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Coscienza religiosa e cultura moderna: percorsi della ragione e dell’istruzione

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Coscienza religiosae cultura moderna:

percorsi della ragionee dell’istruzione

Indice

INTRODUZIONE

7 Nota editoriale9 Insegnare con un’ipotesi

Onorato Grassi

INTERVENTI

17 Il dramma del soggetto modernoCostantino Esposito

33 Chiesa senza arte, arte senza Chiesa.Il senso religioso nell’arte modernaGiuseppe Frangi

45 Il fondamento antropologico della moderna teoria dei dirittiLorenza Violini

53 Pensiero scientifico e religiosità nell’insegnamento scolastico:per un progetto educativo aperto all’unità del sapereGiuseppe Tanzella-Nitti

69 Eliot interprete profetico della cultura modernaLuca Montecchi

73 In ogni momento del tempo vivete dove due mondi s’incrociano.In ogni momento vivete un punto d’intersezione.Letture da Thomas Stearns Eliot

Nota editorialeIl Quaderno che presentiamo raccoglie le relazioni al convegno“Coscienza religiosa e cultura moderna: percorsi della ragione e dell’i-struzione”. Il convegno, promosso dall’Associazione Culturale Il RischioEducativo, insieme alla Fondazione per la Sussidiarietà e in collaborazio-ne con F.O.E., Diesse (Didattica e innovazione scolastica) e Di.sa.l., si ètenuto il 14 febbraio 2009 nelle sedi (ospitanti) dell’Università Cattolicadel Sacro Cuore di Milano e, in collegamento, della Fondazione Karis diRimini e dell’Istituto Sant’Orsola di Catania.Nella relazione introduttiva, che ha per titolo “Insegnare con un’ipotesi”e alla quale si rimanda come presentazione generale del tema e di questoQuaderno, Onorato Grassi, docente all’Università Lumsa di Roma e pre-sidente del Comitato Scientifico dell’Associazione Culturale Il RischioEducativo, riprende e approfondisce i contributi pervenuti in preparazioneal convegno da molte scuole, e indica l’utilità e la centralità di una conce-zione culturale per lo svolgimento di un percorso educativo e didattico.Perciò, “La coscienza religiosa nell’uomo moderno” merita di divenireuna base culturale di verifica, per la sua rispondenza alla realtà e per lalettura della modernità e delle sue nostalgie.Costantino Esposito, docente all’Università degli Studi di Bari, nella suarelazione su “Il dramma del soggetto moderno” afferma che educare allareligiosità autentica, oggi, è educare alla ragione, intesa come lo spaziodell’incontro tra l’io e la realtà, quell’apertura in cui c’è già l’io e ilmondo. La razionalità va, così, sottratta all’idea illuministica da atto nota-rile, che procede per astrazioni separate dal mondo, e deve essere educa-ta a guardarsi come spazio di donazione della realtà, in modo che tuttodiventi segno amato.Con l’ausilio di alcune immagini Giuseppe Frangi, critico d’arte e gior-nalista, nel suo intervento dal titolo “Chiesa senza arte, arte senza Chiesa.Il senso religioso e l’arte moderna” sottolinea come la dimensione religio-sa, potente in alcuni artisti del ‘900, non trovi più in quel dinamismo del-l’immaginazione, testimoniata nell’arte figurativa da Cimabue aRembrandt, la strada maestra per esprimersi: gli artisti contemporaneinon hanno più l’energia per immaginare la storia sacra ma hanno un

NOTA EDITORIALE8

uguale necessità di dare corpo e forma al senso di verità e di bellezza cheli pervade.Lorenza Violini, docente all’Università degli Studi di Milano, nella suarelazione “I fondamenti antropologici della moderna cultura dei diritti”,ripercorre le tappe del cammino dei diritti, attraverso la lettura di alcuniarticoli della “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” del1789 e della “Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo” del 1948; inessi si evidenzia come l’uomo che emerge dalla moderna riflessione giuri-dica sia spesso un uomo “astratto”, non adeguatamente riferito alla suareale concezione antropologica.Nel suo intervento, dal titolo “Pensiero scientifico e religiosità nell’inse-gnamento scolastico: per un progetto educativo aperto all’unità del sape-re”, Giuseppe Tanzella- Nitti, docente alla Pontificia Università dellaSanta Croce di Roma, mette in luce i principali nodi del rapporto tra pen-siero scientifico e religiosità, sottolineando la necessità di restituire allascienza, trasmessa soltanto nella sua dimensione pragmatica, quella aper-tura alla dimensione religiosa e umana, caratteristica della persona e nondelle singole discipline, sempre testimoniata dai più grandi scienziati dellastoria.Infine Luca Montecchi, preside all’Istituto Sacro Cuore di Milano, intro-duce la scelta di passi poetici e in prosa di uno tra i più grandi poeti delXX secolo, T. S. Eliot, il quale “anziché arrestarsi allo sdegno e alla male-dizione per le atrocità del XX secolo, si è incaricato di rinvenire le traccedisperse o devastate del senso e di mostrarne la praticabilità nel presente,anche nel deserto di un mondo guasto”.

“I bambini non si stancano mai di sentire le cose vere”: la frase, tratta dal con-tributo della Scuola primaria dei Padri Somaschi di Corbetta, esprime, in modosemplice e mirabile, l’esperienza educativa e scolastica, quando essa è vera.Il convegno “Coscienza religiosa e cultura moderna: percorsi della ragio-ne e dell’istruzione”, di cui presentiamo gli atti, è stato ampiamente prepara-to, sia dal Direttivo dell’Associazione, affiancato dal Comitato scientifico, siadalle scuole che formano, per così dire, l’anima di questa Associazione. Essehanno lavorato, in modo formale e informale, nei mesi scorsi, sul tema delConvegno, aiutate anche da un questionario distribuito a novembre, e moltehanno inviato il loro contributo scritto. Il quadro che ne è emerso, sebbene noncompleto, è risultato estremamente vivace e ricco di sollecitazioni e proposte.Ciò ripropone il valore e la natura dell’Associazione Culturale Il RischioEducativo, che è quella di essere una rete di scuole che lavorano e sperimen-tano insieme, come una sorta di “grande scuola” nella quale è possibile dialo-gare, mettere a confronto esperienze, discutere problemi e cercare strade perrisolverli. Man mano che ci si addentra nella costruzione di una scuola siavverte l’esigenza e l’urgenza di tale confronto; sia perché la “realizzazione”dei principi educativi nella pratica scolastica lo richiede, non essendo automa-tica o protocollare la loro realizzazione,sia perché nessuna scuola, anche la piùforte, può presumere, oggi di farlo, senza implicare un contesto più ampio e lacollaborazione con altri soggetti e altre scuole, formando con esse un tessutodi lavoro o, appunto, una rete.Ma il Convegno di quest’anno si lega anche, in modo forte e culturalmente si-gnificativo, ai precedenti Convegni, in particolare agli ultimi due. Nel Conve-gno del 2007, “Il rischio di educare nella scuola”1, si è messa in luce la perti-nenza della concezione educativa, che fa capo a Luigi Giussani, con l’istruzionee la possibilità che tale concezione possa fungere da ipotesi di fondo per farescuola. Dei tanti esempi che si potrebbero citare a questo riguardo, vorrei men-zionare quello di una scuola statale, la Direzione Didattica statale “Don LuigiGiussani” diAscoli Piceno, che, in un contesto laico e pluralista, ha scelto il Ri-schio educativo come ipotesi educativa della scuola sulla base della “corri-spondenza” umana che, insegnanti, alunni e genitori, hanno trovato con essa.

“Insegnare con un’ipotesi”Onorato Grassi

L’anno seguente il Convegno fu dedicato a “Una scuola che insegna a ragio-nale: il metodo dell’esperienza”2, per tematizzare, da una parte, lo scopo ulti-mo della scuola e della formazione che da essa si riceve – la capacità di ragio-nare, di usare in senso ampio della ragione (nessuno, infatti, vorrebbe trovarsidi fronte a uomini che, come diceva sant’Agostino in uno dei suoi bellissimicommenti ai Salmi, “non sapiunt, non capiunt”, “non sanno e non capiscono”)- e, dall’altra, per indicare il metodo dell’insegnamento e dell’apprendimento,che ha nell’esperienza il suo fulcro e la sua consistenza.Nel convegno di quest’anno si intende compiere un nuovo passo, nel solcosegnato, aprendo, a tutto campo, la questione del sapere, della conoscenza, deicontenuti che la scuola trasmette e fa acquisire.Nel Convegno del 2005 (Scuola, riforma, capitale umano, Milano, 22 gen-naio), a proposito de Il compito della scuola libera, dopo una rassegna deiprincipali modelli, si diceva: “Non può dunque essere trovato nell’efficienza,nella formazione morale, nella risposta alle urgenze sociali il motivo fonda-mentale di una scuola libera. Piuttosto la ragione e la giustificazione di unascuola libera vanno ricercate in una questione di carattere culturale ed educa-tivo, che rappresenti l’elemento comprensivo anche delle altre esigenze (...).Ciò significa costruire la scuola intorno ad un’ipotesi esplicativa unitaria, chepermetta la trasmissione del sapere in modo coerente, confrontabile con crite-ri espliciti e chiari, in costante paragone con le esigenze della cultura e i risul-tati della scienza. Una scuola libera nasce dall’esigenza di comunicare, verifi-care e condividere un’ipotesi esplicativa della realtà, e si costituisce come stru-mento di impegno sistematico, coerente e continuo nel tempo, intorno a taleipotesi e al suo sviluppo”3.Nel Rischio educativo si considera la tradizione, intesa non come passato, macome tradizione viva, una ipotesi esplicativa della realtà e la si collega alla“scoperta” e al “contatto con la realtà”. “Così non può avvenire quel mirabileerompere di scoperte, quel mirabile seguito di passi e quella catena di contat-ti che definiscono lo sviluppo, l’educazione di un essere, cioè che sia “intro-duzione nella realtà totale”, senza un’idea di significato che all’individuo informazione si presenti adeguatamente solida, intensa e sicura”. E si conclude-va: “L’accendersi di questa ‘ipotesi’ è segno del genio; l’offrirla ai discepoli èl’umanità del maestro; l’aderirvi come a luce nell’avventura del proprio cam-mino è la prima intelligenza del discepolo”4.Ancor oggi, invece, gli studenti si trovano posti dinanzi e dentro un’estremaparcellizzazione e frammentazione del sapere, di processi di istruzione e diformazione che non si curano “di offrire aiuto per l’effettiva presa di coscien-

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za di un’ipotesi esplicativa unitaria”. Eppure la scuola dovrebbe servire pro-prio a questo: a fornire un’ipotesi interpretativa che consenta di capire comeuna cosa c’entri con l’altra, di spiegare il perché di ciò che capita, di stabilirenessi e rapporti fra i vari oggetti, fatti, fenomeni.In uno dei contributi si parla della “bellezza della conoscenza che renderà glialunni più liberi di scegliere e di realizzarsi”. Tale bellezza può essere detur-pata se non vi è alcuna ipotesi che venga presentata agli alunni in modo “soli-do, intenso e sicuro”.“Nella scuola - osservano nel loro contributo i colleghi svizzeri - si comunicaun sapere che ha la pretesa di dire qualcosa di vero sulla realtà attraversol’insegnamento”. L’errore, sempre in agguato, è quello di cadere nel dualismofra istruzione ed educazione, riducendo il primo a “comunicazione asettica dicontenuti” e la seconda a mero trattamento psicologico o a “coinvolgimentoemozionale”.Che sia urgente affrontare il problema del sapere, della conoscenza trasmessa eacquisita a scuola, dei contenuti e, quindi, dell’ipotesi secondo cui sono trattati,è chiaramente detto in molti dei contributi giunti. Come formulazione riassun-tiva può essere citata quella dei colleghi de La Zolla di Milano, i quali, dopo unabreve analisi dell’insegnamento nella scuola media, sostengono che “la frantu-mazione del sapere (frantumazione disciplinare) deve essere “vinta” da una pro-posta conoscitiva unitaria”. La prof. Sternini, di Cesena, denuncia i pericoli diquesta frammentazione, che non è solo “orizzontale” - delle materie che si in-segnano in una classe, ad esempio - ma è anche “verticale”, e, criticando la dis-continuità del percorso scolastico, solleva il problema di “come costruire un cur-riculum che accompagni il crescere della categorialità aprendo il ragazzo ad unaprogressiva autocoscienza”.Altri portano l’accento sull’insegnante e sull’adulto,vedendo in esso una “fonte di unità” (Asilo nido Il Sicomoro), e come “il testi-mone di una cultura, di una tradizione” (Scuola Media Mandelli, Milano), ov-vero come un “maestro” che merita non solo rispetto, ma stima, perché è per-sona “da seguire, imitare, ascoltare” (Scuola Elementare Il Pellicano, Bologna).Da una parte, quindi, si rileva la necessità di una chiara ipotesi eplicativa, chepermetta di superare la divisione e la frammentazione; dall’altra, si mette in lucela figura e la funzione del “maestro”, dell’insegnante, che questa ipotesi devepermettere di conoscere e verificare. Sono le due facce dello stesso problema,che, fenomenicamente, si sintetizza nell’ “ora di lezione” - tema al quale è statadedicata la Summer School dello scorso anno - ovvero nella parola, o nelle pa-role che si dicono in classe, che non sono parole “fuggitive” o suoni ripetuti, masegni destinati a restare e a costruire. Ricordiamo che, come scrive don Gius-

11INTRODUZIONE: “INSEGNARE CON UN’IPOTESI”

sani, “essere maestro è usare parole in modo tale che, nello stesso modo in cuile usi, fai capire come si devono usare”5.Ora, se la figura del maestro potrà essere oggetto di una successiva riunione,ciò che si intende qui mettere a tema è l’aspetto culturale dell’ipotesi esplica-tiva, vale a dire quella visione, comprensione, spiegazione del mondo che lascuola comunica, comunque si intenda tale ipotesi (anche, paradossalmente,negando che vi debba essere).Dal punto di vista, per così dire, formale, un’ipotesi esplicativa deve essere“ragionevole” e “unitaria”.Ragionevole significa che è fondata su motivi validi - certi, provati, documen-tati e confrontabili - e utili a spiegare adeguatamente ciò di cui si tratta, senzaescludere né tralasciare nulla. “Chi è costretto per spiegare a rinnegare o adimenticare qualcosa, non è ragionevole. La ragione deve spiegare tutto”6.Unitaria significa che la sua coerenza - ossia capacità di reggere dinanzi ai datidella realtà - è costantemente affermata e ricercata, in qualche modo, attraver-so le successive verifiche, provata e realizzata. Ciò si distingue, per un verso,dal preteso “neutralismo” del sapere, spesso propagandato come “laicità” delsapere, per altro verso dall’imposizione e impostazione ideologica, teorica epratica, che mira ad affermare una visione della realtà senza mettere in giocoi propri presupposti e senza verificarsi nel confronto e nell’attenta considera-zione di tutte le posizioni in campo.Dal punto di vista sostanziale, ossia di “quale ipotesi” assumere, e intorno allaquale lavorare insieme, come comunità di docenti e studenti impegnati in unrapporto educativo e formativo, come dovrebbe essere una scuola, ilConvegno vuole lanciare una proposta, che parte dalla rilettura delle categoriedella modernità fatta, anni fa da don Giussani, e sintetizzata nel volume Lacoscienza religiosa nell’uomo moderno7. Perché questa scelta? La domandapuò sembrare impertinente, ed invece vorrei dimostrare che non lo è. Non sitratta infatti di una conseguenza automatica, derivata dal fatto che tale letturaè compiuta dallo stesso autore del Rischio educativo. Siccome bisogna dareragione di ogni cosa, credo sia importante motivare quella che è una scelta enon una semplice e meccanica conseguenza.Vedo, a questo proposito, due ragioni. La prima riguarda il criterio in base alquale si opta per un’ipotesi invece che per un’altra. Il criterio non può cheessere la verità che tale ipotesi consente di raggiungere, ossia la sua maggiorpertinenza alla realtà rispetto ad altre ipotesi: si sceglie l’ipotesi che più per-mette di rendere ragione dei fatti, ossia di accedere al vero e di conoscere cosìla realtà. È un criterio “spregiudicato” ma indispensabile. Infatti, consente di

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condividere e sostenere quell’ipotesi non per partito preso, o per interessi divaria natura (economici, politici, persino religiosi), ma perché essa dimostra diessere in grado di far conoscere maggiormente la realtà, sia in senso intensivosia estensivamente.La seconda ragione riguarda, più dall’interno, la stessa ipotesi di lettura pro-posta da Giussani. Essa può essere intesa come la rilevazione, o meglio un giu-dizio sulla frattura che si è andata consumando, nell’era moderna e contempo-ranea, fra il “senso della vita” e la vita stessa. Così che il senso è divenuto unafaccenda sempre più astratta e lontana e la vita un susseguirsi di frammentisparsi, a volte avvertiti come illogici e, appunto, insensati. Presentando il testoa Parigi, nella sede dell’UNESCO, Remi Brague aveva osservato, a questoproposito, che la “separazione fra il significato e la vita” fa sì che “l’uno senzal’altra degenera. Il significato degenera in un moralismo che pretende di sovra-stare la realtà e può soltanto condannarla senza aiutarla a diventare se stessa;dal canto suo, la vita degenera in una sorta di eccitazione, di frenesia”8. In unodei contributi veniva citata, a questo proposito, una bella espressione di JavierPradez: “È il dramma di una tradizione cristiana che perde l’umano stradafacendo”. L’abbandono della chiesa da parte dell’umanità o dell’umanità daparte della chiesa, come dice Eliot, è in questo senso questione centrale dellacultura moderna, che essa stessa ha tematizzato e risolto, in modi e forme chehanno portato a rompere quella circolarità fra cristianesimo e cultura, fra reli-gione e civiltà, aveva caratterizzato la nostra civiltà e che, generalmente, carat-terizza propriamente ogni civiltà dell’uomo. Di qui il problema del fondamen-to di una cultura autentica, come è stato messo in luce da Benedetto XVI nelsuo discorso al College des Bernardins, testo che, come suggerisce ancora laprof. Sternini, sarebbe da riprendere insieme alla Coscienza religiosa nell’uo-mo moderno e a La fine dell’epoca moderna di Romano Guardini. Sulla basedi questi testi, e in particolare dei contenuti del convegno sarà importante dis-cutere i nodi problematici della cultura moderna, dalla fine dell’unità medioe-vale all’umanesimo e al rinascimento, dalla visione scientifica del mondo allacrisi dello scientismo, dall’idea di progresso alla tecnologia, e approfondire leprincipali parole del nostro lessico culturale e civile, spesso rese ambigue, senon addirittura svuotate di senso, come, ad esempio “ragione”, “libertà”,“coscienza”, “cultura”. E sarà altresì importante declinare tali grandi quadri inciascuna materia e in ogni singolo insegnamento.Con questa scelta si apre un orizzonte di lavoro e di impegno, arduo ma, auspi-chiamo, anche fecondo. Un lavoro che interessa tutti, dalle elementari allescuole superiori, pur con diversi gradi di applicazione e di sviluppo. Un lavo-

13INTRODUZIONE: “INSEGNARE CON UN’IPOTESI”

1. AA.VV., Il rischio di educare nella scuola, a cura di M. Riboldi, “Quaderni della sussidia-rietà”, n. 2, Milano 2007.

2. AA.VV., Una scuola che insegna a ragionare: il metodo dell’esperienza, acura diA. Casetta- F. Valenti, “Quaderni della sussidiarietà”, n. 5, Milano 2008.

