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Lucio Colletti Il marxismo e Hegel Editori Laterza Bari 1969

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Editori Laterza, Bari 1969

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Page 1: Colletti,Lucio. Il Marxismo e Hegel,1969

Lucio Colletti

Il marxismo e Hegel

Editori Laterza Bari 1969

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AVVERTENZA

La prima parte di questo libro è la ristampa, con lievi correzioni formali e l'aggiunta di qualche nota, di un saggio sul marxismo e Hegel, che apparve, nel 1958, come introduzione ai Quaderni filosofici di Lenin, presso l'editore G. G. Feltrinelli di Milano. La seconda parte, che è la più ampia, è stata invece scritta negli ultimi mesi. Il lettore è pregato di tener conto di questa circostanza: *ia per quel che riguarda il diverso clima culturale e ideologico che fa da sfondo alle due sezioni del libro; sia per gli aspetti in cui la seconda segna una differenza e ■— vogliamo augurarci — anche uno sviluppo rispetto alla prima. Il saggio del '58, a dire i' vero, avrebbe tratto gran giovamento, se fosse stato sfrondato in alcune parti (e, specialmente, nel suo capitolo VII, che, oggi, ci soddisfa assai poco). Ma, poiché esso è entrato, bene o male, nelle cronache filosofiche del marxismo del secondo dopoguerra, è sembrato che fosse più corretto mantenerlo nella sua forma originaria. La seconda parte (che è di gran lunga la più chiara e che, volendo, può essere letta anche indipendentemente dalla prima) è quella, ovviamente, a cui l'autore vorrebbe che fosse prestata l'attenzione maggiore. Il senso della ricerca culmina nei capitoli finali e, soprattutto, negli ultimi due: dedicati, rispettivamente, al concetto di " rapporti sociali di produzione " e all'idea della società " cristiano-borghese ".

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I. LA TEORIA HEGELIANA DELLA MEDIAZIONE

Quasi in apertura della Critica della filosofia hegeliana del dì-ritto pubblico, Marx — dopo aver riportato il paragrafo 262 della Rechtsphilosophie di Hegel in cui si dice che è « l'idea reale, lo spirito, che scinde se stesso nelle due sfere ideali del suo concetto, la famiglia e la società civile, come sua finità, per essere, movendo dalla loro idealità, spirito reale, per sé infinito... » — fa seguire questo commento. « Famiglia e società civile — egli scrive — sono intese come sfere del concetto dello Stato, come le sfere della sua finità. È lo Stato che si scinde in esse, che le presuppone, e fa questo ' per scaturire dalla loro idealità come per sé infinito, reale spirito '. La cosiddetta ' idea reale ' (lo spirito come spirito infinito, reale) è rappresentata come se agisse secondo un principio determinato e per un'intenzione determinata. Essa si scinde in sfere finite e lo fa ' per ritornare in sé, per essere per sé ': lo fa precisamente in modo che ciò è proprio come è in realtà. È a questo punto che si manifesta molto chiaramente il misticismo logico, panteistico. La realtà non è espressa come se stessa ma come una realtà diversa. L'empiria volgare ha come legge non il suo proprio spirito, ma uno estraneo e per contro l'idea reale ha come sua esistenza non una realtà sviluppatasi da essa idea, bensì la volgare empiria. L'idea è ridotta a soggetto. E il reale rapporto della famiglia e della società civile con lo Stato è inteso come interna, immaginaria, attività dello Stato. Famiglia e società civile sono i presupposti dello Stato, sono essi propriamente gli attivi. Ma nella speculazione diventa il contrario: mentre l'idea è trasformata in soggetto, quivi i soggetti reali, la società civile e la famiglia, diventano dei momenti obiettivi, irreali, allegorici, dell'idea ». Nella realtà — continua Marx — « famiglia e società civile si fanno esse stesse Stato. Esse sono l'agente. Secondo Hegel esse sono, al contrario, agite dall'idea

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reale: non è la loro propria vita che le unisce allo Stato, ma è al contrario la vita dell'idea che se le assegna da sé; e invero esse sono la finità di questa idea; esse debbono la loro esistenza ad uno spirito altro dal loro; esse sono determinazioni poste da un terzo, non sono affatto autodeterminazioni; perciò sono anche determinate, in quanto ' finità ', come la finità propria dell' ' idea reale '. Lo scopo della loro esistenza non è l'esistenza stessa, ma l'idea separa da sé questi presupposti ' per scaturire dalla loro idealità come per sé infinito, reale spirito ', cioè lo Stato politico non può essere senza la base naturale della famiglia e la base artificiale della società civile, che sono la sua conditio sine qua non. Ma la condizione diviene il condizionato, il determinante il determinato, il producente il prodotto del suo prodotto; 1' ' idea reale ' si umilia nella finità della famiglia e della società civile soltanto per produrre e godere — dal superamento di essa finità — la sua infinità. La realtà empirica apparirà, dunque, tale quale è: essa è anche enunciata come razionale, ma non è razionale per sua propria razionalità, bensì perché il fatto empirico ha, nella sua empirica esistenza, un significato altro da se stesso. Il fatto da cui si parte non è inteso come tale, ma come risultato mistico. Ciò ch'è reale diventa fenomeno, ma l'idea non ha per contenuto altro che questo fenomeno. In questo paragrafo è depositato — conclude Marx — tutto il mistero della filosofia del diritto e della filosofia hegeliana in generale » '. Prima di procedere oltre e di vedere in che misura questa critica colga i nodi essenziali della filosofia di Hegel e ne consenta quindi una ricostruzione organica, conviene riassumere brevemente i termini dell'argomentazione di Marx. Hegel dunque — è questa l'obiezione di fondo — capovolge il processo reale, nel senso che, mentre di fatto (e vedremo poi come Marx giunga a questa constatazione del " fatto ") famiglia e società civile sono la base reale dello Stato, il soggetto storico nel corso del cui sviluppo si produce lo Stato, per Hegel il rapporto si inverte. Il passaggio onde il finito (famiglia e società civile) si sviluppa a organizzazione politica, questa mediazione reale diventa " apparenza " o fenomeno di un altro passaggio, di una invisibile e " immaginaria " attività interna che le viene sottesa e che procede in senso opposto. Ciò che dovrebbe essere il risultato del

1 K. MARX, Opere filosofiche giovanili, trad. di G. Della Volpe, Roma 1950, pp. 16-8. Citato d'ora innanzi con l'abbreviazione: OFG, seguita dal numero della pagina.

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processo ne diviene l'origine e mentre in effetti famiglia e società si compongono nello Stato, per Hegel è invece quest'ultimo, o meglio l'Idea, che si scompone in famiglia e società, che scinde cioè se stessa nelle " due sfere ideali del proprio concetto ". Così la mediazione reale, commenta Marx, si trasforma nell'apparenza, « nella manifestazione di una mediazione che l'idea intraprende seco stessa e che succede dietro il sipario ».

Il finito — che è il soggetto, il sostrato materiale o reale — scambia le sue parti con l'infinito, con l'Idea; e mentre quest'ultima — da predicato o manifestazione o prodotto che era del soggetto — si pone come per sé stante {sich verselbstdndigt), cioè si personifica, si ipostatizza, si sostituisce al sostrato effettivo, quest'ultimo scade a sua volta a prodotto o momento dell'Idea, cioè a predicato del suo predicato. Il finito, " il fatto da cui si parte ", non solo diventa ideale, qualcosa che è " posto " dall'infinito e quindi il " risultato mistico " di un'attività " interna e immaginaria ", ma esiste solo come negazione che l'infinito fa di sé per riprodursi, cioè per scaturire dal superamento e godersi come tale. Lo scopo della sua esistenza non è di essere se stesso, ma di servire allo sviluppo dell'Idea. Il suo significato, il suo valore, sta esclusivamente nell'esprimere ciò che è oltre e al di là di sé, ossia nell'essere un momento irreale o allegorico (come dice Marx, anderes bedeutend) dell'Idea.

Mostreremo più tardi come il risultato di questo misticismo logico sia non solo che " il reale diventa fenomeno " ma che l'Idea, per contro, " non ha a contenuto altro che questo fenomeno "; come, cioè, la mediazione " che succede dietro il sipario " abbia per risultato appunto di restituirci ciò che è... " proprio come è in realtà " e, dunque, come il reale, se per un verso " riceve il significato di una determinazione dell'idea ", per un altro sia " lasciato tale qual è "; come, insomma, qui tutto si riduca a spacciare 1' " empiria volgare " come " gesta dell'idea ". Per ora ci preme venire subito a Hegel. I

Scienza della logica, I, pp. 169-70. « La proposizione che il finito è ideale — dice Hegel — costituisce l'idealismo. L'idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere. Ogni filosofia è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l'idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto co-

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testo principio vi si trovi effettivamente realizzato. La filosofia è idealismo com'è idealismo la religione. Perché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d'increato, di eterno. L'opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Una filosofia che attribuisse all'esistenza finita, come tale, un vero essere, un essere definitivo, assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia. »2

Quando diciamo dunque delle cose, continua Hegel, « che son finite, con ciò s'intende [...] che la loro natura, il loro essere, è costituito dal non essere. Le cose finite sono, ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come in generale il qualcosa, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l'essere delle cose finite, come tale, sta nell'avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte » (I, 135-6).

Questo pensiero della finità delle cose " porta con sé la mestizia ", ma — aggiunge Hegel — solo quando la finità è intesa come la negazione " fissata in sé " che " si erge rigida di contro al suo affermativo ", come accade, appunto, nel mondo antico. Qui il finito, infatti, si lascia bensì portare nella corrente, è destinato sì alla sua fine, ma questa destinazione delle cose finite è concepita poi come se non fosse " nulla più che la lor fine ": ci si rifiuta, cioè, di lasciarle portare all'affermativo, all'infinito, di lasciarle unire con quello. E, come "l'intelletto persiste in questa mestizia della finità " e fa del non essere la destinazione delle cose, esso non si avvede di prendere il finito insieme " come imperituro e assoluto ". La caducità delle cose, non potendo perire, diviene « la loro qualità immutabile, non trapassante cioè nel suo altro, non trapassante nel suo affermativo »; e la finità, non finendo mai di finire, "così è eterna ". La mors immortalis di Lucrezio! Di qui il senso della conchiu-

2 G. W. F. HEGEL, La scienza della logica, 3 voli., trad. di A. Moni, Bari 1925. Citazioni da questa opera saranno d'ora in poi indicate nel corpo del testo con la cifra romana del volume seguita dal numero della pagina. Per l'Enciclopedia, sempre dalla traduzione di B. Croce, Bari 1951, salvo che per le Aggiunte, daremo tra parentesi il numero del paragrafo anche quando il luogo citato sia nelì'Anmerkung. Per la Fenomenologia dello spirito, 2 voli., trad. di E. De Negri, Firenze 1933, all'abbreviazione Yen, faremo seguire egualmente nel corpo del testo volume e pagina. Salvo avvertenza contraria, i corsivi sono sempre dell'autore citato.

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sione (che è poi anche senso della forma o eidos) e il pessimismo, la disperazione antica.

Non basta quindi dire che il finito è il perituro. « Tutto sta a vedere se in questo modo ci si ferma all'essere della finitezza, se la caducità, cioè, persiste, oppure se la caducità e il perire perisce. » Questo è da portare alla coscienza — l'infinito: il grande acquisto della logica cristiana. Cioè " che il perire, il nulla, non è l'ultimo, ossia il definitivo, ma perisce " esso stesso.

Svolgere questo pensiero, spiega Hegel, non significa ricadere nella " cattiva infinità " di Fichte, per il quale « si danno due mondi, un mondo infinito e un mondo finito, e nella relazione loro l'infinito non è che il termine del finito, epperò solo un infinito determinato, un infinito il quale è esso stesso finito » (I, 149). Non si tratta, insomma, di mettere l'infinito " al di sopra del finito, segregato da esso ".E tantomeno di ricorrere alla " screditata unità del finito con l'infinito " di Schelling che, prendendo i due termini insieme ma come distinti, e tenendoli « fermi in quella qualità che debbono avere in quanto presi separatamente », vede « in quell'unità soltanto la contraddizione, e non già anche la sua soluzione» (I, 155-6-7). Bensì si tratta — riba-disce Hegel — di tenersi al pensiero che l'essere delle cose, la loro natura, è costituita dal non essere, dalla negatività, di comprendere, cioè, che l'esistente, il determinato, il finito non ha realtà in sé, " non sussiste indipendentemente " (I, 163), ma è solo una " variopinta scorza " {die bunte Bande) che ha la sua consistenza e il suo " nocciolo " (Kern) nell'infinito, cioè proprio in quell'inesteso o non ente {Unding) che è il pensiero. « La verità dell'esistenza sta quindi nell'avere il suo essere in sé nel-l'inessenzialità, ossia il suo sussistere in un altro e precisamente nell'assoluto altro, vale a dire nell'aver per base la sua nullità », (II, 143). Proprio questa alterità è la sua essenza. Se, pertanto, il finito si rivela " dialettico ", tale cioè che " si distrugge in sé ", che è " la contraddizione di sé in sé " e, quindi, " si toglie via, perisce " (I, 145), ciò non accade, dice Hegel, ad opera di una " potenza estranea ", ma perché il finito ha come base il nulla e il suo essere in sé è immediatamente un passare in altro. Il finito insomma è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. « L'infinità è la sua destinazione affermativa, quello ch'esso è veramente in sé » (I, 147) \

3 Alcune brevi considerazioni supplementari possono rendere più agevole la comprensione del ragionamento di Hegel, che abbiamo tentato di

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Due opposte esigenze si muovono al fondo di questa argo-mentazione di Hegel e, come vedremo in seguito, di tutta la

interpretare e ricostruire in queste prime pagine, dall'andamento, a dire il vero, abbastanza faticoso. Il problema trattato è quello della " mediazione ": mediato è ciò a cui si perviene movendo da altro; immediato, ciò da cui si incomincia a procedere. Come Hegel spiega con grande chiarezza nel § 12 dell'Enciclopedia, nessuno di questi due momenti può mancare. Le coppie di termini, che si incontrano nel corso dell'analisi, possono considerarsi tra loro equivalenti: il rapporto finito-infinito è il rapporto essere-pensiero, empiria-concetto, esistenza-essenza; il rapporto essere-pensiero è il rapporto stesso tra mondo e Dio. Le due difficoltà, che Hegel si propone di evitare, sono: da una parte, che il concetto sia un immediato, qualcosa da cui si proceda senza esservi prima arrivati; dall'altra, che il concetto (cioè il Logos o l'infinito) sia solo un mediato. Nel primo caso, il sapere sarebbe " un che di indimostrabile ", cioè una semplice fede soggettiva. Nel secondo, il pensiero (che, per Hegel, è il Logos, l'infinito, Dio) risul-terebbe condizionato, e quindi causato e dipendente, dal mondo, cioè da quel finito donde si sarebbero prese le mosse per salire a lui. Questo secondo caso, che Hegel analizza criticando le cosiddette prove metafisiche dell'esistenza di Dio, riguarda soprattutto la metafisica prekantiana. Come ogni " vera " filosofia, anche questa metafisica è idealismo. Essa nega che il finito sia un vero essere; l'unica realtà, che riconosce, è l'infinito, Dio. Se-nonché, pur negando al finito vera realtà, essa ne fa un fondamento, almeno per quanto riguarda la conoscenza dell'infinito. L'esistenza di Dio viene allora ricavata e inferita da quella del mondo, come nella prova cosmologica (perché c'è un mondo, c'è Dio); senza vedere che, così facendo, Dio, che dovrebb'essere la vera realtà, diventa un che di causato e dipendente, mentre il mondo o il finito, che era stato dichiarato semplice non-essere e caducità, diventa una " ferma realtà " che sta a fondamento. La conseguenza di questa impostazione, contro cui Hegel fa valere la critica di Jacobi alle dimostrazioni dell'esistenza di Dio, è che, sebbene la vecchia metafisica abbia per contenuto il vero e l'assoluto, cioè l'infinito o Dio, essa tradisce questo contenuto nel momento stesso in cui gli dà un'espressione finita e, per ciò stesso, inadeguata. Il contenuto di quella filosofia è l'infinito; la forma, invece, in cui essa lo esprime e lo dimostra, è quella propria del " conoscere finito », cioè dell'« intelletto » anziché della " ragione ". La prova è nel dualismo cui mette capo quella metafisica. Essa colloca da una parte il finito, dall'altra l'infinito. Da una parte Dio, dall'altra il mondo. Non vede, dice Hegel, « che per tal modo l'infinito è solo uno dei due; che con ciò vien reso un qualcosa di soltanto particolare, rispetto al quale il finito è l'altro particolare. Un tale infinito, che è soltanto un particolare, è accanto al finito; ha in questo appunto la sua barriera e il suo limite; non è ciò che deve essere; non è l'infinito, ma è solamente finito. — In tal relazione, dove il finito è da un lato, l'infinito dall'altro, il primo di qua, l'altro di là, al finito; ha in questo appunto la sua barriera e il suo limite; non è ciò che si attribuisce all'infinito: l'esser del finito è fatto un essere assoluto: esso, in codesto dualismo, sta saldo per sé. Se, per così dire, fosse toccato dall'infinito, sarebbe annientato; ma non può esser toccato dall'infinito: un abisso, un baratro invalicabile deve aprirsi fra i due; l'infinito persiste di là, il finito di qua » (Ette, § 95). I temi, su cui qui Hegel insiste, sono essenzialmente due. Il primo è che questa filosofia fa, suo malgrado, dell'infinito un finito. Essa concepisce Dio come un essere a sé, segregato dal mondo. Pone, da un lato, il soggetto umano che conosce Dio e, dall'altro, Dio come

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sua filosofia. Da un lato, la preoccupazione che l'unità del finito con l'infinito non appaia come " una loro composizione estrin-

un'entità separata dall'uomo: senza avvedersi che Dio, che è la somma spiritualità e immaterialità, viene così ridotto a un che di oggettivo e finito, contrapposto alla coscienza dell'uomo, quasi fosse una cosa (donde il motivo, tipicamente hegeliano, della trasformazione della Sostanza in Soggetto). Il secondo tema, che Hegel svolge sempre congiuntamente al primo, è non meno rivelatore dello spirito e dell'orientamento della sua filosofia. La separazione dualistica, in cui incorre la vecchia metafisica, pone il finito " di qua " e l'infinito " al di là " del mondo. L'infinito appare, così, come un che di soltanto ideale, come un semplice " dover essere " privo di esistenza reale e confinato in una lontananza irraggiungibile. L'infinito, che doveva essere il positivo, diventa il negativo, cioè l'irreale; il finito, al contrario, che era dichiarato il negativo, cioè non un vero essere, diventa il positivo e reale. È da rilevare che questa critica di Hegel alla vecchia metafisica è stata illustrata e ricostruita da Feuerbach nei §§ 7-10 dei Princìpi della filosofia dell'avvenire, citati più avanti. Feuerbach vi discute la differenza tra la " teologia comune ", o teismo, e la teologia razionale o " filosofia speculativa ". « Ciò che nel teismo è oggetto — egli dice —, nella filosofia speculativa è soggetto; ciò che là è l'essere razionale soltanto pensato e rappresentato, qui è l'essere razionale stesso in quanto pensa. Il teista si rappresenta Dio come un essere personale che esiste in generale al di fuori della ragione e al di fuori dell'uomo: egli, in quanto soggetto, pensa Dio come oggetto. Egli pensa Dio come un essere spirituale e non sensibile secondo l'essenza, vale a dire secondo la rappresentazione che egli se ne fa,, ma sensibile secondo l'esistenza, vale a dire secondo verità: infatti, la caratteristica essenziale di un'esistenza oggettiva, di un'esistenza posta al di fuori del pensiero e della rappresentazione, è il senso. Egli distingue Dio da sé nello stesso modo in cui distingue da sé le cose e gli esseri sensibili che esistono fuori di lui: in breve, egli pensa Dio dal punto di vista del senso. Il teologo o filosofo speculativo invece pensa Dio dal punto di vista del pensiero; egli perciò non interpone tra sé e Dio la rappresentazione perturbatrice di un essere sensibile; egli identifica senza alcuna difficoltà l'essere oggettivo pensato con l'essere soggettivo pensante. » E poco oltre Feuerbach aggiunge: « l'inizio della filosofia cartesiana, che rappresenta l'astrazione dal senso e dalla materia, è l'inizio della filosofia speculativa moderna. Ma Cartesio e Leibniz considerarono questa astrazione soltanto come una condizione soggettiva per conoscere l'essere immateriale di Dio, si rappresentarono l'immaterialità di Dio come un attributo oggettivo, indipendente dall'astrazione e dal pensiero; essi insomma rimasero ancora fermi al punto di vista del teismo, fecero dell'essere immateriale soltanto un oggetto, ma non un soggetto né un principio attivo ». Dinanzi a questa impostazione della vecchia metafisica, la filosofia di Hegel si presenta come il tentativo di pensare coerentemente l'infinito o Logos cristiano; ovvero come il tentativo di pensare fino in fondo l'idealismo. Questa realizzazione coerente del cristianesimo è imperniata sulla tesi dell'idealità del finito. L'essenza del finito è nell'Idea, cioè nell'infinito. Ciò che, del finito, sembra essere esterno o indipendente dall'Idea, è la morta spoglia, — mèra " parvenza " illusoria e nullità. A questa trasposizione del finito nell'infinito, a questo idealizzarsi delle cose, corrisponde e s'accompagna il realizzarsi dell'Idea. Non avendo più un finito di contro a sé, che lo limiti e lo respinga nelP " al di là ", l'infinito passa dall'ai di là di qua. Il Logos divino entra nel mondo. La morta spoglia del finito, cioè il mondo stesso, diventa " vaso " dell'infinito, cioè sua incarnazione e manifestazione sensibile, o — se-

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seca ", cioè come " un collegamento incongruo " per cui si uniscono dei « termini in sé separati ed opposti, indipendenti l'uno a fronte dell'altro, epperò incompatibili », ma anzi ciascuno risulti in se stesso come questa unità di sé e l'altro: « nel che a nessuno dei due — dice Hegel — spetta per avventura di fronte all'altro il privilegio dell'essere in sé e dell'esistenza affermativa » (I, 157-8). Discorso, questo, che, nel caso per es. della finità, avrebbe per effetto la tesi che l'infinito ha come soggetto o base il finito; onde si dovrebbe poi concludere che la contraddizione

condo l'importante concetto stesso di Hegel — " esposizione positiva del-l'assoluto ". Questa duplice trasposizione del reale nell'ideale e dell'Idea nella realtà è stata còlta da Feuerbach con grande chiarezza. Le Tesi provvisorie per una riforma della filosofìa si aprono con l'affermazione che « la teologia speculativa [...] si distingue dalla teologia comune per il fatto che colloca nell'ai di qua, rendendolo presente e determinato e attuale, quell'essere divino che appunto la teologia comune ha per paura e per incomprensione relegato, lontano, nell'ai di là ». Nel § 24 dei Princìpi, è detto anche che « la filosofia assoluta è riuscita, sì, a fare dell'ai di là della teologia un al di qua, ma nello stesso tempo ha fatto dell'ai di qua del mondo reale un al di là ». Come ha visto bene L. Michelet (Entiwicklungs-geschichte der neuesten deutschen Philosophie, Berlin 1843, pp. 304 sgg.), questo ingresso del divino nel mondo esprime lo scopo essenziale della filosofia hegeliana: " la secolarizzazione del cristianesimo ". La lunga Anmerkung al § 552 dell'Enciclopedia, che svolge tra l'altro la differenza tra cattolicesimo e protestantismo, chiarisce il senso della tesi hegeliana (" che lo spirito divino deve compenetrare in modo immanente la vita mondana ") in relazione agli istituti della " società civile " borghese o società capitalistico-protestante: la famiglia, l'attività professionale, I' " ubbidienza verso la legge e le istituzioni legali dello Stato ". Tutti questi istituti, che sono le " formazioni dell'eticità ", vi appaiono come incarnazioni dell'Assoluto, come " insidenza " del divino nel mondo. Nello stesso paragrafo, Hegel rileva che « la sostanzialità dell'eticità stessa e dello Stato è la religione »; e che « lo Stato riposa, secondo questo rapporto, sulla disposizione d'animo etica; e questa, sulla religiosa ». È da osservare che proprio quest'attualità del divino nel mondo — o " esposizione positiva dell'assoluto " — è ciò che Hegel chiama realtà: Wirklichkeit. La Realitàt è, invece, il termine con cui egli designa, in genere, la realtà " apparente ": il finito, l'empiria, cioè la realtà propriamente detta. Tornando al problema della mediazione, va rilevato che la " soluzione " di Hegel è essenzialmente imperniata su due momenti. Contro Jacobi e il " sapere immediato ", egli riconosce la necessità della mediazione, la necessità cioè che il concetto sia un risultato, qualcosa a cui si perviene movendo da altro. D'altra parte, per evitare che la mediazione sia " presentata come una condizionalità " (Erte, § 12) e che il concetto, quindi, risulti dipendere dall'empiria, egli afferma che il finito, da cui il concetto dovrebbe risultare, non è un vero essere, ma un che di " posto " o creato dal concetto stesso. Il finito, da cui si incomincia, non è una realtà originaria che esista per sé: esso ha origine da ciò che pare dipendere da lui. Il primo è l'Ultimo e l'ultimo il Primo. E, poiché il concetto è in effetti l'origine di ciò da cui esso sembra derivare, la mediazione, che Hegel afferma, è, insieme, la " mediazione che toglie se stessa". (Nota aggiunta.)

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finito-infinito non è altro che una contraddizione tra due deter-minazioni stesse del finito: quindi, non solo un'opposizione interna a questo, ma un'opposizione che ha nel finito il suo fondamento, la sua base, il suo supporto reale. E dall'altro, la tesi per cui vien presentato invece, come base, solo ed esclusivamente l'infinito, e non solo come base ma come l'alterità assoluta, rispetto a cui il finito risulta essere viceversa — come per sé irreale — soltanto un che di posto e quindi un suo prodotto o un risultato.

Diciamo subito che in tutta la metafisica classica anteriore a Hegel la prima tesi compare solo in una formulazione insufficiente e limitata. Il finito vi è considerato, infatti, non come fondamento oggettivo dell'infinito, ma semplicemente come un fondamento per la conoscenza di esso (II, 125). E tuttavia, pur in questa versione così limitata, la prima tesi è respinta da Hegel per la ragione che essa comporta non solo che il passaggio, la mediazione, proceda dal finito tf/finfinito, dal mondo al nulla, ma che questo passaggio si compia per via di uri astrazione, sceverando cioè l'infinito dagli altri aspetti e dalle altre determinazioni del finito. Qui la negazione " estrinseca ", che è l'astrazione, non fa che togliere — dice Hegel — le determinazioni del finito da ciò che deve rimanere come essenza. Non annulla però queste determinazioni, bensì le lascia sussistere, prima come dopo, limitandosi solo a scartarle, a metterle da parte, cioè ad astrarre appunto da esse. L'essenza, così, non solo risulta mediante un altro, ossia mediante il processo dell'astrazione, ma ha un essere " che continua a starle di contro " e che la condiziona: proprio perché il finito — oltre a venir esibito come il primo, come il reale, come ciò da cui si comincia — conta qui anche come ciò che " sta per base e che continua a star per base " dell'intero procedimento. Rispetto ad esso, l'infinito, l'essenza, appare non solo come un risultato ma come « il negativo della determinatezza in generale, come il vuoto al di là », in quanto la sua opposizione al finito viene intesa nel senso che questo valga come il reale, e l'infinito — invece — come l'ideale, « o precisamente come un che di soltanto ideale », che non deve esserci o dev'essere irraggiungibile. « Questa irraggiungibilità, però, — osserva Hegel — non è la sua sublimità o il suo pregio ma il suo difetto » ed ha il suo fondamento solo nel fatto che « al finito come tale si attribuisce un fermo essere » ovvero una sua consistenza indipendente (I, 162-3).

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La prima tesi, dunque, porta all'assurdo non solo di voler concludere da un essere finito e accidentale a un essere assolutamente necessario, ma di far questo — dice Hegel — « partendo dal finito e accidentale come da un essere che si trovi a fondamento e vi rimanga ». È lo stesso modo errato, in sostanza, di intendere « l'elevazione del pensiero sul sensibile, il progredire di esso di là dal finito verso l'infinito, il salto che vien fatto, col rompere la serie del sensibile, nel soprasensibile », che incontriamo nelle cosiddette prove cosmologiche dell'esistenza di Dio. Queste, infatti, hanno certamente il loro « punto di partenza nella contemplazione del mondo, determinato in qualsiasi modo come un aggregato di accidentalità », ma prendono questo punto di partenza come « un saldo fondamento » che debba « restare ed essere lasciato nella forma affatto empirica » che esso ha dapprima. « La relazione del punto di partenza col punto finale, al quale si procede, viene rappresentata così come solamente affermativa, come un inferire da uno che è e resta, ad un altro che egualmente è. Ma il grande errore è, appunto, di voler conoscere la natura del pensiero solo in questa forma intellettuale » {Ette, § 50). « Nell'ordinaria maniera di sillogizzare — conclude insomma Hegel — sembra che fondamento dell'assoluto sia l'essere del finito; perché v'è un finito, v'è l'assoluto. La verità invece è che perché il finito è l'opposizione con-traddicentesi in sé stessa, perché esso non è, per questo l'assoluto è. Nel primo senso la conclusione è: l'essere del finito è l'essere dell'assoluto; in quest'altro senso invece è: il non essere del finito è l'essere dell'assoluto » (II, 74).

L'accenno al modo " solo intellettuale " di concepire 1' " ele-vazione " sopra il sensibile indica chiaramente che la critica di Hegel è diretta qui contro la " vecchia metafisica quale si trovava costituita prima della filosofia kantiana "; contro quella metafisica, cioè, che dà una « mera veduta intellettualistica degli oggetti della ragione », che si sofferma in « determinazioni finite del pensiero, cioè nell'antitesi non ancora risoluta », convinta in generale « che la conoscenza dell'assoluto possa ottenersi con l'applicare all'assoluto alcuni predicati ». Ma è importante notare che, attraverso la filosofia precritica, l'argomentazione di Hegel mira a colpire essenzialmente la distinzione di soggetto e predicato, di essere e pensiero, e che essa si svolge quindi come una critica dell'intelletto. Non a caso l'obiezione fondamentale

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ch'egli muove a questa filosofia è di non vedere che « la forma della proposizione, o, per dir meglio, del giudizio, è impropria ad esprimere il concreto e lo speculativo », che il giudizio, cioè, « a causa della sua forma [soggetto e predicato], è unilaterale e quindi falso ». Il rimprovero, in altri termini, non tocca mai il contenuto di questo filosofare (Dio, l'anima ecc.) che Hegel considera anzi " schiettamente speculativo ", ma solo il fatto che esso applichi all'assoluto predicati che hanno per sé " un contenuto limitato " e che « si mostrano inadeguati alla pienezza della rappresentazione (di Dio... dello spirito ecc.) e non capaci di esaurirla» {Enc, §§ 26-31). L'errore cioè — si noti — per Hegel consiste essenzialmente nel fatto che qui si lascia sussistere il soggetto accanto al predicato, nel fatto cioè che il pre-dicato non esaurisce il soggetto né si sostituisce interamente ad esso (§ 85). Ecco perché, almeno per questo verso, ha ragione — egli dice — Jacobi quando, criticando " la dimostrazione dell'intelletto ", « le fa il giusto rimprovero che per essa si ricerchino le condizioni (il mondo) dell1'incondizionato, che l'infinito (Dio) venga in tal modo rappresentato come causato e dipendente » (§ 50).

Tuttavia, malgrado le considerazioni qui riportate, Hegel è tanto poco da confondere con Schelling o con Jacobi che il nodo cruciale della sua filosofia — la teoria delle mediazione — può essere sciolto anzi solo se si comprende com'egli tenti di recuperare l'istanza della distinzione e, quindi, del movimento del finito, accanto a quella — in lui certo fondamentale — dell'unità o dell'infinito. L'elevazione del pensiero sul sensibile, ovvero il passaggio dal mondo a Dio per Hegel non è, certamente, il vero. Resta pur sempre, tuttavia, che « l'apprensione dell'esistenza di Dio » — se è « còlta nella determinazione di un'immediatezza » — viene espressa, egli dice, « come un che di indimostrabile, e la conoscenza di essa quale una coscienza soltanto immediata, come una fede » (II, 126). Nessuno dei due momenti può quindi mancare: né l'immediatezza né la mediazione. Se infatti la conoscenza di Dio, come " quella di ogni soprasensibile in genere ", contenendo " essenzialmente un elevamento sull'apprensione sensibile ", è mediazione (« giacché mediazione è principio e passaggio a un secondo termine, in modo che questo secondo in tanto è in quanto vi si è giunti da un qualcosa che è altro rispetto ad esso »); d'altra parte, in quanto « la conoscenza di Dio non è

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meno indipendente rispetto a quel lato empirico, anzi si conquista la sua indipendenza essenzialmente mediante siffatta [...] elevazione », essa deve riuscire al tempo stesso anche immediata (Ette, § 12).

Il processo dunque per cui si va dall'immediato al mediato, dal finito all'infinito, dalle cose al nulla, va mantenuto; ma, perché esso risulti conciliabile con l'altra istanza, occorre introdurre ora questa considerazione decisiva: che l'immediato, il finito da cui il processo " sembra " cominciare e da cui quindi il risultato " pare " dipendere, è in realtà solo una " parvenza " {Schein), non cioè una salda base ma qualcosa di " inessenziale ", non un fermo essere ma un che di " insussistente ", quindi non una condizione di un altro quanto piuttosto qualcosa che è solo " mediante e in forza d'altro ". Questo semplice mutamento nel punto di vista capovolge l'intera prospettiva. Se, infatti, ciò che figurava all'origine del processo, ciò che pareva essere il punto di partenza, il principio o la condizione della mediazione viene preso ora per cosa che non ha consistenza in sé ma che esiste solo in forza di altro, è evidente che, dietro al corso reale, sarà necessario presupporre un'altra e più profonda mediazione: con all'origine ciò che in quello è risultato, e con risultato ciò che là figura all'origine.

La differenza risiede così non nel contenuto, ma nel modo di considerare, ossia nel modo di dire. Nel senso che tutto rimane tale qual è, solo che ciò che è viene presentato ora come apparenza. Il fatto o l'immediato diviene il risultato, il prodotto di un'attività con cui l'infinito se lo pone di fronte o se lo contrappone, si trasforma, cioè, nella negazione dell'infinito, nel mezzo con cui questa nullità che è l'infinito si nega. Mentre quest'ultimo, da risultato che era, diviene Vagente dell'intero processo. La mediazione reale si trasforma nell'apparenza, nella manifestazione di una mediazione che l'Idea intraprende seco stessa, quest'ultima però — in quanto non muta affatto lo stato delle cose ma attribuisce loro solo un altro significato — succede " dietro il sipario ".

Due mediazioni a un tempo, dunque, e in posizione certo tra loro capovolta o meglio sdoppiata. Ma due mediazioni che sono entrambe indispensabili a Hegel, — ecco cos'è importante capire: sia se vogliamo riuscire a una comprensione non unilaterale del suo pensiero e, quindi, a un giudizio equilibrato del suo misticismo logico o, per riprendere un'espressione di Feuer-

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bach, della sua mistica razionale * (che non è né la mistica di Schelling né la " razionalità " di Wolff ); sia se vogliamo veramente capire la critica di Marx, che non si riduce, certo, a postulare una semplice inversione meccanica dell'hegelismo — la Materia al posto dell'Idea —, come ancora oggi da più parti si crede. Ciò avrebbe ancora senso se — una volta operato il capovolgimento — Hegel si disfacesse del processo del finito, cioè di quello che per lui conta come il processo apparente. Senonché i due movimenti sono per lui, invece, tanto necessari che coesistono entrambi. Se non si comprende questo, si mancano a un tempo sia le vere ragioni della grandezza di Hegel, sia la radicale insufficienza della sua soluzione e, quindi, tutta la portata rivelatrice della critica di Marx. Grandezza, perché la filosofia di Hegel ci si presenta come il tentativo di concepire il finito, a un tempo, come principio e risultato, come immediato e mediato; e l'infinito, all'inverso, insieme come mediazione e immediatezza. Pre-figura cioè, in qualche modo, una concezione nuova di soggetto e oggetto, pensiero ed essere, in cui ciascuno dei termini compaia insieme sia come relazione o unità di sé e l'altro, sia come parte soltanto di questa relazione: l'uomo, dunque, come soggetto-oggetto soggettivo e la natura come oggetto-soggetto oggettivo. Insufficienza, perché questo embrione, questo " sospetto ", questo tentativo, trova in Hegel soltanto un'esecuzione stravolta e mistificata, perché cioè la sua teoria della riflessione, ossia del rapporto finito-infinito, parvenza-essenza, si compie in lui in virtù di un duplice scambio: uno per cui Vimmediatezza è presa come tale solo apparentemente, e in realtà è già presupposta come essenziale (cioè come mediazione o relazione); e un altro, viceversa, per cui l'essenza — proprio in quanto è presupposta — si trova ad avere poi per contenuto solo un immediato, anziché una realtà che essa ha sviluppato e controllato.

Vediamo il primo scambio. Esso consiste sostanzialmente nel fatto che si tralascia e si trascende il finito in ciò che ha di peculiare o di specifico e quindi in ciò che lo fa essere appunto un finito, per considerarlo invece, immediatamente, come infi-

* L. FEUERBACH, Princìpi della filosofia dell'avvenire, trad. di N. Bob-bio, Torino 1946, p. 38: « La filosofia di Hegel è una mistica razionale, e quindi è una filosofia unica nel suo genere, insieme attraente e ripugnante, sia per le anime mistico-speculative che considerano come una contraddizione intollerabile l'unione di elementi mistici con elementi razionali [..,], sia per le menti razionali che non ammettono l'unione dell'elemento razionale con quello mistico ».

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nito. Alla sua natura specifica, a ciò che propriamente esso è, si sostituisce così ciò che esso non è, alla specie il genere. Il finito è immediatezza, essere positivo, determinazione. Ebbene, la determinazione, dice Hegel, non è altro che la negazione stessa " posta come affermativa " secondo la " fondamentale " proposizione di Spinoza: omnis determinatio est negatio; non è altro, cioè, che l'infinito stesso posto come finito. Questo è quindi " parvenza " non solo nel senso che la sua immediatezza, il suo essere, pare affermativo e in realtà, invece, è solo un negativo, « un immediato non esserci », un « essere [che] è non essere nell'essenza ». Ma, ancor più, nel senso che la negatività di quest'essere, « la sua nullità in sé è la natura negativa dell' essenza stessa ». « L'immediatezza [...] di fronte all'essenza non è quindi altro — dice Hegel — che la propria immediatezza dell'essenza », ma — si badi — « non l'immediatezza in quanto è, sibbene quella immediatezza assolutamente mediata o riflessa che è la parvenza » (cors. mio), « l'essere non già come essere, sibbene solo... come momento ». « Questi due momenti — la nullità ma come sussistenza, e l'essere ma come momento — ...che costituiscono i momenti della parvenza, sono pertanto i momenti dell'essenza. » « La parvenza dunque è l'essenza stessa » (II, 17, ultimo cors. mio).

Ecco la sostituzione o l'ipostasi in cui consiste il primo scambio. Da un lato l'immediatezza è subito Passolutamente mediato; il finito è subito infinito; il reale è subito ideale; ovvero, come dice Hegel, la determinazione è una " determinazione infinita " ed " è così la determinazione... che non è determinata ", l'immediatezza come " indifferenza ", il finito come infinito. Dall'altro, il pensiero, l'Idea, viene invece preso come reale, viene cioè sostantificato o ipostatizzato. In quanto l'esistente contiene il non essere e solo questo è il vero, il reale è superficie, apparenza, cioè l'immediatezza « assolutamente solo come un esser posto, come un implicitamente tolto » (II, 21). Quindi, " scorza ", " involucro ", ovvero simbolo o allegoria dell'infinito. In quanto, invece, l'essenza sta nell'immediato come " nocciolo ", l'immediatezza è l'essenza implicita, quindi " nucleo " non ancora spiegato o — come dice Hegel — « è il proprio assoluto essere in sé dell'essenza ».

