre stiracchiate; in realtà tra

populismo e plebiscitarianismo c’è osmosi, soprattutto nella società dell’opinione

mediatica.

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Il dibattito recente sulla rappresentanza, soprattutto nel mondo anglofono, tende

a valorizzare sempre di più il ruolo costitutivo ed estetico della rappresentanza

come creazione del politico o come interazione dinamica tra pretese

rappresentative e un concetto molto ampio di pubblico (penso ad autori come

Frank Ankersmit e Michael Saward). Questa tendenza, che ha delle similitudini

nel concetto estetico di doxa che lei critica nella deformazione plebiscitaria della

democrazia, radicalizza l’idea che la rappresentanza sia una sorta di sovranità

riflessiva (quello che lei definisce opinione) e, in certi casi, tende a isolarla dal

concetto di volontà da lei descritto, promuovendo forme post-rappresentative e

post-sovrane di democrazia. Qual è il suo giudizio sulla qualità democratica di

queste forme di rappresentanza estetica?

Le forme di rappresentanza estetica esprimono solo una parte del discorso sulla

rappresentanza. La rappresentanza politica è una categoria complessa che ha bisogno

di un’autorizzazione formale, della volontà. Di conseguenza, mi sembra che queste

forme estetiche di rappresentanza siano imparentate alla sfigurazione plebiscitaria

della democrazia la quale, da sola, non qualifica la rappresentanza democratica.

Inoltre, mi sembra che esse non abbiano un’accredito normativo democratico perché

presumono che la rappresentanza sia un’azione autoreferenziale che si impone

acquistando visibilità senza sottostare al controllo dei rappresentati visto che c’è

rifiuto dell’indicazione del rappresentante per via di elezioni. Che dunque il loro

programma le qualifichi come rappresentative ovvero che la rappresentanza avvenga

per auto-legittimazione mi sembra problematico. L’uso della rappresentanza estetica è

un modo per legittimare la rappresentanza degli interessi o dei valori e ci ricorda

Schmitt, quando nei suoi scritti parlava di rappresentanza dell’autorità ecclesiatica

come simbolo di una forma di rappresentanza superiore al consenso dei rappresentati.

Giova ricordare che questo tipo di rappresentanza serve a giustificare l’autorità dei

rappresentanti più che a dare potere ai rappresentati.

L’impatto della globalizzazione sulle democrazie contemporanee è alla base di

una buona parte dei fenomeni di spoliticizzazione e anti-politica descritti nel suo

libro. Crede che la crescita dell’interdipendenza globale e della complessità

sociale e politica della governance transnazionale stiano avendo un impatto

negativo sulle democrazie contemporanee? E come guarda alle diverse teorie che

cercano di dare una risposta democratica ‘cosmopolitica’ al deficit democratico

globale?

Indubbiamente i processi di globalizzazione stanno avendo un impatto fondamentale

sulle trasformazioni della democrazia rappresentativa. Il problema non è la

democrazia ma la condizione statale dell’autorità politica. Tuttavia sono molto

scettica sulla possibilità di uno stato globale come soluzione a questo problema. Chi è

il cittadino di una democrazia globale? Thomas Piketty nel suo ultimo libro parla

molto della necessità di una tassazione globale. Il problema è chi decide che ci debba

essere una tassazione al livello globale? Chi sono gli attori politici e come li si seglie e

controlla?

Un’ultima domanda è sul futuro della democrazia. Dall’ascesa dei populismi

(soprattutto alle ultime lezioni europee) al peso crescente della globalizzazione,

sembra che le democrazie contemporanee siano sempre più incapaci di dare

risposte adeguate alla realtà politica in cui operano. Ci sono secondo lei degli

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aspetti prioritari su cui dovremmo concentrarci per cercare di rimediare alla

crisi delle democrazie?

Credo che la cosa più importante da evitare di fronte allo stato di crisi delle

democrazie sia una forma di rassegnazione che può rivelarsi fatale. Certo, è

innegabile che gli strumenti che abbiamo al momento sono insufficienti. Ci sono due

aspetti che ritengo assolutamente prioritari per cercare di arginare la crisi che

contraddistingue le democrazie contemporanee. Bisogna essere più radicali nel creare

le condizioni economiche della democrazia: la cittadinanza deve avere delle proprie

risorse, delle basi economiche auonome dal mercato privato, per finanziare il potere

della volontà e quello dell’opinione (ovvero partiti, campagne elettorali e mezzi di

informazione). Devolvere al privato questi mezzi di formazione della scelta politica

non è la strada migliore per irrobustire la democrazia. La democrazia ha un costo e

costa, e questo non è uno scandalo (è fatta da cittadini ordinari, non da plutocratici o

da nobili!). Questa attenzione alle procedure e ai costi per ben attuarle riporta in

primo piano il valore delle elezioni e mette in guardia dalla trendenza in atto a

restringere il numero e le funzioni degli organi elettivi per designare a comitati di

nominati compiti politici.