3. O. Grassi, Il compito della scuola libera, 2005, www.ilrischioeducativo.org.4. L. Giussani, Il rischio educativo, Rizzoli, Milano pp. 68-695. L. Giussani, Si può vivere così?, Rizzoli, Milano 2007, p 148.6. Ibid., p. 204.7. L. Giussani, La coscienza religiosa nell’uomo moderno, Jaca Book, Milano 1985.8. R. Brague, Christianity: A fact in History, in A generative thought, ed by E. Buzzi, McGill-

Qeen’s University Press, Montreal-London-Ithaca 2003, pp. 34-39, p. 37.

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ro che contiamo di svolgere con la partecipazione e la collaborazione di chiun-que intenda dare il proprio contributo, inaugurando una modalità di studio, diricerca e di costruzione, che veda ciascuno contribuire, per quel che di meglioritiene di poter offrire, al cammino comune, secondo quell’idea di “comunitàdi pratiche” di cui spesso parliamo e che forse è giunto il momento di realiz-zare. Tutto ciò potrà e dovrà offrire agli alunni delle nostre scuole una visionealta, fondata, vera della realtà e una chiara comprensione della formazione eaffermazione del sapere nella nostra civiltà. Perché, è ancora il caso di ripe-terlo, “i bambini non si stancano mai di sentire le cose vere”.

INTERVENTI

La modernità e il problema del nichilismoVorrei partire dalla celebre affermazione con cui Agostino di Ippona fa inizia-re le sue Confessioni, scritte fra il 397 e il 400. Egli entra, per così dire, dischianto nel problema dell’io affermando che il cuore dell’uomo è stato fatto,è stato come tessuto di inquietudine: «inquietum est cor nostrum donec requie-scat in te»1. E normalmente si traduce: il nostro cuore è inquieto, non ha posa,fin quando non riposi in Te; ma questa traduzione - suggestiva sebbene un po’funeraria - andrebbe rivista, immedesimandosi maggiormente con l’intenzionedel suo autore. Per questo proporrei di tradurre questo incipit celeberrimo con:il nostro cuore è inquieto fin quando non trovi in Te la sua soddisfazione.A me sembra che il dramma del soggetto moderno - così come mi ha inse-gnato a riconoscerlo questo testo estremamente interessante di don Giussani2- nasce nel momento in cui comincia ad approfondirsi la distanza fral’inquietudine, da un lato, e la soddisfazione dall’altro; tra la ricerca, che èinsopprimibile e che attraversa qualsiasi condizione, anche quella più ostilealla religiosità, e che resta sempre, anche solo come una muta attesa, e la pos-sibilità di ricevere risposta alla propria domanda umana, o meglio alla doman-da che ciascuno di noi “è” di per se stesso. Per Agostino l’inquietudine delcuore dell’uomo non costituisce innanzitutto qualcosa di emozionale o di psi-cologico: è anche questo, certo, ma lo è in quanto è fondamentalmente qual-cosa di ontologico, che cioè ha a che fare con la “postura” dell’uomo nellarealtà. Per questo il crescente divario, sino alla profonda estraneità che vienea stabilirsi tra il desiderio dell’io e la sua adeguata soddisfazione costituisceil vero e proprio dramma che sta al fondo di quell’evento epocale che chia-miamo “età moderna”. L’attesa inquieta dell’uomo continua ad esserci,implacabile, ma diviene in qualche modo sempre più confusa, perché si ali-menta di se stessa; e la risposta, sempre più distante, finisce per essere avver-tita come nemica della domanda.Qui, all’interno di questa frattura, è forse possibile rintracciare la cifra “nichi-listica” che abita nascostamente sin dall’inizio la svolta “moderna” del pen-siero, e che nella nostra epoca è divenuta una sorta di sentire comune, molto

Il dramma del soggetto modernoCostantino Esposito

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più condiviso di quello che si possa pensare; solo che - e questo è senza dub-bio uno degli aspetti più interessanti del libro di Giussani che stiamo rileggen-do - il dramma del soggetto moderno, questa distanza, questo disagio ontolo-gico ed esistenziale, si svela al tempo stesso come una chance, come una gran-de occasione per riavvertire il problema che sta al fondo di ogni posizione cul-turale, moderna o post-moderna che sia: il problema dell’io.Nel 1939 una grande nichilista, Virginia Woolf (ma i grandi nichilisti ci aiuta-no, perché colgono la vibrazione ultima di certi problemi), in uno scritto auto-biografico richiamava l’attenzione a come i «momenti di essere» di cui sonofatte le nostre giornate, sono «tuttavia racchiusi in momenti di non esseremolto più numerosi», come se il «bene» della realtà, così come ci viene incon-tro e ci càpita ogni giorno, fosse «avvolto in una sorta di ovatta senza contor-ni», intesa come l’insensatezza, la mancanza di soddisfazione, l’assenza disignificato. E continuava notando che solo per una «scossa violenta», solo perqualcosa che «accadeva con tale violenza che non l’ho mai più scordata», edunque solo grazie a dei «momenti eccezionali» si apre una sorta di squarcio,improvviso e «senza ragione», in quell’ovatta avvolgente, e le cose si fannotrasparenti, mostrandosi come finalmente «reali»3: «Di qui nasce potrei direuna filosofia; o comunque un’idea che ho sempre avuto: che dietro l’ovatta siceli un disegno; che noi - tutti noi esseri umani - rientriamo nel disegno; che ilmondo intero è un’opera d’arte; che noi siamo parte di quell’opera d’arte»4.Allora ai suoi occhi è «la poesia che diveniva realtà», ed è «la penna che trovala traccia»5.Come potremmo ritradurre questa frase illuminante e insieme struggente dellaWoolf? Che la poesia diventi realtà vuol dire che il senso si renda nuovamen-te evidente, che il significato della fatica del vivere torni a corrispondere aquella fatica.Si pensa comunemente che la nostra epoca - non a caso chiamata, appunto,post-moderna - sia segnata irreversibilmente dal fatto che le certezze dell’uo-mo moderno circa il possesso della verità siano andate in crisi: la certezza chela ragione umana potesse essere la misura dell’essere, la certezza che il pro-gresso scientifico potesse portare alla felicità, la grande illusione positivisti-ca per cui l’interezza del problema umano potesse essere risolta per via diprogetto e di calcolo. Eppure, a ben vedere, se questa pretesa razionalisticasembra essere tramontata, essa è al tempo stesso continuata e anzi incremen-tata, anche se in forma negativa: non la capacità, ma piuttosto l’incapacitàdell’uomo rispetto alla verità, cioè rispetto al significato ultimo del reale sem-bra avere l’ultima parola, e quello che si pensava fosse deciso dal potere del

IL DRAMMADEL SOGGETTO MODERNO 19

soggetto è in realtà ciò da cui il soggetto risulta essere inevitabilmentecostretto, vale a dire la potenza impersonale e irrazionale della natura. Sicchél’epoca post-moderna si rivela essere al tempo stesso l’epoca ultra-moderna,e con questo intendo dire esattamente che la crisi che era al cuore dellamodernità oggi è venuta per così dire allo scoperto, mostrandosi per quelloche è: crisi dell’evidenza della realtà come dato, crisi del rapporto originariotra l’io e il mondo.Riconoscere questo dato di fatto significa non accettare come scontatol’atteggiamento di coloro che, constatato il tramonto delle pretese metafisichedel soggetto moderno, dichiarano impossibile ogni altra “verità” che non sia larinuncia alla pretesa di poter affermare qualcosa che ci si dia originariamente,vista la prospettiva ogni volta parziale e limitata del nostro io (un io senza veri-tà, dunque), o simmetricamente visto che la verità viene intesa per lo più comel’ordine impersonale e ferreo della natura che non porta in sé alcun significa-to (una verità senza io, dunque). In qualche modo, e in entrambe queste dire-zioni, è come se si fosse già chiusa la partita del nichilismo, mentre varrebbela pena - questa la mia proposta - riaprirla questa partita, comprendendo chegià il soggetto moderno è figlio della crisi, e che il suo tentativo di affrontarequesta crisi non solo non l’ha risolta, ma anzi l’ha riacutizzata, rendendolaquasi fisiologica: ecco, una patologia che diventa fisiologia.Il soggetto della crisiÈ questo il motivo per cui vale la pena tornare alla radice critica del soggettomoderno, ossia al disagio acuto che si verifica nel rapporto dell’io con la real-tà. Il soggetto moderno non sarebbe concepibile se non come il frutto dellagrande tradizione cristiana e medievale; ma al tempo stesso questo soggettodiventa - paradossalmente - il luogo dell’abbandono di quella tradizione, e ciòche era nato come rapporto dell’io con l’altro da sé viene interpretato comeuna dote puramente naturale dell’io stesso.Per mettere a fuoco questa inversione paradossale vorrei partire da Petrarcaperché nella concezione petrarchesca dell’io emerge forse per la prima volta,almeno in maniera così emblematica, questa cifra moderna dell’interiorità,della soggettività come il luogo segreto (il «secretum», appunto) in cui si rac-coglie la verità e che bisogna tenere separato rispetto al mondo delle creatureperché quest’ultimo, dall’essere un invito a scoprire l’ideale, e quindi un segnodel significato, è diventato invece un impedimento ad esso, e il significato delvivere va ritrovato e per così dire “covato” nei recessi intimi dell’io.

Lo si capisce bene se si paragona l’esperienza poetica di Petrarca con quella diDante e il loro rapporto con la donna amata6. Per Dante Beatrice è un segnocarnale della presenza di Dio ed è al tempo stesso una via della compagnia ter-rena offertagli nel suo viaggio alla scoperta dell’ideale. Per Petrarca Laura èinvece un oggetto d’amore che distoglie il poeta dalla ricerca della verità equindi va rimosso o sublimato per seguire la strada che porta al cielo. Con unaconseguenza di grande importanza: se la verità del mondo è relegata in unordine celeste staccato dall’esperienza concreta della vita - in questo caso stac-cata dall’innamoramento di Francesco per Laura - anche la donna amata per-derà di spessore e di concretezza, non sarà più segno del vero e diventeràun’immagine astratta. O meglio, da una parte essa costituisce un’immagineistintiva, nell’innamoramento emotivo, ma dall’altra parte (come il rovesciodella medaglia di ogni emotività) essa costituisce un’immagine astratta proprioin senso etimologico, cioè tirata via, o separata dall’interezza dell’esperienza.Le due strade, quella della terra e quella verso il cielo, sono ormai divise traloro; la condizione di questo io moderno è segnata così da una frattura, da unacontraddizione insanabile.Scrive Petrarca: «Il tuo fragile animo infatti, assediato dai fantasmi, oppresso damolti e diversi pensieri in continua lotta tra loro, non è in grado di decidere qualedebba affrontare per primo, quale tener vivo, quale distruggere, quale respingere:[...] e tu, privo di consiglio, sei travolto di qui e di là da un’oscillazione incre-dibile senza essere mai, e in nessun luogo, tutto intero e tutto te stesso»7.È qui l’inizio del dramma dell’uomo moderno: non poter essere mai tutto inte-ro e tutto sé stesso; non poter essere mai “io” nell’oscillazione incredibile tral’istinto naturalistico da un lato e il dover essere moralistico dall’altro. Non sitratta di un semplice disorientamento psicologico o sentimentale, ma di unavera e propria concezione della verità, cioè del rapporto tra l’io e il reale: «Iosono un appassionato indagatore del vero; ma poiché esso non si lascia domi-nare dal pensiero - io assumo il dubbio stesso come verità. Così insensibil-mente quasi, io son diventato accademico [cioè scettico] - nulla mai conce-dendo a me stesso, nulla mai affermando e dubitando di tutto se non di quelloper cui ritengo sacrilego il dubbio»8.Il punto di partenza riprende in fondo la grande verità sempre riaffermata nellatradizione filosofica, cioè che il vero non si lascia dominare dal pensiero, si dàal pensiero, si offre al pensiero, si lascia scoprire, si lascia penetrare, ma nonesaurire. Non si può dunque non assentire a questa premessa - «io sono unappassionato indagatore del vero» -; ma poiché il vero non si lascia dominaredal pensiero, poiché esso è più grande del pensiero - questo il passo “moder-

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no” di Petrarca - io assumo il dubbio stesso come verità. È interessante notarecome cambia qui la risposta al problema. Se la verità o la realtà è più grandedel pensiero, infatti, noi avremmo due strade: o spingere il pensiero in unaricerca infinita per penetrare questa alterità che mi è data, oppure assumerel’impossibilità di raggiungere la verità, cioè il dubbio stesso, come unica veri-tà. Quella che viene scelta dal poeta è appunto la seconda.Così, continua Petrarca - e ricordo che Petrarca è molto celebrato nella storiadella letteratura e della cultura italiana perché con lui si fa cominciare l’ideadell’intellettuale, del letterato intellettuale - sono diventato quasi insensibil-mente scettico, estendendo cioè il dubbio praticamente su tutto, tranne che suquello di cui sarebbe un sacrilegio dubitare. La verità, in altri termini, èimpossibile, a meno che non si tratti delle cose di religione o riguardanti la tra-dizione cristiana: in quest’ultimo àmbito - si noti la differenza di piani - nega-re la verità è sacrilego, ma solo sacrilego, non irrazionale. Bisogna cioè salva-guardare un patrimonio consolidato di verità, perché se la si negasse si com-metterebbe un atto contrario alla tradizione, non all’intelligenza o al più pro-fondo della coscienza.L'idea stessa di soggetto umano e di interiorità da ora in avanti sarà sinonimodi una divisione tra la realtà e il suo destino, tra le cose del mondo e il lorosignificato ultimo, tra la vita e l’ideale. Si spiega così il motivo per cui l'uomodel Rinascimento cercherà, in molteplici maniere, di colmare da sé questa frat-tura, di sanare il dissidio con le sue forze, ma senza poter mai togliersi di dossol’ombra di una contraddizione, visibile per esempio in una certa tristezza chesempre accompagna le raffigurazioni della bellezza o del potere: come quel-l'inspiegabile malinconia che segna diffusamente le magnifiche figure dipinteda Botticelli o l’inquietudine che rode intimamente i volti dei ricchi borghesio dei potenti signori delle città ritratte da Van Eyck.Ma facciamo ancora un passo e interroghiamo uno di quegli autori cui nor-malmente si imputa la “paternità” del soggetto moderno: Cartesio. Mi interes-sa riprendere questo filosofo, e tramite lui affondare lo sguardo in un momen-to decisivo della storia del pensiero, non solo per un’attenzione particolarerivolta a chi insegna filosofia, ma nella convinzione che qui possiamo sor-prendere alcuni elementi fondamentali di cui è intessuta la nostra mentalità,cioè il nostro modo di pensare comune. Anche riguardo a Cartesio, io vorreiinvitarvi a ripensare questa straordinaria esperienza di pensiero - quella cioèche assume l’io o ego cogito come la pietra angolare, il perno attorno a cui girala realtà intera - come il tentativo di rispondere all’avvertenza di una crisi ter-ribile di un’intera epoca9.

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Tutto il pensiero di Cartesio nasce dal senso acuto di una perdita, dalla per-dita dell’evidenza della realtà, dalla perdita dell’evidenza del vero.L’evidenza della realtà vuol dire il significato che le cose portano con sé, laprovocazione che la realtà fa al mio io, come mi mette in gioco. Rispetto aquesto problema, Cartesio è netto: non solo i miei pensieri sulle cose, maprima ancora le mie stesse percezioni sensoriali potrebbero sempre ingan-narsi, anzi, portando alle estreme conseguenze il disagio che emerge nel rap-porto tra il soggetto e il mondo, egli sostiene che, anche in presenza di per-cezioni sensibili direttamente e inequivocabilmente attestate (come il miocorpo) in qualsiasi momento potrei star semplicemente sognando.Scrive Cartesio dalle Meditazioni metafisiche del 1641: «Quante volte dinotte mi è accaduto di sognare le cose consuete, che io ero in questo luogo,che ero vestito, che ero presso il fuoco, benché stessi spogliato dentro il mioletto? È vero che ora guardo questo foglio di carta con occhi certamente sve-gli, che questa testa che sto muovendo non è addormentata, che stendo diproposito questa mia mano, e la sento: a chi dorme queste cose non acca-drebbero in maniera così distinta. Ma non ricordo forse di essere già statoingannato altre volte da simili pensieri mentre dormivo? Quando rifletto suqueste cose con maggiore attenzione, vedo così manifestamente di non potermai distinguere mediante indizi certi la veglia dal sonno, che ne resto atto-nito, e questo intontimento è come la conferma dell’opinione che sto sognan-do»10.Questa è la sfida estrema che egli intende portare nel cuore della tradizione:tutto potrebbe essere vero e apparirci evidente, sì - ma dentro un sogno. Sitratta della dolente avvertenza dell’inconsistenza ontologica dell’io e delmondo, che attraversa, come un brivido o una ferita metafisica, gran partedel Seicento: e difatti sarebbe interessante, in contrappunto a Cartesio, leg-gere alcuni passi del Macbeth o della Tempesta di Shakespeare sulla sostan-za onirica della vita, intesa come la grande illusione teatrale, in cui noi siamosolo ombre, ossia poveri attori (il termine è lo stesso: shadows)11; o alcuniversi da La vita è sogno di Calderón de la Barca, in cui viene a cadere la dif-ferenza tra il sogno e la realtà, poiché il fatto che tutto dipende dal pianomisterioso di Dio, annulla paradossalmente qualsiasi consistenza propria delmondo12.Le percezioni - torniamo a Cartesio - possono essere sognate, le nostre stes-se conoscenze intellettuali non hanno la certezza di riferirsi a qualcosa divero fuori di noi, e possono essere sballottate dalle più diverse opinioni filo-sofiche. La stessa teologia, dice Cartesio con una formula usata anche da

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Galileo, ci dice come poter guadagnare il Paradiso, ma non ci dice cosa c’èsulla terra, non ci parla della realtà ma di come comportarci per raggiungerequalche cosa che adesso non abbiamo ancora.Come affronta Cartesio questo dramma, il dramma della perdita dell’eviden-za? Lo affronta con una posizione che aveva già chiaramente esposto nelDiscorso sul metodo, del 1637: «Avevo sempre in me un estremo desiderio diimparare a distinguere il vero dal falso per vedere chiaro nelle mie azioni eprocedere con sicurezza in questa vita»13. Ai miei occhi costituisce un fattoreparticolarmente significativo il fatto che lo stesso Cartesio affermi comemovente, come motore della sua ricerca questo desiderio che non a caso eglichiama «estremo», perché è come il desiderio che tende, che costituisce la ten-sione di ogni altro problema della filosofia e della vita: il desiderio del vero,di riuscire a capire, a toccare la realtà nella sua verità.Ma qual è la soluzione propriamente drammatica per cui opta Cartesio?Quella appunto di recuperare, di ritrovare nell’io, dentro l’io, quell’eviden-za che esso aveva persa fuori di sé, non più partendo dal rapporto con lecose, che di per sé restano sempre sotto il regime del dubbio, del sogno, del-l’opinione, ma trovandolo in me stesso, nell’attestazione che il pensiero fa dise stesso (cogito, ergo sum), rigorosamente separato da ciò che non è pen-siero (il mondo esterno e il mio stesso corpo), e quindi in senso solipsistico.Quando l’io deve pensare a se stesso sembra che non abbia più bisogno dipensarsi in rapporto con qualcos’altro. Naturalmente l’io non può vivere iso-lato: nell’esperienza esso è sempre un’unità psico-fisica, cioè è una trama dirapporti; ma l’esperienza è sempre a rischio di essere illusoria o menzogne-ra, cioè non fondata sulla certezza della verità di chi fa esperienza e di ciò dicui si fa esperienza. Bisognerà allora colmare lo iato, sanare la frattura, ecioè spiegare come si fa a passare dall’io, che è già costituito in sé come puropensiero, a ciò che è altro da sé.Solo che è sempre assai problematico, se non impossibile, ricomporre dei“pezzi” che nascono divisi. Nessuna “colla” riuscirà a farli stare insieme einfatti tutta la filosofia moderna è il tentativo di rimettere insieme questipezzi, cioè di spiegare in che modo questo io così descritto da Cartesio (eprima di lui da Petrarca) può entrare in rapporto con la realtà, con tutta larealtà, dalla pietra a Dio. Come la realtà entra nella coscienza dell’io, dalmomento che si tratta di una coscienza separata, astratta dal rapporto colreale? Come la coscienza può entrare in rapporto con ciò che è altro da sé?Da questa impostazione nascono tutta una serie di conseguenze che sarebbeimpossibile percorrere in questa sede. A me interessa sottolineare, attraverso