Si comprende a questo punto come il movimento dal finito ^//'infinito, come questo " andare avanti " per cui l'immediatezza sembra « un primo da cui si cominci e che passi nella sua ne-

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gazione », sia per Hegel in realtà solo la veste esteriore di un movimento ben più profondo, che è un " retrocedere " con cui l'infinito — che si è " posto " o " presupposto " liberamente come finito — si recupera e torna a sé. Il perire del mondo, l'annullarsi delle cose, questo passaggio dal positivo al negativo, dal reale all'ideale, dal concreto all'astratto, onde l'infinito appariva come risultato e astrazione, come « il negativo della finità epperò della determinatezza in generale, come il vuoto al di là » irraggiungibile, appare ora come un movimento che comincia e finisce nell'infinito, come « un suo togliersi nel finito » e quindi come un « tornare addietro dalla vuota fuga », come una negazione di quell'ai di là che è adesso il finito.

L'astrazione si pone come per sé stante; per contro ciò da cui essa derivava diviene suo prodotto. Il concreto si fa astratto, l'astratto concreto. E come « le singole cose sensibili sono idealmente nel principio, nel concetto, e più ancora nello spirito, ossia vi sono come tolte », non cioè come determinazioni reali ma come determinazioni dell'Idea; così questo negarsi del mondo, questo suo idealizzarsi, conta viceversa per un realizzarsi dell'Idea. « L'idealità — dice Hegel — conviene primieramente alle determinazioni tolte, come diverse da quello in cui son tolte », ma questo « all'incontro può esser preso come reale »: anche se l'espressione ' reale ' è usata qui solo per compiacenza verso il popolo. Giacché, quando si dice che « non il finito è reale ma l'infinito, è però superfluo — ammonisce Hegel — di ripetere, a proposito di ciò eh'è più concreto [l'infinito!], una tale anteriore, più astratta categoria, qual'è la realtà... Ripetizioni di questa sorta — egli conclude — come per es. il dire che l'essenza o che l'Idea sia il reale, sono occasionate da ciò, che al pensare incolto son soprattutto familiari le categorie più astratte, come l'essere, l'esser determinato, la realtà, la finità» (I, 162)5.

5 Eric, § 6: « Nella prefazione alla mia Filosofia del diritto si trovano queste proposizioni: Ciò che è razionale è reale; e ciò che è reale, è razionale. Queste semplici proposizioni son sembrate strane a parecchi, e han trovato opposizione anche da tali che non vogliono che si metta in dubbio che essi posseggano filosofia e di certo, almeno, religione. Per ciò che concerne la religione, non è necessario tirarla in mezzo in questo dibattito, giacché le sue dottrine sul divino reggimento del mondo esprimono quelle proposizioni in modo ben determinato. Per ciò che riguarda il significato filosofico, è da presupporre tanta coltura che si sappia non solo che Dio è reale, — che è la cosa più reale e che è la sola veramente reale, — ma anche, nel rispetto formale, che l'esistenza è, in parte, apparizione, e solo in parte realtà [...]. Quando io ho parlato di realtà, si sarebbe pur dovuto

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Si profila qui la celebre negazione della negazione. In quanto, infatti, il finito è da considerare ora come null'altro che la negazione stessa posta come affermativa, il suo movimento verso l'infinito non appare più come un passaggio dal positivo al negativo, ma come « un fondersi del negativo con se stesso » che « è in pari tempo negazione del negativo come negativo » (II, 20). In altre parole, il sensibile, il determinato, che prima si presentava come ciò su cui si elevava il pensiero e quindi come un fondamento, ora — una volta, cioè, compiuta l'ipostasi, una volta che sotto e dietro ad esso è stato pre-supposto o interpolato l'infinito, l'astratto, come sua vera natura — appare solo più come una " scorza ", come un " involucro " e un diaframma che separa l'infinito come è in sé (o " implicitamente " o " nel mondo ") dall'infinito per sé. La negazione del sensibile, che nella " dimostrazione dell'intelletto " si configurava come il semplice " non essere di un essere ", cioè come un mero escludere o metter da parte le determinazioni del finito lasciandole però sussistere, è ormai " il nulla di un nulla "; e proprio " questo di esser la negazione di un nulla è ciò che costituisce l'essenza ", proprio questa " negazione della negazione " è affermazione, non perché due zeri facciano un'unità, ma perché l'esclusione del sensibile, l'eliminazione di questa scorza vale ora per Hegel come un liberarsi, un riaffiorare del " nucleo " fuori dal suo " involucro ", come un atto cioè con cui l'infinito si recupera dalla sua alienazione nel mondo e riemerge dal fondo delle cose. La caduta del sensibile rappresenta così l'atto con cui l'infinito nega il suo " esser posto " {das Gesetztsein) o, come anche dice Hegel, « il suo esser immerso nell'esteriorità» (III, 217), la sua "umiliazione" nel finito, per riassumersi dal superamento e godersi. La mediazione, la dialettica, non ha il risultato negativo che a volte ha anche in Platone (I, 39) perché — negate le cose — è giusto che Hegel ritrovi dietro di esse ciò che vi ha messo dapprima. Nella filosofia hegeliana, insomma, « l'oggetto è sì un che di negativo, che si sopprime da sé, una nullità. Questa nullità del medesimo ha però per l'autocoscienza non solo un significato negativo, ma anche positivo, giacché tale nullità dell'oggetto è precisamente Yautoconferma della non oggettività, dell'astrazione » di essa

pensare al senso nel quale adopero questa espressione, giacché in una mia estesa Logica ho trattato anche della realtà, e l'ho accuratamente distinta non solo dall'accidentale, che pure ha esistenza, ma altresì dall'essere determinato, dall'esistenza e da altri concetti ».

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(Marx, OFG, 304). Come nell'astrazione intellettuale, anche qui il sensibile è scartato, accantonato, trasceso, solo che — in quanto questa " elevazione " è per Hegel la rimozione di un " velo " e quindi il tornare a sé dell'essenza che vi era dietro — quest'astrazione figura ora come distruzione e annichilimento di tutte le determinazioni concrete: non solo si mette da parte il sensibile, ma gli si toglie di sotto l'essenza; è comprensibile, quindi, come esso per Hegel debba sparire.

Sparisce, o meglio, il lato sensibile e determinato del finito, ciò per cui chiamiamo finito il " finito ". La sua essenza, invece (quell'essenza — sappiamo — che non è altro che l'infinito stesso) si conserva \ Ecco YAufhebung hegeliana, l'atto misterioso che deve a un tempo " togliere " (negare) e " conservare " (affermare). Esso può realizzare insieme l'una cosa e l'altra non perché rappresenti il superamento — come Hegel fantastica — del principio aristotelico di non-contraddizione7, ma più semplicemente perché compie le due operazioni in relazione a oggetti diversi. Perché " nega ", cioè, senza remissione, il finito, la materia, il determinato, e ne " conserva ", invece, solo ciò che si è deciso a priori che debba esserne l'essenza: cioè " l'assolutamente altro ", l'infinito. « Quello che si contraddice non si risolve nello zero, nel nulla astratto » — dice Hegel — perché « si risolve essenzialmente solo nella negazione del suo contenuto particolare » (I, 37); ma ciò è come dire che la negazione della materia, del particolare, non ha per risultato il nulla, perché il nulla stesso è l'assoluto! Questo, dunque, è da sottolineare, da tener per fermo: che la negazione si esercita per Hegel solo nel senso di sopprimere l'oggettività, l'esistenza esterna al pensiero, ovvero che appunto « il carattere oggettivo è per l'autocoscienza lo scandalo dell'alienazione » (Marx). Lo scandalo, cioè, è che vi sia un mondo. Pertanto, « ciò che vale come l'essenza posta e da sopprimere dell'alienazione non è che l'ente umano si oggettivi disumanamente in opposizione a se stesso, ma bensì ch'esso si oggettivi a differenza e in opposizione all'astratto pensiero » (OFG, 296). Che esso, cioè, si oggettivi sensibilmente, realmente.

Al contrario, l'aspetto che si conserva e per cui la nega-

" Ette, § 95: « La negazione della negazione non è ima neutralizzazione: l'infinito è l'affermativo, e solo il finito è il superato ».

7 Sarebbe, com'è noto, il superamento di questo principio se conservasse e negasse alcunché nello stesso tempo e in relazione ad una stessa cosa.

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zione della negazione è invece positiva è rappresentato solo da quel lato per il quale il finito è l'infinito stesso. Qui — dice Marx — « il negativo dell'oggetto, o la soppressione dell'oggetto, ha significato positivo » per l'autocoscienza, solo « per il fatto che è essa stessa autocoscienza che si aliena » e che « in questa alienazione si pone come oggetto, o pone l'oggetto come se stessa ». E ciò è tanto vero che, come Hegel stesso riconosce, « nel suo esser-altro come tale essa è presso di sé » (OFG, 300) \ Il riassumersi dall'alienazione è dunque il tornare a sé di una essenza che non se ne è mai mossa; né Hegel lo nega. Nel divenire dell'essenza, infatti, «non vi è — egli dice — un altro»: « né un altro da cui essa ritorni, né un altro in cui ritorni ». Essa è piuttosto « la semplice eguaglianza con sé o immediatezza » (II, 19-20). Proprio questa, anzi, è la correzione ch'egli apporta alle prove cosmologiche dell'esistenza di Dio: che l'essenza è immediata. Negando infatti il sensibile, la mediazione " toglie " ciò su cui si elevava e che pareva starle a fondamento. Ecco ciò che non ha visto — dice Hegel — la " dimostrazione dell'intelletto ": che « pensare il mondo empirico significa, essenzialmente, trasformare la sua forma empirica e cangiarla in qualcosa di universale »; che « il pensiero esercita insieme un'attività negativa su quel fondamento ». « La materia percepita — egli continua — quando è determinata mediante l'universalità, non resta nella sua prima forma empirica. Vien messo a luce il contenuto interno del percepito con l'eliminazione e negazione dell'involucro esterno. Le prove metafisiche dell'esistenza di Dio sono perciò interpretazioni e descrizioni manchevoli dell'eleva zione dello spirito dal mondo a Dio, perché non esprimono, o piuttosto non mettono in rilievo, il momento della negazione, che è in questa elevazione, giacché, nell'essere il mondo acci dentale, è implicito che esso sia soltanto alcunché di caduco, di fenomenico, e un niente in sé e per sé. Il senso dell'eleva zione dello spirito è che al mondo spetti bensì l'essere, ma che questo sia soltanto apparenza; non il vero essere, non verità assoluta; che la verità assoluta sia piuttosto di là da quell'appa renza, solo in Dio; e soltanto Dio sia il vero essere 9. Questa

8 Logica, III, 277: « ...l'unità di se stesso e del suo altro; nel qual altro il concetto non può dunque passare come se si mutasse in quello, non vi può passare appunto perché l'altro, l'esser determinato, è lui stesso e quindi in questo passare esso non fa che venire a sé ».

9 La prova teologica a contingentia mundi ha insomma questo difetto — commenta Moni — che per questa prova « Dio è ancora soltanto al di

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elevazione, essendo trapasso e mediazione, è insieme superamento del trapasso e della mediazione, perché ciò per mezzo di cui Dio potrebbe sembrare mediato, il mondo, è, invece, dichiarato per il nulla: solo la nullità dell'essere del mondo dà la possibilità dell'elevazione, cosicché ciò che è come mediatore sparisce, e così, in questa mediazione stessa, è tolta la mediazione » (Enc, § 50).

La vera mediazione, dunque, è quella per cui « il sapere ha da giungere a questo risultato di non saper nulla [la ' docta ignoranza', la teologia negativa!], cioè di tornare appunto a rinunciare al suo movimento di mediazione e alle determinazioni che vi si presentano. Questo ci si è affacciato anche per l'addietro; se non che bisogna aggiungere che la riflessione, in quanto finisce col toglier via se stessa, non ha perciò qual risultato il nulla, quasi che ora il positivo conoscer l'essenza fosse come una immediata relazione ad essa, separatamente da quel risultato, e costituisse un proprio sorgere, un atto che cominciasse soltanto da sé; anzi, questa fine stessa, questo cader giù della mediazione, è in pari tempo il fondamento da cui sorge l'immediato. Come si è già notato, la lingua unisce il significato di questo andar giù [zu Grunde gehen] con quello del fondamento [Grund]; si dice che l'essenza di Dio sia l'abisso [Abgrund~\ per la ragione finita 10. Dio è difatti tale abisso, in quanto la ragione finita vi rinuncia alla sua finità " e v'immerge il suo movimento di mediazione; ma questo abisso, il fondamento negativo, è insieme il fondamento positivo del sorgere dell'ente, dell'essenza in se stessa immediata » (II, 126-7).

Si profila qui il secondo scambio. Si è già visto, infatti, che la mediazione di particolare e universale, finito e infinito, si è compiuta solo trascendendo la specificità del fatto, la determinatezza del finito, riducendo cioè senz'altro l'immediato alla negatività assoluta, il fenomeno all'essenza, l'essere concreto a

là del mondo, e la prova stessa resta al di sotto dell'estasi mistica, per la quale il finito, nell'uscire di sé, conosce la sua unione con Dio » (II, 80, nota 1). Per le prove dell'esistenza di Dio si veda anche Logica, III, 179 sgg. e Enciclopedia, § 193.

10 Allusione a Schelling e a Jakob Bohme. 11 Già a questo punto il lettore può giudicare che fondamento abbia

la lettura esistenzialistica di Hegel, fatta dall'heideggeriano A. KOJÈVE, In- troduction à la lecture de Hegel (v. trad. it. parziale, col titolo La dialettica e l'idea della morte in Hegel, Torino 1948) e che serietà la sua tesi, in onore oggi tra gli hegeliani di Francia, tendente a ritrovare nella filosofia di Hegel una... problematica del finito.

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una determinazione o momento " ideale ", ipostatizzando insomma l'Idea. In questo caso — si è anche notato — la sostituzione o interpolazione (Einschiebung) dell'universale alla materia, del pre-dicato al soggetto, del genere alla specie comporta una " rinuncia alla finità " e quindi l'attribuzione al particolare di un significato altro dal suo. Infatti, mentre l'Idea si ipostatizza, cioè si pone come indipendente e per sé stante, « il fatto diventa rappresentazione e immagine della originaria e pienamente indipendente attività del pensiero » {Enc, § 12), scade cioè a simbolo o allegoria. Esso è razionale non in quanto esprime se stesso ma l'opposto, non per un significato intrinseco ma per un significato che lo trascende e che sta dietro o al di là di esso. Inversamente, l'universale — pur stando nel concreto — vi si trova non in un collegamento organico ma in un rapporto di indifferenza. Come il particolare gli " giuoca dappresso ", bei thm herspielt, e quindi è solo un Beispiel, un semplice esempio 12, così « l'universale, anche quando — dice Hegel — si pone in una determinazione, vi rimane quello che è. È l'anima del concreto, nel quale risiede, non impedito ed eguale a se stesso nella molteplicità e diversità di quello », ma senza far corpo con esso. Quindi, « non vien trascinato via nel divenire, ma si continua non turbato attraverso ad esso ed ha la virtù di una immutabile, immortale conservazione » (III, 45). Il rapporto tra i due, cioè, è proprio un rapporto cristiano del tipo anima-corpo. Di qui l'immobilità di questo movimento, di questa mediazione, ciò che Marx chiama das mystifizierte Mobile, il fatto cioè che nel suo esser-altro l'essenza sia già e da sempre presso-di-sé. Il divenire, la mediazione, è qui assolutamente tautologica perché essa non rappresenta un passaggio al nuovo, ma la semplice enucleazione dell'essenza che da " implicita " si fa " esplicita ". Ciò che risulta al termine del processo è ciò che gli è stato presupposto. Ma, proprio in quanto « l'Idea assoluta non è presupposta formalmente ma è presupposta sostanzialmente » 1S, la tautologia non è una semplice tautologia formale o verbale ma reale o del contenuto. L'infinito si " produce " dal finito solo in quanto gli si è sostituito, solo in quanto cioè prescinde o astrae da

12 Cfr. G. DELLA VOLPE, Logica come scienza positiva, Messina-Firenze 1956, p. 42.

13 L. FEUERBACH, Princìpi cit., p. 25.

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esso '" (donde il carattere pacifico e scontato di questa mediazione). D'altra parte, però, in quanto questo movimento deve figurare come una " produzione " o uno sviluppo, e dal ritorno a sé l'Idea deve uscire più ricca, l'articolazione, lo spiegamento dell'universale procede in modo vizioso, cioè restaurando sottomano e quindi senza critica, senza controllo, i contenuti empirici prima trascorsi. Avendo " conservato " nell'infinito l'essenza del finito, Hegel crede di poter ricostruire movendo da essa le determinazioni reali, di poter tornare dall'astratto al concreto, dall'essenza al fenomeno. In realtà, poiché quell'astratto si è costituito trascendendo il concreto, negando cioè non questo o quell'aspetto del finito ma tutto il finito, e l'elevazione ha il suo culmine in un'Idea che si pretende " originaria e pienamente indipendente ", la deduzione, il ritorno al concreto non è possibile altro che a prezzo di un nuovo scambio. Prima l'infinito si opponeva un finito apparente, di comodo, un finito ch'era già esso stesso infinito: l'unità dei due era aprioristica, le determinazioni reali rimanevano inconcepite, trascese. Ora, se l'infinito vuole svilupparsi, cioè presentarsi come diverso, esso deve restaurare surrettiziamente quelle differenze del finito, che ha già scartato. Prima l'immediatezza era essenziale, ora l'essenza è immediata. Come dice Hegel, « l'esistenza non è qui da prendersi quasi un predicato o quasi una determinazione dell'essenza, in modo da poter dire con una proposizione: l'essenza esiste, ossia ha esistenza; — ma l'essenza è passata nell'esistenza; questa è la sua assoluta estrinsecazione, al di là della quale l'essenza non è rimasta. La proposizione dunque sarebbe: l'essenza è Tesi stenza; essa non è diversa dalla sua esistenza » (II, 127).

Il processo, in altri termini, ha « necessariamente il risultato che acriticamente viene assunta uvì empirica esistenza come la reale verità dell'idea; giacché non si tratta di addurre l'empirica esistenza alla sua verità », cioè di capire le cose, « ma bensì di addurre la verità ad un'empirica esistenza », cioè di dare un corpo al Concetto, « onde l'esistenza empirica la più immediata è dedotta come un reale momento dell'idea. (Su questo inevitabile rovesciarsi dell'empiria in speculazione e della speculazione in empiria, di più in seguito) » (OFG, 58). Per ora

14 Enc, § 74: « un contenuto può essere conosciuto come la verità, solo in quanto non è mediato con un altro, non è finito, si media dunque con se stesso, ed è così, tutto in uno, mediazione e relazione immediata con se stesso ».

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basti notare che un particolare assume il significato di realizzazione dell'Idea, cioè di ricettacolo (Gefàss) e incarnazione dell'Assoluto, ovvero che Hegel — come dice Marx — « stravolge il fatto empirico in un assioma metafisico » (OFG, 39).

Controlliamo in concreto quest'ultimo scambio alla luce di uno dei tanti documenti della filosofia di Hegel, per es. di quel paragrafo 269 della Rechtsphilosophie dove si dice che « il sentimento (politico) prende il suo contenuto particolarmente determinato dai differenti lati dell'organismo dello Stato », che « questo organismo è lo sviluppo dell'idea nelle sue distinzioni e nella loro realtà oggettiva »; per concludere, infine: « Questi lati distinti sono così i diversi poteri... Questo organismo è la costituzione politica ».

La questione reale che è al fondo del paragrafo è di stabilire come l'organismo dello Stato si articoli nelle sue distinzioni, cioè nei diversi poteri. Il problema in giuoco, ossia, è di capire come i diversi poteri si organizzino nella costituzione politica, che tipo di organismo quindi sia lo Stato. Per Hegel invece — osserva Marx — «il pensiero è propriamente questo: che lo sviluppo dello Stato, ossia della costituzione politica, in distinzioni e nella loro realtà, è uno sviluppo organico ». Nel primo caso, « il presupposto, il soggetto, sono le distinzioni reali, ossia i lati distinti della costituzione politica; il predicato è la determinazione di esse come organiche »: e si tratterà allora di vedere come questi diversi poteri si organizzino, di prendere cioè il predicato, il concetto di " organismo " nel suo riferimento specifico agli istituti politici. Nel secondo caso, al contrario, « l'idea è fatta soggetto, e le distinzioni e la loro realtà sono intese come il suo sviluppo e risultato ». Il problema così non è più di stabilire che organismo è lo Stato, ma che lo Stato è un organismo e che « questo organismo è lo sviluppo dell'idea ». Si parte cioè dall'Idea astratta, il cui sviluppo nello Stato è la costituzione politica. Senonché, col dire che « questo organismo (dello Stato, la costituzione politica) è lo sviluppo dell'idea nelle sue distinzioni ecc., non so ancora assolutamente nulla — dice Marx — dell'idea specifica della costituzione politica»; «la medesima frase può essere pronunciata con la medesima verità a proposito dell'organismo animale come di quello politico. Per che cosa si distingue, dunque, l'organismo animale da quello politico} Da questa determinazione generale non si rileva. Ma una spiegazione che non ci dà la differenza specifica non è una

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spiegazione. L'unico interesse di Hegel è di ritrovare 1' ' idea ' pura e semplice, 1' ' idea logica ', in ogni elemento, sia dello Stato, sia della natura, ma in quanto i soggetti reali, come è qui la costituzione politica, vengono ridotti al loro puro nome [zu ihrem blossen Namen], si ha soltanto l'apparenza di una conoscenza reale », cioè « i soggetti reali sono e restano delle determinazioni inconcepite », trascese, perché non concepite nella loro specifica essenza.

Fin qui siamo ancora, propriamente, alla figura dell'ipostasi: da un lato « Hegel non ha fatto che risolvere la costituzione politica nell'idea generale, astratta, di ' organismo ' »; dall'altro, « del soggetto dell'idea fa un prodotto, un predicato dell'idea ». Senonché, ricondotto il problema specifico dell'organismo statale a quello dell'organismo in genere, il discorso di Hegel diventa un piétiner sur place, cade cioè in continue tautologie. « Che i diversi lati di un organismo stiano in una connessione necessaria, scaturente dalla natura dell'organismo, questo è pura tautologia. Che, una volta che la costituzione politica è determinata come organismo, i diversi lati della costituzione, i suoi differenti poteri, si rapportino gli uni agli altri come determinazioni organiche, stiano gli uni con gli altri in un rapporto razionale, questo è parimenti tautologia. » « Con ciò Hegel non ha fatto un passo oltre il concetto generale dell' ' idea ' e tutt'al più dell' ' organismo ' in genere. Che cosa significa dunque la sua frase finale: che ' quest'organismo è la costituzione politica '? Perché non invece: ' quest'organismo è il sistema solare '? Perché Hegel ha determinato più tardi ' i diversi lati dello Stato ' come ' i diversi poteri '. Ma la frase ' i differenti lati dello Stato sono i diversi poteri ' è una verità empirica, non può esser spacciata per una scoperta filosofica, non è in alcun modo apparsa come risultato di uno sviluppo logico precedente. Bensì, determinando l'organismo come lo ' sviluppo dell'idea ', parlando delle distinzioni dell'idea e interpolando poi il concreto: ' i diversi poteri ', si introduce l'apparenza di aver sviluppato un contenuto determinato. Di seguito alla frase ' il sentimento (politico) prende il suo contenuto particolarmente determinato dai differenti lati dell1'organismo dello Stato ', Hegel non dovrebbe aggiungere: ' questo organismo ', bensì ' /'organismo è lo sviluppo dell'idea ecc. '. Per lo meno ciò ch'egli dice vale per ogni organismo, e non è presente alcun predicato che giustifichi il soggetto ' questo '. Il risultato a cui egli propriamente tende è la determina-

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zione dell1'organismo in quanto costituzione politica. Ma non c'è ponte attraverso cui si pervenga dall'idea generale di organismo all'idea determinata di organismo statale o costituzione politica, e per l'eternità — conclude Marx — non si potrà gettare tale ponte » (OFG, 21-5).

Riassumiamo brevemente le principali questioni finora toccate e sviluppiamole ulteriormente. Al centro di tutto — si è visto — è il processo fondamentale che Marx chiama di ipostatizzazione o sostantificazione dell'Idea. L'universale, il predicato si confonde col reale soggetto o sostrato materiale, sostituendo all'immediatezza o positività di questo la propria negatività; inversamente, l'empirico, il particolare, venendo trasceso nella sua specifica natura, acquista il significato di mero simbolo o allegoria di ciò che esso non è, ossia dell'universale. In quanto quest'ultimo non si costituisce però nel corso di una mediazione con l'esperienza e il passaggio da cui sembra risultare è anzi dichiarato " apparente ", l'ipostatizzazione si rivela come l'assunzione di un a priori: nel senso che il significato, la razionalità del reale, che la filosofia dovrebbe produrre e controllare, è qui anticipata, data come un presupposto e — si badi — non come un presupposto di questa o quella parte dell'esperienza ma della to-talità dell'esperienza, non come un presupposto verbale ma so-stanziale.

L'ipostasi dell'Idea si produce, dunque, — ecco un primo risultato da segnalare — come esito di una concezione negativa della materia o sensibile, che è alla base della filosofia hegeliana come di tutta la tradizione " platonica " o speculativa. In quanto, infatti, questa filosofia non riconosce al molteplice, all'essere sensibile come tale, alcuna rilevanza, alcuna positività, è naturale ch'essa debba poi attribuire al sensibile, in luogo della sua propria natura, quella di un altro, e fare proprio della ragione (che di per sé è un «o«-ente e quindi la negatività per eccellenza) l'interna " consistenza " del senso.

Il passaggio dall'essere sensibile al pensiero e, quindi, la genesi della conoscenza si configura allora — abbiamo visto — come quel duplice processo dell''Aufhebung che si compie, da un lato, astraendo e prescindendo dal sensibile in ciò che esso ha di peculiare, negandone cioè la specifica natura per risalire, oltre e al di là di essa, al concetto che vi si presuppone implicito: donde

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il carattere metafisico di questa concezione per cui il conoscere si presenta non già come analisi dell'esperienza, bensì come astrazione da essa, come atto che prescinde dal mondo. E, dall'altro, conservando, ovvero trasformando da " implicito " in " esplicito " il concetto già presupposto, cioè potenziato a sostanza del reale: donde il carattere dogmatico di questa filosofia che prende come già bell'e pronta, come già formata apriori e indipendentemente da ogni esperienza, proprio quell'unità di essere e pensiero, di razionale e reale che andrebbe invece dimostrata.

Cade a questo punto la possibilità stessa di un'indagine critica intorno alla formazione del concetto scientifico o del sapere in genere, in quanto la filosofia non si costituisce mettendo in dubbio se stessa, non si costruisce dalla sua stessa opposizione, non si configura cioè come teoria critica o metodologia della scienza (per dirla con Feuerbach, come teoria genetico-critica), ma muove al contrario da un sapere precostituito (l'idea come ipostasi) di cui non si può controllare né l'origine né il contenuto. La filosofia non comincia dalla sua antitesi, dalla non-filosofia, ma da se stessa; il pensiero non muove da ciò che lo contraddice, dall'essere reale o materiale, da ciò che è effettivamente " altro " rispetto al pensiero, ma bensì dal concetto, cioè dal « pensiero dell'esser altro del pensiero, dove il pensiero, com'è naturale, è già certo in precedenza della vittoria sopra il suo avversario » I5. A questo modo Hegel ci presenta, sì, l'unità di logica e gnoseologia, di logica e teoria della conoscenza, ma non perché egli risolva il principio logico nel principio del reale, quanto piuttosto perché riduce la teoria del reale a teoria della logica.

Come già nel caso del rapporto finito-infinito, il movimento che va dall'essere determinato o particolare o sensibile al pensiero o universale si configura come un passaggio e una mediazione solo apparente. L'andamento del conoscere, cioè, " sembra " un'induzione per cui « il contenuto individuo della definizione sale per la particolarità all'estremo dell'universalità »; in effetti, però — dice Hegel — è questa universalità che è la " base oggettiva " e « a cominciar da lei la divisione si presenta qual disgiunzione dell'universale come di un primo » (III, 305). La considerazione essenziale, dunque, è ancora questa: « che l'andare innanzi è un tornare addietro al fondamento, ^originario

15 L. FEUERBACH, Princìpi cit., p. 31.

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ed al vero, dal quale quello con cui si era cominciato, dipende, ed è, infatti, prodotto. Così, a partir dall'immediatezza, colla quale incomincia, la coscienza vien ricondotta, per la sua via, al sapere assoluto come alla sua intima verità. Quest'Ultimo, il fondamento, è poi allora anche quello da cui sorge il Primo, quel Primo che dapprincipio si affacciava come immediato » (I, 59).

Ciò che si presenta quindi come passaggio dal sensibile al con-cetto è in realtà un approfondirsi, un interiorizzarsi del concetto in se stesso: ciò che la Fenomenologia chiama appunto Er-Innerung, nel duplice significato sia dell'anamnesi platonica, sia di quell'atto onde lo spirito assoluto, al termine dello sviluppo, raccoglie e trasvaluta in sé tutto ciò da cui è risultato. « Errore capitale » è credere, dunque, « che il principio naturale ossia il cominciamento da cui si prendon le mosse nello sviluppo naturale o nella storia dell'individuo che si sta formando, sia il vero e quello che nel concetto è il primo. L'intuizione o l'essere sono bensì secondo la natura il primo ovvero la condizione per il concetto, ma non per questo sono l'in sé e per sé incondizionato; nel concetto si toglie anzi la realtà loro, e con ciò insieme quel-l'apparenza che avevano come di un reale condizionante. Quando si ha di mira non la verità, ma soltanto la storia [...], ci si può fermare alla narrazione che noi cominciamo con sentimenti e intuizioni e che l'intelletto dal molteplice di quelli cava un'universalità ossia un astratto, ed ha allora naturalmente bisogno a questo scopo di quella base [...]. Ma la filosofia non ha da essere una narrazione di ciò che accade, sibbene una conoscenza di ciò che in quello vi ha di vero » (III, 25); e il vero è appunto che quella che pare un'ascesa dal sensibile al concetto è in realtà una discesa da questo, che ciò che pare induzione è deduzione, che l'analisi è sintesi.

Ritroviamo qui due movimenti a noi già familiari: la mediazione " apparente " e, poi, più profonda, la mediazione che " toglie se stessa "; la contraddizione del finito, che si risolve subito nell'opposizione dell'infinito con sé; il movimento concreto, che diventa movimento dell'Idea o dell'astratto. Il processo di ipostatizzazione ci si rivela, in tal modo, come la sostituzione alle contraddizioni specifiche o del finito di contraddizioni generiche o dell'infinito, alle contraddizioni reali di contraddizioni astrattamente razionali. Tutte le opposizioni, tutte le differenze concrete vengono ricondotte alla differenza del pensiero da sé: vera " mobilità mistificata " che non si costituisce per opera di qual-

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cosa che è effettivamente " altro ", ma ad opera di un opposto apparente e formale che il pensiero " pone " a se stesso e dentro se stesso. All'alterità, alla differenza reale, viene così interpolata la semplice differenza della ragione da sé, cioè una semplice alienazione di enti del pensiero (Gedankenwesen), in cui il vero interesse — dice Marx — è « l'opposizione di in sé e per sé, di coscienza e autocoscienza [...], cioè l'opposizione dentro il pensiero stesso. Tutte le altre opposizioni e tutti gli altri movimenti di queste opposizioni sono soltanto l'apparenza, l'involucro, la forma essoterica di queste opposizioni unicamente interessanti, che costituiscono il senso delle altre, profane, opposizioni » 16.

Così, ad es., per tornare al paragrafo 269 della Rechtsphilo-sophie, « l'essenza delle determinazioni statali non è già di poter essere considerate delle determinazioni statali, ma di poter esser considerate, nella loro forma la più astratta, come determinazioni logico-metafisiche. Non la filosofia del diritto, ma la logica è ciò che veramente interessa. Non che il pensiero prenda corpo nelle determinazioni politiche, ma bensì che le esistenti determinazioni politiche si volatilizzino [verfiùchtigt werdenl in astratti pensieri, questo è il lavoro filosofico. Ciò ch'è il momento filosofico non è la logica della cosa, ma la cosa della logica. La logica non serve a provare lo Stato, ma lo Stato serve a provare la logica ». Hegel, in altri termini, « non sviluppa il suo pensiero secondo l'oggetto, bensì sviluppa l'oggetto secondo il pensiero in sé predisposto, e ch'è stato predisposto nell'astratta sfera della logica. Non si tratta perciò di sviluppare l'idea determinata di costituzione politica, ma sì di mettere in rapporto la costituzione politica con l'idea astratta, di ordinarla come un anello della storia della sua vita (dell'idea): una mistificazione manifesta. I diversi poteri non sono determinati dalla loro ' propria natura ', ma da una natura estranea. Parimenti la necessità non è attinta dalla

10 OFG, 296; ma vedasi anche p. 297: « Come l'essere, l'oggetto è un ente ideale, così il soggetto è sempre coscienza o autocoscienza; o piuttosto l'oggetto appare soltanto come astratta coscienza, l'uomo soltanto come autocoscienza, e le diverse forme di alienazione che compaiono sono dunque soltanto figure variate della coscienza e dell'autocoscienza. Come, in sé, l'astratta coscienza — sotto la quale è inteso l'oggetto — è puramente un momento della differenziazione dell'autocoscienza, così si produce anche, come risultato del movimento, l'identità dell'autocoscienza con la coscienza, il sapere assoluto, il moto non più verso l'esterno, ma soltanto procedente in se stesso del pensiero astratto come risultato: cioè il risultato è la dialettica del pensiero puro ».

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loro propria essenza, né ancor meno criticamente dimostrata. La sua sorte è piuttosto predestinata dalla ' natura del concetto ', suggellata nei sacri registri della santa casa (della logica). L'anima degli oggetti, dello Stato nella fattispecie, è predisposta, predestinata innanzi il suo corpo, ch'è propriamente soltanto apparenza \_Schein~\ ». Le determinazioni concrete, cioè, sono assunte da Hegel esteriormente, " sono degli hors-d'oeuvres "; « il loro senso filosofico è che lo Stato ha in esse il senso logico ». Ma, « omettendo le determinaizoni concrete, che potrebbero altrettanto bene essere scambiate, per un'altra sfera, ad es. la fisica, con altre determinazioni concrete, e che sono dunque inessenziali, abbiamo davanti — conclude Marx — un capitolo della Logica » (OFG, 28-9).

Hegel, in altre parole, « tratta universalità e singolarità, gli astratti momenti del sillogismo », cioè gli opposti generici, " da reali opposti ", da opposti specifici (chiariremo presto questa differenza): di qui " precisamente il dualismo fondamentale della sua logica ". Il suo " errore principale " consiste quindi in ciò: « ch'egli assume la contraddizione del fenomeno come unità nell'essenza, nell'idea » (OFG, 121-4). Ne deriva non solo ch'egli tralascia tutte quelle determinazioni specifiche per cui, ad es., un problema di scienza politica si distingue da un problema di fisica, ma che la contraddizione reale si risolve così immediatamente in una contraddizione razionale, in un'opposizione della ragione con sé, dove — essendo l'opposto apparente o formale — l'unità, la soluzione, non può non essere già presupposta o scontata. Con questa sostituzione, onde la contraddizione nel e del concetto diviene la base delle contraddizioni empiriche, la prospettiva si capovolge, nel senso che il sensibile su cui sembrava far leva il pensiero si rivela non già fondamento ma prodotto di questo. E poiché il reale non è che pensiero, ciò che è il primo per la conoscenza è il primo anche per il reale, ovvero la ratio cognoscendi è ratio essendi, la logica gnoseologia: e non solo gnoseologia, cioè scienza del reale, ma l'unica scienza del reale, la scienza dell' " assoluto Vero ". « L'elemento logico, dice Hegel, si presenta allo spirito come la verità universale, non come una conoscenza particolare accanto ad altra materia e ad altre realtà ma come l'essenza di tutto questo rimanente contenuto » (I, 43). Quando diciamo, dunque, che la logica è scienza della realtà, ciò non significa che essa abbia a contenuto un aspetto del mondo, ma piuttosto « un contenuto che, solo, è l'assoluto Vero, o, se

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si voglia ancora adoprare la parola materia, che, solo, è la vera materia, —■ una materia, però, cui la forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero, e quindi l'assoluta forma stessa. La logica è perciò da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com'essa è in sé e per sé senza velo., Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com'egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito » (I, 32).

« La Logica coincide con la Metafisica, con la scienza delle cose poste in pensieri » (Enc, § 24); le differenze, le contraddizioni oggettive, con la differenza o con la contraddizione nel e del pensiero. A differenza delle scienze che accolgono il loro contenuto dall'esterno e che restano però confinate ancora nel campo della contingenza, — onde, per es., « la rettangolarità, Pacutangolarità ecc. che son le determinazioni secondo cui ven-gon divisi i triangoli, non stanno nella determinazione del triangolo stesso, non stanno cioè in quello che si suol chiamare il concetto del triangolo, così come non stanno in quello che vale come concetto dell'animale in generale, o come concetto del mammifero, dell'uccello ecc., quelle determinazioni secondo cui l'animale si divide in mammiferi, uccelli ecc. e queste classi a loro volta in altri generi »: a differenza di questo, « nella maniera filosofica di dividere, invece, è il concetto stesso quello che si deve mostrare come fonte delle sue determinazioni » (I, 44-5). Perché, operato il capovolgimento, è il concetto stesso che deve ora presentarsi come « ragion d'essere [ratio essendi\ e fonte di ogni finita determinazione e molteplicità » (III, 27).

All'ipostasi, al " rovesciamento dell'empiria in speculazione " o — per dirla sempre con un'espressione di Marx ancora più pregnante —■ alla " decomposizione filosofica dell'empiria ", che è l'atto onde i nessi reali si sconnettono e scompongono per far luogo all'interpolazione di una sostanza estranea, cioè dell'Idea 17:

17 G. DELLA VOLPE, Logica cit., p. 113 acutamente osserva: « Dunque, ipo-statizzare (nel preciso senso storico, tecnico, del termine) significa fare del realismo equìvoco: di quell'equivoco realismo ch'è il realismo (assoluto) dei metafisici o aprioristi: onde apriorizzare è ipostatizzare. In altri termini, per colui che ipo-statizza è andato perduto l'avvertimento critico originario, profondo, contenuto nella distinzione aristotelica di sostanza prima o soggetto ultimo e sostanza seconda o essenza: presume infatti di surrogare funzionalmente la prima con la seconda, con l'essenza

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a questo primo scambio tien dietro adesso « il secondo lato, alla cui trattazione — dice Hegel — è dedicato il terzo Libro della Logica, l'esposizione cioè del modo in cui il concetto forma dentro di sé e da sé quella realtà ch'era scomparsa in lui » (III, 29). Il ponte onde si perviene dall'infinito al finito e che nessuno potrà mai gettare per l'eternità: proprio questo compito disperato diviene così l'impegno e la funzione precipua della filosofia, la cui essenza, appunto, « è riposta, dice Hegel, nel compito di rispondere, come l'infinito esca da sé e venga alla finità » (I, 166), nel descrivere ossia « la derivazione del reale dal concetto ». Con quest'atto di creazione dal nulla si dovrebbero per Hegel confermare al contempo queste due cose: 1) « l'assolutezza del concetto contro la materia », come questa cioè « non abbia verità così come apparisce fuori e prima del concetto, ma l'abbia soltanto nella sua idealità o nella sua identità col concetto »; 2) come quest'ultimo, « per mezzo della dialettica fondata in luì stesso [cors. mio], passi alla realtà in maniera tale che la genera da sé » (III, 29-30).

