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A Genova nei primi anni del Settecento aveva un po’ di popolarità un saltimbanco del quale erano sconosciuti sia il luogo sia la data di nascita. Si esibiva naturalmente in altre piazze italiane e in non troppo lontane località francesi dove era ritenuta eccezionale la sua abilità di saltatore,tanto da essere soprannominato jambe de fer.

Si chiamava in realtà Giovanni Battista Nicolini Grimaldi, ma il suo nome sareb-

be rimasto ignoto come gli altri suoi dati anagrafici se a Genova non avesse

avuto un figlio, Giuseppe, destinato a essere contemplato in tutte le enciclopedie

dello spettacolo. Giuseppe Grimaldi nacque nel 1713 e ormai quarantacinquenne, pro-

babilmente non molto gratificato dai concittadini e stanco di fare lo scavalcamontagne

al seguito del padre, decise di scavalcare il mare, approdò

in Inghilterra e si stabilì sulle rive del Tamigi.

A Londra si affermò come interprete di balletti e pantomi-

me, applauditissimo come primo ballerino. Morì nel 1788

lasciando un figlio, Joseph, al quale aveva cominciato a

fare calcare i palcoscenici all’età di due anni, avviandolo a

diventare un clown tra i più grandi di tutti i tempi, pari

all’elvetico Grock e al russo Popov.

Quel Giuseppe Grimaldi, tanto lontano nel tempo, ci offre

la perfetta definizione dell’artista emigrato, perché emi-

grato non può essere considerato l’esule che lascia volon-

tariamente o forzatamente la propria patria a causa di una

persecuzione religiosa, politica o razziale, né il profugo

costretto ad allontanarsi per l’avvicinarsi di un fronte di

guerra o per lo spostamento di un confine, tanto meno l’e-

spulso da una condanna o chi tenta di sfuggire a una pena.

Emigrante è colui il quale lascia il luogo d’origine e si tra-

sferisce in cerca di lavoro.

Così non sono emigranti gli scienziati e gli intellettuali

chiamati a studiare o insegnare in paesi stranieri; gli archi-

tetti, gli scultori, i pittori invitati a progettare, produrre,

esporre all’estero; tutta la gente di spettacolo in tournée.

Giuseppe Grimaldi fu emigrante perché volle, cercò e trovò

considerazione fuori dal proprio paese.

Dagli Appennini alle Ande...ovvero quando l’arte emigradi Cesare Viazzi SP

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Il nome di GiuseppeGrimaldi (Mr. Grimaldi)in una locandina inglesedel 1781.

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La danza italiana fornisce molti esempi analoghi, tutti però collocabili nell’Ottocento e

dopo il secondo conflitto mondiale, mentre dell’epoca della grande emigrazione c’è da

ricordare solo l’avventura di una ligure, la spezzina Maria Gambardelli. Nata nel 1900

andò giovanissima a New York dove conquistò rapidamente il palcoscenico del

Metropolitan. Negli anni Trenta interpretò quattro film e per proseguire la carriera di

attrice cinematografica nel 1937 tornò in Italia dove apparve in altre tre pellicole.

Tersicore però la richiamò negli Stati Uniti e il Metropolitan la consacrò prima balleri-

na. Morì a Huntington nel 1990.

L’aver accennato alla decima musa ci induce a soffermarci sul cinema al quale i liguri

tanto hanno dato, anche all’estero. E viene subito alla mente Rodolfo Valentino. Tutti

sanno essere nato a Castellaneta, in provincia di Taranto, nel 1895, meno che compì gli

studi di agraria a Sant’Ilario. Nel 1912 era già in Francia, nel 1913 negli Stati Uniti. Fece

il giardiniere, lo sguattero, l’assicuratore, il ballerino e l’insegnante di ballo prima di

diventare, per tutte le platee cinematografiche del mondo, il prototipo dell’“amante

latino”.

Chi sa se l’inimitabile tanguista Rodolfo Valentino ha mai saputo di aver ballato spesso

sulle note e le parole scritte da liguri immigrati in Sudamerica tra l’Otto e il Novecento?