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i due esempi fatti, che il dramma dell’uomo moderno non è un dramma “diconseguenza”, ma è un dramma “di origine”; non si tratta cioè di una condi-zione in cui andrebbe a finire il soggetto moderno, ma del suo stesso atto dinascita.Per questo, come dicevo in precedenza, è decisivo riprendere la questione cul-turale esattamente dall’origine della scissione moderna, prendendo sul serio ilfatto che tutti i tentativi di risolvere il problema dell’io e dell’essere non sonoriusciti ad annullare il problema del loro rapporto originario (cioè, in altri ter-mini, il problema della verità), ma al contrario spingono ogni volta e inevita-bilmente a riaprirlo. Da questo punto di vista è come se noi fossimo ancoratotalmente “moderni”, perché quando diciamo la parola “io” rimane sempre innoi una certa forza di gravità linguistica, culturale, concettuale della tradizio-ne petrarchesca e cartesiana. Nel bene o nel male, quando noi diciamo “io”intendiamo ciò che sta da questa parte, separato da ciò che ci sta di fronte, dal-l’alta parte o là fuori; quando parlo del mio io, della mia persona, della miaindividualità, intendo questo pronome possessivo come un qualcosa che, di persé, non sta in rapporto “con”. Certamente nessuno potrebbe negare che l’io hamolteplici rapporti, ma il problema è quello di capire che l’io è un rapporto;nella concezione moderna di noi non c’è un rapporto, c’è l’io inteso come unpolo del rapporto, che poi entra in rapporto con le cose, con Dio come conl’altro uomo, con il lavoro e con la fatica, con la natura e con la morte, conl’oggetto della conoscenza e con l’oggetto del desiderio, con l’infinità di que-sta trama di relazioni. Ma appunto si tratta di relazioni in cui entra un “io” chesi costituisce al di fuori dalla relazione, fuori dal rapporto: questa è la difficol-tà, questo è il punto da riaprire, questa la posta in gioco dell’educazione.La disputa contemporanea sul senso dell’educareIn base a quanto abbiamo cercato di tratteggiare finora, anche se in manierasolo rapsodica, si possono spiegare anche le due tendenze, le due scuole dipensiero rispetto all’educazione attualmente più in voga: da una parte unasorta di cognitivismo pragmatistico, cioè una pratica dell’educazione secondocui si tratterebbe in fondo di individuare procedure tecniche, cioè impersona-li, di informazione e di elaborazione dei dati dell’apprendimento umano equindi una gestione delle relazioni cognitive che non sono mai individuali masono sempre collocate e prodotte in un contesto sociale, in un contesto di valo-ri, in un contesto linguistico, di modo che l’educazione consisterebbe appuntonel fare una sorta di “check up” a questo meccanismo, a questa organizzazio-

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ne cognitiva del mondo; dall’altra parte una concezione dell’educazione comerecupero dell’emotivismo, dell’affettività nel senso delle emozioni e dei senti-menti, come tentativo di salvare ciò che sarebbe proprio dell’interiorità indi-viduale rispetto alla serialità meccanica della conoscenza razionale. Quindiuna ragione impersonale a fronte di un’emozione individuale.In entrambe queste correnti, sia in quella cognitivista, sia in quella emotivistala posta in gioco, e al tempo stesso quello che si rischia di perdere, è esatta-mente il fatto che l’io, e lo stesso emergere della coscienza, nasce come rap-porto, cioè che il rapporto non è esclusivamente un atto secondo dell’io ma èl’origine dell’io. La ragione è sempre una conoscenza affettiva, perché rico-nosce ciò che c’è in quanto è per me; e l’affettività è sempre razionale o cono-scitiva, perché accoglie e sente in sé ciò che è altro da sé. Per questo a me sem-bra che riaprire il dramma del soggetto moderno implichi necessariamente unarinnovata attenzione alla ragione, non semplicemente come ciò che sta dallaparte del cognitivismo rispetto all’emozione, ma dando al termine ragione -così come questo termine è usato da Giussani - il significato del rapporto ini-ziale di cui parlavo. In altri termini, la ragione non va intesa unicamente comeciò che apporterebbe l’io rispetto ad un dato irrelato, perché essa costituiscepiuttosto lo spazio dell’incontro, che egli chiama anche «esperienza», tra l’ioe la realtà.Ciò che mi ha sempre colpito leggendo la Coscienza religiosa dell’uomomoderno o Il senso religioso di Giussani è che anche quando si insiste sul “rea-lismo”, non lo si intende mai in senso “positivista”, come la mera constatazio-ne che ci sono le cose fuori di me, quasi fosse un atto notarile, perché il reali-smo è piuttosto un’apertura della ragione in cui c’è già dentro l’io. Il realismopositivista è un realismo senza l’io, senza l’incontro; è come una lista dellaspesa, una registrazione senza l’io. Il realismo di cui parla Giussani invece ègià un incontro tra l’io e la realtà: in esso è già al lavoro, è già all’opera losguardo dell’io, come ciò che permette che le cose gli vengano incontro. Ècome quando guardiamo quel bellissimo quadro di Van Gogh che raffigura unpapà che con le braccia aperte che aprono lo spazio in cui il bambino gli vieneincontro14: la ragione umana, la conoscenza umana è esattamente quella ten-sione, non è solamente una facoltà soggettiva dell’uomo, ma uno spazio didonazione della realtà. È difficile pensare se non astrattamente (come ha fattola modernità, e cioè come continuiamo a fare noi) che da un lato c’è la ragio-ne, l’io e dall’altro c’è la realtà come poli già costituiti che poi si incontrino:non funziona, non si incontreranno mai davvero, perché a quel punto o l’ioviene ridotto alla realtà (naturalismo assoluto del cognitivismo contempora-

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neo, cioè la nostra coscienza è in fondo il nostro cervello, l’organizzazionedelle sinapsi neurali), oppure la realtà viene riassorbita nei nostri schemi men-tali. O l’uno o l’altro.Il problema difficile ma affascinante, filosoficamente ed educativamente, è diconsiderare queste due cose come unite sin dall’inizio, cioè di non pensare adun io separato dalla realtà o ad una realtà che stia senza l’io, ma di concepireche l’io “accade” quando accoglie la realtà e la realtà “accade” nello sguardodell’io. Questo non vuol dire che la realtà è ridotta all’io ma piuttosto che laverità è sempre un l’incontro tra la nostra energia, il nostro sguardo e ciò chegli si dà. L’apertura del soggetto è già sempre piena di ciò che mi si dà.Naturalmente c’è sempre un rischio: che io non veda bene, che riduca alla miavisione ciò che vedo. Come pure c’è sempre il rischio che io guardi senzavedere, che non mi renda conto; ma appunto questo è il lavoro della cultura, èil lavoro dell’educazione, che è quello di rimettere a fuoco continuamente quelrapporto: un «rischio educativo», appunto.Educare la ragione e educare alla ragioneDi qui due spunti metodologici: che cosa vuol dire educare a questo rapporto?In che senso la ragione costituisce il soggetto e insieme l’oggetto dell’educa-zione? A mio avviso significa educare la razionalità ed educare alla razio-nalità. Di per sé l’educazione o è della ragione e alla ragione oppure non è.Ma cosa vuol dire educare la razionalità se non individuare una traiettoria, latraiettoria delle domande da cui parte in noi la coscienza di noi stessi e delmondo? La ragione non va intesa innanzitutto come una struttura o come unafunzione astratta della nostra mente ma come un accadimento essa stessa,come la storia dell’incontro con un altro da sé. In questo senso, la razionalitàè una vita15; e proprio per il fatto che essa riguarda il perché delle cose, la suadinamica è infinita.Che cosa significa che la dinamica della ragione è infinita? Non soltanto, comespesso si dice in maniera un po’ ridondante, che le domande non avranno maifine (questo al massimo attesterebbe il carattere in-definito e indefinibile del-l’interrogazione), ma che il fine del domandare è l’infinito. Le domande nonfiniscono mai, esattamente perché ciò cui esse ultimamente si riferiscono èl’infinito, cioè la realtà considerata tendenzialmente «secondo la totalità deisuoi fattori»16. E qui emerge subito una difficoltà di concezione: quando noipensiamo alla “totalità” pensiamo ultimamente ad una somma di tutti gli ele-menti della realtà, rispetto alla quale non si può che essere o presuntuosi (cre-

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dendoci capaci di tenere noi insieme tutto, attraverso un’operazione di calco-lo), oppure scettici (escludendo che la nostra ragione finita possa mai esserecapace di entrare in rapporto con la totalità del reale). E si tratta esattamentedell’alternativa ereditata dalla filosofia moderna: o presuntuosi o scettici, orazionalisti o relativisti. A meno che non si provi a pensare che la totalità deifattori cui la ragione tende non ha a che fare tanto con l’estensione ma, ci sipassi il termine, con l’“intensione”, vale a dire con la scoperta del significatoultimo, quello che riguarda il perché delle cose. È questa la vera totalità pos-sibile alla ragione umana, una ragione finita ma capace dell’infinito17: coglie-re il tutto come nesso significativo tra le cose e l’io.L’educazione della razionalità è dunque il riconoscimento dell’infinito nontanto in un senso regolativo, indeterminato, ma come un fattore funzionale delnostro pensiero. L’infinito non è semplicemente un orizzonte, un al di là vagoe nebuloso, che solo la fede potrebbe ammettere, più in senso sentimentale checonoscitivo. L’ipotesi che l’infinito entri come un fattore operativo, funzionale,nella dinamica della conoscenza (di ogni conoscenza), era stata avanzata sor-prendentemente già da Cartesio. Proprio l’autore del «cogito sum», cioè delsenso assolutamente auto-referenziale dell’io come pensiero, e cioè di unasostanza (res cogitans) che non solo non ha bisogno di nient’altro per coglierese stessa con piena evidenza, ma che addirittura si auto-attesta grazie al fatto disepararsi da ciò che è corporeo, quando poi comincia ad analizzare le idee pre-senti nell’io, afferma che noi potremmo aver inventato tutte quante le nostreidee (e quindi esse potrebbero risultare tutte quante ingannevoli o illusorie),tranne una sola idea, innata in noi, e cioè l’idea dell’infinito o Dio. Essendo iouna sostanza finita, «non posso essere io stesso la causa di quell’idea», e da ciò«consegue necessariamente che io non sono solo al mondo»18. E anticipandoun’obiezione che qualche tempo dopo diverrà canonica con Feuerbach, cioèche l’idea di “infinito” nascerebbe in realtà solo dalla negazione di un’idea pre-cedente, ossia quella di “finito” (così come l’idea di “quiete” sarebbe la nega-zione di quella di “moto” e l’idea di “tenebre” la negazione di quella di “luce”),Cartesio afferma che la questione sta esattamente all’inverso di quel che sipensa: «al contrario, io comprendo in modo manifesto che c’è maggior realtà inuna sostanza infinita che in una finita, e che quindi in me la percezione dell’in-finito è in qualche modo antecedente a quella del finito, cioè quella di Dio aquella di me stesso. In qual maniera infatti sarei consapevole di dubitare, didesiderare, cioè di esser mancante di qualcosa, e di non essere del tutto perfet-to se in me non ci fosse l’idea di un ente più perfetto, paragonandomi con ilquale riconoscessi le mie mancanze?»19.

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Al di là del motivo per cui Cartesio fa entrare l’idea di infinito nella sua meta-fisica (e cioè per garantire la corrispondenza tra le nostre conoscenze chiare edistinte e l’essere del mondo esterno inteso come «sostanza estesa», cioè pergiustificare una fisica di tipo meccanicistico), resta il fatto che tale “entrata”esprime acutamente la consapevolezza del ruolo indispensabile e inevitabilesvolto dal riconoscimento di una realtà più grande di me per lo sviluppo dellamia conoscenza.Educare la ragione significa dunque portarla a scoprire l’esistenza dell’infini-to, non come oggetto di auto-suggestione ma come un fattore implicato nelladinamica del domandare e nella struttura del conoscere. Ma da questa educa-zione della razionalità, cioè dal fatto che la ragione arrivi a scoprire l’evidenzadel rapporto originario con l’infinito, deriva anche il compito di educare allarazionalità, intendendo questa volta il termine razionalità non semplicementecome la nostra facoltà ma come il senso ultimo, il significato della realtà. Ledue cose in effetti vanno insieme, non si possono separare: noi non possiamoaffermare un significato della realtà che non si dia alla nostra capacità cono-scitiva; e dall’altra parte atrofizzeremmo la nostra capacità razionale senzacogliere, o almeno tendere alla ragione come principio, come logos, comesenso, e non soltanto come capacità conoscitiva nostra.Ma per comprendere in conclusione il senso più specifico di questa educazio-ne alla razionalità, sempre implicata nell’educazione della razionalità, vale lapena tornare ad Agostino. Siamo nel X libro delle Confessiones: dopo averconfessato davanti al Tu divino e davanti agli uomini, non solo e non tanto lasua auto-biografia, ma la sua vita come l’accadimento del significato, il ren-dersi presente all’intelligenza e all’affezione di un logos amoroso, Agostinopone la domanda su “chi sia” Colui che egli ama (Quid autem amo cum teamo?), cioè prova a conoscere - per quanto gli sia possibile, certo, ma con unchiaro desiderio di comprensione - la verità di questo rapporto tra il finito el’infinita Presenza che gli si è mostrata negli incontri, negli avvenimenti, neidrammi stessi della sua vita. Comincia allora a interrogare le cose fuori di lui(il cielo, la terra, il mare…) e tutte gli rispondono, attraverso la loro forma dibellezza (species): non siamo noi quello che cerchi, «non siamo noi il tuoDio», perché siamo state fatte. Allora Agostino si rivolge a se stesso - «e tu chisei?»20 - perché è solo la coscienza dell’io (quello che egli chiama l’homo inte-rior) che può far conoscere ciò che è esterno, la realtà tutta che è fuori di noi.E l’uomo interiore non va affatto inteso come la sfera psicologica chiusa del-l’interiorità, ma al contrario come l’apertura della ragione e la possibilità di ungiudizio sulle cose.

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È appunto questa capacità di giudicare - questa iudex ratio - che connota perAgostino l’esperienza umana. Ma come ce ne accorgiamo? E come possiamoesercitare questa nostra ragione giudicante? Solo nella libertà, non intesa peròin primo luogo come una dimensione morale, riguardante cioè le nostre scel-te pratiche, ma come la stessa apertura originaria a riconoscere e ad accoglie-re la realtà. E infatti, come Agostino nota acutamente, subditi iudicare nonpossunt, «i servi non possono giudicare». Per giudicare - per conoscere ciòche c’è - bisogna essere liberi, cioè tesi a domandare il significato. E questosignificato come emerge? Esso emerge alla nostra coscienza come bellezza(species). La bellezza delle cose - una qualità che per Agostino non si identi-fica con il mero aspetto estetico, ma con l’ordine, l’armonia e la ragione pro-fonda per cui e con cui le cose sono - parla a tutti, ma non tutti l’intendono.La comprendono solo coloro che sanno domandare con giudizio, cioè coloroche «accolgono la voce ricevuta dall’esterno e la confrontano con la veritàche è presente in loro stessi»21.Non è forse, questa, la stessa esperienza che riecheggia - con un altro linguag-gio di pensiero, certo, ma in riferimento alla stessa cosa - nella celebre defini-zione data da Tommaso d’Aquino della verità come adaequatio rei et intellec-tus, la «corrispondenza tra la realtà e il nostro intelletto»22?Tutto questo ci affascina, però comprendiamo anche la difficoltà che esso inqualche modo penetri la mentalità dominante. Quanto più ci accorgiamo dellacorrispondenza alla nostra esperienza di una concezione della ragione e dell’iocosì come l’abbiamo delineata, tanto più avvertiamo il peso culturale ed esi-stenziale che sembra inibire la sua evidenza, una specie di contro-tendenzarispetto al vero così come si attesta strutturalmente all’io. Non basta più nean-che dire che alcune evidenze sono proprie della “natura umana”, giacché è pro-prio la perdita dell’evidenza naturale il cuore del dramma ereditato dall’iomoderno.Per questo a me sembra che il cristianesimo oggi possa tornare ad essereun’ipotesi di estremo interesse anche per la cultura contemporanea, e non certonel senso abituale per cui in esso si troverebbe il richiamo ad alcuni valori utilialla convivenza civile (la generosità, l’altruismo, la solidarietà, l’uguaglianzaecc.), ma perché esso è l’unico avvenimento che, rispondendo al bisogno tota-le dell’uomo - fino a quel suo «estremo desiderio» che è il bisogno del signi-ficato - permette sempre di nuovo di rendersi conto di questo stesso bisogno.Ogni altra risposta, pur interessante, è come se annullasse o coprisse la doman-da a cui dà risposta; mentre è questa l’urgenza più pressante, che nasce dal-

1. AURELIO AGOSTINO, Confessionum libri tredecim - Le confessioni, testo latino dell’ed.Skutella riveduto da M. Pellegrino, trad. it. e note di C. Carena, Citta Nuova (“Nuova Bi-blioteca Agostiniana”), Roma 1993, qui I, 1.1.

2. L. Giussani, La coscienza religiosa dell’uomo moderno. Note per cattolici «impegnati», JacaBook, Milano 1985, ripreso in Id., Il senso di Dio e l’uomo moderno, BUR, Milano 1994.

3. V. Woolf, Momenti di essere. Scritti autobiografici, trad. it. di A. Bottini, a cura di J. Schul-kind, La Tartaruga edizioni, Baldini & Castoldi, Milano 2003, pp. 89-90.

4. V. Woolf, Momenti di essere, cit., p. 92. - Così continua la scrittrice. «Questa mia intuizione- è così istintiva che mi sembra data, non costruita da me - ha certamente impresso alla miavita la sua particolare prospettiva […]. Se dovessi dipingere il mio ritratto, dovrei trovare unqualcosa - un’unità di misura, diciamo - che simboleggi il mio concetto. Perché la nostra vitanon si esaurisce nel corpo e in ciò che diciamo e facciamo; in ogni momento la nostra vita sirapporta a certe unità di misura nello sfondo, a certi concetti. Il mio è che esiste un disegnodietro l’ovatta. E questo concetto influisce su di me ogni giorno» (p. 92, corsivo nostro).