Risulta invece — sappiamo — da quest'atto: 1) l'inevitabile e continuo incorrere in tautologie da parte di Hegel come conseguenza del fatto che il concetto da cui egli procede è "indipendente, libero ", « senza substrato sensibile » (I, 43) e quindi privo di collegamento col reale; risulta cioè che la dialettica, che dovrebbe fondarsi nel pensiero, non si costituisce perché in questo l'opposto è solo una materia... ideale, identica col concetto: quindi non una contraddizione ma un'identità. 2) Uno sviluppo acritico e antiscientifico, che procede restaurando surrettiziamente, e perciò senza controllo, i contenuti e le determinazioni empiriche prima scartati. Che è, appunto, quanto Marx chiama " l'inevitabile rovesciarsi della speculazione in empiria ", la " restaurazione filosofica " di essa, o, meglio ancora, " il positivismo acritico di Hegel ", conseguenza dell' " idealismo parimenti privo di critica " del primo scambio; e nel quale — egli dice — « appare in modo luminoso che, se da una parte la speculazione si crea apriori, cavandolo dal suo seno in modo apparentemente libero, il proprio oggetto, — dall'altra, però, proprio in quanto vuole negare con sofismi la razionale e naturale dipendenza dall'oggetto, essa cade nella più irrazionale e innatu-

(che si soslantifica, ossia vuol essere anche la sostanza per eccellenza, ch'è la prima) ».

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rale servitù di fronte ad esso, di cui è costretta a ricostruire come necessarie e universali anche le caratteristiche più accidentali e individue » 18.

In conclusione, dunque, la concezione negativa del sensibile, l'affermazione dell'idealità del finito o della materia, che è alla base dell'idealismo, mentre per un verso porta a trascendere l'esperienza e quindi a ridurre il conoscere a uno sviluppo meramente formale, per un altro deve poi presupporre già implicito nel pensiero il contenuto prima trasceso: per modo che, negato il sensibile in ciò che esso ha di specifico, è costretta a presupporre il sapere come già formato, a precludersi quindi la possibilità di intenderne la genesi; assunto il sapere come già costituito, ne deve accogliere il contenuto dogmaticamente, senza cioè controllare dond'esso provenga.

Puntualizziamo ulteriormente il nostro discorso e, ora che abbiamo gli elementi indispensabili per farlo, ricostruiamo lo " spaccato " fondamentale della filosofia di Hegel: il rapporto senso-intelletto(Ver.rta#J)-ragione(Vem#«/0, cercando di ricavarne tutte le implicazioni più interessanti.

18 MEGA, I, 3, pp. 231-2. Con l'abbreviazione MEGA si intende — come di consueto — la Karl Marx-Friedrich Engels historisch-kritische Gesamtausgabe, edita dal Marx-Engels Institut di Mosca. Questa edizione è stata, com'è noto, interrotta nel 1935.

3. Colletti

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IL SENSO E INTELLETTO

« Il contenuto concreto della certezza sensibile — avverte Hegel all'inizio del primo capitolo della Fenomenologia — fa sì che essa appaia immediatamente come la conoscenza più ricca [...] e la più verace » giacché, a differenza dell'astrazione, essa non « ha ancora tralasciato nulla dell'oggetto, anzi lo ha in tutta la sua pienezza dinanzi a sé »; in effetti, però, egli dice, « tale certezza si dà a divedere essa stessa come la verità più astratta e più povera [...] e non contiene che l'essere della cosa», l'essere in generale, cioè una semplice universalità. L'ora, il questo, il qui, sembrano determinazioni individuali; ed è pur vero che « alla domanda che cosa è l'ora? noi rispondiamo, per es., l'ora è la notte »; senonché a mezzogiorno ecco che questa certezza è già tramontata.

« Quell'ora che è la notte vien conservato; ossia vien trattato come ciò per cui è stato spacciato: come un ente; ma esso si dimostra piuttosto come un non-ente. Senza dubbio l'ora si conserva, ma come tale ora che non è notte; similmente, rispetto al giorno che adesso è, l'ora si conserva come tale ora che neppure è giorno, o si conserva come un negativo in generale », che « è indifferente verso tutto ciò che gli giuoca da presso [was noch bei ihm herspìélt\; quanto poco la notte e il giorno sono il suo essere, altrettanto poco esso è anche giorno e notte; esso non è per niente affètto da questo esser-altro ». Ma « un alcunché di così semplice che mediante una negazione risulti essere né questo né quello, ma solo un non-questo, e che però altrettanto indifferentemente riesca ad essere sia questo che quello, noi lo chiamiamo un universale; Vuniversale è dunque in effetti il vero della certezza sensibile » (Fen., I, 86-7). L'altro, ciò che in essa non è universale e che pure sembra il tratto peculiare della certezza sensibile, ossia la sua puntualità,

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la sua immediatezza, l'individuale sentire, non conta ed è confutato subito — dice Hegel — dallo stesso linguaggio. « Quando si dice: Questo, si crede — infatti, egli osserva — di esprimere qualcosa di perfettamente determinato »; in realtà « l'individuale, questo individuale, qui, ora, son tutte universalità »; si dimentica che « il linguaggio, come opera dell'intelletto, enuncia soltanto l'universale» (I, 119) e che in esso niente può dirsi che non sia universale. Pertanto, « ciò che io sento soltanto, conclude Hegel, è mio, appartiene a me, come a questo particolare individuo: ma, se la lingua esprime sempre l'universale, io non posso dire ciò che è soltanto un mio sentimento. L'ineffabile, il sentimento, la sensazione, è non già il più eccellente e il più vero, ma ciò che v'ha di più insignificante e di men vero » (Enc, § 20). Esso, quindi, « non è altro che il non-razionale, ciò che vien meramente opinato » \

Ancora una volta, dunque, il mondo sensibile è di per sé un mero disvalore, una semplice irrealtà, che ha significato solo a patto di essere non già se stesso ma l'altro da sé, cioè intelletto o idea. Qui « la relazione — osserva Hegel — si è rovesciata »: « l'oggetto che doveva essere l'essenziale è ora l'inessenziale della certezza sensibile; esso infatti è divenuto un universale; ma tale universale non è più ciò che l'oggetto avrebbe dovuto essenzialmente essere per la certezza sensibile; anzi questa adesso consiste nell'opposto, vale a dire nel sapere che prima era l'inessenziale ». Se quindi sembra che, in tanto vi è certezza sensibile in quanto vi è l'oggetto, in realtà il rapporto — dice Hegel — è da capovolgere nel senso che « l'oggetto è perché io so di esso » {Fen., I, 88, cors. mio). La sensibilità —conferma la Logica— non è il manifestarsi del mondo a noi, quanto piuttosto lo spirito che è " dentro di sé ". Essa va pertanto riguardata non come la presenza della natura bensì come " lo spirito presente ", « come l'esistenza dell'anima che è dentro di sé » nella « perfetta semplicità » dell'universale « a sé eguale » (III, 260), ed è quindi un'universalità immediata. Ritorna qui la profonda deformazione del concetto di esperienza che è caratteristica comune dell'idealismo, da quello classico a Mach 2, nel senso che si riconosce anche che " è necessario " che la filosofia " si ac-

1 Cfr. Lezioni sulla storia della filosofia, trad. di E. Codignola e G. Satina, Firenze 1932, voi. II, pp. 39 e 128-29.

2 V. I. LENIN, Materialismo e empiriocriticismo, Roma 19.53, pp. 132 sgg.

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cordi con la realtà e l'esperienza " e che « anzi quest'accordo può esser considerato come una prova — soggiunge Hegel — per lo meno estrinseca, della verità di una filosofia ». Solo che l'accordo della ragione con l'esperienza non è poi altro che « la conciliazione della ragione cosciente di sé con la ragione quale è immediatamente » {mìt der seienden Vernunft), non è altro cioè che l'accordo di coscienza e autocoscienza. Onde Hegel può concludere che la libertà, lo spirito, Dio — malgrado siano « oggetti che escono fuori dal campo empirico perché si dimostrano subito, pel loro contenuto, infiniti » — sono peraltro oggetti della nostra certezza non perché, « di certo, sono appresi per esperienza sensibile », ma perché « ciò che è nella coscienza in genere, è per esperienza » {Enc, §§ 6-8), perché cioè ogni sentire, fino al « sentimento giuridico, morale, religioso è un sentimento e quindi una esperienza di tal contenuto che ha la sua radice e la sua sede soltanto nel pensiero » (cors. mio).

Lasciamo stare il tema del panlogismo hegeliano che è motivo assai noto perché più vi ha insistito da noi la critica di Croce e che, in ogni caso, — se non si sviluppa in una concezione nuova dell'unità di teoria e pratica, cioè in una critica dell'idealismo — di per sé significa assai poco. Un risultato ben più interessante a cui mette capo la teoria hegeliana della sensibilità — se si prescinde dalla filosofia dell'arte — è piuttosto la concezione del rapporto scienza-filosofia ovvero l'idea di questa come enciclopedia del sapere.

a) Scienza e filosofia

Assai significative, a questo proposito, sono le considerazioni che troviamo svolte nel paragrafo 16 dell'Enciclopedia. Premesso, infatti, che l'enciclopedia filosofica esclude senz'altro quelle scienze positive che sono " semplici aggregati di conoscenze ", come ad es. la filologia, e notato però che « altre scienze sono anche chiamate positive, le quali tuttavia hanno un fondamento e principio razionale », Hegel osserva che mentre " quest'elemento " delle scienze, cioè l'elemento razionale, " appartiene alla filosofia ", ciò che resta peculiare a loro è solo " il lato positivo ". Questa positività proviene alle scienze — egli spiega — da due principali motivi: 1) dalla finità della loro materia, cioè dal fatto « che esse debbono calare l'universale nell'individualità empirica

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e nella realtà », per cui « il loro primo principio, che è in sé razionale, trapassa [...] nel campo del mutevole e dell'accidentale », ove « non si può far valere il concetto »: donde la conclusione che non solo « la storia naturale, la geografia, la medicina e via dicendo consistono in fatti dell'esistenza, in specie e differenze, che son determinati da accidenti estrinseci e come da un giuoco », ma che « anche la storia — dice Hegel — rientra in questo caso, giacché, se l'Idea è la sua essenza, l'apparizione di questa è [però] nell'accidentalità e nel campo dell'arbitrio ». E 2) dalla " finità della forma ", per cui le scienze « non riconoscono le loro determinazioni come finite, né mostrano il passaggio di esse e di tutta la loro sfera ad un'altra superiore, ma le ammettono per valevoli senz'altro ».

I due motivi — com'è evidente — sono strettamente collegati. Che le scienze abbiano infatti per argomento il finito, l'oggettività materiale o determinata, vuol dire che i loro punti di partenza « sono dappertutto dati immediatamente, trovati, presupposti » (Enc, § 9), cioè che il loro oggetto non è generato né prodotto dal concetto. Ma allora è anche chiaro che questa finità della materia — se comporta che non il contenuto sia una determinazione del concetto bensì questo di quello— deve implicare anche una forma finita o definita. Il concetto, cioè, si specifica in funzione della materia; quest'ultima, d'altra parte, —lungi dall'essere il risultato dello sdoppiamento del concetto da sé in sé, della sua divisione aprioristica — ne è invece la base o il fondamento, nel senso che i concetti in tanto saranno scien-tifici, determinati, e quindi con un significato preciso, in quanto si terranno alle differenze reali o oggettive.

La critica quindi (che abbiamo già incontrato a proposito della " rettangolarità " ecc.) secondo cui le determinazioni scientifiche hanno il difetto di non essere autodeterminazioni del Concetto (cioè di quell'Idea che — come dice Hegel — « non è da prendere come un'idea di qualche cosa » ma come « l'universale e unica idea, che, col giudicare, si specializza nel sistema delle idee determinate », Enc, § 213), implica la critica del fondamento materialistico della scienza. Così come quest'ultima, a sua volta, coinvolge la prima, e cioè la critica di quel momento dell'induzione o analisi in cui il pensiero si tiene alle differenze " trovate " o — come osserva sprezzantemente Hegel — " raccoglie " soltanto " quello che è "; momento che è, invece, alla base del procedere della scienza, cioè di quell'unità di ra-

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gione e esperienza in cui consiste la legge scientifica, in quanto — vedremo — razionalità empirica o necessità del fatto. Questo procedere scientifico che « trova proposizioni e leggi, e ne dimostra la necessità non [...] cavandola dal concetto, sibbene come una necessità del conoscere che avanza nelle determinazioni date e nelle differenze del fenomeno » (III, 296-7), è quanto più ripugna a Hegel perché — annota fedelmente il Moni — a differenza della " necessità " di cui parla l'idealista e che fa tutt'uno con la " libertà dello Spirito ", nella dimostrazione scientifica, invece, « la cosa non è più libera di non essere quella che è ». Qui « il soggetto conoscente è costretto a pensar la cosa in questa maniera determinata e non la può pensare in un'altra »; onde « si può dire — egli conclude — che le scienze, per quanto colla scoperta delle leggi, cioè coll'essere entrate nel dominio della riflessione, si siano elevate sopra la semplice constatazione dei fatti, ricadono però subito, o meglio non sono ancora uscite, dall'ambito del constatare; se non constatano più i fatti, al che basta anche la più rozza coscienza volgare, constatano le leggi » (III, 297).

Da questa sua base materiale, però, il pensiero scientifico non solo trae quel rigore e quella necessità che gli impediscono di compiere il passaggio alla sfera... superiore, cioè alla sfera in cui s'annullano tutte le differenze reali: quel passaggio che rende Hegel tanto impaziente... Ma ne trae altresì la sua " inclinazione " a tornare al reale. Non a caso la critica di Hegel —■ dopo aver colpito il primo punto, cioè il fondamento materialistico della scienza, e quel che da esso immediatamente consegue, ossia la determinatezza, la specificità, il carattere intellettuale o definito che ha il concetto scientifico — deve colpirne anche l'ultimo aspetto, cioè la sua intrinseca inclinazione a verificarsi e provarsi tramite l'esperienza. In quanto, infatti, la de-finizione scientifica non può « adoperare che una delle immediate cosiddette proprietà dell'oggetto, una determinazione dell'esistenza sensibile, ovvero della rappresentazione », e si tratta però — nota Hegel — di stabilire « quale delle molte proprietà competa all'oggetto come genere e quale gli competa come specie e per di più quale fra queste proprietà sia quella essenziale », per tutto questo — egli dice — la scienza non ha più « altri criteri fuorché l'esistenza stessa », fuorché cioè la pratica. Ma così, egli conclude, essa « cerca la determinazione concettuale nell'esistenza esteriore e nella rappresentazione, vale a dire là dove non si può trovare » (III, 300-1).

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Un continuo passaggio, dunque, dal concreto all'astratto e da questo al concreto, un circolo di analisi e sintesi, di induzione e deduzione — ecco la fisonomia del materialismo della scienza quale esce individuata, sia pure negativamente, dalla critica di Hegel. E merito suo non ultimo, anzi, è proprio questo: che la posizione da battere — il materialismo — sia qui perseguita sul suo terreno d'elezione: la scienza; seguita e contrastata nei suoi principali sviluppi e in tutte le sue implicazioni di metodo. Hegel, cioè, coglie con grande chiarezza che il nucleo essenziale del procedere della scienza è nell'assunzione (più o meno consapevole) del nesso pensiero-essere, teoria-pratica, come di un nesso insopprimibile in cui — a differenza di quanto accade con la speculazione— ciò che vien tolto, negato, non è il " mediatore " o meglio il fondamento materiale stesso, ma solo gli aspetti inessenziali di questo, cioè i suoi tratti generici, non gli specifici; e che questo rapporto, se è certamente di reciprocità e di mutuo condizionamento, è anche però tale che l'essere vi assolve — come vedremo — al ruolo di parte e fondamento insieme dell'intera relazione. Qui, come " l'oggettività presupposta " non ha i requisiti che le richiede Hegel, cioè « di essere in lei stessa nient'altro assolutamente che il concetto e di non contener nulla di particolare per sé di fronte a questo », ma è un " fermo essere "; così, reciprocamente, « l'attività determi-natrice del concetto sull'oggetto » non « è un'immediata comunicazione e una inostacolata espansione sua su di esso » per cui « il concetto resta qui nella pura identità con sé » (III, 285-6); quanto piuttosto è il dirimersi e puntualizzarsi del concetto che, verificando la propria congruenza col reale, si definisce, contro la pluralità delle cause, come l'unica e sola causa del fatto.

Proprio alla luce di questa critica del nesso di ragione e materia, di pensiero e esperienza, si chiarisce la concezione hegeliana del rapporto tra scienza e filosofia e, quindi, la sua teoria della dialettica, il celebrato metodo che solo una volgarità dei tempi moderni doveva spacciare come " il " procedimento della scienza. Cediamo ancora una volta la parola a Hegel.

« È un gran merito », egli ci dice quasi a conclusione del Libro I della Logica, « quello di imparare a conoscere i numeri empirici della natura, per es., le distanze dei pianeti fra loro; ma un merito infinitamente più grande è di far sparire i quanti empirici elevandoli in una forma generale di determi-

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nazioni quantitative, cosicché diventino momenti di una legge o misura, — meriti immortali che si acquistarono per es. Galilei riguardo alla caduta, e Keplero riguardo al moto dei corpi celesti. Costoro provarono le leggi da loro trovate col mostrare che ad esse corrisponde la cerchia delle singolarità della percezione. Si deve però esigere una dimostrazione ancora più alta di queste leggi, nient'altro, cioè, se non che le determinazioni quantitative si conoscano dalle qualità o concetti [...] che vengon messi in relazione » (I, 416); nient'altro, ossia, se non che alla relazione del pensiero con la « cerchia della percezione » e quindi alla prova sperimentale della legge, si sostituisca la relazione di puri concetti, la relazione del pensiero in sé e con sé. Questo, tra tutti, è il merito più grande: che non ci si limiti a innalzare i " quanti empirici " a legge naturale, a una legge cioè che è pur sempre tenuta a provarsi nella cerchia delle singolarità, ma che si faccia " sparire " l'empiria stessa, il mondo \ Il limite della legge " matematico-empirica " — osserva a commento Moni — è nel fatto che in essa « è fissato soltanto il rapporto in cui stanno fra loro certi quanti [...]. Ma la filosofia non si occupa di rapporti fra quanti determinati. Quello che la interessa son soltanto i rapporti, anche quantitativi, fra le qualità come tali, cioè fra i concetti. Anche quando il matematico, per es., determina la velocità come il rapporto dello spazio al tempo, egli ha sempre in vista un certo quanto di spazio percorso e un certo quanto di tempo trascorso, non lo spazio e il tempo come tali, ossia come semplici qualità; e quindi nemmeno può pensare alla velocità senza pensarla subito come una certa velocità, quale che sia ».

Il limite, dunque, sta nel fatto che i concetti sono presi in una certa relazione, non cioè come concetti puri ma determinati, non in relazione a sé ma in riferimento all'oggetto. Togliete questo riferimento, acuite le contraddizioni reali fino a farne un'opposizione pura o del pensiero, un'opposizione cioè in cui « la molteplicità dei fenomeni », « le circostanze esterne

3 Protestando contro l'interpretazione della filosofia di Spinoza come ateismo, Hegel scrive: « Ammettere che non vi sia, per così esprimersi, alcun mondo, si reputa facilmente come del tutto impossibile, o almeno come molto meno possibile che non se ad alcuno venga in mente che non vi sia alcun Dio. Si crede, perciò, — ed è cosa veramente che non torna molto a onore di chi pensa a questo modo — con più facilità che un sistema neghi Dio, piuttosto che neghi il mondo: si reputa molto più comprensibile che venga negato Dio, anziché venga negato il mondo » (Enc, % 50).

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e accidentali si elidono » {Enc, § 16), rendete insomma i vostri concetti indeterminati, assoluti (sciolti, ossia, dal reale), e la scienza avrà finalmente per Hegel dignità filosofica. Allora, da questa collisione del reale, egli dice, « l'universale balza innanzi con evidenza », giacché i molteplici fenomeni reali « sono bensì le sue condizioni, ma soltanto nel senso che il concetto sorge dalla lor dialettica e nullità come loro ragion d'essere, e non già nel senso che sia condizionato dalla loro realtà » (III, 24). Una volta compiuto questo capovolgimento, una volta ad es. che il corso storico-reale sarà stato ridotto a storia della filosofia e quest'ultima poi allo svolgimento " nella filosofia ", cioè a processo « libero da quelle esteriorità storiche, puro nell'elemento del pensiero», {Enc, §14), allora —rovesciata l'empiria in speculazione — sarà anche possibile procedere alla sua " restaurazione filosofica ". « Una fisica sperimentale, una storia ecc., che siano condotte con penetrazione di pensiero, rappresenteranno, a questo modo, — dice Hegel — la scienza razionale della natura e delle vicende e fatti umani », ma — si noti bene — « in un'immagine esteriore, in cui si rispecchia il concetto » (§16). Il fatto, cioè, diverrà « rappresentazione e immagine dell'originaria e pienamente indipendente attività del pensiero » (§12); le "rappresentazioni", i dati reali, —«metafore dei pensieri e concetti » (§3). Qui è la ragione per cui la filosofia può e deve costituirsi secondo Hegel come enciclopedia delle scienze: perché i processi, i movimenti specifici o reali, ossia quelle certe e determinate relazioni di cui si occupano le singole scienze sono da lui considerate di per sé insignificanti, — e razionali, invece, solo in quanto vengano prese come determinazioni logico-metafisiche, non cioè per quel che sono, ma per quel che non sono, non come specie ma come genere. La scienza della natura diviene così la filosofia della natura, la scienza dello Stato e del diritto la filosofia del diritto, la scienza della storia la filosofia della storia. Le determinazioni storico-concrete scadono a semplici " hors-d'oeuvres ", a determinazioni inessenziali, divengono cioè la " consueta materia sensibile " con cui è " vestita " di volta in volta l'Idea; quest'ultima, d'altro canto, si ipostatizza a soggetto del mondo e della storia, diviene cioè « l'artefice di questo lavoro di millenni, quell'Uno spirito vivente, la cui natura pensante consiste nel recarsi alla coscienza ciò ch'esso è, e, fatto di questo il suo oggetto, nel sollevarsi più su e costituire in sé un grado più alto » (§ 13).

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La " logica ", con cui si passa dalla natura geologica a quella vegetale e da questa all'organismo animale, sarà allora la stessa " logica ", ad es., con cui dal diritto si passa alla moralità e da questa all'eticità, proprio perché non interessa che il pensiero si specifichi in funzione delle determinazioni concrete e quindi che ne rispetti la specificità, le differenze essenziali, quanto piuttosto che le esistenti determinazioni si volatilizzino in astratti pensieri4. La logica non serve a comprendere la cosa, bensì la cosa a dare un corpo alla logica. Ogni scienza diviene una parentesi della filosofia; ogni movimento, ogni processo reale, diviene un esempio, un simbolo, del movimento dell'Idea in sé: cioè l'anima degli oggetti, il loro significato, è predisposto, predestinato prima del loro corpo, che è soltanto parvenza. Quel che interessa non è che " questo " passaggio avvenga da una certa quantità a una certa qualità, ma che vi sia // passaggio dalla quantità alla qualità: il " certo " in cui esso avviene sarà solo un esempio. Per comprendere il primo processo occorrerà studiare l'oggetto, lavorare da scienziato; per conoscere il secondo basterà possedere « la formula sacramentale: affermazione, negazione e negazione della negazione » (Marx), ovvero la cosidetta " legge dialettica " della conversione della qualità in quantità e viceversa, che vi consentirà di capire come per progressivi aumenti si giunga al " salto " e come, col " salto ", il liquido passi nel solido, l'inorganico nell'organico, il girino nella rana, la società borghese nel socialismo.

E va da sé. A forza, infatti, « di astrarre da ogni soggetto tutti i pretesi accidenti, animati o inanimati, uomini o cose, abbiamo certo ragione di dire — osserva Marx — che, in ultima astrazione, si arriva ad avere come sostanza le categorie logiche. Così i metafisici, i quali, facendo queste astrazioni, si immaginano di far dell'analisi, e che a misura che si staccano sempre più dagli oggetti, si immaginano di avvicinarsi a loro fino al punto di penetrarli [che scambiano cioè l'astrazione generica per la specifica], questi metafisici hanno a loro volta ragione di dire

4 K. MARX, OFG, 312: « L'intera natura gli [a Hegel] ripete così soltanto, in una forma sensibile, esteriore, le astrazioni logiche. Così ad es. il tempo è uguale alla negatività che si rapporta a se stessa. Al divenire superato nell'esistenza corrisponde, nella forma naturale, il movimento superato nella materia. La luce è la forma naturale, è la riflessione in sé. Il corpo, come luna e cometa, è la forma naturale dell'opposizione [...]. La Terra è la forma naturale del fondamento logico, come unità negativa dell'opposizione ecc. ».

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che le cose di quaggiù sono' dei ricami, di cui le categorìe logiche formano l'ordito. Ecco ciò che distingue il filosofo dal cristiano. Il cristiano non ha che una sola incarnazione del Logos, a dispetto della logica; il filosofo non la finisce più con le incarnazioni. Che tutto ciò che esiste, che tutto ciò che vive sulla terra e sotto le acque possa, a forza di astrazione, essere ridotto a una categoria logica; che a questo modo l'intiero mondo reale possa dissolversi nel mondo delle astrazioni, nel mondo delle categorie logiche » non è sorprendente. Anzi, « nello stesso modo in cui, a forza d'astrazione, abbiamo trasformato ogni cosa in categoria logica, così è sufficiente — continua Marx — fare astrazione da ogni carattere distintivo dei diferenti movimenti per arrivare al movimento allo stato astratto, al movimento puramente formale, alla formula puramente logica del movimento. Se nelle categorie logiche si trova la sostanza di ogni cosa, si può ben immaginare di trovare nella formula logica del movimento il metodo assoluto che non solo spiega ogni cosa, ma che implica anche il movimento della cosa. Si tratta appunto di quel metodo assoluto di cui parla Hegel nei termini seguenti: ' il metodo è la forza assoluta, unica, suprema, infinita, alla quale nessun oggetto potrebbe resistere; è la tendenza della ragione a ritrovarsi, a riconoscersi come se stessa in ogni cosa ' {Logica, III). Essendo ogni cosa ridotta a una categoria logica, ed ogni movimento, ogni atto di produzione, al metodo, ne segue naturalmente che ogni complesso di prodotti e di produzione, di oggetti e di movimento, si riduce ad una metafisica applicata. Ciò che Hegel ha fatto per la religione, il diritto ecc. [...] E allora — conclude Marx— che cosa è dunque questo metodo assoluto? L'astrazione del movimento. Che cosa è l'astrazione del movimento? Il movimento in astratto. Che cosa è il movimento in astratto? La formula puramente logica del movimento, ovvero il movimento della ragione pura »5, « il mistificato mobile del pensiero astratto ».

Limitiamoci per ora a segnalare il senso conclusivo di questo discorso: cioè che salire oltre la specificità delle leggi scientifiche e metter capo a presunte leggi " generali " (generiche), o filosofiche, in tanto è possibile, in quanto si neghi ogni collegamento del

5 K. MARX, Miseria della filosofia, Roma 1949, pp. 86-7. Per lo più cors. mio.

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pensiero col mondo oggettivo e, in quanto si sostituisca cioè i; rapporto ragione-esperienza con il rapporto ragione-ragione; onde qui si rivela in Hegel non già una contraddizione tra metodo e sistema ma una loro stretta complementarità, una reciproca implicazione di " metodo assoluto " o generico e di idealismo filosofico. E passiamo piuttosto —prima di concludere l'analisi del rapporto senso-intelletto — all'esame di uno dei punti nevralgici del pensiero di Hegel, cioè a quella critica della filosofia di Kant che non solo è uno dei principali fili conduttori della sua opera (un filo che, se integrato col discorso sulle prove dell'esistenza di Dio, basterebbe da solo a ricostruire gran parte della Logica), ma che è oltretutto uno dei luoghi più interessanti per chiarire la " situazione " della filosofia di Hegel entro la storia del pensiero.

b) Hegel e Kant

Nella storiografia filosofica di indirizzo hegeliano, il rapporto Kant-Hegel è generalmente presentato (esempio classico da noi: La riforma della dialettica hegeliana di G. Gentile) come se l'idealismo di Hegel costituisse 1' " inveramento " della filosofia kantiana e la sua liberazione, a un tempo, sia dal caput mortuum della " cosa in sé ", quindi dall'agnosticismo, dai limiti posti all'esercizio della ragione, dal formalismo e fenomenismo, sia dal " residuo " realistico o materialistico da cui sarebbe ancora " impacciata " la Critica della ragion pura. L'ambiguità e l'abilità di questa interpretazione, di cui il primo autore è Hegel stesso, consiste nel presentare come un'unica e identica operazione il superamento dell'agnosticismo e del realismo, come se proprio il " residuo " materialistico fosse la causa e l'origine del " soggettivismo " kantiano. Kant — si dice — ha posto dei limiti al pensiero, ha abbassato il potere della ragione, ha postulato un inconoscibile, in quanto non ha condotto fino in fondo la " rivoluzione copernicana ", in quanto cioè ha visto sì che gli oggetti si " regolano " sui concetti e non questi su quelli, ma si è rifiutato poi di trarne le ultime conclusioni. Così, mentre

B K. MARX, OFG, 309: « Si tratta, quindi, di forme d'astrazione generali, astratte, concernenti qualunque contenuto, e però tanto indifferenti ad ogni contenuto che valide per ogni contenuto, forme di pensiero, categorie logiche staccate dallo spirito reale e dalla natura reale ».

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il primo assunto implicava l'idealismo, ossia l'affermazione che gli oggetti sono interamente prodotti e generati dal pensiero, Kant ha invece considerato l'oggetto, il fenomeno, come un dato, come qualcosa che il pensiero deve " trovare " e non produrre. A differenza dell'intuitus orìginarìus, che possiamo secondo Kant ipotizzare solo nella divinità e per la quale intuire l'oggetto sarebbe produrlo e quindi l'intuizione sarebbe già spontaneità, intuizione intellettuale, — il modo di intuire invece dell'uomo, che è un essere « dipendente e rispetto alla sua esistenza e rispetto alla sua intuizione (la sua esistenza è determinata in rapporto a oggetti dati) », non può essere — egli dice — che una forma di intuitus derivativus, cioè condizionato dalla presenza o darsi dell'oggetto e quindi un modo che presuppone la distinzione fondamentale nell'uomo di passività e spontaneità, di senso e intelletto 7.

Il principale risultato di questa interpretazione, dicevamo, è stato che, congiungendo o meglio confondendo i due problemi, l'idealismo ha ottenuto di presentare come condizione indispensabile per riaffermare la piena " indipendenza " dell'attività spirituale umana, la sua potenza " creatrice " e " infinita " contro i limiti segnati dalla Critica all'uso della ragione, proprio l'abbandono di quella distinzione tra sensibilità e intelletto, tra essere e pensiero, che è il tema critico fondamentale della filosofia kantiana; tema che si annuncia fin dalle prime pagine della Critica nella forte polemica contro Leibniz. « L'idea che tutta la nostra sensibilità non sia altro che una rappresentazione confusa delle cose, la quale contenga unicamente ciò che appartiene ad esse in se stesse, ma solo in un ammasso di note e di rappresentazioni parziali, che noi non distinguiamo con la coscienza, è — dice Kant — una falsificazione del concetto di sensibilità e di fenomeno, che ne rende tutta la dottrina inutile e vana » perché considera come « puramente logica la differenza tra senso e intelletto, laddove essa invece è manifestatamente trascendentale e non riguarda semplicemente la forma della chiarezza o non chiarezza, ma l'origine e il contenuto di essi ». « La filosofia di Leibniz e Wolff dunque ha assegnato — egli continua — a tutte le sue ricerche sulla natura e sull'origine delle nostre conoscenze un punto di vista affatto erroneo » 8, in quanto ha 7 I. KANT, Critica della ragion pura, trad. di G. Gentile e G. Lombardo Radice, Bari 1924, I, p. 90. s Ivi, p. 83.

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posto tra senso e intelletto, essere e pensiero, una semplice differenza di grado, cioè una differenza logica, quantitativa, formale, anziché qualitativa o trascendentale: come se il senso non fosse altro che l'intelletto stesso, solo oscuro e confuso; come, cioè, se il reale non fosse altro che l'Idea medesima così com'è " nel mondo " o implicitamente.

Nella nota conclusiva Agl'Analitica dei princìpi * la critica è ulteriormente precisata in questi termini: « il celebre Leibniz costruì — dice Kant — un sistema intellettuale del mondo, ossia credette di conoscere addirittura l'interna natura delle cose, confrontando tutti gli oggetti solo con l'intelletto e con i concetti formali astratti del suo pensiero [...]. Egli confrontò tutte le cose fra di loro semplicemente mediante concetti, e trovò, com'era naturale, che non c'erano differenze, tranne quelle per cui l'intelletto distingue l'uno dall'altro i suoi concetti puri [...]. In una parola: Leibniz intellettualizzò i fenomeni, [...] confrontò fra loro semplicemente nell'intelletto gli oggetti dei sensi come cose in generale », perché « non ammetteva per la sensibilità un modo proprio d'intuizione, ma ogni rappresentazione, anche empirica, degli oggetti, la cercava nell'intelletto e ai sensi non lasciava se non il vile ufficio di confondere e deformare le rappresentazioni di quello ». Pertanto « grande errore della scuola leibniziano-wolffiana, conclude Kant, fu quello di far consistere la sensibilità soltanto nelle rappresentazioni indistinte, e Vintellettualità nelle distinte [...] laddove la sensibilità è qualcosa di molto positivo e un'aggiunta indispensabile all'intelletto per darci una conoscenza. Leibniz è il vero colpevole, poiché egli, fedele alla scuola platonica, ammetteva delle intuizioni intellettuali innate e pure, dette idee, le quali sarebbero nell'animo umano ora soltanto oscurate, e che analizzate e illuminate con l'attenzione ci darebbero la conoscenza degli oggetti come sono in se stessi » 10.

Tre questioni giova qui attentamente sottolineare. La concezione negativa o platonica della materia per cui il sensibile ha la sua sostanza, la sua radice nelP " altro " da sé, nell'intelletto, e per l'aspetto, invece, in cui è propriamente se stesso, senso, è un'irrealtà, una parvenza che ha solo il vile ufficio di confondere e oscurare l'idea: donde l'interpretazione del sen-

9 Ivi, pp. 261 sgg. E cfr. anche G. DELLA VOLPE, Logica cit., pp. 4 sgg. 10 I. KANT, Antropologia prammatica, trad. di G. Vidari, Torino 1921,

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sibile come " involucro " dell'Assoluto, come veste essoterica dello Spirito, o modo d'essere " implicito " dell'idea; alla quale, contro una tradizione millenaria di platonismo, Kant oppone una concezione positiva della materia. Secondo: la riduzione delle differenze reali o qualitative a differenze logiche o del pensiero, onde il confronto delle cose tra loro, e del pensiero con le cose, si identifica — per l'intellettualizzazione di queste — con un confronto entro il pensiero (Leibniz — dice Kant — « confrontò fra loro semplicemente nell'intelletto gli oggetti dei sensi come cose in generale »). E, infine, il carattere meramente esplicativo o di analisi apriori che viene ad assumere così la conoscenza, la quale — avendo per oggetto un sensibile che è di natura identica all'intelletto e diverso da questo solo per la forma, solo cioè perché oscuro e confuso — non può non assumere l'andamento di un processo di mera esplicazione dell'implicito, ossia di chiarificazione formale di ciò che prima era indistinto; processo che si compie scartando appunto l'elemento sensibile e mettendo a nudo il concetto ad esso sotteso: come osserva precisamente Kant allorché dice che, secondo Leibniz, il fenomeno, « nel suo solito difetto d'analisi, porta nel concetto della cosa certa mescolanza di rappresentazioni accessorie che l'intelletto poi sa eliminare »: donde una concezione della materia come elemento da negare, alla quale si contrappone invece — da parte della Critica — la tesi della sensibilità come « un'aggiunta indispensabile all'intelletto per darci una conoscenza ».

Proprio su questa fondamentale affermazione si basa e fa perno tutta la critica kantiana alla vecchia logica dei giudizi analitici a priori, — che sono quei giudizi nei quali « la connessione del predicato col soggetto vien pensata per l'identità loro » e che possiamo quindi chiamare, dice Kant, esplicativi poiché « per mezzo del predicato nulla aggiungono al concetto del soggetto, ma solo dividono con l'analisi il concetto nei suoi concetti parziali che erano in esso già pensati (sebbene confusamente) » {Critica, 45). Le conoscenze ottenute per via di questo metodo e, in generale, dalla metafisica — nota Kant — possono essere apprezzate come nozioni nuove ma " solo per la forma ", giacché « per la loro materia e per il loro contenuto, non allargano punto i concetti che già possediamo, ma soltanto li estraggono l'uno dall'altro » {ivi, 44). Identici nella sostanza, soggetto e predicato, vi si distinguono solo per la chiarezza della forma, sono cioè solo formalmente distinti, solo formalmente due: di

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fatto l'uno è già implicito nell'altro. Di qui il carattere improduttivo di questa conoscenza, dove nulla si aggiunge di nuovo a ciò che " già " si sa, e dove tutto consiste anzi in un processo con cui si recupera, cioè si richiama alla coscienza, si esplicita, si ricorda (l'anamnesi platonica!) un sapere innato e presupposto. Di qui il suo dogmatismo, l'assunzione cioè di un contenuto del sapere già bell'e pronto, ovvero di « conoscenze che si posseggono non si sa donde e sul credito di princìpi di cui non si conosce l'origine ». E di qui, infine, l'impossibilità stessa di impostare una critica della conoscenza, per cui — « senza che sia stata scrutata piuttosto da un pezzo la questione del come possa l'intelletto giungere a tutte queste conoscenze [...], e quale estensione, quale validità, qual valore esse possono avere » (ivi, 42), senza che si abbia la forza di impostare il problema decisivo: ossia come sono possibili giudizi sintetici e a un tempo necessari, cioè giudizi scientifici, e, quindi, una matematica pura, una fisica pura — si accolgono invece, dice Kant, nuovi concetti « senza che si sappia come vi si giunga e senza lasciarsi nemmeno venire in pensiero una tale questione ».

Distinzione dunque reale e non formale di essere e pensiero, di senso e intelletto, per cui si riconosce, come afferma la Critica, che « si danno due tronchi dell'umana conoscenza », due fonti principali di ogni nostro sapere, « la prima delle quali è la facoltà di ricevere le rappresentazioni (la recettività delle impressioni), la seconda quella di conoscere un oggetto mediante queste rappresentazioni (spontaneità dei concetti) »: onde, mentre « per la prima un oggetto ci è dato, per la seconda esso è pensato in rapporto con quella rappresentazione ».

Lasciamo stare tutte le scorie psicologistiche (tipo: teoria delle " facoltà ") di cui si carica questo discorso entro la Critica e stringiamo, piuttosto, ciò che di vivo ed interessante esso può ancora offrirci oggi, nel quadro di una problematica storico-razionale profondamente mutata. È chiaro intanto che se senso e intelletto — pur non potendo scambiarsi le loro funzioni, né confondere le loro parti — debbono concorrere entrambi alla formazione della nostra conoscenza, essi non possono non trovarsi in un rapporto di complementarità. Come, infatti, « concetti senza che a loro corrisponda in qualche modo un'in-tuizione », cioè un fenomeno, una rappresentazione sensibile del-l'oggetto, non possono darci — dice Kant — alcuna conoscenza: « giacché senza intuizione ad ogni nostra conoscenza manca l'og-

4. Colletti 49

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getto, ed essa allora rimane affatto vuota », cioè priva di uso e di applicazione, o in una parola: inesistente; così, d'altro canto, « intuizioni senza concetti sono cieche », e « senza intelletto nessun oggetto è pensato ». « È quindi necessario — egli conclude — tanto rendersi i concetti sensibili (cioè aggiungervi l'oggetto nell'intuizione), quanto rendersi intelligibili le intuizioni (cioè ridurle sotto concetti) », giacché « l'intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare » e « la conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione » II.