Tra questi Alfredo Alberto Bevilacqua (autore del trattato “Escuela de tango”), Roberto

Firpo (direttore di grandi orchestre e autore di tanghi celebri come “El almanecer” e

“Alma de bohemio”), Enrico Delfino la cui “Milonguita” fu cavallo di battaglia di Maria

Esther Podestà, rubia cantora e attrice, il cognome della quale dichiara la provenienza.

Sono di Bartolomè A.V. Alberto Vacarezza le parole della “Milonguita” e de “La copa del

olvido” interpretate anche da Carlitos Gardel, il più famoso interprete del tango argenti-

no, amico caro del nostro Mario Cappello.

E’ questo un estratto del censimento dei liguri che hanno contribuito al successo del

tango compilato da Giuseppino Roberto, Presidente Internazionale dell’Associazione dei

Liguri nel Mondo, il quale conosce, tra l’altro, quanta sia la presenza nostrana nella sto-

Rodolfo Valentino.

Molti furono i genovesiautori di celebrimelodie del tangoargentino.

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ria della musica di Uruguay (dove il maestro Angelo Maria Luigi Sambuceti fondò una

scuola), Perù (qui fu applaudito il violinista e violoncellista Andrea Bolognesi e Claudio

Rebagliati fu maestro di cappella della Cattedrale di Lima), Cile (dove tenne scuola di

canto il basso Mansueto Gaudio) e di tutta l’America Latina.

Nel 1913, quando Rodolfo Valentino pose piede in America dove fu ucciso da una peri-

tonite nel 1926, un genovese doc di trentacinque anni, di professione camallo,

Bartolomeo Pagano, fu trascinato a Torino e messo davanti a una macchina da presa. Lo

aveva scelto per il fisico possente il regista della piemontese Itala Film Giovanni Pastrone

per farlo partecipare a “Cabiria” nei pochi panni dello schiavo negro Maciste. E Maciste

divenne l’eroe di innumerevoli pellicole girate a ritmo frenetico sino al 1920, anno nel

quale l’industria cinematografica italiana entrò in crisi.

Pagano emigrò allora in Germania e, a Berlino, trovò scritture ma non soddisfazioni.

Nella capitale tedesca si trovò male. A lui, che prediligeva il minestrone e se ne man-

giava cinque fondine di seguito, la cucina non piaceva, la birra neppure, i soggetti dei

film che era costretto a interpretare non lo convincevano. Per di più l’inflazione galop-

pante sviliva i guadagni. Dopo tre anni rientrò in Italia dove la fortuna tornò a sorri-

dergli. Aveva interpretato venticinque film quando nel 1928 si ritirò a Sant’Ilario, in

una villetta non lontana dalla scuola frequentata da Rodolfo Valentino. Qui morì nel

1947.

Bartolomeo Pagano ha dunque vissuto anche l’esperienza dell’emigrato.

Si può dire altrettanto per Ludovico Toeplitz? Nato a Genova nel 1893, barone, laureato

all’Università di Milano, esponente dell’alta finanza (fu Segretario Generale e compo-

nente del Consiglio di Amministrazione della genovese Terni) nel 1931 si infatuò del

cinema e divenne produttore. Attivo prima a Roma, poi a Londra e a Bruxelles, rimpa-

triò dopo l’ultimo conflitto. Decedette a Milano nel 1973.

E si può dire per il produttore-regista Alfredo Guarini? Genovese di nascita (1901) dal 1928

lavorò a Vienna, Berlino, Parigi e negli USA. Nel 1931 a Tucson sposò l’attrice Isa Miranda

con la quale ritornò in Italia prima dello scoppio della guerra. Morì a Roma nel 1981.

Certamente emigrato fu Paolo Levi (Genova 1919 – Roma 1989) soggettista, sceneggiato-

re e commediografo che a vent’anni andò in Brasile dove rimase per un decennio.