5. V. Woolf, Momenti di essere, cit., p. 118.6. Su questo rimando a V. Capasa / E. Triggiani,Dante Petrarca Giotto Simone. Il cammino obli-

quo: la svolta del moderno, Edizioni di Pagina, Bari 2004, pp. 40-79.7. F. Petrarca, Secretum, a cura di U. Dotti, Bur, Milano 2000, I, 38.8. F. Petrarca, Seniles (riproduzione del codice Marciano Lat. XI, 17), a cura di M. Pastore Stoc-

chi e S. Marcon, Marsilio, Venezia 2003, VI, 5.9. Per questa lettura di Cartesio mi permetto rinviare, anche in funzione didattica, al manuale

C. Esposito / P. Porro, Filosofia, 3 voll., Laterza, Roma-Bari 2009, in part. vol. 2, cap. 8.10. R. Descartes,Meditazioni metafisiche, trad. it., qui modificata, inOpere filosofiche, a cura di

E. Garin, vol. 2, Laterza, Roma-Bari 2005, Meditazione I.11. «State di buon animo messere. I nostri svaghi sono finiti. Questi nostri attori, come vi ho già

detto, erano tutti degli spiriti, e si sono dissolti in aria, in aria sottile. Così, come il non fon-dato edificio di questa visione, si dissolveranno le torri, le cui cime toccano le nubi, i sontuosipalazzi, i solenni templi, lo stesso immenso globo e tutto ciò che esso contiene, e, al pari diquesto incorporeo spettacolo svanito, non lasceranno dietro di sé la più piccola traccia. Noisiamo della stessa sostanza di cui sono fati i sogni, e la nostra breve vita è circondata da unsonno» (W. Shakespeare, La tempesta, Atto IV, scena 1; trad. di G.S. Gargàno, Sansoni, Fi-renze 1980). - «La vita non è che un’ombra che cammina; un povero attore che si pavoneg-gia e si agita per la sua ora sulla scena e del quale poi non si ode più nulla: è una storia rac-contata da un idiota, piena di rumore e furore, che non significa nulla» (W. Shakespeare,Macbeth, atto V, scena 5; trad. di A. Lombardo, Mondadori, Milano 1976).

12. «L’esperienza mi ha insegnato che l’uomo che vive sogna di essere quel che è, fino a quandosi desta. Il re sogna d’esser re, e così ingannato vive comandando, disponendo e governando;e l’applauso che riceve in prestito lo scrive nel vento, e la morte lo muta in cenere. Sventura

l’interno stesso del dramma dell’io moderno: imbattersi in una risposta chetenga sempre aperta la domanda. Questo è il paradosso: solo nella certezza delsignificato come una presenza reale può finalmente mostrarsi la vera inquietu-dine del nostro io.

30 COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE

immensa! È possibile che ci sia ci cerca di regnare, se sa che poi dovrà ridestarsi nel sonnodella morte? Il ricco sogna le sue ricchezze che gli procurano affanni; il povero sogna di sof-frire la sua miserabile povertà; sogna chi comincia a prosperare; sogna chi s’affanna a cor-rere dietro agli onori; sogna chi insulta e offende. In conclusione, tutti nel mondo sognano diessere quel che sono, anche se nessuno se ne rende conto. Io sogno d’essere qui, oppresso daqueste catene, e ho sognato che mi vedevo in altra condizione, ben più lusinghiera. Che è lavita? Una frenesia. Che è la vita? Un’illusione, un’ombra, una finzione. E il più grande deibeni è poca cosa, perché tutta la vita è sogno, e i sogni sono sogni» (P. Calderón de la Barca,La vita è sogno, atto II, scena 19; trad.di A. Gasparetti, Einaudi, Torino 1980).

13. R. Descartes, Discorso sul metodo, trad. it., qui modificata, in Opere filosofiche, a cura di E.Garin, vol. 1, Laterza, Roma-Bari 2003, parte I

14. Vincent Van Gogh, Les premiers pas, Metropolitan Museum, New York.15. Cfr. L. Giussani, Il senso religioso, Rizzoli, Milano 1997, p. 24.16. L. Giussani, Il senso religioso, cit., p. 17 e passim.17. Cfr. C. Esposito / G. Maddalena / P. Ponzio / M. Savini, Finito infinito. Letture di filosofia,

Edizioni di Pagina, Bari 2007.18. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., III.19. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, cit., III.20. Agostino, Confessioni, X, 6, 9.21. Agostino, Confessioni, X, 6, 10.22. Tommaso d’Aquino,De veritate - Sulla verità, trad. di F. Fiorentino, testo latino a fronte, Bom-

piani, Milano 2005, q. I, artt. 1 e 2.

31IL DRAMMADEL SOGGETTO MODERNO

Il titolo, un po’ ad effetto, fotografa indubbiamente una situazione reale: bastaandare in una delle grandi fiere dove si espone la produzione artistica contem-poranea per toccare con mano l’assenza di qualsiasi rapporto non solo con lachiesa come istituzione ma anche con le tematiche religiose. C’è il senso diun’estraneità di fondo, radicale che in un certo senso rispecchia quello che staavvenendo a livello di società. Dall’altra parte, quando entriamo nelle nostrechiese ci accorgiamo che i tentativi di aggiornare il linguaggio artistico sonoquasi sempre patetici. C’è una deriva oleografica, e soprattutto c’èun’incapacità di interloquire, di dire qualcosa che interferisca, che entri conuna sua originalità nel cuore della creazione artistica di aver indotto monsignorGianfranco Ravasi, oggi alla testa del Pontificio ministero della cultura vati-cana, a lanciare un guanto di sfida. Vuole che il Vaticano sia presente con unsuo padiglione alle Biennali future. Come dire: usciamo dal circuito protetto,andiamo nel mondo e vediamo cosa succede.Tornando a quel titolo, devo ammettere, dopo un ragionamento più profondo,che non esaurisce tutto quello che sta accadendo nel mondo dell’arte.Nonostante fotografi una tendenza schiacciante, non riesce a tenere dentro, nelsuo schema, alcuni fatti, alcune esperienze che non sono solo delle eccezioni,ma sono segni di un qualcos’altro. Di un’altra possibilità. Di un dinamismosegreto, certamente non egemone e che neanche pretende di esserlo, ma che èstraordinariamente significativo.Per questo dobbiamo fare un passo indietro e pensare a quello che è stato ildinamismo costitutivo del rapporto tra arte ed esperienza religiosa. È il dina-mismo dell’“immaginazione”: una volta che è entrata nella storia, primal’ipotesi biblica dell’uomo fatto a immagine di Dio, e poi, più ancora, il Diofatto uomo, è diventato inevitabile che l’immaginazione degli uomini si siaprotesa per secoli a tentarne una rappresentazione visibile. In questo gli uomi-ni-artisti si sono trovati legittimati dalle decisioni epocali, e per le quali nonsiamo mai abbastanza grati, del concilio di Nicea II del 786-787 (gli artisti,anche quelli di oggi, sono tutti figli di Nicea).

Chiesa senza arte, arte senza Chiesa.Il senso religioso nell’arte modernaGiuseppe Frangi

L’energia dell’immaginazione è alla radice della più grande stagione che l’artefigurativa abbia mai conosciuto nella storia dell’uomo: schematicamente, sonoi quattro secoli che vanno da Cimabue a Rembrandt. Sono secoli in cui gli arti-sti si espongono in questo slancio di immaginazione della storia di Cristo, met-tendo in moto uno sviluppo prodigioso di coscienza e di innovazione espressi-va. Ogni passo per quattro secoli comporta una novità anche a livello dicoscienza e di soluzioni espressive: è un fenomeno contagioso, che coinvolgetutti, anche le sensibilità più intellettualistiche e pagane. È un fenomeno così“largo” da tener dentro anche chi sembra collocarsi sempre ai margini dell’or-todossia.Ogni sviluppo dell’immaginazione comporta anche uno sviluppo di novità for-male. Pensate al percorso che dalla prima consapevolezza drammatica di Ci-

mabue, al senso dello spazio edel tempo che si introduce conGiotto, alla coscienza del corpoe delle ombre di Masaccio portaalla libertà dirompente messain campo da Donatello. Pensatea come l’approfondimento deltema del rapporto tra la madre eil Figlio, porti Bellini a conce-pire una pittura che è un con-centrato di commozione. Ecome gli si contrapponga laspavalderia un po’ cinica e di-rompente di Mantegna. Po-trebbe essere un elenco infinito.Per rendere con chiarezza l’ideami soffermo su una scena dallacappella Brancacci di Masaccio(Figura 1).È la scena al lato dell’altare cherappresenta un passaggio delcapitolo V degli Atti degliApostoli: Pietro che risana gliinfermi con la sua ombra.Masaccio cala la scena nellaFirenze del suo tempo, come siFIGURA 1

34 COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE

evince senza equivoco dalle architetture, ma usa la suggestione del raccontocome leva per spingere in avanti la stessa storia dell’arte. L’ombra di Pietrorisana gli infermi ma è anche la prima ombra vera della storia della pittura.Vera, nel senso che esprime pienamente una coscienza nuova del corpo che laproduce. L’immaginazione dell’episodio degli Atti produce in Masaccio un dipiù di consapevolezza; una coscienza più profonda della realtà. È immagina-zione che produce immedesimazione.Quali sono le caratteristiche di questa dinamica di immaginazione?La prima che quando è vera non è mai arbitraria, perché si misura conun’oggettività. Oggettività: cioè stare dentro gli standard iconografici di unatradizione, raccontare storie note e riconoscibili. In un’ultima analisi, si misu-ra con l’oggettività, con i dati di un fatto accaduto.

La seconda è che nonè mai uguale a sestessa, perché nell’im-maginazione l’artistasi cala con la propriapersona. Mette dentrosé stesso, l’aria e iltempo che respira, lapropria sensibilità (an-che i propri misfatti,come dimostra la para-bola straordinaria diCaravaggio). Quindi èun processo anchedrammatico. E originasempre qualcosa dinuovo.La terza è che non siesaurisce in una rap-presentazione, maesige di essere una ve-rifica. Una verificadella verità di quelfatto o di quella realtàimmaginata e rappre-sentata. Il fatto deveFIGURA 2

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diventare assoluta-mente presente, verifi-cabile, contemporaneoalla coscienza di chil’ha dipinto. È come sel’artista stesso fossesulla scena.Ancora unavolta è Caravaggiol’artista che coglie conpiù chiarezza e radica-lità questo punto: non èun caso che soprattuttonegli ultimi anni, simetta lui sesso inscena. È lì, sul posto,perché quel fatto è unfatto contemporaneo.Riaccade lì. In quelluogo, in quell’ora.Come accade in quelquadro strepitoso di-pinto nel 1609, un anno

prima di morire a Messina, dov’è ancora custodito. Nella Resurrezione di Laz-zaro (Figura 2) lui stesso si rappresenta, nella folla degli astanti, presente al fatto,che riaccade nell’“oggi”.Ma Caravaggio si cala nel quadro nella sua condizione di uomo braccato dalleautorità di polizia, di uomo in fuga. Per questo il suo sguardo inquieto è rivol-to stranamente verso l’esterno. C’è, è testimone e continua ad essere se stessocon tutto il groviglio di problemi aperti che segnano in quel momento dram-matico la sua vita. Nonostante questo, Caravaggio fa lavorare la sua immagi-nazione. E così arriva a intuire quel gesto di Maria che si proietta sul volto delfratello appena risorto (Figura 3), in un gesto che un po’ sembra un bacio e unpo’ sembra un voler sentire il fratello di quella creatura tanto amata.È un gesto “immaginato” ma di una verosimiglianza assoluta. Maria era quel-la che aveva rimproverato a Gesù di non essere stato presente nel momentodella morte del fratello, per tentare di mantenerelo in vita. Quindi il Vangeloattesta il legame profondo di affetto tra Maria e Lazzaro. E Caravaggio lo rac-conta con questa intuizione umanamante ed espressivamente formidabile.

FIGURA 3

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Come aveva detto san Tommaso «affinché l’intelletto compia un atto di intel-ligenza, non solo nell’acquisire una nuova conoscenza ma anche nell’usarneuna già acquisita, si richiede un atto dell’immaginazione…»1. Ci sono paginestupende di Giussani in cui analogamente il racconto dei fatti di Cristo diven-tano un fatto presente, proprio in forza di questa forza di immaginazione-immedesimazione proseguono dentro l’esperienza presente: «…quando unadecina di anni fa mi sono trovato a leggere la pagina di Luca senza accorger-mi, sospendevo la lettura col mio commento e gli altri lo sentivano come pro-lungamento della lettura tanto era confacente! Mi sono accorto di quella pagi-na mentre leggevo e mi sono detto: “Ma guarda, non l’ho mai letta io questa,non l’ho mai letta” (e pensate alle centinaia di volte che l’avevo letta!)»2.Se ci guardiamo indietro quindi scopriamo che per quanto riguarda le arti figu-rative, quel tipo di dinanismo straordinario ad un certo punto si è inceppato.Gli artisti prima hanno iniziato a immaginare per stereotipi o fantasticherie (il‘700 da quel punto di vista è emblematico), poi hanno smesso del tutto diimmaginare. O meglio hanno rivolto la loro immaginazione verso altri oriz-zonti.In realtà le cose non stanno esattamente così. E c’è un episodio, assolutamen-te circoscritto ma secondo me decisivo, che aiuta a capire quel che è accadutoe quindi ad avere uno sguardo diverso e non più schematico sull’arte di oggi.Ed è un episodio che riguarda il rapporto tra Van Gogh e Gauguin. Tra i duec’era stata un’amicizia intensa, che per due mesi nell’ultimo scorcio del 1888,avevano dato vita a quella straordinaria esperienza di convivenza ad Arles,quasi una piccola confraternita, culminata con una furiosa litigata che portòpoi Van Gogh al gesto autolesionistico di tagliarsi il lobo dell’orecchio.L’anno successivo, mentre Van Gogh era rimasto nel sud della Francia,Gauguin si era rifugiato in Bretagna e lì aveva cominciato a dipingere delleimmagini religiose, delle Crocifissioni certamente ispirate dalla visione deicalvari bretoni. L’8 novembre del 1889 Gauguin scrive a Van Gogh raccon-tando quel che stava facendo e mettendo nella lettera uno schizzo di un qua-dro con Cristo nell’Orto degli Ulivi (Figura 4).Quando riceve la lettera Van Gogh s’infuria. E si sfoga con il fratello, in unalettera del 17 novembre. Scrive che quelle figure religiose di Gauguin gli sem-bravano soggetti in preda a crisi epilettiche, che avevano un’aria malata.Addirittura arriva a definirle un incubo. Che non aveva nessuna intenzione, luiche era naturaliter religioso, di seguire la deriva biblica del suo ex amico:«Adoro il vero, il verosimile, anche se sono capace di uno slancio spirituale»3.E per tutta risposta (lui aveva dipinto solo una volta la figura di Cristo, copian-

FIGURA 4

COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE38

dola da una Deposizione di Delacroix), accetta la sfida e inizia a dipingere unaserie di quadri con gli ulivi, dove però non c’è più la figura di Gesù: anzi all’i-nizio c’è, ma poi la gratta via dalla tela (Figure 5 e 6).Scrive il 21 novembre al fratello Theo: «Questo mese ho lavorato tra gli uli-veti, perché Gauguin e Bernard mi hanno fatto arrabbiare con i loro Cristi nel-l’orto degli ulivi, dove non c’era niente di vero. Beninteso, io non hol’intenzione di fare qualcosa tratto dalla Bibbia - e l’ho pure scritto a Bernarde anche a Gauguin che credevo fosse nostro dovere pensare e non sognare»4.E poi descrive gli ulivi dipinti. E dalle sue parole si scopre che in realtà que-gli ulivi sono segni della figura di Cristo. Sono metafore della sua presenza.Che Cristo non è rappresentato ma è come potentemente presente. Si sente chelì si concentra il dolore del mondo, nello splendore del vero.

Ma Cristo come rap-presentazione nonc’è. La condizionedell’artista è cambia-ta: chi rappresentaCristo in realtà losogna (e la storia suc-cessiva di Gauguindimostra che VanGogh aveva colto ilvero). Chi è nell’im-potenza drammaticadi rappresentarlo inrealtà riesce a render-lo presente. Mal’artista è ormai nellacondizione dramma-tica di non poterlorappresentare.Nel 1906 muore unaltro protagonista diquella stagione, PaulCézanne. E Parigi glirende un omaggiocon una mostra alSalon d’Automne.Tra i visitatori diquella mostra c’èanche un grandepoeta, Rainer MariaRilke, che avrebberaccontato quell’e-

sperienza in una serie di straordinarie lettere alla moglie Clara. Tra le altre cosefolgoranti che Rilke coglie nell’opera di Cézanne, c’è l’intuizione che le meledelle sue famose nature morte (Figura 7), siano i suoi “santi”. Anche quil’immagine religiosa in senso stretto si è eclissata. Scrive Rilke: «E fa di que-ste cose i suoi santi; e le costringe, le costringe ad essere belle, a significaretutto il mondo e tutto lo splendore… e si attacca a tutto questo, a quell’inaffe-

FIGURA 5

FIGURA 6

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rabile Signore, che solo la domenica lo lascia tornare al buon Dio, come al suoprimo padrone»5.Dunque la dimensione religiosa, potente in Van Gogh e in Cézanne, non trovapiù in quell’immaginazione che abbiamo visto all’opera nei secoli passati, lapropria strada maestra per esprimersi. Gli artisti non hanno più l’energia per“immaginare” la storia sacra, ma hanno un uguale necessità di dare corpo eforma al senso di verità e di bellezza che li pervade. Con la drammatica acu-tezza che lo contraddistingue, Van Gogh si considera artista in esilio. Cezannea sua volta dice di essere in cerca della Terra promessa.Ma non finisce qui. Facciamo un salto di quattro anni e nel 1910 vediamo cheWassilj Kandinskij, un pittore russo emigrato in Germania, apre un nuovo oriz-zonte: quello dell’astrattismo.Nella Composizione 10 (Figura 8) si assiste a questo disfarsi molto lirico dellareppresentazione, ma se si guarda questa composizione si può riconoscere in

FIGURA 8

TIITOLO INTERVENTO 41

filigrana l’immagine originaria da cui è stata generata: una resurrezione conquella forma slanciata gialla che è la dove c’era la figura di Cristo e con le duepie donne un po’ arretrate, ripiegate nel loro tipico atteggiamento. Cosa ci indi-ca questo quadro profetico di Kandinskij? Che l’espressione della dimensionereligiosa nel ‘900 avrebbe trovato terreni più consoni in un’arte “liberata”dalle immagini. Ovviamente si tratta di un’espressione in cui il soggetto pren-de il sopravvento: il fattore oggettivo, quando l’artista è in una posizione vera,ora diventa esplicitamente la sua stessa domanda ineludibile di senso, il cuoreferito davanti all’attesa, la sua irriducibile inquietudine. È questo l’oggettopressante della rappresentazione artistica.Quanto alle immagini c’è solo un grande artista nel ‘900 che ha avuto il corag-gio di affrontare il dramma del loro eclissarsi dal cuore dell’arte. È FrancisBacon che si affaccia sulla scena dell’arte nel 1943 con un capolavoro scan-daloso e clamoroso: le Tre figure ai piedi della Croce (Figura 9).