Tuttavia, se da questo punto di vista i due termini, in quanto complementari, non possono stare l'uno senza l'altro ma implicano entrambi la relazione che con pari diritto concorrono a formare (per cui Kant dice che « nessuna di queste due facoltà è da anteporre all'altra »), — diverso è il modo in cui ciascun termine esercita il proprio condizionamento sull'altro. Nel senso che, mentre senza l'oggetto o dato sensibile non vi è, cioè addirittura non esiste pensiero, conoscenza; senza intelletto, invece, il sensibile è bensì cieco, ossia non conosciuto, ma non per questo anche inesistente. « Tanto nell'ordinaria rappresentazione psicologica, quanto anche nella filosofia trascendentale kantiana », osserva Hegel, il rapporto pensiero-essere « si piglia nel senso che la materia empirica, il molteplice dell'intuizione e della rappresentazione, esista anzitutto per sé, e che poi l'intelletto vi si accosti [...] come una forma per sé vuota che acquista realtà solo per mezzo di quel contenuto dato » (III, 23). Malgrado il tono sprezzante, l'osservazione è esatta. La concezione kantiana del sensibile è positiva proprio perché considera la materia empirica come per sé stante, cioè come (relativamente) indipendente 12. Proprio per questo, del resto, essa permette — come abbiamo visto — di impostare il problema critico della formazione del concetto, cioè della genesi della conoscenza, e quindi di anticipare, sia pure in embrione, una concezione della filosofia genetico-critica. Ciò presuppone appunto che le condizioni che fanno essere la conoscenza non siano eguali alle condizioni per cui una cosa è conosciuta. Se, come dice Kant, « anche senza funzioni dell'intelletto possono benissimo esserci dati fenomeni nell'intuizione » {Critica, 123), ciò può accadere solo in quanto le condizioni perché vi sia (oggetto della) conoscenza (e, quindi, 11 I. KANT, Crìtica della ragion pura cit., p_p. 91-2. 13 II seguito dell'esposizione mostrerà che questa espressione " relativamente indipendente " non è un sotterfugio verbale.

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l'origine di questa) non sono eguali alle condizioni interne al pensiero, alle condizioni per cui si conosce. A differenza che in Hegel, qui ratio essendi e ratio cognoscendi non coincidono: tant'è vero — ripetiamo — che mentre il pensiero non è condizione perché esista l'oggetto ma solo perché esso sia conosciuto, l'oggetto al contrario è condizione perché il pensiero acquisti realtà, perché vi sia cioè conoscenza. Ciò non vuol dire evidentemente che condizionante sia qui solo il reale, il sensibile, e che si annulli così la complementarità di poc'anzi. In quanto consideriamo, infatti, la conoscenza non più sotto il profilo della sua origine ma già nel suo realizzarsi (e ci collochiamo, quindi, dal punto di vista della mente che conosce), è chiaro che il sensibile vi sta come un pensato, come un contenuto di pensiero, ed è fin troppo ovvio che l'oggetto conosciuto, in quanto tale, è un risultato, un prodotto che ha come causa il pensiero. Che « la totalità concreta — dice Marx — come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero [Gedankenkonkretum'] » sia « in fact un prodotto del pensare, del comprendere » e che « l'insieme, il tutto, come appare nel cervello quale un tutto del pensiero [Gedctnken ganze s~\ » sia « un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile » — è esatto. E da questo punto di vista è chiaro che il sensibile — il quale prima era condizione, causa dell'esserci del pensiero — si presenta ora — in quanto è conosciuto e perciò contenuto nel pensiero — come un suo prodotto, cioè come un effetto del suo effetto: e inversamente il pensiero come causa della sua causa. Il concreto, in altri termini, « appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione ». Senonché, individuate queste due relazioni di cui l'una segna il processo al conoscere (quindi dal concreto all'astratto) e l'altra il processo del conoscere (dall'astratto al concreto), tutto sta poi a veder bene che l'oggetto, in quanto è pensato, è bensì « un prodotto del pensare, del comprendere, ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell'intuizione e della rappresentazione, bensì dell'elaborazione in concetti dell'intuizione e della rappresentazione [Ve-rarbeitung von Anschauung und Vorstellung in Begriffe] ». « Il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indi-pendenza fuori della mente », onde « anche nel metodo teorico

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— dice Marx — il soggetto deve essere sempre presente alla mente come presupposto ». Altrimenti, se non si vede questo, se si scambia cioè ratio essendi e ratio cognoscendi, si ripete sempre l'errore di Hegel che « cadde nell'illusione di concepire il reale come risultato del pensiero che, partendo da se stesso, si riassume e si approfondisce in se stesso, mentre — ribadisce Marx — il metodo di risalire dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso » '3.

Riepiloghiamo. Sensibilità e intelletto, dunque, come termini complementari e aventi pari diritto, di cui l'uno non può stare (nella conoscenza) senza l'altro: complementari, cioè relazionati, epperò al tempo stesso distinti, realmente distinti l'uno dall'altro. In quanto " contenuto ", il sensibile è parte, determinazione— abbiamo visto — della totalità concreta del pensiero; d'altro canto, in quanto quest'ultimo ha la sua ragion d'essere, il suo fondamento nel darsi dell'oggetto, senza il quale non vi è nozione determinata, cioè addirittura non esiste, non è attuale il pensiero, — ciascun termine ci si presenta al tempo stesso come unità e parte. Come unità, perché è insieme se stesso e l'altro, ossia la totalità della relazione; come parte, perché, al tempo medesimo, è anche solo un aspetto, un lato di questa relazione, e per di più un lato distinto, che ha cioè l'altro fuori di sé.

È evidente però la differenza. Mentre nel primo caso, infatti, (quando cioè il sensibile è " contenuto "), la totalità di cui parliamo è quel determinato totum ch'è la conoscenza; nel secondo caso (quando cioè diciamo che il pensiero è parte), la totalità che intendiamo non è più solo quell'intero ch'è la conoscenza, ma la relazione tra la conoscenza o il sapere da un lato e ciò che vi è di diverso oltre il sapere dall'altro, cioè quella totalità oggettiva in cui si iscrive il processo medesimo del conoscere in quanto è esso stesso evento reale. Ciò vuol dire, in altre parole, che la materia, mentre per un verso è un coelemento ch'entra a formare la sintesi insieme al pensiero, ed è per quest'aspetto, quindi, ciò che sta di fronte o si oppone al pensiero con cui divide, a condizioni pari, uno stesso diritto;

13 K. MARX, Introduzione [del '57] alla critica dell'economia -politica, Roma 1954, pp. 38-9.

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per un altro, è invece la base o quel fondamento che è comprensivo dell'intera relazione. Inversamente, il pensiero, mentre per un lato è ciò che si oppone alla materia, quindi un non-ente (Unding), una negazione dell'esistente, e accampa perciò di fronte ad essa pari diritto in quanto equivalente, cioè di pari potenza della materia; per un altro è non già negazione dell'esistenza, ma esso stesso una forma d'esistenza, non già un opposto dell'essere ma esso stesso un modo d'essere. Ragionamento che possiamo ulteriormente condensare nelle due affermazioni: 1) dell'oggettività o esteriorità del reale e 2) dell'inerenza del pensiero, cioè del " nostro " punto di vista, alla realtà stessa. Il che implica e significa, a sua volta, sia l'unità delle forme del pensiero con quelle dell'essere, cioè che il pensiero può in via di principio penetrare tutta la realtà perché infinito al pari di essa; sia Vinesauribilità del reale da parte del pensiero: che è quanto afferma ogni gnoseologia materialistica da Aristotele a Lenin, quando riconosce che il pensiero è bensì in potenza infinito, ma sempre rivolto in atto al particolare, sempre cioè determinato o definito.

Spetterà al corso ulteriore di questo scritto chiarire e sviluppare il nesso qui appena sfiorato; provare, come solo questa concezione del rapporto pensiero-essere consenta di spiegare il nesso scienza-società, logica-storia; e mostrare, infine, come, quando non si compia quest'analisi, non si avanzi d'un passo nella comprensione di Marx. Per ora ci preme di riprendere il discorso su Kant.

È chiaro, intanto, che se gli ultimi sviluppi da noi accennati esorbitano dal quadro della Critica della ragion pura, non estranea anzi centrale in questa è la base teorica da cui essi procedono, l'individuazione cioè del duplice rapporto di ratio essendi e ratio cognoscendi, il riconoscimento ossia — come dirà Marx — che « pensiero ed essere sono, dunque, certamente distinti, ma a un tempo uniti l'uno all'altro » (OFG, 261). Proprio qui, infatti, è il nodo intorno a cui s'arrovella tra aspre contraddizioni l'indagine kantiana; il nodo da cui è mossa, del resto, anche la nostra analisi di Hegel, quando al fondo del suo discorso sul rapporto finito-infinito ci è parso di riconoscere il " sospetto ", il tentativo di concepire il finito a un tempo come origine e risultato, come immediato e mediato, e l'infinito — al-l'inverso— insieme come mediazione e immediatezza: l'uomo, dunque, come soggetto-oggetto soggettivo e la natura come og-

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getto-soggetto oggettivo. Solo che, mentre con Hegel questo tentativo si compie ipostatizzando il pensiero, la negatività, e perciò trascendendo le distinzioni finite e reali, che scadono quindi a mera parvenza; mentre con lui constatiamo, in sostanza, che la distinzione è elisa (si ricordi la collisione del molteplice) o meglio elusa a vantaggio dell'unità, onde questa risulta poi un a priori falsamente mobile e quella un'empiria restaurata surrettiziamente o tramite un positivismo acritico, — diverso è il discorso da fare ora per Kant, dove si presenta il momento, semmai, opposto e cioè lo scadere della distinzione a separazione dualistica tra essere e pensiero.

Diciamo subito, contro l'interpretazione idealistica poc'anzi ac-cennata, che questa separazione non si produce per effetto della presenza nella Critica di un aspetto materialista, quanto al contrario per il fatto che esso — se non addirittura come " residuo " — vi opera tuttavia in modo non pieno, non conseguente, in forma anchilosata. La concezione positiva del sensibile, in altre parole, non può non risultare profondamente insidiata ove si consideri che questa positività, per cui la materia empirica deve esistere anzitutto " per sé ", è la positività di un fenomeno. Vero è che il fenomeno kantiano è dopotutto il feno-meno di cui si occupa la fisica: apparenza e non parvenza, Erscheinung e non Schein; che — fatto significativo — questa di-stinzione, la quale è fondamentale in Kant, va invece interamente perduta in Hegel, ove tutto il mondo dei fenomeni reali scade a mera parvenza; che, proprio sulla base di questa distinzione, la Critica conduce la sua Confutazione dell'idealismo {ivi, I, 224-32) in cui si dà « una prova rigorosa — dice Kant — della realtà obiettiva dell'intuizione esterna ». E vero è altresì che, contro il tentativo idealistico di ricondurre l'esperienza sensibile a esperienza interna (tentativo che ha il suo coronamento — abbiamo visto — nella riduzione hegeliana di " ciò che è per esperienza " a " ciò che è nella coscienza in genere ", onde Dio, lo spirito, ecc. sarebbero anch'essi per esperienza), contro questo « scandalo per la filosofia e per il senso comune in generale » {ivi, 33) che è l'idealismo, Kant opera un vero e proprio capovolgimento di posizioni, affermando che la stessa « coscienza della mia esistenza nel tempo è legata con la coscienza di un rapporto a qualche cosa fuori di me », onde il mio stesso sentire interno è subordinato al fatto che « io sono consapevole con

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tanta certezza che fuori di me esistono cose che vengono in rapporto con i miei sensi ».

Tuttavia, malgrado ciò, il fatto che il fenomeno sia solo un oggetto soggettivo ovvero un oggetto com'è per me, non può non implicare il passaggio alla tesi che esso in tanto è in quanto vien riferito alla coscienza, in quanto cioè io so di esso; tesi che imprime una profonda torsione alla Critica e che, in quanto tende a confondere di nuovo le condizioni interne al conoscere con le condizioni stesse dell'essere, non può evitare questo duplice risultato: e cioè che, per un verso, la distinzione tra i termini da cui deve risultare la sintesi, cioè la conoscenza, si trasferisca all'interno del soggetto, e che per un altro l'oggettività decada invece a noumeno. Prima — commenta Hegel — « l'antitesi si riferisce alla differenza degli elementi nella cerchia dell'esperienza »; poi « la filosofia critica allarga l'antitesi in modo che nella soggettività rientra la totalità dell'esperienza, cioè entrambi quegli elementi, e di fronte a questi non resta altro che la cosa in sé » (Enc, § 41).

Mentre da un lato le categorie dell'intelletto appaiono legate alla rappresentazione sensibile, « e per usare un'espressione secca e sbrigativa — dice Cassirer — sussistono soltanto in funzione di questa »; da un altro lato e per una differente accentuazione, invece, « esse risultano una componente necessaria dell'intuizione stessa, una componente, cioè, da cui certo si può astrarre momentaneamente per considerazioni di metodo, ma che peraltro, considerata oggettivamente, rappresenta una condizione positiva e ineliminabile, perché possa venir posto lo stesso ordinamento spaziale e temporale. Contro la posizione isolata ed eccezionale, che in un primo tempo la ' sensibilità ' aveva ottenuto nell'estetica trascendentale, tale conclusione viene ora espressamente accentuata e posta in rilievo nella logica trascendentale » ".

La sintesi di empiria e intelletto tende, in altre parole, a contrarsi in una sintesi delle forme dell'intelletto con le forme della sensibilità, dove la materia empirica è surrogata da una materia... trascendentale, la molteplicità reale da una molteplicità pura o formale. Il problema dell'esperienza effettuale si trasforma così nel problema tipicamente kantiano dell'esperienza

" E. CASSIRER, Storia JHla filosofia moderna, Torino 1953, II, p. 753 (cors. mio).

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possibile ". E mentre prima era l'elemento sensibile che non solo si poneva come anteriore e fondamentale ma come positivo e quindi indipendente, ora il rapporto si capovolge: nel senso che sono le intuizioni e le categorie, senso e intelletto, che costituiscono « differenti sviluppi ed espressioni della forma fondamentale rappresentata dalla funzione unitaria della sintesi ». « La con-trapposizione tra le forme della sensibilità e quelle dell'intelletto sembra sempre più svanire. La sensibilità non significa ormai più un potere puramente ' ricettivo ', ma acquista invece una propria attività spontanea. La distinzione può compiersi ora solo entro i limiti del comune concetto superiore di sintesi; sin dal principio dunque sussiste un'unità sovraordinata, che abbraccia i due termini dell'antitesi e determina la loro posizione reciproca. In tal modo però sembrano nuovamente ripresentarsi tutti i pericoli metafisici cui aveva voluto ovviare la Dissertazione. I confini tra mondo sensibile e mondo intelligibile sembrano di nuovo confondersi, e i modi aprioristici di conoscenza sembrano ancora poter oltrepassare, quali facoltà spirituali spontanee, ogni limite del materiale empirico ' dato ' » 10.

15 I. KANT, Critica della ragion pura cit., p. 140: « L'intuizione sensibile o è intuizione pura (spazio e tempo), o intuizione empirica di ciò che vien rappresentato, per mezzo della sensazione, immediatamente come reale nello spazio e nel tempo. Per la determinazione della prima noi possiamo ottenere conoscenze a priori di oggetti (nella matematica), ma solo rispetto alla forma di essi come fenomeni; se poi ci possano essere cose che si debbano intuire in questa forma, è ciò che rimane tuttavia indeciso. Per conseguenza, tutti * concetti matematici non sono per sé conoscenze, se non in quanto si presuppone che ci sieno cose, che si possono rappresentare solo conformemente alla forma di quella pura intuizione sensibile. Ma le cose nello spazio e nel tempo sono date solo in quanto percezioni (rappresentazioni accompagnate da sensazione), e perciò per rappresentazione empirica. Quindi i concetti puri dell'intelletto, anche se applicati ad intuizioni a priori (come nella matematica), creano conoscenze solo in quanto queste — e però anche per mezzo di esse i concetti dell'intelletto — possono essere applicabili a intuizioni empiriche. Di guisa che le categorie mediante l'intuizione non ci danno ancora nessuna conoscenza delle cose, se non soltanto per la loro possibile applicazione a un'intuizione empirica, esse cioè servono solo alla possibilità della conoscenza empirica. Ma questa si chiama esperienza » (cors. per lo più mio).

Qui la conoscenza è solo e sempre conoscenza con contenuto empirico. Meglio: conoscenza si dà solo dell'empiria. L'esperienza è solo esperienza effettuale. Invece, nella nota 1 di p. 150, come del resto altrove, « la sintesi dell'apprensione che è empirica », è dichiarata tale che « deve essere necessariamente conforme alla sintesi dell'appercezione, che è intellettuale e contenuta nella categoria affatto a priori ». Cioè, mentre sopra l'intelletto, il conoscere, gravitava tutto intorno al dato empirico o sensibile, qui — invece — la sintesi di questo, l'esperienza reale, è ricondotta nel quadro dell'esperienza possibile che ne diviene così il fondamento.

18 E. CASSIRER, Storia cit., pp. 742 e 751.

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L'unità fondamentale, quella cioè che sostiene l'intera relazione di cui consta il sapere, non è più la materia, il sostrato reale, ma l'ipostasi della mente o " Appercezione pura ", ossia il pensiero come unità che è appunto sovraoràinata alla relazione tra le categorie e il sensibile, e che quindi non è più solo in funzione di questo, non si esaurisce interamente in questo rapporto, bensì è anche oltre e al di là di esso. Si intende, a questo punto, la distinzione kantiana tra " pensare " e " conoscere ", tra denken e erkennen, e perché la nuova logica trascen-dentale, la logica cioè del concetto come funzione dell'esperienza, risulti ancora inclusa entro l'orizzonte della vecchia logica formale.

Rimane naturalmente — vera pietra miliare — la critica kantiana dell'uso dogmatico di questa logica, « la quale è semplicemente un canone » e viene impiegata invece dalla metafisica — egli dice — « come organo di effettiva produzione, o almeno d'illusione di affermazioni oggettive ». Si rompe, cioè, la vecchia tradizione speculativa per la quale — valendo il concetto immediatamente come sostanza del reale — la coerenza dell'intelletto con sé vale ipso facto anche come coerenza con l'oggetto o essere sensibile: la semplice non-contraddizione di concetti o coerenza formale, come non-contraddizione del pensiero con l'oggetto reale. Cade, quindi, il vecchio connubio per cui la logica dell'astratto era già ontologia, la scienza del pensiero formale come tale già scienza della realtà. E contro questo si afferma che « nessuno, col semplice aiuto della logica, può giudicare od affermare checchessia degli oggetti senza aver prima raccolto, al di là della logica, una fondata informazione intorno ad essi » (ivi, 98); si ribadisce, cioè, la grande scoperta critica che « nessun concetto per il suo contenuto può nascere analiticamente » (deduttivamente). Ma resta pur sempre — e sia pure come mero canone o tecnica della ragione — l'interpretazione del principio di non-contraddizione come semplice principium rationis, cioè come principio di coerenza della ragione con sé: contro il profondo senso aristotelico originario per cui esso è principio, invece, di congruenza del pensiero con l'essere reale e per cui, dice Aristotele, « è nel vero colui che pensa esser diviso ciò eh'è diviso, e composto ciò ch'è composto; è nel falso, invece, chi pensa altrimenti di come stanno le cose », onde « non perché noi ti reputiamo bianco, tu sei bianco davvero, ma, all'incontro, perché tu sei bianco,.

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pensiamo il vero noi che ti diciamo tale » (Metaphys., 1051 b)1T. L'accordo del pensiero con sé, la coerenza della forma, resta

condizione preliminare, per cui — pur riconoscendosi sempre che « la logica non ha pietra di paragone con cui possa scoprire l'errore che tocchi non la forma, ma il contenuto » — resta stabilito, tuttavia, che « il criterio semplicemente logico della verità, cioè l'accordo di una conoscenza con le leggi generali e formali dell'intelletto e della ragione, è una conditio sine qua non » e, quindi, almeno « la condizione negativa di ogni verità » (ivi, 97). Questo, anzi, è il " punto più alto " a cui risulta sospeso tutto il mondo dell'esperienza: il riferimento puro dell'intelletto a sé, — atto « del quale egli è cosciente — dice Kant — anche senza sensibilità » (p. 144, cors. mio). Il pensiero, cioè, non si costituisce nel e per il riferimento all'esperienza, ma risulta anticipato, ossia apriori, rispetto ad essa. La sua coerenza non si r.z2?àzz& nella propria non-contraddittorietà o congruenza col fatto, onde si dovrebbe poi concludere che assurda e contraddittoria è ogni negazione " platonica " del sensibile; ma si costituisce " anche senza sensibilità ", cioè come una non-contraddittorietà che può sussistere pur prescindendo dal fatto18. L'oggettività, la validità universale dell'esperienza, anziché prodursi nella mediazione reale di ragione e fatto, risulta prestabilita nella e dalla forma e si aggiunge quindi all'empiria solo dal di fuori.

Consideriamo infatti la differenza tra giudizi percettivi (Wahr-nehmungsurteile) e giudizi d'esperienza (Erfahrungsurteile), trattata da Kant nei paragrafi 18-19-20 dei Prolegomeni. Percettivi, egli dice, io chiamo quei giudizi che « esprimono solo il rapporto di due sensazioni con lo stesso soggetto, con me, ed

17 E si veda come il principio passa in Feuerbach (Princìpi cit., p. 131): « Le cose non possono essere pensate in altro modo che in quello in cui si presentano nella realtà. Quello che è distinto nella realtà, non può essere identico nel pensiero [...]. La verità è che le leggi della realtà sono anche le leggi del pensiero ».

18 G. DELLA VOLPE, Logica cit., p. 159: « La ragione di ciò [ossia della tesi humiana e kantiana della non-contraddittorietà e non assurdità della negazione del 'fatto'] è che [...] Hume e Kant intendono ancora per non-contraddizione la formulazione parmenidea e scolastica e insomma razionalistica dell'originale istanza aristotelica anti-parmenidea, formulazione che concerne le 'verità di ragione' (non le verità di fattoi) e ch'è ap punto la riduzione della non-contraddizione puramente a principium rationis o principio di un'astratta ragione analitica (processo deformativo iniziatosi, s'intende, con lo stesso Aristotele, e cioè con l'Aristotele platonizzante e greco le cui forme intellettuali sono rigide e statiche e discrete in quanto sono specie-essenze ossia forme ontologiche o metafisiche) ».

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anche solo così come esso si costituisce nel mio presente stato rappresentativo »; quei giudizi che, « quindi, non valgono dell'oggetto ». « Tutt'altra cosa sono i giudizi d'esperienza. Ciò che l'esperienza mi insegna in certe circostanze, essa deve insegnarlo sempre a me e ad ogni altro e la validità sua non si limita al soggetto od al suo stato del momento. Quindi io esprimo tutti questi giudizi come obiettivamente validi. Così, per es., quando io dico: l'aria è elastica, questo giudizio è prima solo un giudizio percettivo, pel quale due sensazioni dei miei sensi vengono collegate l'una con l'altra. Se io voglio che sia un giudizio d'esperienza, io esigo che questo collegamento sia sottoposto ad una condizione che lo renda universalmente valido. Io voglio cioè che e io in ogni tempo ed ogni altro dobbiamo collegare, nelle stesse circostanze, le stesse percezioni in modo necessario » 19, e sono « i concetti intellettivi puri », conclude Kant, che « trasformano le percezioni in giudizi d'esperienza rivestendole di necessità e universalità ». Senonché questo collegamento diverso da cui debbono risultare " valore obiettivo e universalità necessaria per tutti " non si traduce — ecco il punto — in una diversa elaborazione del materiale di fatto, cioè nella scoperta di nessi oggettivi, nuovi e più profondi, rispetto a quelli offertici immediatamente dalla percezione. Bensì la " trasformazione " qui dipende solo dal fatto che quando diciamo: l'aria è elastica, nella copula del giudizio, nella " paroletta connettiva è " scocca (o meglio: si presume che scocchi) l'unità suprema dell'Appercezione, anziché una semplice unità empirico-soggettiva.

Il contenuto è rimasto lo stesso, solo la forma è diventata un'altra: la " trasformazione " è quindi invisibile. Essa è affidata ossia solo a una diversa prospettiva logica che non si traduce in una diversa prospettiva del contenuto ma che rimane un presupposto metafìsico e in fondo mistico. « Quando noi designamo uno stato di fatto come ' oggettivamente valido ' » — nota, e naturalmente consentendo, il neokantiano Cassirer — « non aggiungiamo con ciò a esso, dal punto di vista del contenuto, assolutamente nessun carattere nuovo, né arricchiamo per nulla la semplice materia della rappresentazione. L'elemento nuovo consiste soltanto nel differente atteggiamento formale del giudizio, per così dire nella nuova luce che questo stato di fatto riceve,

19 I. KANT, Prolegomeni ad ogni metafisica futura, trad. di P. Martinetti, Torino 1940, p. 98.

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quando cioè lo consideriamo come un simbolo di una connessione universalmente valida, e l'ordiniamo in tal modo in una differente categoria logica di valore. La tesi della validità oggettiva di una proposizione non implica quindi il riferimento a un qualcosa che si contrapponga alla conoscenza come un oggetto del tutto estraneo, ma si può porre unicamente secondo le condizioni del giudizio » 20, cioè secondo le condizioni semplicemente logiche o del pensiero.

Tocchiamo qui la reciproca implicazione di apriorismo e nou-menicità. Nel senso che, come il sensibile, l'oggetto che si riferisce al pensiero, non è un'oggettività piena, reale, e come ai concetti non riesce quindi di rendersi, attraverso questo contenuto dato, veramente sensibili, cioè di acquistare tramite esso un'effettiva, esteriore realtà; così, reciprocamente, il reale non trova nel concetto la sua intelligenza piena, cioè le categorie sono incapaci di essere determinazioni, aspetti dell'oggettività. La ragione non è funzione dell'oggetto materiale o reale, perché essa non ha a sua volta per funzione una vera oggettività, un'effettiva materia. E come l'oggetto non è l'espressione della mia esistenza, di un mio modo d'essere, di una mia determinazione, né quindi è tramite e relazione tra me e l'altro uomo; così il pensiero non arriva a esprimere leggi obiettive, cioè ad essere una relazione tra oggetti reali.

Qui la ragione profonda per cui Kant non riuscì ad aprirsi al mondo del divenire, a intendere ossia il nesso scienza-società, storia-scienza. La sua concezione del sensibile, positiva solo a metà (e, naturalmente, dietro e prima di questo, condizioni storico-reali che non è qui nostro compito richiamare), gli impedirono di vedere la mutua funzionalità e la reciproca coniugazione di ragione e esperienza, di teoria e pratica. Di capire, cioè, che se l'intelletto deve riferirsi a un sensibile che sia veramente tale, cioè per sé stante, oggettivo, ciò può accadere solo in quanto sia esso stesso l'attività di un soggetto naturale o oggettivo, e, quindi, un'attività sensibile o reale; solo in quanto cioè « l'elemento stesso del pensare, l'elemento della manifestazione vitale del pensiero, il linguaggio, è di natura sensibile » (Marx, OFG, 266).

L'oggettività (che nella prassi del sapere è il linguaggio ma nei lavoro sarà l'oggetto stesso) diventa così il mezzo, il medium, con cui riferisco una mia manifestazione di vita all'altro uomo,

20 E. CASSIRER, Storia cit., pp. 721-2, cors. mio.

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con cui cioè il pensiero mi integra nel mondo e entra quindi nella storia. Vale a dire, « il rapporto dell'uomo alla natura è immedia-tamente il suo rapporto all'altro uomo », quindi la scienza un rapporto storico-sociale. Inversamente, in quanto « il rapporto dell'uomo all'uomo è immediatamente il suo rapporto alla natura, la sua propria determinazione naturale » (OFG, 257), la vita, la società è essa stessa scienza, sperimentazione in atto. « Le peculiari forze sensibili essenziali all'uomo, in quanto hanno la loro oggettiva realizzazione soltanto in oggetti naturali, possono trovare — dice Marx — la loro autoconoscenza soltanto nella scienza dell'ente naturale in genere ». Ma, allora, « realtà sociale della natura [cioè vita associata] e scienza naturale umana, o scienza naturale dell'uomo », cioè scienza della società, sociologia, diverranno « espressioni identiche » (OFG, 266).

Nata, in altre parole, come riflessione intorno alla possibilità della scienza, la Critica non riesce a porsi essa stessa come scienza reale, ma rimane sospesa a mezz'aria tra fisica e metafisica, proprio perché non vede che quella relazione soggetto-oggetto, di cui consta la conoscenza, appartiene anch'essa all'oggettività. Perché non vede, insomma, che, come solo per la conoscenza dell'oggetto il mio sapere può essere " universalmente valido ", tale cioè da aprirmi alla comunicazione, al rapporto con gli altri; così solo nella società, cioè in rapporto agli uomini, posso verificare l'oggettività del mio sapere. Confermando questo nesso, ma solo a rovescio, il criticismo ci presenta invece, da un lato, un " Io puro " o " coscienza in genere " [das Bewusstsein iiberhaupt) che dovrebbe rappresentare la socialità o universalità dell'uomo ma come una qualità apriori, anticipata e presupposta al rapporto reale: quindi la natura sociale o umana dell'uomo come attributo presociale; e, da un altro, un'oggettività che scade a " cosa in sé ", cioè a inconoscibile. Contro tutta la vecchia metafisica, Kant ha visto la distinzione reale di essere e pensiero, ma senza cogliere poi la loro unità: la distinzione gli si trasforma quindi in separazione, il criticismo in un dualismo metafisico.

Risulta qui netto il grande avanzamento segnato da Hegel. Egli avverte, infatti, profondamente, il motivo della relazione, l'unità di pensiero ed essere, di coscienza e mondo; si apre quindi alla storia. La separazione tra essere e pensiero, egli dice, importa che la realtà sia già bell'e compiuta senza il pensiero, che essa " possa perfettamente fare a meno del pensiero " e, dunque, che il pensiero non appartenga al reale, ma sia qualcosa a

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sé, imperfetto e manchevole. Il processo della conoscenza, il movimento che compie il sapere, non vale per Kant — egli osserva — come una dimensione interna alla realtà, ma come un movimento a cui essa rimane esterna e indifferente. L'attività del conoscere gli si configura come un avvicinamento al reale che proceda da un punto, posto non si sa dove, ma comunque fuori di esso; come un'attività cioè che « sia estrinseca all'essere e non tocchi per nulla la sua propria natura » (II, 5). La conoscenza si riduce allora •—- dice la Fenomenologia — a un esame che « consiste nell'accostare alla cosa che viene esaminata una certa misura, per decidere, dalla resultante eguaglianza o ineguaglianza, se la cosa sia giusta o no » {Fen. I, 74). Ma, poiché la misura è la nostra misura e non anche quella della cosa, il metodo della conoscenza rimane un metodo meramente soggettivo. Esso non esprime il movimento dell'oggetto, ma solo il nostro modo di accostarci ad esso. E la logica, cioè il nostro discorso sul sapere, non riesce a divenire anche discorso sulla realtà. Qui ciò che noi affermiamo, dice Hegel, come essenza dell'oggetto in sé, non è già la sua verità, ma soltanto il nostro sapere di esso. « L'essenza o la misura » cadono « in noi, e ciò che alla misura dovrebbe venir comparato e intorno a cui in questo paragone si dovrebbe decidere », non è tenuto a riconoscerla necessariamente. Siamo, in altri termini, al dualismo: il movimento del nostro pensiero verso l'oggetto non si congiunge né si lega col movimento dell'oggetto stesso; e la cosa per noi, la cosa che ci appare, il fenomeno, risulta separata, divisa (e divisa in linea di principio) dalla cosa in sé, dal noumeno.

« La diversità della materia e della forma, dell'oggetto e del pensiero » non consente a Kant il loro accordo e quindi la verità, ma comporta anzi che ciascuna di codeste sfere risulti « tagliata fuori dell'altra »: il pensiero che dovrebbe ricevere la materia e formarla, « non giunge, nel suo uscire da sé, all'oggetto », non riesce cioè ad andare veramente oltre se stesso, a divenire il proprio altro; e l'oggetto, da parte sua, rimane una cosa in sé, un mero al di là del pensiero. Sfugge insomma a Kant — conclude Hegel — l'essenziale, e questo « sta nel far sì che durante l'intera ricerca entrambi i momenti, concetto e oggetto, esser-per-altro e esser-in-sé, cadano essi stessi nel sapere da noi indagato, e nel far sì che, quindi, noi non abbiamo bisogno di portar con noi altre misure e di applicare nel corso dell'indagine le nostre trovate e i nostri pensamenti; anzi, lasciandoli in di-

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sparte, noi otteniamo di considerare la cosa come essa è in sé •e per se stessa » {Feti., I, 75).

« Anche l'atto del soggetto — ribadisce Hegel — viene afferrato quale un momento essenziale della verità oggettiva » (I, 54). Anche il pensiero, cioè, non è esterno o estraneo all'oggettività, quasi che da un canto stesse il mondo e dall'altro il soggetto, il pensiero; bensì è nell'oggettività stessa. E, così, la conoscenza, il movimento intero del sapere: che non è un avvicinarsi alla realtà procedendo dall'esterno, ma l'intimo moto del reale stesso, il processo del mondo che si solleva alla coscienza di sé. Non vi è, quindi, da una parte la relazione del pensiero verso la cosa e poi, per suo conto, la natura stessa della cosa; da una parte il movimento verso l'oggetto e poi, per suo conto, la vita stessa dell'oggettività. Ma un'unica relazione in cui il rapporto di noi con l'oggetto cade entro la natura stessa dell'oggetto, in cui il processo del sapere cade entro il processo stesso del mondo. Lungi dall'esser formale, lungi dall'esser priva di quella materia che occorre a una conoscenza effettiva e vera, anche la logica ha un suo contenuto, anche la logica è scienza della realtà.

Si profila, a questo punto, il rovescio della medaglia nella polemica di Hegel contro Kant. Vero è infatti che egli individua perfettamente il dualismo, il " soggettivismo " di Kant; e che, contro la concezione della logica come solo formale, egli obietta che, a questo modo, la logica non può « dare altro che le condizioni formali di una vera conoscenza, non già contenere essa stessa una verità reale, e nemmeno esser soltanto la via per giungere a questa, appunto perché l'essenziale della verità, il contenuto, rimarrebbe fuori di essa » (I, 24). Senonché due cose vanno qui attentamente considerate: 1) l'omissione arbitraria del fatto che Kant avvia in qualche modo l'elaborazione di una logica nuova, la quale, a differenza di quella generale o formale, non « astrae da tutto il contenuto della conoscenza » né « aspetta quindi che le rappresentazioni le siano date don-dechessia per trasformarle in concetti », ma « al contrario, trova dinanzi a sé il molteplice della sensibilità » ecc. {Critica, 109-10). E 2) — fatto fondamentale, questo, se non si vuol sottoscrivere la polemica hegeliana contro il " formalismo " di Kant a occhi chiusi come sta facendo da vari decenni in qua gran parte della filosofia tradizionale e, in coda a lei, non pochi marxisti — che quando Hegel nega, contro Kant, il carattere solo formale della

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logica e afferma che « è fuor di proposito il dire che la logica astragga da ogni contenuto », ciò accade con la motivazione che se « la logica deve aver per oggetto il pensare e le regole del pensare », già in questo essa ha « il suo particolare contenuto »; già in questo « quel secondo elemento della conoscenza, una materia », di cui secondo Kant dovrebb'esser priva (I, 24). In altre parole, la logica è scienza reale perché non solo ha un contenuto ma addirittura « un contenuto che, solo, è l'assoluto Vero o, se si voglia ancora adoprare la parola materia, che, solo, è la vera materia, — un materia, però, cui la forma non è un che di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero, e quindi l'assoluta forma stessa » (I, 32). Perché, ossia, la logica « contiene il pensiero in quanto è insieme anche la cosa in se stessa, oppure la cosa in se stessa in quanto è insieme anche il puro' pensiero ». Ecco come Hegel critica Kant! La logica coincide con la metafisica, cioè " con la scienza delle cose poste in pensieri ", perché il pensiero è la " cosa in se stessa ".

Tra il contenuto, quindi, che alla logica (formale) attribuisce Kant e quello che ad essa attribuisce Hegel non vi è alcuna differenza o, per meglio dire, solo questa: per Kant la logica è vuota perché essa è la scienza del pensiero in quanto semplice forma; per Hegel la logica è piena, è l'unico pieno, perché le cose sono " cose del pensiero " (Gedankendinge), enti di ragione (Gedankenwesen). La differenza, in breve, non è nell'oggetto ma solo nel punto di vista. E Hegel lo dice: « la vuotezza delle forme logiche sta unicamente nella maniera di considerarle e di trattarle », nella logica non vi è « bisogno d'andar lontano per cercare quello che si suole denominare materia »; né « è colpa dell'oggetto della logica, se questa par vuota, ma solo della ma-niera come quell'oggetto viene inteso » (I, 30). Cioè il contenuto della logica è tanto per Kant che per Hegel lo stesso: le forme pure del pensiero. Solo che Kant considera materia e realtà ciò che è fuori di quelle forme, e Hegel, invece, considera materia proprio quelle forme, proprio e solo il pensiero puro. Anche e soprattutto per lui « il sistema della logica è il regno delle ombre, il mondo delle semplici essenzialità, libere da ogni concrezione sensibile ». Solo che « lo studio di questa scienza, la dimora e il lavoro in questo regno delle ombre », la familiarità con questi « concetti senza substrato sensibile » (I, 43), dà a Hegel la sensazione di essere nel pieno, nel colmo della pienezza, e la sua coscienza gioisce di questa corvée nell'Ade, per-

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che egli sa di lavorare all'« esposizione di Dio », e per chi crede in Dio — bisogna ammetterlo — « il lato della palpabilità e del sensibile appartiene al lato nullo » (I, 33), non può non appartenere al lato nullo.

Idealismo oggettivo — certo. Idealismo che ha liquidato la " cosa in sé " di Kant — giusto. E d'accordo anche con Hegel quand'egli respinge la filosofia " critica ", che « intende il rapporto di questi tre termini », noi - il pensiero - le cose, « come se noi mettessimo i pensieri come un mezzo tra noi e le cose nel senso che questo mezzo ci escluda fuor delle cose piuttosto che concluderci e unirci con esse ». Ma come risponde Hegel? « Ad una tal maniera di vedere — egli dice — è da opporre la semplice osservazione che coteste cose appunto, che dovrebbero trovarsi all'altro estremo, al di là di noi e al di là dei pensieri che ad esse si riferiscono, sono esse stesse enti di ragione » (I, 13-4). Ecco come risponde Hegel: che la realtà è tutta conoscibile perché è tutta pensiero; o che l'oggettività « ha la forma di essere in lei stessa nient'altro assolutamente che il concetto e di non contenere nulla di particolare per sé di fronte a questo » (III, 285). Vero, dunque, ciò che dice Engels che « l'essenziale per la confutazione di questa concezione [di Hume e Kant] è già stato detto da Hegel », ma attenzione: « nella misura in cui si poteva farlo da un punto di vista idealistico ». E, se Hegel non è agnostico, è pur vero che la sua risposta affermativa alla domanda: possiamo conoscere il mondo?, « si comprende da sé » dice Engels. Perché, con Hegel, « ciò che noi conosciamo del mondo reale è precisamente il suo contenuto ideale », ciò che fa del mondo una realizzazione dell'Idea. Ed « è senz'altro evidente che il pensiero può conoscere un contenuto il quale è già, a priori, un contenuto ideale », così com'è « altrettanto evidente — egli aggiunge — che ciò che si deve provare è già contenuto qui, tacitamente, nelle premesse » ".

Sembra incredibile, ma contro Kant il quale crede che « i pensieri sian soltanto pensieri, nel senso che solo la percezione sensibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione, in quanto resta in sé e per sé, non dia fuori che sogni » (I, 27), contro questa posizione della " coscienza ordinaria " che impedisce « l'accesso alla filosofia e che perciò convien deporre alla sua soglia », Hegel fa appello alla vecchia metafisica. « La vecchia metafisica

"l F. ENGELS, Ludovico Feuerbach, Roma 1950, p. 26.

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— egli dice — aveva sotto questo riguardo un concetto più alto del pensiero, che non quello ch'è venuto di moda ai tempi nostri. Metteva cioè per base che quello che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose e nelle cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudessero. Il vero, per quella metafisica, non eran quindi le cose nella loro immediatezza, ma soltanto le cose elevate nella forma del pensiero, le cose come pensate. Quella metafisica riteneva [...] che le cose e // pensar le cose coincidessero» (I, 26). E se — continua Hegel — "per contrapposto al pensato e al concetto " si piglia come reale la materia, allora bisogna osservare che « cotesta è una maniera di vedere che non solo bisogna aver dismessa per poter filosofare, ma il cui abbandono è già presupposto dalla religione ». Infatti, « qual bisogno vi può essere della religione e qual senso può essa avere, finché si tenga come verità la fuggevole e superficiale apparenza del sensibile e del singolo? » (III, 24).