Una certa manualistica divide la storia della emigrazione italiana in tre tappe e l’emi-

grazione massiccia che si sviluppò dal 1880 al 1930 è detta “del primo periodo”. Per la

verità il fenomeno dell’esodo non ha data di nascita, c’è sempre stato, e possono essere

ritenuti “recenti” gli espatri di quegli italiani (molti liguri) che nel Quattrocento si sta-

bilirono a Mosca. A metà del Cinquecento un chirurgo genovese esercitava la profes-

sione alla Boca del Rio de la Plata. Nel 1820 l’emigrazione era già rilevante e si è visto

che quella degli ultimi decenni dell’Ottocento e dei primi tre del Novecento ha avuto

come mete privilegiate le Americhe e alcuni paesi europei. Gli altri continenti hanno

accolto italiani in numero esiguo.

Intorno al 1880 su 100 italiani immigrati nelle Americhe più della metà arrivavano dalla

Liguria, ma rapidamente la percentuale diminuì ed il movimento interessò sempre più

altre regioni, specialmente del Nord-Est. Nel 1930 l’America del Nord ospitava quasi quat-

tro milioni di italiani, il Brasile un milione e 840 mila, l’Argentina un milione e 797 mila.

Le statistiche dicono che circa il 90% degli emigrati “del primo periodo” era analfabeta,

ma il dato non può valere per la Liguria da dove, insieme a una maggioranza di conta-

dini, partirono molti artigiani e non pochi intellettuali ed artisti.

Nel 1833 era partito da Genova per l’Uruguay il pittore Gaetano Gallino, non proprio emi-

grante, piuttosto esule. Era infatti un mazziniano fervente e per eludere i rigori della poli-

Bartolomeo Pagano,“Maciste”.

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zia si rifugiò a Montevideo dove prosperava una colonia di oltre 400 connazionali. Nel

1843, con numerosi profughi liguri, si arruolò nella Legione Italiana di Giuseppe Garibaldi

e della Legione ideò la bandiera (nera, con al centro un vulcano, a simboleggiare la patria

in lutto, ma con il fuoco in petto) e l’uniforme con la leggendaria camicia rossa. Combattè

e ritrasse più volte il condottiero. Sono del Gallino un ritratto di Garibaldi dipinto dal vero

dopo la battaglia di S. Antonio del Salto del 1846 e quello di Anita.

Il pittore morì nel 1884 nella sua Genova, dove era nato all’inizio del secolo. Tristemente,

all’Albergo dei Poveri.

Tra i tanti pittori liguri che nell’Ottocento – primo Novecento lavorarono molto all’e-

stero (e per estero deve intendersi fuori dalla penisola) rammentiamo il savonese

Giuseppe Frascheri (in Inghilterra, dove sposò la gentildonna Annetta Bracken); l’impe-

riese Raffaele Giannetti (a Parigi); i genovesi Ernesto Rayper (in Svizzera e in Francia),

Dante Mosè Conte e Angelo Vernazza (a Parigi e Londra), Orlando Grosso e Domingo

Motta (a Parigi), Antonio Pietro Quinzio (in Francia, Russia, Olanda e Stati Uniti

d’America).

Le pubblicazioni argentine fanno cenno di un Edoardo Sivori.

Il lacunoso elenco può essere, se non completato, almeno arricchito con i profili di quat-

tro pittori a loro modo singolari: in ordine cronologico, Michele Rigo genovese francesiz-

zato, vissuto a cavallo tra i Secoli XVIII e XIX; Mario Zavattaro, la biografia del quale è

zeppa di punti interrogativi; Giuseppe Sacheri nato a Genova nel 1863 e morto a Pianfei

nel 1960; Severino Tremator, pugliese di nascita, genovese d’adozione (1895-1940).

La storia ci fa incontrare per la prima volta il Rigo come membro della Commissione

Napoleonica delle Arti e delle Scienze durante la campagna d’Egitto. Il nostro rientrò

dall’Africa con appunti e schizzi che furono la base di successive opere definitive, per la

maggior parte dedicate alle gesta e ai fasti di Napoleone. Tornò a Genova, dove aveva com-

piuto i suoi giovanili studi di pittura, nel 1808, ma vi si trattenne poco per riprendere un

ininterrotto pellegrinaggio, attraverso città italiane e straniere, che si concluse a Parigi.