Secondo Bacon, la par-tita del nostro destino sigioca sul corpo dell’uo-mo, sulla sua carne. Oc’entra con la nostracarne o è una favolavuota. Ma il nostrodramma sta nell’incapa-cità di cogliere dentro il

mistero del corpo, in quella carne una speranza per sé. Le figure ai piedi dellaCroce sono bendate e cieche. Ma con la loro contorsione atroce, con il lorourlo restano come abbarbicate all’unico fatto che può generare una speranza.Dice Bacon: «Per me il mistero del dipingere oggi è il modo in cui renderel’apparenza. So che può essere illustrata, so che può essere fotografata. Macome può essere resa in modo da catturare il suo mistero dentro al misterodella sua fattura?»6. Cioè che il mistero che costituisce le forme sul pianodella realtà, coincida, sia la stessa cosa del mistero che le fa essere sulla tela?Dobbiamo tenere gli occhi ben aperti davanti all’arte moderna. Non farciimbrigliare dagli schemi né perdere tempo sognando percorsi di un’arte iden-titaria che è quasi sempre stanca, seppur a volte sincera, ripetizione del pas-sato. C’è una strana casualità che porta le biografie più profonde, più libere epiù vere in modi del tutto imprevisti a lasciarsi accarezzare dalla presenza diCristo. Mi ha sempre colpito la vicenda di un artista francese come YvesKlein, un artista estremo e a volte scandaloso, che ha passato gran parte dellasua breve e fragile vita nel cercare un nuovo blu che esprimesse il bisogno diinfinito che gli faceva sanguinare il cuore. Alla fine lo trovò: un blu intenso,luminoso straordinario che ancora conosciamo come YKB, Yves Klein Blu.Per gratitudine, senza rendere nota la cosa, ne inviò una scatola sigillata comeex voto a santa Rita, di cui era devoto. Venne trovato anni dopo, riordinandogli ex voto di Cascia, tra lo stupore di chi se lo ritrovò tra le mani.Ma quanto a “casualità” niente pareggia la vicenda della cappella di Saint-Paul de Vence realizzata da Matisse negli ultimi anni della sua vita. Era il1942 e il grande artista, a Nizza, nel pieno del suo successo, era stato opera-to di tumore e per la convalescenza aveva pubblicato un annuncio cercandoun’infermiera che fosse “giovane e carina”. Si fece viva una ragazza,Monique Bourgeois, di famiglia poverissima, che mai aveva fattol’infermiera ma che provò ugualmente a candidarsi. Matisse restò affascinatoda quella presenza. Una volta ristabilitosi le chiese di posare per lui e lei

FIGURA 9

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divenne la sua modella pre-ferita. Ma un giorno nel1944 Monique annunciò aMatisse la sua decisione diprendere i voti nell’ordinedomenicano. L’artista restòcompletamente spiazzato,cercò addirittura di far tor-nare Monique sui suoipassi.Il caso volle che la noviziavenisse destinata a una casadi Vence, dove lo stessoMatisse aveva una casa per isoggiorni estivi (Figura 10).Così la frequentazione con-tinuò. Il piccolo monasterodi Vence era privo di unacappella, Matisse restò col-pito da questo particolare. Sioffrì di progettare e trovarele risorse per realizzarla. Cifurono da vincere molte

resistenze ma poco alla volta il progetto venne varato. Per quasi quattro anni,tra 1947 e 1951 Matisse dedicò tutto il suo tempo alla realizzazione della cap-pella, disegnando tutti i più piccoli particolari. Picasso gli contestò questa chesembrava una follia. E Matisse per risposta: «Picasso era furioso che io faces-si una chiesa. Io gli ho detto: faccio la mia preghiera, e voi pure e lo sapetebene: quello che noi cerchiamo di trovare con l’arte, è il clima della nostraprima comunione»7.La cappella è un capolavoro di semplicità. Matisse la definiva un piccolo fiore.Più che per le forme restiamo colpiti ancor oggi dalla grazia delle linee e deicolori delle vetrate. Dalla leggerezza di quel luogo così umile, nato quasi percaso, ma che era costato uno sforzo enorme. Le forme hanno una loro meravi-gliosa fluidità, sono linee che si muovono come guidate da una grazia impre-vedibile e non calcolata. Si avverte quasi la linea automatica dell’icona.Quando, come nel caso della via Crucis, Matisse si costringe invece, pur conmolta umiltà a una maggiore narratività, cioè fa i conti pienamente con le

FIGURA 10

CHIESA SENZAARTE, ARTE SENZA CHIESA. IL SENSO RELIGIOSO NELL’ARTE MODERNA 43

1. Tommaso d’Aquino, Summa Theologiae, 1, q. 84, a.7c., San Paolo, 19992. Luigi Giussani, Quasi Tischreden - l’Attrattiva Gesù, Rizzoli 1999, pag. 1903. AA. VV:, Van Gogh e Gauguin. Lo studio del Sud, Electa 2002, pag. 3084. AA. VV:, Van Gogh e Gauguin. Lo studio del Sud, Electa 2002, pag. 3095. Rainer Maria Rilke, Verso l’estremo. Lettere su Cézanne e l’arte come destino, Pendragon,

2007, pag. 516. David Sylvester, Interviste a Francis Bacon, Skira, 2003, pag. 927. Henri Matisse, Ècrits et propos sur l’art, Hermann, 2005, pag. 2688. Soeur Jacques-MarieHenri Matisse. La Chapelle de Vence, Gregoire Gardette edition, 1992,

pag. 139

COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE44

immagini, il suo segno è più debole quasi farraginoso. C’è meno lucidità emeno meraviglia nel suo procedere. «Non è un lavoro che io ho scelto, ma èun lavoro per il quale io sono stato scelto sul finire della mia strada, una stra-da che io continuo seguendo le mie ricerche: la cappella è stata un’occasionedi guardarle, riunendole tutte.Io avverto che questo lavoro non sarà inutile e che potrà restare come espres-sione di un’epoca artistica, forse superata, anche se io non credo. È impossi-bile stabilirlo oggi, prima di conoscere i movimenti nuovi. Di questa espres-sione dei sentimenti umani, gli errori che contiene cadranno da soli, ma reste-rà una parte viva ch potrà riunire il passato con l’avvenire della tradizione arti-stica. Io mi auguro che questa sfida che io chiamo la mia rivelazione, siaespressa con forza sufficiente per essere contagiosa e riportare alla sorgente»8.Il cuore fattosi umile, senza pretese ma grande di Matisse ci documenta chenessuna storia è finita.Per questo il titolo dice tanto, ma non dice tutto.

Il tema dei diritti umani e, in particolare, quello del loro fondamento antropo-logico, va considerato oggi con grandissima attenzione visto che, dopo moltianni in cui la dottrina ne ha trattato come di una sorta di marcia trionfale versouna società migliore, esso si sta rivelando non scevro di una intensa proble-maticità, una problematicità che a tratti sfiora la tragedia, come tutti possiamorilevare anche solo a partire dell’epilogo della vicenda di Eluana Englaro edella discussione che intorno ad essa è nata. È pertanto utile ripensare al cam-mino dei diritti e ripensarlo in filigrana: non è tanto, infatti, una tematica chesi può affrontare solo “leggendo” le Carte dei diritti, quelle costituzionali equelle internazionali; occorre piuttosto scandagliare le norme in esse contenu-te alla ricerca del tipo umano che ha fatto da riferimento ai redattori delle stes-se. Ogni norma è per l’uomo: per il destinatario della medesima ma anche perchi tale norma è chiamato ad attuare. Per tutti dunque la dimensione antropo-logica è sostanziale.Il presente intervento avrà come punti di riferimento solo due passaggi dellalunga evoluzione della moderna cultura giuridica relativa ai diritti: laDichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789 e laDichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Si tratta, come è evi-dente, di due momenti cruciali per il tema che qui ci occupa, da leggersi noncome mera elencazione di fattispecie normative bensì come grandi manifestidella modernità e della post-modernità, i cui esiti sono ancora davanti ad inostri occhi.La Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino del 1789, che segna lanascita dello stato liberale dalle ceneri dello stato assoluto, è un documentobreve ma molto suggestivo della Weltanschaung dell’uomo moderno.Due premesse prima di entrare in merito al testo. La prima: tra i tanti elemen-ti “rivoluzionari” presenti nella Rivoluzione Francese, una riguarda le basi del-l’organizzazione sociale. Fondatasi per molti secoli addietro su elementi fat-tuali, su dati naturali quali la religione, la storia, la tradizione, la societàmoderna post rivoluzionaria li ripudia per fondare se stessa e l’ordine sociale

Il fondamento antropologicodella moderna teoria dei dirittiLorenza Violini

che la costituisce sulla ragione. Il riscontro più immediato di questo cambia-mento strutturale è dato dal fatto che la base dell’ordine giuridico in quantoelemento dell’ordine sociale non è più la consuetudine (norma che nasce e sicostituisce per il susseguirsi di comportamenti sociali e dentro il tempo dellastoria) bensì la legge durante e dopo la Rivoluzione, dovendo espungere dal-l’ordine sociale i tre elementi naturali citati, l’organizzazione giuridica identi-fica nella legge il solo grande strumento “razionale”; la legge diviene, in altreparole, il solo grande protagonista dell’ordinamento, cosicchè, mentre in pre-cedenza l’ordine giuridico era ultimamente “chiuso” dalla consuetudine, cioèdal tipo di norma che emergeva dalla esperienza, ora la norma di chiusura nonè più la consuetudine, qualcosa che emerge dalla esperienza, dalla storia, bensìla legge generale e astratta, l’espressione prima della uguaglianza dei cittadi-ni. Interessanti le pagine critiche di Paolo Grossi1 su questo tema, ma credo siaesperienza comune anche per noi oggi: quando noi pensiamo all’ordinamentogiuridico, ci è naturale fare riferimento pressochè unico alla legge.Ancora una considerazione: la caratteristica della legge è di essere “generaleed astratta”, prodotta da un organo centrale, il Parlamento, investito del pote-re di legiferare in quanto eletto dai cittadini. Se fermiamo la nostra atternzio-ne sulla seconda parte dell’endiadi, sulla parola “astratta”, possiamo rilevaredue elementi che la contraddistinguono, una positiva (la legge non può né deveoccuparsi di casi singoli, perché questo andrebbe a scapito dell’eguaglianza) euna di segno diverso, indicativo della concezione di uomo che sottosta al docu-mento che stiamo analizzando. Essa rivela il tipo di uomo, il fondamentoantropologico della Rivoluzione Francese e che emerge da una lettura attentadell’incipit della Dichiarazione, da quell’Art. 1 che recita: “Tutti gli uomininascono e sono liberi ed eguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possonoesser fondate che sulla utilità comune”.Libertà, eguaglianza, i valori piu importanti della Rivoluzione france-se,trovano nella legge generale ed astratta il primo e forse anche l’unico gran-de baluardo. Ora, consideriamo con criticità questa formulazione: un uomoche nasce, nella concretezza del nascere, nel momento del tempo che determi-na il comparire sulla scena del mondo di un nuovo essere non rivela un essere“libero”; lo è nella sostanza, certo, ma che lungo cammino occorre perché talelibertà diventi quello che l’Illuminismo ci ha abituato a pensare come sostan-ziale, cioè capacità di autodeterminarsi? Solo una visione “astratta” dell’uomopuò dar conto di una libertà e di una eguaglianza che stanno all’origine, chesono già pienamente realizzate nel momento stesso della comparsa dell’uomosulla scena del mondo. L’uomo, quando nasce, è tutt’altro che “libero”; egli

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IL FONDAMENTO ANTROPOLOGICO DELLAMODERNA TEORIA DEI DIRITTI 47

necessita di tutto ed in tutto è dipendente; il che, ovviamente, non altera lasostanza delle cose: nessuno è schiavo. Eppure, proprio tale sostanziale liber-tà non va data per acquisita ma va ricostruita e conquistata affinchè non siassesti dentro l’ordinamento l’idea che il limite sia un elemnto esogeno rispet-to alla libertà, posto da un atto generale ed astratto come la legge ma, quindi,ultimamente violento. Ed è proprio questo, invece, il sospetto che si vuole insi-nuare nella cultura giuridica, il sospetto che non ci siano limiti né differenzia-zioni naturali; essi sarebbero il prodotto di una struttura sociale fondata su sto-ria, religione e tradizione che la legge, il grande demiurgo, si incarica di sra-dicare. Una visione astratta, secondo la quale il micro-soggetto dellaRivoluzione francese è un soggetto che in potenza ha tutta la libertà, in poten-za ha tutta l’eguaglianza e con ciò ritiene che possano essere poste nel nullatutte le naturali diversità e limitazioni che invece caratterizzano la condizioneumana.Vi è un terzo elemento che la Dichiarazione pone alla nostra attenzione, oltrela libertà e l’eguaglianza. Si tratta del rapporto tra Stato e società civile. Poichéla società civile nella Rivoluzione francese viene considerata la grande nemi-ca dell’eguaglianza, due sono i soggetti che si contendono la scena della sto-ria: il micro -soggetto, l’individuo e il macro soggetto cioè lo Stato. Lo Statoè l’istituzione che produce la legge; benchè non compaia come termine nellaDichiarazione, esso è onnipresente sub specie della “nazione”o di altre formu-la. E, ancora, benchè la legge sia il prodotto dei rappresentanti del popolo, essaha carattere elitario; non dimentichiamo infatti che nelle monarchie costitu-zionali dell’800 il diritto di voto era limitato ad una percentuale bassissima dicittadini, identificati dal censo e dal grado culturale.Sono dunque tre i grandi temi della Dichiarazione: la libertà, l’uguaglianza eil rapporto tra stato e società civile. Sono temi che ancora oggi occupano lenostre discussioni e le nostre riflessioni; risolti, non esauriti, e che meritanopertanto qualche ulteriore approfondimento.Come si è detto sopra, il concetto di libertà è fondamentale per comprendereil tipo d’uomo cui la Rivoluzione fa riferimento. Essa non è una facoltà che siesplica dentro i condizionamenti della realtà naturale. È, invece, qualcosa chesta prima e che ha quindi una estensione massima. Si legge nell’art. 4 dellaDichiarazione: “la libertà consiste nel poter fare tutto ciò che non nuoce aglialtri”. Della suggestiva espressione va sottolineato primariamente la parola“tutto”; essa viene bensì limitata e corretta dalle ulteriori parole “..ciò che nonnuoce ad altri”; tuttavia, la correzione non può efficacemente limitare lo spun-

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to iniziale, che consiste appunto nel “poter fare tutto”. Il limite è estrinseco e,essendo definito dalla legge che poi concretamente pone e definisce il limite,risulta essere l’arbitro di quanto l’uomo può fare. Trattasi, tuttavia, di un uomoche può fare tutto e che solo in seconda battuta si sottopone alla legge cosìcome è in seconda battuta che si aggrega la societas. La relazione libertà-leggeè dunque, ancora di segno negativo. Nel tempo vediamo gli effetti di questanegatività: oggi la legge che vieta è il nemico della libertà e va pertanto neu-tralizzata, spogliata di ogni aspirazione etica mentre l’etica resta il campo dovetutto è possibile, dove l’uomo, per essere se stesso, deve poter fare tutto. Inaltre parole, il limite non è consustanziale alla struttura umana ma qualcosache viene imposto dal fuori; può essere una autoimposizione da limitare almassimo (come è nella concezione odierna di legge) o può essere una imposi-zione dittatoriale. E, infatti, il Novecento, con le sue dittature andate al poterelegalmente, non mancherà di attestare. Non ho fino a qui fatto alcun riferi-mento esplicito al testo di mons. Giussani che è stato posto a fondamento delnostro Convegno; mi pare tuttavia che le sue tesi trovino nella Dichiarazioneuna straordinaria attestazione di verità: l’uomo moderno tende inesorabilmen-te all’autodeterminazione perché vive dell’illusione di potere con le sue forzegiungere alla propria completa realizzazione.Qualche ulteriore considerazione anche sull’uguaglianza. Come si è dettosopra, l’eguaglianza non ha riscontro nel mondo naturale e si realizza solo inquanto imposta dalla legge la quale, essendo generale ed astratta, concede atutti lo stesso spazio di libertà. Oggi vediamo tutta la dimensione problemati-ca di questo modo di riflettere sull’eguaglianza perché la legge, che imponeuno schema uguale a situazioni diseguali, finisce per imporre una concezioneformale ed “egualitaria” dell’eguaglianza, che è la negazione dell’eguaglianzastessa. Non a caso il Novecento si proporrà di integrare alla concezione for-male di eguaglianza una concezione sostanziale, come ben si evince dall’art. 3della nostra Costituzione repubblicana. Eguaglianza formale ed egualgianzasostanziale dovranno quindi essere considerate come le due facce di una stes-sa medaglia, due facce che considerano una l’uomo nella sua sostanza ultimae, l’altra, l’uomo concreto, bisognoso di supporto per realizzare le proprieaspirazioni. Due facce: un uomo libero e forte, eguale per nascita e per digni-tà, ma ad un tempo non scevro di debolezze, di fronte alle quali lo Stato è chia-mato ad attivarsi (“È compito della repubblica rimuovere le diseguaglianzeche, limitando di fatto la libertà…..”). Alla visione ottocentesca di eguaglian-za si accompagna una visione più concreta, attenta ai bisogni reali delle per-sone, che tuttavia non manca di scontare l’origine, che tende a negare le dis-

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eguaglianze di fatto. Basti pensare alla forte tensione che permea la culturagiuridica attuale a rimuovere le diseguaglianze senza considerare se essehanno o meno un riscontro nella realtà dei fatti: la battaglia fatta sul tema dellafamiglia e dei Dico sia un esempio per tutti.Il terzo fattore cui si è fatto cenno è il tema del rapporto tra stato e società civi-le, tra istituzioni e realtà sociali su cui le istituzioni si innestano. LaRivoluzione francese, considerando la società civile come il luogo delle dis-uguaglianze, ha abolito le naturali diseguaglianze presenti a livello di struttu-ra sociale e, di conseguenza, tutti i corpi intermedi, per creare questo rapportounivoco tra l’individuo e lo stato, considerato come l’unico legittimo perchél’unico razionale; tutto il resto, la storia, la tradizione, la cultura e i corpi inter-medi sono stati considerati come realtà potenzialmente irrazionali. Come ciponiamo noi oggi di fronte a questo tema? Chiaramente, oggi questo temaviene guardato in modo profondamente diverso. Dalla nostra Costituzione inpoi sappiamo che il micro soggetto di fronte al macro soggetto finisce per esse-re totalmente schiacciato, che le formazioni sociali non sono fattori negativiper lo sviluppo della personalità umana ma sono fattori profondamente positi-vi. Tuttavia questa non è ancora l’ultima parola perché se di fronte ad un mododi concepire il rapporto stato- società civile, individuo-stato, se sotto questovelo ci sta l’idea ultima di cui ancora forse non ci siamo pienamente liberatiche l’individuo è tale in quanto può fare tutto ciò che vuole e che i condizio-namenti che gli vengono dalle sue appartenenze sono condizionamenti negati-vi e se le fedeltà che vengono imposte al soggetto dalle sue appartenenzesociali sono potenzialmente in concorrenza con la fedeltà ultima che il cittadi-no deve allo stato, se ragioniamo così allora anche una semplice norma costi-tuzionale come quella della nostra costituzione, l’art.2, che pure rivitalizza,rida vigore alle formazioni sociali, rischia di essere una specie di toppa su unvestito che è ormai logoro. Attenzione, quindi, a questa idea di fondo che inqualche modo la Dichiarazione dei diritti ci sta mediando perché molto spes-so è ancora il modo con cui, pur nell’evoluzione dell’ordinamento giuridico, sifinisce di guardare il rapporto tra stato e società civile.Tutto ciò posto, possiamo ora chiederci che cosa è successo dopo la SecondaGuerra mondiale, tragedia che ha posto con evidenza la necessità di sconfes-sare (o almeno di integrare in modo sostanziale) il modello antropologico pro-posto dalla Rivoluzione. Prendiamo in considerazione l’Art. 1 dellaDichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Guardando alla meralettera di questo articolo non è possibile non notare l’assonanza potente con