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III. RAGIONE E INTELLETTO

Tralasciamo — per non appesantire troppo la nostra esposi-zione— la difesa che Hegel compie contro Kant dell'argomento ontologico dell'esistenza di Dio: quando — rispondendo al celebre esempio dei cento talleri e, in genere, alla fondamentale affermazione della Critica secondo cui l'esistenza non si deduce dal concetto — Hegel oppone che, se « è la definizione delle cose finite che in esse concetto e oggetto sian diversi, che concetto e realtà, anima e corpo, sian separabili, e che perciò coteste cose appunto sian transitorie e mortali » (I, 83), Dio però è « un oggetto di tutt'altra sorta che non cento talleri »; per concludere, infine, — contro « la triviale osservazione della Critica che il pensiero e l'essere son cose diverse » — che « Dio deve espressamente essere ciò che può esser pensato solo come esistente, in cui il concetto involge l'esistenza » perché proprio « quest'unità del concetto e dell'essere costituisce appunto il pensiero di Dio» (Enc, §§ 51, 76)'. E lasciamo anche il fatto, peraltro assai istruttivo, che questo Kant, " padre " (come si dice) dell'idealismo, deve aver trovato una progenie ben ingrata (e ben indegna) se, a tanta distanza di tempo, Croce ribadirà ancora nella sua Logica che, « se il concetto di Dio è concepibile, Dio è », perché « al concetto, che è il perfettissimo, non può mancare la perfezione dell'esistenza senza che esso manchi a se

1 L. FEUERBACH, Princìpi cit., p. 106: « Per quanto disprezzato da Hegel l'esempio dei cento talleri immaginari e dei cento talleri reali, scelto da Kant a proposito della prova ontologica, per dimostrare la distinzione tra il pensiero e l'essere, è un esempio essenzialmente giustissimo. E invero: i talleri immaginari io li ho soltanto nella testa, quelli reali li ho in mano; quelli sono soltanto per me, questi sono anche per gli altri; e possono essere sentiti e veduti: ora, è un fatto che esiste soltanto ciò che è nello stesso tempo per me e per gli altri, quello su cui io e gli altri possiamo accordarci, quello che non è soltanto mio, ma di tutti ».

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medesimo »: onde questa sarà, sì, " una tautologia ", ma " una tautologia sublime " 2.

Ci rimane da vedere, piuttosto, dopo esserci soffermati tanto a lungo sul rapporto senso-intelletto, il rapporto intelletto-ragione e chiudere così il nostro esame della filosofia hegeliana.

Perché il lettore si orienti meglio, ricordiamo che nell'analisi della " certezza sensibile " Hegel è giunto al risultato che la " verità " del sensibile è nell'essere universale, immediato o indeterminato. L'ora, il qui, l'immediatezza sensibile, egli diceva, sembrano tutte determinatezze; in realtà 1' " ora ", per es., non è un questo bensì un «o»-questo. Per nulla toccata o affètta dalle determinazioni che le giuocano accanto, essa non è né giorno né notte, né mattina né sera, bensì è sia l'uno che l'altro o meglio l'indifferenza dell'uno e dell'altro: non un individuale ma un universale, non un distinto ma un indistinto. Volendo stringere in una formula il significato di tutto il rapporto senso-intelletto, si potrebbe dunque dire che esso rappresenta nella fi-losofia di Hegel quello che Marx chiama l'aspetto del " suo idealismo acritico ", il " rovesciarsi dell'empiria in speculazione ", cioè il momento della elusione o negazione del sensibile e delle sue differenze reali. Momento però — sappiamo bene — che implica al tempo stesso l'ipostasi dell'Idea, la sostantificazione dell'universale, un atto cioè per cui questo si sostituisce al sensibile e si pone appunto come immediato.

Ciò produce nella filosofia hegeliana una duplicità di prospettive che costa un certo sforzo dominare con fermezza, e che si risolve in pratica in quei due movimenti individuati fin dall'inizio dalla critica di Marx: cioè, da un lato, in una mediazione reale e essoterica (che però per Hegel figura come apparente), dall'altro in una mediazione esoterica o " invisibile " che è sottesa alla prima e che succede " dietro il sipario ". Il moto dal concreto «//'astratto, cioè l'induzione, l'analisi, con cui si scompone l'oggetto reale per estrarne o isolarne una determinazione o un lato, figura così — dato che Hegel presuppone l'universale quale sostanza del concreto — come un processo del-l'astratto: non cioè come un movimento verso il conoscere ma come un moto del conoscere, non come una divisione dell'oggetto ma come un'autoscomposizione del concetto o universale. In tal modo, l'induzione, che dovrebbe stare alla base, diviene

2 B. CROCE, Logica, Bari 1942, p. 75.

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un membro della deduzione, l'analisi un momento della sintesi. Si potrebbe a questo punto obiettare che non si vede il motivo

perché la divisione dell'universale debba essere chiamata sintesi. Dividersi non è dopotutto unificare. In realtà affiora qui un tema in cui possiamo dire che si cela tutto il " segreto " della dialettica di Hegel. L'Idea, infatti, è sintesi, ma solo se guardiamo ad essa dal finito, cioè se ci mettiamo dal punto di vista di quel processo (apparente, per Hegel, o " secondo natura ") per cui si parte dall'oggetto reale e si comincia ad astrarre. Allora, man mano che prendiamo quota, gli aspetti per cui l'oggetto si differenzia dagli altri, le sue differenze reali, progressivamente si semplificano e si riducono. All'inizio l'oggetto non era né questo né quello né quell'altro ancora. Era, per es., uomo e non nave, uomo e non casa, né albero né tavolo e così via. A un certo punto, invece, se il tratto o la caratteristica che abbiamo isolato e trascelto è dotata di grande forza evidenziale, ossia è specifica, vediamo che tutte le varie differenze si semplificano e si riducono a una differenza unica e sola. Non diremo più l'uomo non è questo, e poi non è quest'altro, né quello, né quell'altro ancora; non passeremo cioè per la serie infinita dei confronti di una specie con tutte le altre specie. Ma avremo bensì una qualità umana che istituirà una differenza essenziale tra l'uomo da una parte e tutto il rimanente dall'altra, tra uomo e non-uomo. Una qualità, cioè, che relaziona e congiunge, sì, l'uomo a tutto l'universo, in quanto, definendolo, dobbiamo insieme tener conto sia pure negativamente di tutto il resto; ma che fa questo — si badi — proprio mentre e proprio perché lo differenzia da tutto il rimanente, cioè dall'insieme delle cose che non sono l'uomo. Dove si vede che in tanto è possibile relazionare, cioè unificare razionalmente, in quanto si distingue e divide in concreto; in tanto è possibile sintesi in quanto non solo vi è analisi ma analisi reale.

È chiaro, però, che qui l'astrazione non ha ancora perduto contatto con l'oggetto; anzi il pieno sviluppo della ragione, il suo tendersi fino ad abbracciare la differenza essenziale, avviene proprio in forza del fatto che questa relazione si istituisce sulla base e in funzione di una qualità reale: nel nostro caso di quel tratto specifico che assumiamo come qualità essenziale dell'uomo. Ed è chiaro, altresì, che questo tratto ci dà un'astrazione scientifica o determinata, qualcosa cioè che è al tempo stesso sia un astratto che un concreto. Un concreto, perché è appunto

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una qualità reale e esistente che fa qui da base e fondamento dell'astrazione, quel tratto ossia che qualifica l'ente reale: " uomo ". Un astratto, perché questa qualità — oltre ad essere un fatto, una caratteristica reale, qualcosa che è dotato di tutta la forza esclusiva della materia, e quindi un " tale " che esclude da sé il non-" tale " — compare al tempo stesso anche come contenuto dell'astrazione, cioè come predicato o momento di quella relazione-inclusione di opposti (tale-non tale) in cui si esprime, contro la potenza dirimente della materia, la forza sintetica e unificatrice della ragione.

Notiamo di passaggio che qui ricompare sott'altra veste il discorso precedentemente accennato su unità-parte; discorso che si presenta ora, appunto, come una teoria degli opposti, intesi sia come opposti reali o escludentisi l'un l'altro, sia come opposti inclusivi o razionali. E, quindi, come una teoria che, a differenza di quella hegeliana, mira a strutturare la dialettica tenendo conto sia dell'istanza della materia o non-contraddizione, sia dell'istanza della contraddittorietà o della ragione. Di quest'ultima, cioè dell'istanza del pensiero o astrazione, perché mi consente di abbracciare gli opposti, di comprendere, di prendere insieme i termini della contraddizione: uomo-non uomo. E dell'altra, cioè dell'istanza della determinatezza, perché — se non voglio che la comprensione degli opposti mi porti a identificare uomo e nonuomo, cioè a vanificare quest'ente naturale nell'universo — debbo servirmi di quell'opposizione-relazione, cioè della coscienza, del pensiero, proprio come di un mezzo per evitare la contraddizione in concreto, proprio cioè come di uno strumento che, in tanto mi consente di definire l'uomo nella sua specificità e quindi di pensare realmente (non vi è pensiero — dice Marx — se non di oggetto specifico o determinato), solo in quanto mi fa evitare l'errore o la contraddizione di attribuirgli come essenziali quei tratti generici che competono, invece, indiferentemente tanto a lui che a un'infinità di altri enti.

Osservavamo prima che a questo livello l'astrazione è ancora e più che mai saldamente legata all'oggetto; che vi è, sì, una semplificazione del reale ma per metterne a nudo l'aspetto o il nesso essenziale. Diverso è, invece, il caso di Hegel. Egli riconosce, infatti, che l'intelletto dà alle determinazioni reali, « mediante la forma dell'universalità astratta, una tal durezza dell'essere che non hanno nella sfera qualitativa », e vede anche bene che proprio « questa semplificazione le anima ed avviva »,

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cioè « le rende acute », quindi opposte, relazionatali, comprensibili (III, 56). «La ragione pensante — egli scrive — acuisce l'ottusa differenza del diverso, la semplice molteplicità della rappresentazione fino a farne la differenza essenziale, l'opposizione. Solo quando sono stati spinti all'estremo della contraddizione, i molteplici diventano attivi e viventi l'uno di fronte all'altro, mentre nella contraddizione acquistano la negatività che è la pulsazione immanente del muoversi e della vitalità » (II, 72-3). Se-nonché, giunto a questo punto, Hegel non tiene ferma l'opposi-zione-esclusione, cioè la determinatezza dell'oggetto, che è del resto ciò da cui le differenze intellettuali traggono la loro durezza e consistenza, bensì ipostatizza come reale la semplice opposizione razionale. Non prende ossia le differenze del pensiero in funzione delle differenze oggettive, ma dissolve queste in quelle, con il risultato che alle determinazioni del finito vengono così sostituiti o interpolati concetti puri, cioè predicati astratti, assoluti, vale a dire sciolti dal sostrato materiale; i quali — mancando di un fondamento che li tenga disgiunti e dovendo fungere, anzi, proprio essi da soggetto reale — non possono non annullarsi, cioè identificarsi immediatamente \ sparire insomma entro l'Unità. Sparizione che Hegel prende, invece, proprio in ragione dell'ipostasi, come un effettivo scomparire del mondo, cioè come quella collisione del molteplice, come quel " dialettizzarsi " o " annullarsi " delle condizioni reali da cui — com'egli dice — « l'universale balza innanzi con evidenza ».

In tal modo, proprio nel momento in cui cominciamo a comprendere la cosa, in cui cioè l'oggettività raggiunge per noi " la sua più alta maturità " ed evidenza, proprio " là comincia il suo tramonto ", proprio in quel momento, cioè, la cosa co-

3 L. FEUERBACH, Princìpi cit., p. 131: «L'unità immediata di opposte determinazioni è possibile e valevole soltanto nell'astrazione. Nella realtà le opposizioni sono sempre collegate da un termine medio. Questo termine medio è l'oggetto dell'opposizione. Nulla è più facile che mostrare l'unità di predicati opposti: basta fare astrazione dall'oggetto dell'opposizione, dato che con l'oggetto scompaiono anche i limiti tra i termini opposti, i quali rimangono così senza alcun sostegno e si ricongiungono fra di loro imme-diatamente. Per es. se io considero l'essere soltanto in astratto, vale a dire faccio astrazione da ogni determinazione reale, mi trovo naturalmente ad avere l'essere identico al nulla. Soltanto la determinazione dell'essere è ciò che costituisce la differenza e quindi il limite tra l'essere e il nulla. Se io lascio da parte ciò che è, che cosa rimane ancora di questo puro e semplice essere? E ciò che vale di quest'opposizione e della sua identità, vale anche della identità di tutte le altre opposizioni, quali vengono presentate dalla filosofia speculativa ».

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mincia a sparire lasciando il passo all'apparire della ragione. « Il concetto determinato e astratto è — dice Hegel — la condizione della ragione »; « è forma animata nella quale il finito mediante l'universalità si accende » (III, 57) e si illumina per noi; ma proprio qui esso è anche « posto come dialettico », come tale cioè che si annulla, « ed è con ciò il cominciamento stesso dell'apparire della ragione ».

Ancora una volta, dunque, mentre da un punto di vista e per un lato l'Idea ci appare come sintesi e soltanto come sintesi, o meglio come una sintesi senza analisi, come un'unità senza molteplice, come un risultato senza origine, proprio in quanto (abbiamo visto) essa annulla e vanifica le condizioni stesse da cui risulta; per un altro, invece, già a questo punto il discorso si può capovolgere. L'Idea, che quando siamo ancora prigionieri del finito, dell' " apparenza " ci appare come sintesi e risultato, ora ci si rivela al contrario (poi che la guardiamo non più " dalla natura " ma " dal concetto ") come l'origine. Ciò che prima si presentava come un processo per cui si muoveva dal sensibile, se ne astraeva una qualità che poi si acuiva fino ad istituire un'opposizione-relazione tra essa e tutto il resto: questo processo che sembrava culminare nella ragione si scopre, in effetti, come un processo che muove dalla ragione; quindi, non unificazione ma disgiunzione, non sintesi, ma divisione o, per meglio dire, sintesi che deve produrre l'analisi, ragione che deve generare da sé le differenze intellettuali o reali. L'Essere indeterminato e indifferenziato, che si presuppone a fondamento del sensibile e che sta perciò a principio della realtà, dovrà scindersi ora in essere e nulla, cioè produrre il divenire e, attraverso il divenire, grado a grado, tutte le determinazioni del concreto.

In realtà l'operazione non può riuscire a Hegel, e non già per difetto di esecuzione bensì per intrinseca impossibilità. L'Unità primitiva e originaria, infatti, tenta sì di rompersi, di scindere se stessa in essere e nulla, ma — come Hegel stesso deve riconoscere — la differenza tra « l'astratto essere e il puro nulla » è « semplicemente presunta » (I, 80), « solo opinabile » (I, 85), solo « immaginata » (I, 103). Il movimento, il divenire, non c'è né può esserci, in quanto l'unità che deve dividersi è omogenea, indifferenziata, tale cioè che comunque si rivolti (ammesso pure che si rivolti), trova solo e sempre se stessa. Il suo scomporsi (la celebre Spaltung del concetto) è così inevitabilmente un comporsi, il suo dividere un unificare, il suo esclu-

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dere un includere; ovvero — come dice Hegel — qui «l'escludere è un unico differenziare, e ciascuno dei differenti è appunto^ come esclusivo, l'intiero escludere ». Di qui una " mobilità mistificata ", cioè un continuo incorrere in tautologie, ma in tautologie — ripetiamo — non formali o verbali bensì reali o del contenuto, nelle quali la infecondità ermeneutica, cioè l'incapacità dell'Idea (in quanto ipostasi) di fungere da reale criterio logico fa sì, dice Marx, che mentre per un verso « non si guadagna in questo modo alcun contenuto » ma sempre ricorrono le stesse figure concettuali, per un altro appare invece come sviluppo della forma « uno sviluppo che dipende da motivi del tutto empirici, cioè motivi empirici molto astratti, molto cattivi » (OFG, 54); e tali, appunto, perché non dedotti, non vagliati criticamente, ma restaurati sottomano. In altre parole, la conversione immediata dell'empiria in speculazione ha per contropartita un rovesciamento (XJmschlag) " immediato ", " magico " (Marx) della speculazione in empiria: ciò ch'è reale è diventato fenomeno dell'Idea, ma l'Idea non ha per contenuto altro che questo fenomeno. Il particolare, l'empirico — trasceso prima nelle sue determinazioni reali e quindi rimasto " inconcepito " ■— ritorna ora come incarnazione dell'Idea, cioè come vaso (Gefàss) dell'assoluto: il fatto empirico, ossia, è stravolto ad assioma metafisico. Verifichiamo qui rigorosamente la definizione data da Feuerbach-Marx della filosofia hegeliana come rationelle Mystik o misticismo logico, nel senso che, proprio in quanto l'Idea deve essere simultaneamente e per uno stesso riguardo mediata e im-mediata, essa si trova a possedere insieme e indistintamente le caratteristiche del sensibile e del razionale, dell'intuizione e del concetto. La sensibilità — elusa sul piano suo proprio, sul piano cioè della " certezza sensibile " ■— riemerge al culmine della costruzione come qualità della ragione. Ritorna ossia, come ha visto con grande lucidità Feuerbach, la situazione tipica del filosofo neoplatonico, per il quale, « proprio perché egli non è più un soggetto che stia in rapporto col mondo reale inteso come oggetto, sono le sue stesse rappresentazioni che diventano oggetto ». Quanto maggiore è l'astrazione che egli compie, quanto1 più radicale la negazione del mondo sensibile, tanto più egli è, proprio nell'astrazione, un essere sensibile. « Dio, l'Uno, il più alto oggetto e il più alto essere che derivi dall'astrazione di ciò che è molteplice e differenziato, cioè del mondo sensibile, viene conosciuto mediante un contatto diretto, attraverso una presenza

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immediata {parousia). » In tal modo, la ragione o l'Idea diventa concreta perché « viene riferito al pensiero quello che è proprio dell'intuizione », perché « diventa funzione del pensiero quello che è funzione del senso, della sensazione, della vita », o, insomma, perché « il concreto diventa predicato del pensiero ». « In fondo — conclude Feuerbach — Hegel non ha fatto altro che trasformare in concetti, cioè razionalizzare, ciò che nei neoplatonici è rappresentazione e fantasia » \

Razionalità mistica, dunque, in quanto razionalità pervasa da quel sensualismo trasposto e inappagato che è peculiare, appunto, del misticismo, come riconosce del resto Hegel stesso quando, nell'Aggiunta al § 82 dell'Enciclopedia, scrive che « è da notare che l'elemento mistico è, sì, qualcosa di misterioso ma solo per l'intelletto e, precisamente, in quanto il principio dell'intelletto è l'astratta identità, mentre l'elemento mistico [das Mystiche], invece, (come sinonimo di speculativo) è l'unità concreta di quelle determinazioni che per l'intelletto valgono come vere solo nella loro separazione e contrapposizione. [...]. Ogni razionale è perciò da designare al tempo stesso — egli continua — come mistico, con il che si vuole però intendere soltanto che esso trascende l'intelletto e non già che lo si debba considerare per principio come inattingibile e incomprensibile per il pensiero » 5.

Ragione e materia — ecco il senso conclusivo dei processi di ipostatizzazione hegeliani — scambiano le loro funzioni. E, come la ragione, la quale dovrebbe essere negatività o relazionalità, cristallizza questa sua funzione e, mancandole un molteplice reale da collegare, diventa un'unità unica, positiva, cioè incapace di aprirsi, acquistando così il carattere di singolarità-puntualità che è proprio della materia; così, inversamente, quest'ultima, che dovrebbe esprimere l'individuale irrelativo, cioè la determinatezza puntuale o esclusiva, acquista invece il carattere di negatività e di inclusività che è peculiare della ragione. Le materie di cui consta la cosa diventano predicati astratti, assoluti, cioè opposti razionali e coincidenti: la cosa, ossia, diventa Idea. Inversamente, poi, l'Idea non si incarna altro che in una cosa.

Il primo passaggio lo troviamo descritto alla perfezione in un paragrafo del Libro II della Logica il cui titolo {Il constar

4 L. FEUERBACH, Princìpi cit., pp. 113-4. 5 Citato da G. DELLA VOLPE, Logica cit., p. 53.

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di materie delle cose) sembra scelto apposta da Hegel per lusingare alcuni... ' marxisti ' d'oggi. E qui — com'era da aspettarsi — egli ci dice che la cosa è il semplice nesso, « l'anche di quelle materie di cui consta »; che « le materie vi circolano senza che niente le ritenga, uscendo da questa cosa oppure entrandovi », dato che « la cosa stessa è l'assoluta porosità, senza alcuna propria misura o forma » (II, 141), per cui « dov'è l'una di queste materie, in un unico e medesimo punto, è l'altra ». Donde una vera e propria bagarre finale a cui Hegel è costretto quando — notato che « queste materie non stanno una fuori dell'altra, ma sono in un unico questo, in modo che l'una esiste negli interstizi dell'altra, ma non soltanto questa, sibbene anche la terza, la decima ecc. » — deve poi concludere che « esse son pertanto una moltitudine, la quale si penetra reciprocamente in modo tale, che le materie penetranti sono anch'esse penetrate dalle altre, e che perciò ciascuna penetra a sua volta il suo proprio esser penetrata » (II, 144).

Il secondo passaggio, invece, lo troviamo poche pagine oltre sotto il paragrafo dedicato air'esposizione positiva dell'Assoluto, dove puntualmente Hegel ci dice che « il finito mostra questa natura di contenere in lui stesso l'assoluto »; che « la parvenza non è il nulla », ma « è parvenza proprio in quanto appare in lei l'assoluto »; che « questa esposizione positiva trattiene così ancora il finito dal suo sparire, e lo considera come un'espressione e un'immagine dell'assoluto »: per concludere, infine, che «il vero positivo è l'assoluto stesso» (II, 190-1).

In altre parole, Hegel sostituisce l'opposizione razionale (gli opposti componibili) a quella reale (agli opposti che si escludono); sostituisce " la coscienza della contraddizione " alla " contraddizione " stessa; ovvero — come dice Marx — il suo " errore principale " consiste nel fatto « ch'egli assume la contraddizione del fenomeno come unità nell'essenza, nell'Idea ». Ne risulta allora, da una parte, che « questa soppressione è una soppressione dell'ente pensato, dunque la proprietà privata pensata si sopprime nel pensiero della morale » (OFG, 307). E, dall'altra, « che l'uomo autocosciente, in quanto ha riconosciuto e soppresso come autoalienazione il mondo spirituale, ossia la generale esistenza spirituale del suo mondo, conferma, tuttavia, di nuovo il medesimo mondo in questa figura alienata e lo dà per la sua vera esistenza, lo ristabilisce, pretende di esser presso di sé nel suo esser-altro come tale, e quindi dopo la soppressione,

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per esempio, della religione, dopo il riconoscimento della religione come un prodotto dell'autoalienazione, si trova, tuttavia, confermato nella religione come religione. È qui la radice del falso positivismo di Hegel o del suo solo apparente criticismo [...]: la ragione è presso di sé nella non-ragione come nonragione; l'uomo, che ha riconosciuto di condurre nel diritto, nella politica ecc., una vita alienata, conduce in questa vita alienata come tale la sua vera vita umana. L'autoaffermazione, l'autocon-ferma in contraddizione con se stessi, sia col sapere sia con l'essere dell'oggetto, è quindi il vero sapere, la vera vita. Superfluo dunque — conclude Marx — discorrere di un accomodamento di Hegel con la religione, lo Stalo ecc., che questa menzogna è la menzogna del suo concetto di progresso », la menzogna del suo concetto di dialettica (OFG, 305, ultimo cors. mio).

Conciliazione apparente o puramente mentale, quindi, dei con-trasti e delle contraddizioni oggettive, che mette capo però alla convalida e all'avallo dello stato di fatto. Cioè, « la filosofica de-composizione e la restaurazione dell'empiria presente » ci appaiono insieme sia come il metodo intrinseco della dialettica e della filosofia hegeliana, sia come il tramite attraverso cui questa filosofia accoglie dentro di sé e sanziona ideologicamente le contraddizioni del proprio tempo; e ciò — si badi — a cominciare dalla stessa Fenomenologia, dove — « malgrado la sua sembianza affatto negativa e critica e malgrado la critica ivi realmente contenuta e spesso largamente anticipatrice dello svolgimento ulteriore — è latente, dice Marx, come germe, come potenza e come segreto, il positivismo acritico e l'idealismo parimenti privo di critica delle opere posteriori di Hegel » (OFG, 297).

Come, proprio in virtù del carattere mistificato della dialettica hegeliana, nella stessa « Fenomenologia le basi materiali, sensibili, oggettive delle diverse forme estraniate dell'autocoscienza umana sono lasciate in piedi e tutta quanta l'opera distruttiva ha come risultato la filosofia più conservatrice, perché — dice Marx — tale opera crede di aver superato il mondo oggettivo non appena lo ha trasformato in una ' cosa ideale ' »6; così, inversamente, proprio in forza di questa critica della dialettica mistificata, Marx può capovolgere i termini della questione e affermare che, « poiché le autoalienazioni pratiche della massa nel mondo reale esistono in una maniera esteriore, essa deve combatterle del pari in una maniera esteriore »7.

6 K. MARX, Sacra famiglia, Roma 1954, p. 204. 7 Ivi, p. 89.

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IV. HEGEL NELLA STORIA DEL PENSIERO

Abbiamo ora tutti gli elementi per " situare " la filosofia di Hegel nella storia del pensiero, per vedere, cioè, sia pure a grandi linee, come si definiscano i suoi rapporti con quelle tre correnti — intendiamo in particolare: la metafisica prekantiana, l'idealismo di Schelling e la filosofia di Kant — di cui essa sembra segnare a un tempo la convergenza e la risoluzione. Il criterio migliore per orientarci nell'esame di questo problema ci sembra sia tuttora quello accennato all'inizio di questo scritto, quando si osservava che il misticismo logico di Hegel non è né la mistica di Schelling né la razionalità di Wolff, e che la sua teoria della mediazione può intendersi appieno solo se si tiene presente che ad essa è indispensabile sia il movimento dal finito che dall'infinito, sia la mediazione essoterica che l'esoterica. Volendo riassumere la situazione con una formula, si può in un certo senso dire che ciò che distingue Hegel da Schelling è Wolff e ciò che lo distingue da Wolff è Schelling, con il che vogliamo solo intendere, in concreto, che la chiave per capire la posizione di Hegel rispetto a questi due pensatori va cercata nel rapporto ch'egli istituisce tra intelletto e ragione; rapporto che, non a caso, è appunto al centro della critica che Hegel sviluppa contro entrambi nella Introduzione alla fenomenologia.

Ben nota a questo riguardo è la polemica contro Schelling e, soprattutto, quella pagina — celebre per la forza del pensiero e la vigoria dello stile — in cui Hegel rivendica, contro la " bella unità primitiva " dei romantici, la potenza dell'intelletto, la forza della distinzione. « L'attività del dividere — egli dice — è la forza e il travaglio dell'intelletto, della potenza più mirabile e più grande, o meglio della potenza assoluta. Il circolo che riposa in sé chiuso e che tiene, come sostanza, i suoi momenti, è la relazione immediata, che non suscita, quindi, meraviglia al-

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cuna. Ma che l'accidentale ut sic, separato dal proprio ambito, [...] guadagni una propria esistenza determinata e una sua distinta libertà, tutto ciò è l'immane potenza del negativo; esso è l'energia del pensare, del puro Io. La morte, se così vogliamo chiamare quella irrealtà, è la più terribile cosa; e tener fermo il mortuum, questo è ciò a cui si richiede la massima forza. La bellezza senza forza odia l'intelletto, perché questo la presume capace di ciò che essa non riesce a fare. Ma non quella vita che inorridisce dinanzi alla morte, schiva della distruzione; anzi quella che porta in sé la morte è la vita dello spirito. Esso guadagna la sua verità solo a patto di ritrovare sé nell'assoluta devastazione. Esso è questa potenza, ma non alla maniera stessa del positivo che non si dà cura del negativo [...]; anzi lo spirito è questa forza solo perché sa guardare in faccia il negativo e soffermarsi presso di lui » (Feti., I, 28).

Il finito, dunque, questo molteplice, questa dilacerazione (Zerrissenheit) dell'unità primitiva, ch'è il mondo, va tenuto fermo, ed è la potenza dell'intelletto guardare in faccia il mortuum, cioè la determinatezza, senza rifugiarsi nell'indistinto, nell'assoluto di Schelling. La totalità non può essere semplice immediatezza, mera identità, dev'essere bensì unità concreta, articolata. E Hegel, in effetti, « ha accolto — nota Feuerbach — nella filosofia l'elemento fondamentale del razionalismo, l'intelletto, che veniva escluso nell'idea dell'assoluto ». Contro l'intuizione schel-linghiana egli ha riaffermato che la verità è sistema, cioè dimostrazione, discorso razionale. « Ma ciò nonostante, continua Feuerbach, quello che lo ha determinato è l'idea dell'assoluto. » Quindi, « per quanto Hegel abbia notato in Schelling la mancanza dell'intelletto o del principio formale (dato che l'uno e l'altro sono per lui la medesima cosa), per quanto nel porre questo principio nell'assoluto abbia effettivamente dato dell'assoluto una determinazione diversa da quella data da Schelling, per quanto egli abbia elevato la forma ad elemento essenziale, pure la forma (ciò che risiede necessariamente nel suo concetto) ha avuto di nuovo un significato meramente formale, e l'intelletto, di nuovo, un significato meramente negativo » (Princìpi, pp. 36-7).

Basti del resto vedere, nella stessa Introduzione alla Feno-menologia, la critica che Hegel fa del giudizio, cioè di quella figura tipicamente intellettuale che è il discorso in quanto distinzione di soggetto e predicato; distinzione che non esclude, ovviamente, anzi afferma la relazione, ma che tuttavia in tanto signi-

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fica qualcosa in quanto appunto si mantenga. « La natura del giudizio o proposizione in generale (natura che implica in sé la differenza di soggetto e predicato) — osserva qui Hegel — viene distrutta dalla proposizione speculativa », che è « la proposizione identica » (Fen., I, 54). Per esempio, egli continua, « nella proposizione: Dio è l'essere, predicato è l'essere, ed ha un significato sostanziale, nel quale il soggetto si scioglie. Qui ' essere ' non dev'essere il predicato, ma l'essenza », cioè il predicato deve essere « espresso come l'essenza che esaurisce la natura del soggetto » (ivi 55, cors. mio). « Egualmente, se si dice: l'effettuale è universale, anche qui l'effettuale, in quanto soggetto, sfuma nel suo predicato. L'Universale non deve essere soltanto la significazione del predicato, quasi che la proposizione venga a dire che l'effettuale è universale; anzi l'Universale deve esprimere l'essenza dell'effettuale » (ivi, 56). Solo nel caso, infatti, che il predicato abbia esaurito, annegato entro di sé il soggetto, cioè la determinazione, solo allora esso sarà « divenuto, dice Hegel, una massa totale e indipendente » (ivi, 54).

Distinzione, dunque, ma solo come apparenza. E non a caso, del resto, la differenza intellettuale o reale è per Hegel (si ricorderà) qualcosa che, non appena c'è, è già al suo tramonto: quindi, solo uno sparire che lascia apparire la ragione, solo una differenza che dilegua subito nell'Unità. L'unica definizione che colga con precisione questo atteggiamento è appunto quella di " criticismo apparente " (Marx), cioè di una difesa dell'intelletto che non esclude, ma anzi si ritorce in un attacco all'intelletto. E non ci deve meravigliare allora, se questa critica hegeliana contro il giudizio è divenuta alimento del più sfrenato irrazionalismo moderno, del suo ridicolo orrore per le distinzioni intellettuali, della sua ripugnanza per il discorso scientifico e per le stesse strutture del linguaggio comune, onde Heidegger, parlando di " soggetto della proposizione ", non esita a soggiungere: « nel caso che ancora si possa usare questa fatale categoria della grammatica » \

A Wolff e a tutta la vecchia metafisica l'unica critica che Hegel sappia muovere è, in fondo, solo questa: che essa si è limitata a dare una « mera veduta intellettualistica degli oggetti della ragione ». « Questa scienza — egli dice — considerava le determi-

1 M. HEIDEGGER, Vom Wesen der Wahrheit, Frankfurt a/M. 1949 p. 26 [trad. di A. Carlini, Dell'essenza della verità, Milano 1952], e si veda, in genere J. VAN DER MEULE, Heidegger und Hegel oder Widerstreit und Widerspruch, Meisenheira/Glan 1953, pp. 51 sgg.

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nazioni del pensiero come le determinazioni fondamentali delle cose; e per tal suo presupposto, che ciò che è, pel fatto che è pensato, è conosciuto in sé, stava di certo più in alto che non la posteriore filosofia critica » (Enc, § 28). Senonché, egli aggiunge, « questa metafisica divenne dogmatismo, perché seguendo la natura delle determinazioni finite, doveva ammettere che di due affermazioni opposte, l'una dovesse esser vera, e l'altra falsa » (§ .32). Dogmatismo, dunque, non è per Hegel l'assunzione di " un'identità speculativa, mistica tra essere e pensiero " (Marx), bensì — e si tenga ben presente questo punto — dogmatismo è invece per lui l'intelletto, il rispetto delle determinazioni reali, il principio di non-contraddizione, la tesi, cioè, come dice Aristotele, che « è impossibile che uno stesso predicato convenga e insieme non convenga a una stessa cosa nel medesimo tempo e per il medesimo riguardo », ovvero che « è impossibile che una stessa persona pensi la stessa cosa essere e non essere secondo che alcuni credono dicesse Eraclito » (Metaphys., 1005 b). Questa la ragione per cui Hegel può " mediare " Schelling e WolfT : perché le due posizioni hanno in comune il principio fondamentale dell'assoluto, cioè la mistica identità di soggetto e oggetto, quella confusione di logica e ontologia in cui, vedi caso, l'illuminista Kant identificava appunto il vero dogmatismo, ossia la metafisica.

La situazione che si profila è quindi ben diversa dalle conclusioni a cui sembra sia giunta in questi anni una parte almeno della storiografia marxista. Qui è venuta gradualmente prendendo piede, infatti, soprattutto ad opera di Lukàcs, la singolare tesi che la filosofia di Hegel non sia una metafisica. Sulla base di una concezione non solo (vedremo) errata ma, per qualche aspetto, insieme pericolosa e ridicola di ciò che il marxismo o, diciamo meglio, Marx ha sempre inteso per metafisica, si è sostituito al criterio classico rappresentato dall'opposizione materialismo-idealismo (criterio, abbiamo visto, che è costantemente tenuto presente da Hegel stesso), quello dell'opposizione tra pensiero metafisico e dialettico: suggerendo così una prospettiva che è interamente da capovolgere. Se teniamo presenti, infatti, queste due diverse definizioni di " dogmatismo " (che per Hegel — ripetiamo — non è la metafisica ma " l'ordinario intelletto umano " e che per l'illuminismo e Kant coincide, invece, proprio con la metafisica, e cioè con l'arbitraria e immediata confusione tra pensiero e essere, tra essere in mente e essere in re), la prospettiva

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storica che ci si apre è quella di una lotta contro la metafisica che ha la sua prima fase nell'illuminismo e la seconda, certo ben più profonda e radicale, nella dissoluzione della metafisica hegeliana e nella formazione del materialismo storico. Fasi, naturalmente, di cui è persino superfluo sottolineare le differenze, ma che si iscrivono nondimeno in un comune orizzonte. In un rapido disegno storico, di cui oggi ci si ricorda troppo poco e che pure è di decisiva importanza se vogliamo individuare, al di là delle consuete formule, gli antecedenti storici del marxismo, Marx scrive che « l'illuminismo francese del sec. XVIII e specialmente il materialismo francese, non fu solo una lotta contro le istituzioni politiche che vigevano, ad es. contro la religione e la teologia dell'epoca, ma fu, nella stessa misura, una lotta aperta, una lotta dichiarata contro la metafisica del sec. XVII e contro ogni metafisica, specialmente contro quella di Descartes, di Malebranche, di Spinoza e di Leibniz. Si contrappose alla metafisica la filosofia, come Feuerbach, nella sua prima decisiva presa di posizione contro Hegel, contrappose alla speculazione briaca la filosofia sobria. La metafisica del sec. XVII, che fu messa fuori combattimento dall'illuminismo francese e specialmente dal materialismo francese del sec. XVIII, ebbe la sua restaurazione vittoriosa e piena — continua Marx — nella filosofia tedesca e specialmente nella filosofia speculativa tedesca del sec. XIX. Dopo che Hegel genialmente la ebbe unita a tutta la metafisica che c'era stata dopo di allora e all'idealismo tedesco ed ebbe fondato un regno metafisico universale, all'attacco contro la teologia fece riscontro, come nel sec. XVIII, l'attacco alla metafisica speculativa e ad ogni metafisica. Quest'ultima soccomberà definitivamente dinanzi al materialismo perfezionato dal lavoro della stessa speculazione e coincidente con l'umanesimo » \

Ben altro, dunque, che un Hegel antimetafisico, ma un Hegel che recupera, come abbiamo visto del resto nella sua polemica contro Kant, tutta la vecchia metafisica. E qui proprio, anzi, è il suo contributo positivo: nella fondazione di questo regno metafisico universale. Se la vecchia metafisica, infatti, muove dal principio che " le cose coincidono col pensar le cose ", è allora un errore, osserva Hegel, tener fermi e rigidi questi pensieri come se essi fossero veramente cose. Ad esempio, che « la determinazione è negazione, questo è il principio assoluto della filosofia

3 K. MARX, Sacra famiglia cit., pp. 135-36.

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spinozistica » e codesta veduta è « semplice e vera ». « Se non che Spinoza resta fermo, dice Hegel, alla negazione come determinazione o qualità; non si avanza fino alla conseguenza di essa come negazione assoluta, vale a dire come negazione che si nega » (II, 196). Perciò la sua sostanza non contiene il principio del " divenire ", non è sostanza che si fa Soggetto. In altre parole, Spinoza vede, sì, che l'affermazione è la negazione stessa posta come affermativa, cioè che il positivo, l'essere reale è il pensiero stesso posto come essere. Non vede però che — dopo essersi negato ponendosi come essere — il pensiero nega questa sua negazione, cioè ritorna a sé; e cade invece nell'errore di credere effettivamente che la determinazione sia una determinazione, che la cosa sia una cosa. Se i diversi enti reali, in breve, sono solo diversi pensieri, è giusto allora che questi pensieri non siano fissi, ma facciano valere la loro natura di pensieri, di idee, e quindi la loro capacità schiettamente razionale di relazionarsi e unirsi. Ed ecco, appunto, « il contributo positivo che qui, nella sua logica speculativa, Hegel ha portato a compimento »: egli ha riconosciuto — dice Marx — che « le generali forme fisse del pensiero, nella loro autonomia rispetto alla natura e allo spirito reale, sono un risultato necessario della generale alienazione dell'ente umano, quindi anche del pensiero umano » e perciò « le ha esposte e sistemate come momenti del processo d'astrazione ». Hegel, cioè, ci ha dato non più astrazioni fisse ma " l'intero atto d'astrazione ", o " l'astrazione che abbraccia se stessa ". « L'uomo estraniato da se stesso, continua Marx, è anche il pensatore estraniato dal suo essere, cioè dal suo essere naturale e umano. I suoi pensieri sono quindi spiriti fissi, dimoranti fuori della natura e dell'uomo. Hegel ha fatto un blocco, nella sua Logica, di tutti questi spiriti fissi », cioè ha sostituito « l'atto del circolare in sé dell'astrazione a quelle astrazioni fisse, e però ha una volta tanto il merito di aver mostrato il luogo d'origine di tutti questi concetti incongrui in quanto appartenenti secondo la loro data di nascita a distinte filosofie, di averli riuniti e così di aver preparato come oggetto della critica l'astrazione nel suo intero ambito, invece che determinate astrazioni » (OFG, 309-10-11).