Per conoscere Mario Zavattaro bisogna rintracciarlo a Buenos Aires raggiunta da Genova

sul finire dell’Ottocento. L’Argentina è notoriamente il paese dei gauchos e l’abitante

Severino Tremator,Alpini in grotta (1919).

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delle pampas fu mitizzato da José Hernandez con il

poema “El gaucho Martin Fierro” pubblicato nel 1872.

Da allora innumerevoli disegnatori tentarono di dare un

volto al personaggio e a ricrearne il mondo: vi riuscì

Mario Zavattaro con trentasei acquerelli che lo fanno

ancora considerare “el ilustrador paradigmatico de

Martin Fierro”.

Il marinista Giuseppe Sacheri non fu propriamente un

emigrante: fu un nomade, come forse nessuno. Dipinse a

Genova, a Torino e a Milano per poi intraprendere un

percorso qui irricostruibile da Monaco a Lima, Weimar,

Cracovia, Vienna, Parigi, Bruxelles, Dresda, San

Francisco, Guayaquil per finire nel cuneese.

Tremator capitò a Genova subito dopo la I Guerra

Mondiale, alla quale aveva partecipato come ufficiale

degli alpini sino a quando non era stato fatto prigioniero.

Aveva trascorso un anno in una tetra fortezza a

Salisburgo disegnando ininterrottamente. A Genova con-

tinuò a disegnare e dipingere, vivendo non proprio bril-

lantemente. Ma un giorno del 1930 un critico britannico,

notati alcuni suoi pastelli esposti in una galleria di Via XX

Settembre, suggerì all’autore di andare in Inghilterra.

Tremator seguì il consiglio.

Con la valigetta in finta pelle e pochi spiccioli in tasca attraversò la Manica: dopo un

mese le sue illustrazioni comparvero sulle riviste londinesi, un anno dopo espose alle

Creatorex Galleries in Grafton Street, in un battibaleno diventò l’idolo delle dame. La

guerra lo colse in un castello della Scozia dove si trovava per fare il ritratto di una delle

più belle donne dell’isola. Le leggi di guerra sono crudeli: Severino Tremator è un uffi-

ciale nemico e deve essere avviato a un campo di concentramento. Di lui non si avranno

più notizie sino alla fine del conflitto, quando il Sindaco di Genova riceverà dalle auto-

rità britanniche questa comunicazione: “Il signor Severino Tremator è ufficialmente

considerato perito nel naufragio del vapore inglese Arandora Star sul quale era imbarca-

to per essere trasferito in un campo di concentramento nel Canada”.

Edoardo Chiossone e,sotto, Tokyo, il Palazzodel Poligrafico delMinistero del Tesorogiapponese, di cui il Chiossone fu per anniil direttore (dal volumeLe lacche orientali, a cura di DonatellaFailla).

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Una avventura sempre singolare, ma senza epilogo tragico, aveva vissuto mezzo secolo

prima Edoardo Chiossone. Nato ad Arenzano nel 1832, avendo frequentato giovanissi-

mo il corso di incisione all’Accademia Ligustica di Belle Arti e quelli di perfezionamen-

to a Francoforte e Londra, pensò di impiegare questa tecnica nella stampa della carta-

moneta. L’applicò per conto della Banca Nazionale Italiana. Nel 1872 fondò la Zecca di

Tokio che diresse a lungo e morì nella capitale giapponese nel 1898. Durante la sua per-

manenza in Giappone collezionò oggetti di arte orientale che donò all’Accademia di

Genova e che costituiscono l’eccezionale patrimonio del Civico Museo di Arte Orientale

Edoardo Chiossone.

Musei, chiese, necropoli e collezioni sparsi nell’intero mondo custodiscono sculture di

artisti italiani. Non è facile distinguere se si tratta di acquisizioni oppure di lavori di arti-

sti immigrati.