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quanto era stato proclamato nel 1789: “Tutti gli esseri umani nascono ugualiin dignità e diritti”. Eppure, vi è un elemento nuovo, molto importate: la digni-tà. Eguali non solo nei diritti ma, soprattutto, nella dignità. Il tema della digni-tà viene in questo contesto evocato perché si è compreso che l’evoluzione del-l’ordinamento giuridico non può essere basato solo su una concezione liberta-ria ed egualitaria; occorre invece un contenuto che impedisca di consegnarel’uomo al dominio della legge. Su questo tema vi sono pagine molto belle diMary Ann Glendon2, che ha studiato la genesi e la formazione dellaDichiarazione universale dei diritti dell’uomo mettendo in luce tutto il positi-vo del richiamo alla dignità umana. Questo è un grande passo dal punto divista dell’ordinamento, passo pienamente condiviso anche da molti ordina-menti nazionali come il nostro che, all’art. 2 Cost. “riconosce” i diritti “invio-labili”; con ciò la dignità umana e i diritti che da essa discendono vengono par-zialmente svincolati dalla legge dello Stato e dal potere che essa incarna perindicare la sfera del pregiuridico che dà forma e sostanza all’ordinamento.Molto si discuterà su questa terra incognita evocata dalle Costituzioni deldopoguerra e dalla Dichiarazione Universale; essa resta tuttavia il convitato dipietra di ogni discussione sui diritti, costituendone ad un tempo la forza e ladebolezza. La forza, perché tutte le diverse componenti che avevano approva-to la Dichiarazione vi si erano in qualche modo riconosciute; la debolezza per-ché, come disse Giovanni Paolo II nel suo discorso al corpo diplomatico vati-cano del 1989: “La Dichiarazione Universale,che pure ha una grande impor-tanza per l’organizzazione sociale dei nostri paesi, non indica le basi antropo-logiche e morali per i diritti umani”. Dunque, tutti condivisero, ma le ragioniprofonde che determinarono questa adesione restarono implicite e quindi, ulti-mamente, fragili. È ancora Milosz a sottolineare questo aspetto di debolezzadella fede pur manifestata nella dignità umana: “Mi interrogo su questo feno-meno perché probabilmente più sotto si apre un abisso. Dopo tutto queste ideetrovano il loro fondamento nella religione e io non sono tanto ottimista sullapossibilità che la religione sopravviva in una società scientifico-tecnologica.Nozioni che sembravano sepolte per sempre sono state improvvisamente resu-scitate, ma per quanto tempo continueranno a restare a galla se il fondo è venu-to meno?”3.La dignità umana, la conquista delle Carte dei diritti del XX secolo, resta dun-que la grande parola ma pervasa da un’intima, inevitabile fragilità, messa inluce anche di recente dal discorso di Benedetto XVI all’ONU dove, pur valo-rizzando questa esperienza, il Papa denuncia con chiarezza che i diritti oggisono minacciati dalle diverse forme di relativismo, sono usati e citati in modo

selettivo e sono spesso interpretati in modo individualistico e iper libertario,senza la necessaria connessione con il principio della responsabilità. Cosìavverte Mary Ann Glendon4: “Con l’andare del tempo è divenuto dolorosa-mente evidente che la dignità non si sottrae più di altri concetti ad un uso dis-torto: ad esempio, si difende l’eutanasia e la si difende come diritto tipico del-l’uomo libero e padrone di sé ma questa eutanasia viene difesa proprio nei ter-mini di un diritto a morire con dignità. Il tema della dignità sembra esserepreso e usato contro la sua vocazione originaria così mostrando che non c’èlimite agli pseudo diritti che i più forti sono impazienti di attribuire, volenti onolenti, ai più deboli”.Quest’ultima parte di citazione mi permette di fare le considerazioni conclusi-ve. Forti e deboli. La visione antropologica che sottosta all’illuminismo è unavisione che sembra aver dimenticato il tema dei deboli. Ma chi sono i deboli?La nostra Costituzione in questo è più realista perché ha presente che ci sonocome due facce dei diritti umani: la faccia di coloro che essendo capaci diautodeterminarsi si autodeterminano ma anche l’altra faccia; lo stesso uomopuò essere forte, capace di autodeterminarsi ma ha anche una potente debo-lezza e di fronte a questa debolezza l’ordinamento non può reagire allo stessomodo con cui agisce nei confronti dei forti, cioè tutelando la loro libertà diautodeterminazione. Di fronte a questa debolezza l’ordinamento ha unaresponsabilità precisa quella della tutela. Ripensiamo ancora all’art. 2 dellanostra Costituzione: non solo parla sono di diritti inviolabili ma ribadisce chela Repubblica chiede che vengano rispettati i doveri di solidarietà nei confrontidi coloro che non sono capaci di tutelarsi da sé. In alcuni studiosi questo vienericonosciuto cioè viene riconosciuto il fatto che i diritti di libertà hanno comecontraltare i diritti sociali. Dice ad esempio Sacco5: “Una lettura radicalmenteindividualista della dignità umana quasi un corollario dell’affermazione dellarazionalità e della libera volontà degli esseri umani trascura la capacità dellaclausola riconosciuta dalla maggior parte delle moderne democrazie pluralisti-che di porsi come fondamento normativo generale anche dei diritti”, quei dirit-ti cioè che vanno attribuiti a coloro che non sono ancora in grado di godereappieno dei diritti di libertà. E, ancora, tra le femministe più attente non simanca di far notare che “oggi si è critici e reticenti nei confronti di argomen-tazioni che interpretano l’aborto come diritto perché. come per gli americani idiritti mettono in ombra contesti e relazioni e quello tra donna e feto è appun-to una relazione per quanto sui generis perché argomentare per l’aborto in ter-mini di diritti nasconde la dimensione di questione pubblica dell’aborto stesso

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1. Si veda in particolare P. Grossi, “Oltre il soggettivismo giuridico moderno”, Lectio cathe-drae magistralis in occasione del conferimento della Laurea honoris causa pressol’Università Cattolica di Piacenza, 27 febbraio 2007, ora in AA.VV., Studi in onore diNicolò Lipari, Milano, Giuffrè, 2008, pp. 1219-1232 e P. Grossi, Prima lezione di diritto,Bari, Laterza, 2007.

2. Sul punto si veda M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, (edizione italiana a cura di P.G.Carozza, M. Cartabia), Soveria Mannelli, Rubettino, 2007 e della stessa autrice, “La visio-ne dignitaria dei diritti sotto assalto”, in L. Antonini (a cura di), Il traffico dei diritti insa-ziabili, Soveria Mannelli, Rubettino, 2007, pp. 59-80.

3. C. Milozs, “The Religious Imagination at 2000,” New Perspectives Quarterly, Fall 1997, p.32. Il passo è citato anche da M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, cit., p. 82.

4. M.A. Glendon, Tradizioni in subbuglio, cit., p. 97.5. F. SACCO, “Note sulla dignità umana nel diritto costituzionale europeo”, in S.P. PANUN-

ZIO (a cura di), I diritti fondamentali e le Corti in Europa, Napoli, Jovene, 2005, p. 619.6. T. PITCH, Perché si discute di diritto e diritti, in

www.sociologiadip.unimib.it/mastersqs/dida1/tesi3/tamar.pdf

e introduce come dimensione avversariale che è incongrua che non riconoscela potenza della relazione”6.Qualche accenno a questa concezione integrale dei diritti è dunque presente: anoi di riscoprirlo, farlo nostro e continuare a riproporre con forza il tema delladignità dell’uomo, di ogni uomo, come fattore sostanziale di eguaglianza e dilibertà.

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Giuseppe Tanzella-Nitti

Pensiero scientifico e religiositànell’insegnamento scolastico:per un progetto educativo apertoall’unità del sapere

Il rapporto fra scienza e religiosità ha accompagnato un po’ tutta la storiadel pensiero umano e ne troviamo le tracce sia nella storia che nella rifles-sione filosofica, nonché nel dibattito culturale anche comune. Il dibattito fracultura scientifica e pensiero religioso è attuale in buona parte della divul-gazione scientifica e nei mass media, appassionando vasti strati dell’opi-nione pubblica. Di qui la necessità che anche il mondo della scuola tengapresente questo dibattito e ne sappia registrare le tendenze. Esso costituisce,anzi, una singolare opportunità per stimolare la riflessione e la formazionecritica degli studenti, per la portata educativa e culturale di queste temati-che, senza ridurle al livello di un mero confronto di opinioni private datenersi nel soggiorno di casa propria.Tuttavia, proprio la delicatezza della tematica in questione - rapporto frascienze e religione - ed il carattere pubblico del possibile luogo di dibattito- la scuola - ci impongono alcune riflessione previe. Una delle più impor-tanti riguarda la mediazione culturale che questo dibattito sperimenta primadi poter giungere sui libri di scuola (seppure vi giunge). Si tratta di unamediazione che possiede degli aspetti certamente evidenti, come ad esem-pio il carattere impersonale, sempre vincente ed esaustivo nell’interpreta-zione della realtà col quale viene presentata l’impresa scientifica; o quellodi un certo ritardo fra la riflessione filosofica ed interdisciplinare di cui lascienza odierna è oggetto e la scarsa ricaduta di questo dibattito nei libri ditesto; o infine il modo di presentare i rapporti fra scienze e religione, anco-ra centrato attorno ad alcuni retaggi storici a tutti ben noti, veicolati attra-verso il clichè del luogo comune, privo, in quest’ultimo caso, di una preoc-cupazione per i criteri di contestualità, di completezza o di correttezza epi-stemologica.

Rapporto fra scienze naturali e pensiero religioso. Attualità del tema eposta in giocoIl particolare della Cappella Sistina, La creazione di Adamo di Michelangelo,riportata nella figura 1, propone una immagine oggi abbastanza nota, chepotrebbe richiamarci a una questione che viviamo comunemente; essa concer-ne le domande ultime sul senso, sulla origine e sul significato della vita.Questioni che una volta erano appannaggio della filosofia della religione, vei-colate attraverso il linguaggio filosofico o religioso, ma che oggi sono quesitiche si pongono anche in ambito scientifico.

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FIGURA 1

FIGURA 2

Nel disegno proposto nella figura 2 ci sono due barbuti scienziati con il par-ticolare delle mani della Cappella Sistina; uno dice all’altro: “Il telescopioHubble ci sta mandando immagini estremamente lontane dei primi tempidell’universo”. Qual è il ruolo della iconografia, anche a riguardo della let-teratura e della religione? Perché le immagini, come questa della creazionedi Adamo, ci rinviano a tutta una serie di contenuti che sono religiosi e teo-logici.

Un’immagine come quella della serie di scimpanzè che raggiungono la postu-ra eretta (figura 3), che è quella dell’uomo, evoca una serie di altri contenuti.Se confrontiamo questa immagine con il dipinto di Michelangelo, il problemaè, detto in termini diretti, che tutte e due le immagini sono false, nel senso chele cose non si sono svolte in questo modo. La creazione di Adamo diMichelangelo è, infatti, una rappresentazione artistica e antropomorfa di DioCreatore, anche se, come tutti sanno, è un dipinto ricchissimo di spunti teolo-gici: per es. le due dita che non si toccano fanno pensare alla autonomia dellacreatura, alla trascendenza di Dio rispetto a tutto ciò che è creato. Ma il puntoè che le cose non si sono svolte neanche nei termini della figura 3, perché inquesta serie si mette dietro uno scimpanzè, il che è falso, perché questa specie,evolutivamente, è arrivata dopo il filum che ha dato origine all’homo sapiens.Qui dietro bisognerebbe mettere un pitecantropo, un australopiteco; peròabbiamo di questi individui soltanto poche ossa ed è difficile ricostruire preci-samente come erano. Se ci mettiamo, invece, uno scimpanzè, il risultato èmolto meglio iconograficamente, perché lo scimpanzè l’hanno visto tutti allozoo.

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FIGURA 3

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Il pensiero scientifico ha modellato la razionalità e il modo di pensare delnostro tempo e dunque anche l’approccio dell’uomo comune al tema religio-so. I risultati delle scienze e le loro applicazioni pragmatiche esercitano unnotevole fascino, determinando i correnti criteri di veridicità. In questo c’è unaspetto positivo, perché la scienza ha migliorato la qualità di vita dell’uomo,ne serve lo sviluppo culturale e l’organizzazione della società; ma c’è ancheun aspetto che potremmo definire problematico, anche se l’aggettivo non èottimale: il metodo scientifico pragmatico, adeguato per lo studio del suooggetto specifico, che è la realtà misurabile, viene visto come unico metodovalido per comprendere l’intera realtà e come unico criterio di conoscenza. Equesta è la situazione in cui noi ci muoviamo oggi. Ci sono, infatti, una seriedi luoghi comuni che è difficile scardinare perché continuano ad essere forte-mente presenti nella nostra società a proposito del rapporto tra scienza e reli-gione. Iniziamo ad esaminarne alcuni.Una certa “eredità storica” porta a vedere nella religione un ruolo di “freno”allo sviluppo del progresso scientifico, come nel caso di Galileo o di Darwin.Esisterebbe una “resistenza” alla novità, per la difficoltà di interpretarla nellavisione biblica del mondo, ormai consolidata. Da una parte, perciò, la religio-ne è vista come depositaria di una visione rigida, perché legata a testi scritti,dove tutto ciò che è novità non viene considerato; dall’altra si identifica (erro-neamente) la religione o la fede cristiana con la sacra Scrittura letta in modoletterale (questo nella teologia cattolica non si è quasi mai fatto), ignorando laricchezza della tradizione e della riflessione teologica (rischio del fondamen-talismo). Anche la nascita e il progresso delle scienze non sarebbero stati altroche un radicale processo di emancipazione dalla (quando non contro la) filo-sofia e teologia. Si insiste molto sul fatto che le scienze si sono rese autonomedalla filosofia e dalla teologia, e quindi, finalmente, sono decollate con il lorometodo. E questo è vero, ma fino a un certo punto. Perché senza un substratodi conoscenza della realtà, neanche le scienze potrebbero fare il loro mestieree storicamente non è vero che ci sia stato un processo di esclusiva emancipa-zione. Pensiamo al background che oggi la filosofia continua a dare alla scien-za: per esempio che esista una razionalità della natura, che esistano dei princi-pi di deduzione, che si riescano a dedurre delle proprietà universali guardandoproprietà che sono locali, il principio di causalità, tutta una serie di principilogici e qualche volta anche ontologici che consentono all’uomo di scienza difare scienza. Una scienza che si emancipasse dalla filosofia non potrebbe fareil suo lavoro.Un altro luogo comune è che la religione risponderebbe ai perché e la scienza

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soltanto ai come. La vera scienza, invece, si occupa, eccome, dei perché: essaè uno scire per causas. Tutta la nostra scienza funziona con dei perché, lascienza consiste nel porre alla natura dei perché che costano energie, denaro,tempo, risorse. Il punto è che bisogna aiutare a riconoscere diversi livelli diperché. Ci sono perché che fanno parte della filosofia e poi ci sono dei perchécui anche la filosofia non riesce a dare una risposta esaustiva. Allora ci vuoleun orizzonte più grande che deve aprirsi ad una parola che ci giunga dall’alto,e quindi la teologia con la rivelazione.Ancora si pensa che il dialogo fra scienze e teologia sarebbe favorito da unareligione sempre disposta a rinunciare ai suoi dogmi, e da una conoscenzascientifica ritenuta solo provvisoria, basata unicamente su modelli convenzio-nali, incapace di raggiungere verità di carattere irreformabile. A prima vistaquesto stato di cose potrebbe sembrare utile e più favorevole al dialogo, per-ché sia la scienza che la religione, rinunciando ai loro dogmi, sarebbero menocerte dei loro risultati e dialogherebbero più facilmente. In realtà il dialogo nonsi fonda su questo. Dialogano bene teologia e scienze se hanno la capacità difondare quello che dicono con una verità che in qualche modo abbia una suaradice nell’essere delle cose e quindi sia di accesso tanto al filosofo, quanto alteologo e allo scienziato.Ancora la religione, irrazionale, si occuperebbe di una sfera totalmente sog-gettiva, concernente valori privati ed una conoscenza non comunicabile, men-tre la scienza, razionale, riguarderebbe un sapere comunicabile, di ambitooggettivo e universale. Si dice spesso: se andate a New York o a nuova Delhi,e chiedete alla prima persona che passa “chi è il tuo Dio?”, ognuno risponde-rà in modo diverso; se chiedete invece “qual è la composizione della moleco-la dell’acqua?” tutti risponderebbero: “H2O”. Dunque, si conclude, la scienzaè comunicabile, ha la capacità di dialogare con tutti, la religione no. Ma se poinoi chiediamo se il senso della vita e della morte è significativo, vi dirannotutti di sì. Se chiediamo se hanno mai pensato a ciò che fa bene e a ciò che famale, vi risponderanno che, almeno qualche volta, ci hanno pensato. Se chie-diamo se l’essere umano ha in qualche modo una sua valenza, risponderannodi sì. Quindi sui grandi temi dell’esistenza c’è una comunanza tra i popoli e leculture molto grande e i grandi temi emergono con forza ovunque.Un altro luogo comune è che andrebbe superata la visione tradizionale del-l’uomo come “essere superiore”, perché la persona umana sarebbe soltanto edesclusivamente un animale, con precise ricadute in campo etico. I comporta-menti umani andrebbero interpretati in quest’ottica di riduzionismo antropolo-gico molto più diffuso oggi di quanto non sia il riduzionismo epistemologico.

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Basti vedere le trasmissioni scientifiche che si occupano dei comportamentidegli animali, che vengono sempre messi in parallelo con i comportamenti del-l’uomo, cercando una giustificazione al perché ci siano quei comportamentiumani nella naturalità animale.Esiste tuttavia un altro aspetto di questa meditazione, meno evidente di quelliprecedenti, sul quale vale la pena soffermarsi brevemente. Il modo con cui igrandi temi dell’esistenza umana sono presenti nell’insegnamento scolastico -chi sono, da dove vengo, dove vado, per usare una formulazione convenzio-nale ma sempre utile -, questo modo riguarda essenzialmente le opportunitàofferte dalle discipline umanistiche, come ad esempio la letteratura o la filo-sofia. Tali discipline accostano l’alunno alle diverse visioni del mondo e del-l’uomo dei vari autori e collegate alle varie tappe della storia. Altre materie,come ad esempio la storia dell’arte o la storia politica, possono talvolta acce-dervi, sebbene in maniera indiretta. Quello che tutti, o quasi tutti, danno inve-ce per scontato è che materie di carattere scientifico come la chimica, la fisi-ca, la matematica o la biologia, non debbano rispondere a nessuna visione par-ticolare del mondo o della persona, a motivo della natura oggettiva ed imper-sonale del loro metodo. Lo schema classico che soggiace a questo giudizio èla divisione fra scienze dello spirito (o scienze umane) e scienze naturali impo-stasi nella pedagogia in occidente a partire da Dilthey (1833-1911), ma le cuibasi filosofiche sono certamente già presenti assai prima in Kant.Questo stato di cose assume il carattere di una mediazione culturale implicita,nascosta. Il fatto che il cielo sotto cui Giacomo Leopardi componeva i versidella sua poesia Canto notturno di un pastore errante dell’Asia sia lo stesso emedesimo cielo oggetto dell’astronomia e della fisica; oppure il fatto che quel-la persona umana di cui un autore come Pirandello ha così ben espresso tuttala ricchezza psicologica sia lo stesso uomo le cui funzioni vitali la biologiainterpreta ed analizza, sono cose che appaiono, agli occhi degli studenti, eforse di non pochi insegnanti, del tutto secondarie, praticamente accidentali.Se poi dicessimo che quella nozione di universo presentataci dalla fisica equella nozione di essere umano presentataci dalla biologia non sono neutre néoggettivanti, ma contengono tacitamente una precisa visione filosofica di cosasia l’universo e di cosa sia la persona umana, vale a dire rispondono ancheloro, a loro modo e col loro linguaggio, a quel «chi sono, da dove vengo e dovevado», allora la sorpresa crescerebbe ancora.Non è mia intenzione sviluppare in questa sede le implicazioni di tale fram-mentazione o, se si preferisce, di questi interrogativi, ma soltanto segnalare lapresenza di una mediazione indiretta nella presentazione del rapporto fra cul-

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tura scientifica e pensiero sapienziale o religioso. Lo stesso pensiero scientifi-co viene trasmesso nella sua dimensione pragmatica, sempre vincente, astraen-do dalla sua dimensione umana, dalle sue risonanze filosofiche, personali operfino religiose, ignorando che possa o abbia mai potuto averne qualcuna. Neemerge allora una visione frammentata della conoscenza e della stessa cultu-ra, non esclusa una certa conflittualità fra le esigenze della scienza e le rifles-sioni della sapienza, mentre al pensiero religioso non viene assegnato alcunruolo unificante in queste diverse visioni. Se una certa unità fosse mai possi-bile, ciascuno la troverà per conto suo, ma la storia dell’umanità non avrebbeniente da insegnarmi in proposito, visto che non ne trovo traccia nei libri discuola.Cultura di ispirazione cristiana e progetti di formazione scolasticaInterrogarsi sul rapporto che potrebbe instaurarsi fra pensiero scientifico epensiero religioso nel contesto di un programma di formazione scolasticaimplica essere in primo luogo consapevoli che il cristianesimo è depositario diuna precisa visione dell’uomo, del mondo e della storia. Appartengono alnucleo di questa visione: a) la concezione dell’essere umano come immaginee somiglianza di Dio, creato per conoscere e dialogare con il suo Creatore, conil compito di custodire ed umanizzare la terra che gli è stata affidata; b) unacomprensione del mondo come creazione, ovvero effetto di una parola creatri-ce, personale, razionale, ovvero un mondo che ha avuto una origine ed è gui-dato in modo provvidente dal suo Creatore verso il compimento del suo fine;c) la convinzione che la storia dell’uomo e della sua cultura sia un camminocaratterizzato dalla comparsa di domande filosofiche, esistenziali e perciò reli-giose, domande che si manifestano nell’arte, nella letteratura, nel desiderio diconoscere la realtà, e nelle varie forme e attività con cui si è espresso lungo isecoli e continua oggi ad esprimersi lo spirito umano.Il cristianesimo andrebbe pertanto considerato come fonte di una cultura cheinveste molti campi del sapere umano e dialoga con essi. Ancor più, gli stessicampi del sapere umano hanno la capacità di mostrare un’apertura versodomande per le quali il cristianesimo possiede una risposta. Compito di uninsegnante e, in linea ancor più generale, compito di ogni educatore di ispira-zione cristiana dovrebbe essere quello di saper esplicitare queste domande emostrare, nel rispetto dell’autonomia e del metodo proprio delle diverse disci-pline, quali sono le risposte offerte dalla Rivelazione e dalla tradizione di pen-siero cristiano.