Né dogmatismo, quindi, della metafisica prekantiana che ipo-statizza i pensieri come scolastiche essenze eterne, irrelaziona-bili tra loro, smarrendo così la peculiare istanza della ragione, cioè quell'istanza negativa o relazionale che anima — sappiamo — l'ottusa diversità del molteplice fino ad acuirla a differenza es-

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senziale (tale-non tale) e, quindi, a opposizione com-prensibile; ma neanche, d'altra parte, dogmatismo à la Hegel che, scambiando la ragione con la materia, la coscienza della contraddizione con la contraddizione reale, risolve e concilia pacificamente questa in quella. Di fronte al tentativo della Rechtsphilosophie di comporre idealmente l'antitesi di Stato e società civile così come essa si esprime (al livello della costituzione politica) nella divisione dei poteri, « la critica volgare cade — dice Marx — in un opposto dogmatico errore. Così essa, ad es., critica la costituzione, attira l'attenzione sull'antitesi dei poteri ecc., trova ovunque delle contraddizioni. Questa è ancora della critica dogmatica, che lotta col suo oggetto, all'incirca come una volta si eliminava il dogma della Santa Trinità per la contraddizione di uno e tre. La vera critica, invece, mostra l'intima genesi della Santa Trinità nel cervello umano. Descrive il suo atto di nascita. Così la critica veramente filosofica dell'odierna costituzione dello Stato non indica soltanto le sussistenti contraddizioni, ma le spiega, ne comprende la genesi, la necessità. Le prende nel loro peculiare significato. Ma [si noti bene] questo comprendere non consiste, come Hegel crede, nel riconoscere ovunque le determinazioni del concetto puro, bensì nel concepire la logica specifica dell'oggetto specifico » (OFG, 125).

Proprio dunque nell'acuta percezione dell'istanza negativa o relazionale della ragione — che è poi istanza dell'unità di pensiero ed essere, di coscienza e mondo e, quindi, istanza della totalità o inter-connessione dell'universo — è il grande apporto di Hegel, il tema (si è già accennato) che lo apre alla comprensione della storia. Solo che questa negatività non si costituisce, ancora una volta, in funzione di un molteplice reale, ma lo elude ponendosi come per sé stante, ed è così, dice Marx, « un'astrazione che si fissa di nuovo come tale e che viene pensata come un'autonoma attività, come pura attività » (OFG, 309, cors. mio). Il movimento storico, « nella sua astratta forma, quale dialettica », diventa allora il processo dell'Idea, un « processo divino », dove il soggetto « è Dio, lo spirito assoluto, Videa che sa e attua se stessa »; mentre, inversamente, « l'uomo reale e la natura reale diventano dei semplici predicati, dei simboli di quest'uomo nascosto, irreale, e di questa natura irreale ». Cioè « il soggetto e il predicato si trovano fra loro nel rapporto di un rovesciamento assoluto, mistico Soggetto-oggetto o Soggettività prevaricante l'oggetto »; per cui « il Soggetto assoluto come un processo, come

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Soggetto alienantesi e dall'alienazione rientrante in sé » è, dice Marx, solo « il puro, continuo movimento circolare in sé » della ragione o Idea.

Si delineano qui tutti i tratti peculiari della filosofia hegeliana della storia. Il fatto, cioè, che questa concezione « presuppone uno spirito astratto o assoluto che si sviluppa in modo tale che l'umanità non è che una massa che consciamente o inconsciamente lo porta »: onde « all'interno della storia empirica, essoterica, Hegel lascia perciò correre una storia speculativa, esoterica », cioè di « uno spirito astratto e quindi trascendente ». Secondo: la conclusione e la fine inevitabile della storia, perché — dopo essersi posta come mondo — l'Idea si recupera e torna a sé. E, infine, la concezione della filosofia come conoscenza dell'assoluto, che si forma al termine del processo; onde, dice Marx, « il filosofo viene post festum » e la sua parte nella storia « si riduce a questa coscienza che sopraggiunge alla fine »; conoscenza che non è, quindi, anticipazione, previsione scientifica, ma posticipazione, cioè consacrazione del fatto compiuto. Donde, finalmente, la conclusione che « poiché solo post festum, nel filosofo, lo spirito assoluto perviene alla coscienza come spirito creatore del mondo, la sua costruzione della storia esiste solo nella coscienza, nell'opinione e nell'idea del filosofo, solo nell'immaginazione speculativa »3. Conclusioni, che Hegel puntualmente ribadisce nel'Introduzione alla Storia della filosofia quando afferma « che la successione dei sistemi filosofici, che si manifesta nella storia, è identica alla successione che si ha nella deduzione logica delle determinazioni concettuali dell'Idea »; e che « se i concetti fondamentali dei sistemi apparsi nella storia della filosofia vengono spogliati di ciò che concerne la loro formazione esteriore, la loro applicazione al particolare e simili, si ottengono precisamente i vari stadi della determinazione dell'Idea, nel suo concetto logico » {St. d. fil., I, p. 41).

La storia, insomma, è scienza solo se storia della filosofia, ma questa a sua volta è tale « solo in quanto sia concepita precisamente come sistema di svolgimento dell'Idea », solo in quanto cioè « sia successione di manifestazioni fondate nella ragione, che contengano e rivelino nel proprio contenuto la ragione » (p. 42). Va da sé, poi, che, abbandonata ogni " accidentalità ", ridotta l'empiria, il molteplice, la successione reale, a una successione di

3 K. MARX, Sacra famiglia cit., p. 92.

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semplici forme, la serie si contrae, ovvero che « la sorte di queste determinazioni consiste appunto nel venir fuse in un tutto, nell'essere abbassate a momenti » (p. 46). « Le forme si integrano nella forma completa » (p. 45), la " successione delle filosofie " si converte nella « sistematizzazione della stessa scienza filosofica» (p. 51). «Così per Hegel tutto ciò che è avvenuto e che avviene tuttora, è, né più né meno, — dice Marx — quello che avviene nel suo ragionamento. La filosofia della storia non è più che la storia della filosofia, e della filosofia sua personale. Non vi ha più ' la storia secondo l'ordine dei tempi '; ma vi ha soltanto la ' successione delle idee nel pensiero '. »4

Il tempo è consumato, e l'opera della storia « consiste appunto nell'aver tratto il razionale in sé dalle profondità dello spirito, dov'esso si trova dapprima soltanto come sostanza, come essenza interiore, e nell'averlo portato alla luce, nell'averlo sollevato alla coscienza, al sapere; consiste, insomma, in un progressivo risveglio ». L'elemento che conserva quest'opera « non è la tela, né il marmo, né la carta, né la rappresentazione o il ricordo (elementi tutti che sono transitori, oppure costituiscono il terreno del transitorio), sibbene il pensiero, il concetto, l'eterna essenza dello spirito, dove non penetrano né tarli né ladri » (p. 50), e che è il solitario lavoratore il quale « non ha necessità d'affrettarsi » — dice Hegel — ma « ha tempo a sufficienza, appunto perché è fuori del tempo, è eterno » (p. 47).

4 K. MARX, Miseria della filosofia cit., p. 88.

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V. ENGELS E HEGEL

Se ci volgiamo ora a considerare l'interpretazione di Hegel che ha corso nel marxismo contemporaneo, la prima cosa che vien fatto di rilevare è che la critica di Marx alla dialettica mistificata è passata per lo più sotto silenzio ', al punto da restare tuttora lettera morta per il marxismo d'oggi, per il marxismo — diciamo — della vulgata. Ciò sorprende tanto più se si considera che nello stesso Poscritto alla seconda edizione del Capitale Marx si richiama espressamente alla sua critica giovanile del " lato mistificatore della dialettica hegeliana ", compiuta quasi trentanni prima, e che, sia pure in forma assai rapida, egli ne riassume i termini essenziali, accennando sia al processo di ipostatizzazione, cioè al costituirsi del pensiero in soggetto indipendente e, viceversa, al trasformarsi del reale in " fenomeno esterno dell'Idea ", sia in generale alla funzione esercitata dalla dialettica " nella sua forma mistificata ", cioè alla " trasfigurazione " dello stato di cose esistente. Trasfigurazione, che acquista per noi un senso ben preciso se riandiamo con la mente all'esposizione positiva dell'assoluto, cioè a quel processo per cui, come dice Marx, Hegel stravolge il fatto in un assioma metafisico. La stessa formula conclusiva del Poscritto, secondo cui la dialettica hegeliana " è capovolta " e " bisogna rovesciarla per scoprire il noc-ciolo razionale entro il guscio mistico " 2, suona per noi come

1 Ha il grande merito di aver ricostruito per primo, nei suoi momenti filologici e teorici salienti, questa critica di Marx ad Hegel e di averla in tegrata con contributi originali di logica e di storia della filosofia, G. Della Volpe la cui Logica costituisce l'opera di gran lunga più importante che, in ordine a questi problemi, sia apparsa da parte marxista negli ultimi decenni.

2 Per considerazioni assai interessanti a questo proposito, vedasi M. Rossi, " Rovesciamento " e " nucleo razionale " della dialettica hegeliana secondo Marx, in « Opinione », ottobre 1956-marzo 1957.

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la semplice conferma che il contributo positivo della logica spe-culativa di Hegel sta appunto nel suo riconoscimento dell'aspetto razionale della dialettica, cioè della funzione unitaria o relazionale che vi compie la ragione in quanto comprensione o coscienza della contraddizione; momento — sappiamo — che in Hegel si trova però mistificato a causa dell'inversione di soggetto e predicato e quindi dello scambio onde ragione e materia confondono le loro funzioni.

Va da sé che, per la sua stessa natura, il Poscritto — nonché essere un testo chiave per il rapporto Hegel-Marx — va anzi decifrato proprio alla luce di quella critica della dialettica hegeliana a cui Marx appunto si richiama; come ne è prova del resto il fatto stesso che, malgrado sia stato e sia costantemente citato, il Poscritto non è valso a evitare da solo l'interpretazione che —■ a dispetto di Marx e con rinnovata insistenza da alcuni decenni a questa parte — il marxismo avanza a proposito della filosofia di Hegel.

Non deve sorprendere, quindi, se per trovare le fonti di questa interpretazione, dobbiamo ora risalire brevemente alla sinistra hegeliana e, in particolare, a uno scritto del 1842, dal titolo Schelling und die Offenbarung, nel quale Engels, in polemica contro il vecchio Schelling e a nome di tutta la giovane scuola, cosi riassume il proprio giudizio complessivo sul pensiero di Hegel. « I limiti entro cui Hegel ha arginato la violenta e impetuosa corrente del suo pensiero, furono condizionati in parte dalla sua epoca, in parte dalla sua persona. Il si-stema nei suoi lineamenti fondamentali era ultimato prima del 1810, la concezione del mondo di Hegel prese invece forma definita con il 1820. Le sue vedute politiche, la sua dottrina dello Stato modellata sull'esempio dell'Inghilterra, portano innegabilmente l'impronta dell'età della Restaurazione, né a lui del resto fu chiara, nella sua necessità storico-mondiale, la Rivoluzione di Luglio. In tal modo a Hegel stesso toccò di verificare il suo proprio detto, che ogni filosofia è solo il contenuto di pensiero della propria epoca. Le sue personali opinioni vennero, invero, filtrate attraverso il sistema, ma non senza che esse ne influenzassero le conclusioni. Così la sua filosofia della religione e del diritto sarebbe certo riuscita in tutt'altro modo se egli avesse maggiormente astratto dagli elementi di fatto \_von den positiven Ele-menten ] che gli derivavano dall'educazione dell'epoca, e se l'avesse invece sviluppata dal puro pensiero. A questo vanno ricondotte

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tutte le incoerenze, tutte le contraddizioni presenti in Hegel. Tutto ciò che nella sua filosofia della religione appare troppo ortodosso e, nella sua filosofia dello Stato, pseudostorico, va giudicato sotto questo punto di vista. I princìpi sono sempre indipendenti e progressivi, le conclusioni — non lo nega nessuno — suonano qua e là illiberali. Qui ora si inserì un gruppo di discepoli che si attenne ai princìpi e rigettò le conclusioni quando esse non poterono giustificarsi. Fu allora che si costituì l'ala sinistra... » *

La ragione per cui ci richiamiamo a questo scritto di Engels è nel fatto che esso riassume e enuncia tutti, o quasi, i temi che caratterizzano l'interpretazione di Hegel allora avanzata dalla " sinistra " e, in particolare, i suoi due argomenti centrali: la scoperta di una (presunta) contraddizione nella filosofia di Hegel tra i princìpi (rivoluzionari) e le conclusioni (conservatrici); nonché la tesi che tutte le " incoerenze ", tutte le contraddizioni presenti in Hegel, nella sua filosofia della religione come nella sua filosofia dello Stato, non scaturiscono da ragioni intrinseche al suo pensiero, ma sono solo lo scotto da lui pagato alla propria epoca, all'età della Restaurazione: il prodotto del personale compromesso con cui Hegel ha creduto di sanare il conflitto tra l'audacia dei suoi princìpi e la limitatezza del proprio tempo.

A Hegel in sostanza è mancato — secondo questa tesi e come a commento dello scritto di Engels scriverà Herzen nello stesso anno '42 — " l'eroismo della consequenzialità ", la forza di accettare le conseguenze del proprio pensiero, i risultati evidenti dei suoi princìpi. Hegel ha rinunciato ad essi perché « amava e rispettava lo stato di fatto [das Bestehendel », perché « capiva che esso non avrebbe sopportato il colpo e non voleva colpire ». Per il momento, a lui poteva anche bastare di essere giunto a tanto; ma « i suoi princìpi, più di quanto Hegel non fosse stato verso se stesso, sarebbero stati fedeli a lui, — a lui in quanto pensatore staccato dalla propria personalità contingente, dalla propria epoca ecc. », ed essi gli sarebbero sopravvissuti nella sua giovane scuola 4.

3 MEGA, I, 2, pp. 183-4. Lo scritto comparve originariamente, come altri scritti giovanili di Engels, sotto lo pseudonimo di Oswald. La riscoperta di questi scritti giovanili engelsiani si deve a Gustav Mayer.

A A. I. HERZEN, Textes philosophiques choisis, Mosca 1950, p. 340. È interessante notare che il passo di Engels (Oswald), da noi riportato,, ebbe il pieno consenso anche di Belinski che ne venne a conoscenza per una trascrizione quasi letterale compiutane dal suo amico, il critico Botkin. Per maggiori ragguagli, cfr. MEGA, I, 2, Einleitung, pp. XLVI-XLIX.

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Contornano e sviluppano quest'argomento centrale, alcune altre tesi più o meno in voga ancora oggi; tra le quali una prima, per es., distingue il sistema, già compiuto nei lineamenti fondamentali prima del 1810, dalla concezione della storia e della società definitasi in Hegel solo col 1820, richiamandosi soprattutto al diverso tono che anima la filosofia di Hegel prima e dopo la caduta del regime napoleonico. Si sottolinea, in particolare, che, mentre nella Fenomenologia (1807) Hegel è persuaso che, dopo la crisi mondiale rappresentata dalla Rivoluzione francese, con il regime napoleonico abbia inizio una nuova epoca, una nuova Welt-periode di cui egli si propone di cogliere i primi lineamenti; al tempo, invece, della Kechtsphilosophie, che è appunto del 1820, la posizione appare addirittura capovolta: il presente non è più l'inizio di una nuova epoca nella storia del mondo, ma la fine di un lungo periodo di sviluppo dell'umanità \ Argomento, questo, che è indubbiamente di gran peso per l'analisi dello sviluppo interno della filosofia di Hegel, ma a proposito del quale è da notare che esso non può essere assunto, come allora dalla sinistra e oggi da alcuni neohegeliani oltre a Lukacs stesso, come criterio per segnare un divario di principio tra la Fenomenologia * da una parte e l'opera della maturità dall'altra.

Una seconda tesi, invece, riguarda la filosofia della religione che, secondo la giovane scuola, ci rivela, se studiata a fondo, che, prima dei suoi discepoli, fu Hegel stesso a trarre dai suoi princìpi conclusioni atee. Per questo e non per altro — si afferma — la Posaune di Bauer è così importante, « perché essa mostra

5 Per un'ampia trattazione di questo punto cfr. G. LUKACS, Der junge Hegel, Ziirich/Wien 1948 [trad. di R. Solmi, Il giovane Hegel, Torino 1960], pp. 576-87 e più recentemente, dello stesso autore Die Zerstórung der Vernunft, Berlin 1954 [trad. di E. Arnaud, La distruzione della ra gione, Torino 1959], p. 131. Diversa da quella di Lukacs e della sinistra hegeliana è la tesi, invece, di Mehring che, analizzando gli scritti politici di Hegel, ritrova in nuce già nel frammento giovanile del 1798 Ueber die neuesten inneren Verhàltnisse Wiittenbergs il conservatorismo politico della maturità. Mehring considera, quindi, " un vecchio errore " la tesi secondo cui Hegel nella Kechtsphilosophie avrebbe stretto un compromesso con lo Stato prussiano (cfr. Zur Geschichte der Philosophie, Berlin 1931, pp. 104- 109).

6 A. I. HERZEN, Textes philos. cit., p. 576: « Il vero Hegel era quel modesto professore di Jena, amico di Holderlin, che aveva salvato sotto un risvolto dell'abito la Fenomenologia nel momento in cui Napoleone entrava in città; in quel tempo la sua filosofia non portava né al quietismo indù, né alla giustificazione dei regimi politici esistenti, né al cristianesimo prus siano; allora egli non professava ancora la filosofia della religione, ma scri veva cose geniali ».

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quanto spesso in Hegel il pensatore audace e indipendente abbia avuto il sopravvento sul professore 7 sottoposto alle mille influenze », alle mille ristrettezze della sua società. « Essa — dichiara il giovane Engels — è una riabilitazione della personalità di Hegel », di questo pensatore « al quale si richiese di trascendere i limiti del proprio tempo non solo dove egli fu geniale ma anche dove non lo era »; e il libro di Bauer « è la prova che Hegel seppe fare anche questo ».

Quest'ultima considerazione ci permette di accennare al fatto, in apparenza singolare, che, ancora nel 1842, i giovani hegeliani non solo considerano Feuerbach esclusivamente come il critico della religione, come il prosecutore dell'opera di Strauss8, onde il suo nome, la sua opera, vengono ricordati indifferentemente accanto alla Dogmatik e ai « Deutsche Jahrbùcher »; ma che alcuni tra loro, e tra questi Engels stesso, considerano addirittura la critica di Feuerbach al cristianesimo come « un complemento necessario della dottrina speculativa della religione fornita da Hegel », di storcendo così dalle radici tutto il senso di quella critica

In realtà, come è stato da più parti notato, la sinistra hegeliana non arrivò a penetrare il nesso che lega nell'opera di Feuerbach la critica della religione al materialismo '. E il pen-

7 Identico pensiero anche in A. I. HERZEN, Textes phìlos. cit., p. 98: « la natura geniale di Hegel rompeva continuamente le pastoie impostegli dallo spirito del tempo, dall'educazione, dall'abitudine, dal modo di vita, dal titolo di professore ».

8 F. ENGELS in MEGA, I, 2, p. 225: « ...La critica del cristiane simo di Feuerbach è un necessario complemento della dottrina speculativa della religione fornita da Hegel. Questa dottrina ha toccato il suo vertice con Strauss, il dogma si risolve oggettivamente, attraverso la sua propria storia, nel pensiero filosofico. Nello stesso tempo, Feuerbach riduce le de terminazioni religiose a rapporti soggettivi umani, senza per questo annul lare i risultati raggiunti da Strauss, ma dandone anzi la prova. Entrambi, del resto, arrivano allo stesso risultato e cioè che il segreto della teologia è l'antropologia ».

9 Cfr. M. G. LANGE, L. Feuerbach und der junge Marx, in L. FEUER BACH, Kleine philosophìsche Schriften, Leipzig 1950, p. 11 e 16. Si veda anche A. CORNU, K. Marx, Milano 1946, p. 123 : « Malgrado l'affermazione di Engels, la dottrina di Feuerbach non conquistò di primo acchito tutti i giovani hegeliani. In realtà, la sua influenza da principio si aggiunge, prima di sovrapporsi, a quella della filosofia critica, di cui essi avevano fatto la loro arma di combattimento ». L'affermazione di Engels cui Cornu si rife risce è quella arcinota contenuta nel L. Feuerbach. Su di essa si vedano anche le considerazioni di MEHRING, Vita di Marx, Roma 1953, p. 54.

G. MAYER, F. Engels. Etne Biographie, Haag 1934, voi. I, p. 101, osserva che nel 1842 « Engels salutava con gioia l'opera di Feuerbach

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siero di Feuerbach venne, sì, accolto con entusiasmo, ma senza sospettare che egli con la sua opera non intendeva trarre nuove " conseguenze " dal " vero nocciolo " del sistema di Hegel, bensì minarne i " princìpi " stessi. Persino dopo i Grundsàtze, la cui pubblicazione coincide con la soppressione in Germania delle riviste e dei giornali progressivi e quindi con un radicalizzarsi della situazione, « non è il materialismo di Feuerbach — se si fa eccezione per il caso di Marx — che determina il nuovo orientamento dei giovani hegeliani » 10, ma la sua etica, cioè la parte della sua opera più intrisa di residui idealistici e, in genere, di banalità.

Una terza tesi riguarda, infine, la distinzione tra la filosofia " esoterica " ed " essoterica " di Hegel. Distinzione che, in parte, è motivata col fatto che gli scritti che Hegel stesso aveva pubblicato in vita non avevano agevolato con il loro " severo stile scientifico " la comprensione del suo pensiero: onde solo la pubblicazione delle sue opere complete, scrive Engels, " e specialmente delle Lezioni ", aprì la via a quel " meraviglioso tesoro " che giaceva racchiuso nella sua filosofia come " nel grembo di una montagna ", e solo " sulla bocca dei discepoli ", che ne avevano trascritto l'insegnamento orale, la dottrina di Hegel " mostrò un volto più umano e più chiaro ", meno segreto, più aderente al pensiero dell'autore; e, in parte, è invece motivata con la tesi che in Hegel vi fu una certa perplessità, come una sorta di diplomazia, la quale lo indusse a non riportare interamente il suo pensiero nelle opere destinate alla pubblicazione. Tesi che, quando Engels scrive, ha già corso, e ad opera proprio di uno scolaro diretto di Hegel, il poeta Heine, per il quale, come dopo di lui — nota Lukàcs — per tutta l'ala d'avanguardia dei giovani hegeliani ", è chiaro che la vera dottrina di He-

senza sospettare però che essa manometteva il dominio di Hegel ». In altro punto, Mayer nota che « la nuova teoria di Feuerbach divenne chiara a Engels in tutta la sua portata solo poco a poco ».

10 M. G. LANGE, L. Feuerbach una der junge Marx cit., pp. 17-8 e 20.

11 Cfr. G. LUKÀCS, Der junge Hegel cit., p. 589 che riporta anche il seguente passo in cui Heine fa il resoconto di un suo (immaginario) col loquio con Hegel: « ...sono rimasto in piedi alle spalle del Maestro, mentre componeva la musica dell'ateismo; con segni, invero, molto oscuri e pieni di svolazzi perché non tutti potessero decifrarli, — e vidi talvolta che egli si guardava attorno ansiosamente nel timore che qualcuno lo compren desse... Quando un giorno mi mostrai scontento per la frase ' tutto ciò che è, è razionale, ' egli sorrise in modo strano e osservò che essa poteva

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gel, la dottrina segreta, è l'ateismo: l'altra, la proclamazione della religione come Spirito assoluto, rappresenta solo un adattamento esteriore di Hegel alle condizioni della Germania del tempo, il prodotto del suo personale compromesso con la Restaurazione.

Il giudizio complessivo su Hegel a cui queste tesi mettono capo è che, con la sua filosofia, « tutti i principi fondamentali del cristianesimo, anzi di tutto ciò che fino adesso s'è chiamato religione, sono crollati dinanzi alla critica implacabile della Ragione; l'Idea assoluta accampa il diritto a fondare una nuova èra. Il grande sovvertimento di cui i filosofi francesi del secolo scorso furono solo i precursori — scrive Engels — ha trovato il suo compimento nel regno del pensiero », in Hegel. « La filosofia del Protestantesimo, la filosofia da Descartes in poi, è conclusa; una nuova epoca ha inizio... »

Hegel, insomma, è il compimento, il compimento dell'età protestante, ma egli è al tempo stesso anche l'inizio di un nuovo periodo. Come Engels ripeterà poco oltre, « Hegel è l'uomo che ha dischiuso una nuova èra della coscienza, chiudendo quella antica »: « è il nuovo nella figura dell'antico, l'antico nella figura del nuovo »; perciò il compito che la giovane scuola si pone non è quello di criticare la filosofia di Hegel, ma piuttosto di realizzarla. « Il più sacro dovere di tutti coloro che hanno seguito l'autosvolgimento dello Spirito — essa afferma — è di introdurre ora quest'immenso risultato nella coscienza della nazione, di innalzare la Germania a questo principio di vita. » L'aforisma di Hegel " tutto ciò che è reale è razionale " va ormai rovesciato: per Engels, allo stesso modo che per Heine, « ciò eh'è razionale è anche necessario, e ciò ch'è necessario deve essere reale oppure divenirlo ».

Giudizio opposto, dunque, a quello di Feuerbach, per il quale invece « la necessità storica e la giustificazione della nuova filosofia si riattaccano principalmente alla critica di Hegel », non al suo ulteriore sviluppo, proprio perché « la filosofia hegeliana è il compimento della filosofia moderna » 12, e solo que-

anche significare: ' tutto ciò che è razionale, deve essere '... Così solo tardi compresi perché nella Filosofia della storia egli aveva sostenuto che il cri-stianesimo rappresenta un progresso già per il fatto di predicare un Dio che muore, mentre gli dèi pagani non conoscevano morte alcuna. Qual progresso, dunque, se Dio non è esistito affatto! ». Un cenno analogo in A. I. HERZEN, Textes pkilos cit., p. 75. 13 L. FEUERBACH, Princìpi cit., p. 97.

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sto compimento. « Hegel — egli afferma — non è ' l'Aristotele tedesco o cristiano ', bensì il Proclo tedesco. La ' filosofia assoluta ' è la resurrezione della filosofia alessandrina. Secondo l'esplicita asserzione di Hegel, la filosofia assoluta non è quella aristotelica o, in generale, quella pagana antica, ma la filosofia alessandrina, e cioè la filosofia cristiana mescolata con ingredienti ancora pagani. » 13

Se consideriamo ora nel loro complesso le posizioni della sinistra hegeliana, viene spontaneo di rilevare una singolare " analogia " tra questa critica e quella condotta da Marx, nel senso che da entrambe le parti sono chiamati in causa gli stessi momenti della filosofia di Hegel: per un verso le categorie o i princìpi, per l'altro invece gli elementi empirici (die positiven Elemente), cioè quegli stessi due aspetti che Marx individua come l'idealismo e il positivismo di Hegel. Senonché, mentre per la sinistra vi è contraddizione nella filosofia di Hegel tra la " purezza " dei princìpi rivoluzionari e le conseguenze positive e conservatrici che egli ne trae, per Marx l'astrattezza o meglio l'apriorismo di quei princìpi e il positivismo delle conclusioni a cui Hegel giunge, sono invece — come si è visto — gli aspetti organici e complementari di una stessa concezione speculativa.

Questo profondo contrasto di interpretazioni esplode in modo assai drastico già in una nota di Marx alla Dissertazione di laurea. « Riguardo a Hegel — egli scrive — è pura ignoranza [blosse Ignoranza dei suoi discepoli che essi spieghino questa o quella caratteristica del suo sistema con compromessi o cose del genere, in una parola moralisticamente [moralisch]. Che un filosofo cada, infatti, in questa o in quella apparente incoerenza per questo o quell'accomodamento, è cosa concepibile; egli stesso anzi può esserne cosciente. Ma quello di cui egli non ha coscienza è che ciò che a lui sembra solo un accomodamento ha la sua più intima radice in una insufficienza o in un'insufficiente comprensione del suo stesso principio. Se quindi un filosofo stringe effettivamente un compromesso, i suoi discepoli hanno il compito di spiegare, partendo dalla sua coscienza intima ed essenziale, ciò che per lui stesso aveva la forma di una coscienza essoterica. In questo modo, ciò che appare come un progresso della coscienza morale, è al tempo stesso anche un progresso

13 Ivi, p. 114. Per il parallelo Hegel-Proclo cfr. anche KARL LOWITH, Da Hegel a Nietzsche, Torino 1949, pp. 73-4, con il relativo rinvio ai passi delle Lettere e delle opere di Hegel.

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del sapere. La coscienza privata [partikulare] del filosofo non viene sospettata, la forma della sua coscienza essenziale viene invece ricostruita, innalzata a una determinata figura e significato, e con ciò stesso superata. » '4

L'atteggiamento della giovane scuola, insomma, è " non filosofico ", " non critico ": il problema, infatti, non è di spiegare la filosofia di Hegel per mezzo dei suoi eventuali compromessi, ma di ricercare la possibilità di questi compromessi stessi nell'intima costituzione di quella filosofia. Possibilità che Marx già intravede nei lavori preparatori alla Dissertazione in uno scorcio magistrale dedicato a Platone e a Hegel. « Nello sviluppo — egli scrive — di determinati problemi, morali, religiosi o anche di filosofia della natura [...], Platone si dà a un'esposizione positiva dell'assoluto. La forma essenziale, la forma che è intimamente connessa a questo tipo di esposizione è il mito e l'allegoria. Quando da un lato, infatti, sta l'assoluto, dall'altro la realtà positiva e finita, e il positivo deve essere tuttavia conservato, allora esso diviene un medium attraverso il quale risplende la luce dell'assoluto [...]. Il finito, il positivo, acquista un significato altro da sé [deutet ein Anderes als sich selbst], [...] il mondo intero diviene un mondo di miti. Ogni figura diventa un enigma. Questo processo si è ripetuto anche nell'età moderna e in ragione di una legge simile. » '5

A differenza, dunque, della giovane scuola per la quale il fatto che Hegel elevi l'esistenza a determinazione dell'assoluto è da considerare come una semplice " incoerenza " personale dettata da spirito conservatore e cioè dal desiderio di " non lasciar comparire la critica ", per Marx questo processo costituisce invece un momento intrinseco alla filosofia stessa, sia nella versione platonica che in quella hegeliana. « Questa esposizione positiva dell'assoluto e l'abito mitico-allegorico » che le è proprio — egli dice — « è la sorgente e il battito vitale della filosofia della trascendenza »: l'aspetto ond'essa s'accomuna « a qualsiasi religione positiva e particolarmente alla cristiana, che è la filosofia della trascendenza compiuta e perfetta ». Per questa " esposizione ", Marx continua, " un individuo come tale " non vale agli occhi di Platone per ciò che propriamente è, e cioè come un individuo dotato di tali e talaltri attributi specifici,

14 MEGA, I, 1/1, p. 64. 15 MEGA, I, 1/1, pp. 137-8.

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ma solo come simbolo o allegoria di un genere o di un'Idea astratta: Socrate, per es., « come lo specchio o per così dire il mito della Saggezza ». Osservazione, che l'Aristotele antiplatonico puntualmente riscontra, quando scrive che « il sostrato delle affermazioni è, ad es., un uomo, un corpo; e affezioni sono l'esser musico o bianco »; onde poi nota: « quando la musica diviene nell'uomo, noi non diciamo che egli è la musica, ma musico, così come non diciamo ch'egli è la bianchezza ma bianco [...]: così come dianzi dicevamo di un oggetto ch'esso è fatto di questo o quello. In tutti i casi di questo genere il sostrato ultimo è la sostanza » (Metaphys., 1049 a).

Incapace di sollevarsi a una critica interna, seria, della filosofia hegeliana, la " sinistra " rimane al contrario — nota Marx — in un " atteggiamento completamente acritico " di cui colpisce la totale inconsapevolezza a proposito della « questione, in parte formale, ma realmente sostanziale, di come contenersi con la dialettica hegeliana »; oltre all'inettitudine, naturalmente, a tener conto dei risultati, sia pure insufficienti e ancora parziali, a cui è giunto Feuerbach 16: « il solo che sia in un rapporto serio e critico con la dialettica di Hegel e che abbia fatto delle vere scoperte in questo campo » (OFG, 291 e 293). Da qui — nota la Deutsche Ideologie— il fatto che la sinistra hegeliana non riesca " ad abbandonare il terreno della filosofia ". « Lungi dal l'indagare i suoi presupposti filosofici generali », essa ha mutuato l'insieme dei suoi problemi da « un determinato sistema filosofico, quello hegeliano », soggiacendo a una « dipendenza da Hegel » che spiega bene come « nessuno di questi critici abbia anche solo tentato una critica esauriente del sistema hegeliano » 17.

Non è nostra intenzione indagare in questa sede il come e il perché sia stato possibile che proprio questo atteggiamento acritico della sinistra nei riguardi di Hegel sia stato a un certo punto presentato come l'atteggiamento di Marx. E lasciamo al Cornu, che non è in questo caso un buono storico, la responsabilità di affermare che, « sviluppando il lato rivoluzionario di questa dottrina [di Hegel], gli hegeliani liberali, che rappresentavano le

16 Per questi contributi di Feuerbach e per i loro limiti si veda un ottimo studio di A. MAZZONE, Il problema delle scienze morali e la media zione teoretica dalla critica feuerbachiana ai Manoscritti di Marx, in « Aut- Aut », novembre 1955.

17 Deutsche Ideologie, Berlin 1953, p. 14.

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nuove aspirazioni della borghesia, sottolineavano la contraddizione esistente tra il sistema conservatore di Hegel e il suo metodo dialettico, e mostravano ch'era illogico e vano pretendere d'arrestare il cammino di questa dialettica per giustificare e mantenere l'attuale stato di cose »: salvo poi a concludere pacificamente che « questa critica, inaugurata da Gans nel diritto, doveva in seguito venir applicata da D. F. Strauss e B. Bauer alla dottrina religiosa, e poi da Ruge e Marx [!] alla dottrina politica di Hegel » 1S. Il fatto certo è, però, che, come trent'anni dopo nel Capitale Marx si è richiamato alla sua critica giovanile, così qualcosa di simile ha fatto, a suo modo, nel 1888, cioè a distanza di quarantasei anni, Engels nel L. Feuerbach.

E probabile che ricostruendo storicamente il processo per cui Engels è giunto al comunismo teorico, si debba concludere, come da alcuni indizi oggi a me sembra, che il passaggio si compì prevalentemente per lui sul terreno dell'economia politica, senza approfondire la critica della vecchia filosofia speculativa, onde, riprendendo molti anni dopo a trattare argomenti filosofici, sarebbe comprensibile com'egli potè, in parte, riprodurre e restaurare concezioni giovanili. In genere è da tener conto, poi, che, seppure « non bisogna sottovalutare il contributo di Engels, non bisogna neanche identificare Engels e Marx, né bisogna pensare che tutto ciò che il primo ha attribuito al secondo sia assolutamente autentico e senza infiltrazioni » (Gramsci). Questa distinzione, anzi, è tanto più necessaria se si tiene conto che, proprio al livello dei problemi più schiettamente teorici, la differenza tra i due pensatori è netta. Qui si avverte tangibilmente lo stacco tra il rigore e la complessità che caratterizza ogni pagina di Marx, e l'andamento divulgativo, popolare, a volte dilettantistico dell'opera di Engels; il quale, del resto, attese di proposito e consapevolmente a questo lavoro di diffusione e volgarizzazione. Se in questi ultimi decenni il marxismo teorico non avesse attraversato un serio processo di involuzione e di sclerosi dogmatica, e se d'altra parte proprio in questo periodo non si fosse compiuta e perfezionata la " sovrapposizione ", già in corso da tempo (in Italia, per es., fin dal Labriola), del pensiero di Engels a quello di Marx, — la divergenza non meriterebbe di essere sottolineata con forza come in-

18 A. CORNU, K. Marx cit., I, pp. 66-7. Nulla di nuovo da questo punto di vista apporta l'altro lavoro del CORNU, K. Marx und F. Engels (Leben und Werk), I, Berlin 1954.

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vece deve esserlo oggi. Sta di fatto, tuttavia, che già con YAnti-dùhring e poi più esplicitamente col Feuerbach, il " marxismo " incorpora a sé questa banalità liberale e piccolo-borghese secondo cui la clavis aurea per intendere Hegel sarebbe da ricercare nella contraddizione tra il metodo e il sistema, tra i princìpi rivoluzionari e le conclusioni conservatrici; tesi già liquidata da Marx, abbiamo visto, con la semplice osservazione che « è superfluo discorrere di un accomodamento di Hegel con la religione, lo Stato ecc., che questa menzogna è la menzogna del suo concetto di progresso », cioè della sua concezione della dialettica ".

Ritroviamo allora puntualmente, con Engels, più o meno tutte le considerazioni della sinistra hegeliana. La contraddizione tra il lato conservatore e quello rivoluzionario (« Il carattere conservatore di questa concezione è relativo, il suo carattere rivoluzionario è assoluto — il solo assoluto ch'essa ammetta » \_Feuer., p. 15]); onde «coloro che davano importanza soprattutto al sistema di Hegel potevano in entrambi questi campi [religione e politica] essere piuttosto conservatori; coloro per cui l'essenziale era il metodo dialettico, potevano appartenere, tanto in religione che in politica, all'opposizione estrema » {ivi, p. 19). Ritroviamo la tesi che il " divenire ", l'evoluzione, « è una conseguenza necessaria del suo metodo, ma una conseguenza ch'egli stesso non ha mai tratto in modo così esplicito. E ciò pel semplice motivo che egli era costretto a costruire un sistema; e un sistema di filosofia, secondo le esigenze tradizionali, deve conchiudersi con una specie qualunque di verità assoluta » (p. 15). L'argomento che la conclusione, la fine della storia in Hegel dipende da motivi " soggettivi ", dalla necessità di " fare il sistema "; bisogno che Engels sembra poi ricondurre quasi a una inestinguibile metaphysica naturalis che albergherebbe nel petto dell'uomo, onde egli osserva che « in tutti i filosofi l'elemento caduco è proprio il ' sistema ', e precisamente perché emana da un bisogno imperituro dello spirito umano, il bisogno di rimuovere tutte le contraddizioni. Ma rimosse che siano, una volta per sempre, tutte le contraddizioni, siamo arrivati alla cosiddetta verità assoluta, la storia universale è finita » (con il che però — esclama Engels [pp. 16-18] — « si dichiara verità

19 Su un dibattito tenutosi nella « Deutsche Zeitschrift fur Philo-sophie » a proposito del rapporto Hegel-Marx e occasionato dalla ristampa tedesca del Giovane Hegel di Lukàcs, cfr. l'interessante art. di N. MERKER, Una discussione sulla dialettica, in « Società », ottobre 1956.

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assoluta tutto il contenuto dogmatico del sistema hegeliano, in contraddizione col suo metodo dialettico, che dissolve ogni elemento dogmatico », mentre « in questo modo il lato rivoluzionario viene soffocato da una ipertrofia del lato conservatore »). E ultima, infine, ritroviamo la tesi che la " conclusione politica molto modesta " che Hegel ricava dal suo " metodo rivoluzionario " proviene dalla sua natura di professore benpensante, dal fatto cioè « che Hegel era un tedesco e gli pendeva dietro, come al suo contemporaneo Goethe, un pezzo di codino di filisteo » (« Tanto Goethe che Hegel furono, ognuno nel suo campo, un Giove olimpico, ma né l'uno né l'altro si liberarono mai per intero dal filisteismo tedesco» [p. 17]); argomento, quest'ultimo, che aprirà poi le porte al vero e proprio sociologismo volgare di Lukacs, e cioè al tentativo di spiegare le insufficienze di Hegel principalmente con l'arretratezza sociale della Germania del tempo.

Rileviamo solo di sfuggita (perché è sintomatico per il modo precettistico in cui il marxismo ha finora trattato il rapporto Hegel-Marx) una singolare contaminazione. La formula engel-siana secondo cui il metodo rappresenta l'aspetto rivoluzionario e il sistema il lato conservatore della filosofia hegeliana, è stata spesso coniugata dal marxismo che è oggi in circolazione con la formula del Capitale secondo cui è da distinguere un nocciolo razionale dal guscio mistico entro la dialettica stessa di Hegel: con il risultato finale che il nucleo razionale è così diventato il metodo hegeliano stesso, e il guscio mistico invece solo il sistema. E tralasciamo anche le varie contraddizioni che ricorrono spesso nel discorso di Engels, onde mentre per un lato si afferma che il metodo dialettico è l'aspetto rivoluzionario che va liberato dalle « pastoie idealistiche che avevano impedito a Hegel di applicarlo in modo conseguente » (p. 52), per un altro si riconosce invece — e giustamente — che « nella forma che Hegel gli aveva dato, questo metodo era inservibile » (p. 50). È chiaro che se la controversia vertesse solo intorno all'interpretazione di Hegel, la cosa in fondo avrebbe scarso peso. Senonché il fatto sostanziale è che da questa diversa interpretazione Engels ricava alcune deduzioni che avranno un peso decisivo sul corso ulteriore del marxismo teorico e che ne modificheranno profondamente il carattere e la struttura.