Si sa che Luigi Orengo mise in opera a Genova i monumenti che ora si trovano in Belgio,

Romania e Cile; ma Luigi Cichero alle molte ordinazioni ricevute dall’America del Sud,

per merito di un Crocifisso realizzato nel 1897 per la Chiesa di San Giovanni a Buenos

Aires, ottemperò sempre andando oltre Oceano?

Anche Pietro Capurro, un novese allievo dell’Accademia Ligustica, emigrato a Parigi

dove si affermò come ritrattista, molto lavorò per committenti delle Americhe Centrale

e Meridionale, ma dove? Antonio Bozzano dove eseguì il monumento destinato alla

Chiesa del SS. Rosario a Washington? Dove Guido Monteverde realizzò le opere funera-

rie che sono a Madrid, a Craiova in Romania e a Buenos Aires? Dove Giacinto Pasciuti

soddisfece le richieste dei suoi clienti stranieri?

Non è mai stata fatta una ricognizione esauriente sulla diffusione tra Ottocento e

Novecento della scultura italiana.

Sono noti i soggiorni all’estero di Federico Fabiani e Vincenzo Olcese, mentre i cataloghi

delle esposizioni internazionali documentano altre presenze liguri a Parigi, New York,

Chicago, Londra, Monaco di Baviera, St. Louis, San Francisco…

L’imbarco per l’America(Collezione StefanoFinauri).

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Certe sono le lunghe laboriose permanenze dei liguri G.B.Francesco Fasce a Las Palmas,

Francesco Orsolino a Santiago del Cile, un Montarsolo a Santa Marta in Colombia,

Onorato Toso a Gibilterra, Santiago Cogorno in Argentina.

Nell’America Meridionale ci sono tredici o quattordici monumenti pubblici di Lorenzo

Massa e numerose sculture funerarie di Demetrio Paernio. E ci sono molte chiese ed edi-

fici civili progettati da architetti liguri, impreziositi da artigiani liguri, marmorari e scul-

tori in legno, con apparati e arredi.

L’emigrazione ripresa nel 1946 è quella detta “del secondo periodo”. Dal 1946 al 1970 il

numero degli espatri è stato elevatissimo: c’è chi ha calcolato che in venticinque anni

hanno emigrato oltre cinque milioni e mezzo di italiani. Dal 1971 il fenomeno è andato

via via esaurendosi (“terzo periodo”) e sono invece aumentati i rimpatri. Il loro numero

è oramai pari o superiore a quello dei pochi espatri. Tra questi ultimi c’è quello emble-

matico di Gianni Ratto. Nato occasionalmente a Milano, ma di famiglia genovese, Gianni

Ratto frequenta il Liceo Artistico a Genova ed è partecipe dell’esuberante ripresa teatra-

le dell’immediato dopoguerra, sodale di Ivo Chiesa, Giannino Galloni e Lele Luzzati.

Chiamato da Paolo Grassi al Piccolo di Milano vi rimane come scenografo sino al 1954.

Improvvisamente lascia l’Italia per il Brasile: ha conosciuto l’attrice carioca Maria Della

Corte e decide di compiere il viaggio transatlantico. In Brasile c’è andato un altro geno-

vese, Augusto Colombara, che ha raggiunto una collocazione privilegiata come regista

lirico. Gianni Ratto e Maria Della Corte fondano a San Paulo il Teatro Popolare d’Arte,

successivamente il Teatro dei Sette. Gianni Ratto, ormai anche regista, diventa uno dei

più autorevoli esponenti dell’avanguardia degli anni Sessanta. Qualche volta torna a

Genova. E’ venuto nel 2003 e ci sono volute la tenacia di alcuni giornalisti e l’affettuosa

maieutica di antichi compagni per fargli ammettere di essere in veste di consulente del

governo brasiliano per il teatro e la cultura.

La sua autobiografia – della quale non esiste una traduzione in lingua italiana – ha un

titolo molto eloquente: “Lo zainetto dell’emigrante”.

L’imbarco per l’America(Collezione StefanoFinauri).

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