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Ogni progetto educativo ha al suo centro la persona. Tali domande sono sem-pre domande della persona, quando essa si accosta alla realtà attraverso lostudio delle varie discipline; non sono domande poste dalle varie disciplinein quanto ambiti di sapere isolati. Pensiamo alle domande sull’origine e sultutto (origine del cosmo, della vita e dell’uomo); o a quelle sul senso delmondo e della storia (senso della storia fra libertà e necessità, senso dell’e-voluzione biologica fra caso e finalismo); la domanda sul significato del pro-gresso (umano, scientifico, tecnologico, economico), e su come impostare irapporti fra l’uomo e la natura (qual è il vero posto dell’uomo nel cosmo?);le domande sul perché dell’ordine, della razionalità o della bellezza dellanatura, sui sentimenti di stupore suscitati in chi la studia; le domande supre-me sulla sofferenza, sulla vita e della morte, come esse sorgono non solonelle discipline umanistiche, ma anche in quelle scientifiche. Un insegnanteche accetti la sfida di questa prospettiva interdisciplinare, dovrà necessaria-mente porsi nell’orizzonte di una “unità del sapere”. Dovrà proporsi di nonpresentare i diversi campi della conoscenza come settori isolati, quanto piut-tosto: a) saper mostrare l’unità cui tende l’esperienza intellettuale di chiun-que, scienziato o letterato, storico o poeta, si pone di fronte alla realtà perstudiarla e darle voce; b) credere che una certa sintesi ed una certa unità pos-sano essere realizzate anche nello studente, come fine del progetto educati-vo. Qualsiasi riflessione su quale possa essere il dialogo fra scienza e reli-gione in un contesto scolastico non può prescindere da questa prospettivapersonalista e da questa tensione positiva verso l’interdisciplinarietà el’unità del sapere.Chi sono i soggetti e quali sono i contenuti di questo dialogo? Soggetto deldialogo sono necessariamente i docenti e gli studenti, le cui relazioni reci-proche dovrebbero però riprodurre i canoni di un rapporto fra maestro ediscepolo, ovvero un rapporto nel quale si riescano a comunicare non solo icontenuti di una disciplina, ma anche la visione della vita e le motivazioniche accompagnano chi la espone e chi la studia. In linea generale, e in uncontesto scolastico in modo particolare, soggetti del dialogo sono prima lepersone, poi le discipline. Alle domande suscitate dalle scienze non si puòchiedere che rispondano i libri di filosofia o di religione: dovrebbero farlo inprimo luogo gli insegnanti, anche se la loro sintesi culturale ed esistenzialerisultasse essere ancora incompiuta, perché starebbero già trasmettendo ailoro studenti l’importanza di cercarla come risultato di un cammino perso-nale, impegnativo e coinvolgente.Circa l’importanza di doversi confrontare con il pensiero scientifico, risulta di

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interesse, per gli insegnanti, riconsiderare alcuni spunti della costituzioneGaudium et spes del Concilio Vaticano II (1965):

«La trasformazione delle condizioni di vita si collega con una più radi-cale modificazione, che sul piano della formazione intellettuale dà uncrescente peso alle scienze matematiche, fisiche, umane, mentre sulpiano dell’azione si affida alla tecnica, originata da quelle scienze.Questa mentalità scientifica modella in modo diverso di un tempo lacultura e il modo di pensare. La tecnica poi è tanto progredita da tra-sformare la faccia della terra e da perseguire ormai la conquista dellospazio» (n. 5)«Certo, l’odierno progresso delle scienze e della tecnica, che in forza delloro metodo non possono penetrare nelle intime ragioni delle cose, puòfavorire un certo fenomenismo e agnosticismo, quando il metodo diinvestigazione di cui fanno uso queste scienze, viene innalzato a torto anorma suprema di ricerca della verità totale. Anzi, vi è il pericolo chel’uomo, troppo fidandosi delle odierne scoperte, pensi di bastare a sestesso e più non cerchi cose più alte. Questi fatti deplorevoli però nonscaturiscono necessariamente dalla odierna cultura, né debbono indurcinella tentazione di non riconoscere i suoi valori positivi. Fra questi siannoverano: lo studio delle scienze e la rigorosa fedeltà al vero nellaindagine scientifica, la necessità di collaborare con gli altri nei gruppitecnici specializzati, il senso della solidarietà internazionale, la coscien-za sempre più viva della responsabilità degli esperti nell’aiutare e anziproteggere gli uomini, la volontà di rendere più felici le condizioni divita per tutti, specialmente per coloro che soffrono per la privazionedella responsabilità personale o per la povertà culturale» (n. 57).

La dottrina contenuta in queste pagine conciliari potrebbe così riassumersi. Ilpensiero scientifico ha “modellato” la razionalità e il modo di pensare delnostro tempo e, inoltre, i suoi risultati e le sue applicazioni pragmatiche eser-citano un notevole fascino. In questa influenza esiste un aspetto senza dubbiopositivo, perché la scienza ha migliorato la qualità di vita dell’uomo e ne servelo sviluppo culturale e l’organizzazione sociale; non va tuttavia trascurato unaspetto negativo, perché il metodo scientifico, adeguato per lo studio del suooggetto specifico (la realtà misurabile) può essere erroneamente compresocome unico metodo valido per comprendere l’intera realtà e come unico crite-rio di verità.

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Situazione attuale del dialogo fra scienza e religionenel dibattito di opinione pubblicaUno sguardo alla cultura contemporanea e al dibattito di opinione pubblicamostra facilmente che, rispetto alla prima metà del Novecento, e comunquenegli ultimi decenni, esistono oggi mutamenti sostanziali nel rapporto fra teo-logia e scienze naturali.Domande filosofiche di certo rilievo (sull’origine e sul destino dell’universo,sulla natura e sul senso della vita, sul ruolo dell’uomo nel cosmo, ecc.) tra-scurate dai filosofi della seconda metà del XX secolo, paiono suscitare oggimaggiormente l’interesse degli scienziati. È sempre più frequente assiste aforum di scienziati ai quali vengono invitati a parlare anche filosofi e talvoltaperfino qualche teologo, mentre associazioni professionali di prestigio (ad es.la American Association for the Advancement of Science, AAAS), o rivistescientifiche internazionali (Nature, Science) ospitano spesso dibattiti sul rap-porto fra scienza e società e, al suo interno, affrontano quello con la filosofiae religione. In università di prestigio, come Chicago, Princeton, Berkeley,Oxford o Cambridge, sono oggi presenti cattedre di Religion and Science o siimpartiscono programmi post-grado a livello universitario su queste medesimetematiche.Basta entrare in una libreria per accorgersi del gran numero di libri che affron-tano alcuni problemi di attualità dalla simultanea prospettiva delle scienze,della filosofia e della teologia, o ancora più esplicitamente, libri di divulga-zione scientifica che recano il termine “Dio” nel titolo di copertina. In buonaparte dei casi, una scorsa a questi testi mostra che la scienza sembri rivalutareforme di razionalità da sempre più vicine alle materie umanistiche, come larazionalità analogica, simbolica, estetica, mostrando una maggiore sensibilitàverso forme di sapere non formalizzabile, quali la tradizione, la testimonianza,l’intuizione, l’empatia, ecc. Inoltre, su temi centrali per il futuro del pianeta edella stessa comunità umana, si avverte l’esigenza di una riflessione di carat-tere etico sui problemi posti dalle scienze. Completa il panorama, l’esistenza,nel “villaggio globale” di numerosi siti web dedicati alla religione e ai suoirapporti con le scienze.Sorge pertanto una nuova domanda: perché è cambiato qualcosa in questi rap-porti? Riteniamo che ciò sia dovuto a diversi fattori, che esponiamo qui sche-maticamente.In primo luogo, abbiamo assistito al superamento della pretesa di autorefe-renzialità della impresa logico-matematica voluta dal neopositivismo logico.

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È un po’ come se vi sia stato un “risveglio” del prefisso meta. La logica e lamatematica sono giunte ad alcuni risultati di certo rilievo interdisciplinare,che hanno aperto un nuovo spazio al dialogo con la filosofia: esistono nozio-ni di infinito che non appartengono alla matematica (Cantor); sono stati indi-viduati teoremi di incompletezza dei sistemi assiomatici (Gödel); si è messain luce la necessità di metalinguaggi e l’impossibilità di ottenere una defini-zione di tutti gli enunciati veri di un sistema (Tarski); si sono riconosciuti ilimiti di ogni operazione logica automatizzata (procedura effettivamente cal-colabile) e l’incapacità di “giudicare dal di fuori” il processo logico-mate-matico (Turing); inoltre, si è riconosciuta la necessità di un trascendimentodel linguaggio formale, accolta questa volta dall’interno della filosofia dellinguaggio (Wittgenstein e le nuove correnti di filosofia analitica da lui deri-vate).Sempre dal punto di vista epistemologico, molteplici fattori colti all’internodell’impresa scientifica, e non imposti esternamente dalla filosofia, hanno con-dotto all’abbandono del meccanicismo determinista, quale tentativo di com-prensione esauriente del reale, facendo sì che buona parte della scienza rinun-ciasse al riduzionismo ontologico come sbocco del riduzionismo metodologi-co. Questo risultato è stato dovuto, principalmente alla riflessione sulle impli-cazioni filosofiche emerse in alcuni ambiti della scienze: la scoperta dellaimpredicibilità matematica di molti fenomeni, sostanzialmente quelli descrivi-bili con equazioni differenziali del secondo ordine (Henri Poincaré);l’abbandono del meccanicismo determinista dovuto alla moderna fisica quan-tistica (Werner Heisenberg); la termodinamica dei sistemi di non equilibrio el’emergenza della complessità (Ilya Prigogine); il progressivo imporsi diapprocci olistici e teleonomici in biologia, con la conseguente riscoperta deiconcetti di forma e di informazione (il tutto è maggiore della somma delleparti, ecc.).In sostanza, pare oggi che il pensiero scientifico abbia percepito l’esistenza diproblemi di incompletezza, logica oppure ontologica, e la sua incapacità diricondurre ad un monismo deduttivo alcuni rapporti irriducibili, come adesempio quelli fra: topologia e leggi di natura in cosmologia; sintassi e seman-tica nell’Intelligenza artificiale; informazione genetica e struttura cellulare inbiologia; fra mente e corpo nello studio del cervello, ecc. Dal punto di vista,poi, del soggetto che fa scienza, possiamo oggi salutare il superamento dell’i-dea di conoscenza scientifica come totalmente impersonale ed oggettivante,superamento dovuto, fra gli altri, alle importanti riflessioni di Michael Polanyisulla dimensione personale e implicita della conoscenza scientifica. Sebbene

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l’immagine delle scienze mediata dalla divulgazione scientifica non tengasempre conto di questi risultati, sta di fatto che essi hanno favorito una mag-giore apertura delle scienze verso altre forme di sapere o di visioni della real-tà, non esclusa la riflessione sapienziale e la stessa religione.Un importante fattore di riavvicinamento è stato la riscoperta, da parte dellastoriografia del Novecento, delle radici cristiane di numerose idee filosoficheche hanno successivamente favorito lo sviluppo del pensiero scientifico.Autori di rilievo in proposito sono stati: P. Duhem (Système du Monde, 1913),A. Koyré (studioso dei rapporti fra pensiero medievale e sviluppo delle scien-ze), A. Crombie (studi sulla storia della scienza), S. Jaki (influsso storico delpensiero cristiano sulle scienze), e ancora A.N. Whitehead, O. Pedersen, T.Torrance, ecc.Va infine segnalato che vi è stato un certo cambiamento anche nell’atteggia-mento della teologia nei confronti dei risultati delle scienze: questi non sonopiù visti come “fonte di problemi”, ma se ne sottolinea adesso anchel’importanza per il lavoro teologico. Un cambio, questo, dovuto soprattutto alConcilio Vaticano II (Gaudium et spes) e al magistero di Giovanni Paolo II. Siconsiderino in proposito i seguenti testi:

«L’esperienza dei secoli passati, il progresso delle scienze, i tesorinascosti nelle varie forme di cultura umana, attraverso cui si svela piùappieno la natura stessa dell’uomo e si aprono nuove vie verso la veri-tà, tutto ciò è di vantaggio anche per la Chiesa» (Concilio Vaticano II,Gaudium et spes, 44)«Infatti gli studi recenti e le nuove scoperte delle scienze, della storia edella filosofia, suscitano nuovi problemi che comportano conseguenzeanche per la vita pratica ed esigono anche dai teologi nuove indagini. Iteologi sono inoltre invitati, nel rispetto dei metodi e delle esigenze pro-prie della scienza teologica, a sempre ricercare modi più adatti di comu-nicare la dottrina cristiana agli uomini della loro epoca» (ibidem, 62).«Gli sviluppi odierni della scienza provocano la teologia molto più pro-fondamente di quanto fece nel XIII secolo l’introduzione di Aristotelenell’Europa occidentale. Inoltre questi sviluppi offrono alla teologia unarisorsa potenziale importante. Proprio come la filosofia aristotelica, peril tramite di eminenti studiosi come san Tommaso d’Aquino, riuscìfinalmente a dar forma ad alcune delle più profonde espressioni delladottrina teologica, perché non potremmo sperare che le scienze di oggi,unitamente a tutte le forme del sapere umano, possano corroborare e dar

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forma a quelle parti della teologia riguardanti i rapporti tra natura, uma-nità e Dio?» (Giovanni Paolo II, Lettera al Direttore della SpecolaVaticana, 1.6.1988).

Riflessioni conclusiveSegnaliamo, in chiusura, che laicità e autonomia della scienza non impedisco-no che le dimensioni interdisciplinari e le aperture filosofico-religiose dellascienza contemporanea vengano registrate anche nel contesto della formazio-ne scolastica. Il fatto che il dibattito fra cultura scientifica e pensiero religiosoabbia accompagnato buona parte della storia culturale dell’occidente e conti-nui ad essere oggi presente nella divulgazione scientifica e nei mass mediasuggerisce che esso trovi spazio anche nel mondo della scuola, valorizzando lerisonanze interdisciplinari delle scienze, della filosofia e, perché no?, anchedella religione. Un docente che si accosti allo studio di questi rapporti senzapreconcetti, ma col desiderio di capire, vi troverebbe una singolare opportuni-tà per stimolare la riflessione e la formazione critica degli studenti. E ciò è pos-sibile non solo a partire dalle discipline umanistiche, come la storia o la filo-sofia, ma anche, come abbiamo visto, a partire dalle scienze. Anzi, un primopasso propedeutico al confronto con la religione e con la fede cristiana è rap-presentato proprio dall’operare un maggiore collegamento fra scienze umanee scienze naturali. Quando si assume una loro radicale divisione, da un lato lescienze dello spirito (l’uomo e i sui problemi esistenziali), dall’altro le scien-ze della natura (il mondo oggettivo sotto gli occhi di tutti), si termina implici-tamente col sanzionare - come ricordavamo in apertura - la negazione di qual-siasi legame fra il cielo sotto cui Giacomo Leopardi componeva i versi del suoCanto notturno di un pastore errante dell’Asia, ed il cielo oggetto dell’astro-nomia e della fisica; o ritenere che per un termine come “infinito”, sarebbe deltutto accidentale che esso compaia sia nei versi del poeta di Recanati, sia nellateoria degli insiemi di Cantor.Lo studio scientifico dell’universo o della persona umana, ritenuto oggettivoed esistenzialmente neutro, non è forse, come abbiamo visto, capace di susci-tare domande esistenziali o perfino religiose? Tali domande, per il fatto diessere umane, appartengono anch’esse all’ambito del sapere scientifico, nelsenso che esse possono nascere, e di fatto nascono, anche da una riflessionesulle scienze. Quando in una presentazione scientifica (specie se di tagliodivulgativo o scolastico) non si esplicita questa dimensione, in realtà si statacitamente fornendo una precisa visione filosofica di cosa sia l’universo e di

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cosa sia la persona umana. A suo modo e col suo linguaggio, la scienza hamolte volte già risposto, senza dirlo, a quel «chi sono, da dove vengo e dovevado».Quando il pensiero scientifico viene trasmesso solo nella sua dimensione prag-matica, astraendo dalla sua dimensione umana, dalle sue risonanze filosoficheo anche religiose, ignorando che possa o abbia mai potuto averne qualcuna, nederivano inevitabili conseguenze. Non solo la cultura, ma anche la persona siframmenta, ed emergono dolorose conflittualità fra le supposte esigenze dellascienza e le riflessioni della sapienza, fra l’etica e la tecnica, fra progressoumano e progresso scientifico. Se mai una certa unità fosse possibile, ciascu-no dovrebbe allora trovarla per conto suo, ma la storia dell’umanità non avreb-be niente da insegnarmi in proposito, e pertanto neanche la scuola. Uno deiprincipali compiti di chi insegna la religione in un contesto scolare è mostra-re, invece, che una simile sintesi interessa l’intero terreno della storia del pen-siero, nelle sue dimensioni pubbliche e culturali, e che la Rivelazione cristia-na possiede degli elementi di grande valore per renderla possibile. La scuola èsenza dubbio il luogo privilegiato dove questa sfida dovrebbe essere raccolta,mostrando che l’unità del sapere è non solo un’esigenza della cultura, maanche della fede, come testimoniano queste due citazioni:

“Al nostro ingresso in un nuovo secolo probabilmente destinato ad esse-re dominato da formidabili progressi scientifici e tecnologici, il bisognodi una guida spirituale sarà più forte che mai. La scienza da sola non puòprovvedere adeguatamente ai nostri bisogni spirituali, ma qualsiasi reli-gione che rifiuti di abbracciare le scoperte scientifiche difficilmentesopravviverà nel XXII secolo”

P. Davies, Science and Religion in the XXI Century (2000),DISF, p. 2286.

“La realtà è un’unità a molti livelli.Posso percepire un’altra persona come un aggregato di atomi,ma anche come un sistema biochimico aperto in interazione conl’ambiente,o come un esemplare di Homo sapiens,come un oggetto di bellezza,o come qualcuno i cui bisogni meritano il mio rispetto e la mia com-passione,o infine come un fratello per cui Cristo è morto.Tutti questi aspetti sono veri e coesistono in maniera misteriosa in quel-

Bibliografia di riferimentohttp://www.disf.org - Documentazione Interdisciplinare di Scienza e FedeG. TANZELLA-NITTI, A. STRUMIA (a cura di), Dizionario Interdisciplinare di Scienza eFede, Urbaniana University Press - Città Nuova, Roma 2002. In particolare le voci: Creazione(G. Tanzella-Nitti); Didattica delle scienze (M. Gargantini); Religione (A. Porcarelli); Unità delsapere (G. Tanzella-Nitti); Uomo, identità biologica e culturale (F. Facchini).E. AGAZZI, Scienza e fede. Nuove prospettive su un vecchio problema, Massimo, Milano 1984E. CANTORE, L’uomo scientifico. Il significato umanistico della scienza, EDB, Bologna 1988CEI - SERVIZIO NAZIONALE PER IL PROGETTO CULTURALE (a cura di), Fede e ragio-ne. Schede per la discussione a partire dall’enciclica di Giovanni Paolo II, Paoline, Milano2001M. GARGANTINI, Uomo di scienza, uomo di fede, LDC, Torino-Leumann 1991E. GILSON, Dio e la filosofia (1941), Massimo, Milano 1984G. GISMONDI, Fede e cultura scientifica, EDB, Bologna 1993T. MAGNIN, La scienza e l’ipotesi Dio. Quale Dio per un mondo scientifico?, San Paolo,Cinisello Balsamo 1994J. MARITAIN, Distinguere per unire. I gradi del sapere (1932), Morcelliana, Brescia 1974J. MARITAIN, L’educazione al bivio (1943), La Scuola, Brescia 1992J. POLKINGHORNE, Credere in Dio nell’età della scienza, R. Cortina, Milano 2000P. POUPARD (a cura di), Scienza e Fede, Piemme, Casale Monferrato 1986I. TAGLIAFERRI, E. GENTILI (a cura di), Scienza e Fede. I protagonisti, De Agostini, Novara1989G. TANZELLA-NITTI, Teologia e scienza. Le ragioni di un dialogo, Paoline, Milano 2003

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l’unica persona. Se ne negassi uno, significherebbe che sminuisco siaquella persona che me stesso, che tento di capirla; significherebbe nonrendere giustizia alla ricchezza della realtà”.