Diciamo subito che il senso complessivo di questa operazione, il cui risultato è l'immissione pura e semplice della dialettica

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idealistica entro il marxismo, è già implicito nel modo in cui Engels crede che si debba rivedere e correggere Hegel. Egli, infatti, vede sì « che per Hegel l'evoluzione dialettica, che si manifesta nella natura e nella storia [...], è soltanto il riflesso del movimento del concetto in sé stesso »; e che, al contrario, si tratta di concepire i concetti « come riflessi delle cose reali » (p. 51). Solo che, per "raddrizzare" la dialettica hegeliana, egli crede che basti una semplice inversione meccanica, che basti cioè prendere questa dialettica così com'è e " applicarla " alla materia. In altre parole, la dialettica — ragiona Engels — si riduce « alla scienza delle leggi generali del movimento, tanto del mondo esterno quanto del pensiero umano, a due serie di leggi identiche nella sostanza» (p. 51). Per Hegel, la "serie" del mondo esterno è il riflesso della " serie " del pensiero, e perciò la dialettica " si regge sulla testa "; per me e per Marx, invece, la cosa sta all'inverso, e così la dialettica viene " rimessa a reggersi sui piedi ".

Sorvoliamo pure sul vero e proprio parallelismo psico-fisico a cui Engels mette capo con questa concezione delle " due serie ", dei due processi che scorrono l'uno di fronte all'altro e di cui il secondo è " lo specchio " del primo. L'ingenuità della sua critica risulta chiara se si considera che, in quanto Engels assume come " leggi generali del movimento " quelle stesse di Hegel (passaggio della quantità in qualità e viceversa, negazione della negazione ecc.), egli si ritrova per le mani —dopo il capovolgimento meccanico — la stessa dialettica di prima. Il che accade — lo sottolineiamo con forza una volta per sempre — proprio in quanto Engels non si avvede che il problema non è di " applicare " la dialettica di Hegel alle cose (applicazione che Hegel per primo ha sempre dato); ma di vedere come la materia, le cose, entrino concretamente a strutturare la nuova dialettica, come cioè quest'ultima si configuri, una volta che non sia più dialettica di puri pensieri. E allora è evidente che quelle leggi generali o generiche a cui Hegel è giunto proprio in virtù del suo idealismo, proprio in quanto cioè ha sostituito " il movimento del concetto in se stesso " o la relazione di puri concetti al rapporto ragione-materia, non potranno estendersi anche alla nuova dialettica materialistica o scientifica.

Il primo risultato a cui questa " resurrezione " di Hegel doveva inevitabilmente portare è stato quello di restituire nuova e ingloriosa vita al vecchio rapporto di filosofia e scienza e, con

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esso, alla concezione della filosofia come enciclopedia delle scienze, ovvero come « scienza delle scienze, che vorrebbe librarsi sopra tutte le scienze speciali e darne la sintesi » (p. 49).

La filosofia diviene, in tal modo, " la sintesi a mezzo del pensiero dialettico " dei " risultati delle scienze positive " (p. 18); e " ad ogni scoperta che fa epoca nel campo delle scienze naturali ", il marxismo, che è appunto quella sintesi, deve naturalmente " cambiare la sua forma " (p. 30). La filosofia, in altre parole, c'è per « poter fornire un quadro sinottico dell'assieme della natura in forma approssimativamente sistematica, servendosi dei fatti fornitici dalle stesse scienze naturali empiriche » (p. 55); perché, come al solito, da un lato sta lo scienziato " positivo ", che lavora col metodo sperimentale che è il solo col quale cavi il ragno dal buco, e dall'altro e sopra di lui sta invece il vecchio filosofo (nient'affatto " positivo " ma dilettante) che provvede però a " dialettizzare " i risultati delle ricerche positive che gli vengono sottoposti. Ancora una volta, i dati delle scienze diventano così " esempi " di quelle leggi generalissime che padroneggia solo il filosofo e che nessuno d'altra parte si sognerà mai di contestargli proprio perché si tratta — sappiamo — di un metodo " assoluto " che " spiega ogni cosa ", e, quindi, « di forme d'astrazione generali, astratte, concernenti — dice Marx — qualunque contenuto, e però tanto indifferenti ad ogni contenuto che valide per ogni contenuto ».

Vero è che — come Engels stesso osserva — « fornire questo quadro complessivo era nel passato il compito della cosiddetta filosofia della natura » e che « essa poteva farlo solo ponendo, in luogo dei nessi reali ancora sconosciuti, dei nessi ideali, fantastici » (p. 55). Solo che egli non si avvede poi che i nessi che ci dà nella Dialettica della natura sono altrettanto fantastici, e ciò per il semplice fatto che sono gli stessi che Hegel ci dà nella filosofia della natura20. Da questa contraddizione Engels non è mai venuto fuori, e basta vedere come egli procede nel-VAntidùhring, là dove ragiona della " negazione della negazione ". In un primo momento, infatti, ci dice che essa « è una legge di sviluppo estremamente generale della natura, della storia e del pensiero e che appunto perciò ha un raggio d'azione e una importanza estremamente grandi »; quindi, che questa legge,

20 Cfr. G. DELLA VOLPE, Ver la teorìa di un umanismo positivo, Bologna 1949, p. 13.

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« come abbiamo visto, risalta nel mondo animale e vegetale, nella geologia, nella matematica, nella storia, nella filosofia » e che ad essa, « malgrado ogni lotta e ogni resistenza, anche il sig. Dùhring, senza saperlo, è obbligato, a suo modo, ad obbedire ». In un secondo momento, ammette invece che è evidente che, « riguardo al particolare processo di sviluppo che compie per es. il chicco d'orzo dalla germinazione sino alla morte della pianta che reca la spiga, io non dico assolutamente niente dicendo che è negazione della negazione », infatti, « se affermassi il contrario, poiché il calcolo integrale è ugualmente negazione della negazione, affermerei solo l'assurdo che il processo biologico di una spiga di orzo sia calcolo integrale o anche, ahimé! socialismo ». Nel terzo, infine, ritorna al punto di partenza; afferma, cioè, che « se di tutti questi processi io dico che sono negazione della negazione, li comprendo tutti insieme sotto questa unica legge del movimento e precisamente perciò trascuro le particolarità di ogni singolo processo speciale »ai. Dove è chiaro che Engels non vede queste tre cose. Primo: che la legge trova conferma dovunque perché, vera conferma, non la trova mai; che essa, insomma, è come il padreterno di André Gide: « chaque créature indique Dieu, aucune ne le révèle ». Secondo: che una legge che non mi spiega nessun processo particolare, non mi spiega niente e quindi non è una legge. E terzo, infine, che questa " unica legge del movimento ", se in tanto comprende tutti i movimenti concreti in quanto trascura le particolarità di ogni singolo processo reale, è allora appunto una " legge " idealistica, una legge cioè senza alcun riscontro oggettivo, che astrae da tutti i processi specifici o reali, e quindi dal mondo: e, insomma, è una di quelle tali leggi che si costruiscono « a forza di astrarre da ogni soggetto tutti i pretesi accidenti, animati o inanimati, uomini o cose » fino « ad avere come sostanza le categorie logiche », e di cui abbiamo già visto che gran conto Marx faccia. Quanto dev'essere dura quella testa nella quale in un quarto d'ora non si possano inculcare queste supreme " leggi dialettiche ", e quanto ottuso colui il quale non possa così, in un batter d'occhio, venir trasformato da quel " praticone " che era in uno scienziato " dialettico ". « Il formalismo della filosofia della natura », scrive Hegel, autocritico ante litteram della sua dialettica della luna e della cometa, « può mettersi a insegnare

21 Antidùhring, Roma 1950, pp. 154-5.

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che l'intelletto è l'elettricità, o che l'animale è l'azoto; lo può insegnare nudo e crudo come qui viene espresso o anche condito con più ricca terminologia; l'incompetenza potrà ben sentirsi stupita di fronte a una simile forza capace di congiungere e d'inquadrare ogni più remota parvenza; [...] potrà inchinarsi di fronte a sì profonda genialità; potrà anche prender diletto alla fatuità di tali determinazioni [...]. Il trucco di una simile saggezza è così presto imparato quanto facilmente messo in opera. Ma non appena scoperto, la sua ripetizione diverrà tanto insopportabile, quanto la ripetizione dell'apprezzata arte d'un prestigiatore. Lo strumento di questo monotono formalismo si maneg-gia così facilmente come la tavolozza di quel pittore sulla quale si trovassero soltanto due colori, poniamo il rosso e il verde, adoperando l'uno per le scene storiche, l'altro per i paesaggi, secondo la richiesta. — Sarebbe difficile decidere qual sia più grande: se la comodità con cui tutto ciò che è in cielo, sulla terra o sotto terra vien cosparso di quell'acquetta colorata, o l'orgoglio di aver trovato una chiave buona per tutti gli usci » {Fen., I, 44). Si obietterà che, dopo tutto, nel celebre capitolo dell'Anti-duhring Engels risponde a una critica che trae pretesto proprio da una affermazione di Marx, in cui il socialismo è qualificato come negazione della negazione. Senonché a questo non risponderemo solo che espressioni simili ricorrono nell'opera di Marx non più di quattro o cinque volte (le ha contate il prof. Vor-laender). Né ci limiteremo solo a ricordare con Engels che Marx non ha mai pensato di " dimostrare " il passaggio dal capitalismo al socialismo con la negazione della negazione, ma, « al contrario, dopo aver dimostrato storicamente che il processo, in effetti, in parte si è compiuto e in parte deve ancora compiersi, lo caratterizza inoltre come un processo che si compie secondo una legge dialettica determinata » (p. 147); che è formulazione ancora insufficiente giacché non spiega che necessità vi sia poi di quel!' " inoltre ". Bensì risponderemo come Lenin negli Amici del popolo rispose « all'accusa banale che attribuisce al marxismo la dialettica hegeliana, accusa che, a quanto pare, è già stata abbastanza logorata dai critici borghesi di Marx »: e cioè che « l'insistenza sulla dialettica, la scelta di esempi i quali dimostrano che la triade è giusta, non sono che residui di quell'hegelismo dal quale è sorto il socialismo scientifico, residui del suo modo di esprimersi »; che alcuna « importanza possono aver esempi di processi ' dialettici ', dal momento che si è dichiarato categori-

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camente che è assurdo voler ' dimostrare ' una cosa con le triadi, che nessuno ha mai pensato a questo »; e, insomma, che « è chiaro che questa è un'allusione all'origine della dottrina e niente più » (Opere, I, Roma 1954, p. 160). Al che, se poi non bastasse, sarà sufficiente aggiungere con Quintiliano che... quandoque dor-mitat Homerus ipse.

Da un lato, dunque, le scienze, e dall'altro e sopra di esse la filosofia che ne raccoglie i risultati e li generalizza ulteriormente: come se il massimo di generalità a cui l'astrazione può essere portata senza che perda qualsiasi determinatezza e, quindi, ogni significato, ogni collegamento oggettivo, non fosse già quello a cui pervengono gli scienziati (quando fanno, s'intende, scienza effettiva)22. Oppure, all'inverso, niente più filosofia sopra le scienze (dato che Engels riconosce anche — e giustamente — che tutti i tradizionali settori della filosofia si sono risolti ormai nelle

22 Per un'analisi assai penetrante del carattere indeterminato o metafisico delle astrazioni della scienza economica moderna e per la loro cattiva generalità, pagata a prezzo della concretezza, cfr. M. DOBB, Economia politica e capitalismo, Torino 1950, pp. 129 sgg. Premesso che, entro certi limiti, il metodo d'astrazione dell'economia borghese è valido, in quanto « una generalizzazione non sarebbe una generalizzazione, ma un'ipotesi immaginaria, se ciò ch'essa generalizza non fosse qualcosa di comune ai fenomeni cui si riferisce », Dobb nota che il pericolo di questo metodo « consiste nel venir spinto oltre il punto in cui i fattori che esso comprende cessano di essere i principali fattori determinanti la natura del problema ». « Molto spesso — egli aggiunge — questo metodo di progressivo affinamento dell'analogia ha condotto a sofismi. » « In tutti questi sistemi astratti esiste serio pericolo di ipostatizzare i propri concetti: di considerare che i rapporti postulati siano determinanti in ogni situazione reale... e, quindi, di presumere troppo presto che siano applicabili a situazioni nuove o imperfettamente conosciute, col risultato di finire in un astratto dogmatismo » e « di introdurre inavvertitamente assunzioni puramente immaginarie ». « Elemento importante, nella teoria marxiana dell'ideologia, era che, in una società divisa in classi, le idee astratte formulate in una data società tendono ad assumere carattere fantomatico o feticistico, nel senso che, essendo considerate come rappresentazioni della realtà, vengono a rappresentare la società reale in una forma invertita o distorta. Quindi, esse servono non soltanto a nascondere la reale natura della società agli occhi dell'uomo, ma a rappresentarla falsamente. Gli esempi che Marx cita erano tratti principalmente dai concetti della religione e della filosofia idealistica. [...] Nel campo del pensiero economico (dove a prima vista lo si sospetterebbe meno) non è difficile vedere in azione una tendenza parallela. Si può ritenere abbastanza innocente l'astrarre certi aspetti dei rapporti di scambio al fine di analizzarli isolati dai rapporti sociali di produzione. Ma in realtà avviene che, una volta fatta questa astrazione, le si è conferita un'esistenza indipendente come se essa rappresentasse l'essenza, invece che un aspetto contingente della realtà. I concetti vengono ipostatizzati; l'astrazione acquista un valore feticistico, per usare l'espressione di Marx. Qui sta, sembra, il pericolo capitale di questo metodo e il segreto delle confusioni che hanno intorbidato il pensiero economico moderno. »

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varie scienze positive), ma scienze che debbono procedere esse stesse al lume delle cosiddette " leggi dialettiche ". E allora abbiamo, da una parte, i Casanova, i Prenant, i Teissier, i Cognot, i Garaudy, i Rosenthal, ciascuno memorabile a suo modo per aver " dialettizzato " le matematiche, o il girino e la rana, o l'universo intero dalla nebulosa primitiva al socialismo: ultima progenie basso-hegeliana. Oppure, dall'altra, la testimonianza di quei giovani scienziati marxisti, meno disinvolti, i quali — riunitisi a Strasburgo per studiare " dialettica della natura " fìnanco armati della Logique dialectique di Henri Lefebvre — debbono alla fine constatare che « il nous est en general plus facile de trouver ces illustrations dans la logique dialectique ou dans les abstrac-tions des concepts scientifiques que dans les phénomènes eux-mèmes. Engels est bien là pour affirmer que la dialectique de la pensée est le reflet de la dialectique de la nature. Mais nous n'avons pas une maìtrise sufEsante du matérialisme dialectique et le clanger nous guette d'appliquer des schémas dialectiques à des analyses connues, de coller la dialectique au reflet déjà acquis de la matière par nos études universitatres » (« La Pensée », sett.-ott. 1954, p. 84).

Ma, restaurata la dialettica hegeliana, è indispensabile restaurarne poi l'accessorio più importante: la critica dell'intelletto. L'opposizione tra " l'ordinario intelletto umano " e la ragione dialettica che celebra i suoi fasti nella santa casa della logica (opposizione perfettamente coerente in Hegel), entra ora a vele spiegate anche nel marxismo. Il « cosiddetto senso comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello spazio compreso fra le quattro pareti domestiche, va incontro — dice Engels — ad avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell'indagine scientifica ». Qui, infatti, non regna più « la maniera metafisica di vedere le cose, giustificata e perfino necessaria [ ! ] in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda della natura dell'oggetto », ma regna la " dialettica ", la negromanzia hegeliana per cui « ogni corpo organico, in ogni istante, è e non è il medesimo » e per cui non ci si può attentare di dire se questo è bianco o nero, perché esso è insieme bianco e non-bianco, è e non è. Anche per il marxismo come per Hegel, insomma, metafisica dev'essere ormai non più quella filosofia che tenta di valicare il mondo dell'esperienza, che ipostatizza il pensiero, che sostiene con Hegel che « soltanto le cose, quali cose di un altro mondo, di un mondo soprasensibile,

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son poste in primo luogo come vere esistenze » (II, 158); bensì metafisico è colui il cui " discorso è: sì, sì; no, no ", colui per il quale " una cosa esiste o non esiste " ed è " impossibile che una cosa nello stesso tempo sia se stessa e un'altra " (Antid., pp. 27-8). Metafisico, insomma, è il principio di non-contraddizione.

Lasciamo stare l'osservazione fin troppo ovvia, ma giusta, che Hegel per primo non si può sottrarre a questo principio nella misura in cui il suo discorso ha un senso compiuto; per cui, quando egli ci dice, ad es., che la filosofia è idealismo (e non già che è e non è idealismo), oppure che Dio è (e non già che Dio è e non è) ecc., anch'egli non può non rispettare la noncontraddizione. E sorvoliamo anche sul fatto che se il ragionamento di Engels fosse giusto, non solo il marxismo dovrebbe dire, insieme e nello stesso tempo, che la materia è e non è, che le classi sociali sono e non sono e via di seguito, ma salterebbe ogni costruzione della scienza e, primo tra tutti, il rapporto causa-effetto: giacché, se è vero che tutti gli elementi di una situazione " si determinano reciprocamente ", lo stesso si può dire di qualsiasi cosa nell'universo in qualsiasi momento, e questo non impedisce però, nota Dobb, « che sia vero che in rapporto alla nostra conoscenza della situazione e alla pratica, vi sono certi fattori i quali costituiscono la ' chiave ' di tutte le altre variabili e quindi debbono esser distinti come fattori essenziali e determinanti, altrimenti tutte le proposizioni causali sarebbero impossibili »; onde — dopo aver riportato il giudizio di Engels sul principio di causa — egli osserva che «ciò, tuttavia, non gli [a Engels] impedì di parlare del ' primato ' (per es.) del fattore economico nella storia, come base di interpretazione e di previsione in un particolare contesto storico » perché, egli conclude, « il riconoscimento della interazione non implica l'impossibilità di qualsiasi proposizione causale, ma solo il riconoscimento che qual-siasi di tali proposizioni necessariamente isola certe determinate influenze come le più importanti in un dato contesto » (Ec. polii. cit., p. 47).

Il fatto decisivo, ancora una volta, è che Engels, e tutta la vulgata dopo di lui, non vede che la coincidentia oppositorum può valere solo quando si riducono le contraddizioni reali a un'opposizione pura o del pensiero; e che, perciò, se questa dialettica è di casa nella filosofia di Hegel, non può esserlo e non lo è nel pensiero di Marx. Nella Miseria della filosofia, subito

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dopo aver parlato della " formula puramente logica del movimento ", ovvero del " movimento della ragion pura ", cioè della mobilità mistificata, celiando a proposito dell'hegelismo di Proud-hon, Marx scrive: « come fa la ragione ad affermarsi, a porsi in categoria determinata? È affare, questo, della ragione stessa e dei suoi apologisti. Ma, una volta che essa sia pervenuta a porsi come tesi, questa tesi, questo pensiero, opposto a se stesso, si sdoppia in due pensieri contraddittori: il positivo e il negativo, il sì e il no. La lotta di questi due elementi antagonistici, racchiusi nell'antitesi, costituisce il movimento dialettico. Il sì diventa no, il no diventa sì, il sì diventa contemporaneamente sì e no, il no diventa contemporaneamente no e sì, quindi i contrari si equilibrano, si neutralizzano, si paralizzano. La fusione di questi due pensieri contraddittori costituisce un pensiero nuovo che ne è la sintesi. Questo pensiero nuovo si svolge ancora in due pensieri contraddittori che si fondono a loro volta in una nuova sintesi » e così via all'infinito (pp. 87-8). Non una cosa seria, dunque, ma quasi da ridere, almeno per chi non " civetti " con Hegel oltre i limiti della decenza. E occorre, certo, che il tarlo dell'idealismo sia andato ben a fondo, se un marxista della levatura di Lukàcs può considerare tuttora come sinonimi " pensiero discorsivo " e " pensiero metafisico " e assumere ancora oggi, nella Distruzione della ragione, come criterio discriminante tra razionalismo e irrazionalismo la dialettica di Hegel! M O dovremo forse dire che come il piccolo borghese Jaspers ha un'etica del giorno e una della notte, così taluni marxisti hanno una logica profana e una esoterica, per quando, come dice Hegel, si filosofa " nella domenica dello spirito "?

Ma affrontiamo il problema di fondo che è dietro la restaurazione engelsiana della dialettica idealistica: il problema del movimento. « Sino a quando consideriamo le cose in stato di riposo e prive di vita, ciascuna per sé, l'ima accanto all'altra, è certo — ci dice YAntiduhring — che in esse non incontreremo nessuna contraddizione [...]. Nella misura in cui questo campo di indagine è sufficiente, ce la caviamo con l'abituale modo di pensare metafisico. Ma è invece tutt'altra cosa allorché consideriamo le cose nel loro movimento [...]. Qui cadiamo subito in contraddizione. Lo stesso movimento è una contraddizione » (p. 133). La " logica formale ", dunque, o meglio il principio di non-contrad-

"" Zerstorung cit., p. 93.

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dizione, pure essendo un principio " metafisico ", sarebbe valido per trattare le cose nel loro stato di quiete; la " dialettica ", invece, sarebbe la logica che spezzerebbe la limitata validità del principio aristotelico proprio perché questo principio aristotelico sarebbe innanzi tutto infranto dal movimento reale stesso. Questa tesi, ripresa poi da Plechanov nei suoi Problemi fondamentali del marxismo e oggi quasi indiscussamente affermata nel marxismo contemporaneo, è tratta di peso da Engels dalla Logica di Hegel, dove troviamo appunto affermato che « l'esterior moto sensibile non è che l'esistenza immediata della contraddizione. Qualcosa si muove — dice Hegel — non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui » (II, 70).

La concezione, tuttavia, come Hegel stesso ricorda, ha origine assai più antica, e risale ai " dialettici " greci e, precisamente, alle aporie di Zenone d'Elea. La freccia scoccata dall'arco — dice per es. Zenone — si trova, è, in ogni momento in un determinato punto dello spazio. Se ne deduce, quindi, egli conclude, che, poiché in ogni momento la freccia è in un punto, il suo movimento è contraddittorio, impossibile: esso è solo una nostra illusione. Un marxista polacco, Adam Schaff, ha osservato 24 che questa aporia può essere attaccata da varie parti. Essa lascia per es. indefiniti i concetti di " momento nel tempo " e di " punto nello spazio ", la continuità e la discontinuità di spazio e tempo ecc.; fondamentale, però, egli osserva, è certamente un aspetto dell'aporia che ha influenzato in modo determinante tutto il corso storico del problema: quando Zenone dice che la freccia in ogni momento " è ", " si trova ", in un determinato punto, egli dà alla paroletta " è " — nota Schaff — il significato di " riposa ", " giace ". Nell'attimo stesso in cui si volge a considerare il problema del movimento, Zenone, in altre parole, dà per presupposto « che un corpo non possa ' essere ' o ' trovarsi ' in un luogo altro che giacendovi », altro cioè che in stato di quiete; mentre è chiaro che noi possiamo parlare dello stato di quiete di un corpo solo pensando all'assenza di una determinata forma di movimento, e non già come se si trattasse di assoluta quiete.

24 ADAM SCHAFF, Ueber Fragen der Logik, in « Deutsche Zeitschrift fiir Philosophie », Jahrgang 4, Heft 3, specialmente pp. 346-52. E si veda dello stesso autore un'opera assai notevole sulla teoria del giudizio, Zu einigen Fragen der marxistischen Theorie der Wahrbeit, Berlin 1954.

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Un corpo si trova, infatti, in quiete solo relativamente a un secondo corpo, ovvero quando rispetto a tutti gli altri esso si muove con la stessa velocità e con la stessa accelerazione di questo.

Nel nostro contesto, quindi, la parola " è ", " si trova ", può avere almeno questi due diversi significati: " giace " o " passa ". Il corpo in questione può in un dato sistema relazionale trovarsi in un punto sia nel senso che vi giace, sia al contrario nel senso che vi passa. E passare non è evidentemente una condizione di quiete: il movimento non si frantuma in una serie di stati di quiete. « Se perciò respingiamo, dice Schaff, la falsa interpretazione della parola ' è ' nel significato di ' giace ', allora scompare in questo caso anche la parvenza che per caratterizzare la condizione di un corpo in movimento si debba ricorrere a proposizioni contraddittorie e dire che un oggetto in movimento è e non è nello stesso punto. »

L'aporia deriva, insomma, palesemente, da una extrapolazione o assolutizzazione dei concetti (nel nostro caso: del concetto di " essere " come stasi), ovvero, come dice Schaff, da vere e proprie " ipostasi " o " interpolazioni logiche ". Gli Eleati sostengono il principio di non-contraddizione ma appunto solo nella sua formulazione razionalistico-astratta: conseguentemente negano l'oggettività del movimento. Hegel, all'inverso, afferma l'oggettività del movimento e nega, quindi, la validità del principio di noncontraddizione. Senonché, conclude Schaff, queste due diverse soluzioni « poggiano entrambe su una stessa base metafisica », sono due soluzioni che « risultano da uno stesso presupposto errato » e il presupposto è, appunto, di risolvere — come abbiamo visto — il principio del reale nel principio logico o della ragione.

È quindi con un sospetto ancora vago ma non del tutto infondato che il vecchio Labriola, scrivendo a Engels, e giusto a proposito déìì'Antiduhring, avvertiva: « Voi adoperate come termini antitetici il metodo dialettico e il metodo metafisico », mentre, « per dire lo stesso, io qui in Italia invece di dialettico devo dire metodo genetico ». « Crederei — aggiungeva poco oltre — che la designazione di concezione genetica riesce più chiara; e di certo riesce più comprensiva, perché abbraccia così il contenuto reale delle cose che divengono come la virtuosità logico-formale di intenderle per divenienti. Con la parola dialettica si rappresenta solo l'aspetto formale (che per Hegel, come ideologo, era tutto). E dicendo concezione genetica così il darwinismo come la

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interpretazione materialistica della storia, ed ogni altra spiegazione di cose che divengono e si formano, pigliano il loro posto. Voglio dire che l'espressione di metodo genetico lascia impregiudicata la natura empirica di ciascuna particolare formazione » (vedi lettera del 13-6-'94). E fiutava bene, perché sappiamo che sorte Hegel, invece, riserva all'empirico, al " particolare ". Per lui esso è ciò dal cui « dialettizzarsi e annullarsi balza evidente l'universale »; quelle formazioni empiriche che Labriola voleva " impregiudicate ", diventano nelle sue mani quelle tali... cose « che si penetrano reciprocamente in modo tale che le materie penetranti sono anch'esse penetrate dalle altre e che perciò ciascuna penetra a sua volta il suo proprio essere penetrata ». E Labriola concludeva: « sotto al nome di logica e di dialettica va intesa naturalmente tutta la metodica speciale delle scienze particolari; il che vuol dire la coscienza formale dell'atto e del procedimento del conoscere e del pensare in ogni relazione con l'esperienza e con l'osservazione»; non — aggiungiamo noi—la filosofia come scientia scientiarum, come romanzo dell'universo. Certo, Engels non si riduce a questo, e chiunque abbia una qualche consuetudine con l'opera di Marx e quella sua sa bene quali e quanti contributi, spesso di prezioso chiarimento ma non di rado anche originali, siano da ricavare dai suoi scritti. Non si tratta, dunque, di muovere " lancia in resta " contro Engels: che sarebbe, oltretutto, ridicolo. Ma di rendersi conto che l'unico modo serio di rispettare (se questa dev'essere la parola) un pensatore è quello prima di tutto di studiarlo e poi, se capiti, di in-dicare le ragioni per cui noi crediamo di dover dissentire talvolta da lui. Che questo dissenso, poi, non si stemperi in forme velate o allusive ma si vesta di una forma anche polemica e diretta: ciò si fa, naturalmente, per scuotere le menti. E la verità è che, passando attraverso l'interpretazione di Engels, il marxismo subisce in qualche modo una ritraduzione in termini speculativi, torna ad essere, cioè, una " concezione generale del mondo " nel vecchio senso della parola, una filosofia che sovrasta e soverchia l'analisi scientifica concreta. A commento del Saggio di Bucharin, in un passo ancora oggi inedito, Gramsci scrive: « L'origine di molti spropositi contenuti nel Saggio è da ricercarsi nell''Antidiihring e nel tentativo troppo esteriore e formale di elaborare un sistema di concetti, intorno al nucleo originario di filosofia della prassi, che soddisfacesse il bisogno scolastico di compiutezza. Invece di fare lo sforzo di elaborare questo nucleo

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stesso, si sono prese affermazioni già in circolazione nel mondo della cultura e sono state assunte come omogenee a questo nucleo originario affermazioni che erano state già criticate ed espulse da forme di pensiero superiori, anche se non superiori alla filosofia della prassi » 35.

Abbiamo visto, almeno in parte, in che senso ciò sia vero. Resta ora da vedere, in concreto, sulla base dell'opera di Marx, che il marxismo non è prima una concezione del mondo e poi un'analisi della società borghese; non è prima una filosofia gene-nerale e poi, subordinatamente, un'analisi del capitalismo (quasi che quest'ultima trovi posto in esso solo come un capitolo particolare o come una pura esemplificazione); ma è, viceversa, una teoria della storia che è nata sulla base e in funzione dell'analisi della società borghese moderna; una teoria che si è aperta alla storia umana nella misura in cui si è addentrata per la prima volta nell'analisi scientifica della formazione economico-sociale capitalistica. Resta da vedere, insomma, che cosa sia da intendere propriamente per marxismo.

25 In un altro punto Gramsci scrive: « È certo che in Engels (An-tidùhring) si trovano molti spunti che possono portare alle deviazioni del Saggio. Si dimentica che Engels, nonostante che vi abbia lavorato a lungo, ha lasciato scarsi materiali per dimostrare la dialettica legge cosmica, e si esagera nell'affermare l'identità di pensiero tra i due fondatori della filosofia delia prassi ».

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MARX E HEGEL

Un grande uomo condanna gli altri a spiegarlo.

HEGEL

Vi è un nodo decisivo che la nostra analisi non ha finora toccato esplicitamente e che sotto ogni punto di vista, invece, rappresenta la chiave di volta per intendere l'opera di Marx, in tutte le sue implicazioni sia di metodo che di contenuto, — questo nodo: in che rapporto stanno la Logica hegeliana e, più precisamente, i suoi processi viziosi e mistificatori, con la realtà? In altri termini: questa mistificazione è da intendere ancora una volta semplicemente come il prodotto di un'elucubrazione del filosofo e, quindi, la critica di essa solo come una critica da filosofo a filosofo, dunque di nuovo solo come una filosofia, come una logica, e magari anche come una logica scientifica, oppure, per esser questo, dev'essere anche qualcos'altro più che questo?

Riprendiamo in mano la prima opera giovanile di Marx: La critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico. Essa ci presenta uno svolgimento assai singolare: non solo comincia come critica della filosofia dello Stato e, insensibilmente, si trasforma poi in una critica dello Stato; non solo ha un approccio logico e una conclusione sociologica; ma presenta una complessità ancora più imbarazzante. Innanzitutto, infatti, inizia come critica della filosofia; poi trapassa — abbiamo detto — a critica dell'og-getto di quella filosofia: è cioè non più discorso sul discorso fatto da Hegel a proposito della società, ma direttamente discorso sulla società. Infine, non è neppure più, a rigore, discorso sulla società, ma discorso da dentro la società, cioè programma e azione politica: non più solo teoria ma pratica, non più solo scienza ma vita, non più solo riflessione sulla storia ma storia. Perché? Il marxista risponde: struttura e sovrastruttura. D'accordo. Ma perché? Questa è una conclusione non un punto di partenza. In ogni caso, è una conclusione che accenna a due piani sovrapposti e paralleli. Dove cade la loro unità, la loro giuntura?

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Che mi si dica: il misticismo logico di Hegel, — posso capirlo; che si aggiunga che la sua dialettica sta testa all'ingiù, — anche. Ma quando apro il Capitale e leggo che il tavolo, quando si presenta come merce, « non solo sta coi piedi per terra, ma, di fronte a tutte le altre merci, si mette a testa in giù, e sgomitola dalla sua testa di legno dei grilli molto più mirabili che se cominciasse spontaneamente a ballare » ' ; e leggo poi: « il carattere mistico della merce », oppure: « tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l'incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produ-zione di merci » (p. 90); o, infine, che « il mistico velo di nebbia » non è un'aggiunta degli interpreti borghesi « del processo vitale sociale, cioè del processo materiale di produzione » (p. 93), ma appartiene proprio a questo processo, il quale anzi appare alla metafisica, all'economia politica, per quello che è (p. 86); quando, insomma, trovo che non si dice più solo della filosofia ma direttamente della realtà, delle cose, che sono " sensibilmente sovrasensibili ", cioè mistiche, ossia testa all'ingiù; o, inversamente, vedo affermato, contro Hegel, che l'astrazione è determinata, che l'astratto è concreto, cioè tanto astrazione che esistenza, tanto idea che fatto: questo, ammettiamolo, non è facile a capire. Contro questo, anzi, insorge e fa ostacolo una tradizione spiritualistica millenaria, tenace ancora in ciascuno di noi. E, non a: caso, anche un borghese con la testa di Schumpeter non si orienta e scrive (senza arrossire) che vi è un " Marx profeta " e un " Marx scienziato ". Qui, se vogliamo comprendere, si tratta veramente di una radicale emendatio intellectusl

Partiamo, come al solito, dal processo di ipostatizzazione he-geliano e dalla conseguente assunzione surrettizia dell'empiria. « L'universale come tale, dice Marx, è fatto per sé sussistente, esso è immediatamente confuso con [sostituito al] l'empirica esistenza »; viceversa, il particolare, « il limitato è immantinente preso, in guisa acritica, per l'espressione dell'Idea » (OFG, 62). Hegel, per esempio, in un primo momento « concepisce gli affari e le attività statali astrattamente per sé », ipostatizza la sovranità, l'essenza dello Stato, considerandola « come un'essenza indipendente », come un'essenza obiettivata fuori e al di sopra dei reali individui; non vede, cioè, che gli affari e le attività dello Stato sono organicamente legati agli individui, anche se, s'intende,

1 II Capitale, I, 1, Roma 1951, p. 85.

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« non all'individuo fisico, bensì all'individuo politico, alla qualità di membro dello Stato dell'individuo ». Poi, in un secondo momento, quando l'oggettivo deve ridiventare, dice Marx, soggetto, Hegel non può fare altro che prendere un individuo empirico, ma questa volta proprio in quanto individuo fisico, e presentarlo come « un'autoincarnazione della sovranità », come « la personalità dello Stato, la sua certezza di se stesso ». Il monarca è, allora, la « sovranità personificata », la « sovranità divenuta uomo », « la corposa coscienza statale, per cui tutti gli altri sono esclusi da questa sovranità e dalla personalità e dalla coscienza dello Stato »; con la conclusione che Hegel non può dare poi « a questa Souveraineté Personne alcun altro contenuto che 1' ' io voglio ', cioè il momento dell'arbitrio nella volontà. La ' ragione politica ', la ' coscienza di Stato ' è un'empirica ' unica ' persona, a esclusione di tutte le altre, ma questa ragione personificata non ha altro contenuto che l'astrazione dell' ' io voglio '. L'Etat e'est moi » (OFG, 41). In altre parole, « Hegel cade ovunque dal suo spiritualismo politico nel più crasso materialismo. La natura si vendica su lui del disprezzo dimostratole. Se la materia non deve essere più niente per se stessa di fronte all'umana volontà, l'umana volontà non conserva più niente per sé ali'infuori della materia ».

Idealismo politico, dunque, da una parte, e crasso materialismo dall'altra; ancora una volta il costante rilievo di cui s'in-tesse il discorso critico di Marx a proposito di Hegel è sempre questo: rovesciamento dell'empiria in speculazione e insieme, però, ribaltamento di questa in quella. Senonché — nota Marx — « Y acrisia, il misticismo è sia il mistero della filosofia hegeliana che l'enigma delle moderne costituzioni » (OFG, 115). « Astratta è certo questa veduta — egli scrive sempre a commento di Hegel — ma è 1' ' astrazione ' propria dello Stato politico, quaie Hegel stesso lo deduce. Atomistica essa è anche, ma è l'atomismo della società stessa. La ' veduta ' non può essere concreta quanto 1' ' oggetto ' di essa è 'ast rat to '» (OFG, 110). Quindi, «non è da biasimare Hegel perché egli descrive l'essere dello Stato moderno tale qual è », ma semmai « perché spaccia ciò che è come l'essenza dello Stato » (OFG, 90).

Per quanto possa sembrare strano, dunque, dobbiamo prepararci a entrare in quest'ordine di idee: l'ipostasi, il porsi per sé dell'universale e, poi, la conseguente restaurazione viziosa dell'empiria, lo stravolgimento del fatto ad assioma metafisico,

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cioè a ricettacolo dell'Assoluto, — tutto questo, prima che un'operazione della filosofia hegeliana, è una operazione oggettiva e reale che compie la società stessa. La concezione di Hegel « non mantiene separate la vita civile e la vita politica: essa è semplicemente — dice Marx — la rappresentazione di una separazione realmente esistente ». Questa « concezione non pone la vita politica in aria, bensì la vita politica è la vita aerea, l'eterea regione della società civile » (OFG, 111). E, se per la filosofia speculativa « l'empiria volgare ha come legge non il suo proprio spirito ma uno estraneo », gli è perché nel regime borghese, prima ancora che in essa, la società reale, la società civile può acquistare significato politico e costituirsi come Stato, solo a patto di darsi uno spirito " altro da sé ", solo a condizione ossia di compiere un atto politico che rappresenta " una completa tran-sustanziazione ". Non diversamente da come nell'idealismo la " mistica sostanza " si sostituisce al soggetto reale, così nella società borghese il citoyen — « l'uomo astratto, artificiale, l'uomo come persona allegorica, morale » — si sostituisce al bourgeois, cioè all'uomo reale. Inversamente, poi, « lo Stato politico si comporta nei confronti della società civile in modo altrettanto spiritualistico come il cielo nei confronti della terra. Rispetto ad essa si trova nel medesimo contrasto e la vince nel medesimo modo in cui la religione [l'idealismo] vince la limitatezza del mondo profano, cioè dovendo insieme riconoscerla, restaurarla [herstellen'] e lasciarsi da essa dominare »2. Proprio perché « la Costituzione politica è stata fino ad ora nient'altro che un al di là, la sfera religiosa, la religione della vita del popolo, il cielo della sua universalità rispetto all'esistenza terrestre della sua realtà », e proprio perché, d'altra parte, « questo cielo era troppo nobile, troppo spiritualistico per rimuovere la grossolanità del bisogno pratico in altro modo che mediante l'elevazione nel puro aere », — quest'idealismo politico, quest'ipostasi che è lo Stato, è servito solo a restaurare, a ribadire e garantire le differenze e le divisioni reali, cioè il crasso materialismo della società civile.

Economia e politica, società e Stato, bourgeois e citoyen, uomo privato e uomo pubblico, dunque, stanno tra loro proprio nello stesso rapporto in cui stanno materia e ragione, particolare e universale, sensibilità e concetto nella filosofia di Hegel. Ricordate

2 K. MARX, La questione ebraica, in Un carteggio del 1843 e altri scritti giovanili, Roma 1954, p. 56.

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infatti il discorso a proposito della certezza sensibile? Essa ha la sua " verità " solo nell'universale, che però è indifferente verso tutte le determinazioni reali che gli giuocano dappresso; ebbene, « nella sua realtà più immediata, nella società civile, l'uomo è un essere profano. Qui, dove per sé e per gli altri vale come individuo reale, egli è un fenomeno non vero. Viceversa nello Stato, dove l'uomo vale come genere, egli è il membro immaginario di una sovranità fantastica, è spogliato della sua reale vita individuale e riempito di una universalità irreale \_mit einer unwirklichen Allgemeinheit erfullt] » "'.