John Polkinghorne, Riduzionismo, in DISF, vol II, pp. 1236-1236.

Luca Montecchi

Eliot interprete profeticodella cultura moderna

Solo qualche parola essenziale per giustificare e inquadrare la ineludibile per-sonalità di T.S. Eliot, fra le più grandi del Novecento e della modernità intera.Stiamo parlando di un interprete della massima lucidità del secolo dei genoci-di e delle persecuzioni e dell’atomica, il quale, al contempo, anziché arrestar-si allo sdegno e alla maledizione, si è incaricato di rinvenire le tracce disperseo devastate del senso e di mostrarne, se non l’evidenza o la vitalità, di certo lapraticabilità nel presente, anche nel deserto di un mondo guasto. A patto peròdi rimboccare la via della fede religiosa dei popoli d’Europa, cioè della fedecristiana dei santi e del sangue dei martiri che hanno fatto germinare l’alberomateriale e spirituale della tradizione europea classica, ebraica e cristiana. Ilcontributo recato da Eliot è appunto quello dell’uomo di cultura che ha sapu-to unire acume critico e coraggio intellettuale indispensabili per sottrarsi airicatti dell’ideologia d’ogni specie, dai totalitarismi pagani allo scientismo tec-nologico, al fondamentalismo politico-religioso, alla pedagogia di Stato, allaLegge; idoli che, al contrario, esigono abilità, brillantezza, arguzia, mondani-tà oppure morbidezza, affettazione, accondiscendenza, ma non sono dispostiad accettare il pensiero certo, profondo, argomentato, pacato che si fonda suun’esperienza autentica, un pensiero mai riducibile al potere perché incardina-to nel desiderio originale di verità. Sia chiaro: definendo l’aristocratico e affa-bile Eliot “uomo di cultura”, siamo lontanissimi dal tipo del libero pensatore odell’intellettuale organico o impegnato o del giornalista di grido o dell’esteta -uomini accomunati da smania di compensi e venerazione del potere, interes-sati soltanto agli schemi teorici, alle analisi, all’indagine soggettiva, alle con-versazioni da salotto o alle chiacchiere da talk-show, allergici a tutto ciò chesa di reale ed esterno a sé, connotati dall’odio per il popolo o almeno dal fasti-dio e il disprezzo che le élites illuminate dimostrano nei confronti delle“masse”.Adesso finalmente possiamo dire la parola che lo ritrae compiutamente: Eliotfu poeta, con ogni probabilità il maggiore del XX secolo. Poeta immenso,certo, ma alla maniera e alla sequela di Dante e dei profeti biblici, di colorocioè che esercitarono in massimo grado la facoltà intellettuale, col soccorso

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della potenza immaginativa e allegorica, con l’esercizio delle virtù morali econ l’instancabile impulso a communicare (lo diciamo con due emme perchéin latino vuol dire “mettere in comune un bene importante”) il retto giudizio,a servire, a costruire, e ricostruire, il nostro povero mondo per renderlo nuo-vamente abitabile. E a ricordare che il tempo non va “ammazzato” né male-detto, che il tempo non è mai “libero” (= vuoto) e non è nemmeno denaro, maè di continuo attraversato dal destino, cioè da un fine ultimo ed eterno che altempo dà senso e di cui a ogni istante ci troviamo al cospetto. Anche in questocaso, siamo agli antipodi del poeta languido e raffinato, ricercato, strettamen-te professionale, conchiuso nel proprio circuito formale ed esclusivo. Eliot, unamericano a Londra divenuto suddito di Sua Maestà britannica, è un poetaimpuro, e non certo perché incurante della forma - in arte la forma è (quasi)tutto -, ma perché preoccupato soltanto di dare forma visiva all’essere, disignificarne la beltà. A ben vedere, la sua conversione al cristianesimo (accol-to nella High Church of England nel 1927) è in effetti rinuncia definitiva a unapoesia romantica e simbolistica della pura, irrazionale soggettività, dell’insa-nabile dualismo di io e mondo, e finalmente spalanca alla poesia la via regiadella conoscenza e del giudizio della realtà, ossia dei fini e dei significati del-l’essere. Nulla, nessuna circostanza, nessun oggetto materiale o condizionespirituale dell’uomo contemporaneo, per quanto orrendi o vili, restano fuoridai suoi componimenti, dai suoi poemi, dai suoi drammi in versi, anzi, sonoogni volta oggettivati e trasfigurati nel loro senso, nella loro traiettoria possi-bile. Così come non viene estromessa o sottaciuta la presenza esplicita dellafede cristiana e della Chiesa - prescindendo dalla confessione anglicana o cat-tolica - quali realtà permanenti da cui soltanto ricominciare a sperare per riedi-ficare la città dalle macerie: la città, cioè l’architettura ospitale del significato.Non è un caso, evidentemente, se un lettore speciale qual è don Luigi Giussaniabbia colto nei Choruses from “The Rock” quell’interrogativo tremendo - “èla Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonato laChiesa?” - che deve scuotere il torpore nichilistico che avvolge tanti cristianituttora e dal quale è possibile tornare a tessere il filo di una coscienza perso-nale ridestata e ragionevole che sperimenti la presenza affettuosa di Gesù.L’intera opera di Eliot testimonia di un pensatore che insegna a “vedere leidee”, così nei numerosi saggi critici, come nelle Lectures universitarie e negliscritti di riflessione sulla cultura e sull’educazione, nella cura editoriale e nellascrittura di “Criterion” (1922 - 1939), il periodico militante di letteratura, dieconomia e di politica denso di prove poetiche e di giudizi precisi e lungimi-ranti sui regimi totalitari in camicia nera o bruna o avvolti dalla bandiera rossa,

ELIOT INTERPRETE PROFETICO DELLA CULTURAMODERNA 71

meglio: mettendo a paragone serrato fascismo e marxismo, ossia le massimeelaborazioni teoriche moderne applicate alla dottrina dello Stato, riguardaticon l’occhio non del filosofo dialettico, bensì dell’homo religiosus che nescorge la radice empia e anticristiana e ne condanna la volontà di sradicamen-to e di dominio totalitario sulla civiltà tradizionale. Proprio per questo oggiabbiamo voluto proporre all’ascolto, accanto alla bellezza dei brani di poesia,anche un paio di stralci della lucida prosa eliotiana.Se è vero che certi dettagli rivelano un cuore, dettagli come una dedica o unesergo ad apertura di libro, ecco, mi permetto di offrire a tutti qui il celebre estupendo Frammento 2 di Eraclito, che Eliot appone in tono profetico a quelcapolavoro assoluto che sono i Quattro quartetti:“Benché il Logos sia universale, la maggior parte degli uomini vive come seavesse una saggezza propria... per questo gli uomini sono in disaccordo con ilLogos, anche se esso è il loro costante compagno”.

72 COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE

In principio DIO creò il mondo. Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E letenebre erano sopra la faccia dell’abisso.

E quando vi furono uomini, nei loro vari modi lottarono in tormento allaricerca di DIO

Ciecamente e vanamente, perché l’uomo è cosa vana, e l’uomo senza DIO èun seme nel vento, trascinato qua e là e non trova luogo dove posarsi edove germinare.

Essi seguirono la luce e l’ombra, e la luce li condusse verso la luce e l’ombrali condusse verso la tenebra,

Ad adorare serpenti o alberi, ad adorare i diavoli piuttosto che nulla:implorando la vita oltre la vita, per un’estasi non della carne.

Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell’abisso.

E lo Spirito aleggiava sopra la faccia delle acque.E gli uomini che si volsero verso la luce ed ebbero conoscenza della luceInventarono le Religioni Superiori; e le Religioni Superiori erano buoneE condussero gli uomini dalla luce alla luce, alla conoscenza del Bene e del

Male.Ma la loro luce era sempre circondata e colpita dalle tenebreCome l’aria dei mari temperati è trafitta dal fiato immobile e morto della

Corrente Artica;E giunsero a un limite, a un limite estremo mosso da un fremito di vita,E giunsero allo sguardo avvizzito e antico di un bimbo morto di fame.

In ogni momento del tempoVoi vivete là dove due mondi s’incrociano.In ogni momentoVivete in un punto di intersezioneLetture da Thomas Stearns EliotTr. It. di Roberto Sanesi e Filippo Donini, riviste da Luca Montecchi e Francesco Valenti

COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE74

Preghiere scritte in cilindri girevoli, adorazione dei morti, negazione diquesto mondo, affermazione di riti il cui senso è dimenticato

Nella sabbia irrequieta sferzata dal vento, o sopra le colline dove il vento nonfarà posare la neve.

Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E tenebre sopra la faccia dell’abisso.

Quindi giunsero, in un momento predeterminato, un momento nel tempo e deltempo,

Un momento non fuori del tempo, ma nel tempo, in ciò che noi chiamiamostoria: intersecando, bisecando il mondo del tempo, un momento neltempo ma non come un momento di tempo,

Un momento nel tempo ma il tempo fu creato attraverso quel momento:poiché senza il significato non c’è tempo, e quel momento di tempodiede il significato.

Quindi sembrò come se gli uomini dovessero procedere dalla luce alla luce,nella luce del Verbo.

Attraverso la Passione e il Sacrificio salvati a dispetto del loro esserenegativo;

Bestiali come sempre lo furono prima, carnali, egoisti come sempre lo furonoprima, interessati e ottusi come sempre lo furono prima,

Eppure sempre in lotta, sempre a riaffermare, sempre a riprendere la loromarcia sulla via illuminata dalla luce;

Spesso sostando, perdendo tempo, sviandosi, attardandosi, tornando, eppuremai seguendo un’altra via.

Ma sembra che qualcosa sia accaduto che non è mai accaduto prima: sebbenenon si sappia quando, o perché, o come, o dove.

Gli uomini hanno abbandonato DIO non per altri dèi, dicono, ma per nessundio; e questo non era mai accaduto prima,

Che gli uomini negassero gli dèi e adorassero gli dèi, professandoinnanzitutto la Ragione,

E poi il Denaro, il Potere, e ciò che chiamano Vita, o Razza, o Dialettica.La Chiesa ripudiata, la torre abbattuta, le campane rovesciate, che cosa

possiamo fareSe non restare con le mani vuote e le palme rivolte verso l’altoIn una età che avanza all’indietro, progressivamente?...Deserto e vuoto. Deserto e vuoto. E le tenebre sopra la faccia dell’abisso.

TIITOLO INTERVENTO 75

È la Chiesa che ha abbandonato l’umanità, o è l’umanità che ha abbandonatola Chiesa?

Quando la Chiesa non è più considerata, e neanche contrastata, e gli uominihanno dimenticato tutti gli dèi, salvo l’Usura, la Lussuria e il Potere.

[Choruses from “The Rock”, VII, 1934]

Io credo che oggi la nostra cultura sia generalmente negativa, ma che, perquel poco ch’essa ha di positivo, sia tuttora cristiana. Non ritengo che cosìpossa perdurare, perché una cultura negativa perde qualsiasi capacità direalizzazione in un mondo dove energie economiche e spirituali dimostranol’efficienza di culture che sono pagane, e però concrete; e ritengo che la sceltache sta dinanzi a noi sia tra la costruzione di una cultura cristiana nuova el’accettazione di una cultura pagana.

[The Idea of a Christian Society, 1939]

Perché gli uomini dovrebbero amare la Chiesa? Perché dovrebbero amare lesue leggi?

Essa ricorda loro la Vita e la Morte, e tutto ciò che vorrebbero scordare.È tenera laddove essi sarebbero duri, e dura laddove essi vorrebbero essere

morbidi.Ricorda loro il Male e il Peccato, e altri fatti spiacevoli.Essi cercano sempre d’evadereDalle tenebre esteriori e interioriSognando sistemi talmente perfetti che più nessuno avrebbe bisogno d’essere

buono.Ma l’uomo che è adombreràL’uomo che finge di essere.E il Figlio dell’Uomo non fu crocefisso una volta per tutte,Il sangue dei martiri non fu versato una volta per tutte,Le vite dei Santi non vennero donate una volta per tutte.Ma il Figlio dell’Uomo è crocifisso sempreE vi saranno ancora Martiri e Santi.E se il sangue dei Martiri deve scorrere sui gradini

COSCIENZARELIGIOSAE CULTURAMODERNA: PERCORSI DELLARAGIONE E DELL’ISTRUZIONE76

Dobbiamo prima costruire i gradini;E se il Tempio dev’essere abbattutoDobbiamo prima costruire il Tempio.

[Choruses from “The Rock”, VI, 1934]

La cultura può persino semplicemente definirsi come ciò che rende la vitadegna di essere vissuta.…Il principale veicolo di trasmissione della cultura è la famiglia: nessunosfugge interamente alla qualità, o oltrepassa il grado di cultura, che haacquistato dal suo primo ambiente. Ciò non vuol dire che questo possa esserel’unico veicolo di trasmissione: in qualsiasi società, più o meno complessa, lasua opera è assistita e continuata da altri mezzi di trasmissione. … Nellecomunità più civili con attività specializzate, in cui non tutti i figli seguivanol’occupazione del padre, il discepolo non serviva semplicemente il suomaestro, né imparava da lui come uno farebbe in una scuola tecnica: egliveniva accolto in un modo di vivere che s’accompagnava a quel particolaremestiere o arte; e forse il segreto perduto dell’arte è questo, che nonsemplicemente un’abilità veniva rasmessa, ma tutto un modo di vivere.

[Notes Towards the Definition of Culture, 1948]

Così eccomi, nel mezzo del cammino, passati vent’anniVent’anni del tutto devastati, gli anni dell’entre deux guerres –Sforzandomi d’imparare a usare parole, e ogni tentativoÈ un completo rifar da capo, e un diverso tipo di fallimentoPerché si è solo imparato ad afferrare il meglio di parolePer ciò che non si ha più da dire, o nel modo nel qualeNon si è disposti più a dirlo. E così ogni avventuraÈ un cominciar di nuovo, un’incursione nell’inarticolatoCon strumenti logori che sempre si deterioranoNella generale confusione di sentimenti imprecisi,Disordinati drappelli di emozioni. E ciò che si deve conquistareCon forza o sottomissione, è già stato scopertoUna o due volte, o molte, da uomini che non c’è speranza

TIITOLO INTERVENTO 77

Di emulare – ma non c’è competizione –C’è solo la lotta per riguadagnare quel che è stato persoE trovato e perso ancora e ancora: e ora, in condizioniChe appaiono sfavorevoli. Ma forse né guadagno né rovina.Per noi, c’è solo da cercare. Il resto non ci riguarda.

[Four Quartets, East Coker, V, 1940]

Benché il Logos sia universale, la maggior parte degli uomini vive come seavesse una saggezza propria...

per questo gli uomini sono in disaccordo con il Logos, anche se esso è il lorocostante compagno.

[DIELS, Die Fragmente der Vorsokratiker (Eraclito), fr. 2]

Comunicare con Marte, conversare con spiriti,Riferire il contegno del serpente di mare,Far l’aruspice, trarre l’oroscopo, indagare il cristallo,Riconoscere malattie nelle firme, evocareBiografie dalle linee della mano,Tragedie dalle dita; far profeziePer sortilegio o con foglie di tè, scrutare l’inevitabileCon carte da gioco, scherzare coi pentagrammiO coi barbiturici, oppure analizzareSubcoscienti terrori nell’immagine ricorrente...Esplorare le viscere o le tombe o i sogni; tutti questi son consuetiPassatempi e droghe e rubriche nei giornali:E lo saranno sempre, specialmente alcuni di essi,Quando le nazioni sono in pericolo, e c’è perplessitàSulle spiagge dell’Asia o sulle nostre strade.La curiosità degli uomini indaga il passato e il futuroE s’attiene a quella dimensione, ma comprendereIl punto d’intersezione del senza tempoCol tempo, è un’occupazione da santi...E nemmeno è un’occupazione, ma qualcosa ch’è datoE tolto, in un annientamento di tutta la vita nell’amore,

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Nell’ardore, altruismo e dedizione.Per la maggior parte di noi non c’è che il momentoA cui non si bada, il momento dentro e fuori del tempo,L’attimo di distrazione, perso in un raggio di sole,Il timo selvatico non visto, o il lampo d’invernoO la cascata, o una musica sentita così intimamenteDa non sentirla affatto, ma finché essa duraVoi stessi siete la musica. Questi non sono che accenniE congetture, accenni seguiti da congetture; e il restoÈ preghiera, osservanza, disciplina, pensiero e azione.L’accenno mezzo indovinato, il dono mezzo capito, è l’Incarnazione.Qui è in atto l’impossibileUnione di sfere dell’essere,Qui sono il passato e il futuroConquistati e riconciliati,Qui dove altrimenti l’azioneSarebbe movimento di ciòChe è mosso soltanto e non haIn sé fonte di movimento,Spinto da potenze demoniache,Telluriche. E l’azione giustaÈ pur libertà dal passatoE futuro. Per molti di noiÈ questo lo scopo che quiNon si può mai raggiungere;Noi che non siamo sconfittiSolo perché abbiamo continuatoA tentare, contenti alla fineSe il nostro ritorno nel tempo(Non molto lontano dal tasso)Dà vita ad un suolo che ha senso.

[Four Quartets, The Dry Salvages, V, 1941]