Lasciamo parlare del resto quest'ipostasi che è l'uomo politico, il citoyen, per bocca di chi l'ha descritta fedelmente: Rousseau. « Celui qui ose entreprendre d'instituer un peuple — ci dice il Contratto sociale A — doit se sentir en état de changer pour ainsi dire la nature humaine, de transformer chaque individu [...] en partie d'un plus grand tout dont cet individu recoive en quelque sorte sa vie et son ètre, de substituer une existence morale à l'existence physique. Il faut qu'il óte à Yhomme ses forces propres pour lui en donner qui lui soient étrangères. » La società civile, quindi, può attingere significato e valore politico, solo in quanto compia un atto di " completa transustanziazione ", un atto, cioè, con cui essa « si deve staccare da se stessa in quanto società civile, in quanto stato privato, per far valere una parte del suo essere che non solo non ha niente di comune con l'esistenza civile reale, ma che le è direttamente opposta » (OFG, 108). La rivoluzione politica borghese, dice Marx, « spezzò la società civile nelle sue parti costitutive semplici [...], svincolò lo spirito politico, che era parimenti diviso, disgiunto, disperso nei vicoli ciechi della società feudale; lo raccolse da tale smembramento, lo liberò dalla sua mescolanza con la vita civile e lo costituì come la sfera della comunità, dell'universale attività del popolo, in una ideale indipendenza da quegli elementi particolari della vita civile. La determinata attività e le determinate condizioni di vita decaddero a significato solo individuale » 5.

3 Op. cit., p. 57. * L'interpretazione che qui abbiamo dato di Rousseau, seguendo Marx, è

errata. Si veda, in proposito, il nostro Rousseau critico della ' società civile', in «De Homine », n. 24-25, marzo 1968, pp. 123-76. (Nota aggiunta.)

5 K. MARX, La questione ebraica cit., p. 74.

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Senonché l'ipostasi ■— sappiamo ■— ha il suo rovescio: « il compimento dell'idealismo dello Stato fu contemporaneamente il compimento del materialismo della società. L'emancipazione politica fu contemporaneamente l'emancipazione della società civile dalla politica, dall'apparenza stessa di un contenuto universale » 6. Come le determinazioni reali si volatilizzano in determinazioni pure o razionali, come la cosa si volatilizza in ragione, ma la ragione esiste poi solo come una cosa; allo stesso modo le differenze economiche trovano la loro apparente conciliazione nel cielo dello Stato, nell'eguaglianza politica, ma questo Stato, poi, non serve ad altro che a ribadire e sanzionare lo stato di, cose reale. Prima, l'uomo si è risolto nel genere astratto, il hourgeois nel citoyen; poi la vita generica, « la vita politica si dimostra come puro mezzo, il cui scopo è la vita della società civile », la vita privata {ivi, p. 72). Lo stato privato trova la sua compensazione nella Costituzione politica, ma la Costituzione politica è la costituzione della proprietà privata. « L'indipendenza politica non procede ex proprio sinu dallo Stato politico; essa non è affatto un dono dello Stato politico ai suoi membri; non è lo spirito che anima questo; bensì i membri dello Stato politico ricevono questa loro indipendenza da un ente che non è lo Stato politico, da un ente di diritto privato astratto, dall'astratta proprietà privata. L'indipendenza politica è un accidente della proprietà privata » (OFG, 44). Il significato dell'uomo diventa una proprietà della sua proprietà: " soggetto la cosa, predicato l'uomo ". « Nessuno dei cosiddetti diritti dell'uomo oltrepassa — nota Marx — l'uomo egoistico, l'uomo in quanto è membro della società civile, cioè individuo ripiegato su se stesso, sul suo interesse privato, e isolato dalla comunità. Ben lungi dall'essere l'uomo inteso in essi come genere, la stessa vita del genere, la società, appare piuttosto come una cornice esterna agli individui, come limitazione della loro indipendenza originaria. L'unico legame che li tiene insieme è la necessità naturale, il bisogno e l'interesse privato, la conservazione della loro proprietà e della loro persona egoistica » 7.

L'idealismo, dunque, è una coscienza capovolta del mondo perché capovolti sono lo Stato e la società che lo producono. Esso è la teoria generale di questo mondo, il suo coronamento, la sua logica in forma raffinata, il suo point d'honneur spiritua-

6 Ivi, pp. 74-5. 7 Ivi, p. 71.

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listico e la sua sanzione morale. Misuriamo qui ancora una volta tutta la distanza tra il pensiero di Marx e le posizioni della sinistra hegeliana. Da una parte, infatti, Bauer e consorti che spiegano tutti i limiti, tutte le " contraddizioni " e le " incoerenze " del pensiero di Hegel e, in particolare, della sua filosofia del diritto e della religione, con l'intrusione di pregiudizi personali o con " concessioni " fatte da Hegel allo Stato prussiano: Bauer e " il partito politico teorico ", insomma, che criticano Io Hegel minore, lo Hegel prodotto dello Stato semifeudale prussiano, per comportarsi invece dogmaticamente verso le premesse stesse della sua filosofia. E, dall'altra, Marx che critica Hegel dove egli è veramente grande, che sa vederne la capacità di elevarsi (quasi sempre) oltre il limitato orizzonte della Prussia del tempo, ma non per attingere la sfera di princìpi " puri " bensì per cogliere i processi di fondo della società borghese moderna.

« Noi tedeschi abbiamo vissuta la nostra storia futura nel pensiero, nella filosofia. Noi siamo i contemporanei filosofici del presente senza esserne i contemporanei storici. La filosofia tedesca è il prolungamento ideale della storia tedesca. Se dunque noi critichiamo anziché le oeuvres incomplètes della nostra storia reale le oeuvres posthumes della nostra storia ideale, la filosofia, la nostra critica si ritrova invero in mezzo ai problemi dei quali il presente dice: that is the question. Ciò che presso i popoli progrediti è rottura pratica colle moderne condizioni dello Stato, in Germania, dove tali condizioni ancora non esistono neppure, è innanzi tutto rottura crìtica con il riflesso filosofico di tali condizioni. La filosofia tedesca del diritto e dello Stato è l'unica storia tedesca che stia al pari col moderno presente ufficiale. » * Perciò « la critica della filosofia dello Stato e del diritto, che con Hegel ha ricevuto la sua ultima forma più conseguente e più ricca, è l'una e l'altra cosa, sia l'analisi critica dello Stato moderno e della realtà ad esso connessa, sia la decisa negazione di tutto il modo precedente della coscienza politica e giuridica te-desca, la cui espressione più eminente, più universale, elevata a scienza, è appunto la filosofia speculativa del diritto » {ivi, p. 98).

I problemi che qui fanno nodo sono molti e seri, ma consi-

8 K. MARX, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, in Car-teggio del '43 cit., p. 96.

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deriamone, innanzitutto, due che paiono marginali e che ci in-troducono, invece, alle questioni di fondo. Particolarmente diffusa nel marxismo di oggi, e ad opera soprattutto di Lukàcs che l'ha ampiamente sviluppata nella sua monumentale opera su II giovane Hegel, è una tesi che rappresenta il perfetto capovolgimento del discorso di Marx. Mentre per questi, infatti, la filosofia classica tedesca e, in particolare, quella di Hegel è il " riflesso " o l'analisi filosofica della società borghese moderna, non ancora esistente in Germania, e il carattere tedesco di questa analisi si esprime appunto nella forma che essa assume, nel fatto cioè che si tratta ancora solo di una filosofia e non di un'economia e di una politica: onde Marx spiega che la sua « esposizione si rifa inizialmente non già all'originale, ma ad una copia, alla filosofia tedesca del diritto e dello Stato, per nessun'altra ragione se non quella che essa si rifa alla Germania » (ivi, p. 91); per Lukàcs, al contrario, tedesco è il contenuto, le " insuffi-cienze " e le " contraddizioni " della filosofia di Hegel (che an-drebbero, quindi, fondamentalmente spiegate con l'arretratezza sociale della Germania), mentre valida, al di là di queste condizioni e al di là della società borghese stessa, è invece la forma della sua filosofia: il metodo dialettico. È evidente la preoccupazione che è al fondo di questa tesi. Dal punto di vista di Marx, infatti, si ha che, in quanto « la filosofia avutasi finora appartiene a questo mondo [la Germania] e ne è il completamento sia pure ideale », il futuro della Germania « non può limitarsi né all'immediata negazione delle sue reali condizioni giu-ridico-statali né all'immediato compimento di quelle ideali »: poi-ché la immediata negazione delle prime essa la possiede già nelle sue condizioni ideali, e il compimento immediato di queste, a sua volta, essa « lo ha già quasi sopravanzato contemplando i popoli suoi vicini ». Dunque, un reale progresso si può « ottenere soltanto attraverso la negazione della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto filosofia » (pp. 97-8). Dal punto di vista di Lukàcs, invece, si salva la forma della filosofia hegeliana, cioè, in una parola, la filosofia in quanto filosofia deve sopravvivere ancora. In tal modo la tesi delle " tre fonti " storiche del marxismo subisce una importante " reinterpretazione ", nel senso che, mentre nel significato originario queste fonti stanno solo a indicare momenti o prodotti sovrastrut-turali tipici della società borghese, per cui, attraverso il riferimento ad essi, il marxismo si rapporta al suo vero antecedente

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storico reale, vale a dire alla società capitalistica moderna; per Lukàcs, una almeno di queste tre fonti, cioè la dialettica hegeliana, tende a configurarsi, invece, come un antecedente ideale al quale il marxismo deve ricollegarsi immediatamente '.

Si coglie già qui — ed è questo il secondo tema cui intendevamo accennare — la profonda differenza tra lo storicismo di Marx e lo " storicismo " che oggi va sotto il suo nome; differenza che le pagine seguenti chiariranno meglio, ma che fin d'ora si profila come una vera e propria diversità di metodi e di indirizzi di pensiero. Da una parte, infatti, abbiamo uno storicismo che per molti versi possiamo ancora chiamare idealistico e che si riduce, in pratica, a riportare una filosofia all'ambiente storico immediato che l'ha vista nascere: dove la puntualità del giudizio storico si identifica proprio con il rilievo dei tratti singolari e irrepetibili che caratterizzano quel dato ambiente. E, dall'altra, lo storicismo di Marx che è storia-scienza, cioè sociologia, ovvero storia di una formazione economico-sociale, di una specie o fenomeno-ft'po, quindi di processi reiterabili; concezione, che spiega bene come egli possa interpretare, per es., Hegel non già alla luce delle particolari condizioni della società tedesca bensì come " riflesso " di quelle leggi di sviluppo fondamentali che egli compendia nell'astrazione o " modello " di società capitalistica moderna.

Torneremo tra breve sull'argomento; per ora è tuttavia in-teressante notare che, proprio in virtù di questo concetto di formazioni economico-sociali, come sono ad es. la società schiavistica antica, quella feudale o quella borghese moderna, Marx può avviare un'analisi storica di tipo nuovo; può cioè indivi-duare-comparare, per es., i diversi rapporti esistenti tra economia e politica: sia nella società antica, dove la società civile è schiava dello Stato; sia nel Medioevo, dove gli stati privati, le classi hanno invece significato immediatamente politico e, quindi, gli stati, come tali, sono nello stesso tempo legislativi (onde, dice Marx, poiché la distinzione di pubblico e privato coincide qui direttamente con le differenze private, il dualismo di economia e politica si presenta nel Medioevo come un dualismo reale); sia, infine, nella società borghese moderna dove lo Stato è al contrario l'astrazione dalla vita privata e, quindi, il dualismo non è più immediatamente reale ma astratto (OFG, 49).

9 Der funge Hegel cit., p. 715.

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Analisi, alla cui luce non solo è comprensibile, per es., la differenza tra il dualismo platonico o quello scolastico o quello hegeliano moderno, ma anche quel tanto di continuità che vi è tra di essi; e alla cui luce in genere si spiega come fenomeni, specie se sovrastrutturali, possano perpetuarsi e rivivere anche nel mondo moderno (pur se inseriti in un diverso contesto e, quindi, modificati), proprio in quanto legati agli elementi basilari della divisione in classi (si pensi, ad es., al diritto romano o, più in generale, alla separazione di teoria e pratica, ecc.).

Ma veniamo al punto essenziale: che nesso vi è tra la critica di Marx alla logica di Hegel e la scoperta che questa logica, questa filosofia, è il " riflesso " ideale della società borghese e non solo un riflesso ma anche un suo momento costitutivo, onde il superamento del regime borghese non può non comportare anche la fine della filosofia avutasi finora, della filosofia in quanto filosofìa?

Chi legga attentamente l'opera di Marx, si imbatte spesso in osservazioni di questo genere: « Se Hegel avesse preso, come punto di partenza, i soggetti reali come basi dello Stato, non avrebbe trovato necessario di soggettivare in guisa mistica lo Stato » (cors. mio); invece, « Hegel dà un'esistenza indipendente ai predicati [...]; dopo, il reale soggetto appare come risultato loro, mentre, invece, bisogna partire dal reale soggetto e considerare il suo obiettivarsi » (OFG, 37). La novità di questa critica (che noi abbiamo già ampiamente svilup-pato) può essere apprezzata appieno se teniamo presente che, mentre un interprete di Hegel pur così acuto come Feuerbach non riesce in genere ad andare oltre la constatazione che nella logica hegeliana « l'oggetto viene ridotto a determinazioni del tutto astratte in cui non lo si può più riconoscere » {Princìpi p. 134), e in tal modo rimane nell'atteggiamento, insufficiente e del tutto parziale, di chi accusa ancora oggi la filosofia di Hegel di astrattezza e di vuoto formalismo; Marx, invece, coglie una implicazione assai più profonda, vede ossia che quell'astrattezza o apriorismo non è tutto ma ha il suo pendant in un positivismo acritico e, quindi, che il formalismo hegeliano non è vuoto ma pieno di un contenuto empirico vizioso, cioè surrettizio, e tale, appunto, perché restaurato acriticamente e sottomano. Ne deriva che, mentre la critica tradizionale, movendo all'idealismo l'accusa di non tener conto del concreto, del mondo, finisce in qualche modo per convalidarne il principio, proprio in quanto

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ammette la possibilità che una filosofia si possa costituire pre-scindendo dalla materia; il discorso di Marx, invece, porta alla constatazione ben diversa che chi tenta di trascendere il concreto non mette capo a una filosofia semplicemente astratta, bensì a una filosofia che non solo è piena essa stessa di un contenuto reale ma che, anzi, sconta la pretesa iniziale di volerne prescindere, proprio con la necessità in cui si trova alla fine di doverlo riprodurre " così com'è ". Che è appunto ciò che sostiene Marx quando osserva che la filosofia speculativa, « proprio in quanto vuole negare con sofismi la razionale e naturale dipendenza dall'oggetto, cade poi nella più irrazionale e innaturale servitù di fronte ad esso, di cui è costretta a ricostruire come necessarie e universali anche le caratteristiche più accidentali e individue ».

La cosa, quindi, non sta nei termini in cui la vede per es. Henri Lefebvre, il quale, proprio perché crede che materialismo e idealismo siano due postulati, due princìpi opposti ma equivalenti, è costretto a sostenere poi che l'idealismo « on ne le détruit pas, on ne le réfute pas »: infatti, « comment détruire, comment réfuter un postulati »; per concludere, infine, che: « e'est parce que le problème fondamental de la philosophie prend la forme d'un ' ou bien... ou bien ' qu'il a toujours entrarne et enveloppé une prise de parti » (« La Pensée », cit., p. 30). Scelte esistenziali di questo genere, per quanto rispettabili, sono solo espressione di una mentalità subalterna. In realtà idealismo e materialismo non costituiscono un'alternativa di equivalenti, come se noi dovessimo scegliere, con un atto di fede, tra una filosofia che fa a meno della materia e un'altra che l'ammette. Estremi reali, dice Marx, non costituiscono un'opposizione dialettica. « La posizione non è uguale. Ad esempio, cristianesimo o religione in generale e filosofia sono estremi. Ma in verità la religione non costituisce alcun vero opposto della filosofia: giacché la filosofia comprende la religione nella sua illusoria realtà » (OFG, 122). Ecco il punto. Il risultato a cui Marx perviene, infatti, con la sua critica ad Hegel è che proprio l'idealismo, con l'interpolazione dei contenuti empirici a cui è inevitabilmente costretto, prova, sia pure per via indiretta, Yim-possibilità di prescindere dalla materia, dall'esperienza. Per questo, egli dice: se Hegel fosse partito dal soggetto reale, non avrebbe avuto bisogno di soggettivare la mistica sostanza. Perché, avendo verificato con la sua critica come l'assunto della

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negatività o irrealtà del finito (in cui consiste l'idealismo), implichi non solo un sapere infecondo ma un sapere che, appunto in quanto tale, è costretto poi ad assolutizzare il dato d'esperienza, cioè a configurarsi come una consacrazione o una apologia dello stato di fatto, — avendo, dicevamo, verificato questo, egli ne trae finalmente l'ipotesi che solo assumendo come punto di partenza i dati materiali (quei dati o " presupposti reali " di cui parla l'inizio dell'Ideologia tedesca), sia possibile istituire un processo d'indagine critica o scientifica. Hegel, in altre parole, prova a rovescio — ecco il senso del discorso di Marx — che per fare scienza debbo ipotizzare l'esistenza della materia fuori di noi e, quindi, debbo ipotizzare che il pensiero, pur comprendendo la realtà, non la riduca o assorba interamente entro di sé; che il predicato, pur riflettendo il soggetto, non lo esaurisca, non si sostituisca ad esso, ma rimanga appunto pre-dicato, cioè suo attributo, sua qualità, sua parte.

Si faccia allora attenzione: alla sinistra hegeliana che non si è mai liberata dalla soggezione a Hegel, cioè dalla soggezione al principio idealistico che le idee come tali sono le cose stesse, " non è mai venuto in mente ", dice la Deutsche Ideologie, di ricercare il legame organico tra questa filosofia e la società: e ben si capisce, dato che il pensiero, la teoria, era per lei tutta la realtà. Per Marx, al contrario, il quale ipotizza che la teoria non sia tutto ma che esista altro fuori di essa, la filosofia di Hegel si configura naturalmente sia come la comprensione, come il riflesso di questa realtà, sia come una sua parte e un suo momento costitutivo I0.

Come riflesso: il che vuol dire che la realtà, l'essere sociale, la società è contenuto della teoria, cioè che l'essere è pensabile, che esso entra a far parte del pensiero; e, quindi, che, proprio per la funzionalità della materia, quest'ultimo si costi-

' ° OFG, 260-1 : « La mia coscienza generale è soltanto l'aspetto teo-retico di ciò di cui la reale comunità, l'essere sociale, è la vivente forma; mentre oggigiorno la coscienza generale è un'astrazione dalla vita reale e come tale le si contrappone nemica. Perciò anche l'attività della mia co-scienza generale — come tale — è la esistenza teoretica di me come ente sociale [...]. L'uomo, per quanto sia un individuo particolare — e propria-mente la sua particolarità lo faccia individuo e reale ente comune indivi-duale— è parimenti la totalità, l'ideale totalità, è l'esistenza soggettiva della società pensata e sentita per sé, tanto che egli, in realtà, esiste sia in quanto intuizione e spirito reale dell'esistenza sociale, sia in quanto totalità di umane manifestazioni di vita. Pensare e essere sono, dunque, certamente distinti ma ad un tempo in unità l'un con l'altro ».

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tuisce a sua volta come pensiero effettivo o reale: la filosofia di Hegel, per es., come del resto ogni altro prodotto dello scibile, è essa stessa un dato oggettivo, un istituto storico-reale, con una sua effettualità, con una filologia ben definita ecc. Come parte o momento costitutivo: il che vuol dire che questa unità, questa sintesi di forma e contenuto, di pensiero ed essere, che è la conoscenza, cade a sua volta all'interno dell'essere stesso, cioè è in funzione della materia. In altre parole, come la realtà è per un verso contenuto, coelemento, parte di quel " riflesso " che è la teoria, e per un altro, invece, è quella totalità in cui si iscrive, tra le altre cose, la stessa teoria; così quest'ultima, a sua volta, è da un lato forma di un contenuto, cioè pensiero che abbraccia entro di sé l'essere, e, dall'altro, parte e momento dell'essere. Discorso che possiamo riassumere in queste due proposizioni fondamentali della gnoseologia materialistica: 1) il pensiero può conoscere tutta la realtà, non esistono cose inconoscibili; 2) il pensiero non esaurisce mai, concretamente, la realtà. Ovvero, per ripetere la stessa cosa con altre parole: 1) il pensiero è se stesso e l'altro, è forma e contenuto, medesimezza e alterità, tale-non tale: quindi opposizione-relazione, opposizione razionale; 2) il pensiero può in concreto esser questo solo in riferimento a un oggetto esteriore e determinato, e, quindi, solo se quell'opposizione-/n<:/«.«o,7<? (tale-non tale), che è la ragione, vien presa in funzione dell'opposizione-esclusione (tale-non tale), ovvero in funzione dell'istanza dirimente della materia.

Il pensiero, insomma, è sia riflessione sull'essere, sia un modo d'essere; sia conoscenza della vita, sia atto di vita esso stesso; sia teoria che pratica. Nel primo caso, l'oggettività è suo contenuto, cioè l'esteriorità, il mondo sensibile (qui il linguaggio, ma nel lavoro l'oggetto stesso) è tramite, medium, delle manifestazioni vitali dell'uomo: il mondo, la natura, sono quindi un mio modo d'essere, la mia esistenza per l'altro uomo, così come l'esistenza di questo per me; il rapporto dell'uomo alla natura, cioè, è immediatamente il suo rapporto all'altro uomo. Nel secondo caso, invece, la teoria è un momento, un'articolazione dell'oggettività, cioè la comunicazione tra gli uomini si realizza in quanto l'uno, accogliendo la manifestazione (qui il pensiero) dell'altro, verifica, esplicitamente o meno, questa manifestazione; e la verifica sperimentandone appunto, in pratica, la congruenza con l'oggettività. Cioè i rapporti tra gli uomini, i rapporti sociali, sono in funzione di quel mondo del lavoro e della pro-

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duzione, che è ricambio organico tra l'ente naturale uomo e la natura, ossia ricambio entro la natura.

Riferito al rapporto Hegel-Marx, questo discorso significa: primo, che quando Marx critica la filosofia, la logica di Hegel, egli lavora anche in questo caso su un oggetto determinato, su un istituto storico concreto. Quindi, che l'opera filosofica di Marx non è più una filosofia tradizionale, un rapporto da filosofo a filosofo, da pensiero a pensiero, ma, anche al suo culmine, è sempre relazione del pensiero con la realtà; cioè il discorso sul discorso di Hegel è anch'esso discorso su un oggetto specifico o determinato. La metodologia della scienza, insomma, non è conoscenza della conoscenza, concetto del concetto, cioè metascienza, metafisica; ma in tanto è l'una cosa, vale a dire logica, riflessione sulla scienza, proprio in quanto è essa stessa scienza, sapere positivo, cioè risposta a problemi storicamente determinati quali sono i problemi stessi della teoria del conoscere, così come li troviamo oggettivati e istituzionalizzati in organismi filologici del tipo della Metafisica di Aristotele, della Critica della ragion pura, della Logica di Hegel ecc.

Secondo — e questa è la conseguenza più importante — quando Marx critica la logica hegeliana, egli non fa solo opera di logica ma già opera di sociologia, opera cioè che investe, nella e attraverso la filosofia di Hegel, un momento costitutivo, una manifestazione della società borghese. In quanto, infatti, la sua critica accerta nella filosofia di Hegel un rapporto vizioso, incongruo, tra pensiero ed essere, tra teoria e realtà, e d'altro canto, però, questa teoria hegeliana è parte essa stessa del reale, ne consegue che quando Marx coglie il falso rapporto che viene istituito nella filosofia speculativa tra coscienza e mondo, egli coglie al tempo stesso anche il falso rapporto che esiste fra questa filosofia e il mondo, ovvero il falso rapporto che esiste tra le parti costitutive della società borghese.

Riassumiamo per maggior chiarezza la nostra analisi. Il pensiero si compie, dunque, solo per la funzionalità della materia, solo perché la materia entra a costituirlo, entra cioè a farne parte come contenuto. D'altro canto, compiendosi, il pensiero si realizza, si fa reale, cioè trova nell'oggettività, e precisamente in quell'elemento di natura sensibile che è il linguaggio, il tramite e il mezzo con cui si esprime, si oggettiva, cioè si riferisce all'altro uomo. Infine, questa espressione con cui riferisco agli altri il mio pensiero è, a sua volta, il mezzo con cui riferisco

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agli altri gli oggetti reali, indicati e significati appunto dal mio pensiero. In altre parole, il riferirsi del pensiero all'oggetto è immediatamente il riferirsi dell'uomo all'uomo: quindi rapporto sociale («l'attività e lo spirito —dice Marx— come sono sociali per il loro contenuto, lo sono anche per il loro modo d'origine: attività sociale e spirito sociale» [OFG, 259]). Poi, questi rapporti sociali ideologici sono a loro volta rapporti che si instaurano per e in funzione della produzione, cioè del rapporto dell'uomo agli oggetti reali, che io gli ho indicato e significato esprimendo il mio pensiero. Quest'ultimo, d'altra parte, trova nei rapporti sociali di produzione una duplice verifica: una formale o interna, in quanto, perché io possa aprirmi alla comunicazione con l'altro uomo e perché questi possa comprendermi, occorre che i predicati con cui designo l'oggetto siano tali da manifestare l'oggetto stesso; cioè debbo comportarmi umana-mente verso l'oggetto, quindi non come l'animale che « forma le cose solo secondo la misura e) il bisogno della specie cui appartiene » ma, appunto, come uomo, che, invece, « sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente » (OFG, 231). In altre parole, il comportamento è tanto più umano quanto meno è antropomorfico, quanto più cioè rispetta e riproduce la peculiarità e la specificità di tutti gli altri aspetti o livelli del mondo della natura. E una seconda verifica, del contenuto o esterna, in quanto, accogliendo il mio pensiero, l'altro lo accoglie per riferirsi praticamente all'oggetto da me indicatogli e, quindi, sperimenta in concreto la congruenza di idea e fatto: dove si vede bene come solo Y oggettività dei contenuti del mio pensiero possa conferire ad esso vera universalità, cioè possa pormi in relazione con l'altro; e, inversamente, poi, come questa universalità, questa relazione, sia a sua volta in funzione dell'analisi pratica, del lavoro, cioè della mediazione entro l'oggettività.

L'astrazione determinata o scientifica, dunque, si produce, insieme, come rapporto sociale umano; il rapporto sociale umano come rapporto di società e natura. « Il rapporto sociale ' dell'uomo con l'uomo ' — dice Marx — è il principio fondamentale della teoria » (OFG, 293). La logica si costituisce a un tempo con la sociologia, in quel medesimo rapporto di unità-distinzione in cui sono tra loro coscienza e essere sociale: la logica cade, quindi, entro la scienza della storia, ma la scienza della storia cade a sua volta entro la storia. Cioè, la sociologia passa ad ali-

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mentare la tecnica del politico, diviene lotta per la trasformazione del mondo. La pratica è funzionale al prodursi della teoria, ma la teoria poi è una funzione della pratica. La scienza si verifica nella e come società, ma la vita associata, a sua volta, è un esperimento in atto nel laboratorio del mondo. Scienza dunque la storia, in quanto historia rerum gestarum, pratica-teoria; ma scienza anche le res gestae stesse, teoria-pratica; ovvero, come suona un grande pensiero di Engels, « la storia è esperimento e industria ». E si comprende allora la struttura dell'opera di Marx, il nesso profondo tra il " profeta ", cioè il politico, e lo scienziato. Si comprende, perché l'opera giovanile muove dalla critica della dialettica di Hegel, passa alla critica della costituzione politica, da questa alla critica delle prime categorie dell'economia borghese (salario, capitale, rendita fondiaria, ecc.) e mette capo, infine, al Manifesto; o, a rovescio, perché nel Capitale troviamo sia l'analisi della struttura economica capitalistica, cioè la storia del modo di produzione della società borghese, sia l'analisi dell'economia politica borghese {Le teorie sul plusvalore), cioè la storia del pensiero economico; e, infine, insieme e accanto al Capitale, l'Indirizzo alla prima Internazionale operaia, la Critica del programma di Gotha, la teoria del metodo (l'Introduzione del '57, he glosse a Wagner, ecc.).

Scienza-storia, dunque; cioè una storia che procede con ipotesi di lavoro, una vita che costantemente anticipa sulla vita e si verifica in essa. Ben altro, quindi, che l'astuzia della ragione o il provvidenzialismo di Hegel, ben altro che la santificazione del fatto compiuto, che la filosofia post festum ecc.; e ben altro anche, s'intende, da quell'ultimo spurgo basso-hegeliano che si copre ancora oggi sotto il nome di marxismo e nel quale la " Storia " è solo più la mezzana del compromesso politico e intellettuale, l'appello ad essa solo un alibi dello scetticismo, l'adattamento al fatto.

Relazione di pensiero ed essere nella filosofia, relazione tra filosofia e mondo, relazione tra le parti costitutive del mondo: questa la struttura dell'astrazione determinata o scientifica. Cioè passaggio dal pensiero, dalla filosofia, al concreto: quindi deduzione; ma deduzione che implica ed ha a fondamento un passaggio dal mondo alla filosofia, cioè dal concreto all'astratto. Perciò analisi-sintesi, induzione-deduzione, circolo dal concreto all'astratto e dall'astratto al concreto, che cade e si risolve, infine, nel passaggio dal concreto al concreto.

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Ma vediamo finalmente in pratica la struttura dell'astrazione determinata, così come ci si configura, per es., alla luce delle prime due sezioni del Capitale. Il prodotto del lavoro nelle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico ci si presenta, dice Marx, come merce. Mentre nei regimi economici non capitalistici il modo di produzione determinante, fondamentale, è rappresentato dalla produzione per il consumo e, quindi, il prodotto è essenzialmente valore d'uso e solo in seconda istanza viene destinato allo scambio; nella società borghese, invece, la cui legge determinante è non già che la produzione si rinnovi « nella stessa forma e con le stesse dimensioni di prima » ma che cessi piuttosto di « seguire passo passo il consumo » per « precederlo » e darsi a un'« illimitata espan-sione » e a un « eterno movimento in avanti » ", il prodotto non è prodotto per il consumo ma per assorbire altro lavoro, cioè prodotto per la produzione. Ciò che differenzia, quindi, la merce dai valori d'uso è che essa ha valore, ossia che è un cristallo di lavoro astratto, una concrezione di lavoro umano indistinto, un dispendio di forza lavorativa umana senza riguardo alla forma del suo dispendio. Proprio questa sua qualità, questo suo carattere reale, fa sì che la merce sia se stessa e non altro. Senonché, in forza di questa sua qualità, il prodotto del modo di produzione capitalistico non si distacca soltanto da questo o da quell'altro prodotto ma da tutti i prodotti degli altri regimi sociali e non solo da questi ma dall'intero universo. Una volta, cioè, che la qualità, il tratto reale sia fatto valere in tutta la sua determinatezza, vale a dire in tutta la sua forza dirimente e esclusiva, esso dà luogo a una differenza essenziale che è un'opposizione tra sé, da una parte, e la generalità di tutte le altre cose dall'altra; un'opposizione in cui la qualità figura a un tempo — si badi — sia come equivalente alla " generalità " di tutte le altre cose (non vi è opposizione, infatti, se non tra termini equipollenti) e, quindi, come generalità o idea essa stessa, sia come esclusione o negazione di tutto ciò che è raccolto nell'idea e, perciò, come determinazione particolare o reale. In altri termini, la differenza essenziale è, insieme, sia una differenza, cioè opposizione-esclusione, sia una relazione; sia opposizione reale che razionale; nel senso che, come l'ottusa molteplicità

" K. MARX, Miseria iella filosofia cit., p. 56 e V. I. LENIN, Caratte-ristiche del romanticismo economico, in Opere, II, Roma 1954, p. 153.

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del diverso si acuisce (si ricordi Hegel) tramite la ragione pensante che anima e avviva le parti fino a ridurle o semplificarle a parti di una sola differenza, così, inversamente, è da tener presente (e questa volta contro Hegel) che in tanto quella relazione, che è Videa, si costituisce e ha un significato, in quanto è una sintesi che ha a fondamento un'analisi, e, quindi, in quanto riflette non contraddittoriamente la qualità o determinazione reale che è alla sua base.

E, infatti, vero è che al culmine dell'opposizione la qualità " valore " mi appare null'altro che come l'astratto contrario del valore d'uso, come astrazione dalle differenze tra i valori d'uso e, quindi, come l'elemento generale e comune a tutti i valori d'uso, a tutti i prodotti del lavoro quale che sia il modo della loro produzione. E vero è anche che, mediante questa relazione, il prodotto della produzione capitalistica viene riferito non solo ai prodotti di tutti gli altri regimi sociali, ma letteralmente all'intero universo: valore d'uso, infatti, è non solo il prodotto di chi soddisfa con il lavoro il proprio bisogno ma anche tutto ciò la cui utilità non è ottenuta mediante il lavoro: quindi, « aria, terreno vergine, praterie naturali, legno di boschi incolti ecc. » 12. Solo che, se a questo modo il concetto di valore sembra null'altro che la generalità, l'astrazione del valore d'uso e, quindi, un'espressione semplice o astratta che, riassumendo il tratto comune a tutti i valori d'uso, è valida anche per il più semplice e antico prodotto del lavoro umano indipendentemente dalle forme concrete della società; è da considerare, poi che quest'astrazione, in tanto è scientifica ed è qualcosa di più che un semplice nome, in quanto esprime non già un elemento " semplice " qualsiasi, cioè generico, ma l'elemento più semplice di un concreto, in quanto ossia riflette ed ha per base un tratto, una determinazione analitica reale, la quale è proprio l'astrazione dal valore d'uso, o meglio è un oggetto — il denaro come forma d'esistenza generale del capitale — il cui valore d'uso è precisamente quello d'esser valore, e la cui stessa forma naturale costituisce appunto l'esistenza reale e per sé stante del valore 13.

Va da sé che per l'aspetto in cui l'astrazione " valore " è appunto solo un'astrazione, una generalità che ricomprende e acco-

12 II Capitale cit., I, 1, p. 53. 13 Ivi, pp. 118-19.

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muna il prodotto del lavoro nel regime capitalistico ai prodotti del lavoro di tutte le epoche, il corso logico astratto perverrà a comprendere quest'ultimo al termine di un processo dall'andamento deduttivo. Ed è chiaro che in questo caso il cammino del pensiero riflette e riepiloga il corso storico generale. Il Capitale nella sua prima sezione riassume, ad es., quel processo per cui, a partire dalle forme di produzione precapitalistiche più semplici, comincia a operarsi la differenziazione tra prodotti destinati immediatamente al consumo e prodotti che giungono al consumo attraverso lo scambio. Riassume, quindi, la divisione di valore d'uso e valore di scambio con cui ha storicamente inizio la circolazione delle merci e — con la circolazione — le varie forme particolari del denaro: il denaro puro e semplice equivalente della merce, o mezzo di circolazione, o mezzo di pagamento, o denaro tesaurizzato o moneta universale; tutte forme, avverte Marx, che indicano di volta in volta, a seconda della diversa estensione e della relativa preponderanza dell'una o dell'altra, gradi diversissimi del processo sociale di produzione, ma che anche una cir-colazione delle merci relativamente poco sviluppata è sufficiente a creare.

È evidente che, dal punto di vista del corso logico-deduttivo, il punto di arrivo e i momenti intermedi appaiono come sviluppi e differenze che dipendono dal generale-comune da cui si parte. E si comprende, quindi, come l'economista borghese, il quale ipostatizza l'astrazione e scambia processo logico e processo reale, possa considerare essenziali proprio i tratti comuni a tutte le epoche, e accidentali, invece, quelli particolari o specifici.

Wagner, ad es., dopo aver risolto il valore in ciò che comu-nemente si chiama " valore d'uso " e aver designato questo col puro e semplice nome di " valore in generale ", di " concetto del valore ", non può mancare di ricordarsi — dice Marx — che il valore così (!) dedotto è il valore d'uso". Allo stesso modo, altri economisti spiegano che « nessuna produzione è possibile senza uno strumento di produzione — questo strumento non fosse altro che la mano »; o « senza lavoro passato e accumulato, — questo lavoro non fosse altro che l'abilità riunita e concentrata per reiterato esercizio nella mano di un selvaggio »: per concludere poi con l'affermazione che il moderno capitale (che è anche

14 K. MARX, Randglossen zu A. Wagner, in Das Kapital, voi. I, Berlin 1951, p. 846.

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uno strumento di produzione nonché lavoro passato e oggettivato) è un fattore senza il quale nessuna produzione è concepibile, un elemento che contrassegna tutte le epoche storiche, una " legge di natura " universale e eterna 15. Tralasciando il carattere specifico che fa di uno strumento di produzione un " capitale " propriamente detto, e ignorando tutti i connotati particolari e storici, quegli economisti si immaginano di avvicinarsi agli oggetti nella misura in cui si staccano sempre più da essi, di fare dell'analisi quanto più rendono esangui e generiche le loro astrazioni. Così, alla maniera, per es., di J. Stuart Mill, essi mettono in testa ai loro trattati una parte, intitolata appunto " Produzione ", che, in quanto contiene soltanto le caratteristiche ge-nerali senza le quali nessuna produzione è concepibile né un'attività è un'attività produttiva, non può fornire ovviamente altro che una semplice ripetizione di ciò che è contenuto nel titolo, cioè una " grossolana tautologia ". Ad esempio, se « ogni produzione è appropriazione della natura da parte dell'individuo entro e mediante una determinata forma di società », è evidente — dice Marx — che « è una tautologia dire che la proprietà (l'appropriazione) è una condizione della produzione », perché questo è come dire che la produzione è condizione di se stessa. Ed è appena il caso di ricordare, dopo tutto ciò che abbiamo detto sullo scambio di ragione e materia, che, alla riduzione e volatilizzazione del capitalismo in quei tratti generalissimi che gli economisti presentano come " leggi naturali e eterne ", tien dietro poi il tentativo di dedurre proprio da questi tratti la produzione borghese stessa. Essi cercano di ricavare, così, dalla appropriazione in generale, non meglio specificata, la proprietà privata capitalistica e di spacciare quest'ultima, anziché come un istituto storico, come uno stato di cose necessario ed eterno, dettato e ricavato dalle " leggi " stesse della natura. Lo scambio di ragione e materia comporta infatti, come sappiamo, che mentre il particolare acquista il carattere di astoricità e di apriorismo del genere, que-st'ultimo, inversamente, ha poi per sua realtà o incarnazione solo un particolare. L'esposizione positiva dell'assoluto è il pane quotidiano dell'apologetica borghese. Non deve sorprendere, quindi, se — per ridicolo che possa sembrare il " salto " dall'appropriazione come sinonimo della produzione in generale a quella determinata forma storica di appropriazione che è la proprietà

15 Qui, e nella pagina seguente, il nostro discorso è un riassunto del primo paragrafo dell'Introduzione del 1857.

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privata moderna -— proprio questo è il procedimento tipico del-l'economia politica borghese: cogliere, cioè, la produzione nei suoi tratti più generici, spacciare questi tratti come leggi eterne indi-pendenti dalla storia, e interpolare (unterschieben) infine, in essi, del tutto sottomano (ganz unter der Hand), i rapporti di produzione borghesi « quali princìpi immutabili della società in ab strado ».

Senonché, se non sostantifichiamo l'astrazione ma la prendiamo insieme a ciò che essa ha di determinato, la situazione si capovolge; e il processo di deduzione si scopre, in realtà, funzione di un processo induttivo. In questo caso, infatti, ciò che nella deduzione appare come un prodotto e un risultato e, quindi, come qualcosa che è condizionato dai momenti attraverso cui passa il processo logico-astratto, si rivela in effetti come la condizione di queste sue condizioni, come causa di ciò da cui risulta. Il processo per il quale — guardando dall'idea — il particolare appariva come un'estrema articolazione del generale-co-mune, si rovescia; e, come per es. le lingue più sviluppate hanno leggi e caratteri comuni con quelle meno sviluppate ma ciò che costituisce il loro sviluppo è precisamente — dice Marx — ciò in cui divergono e si allontanano dall'elemento generale e comune: onde, mentre proprio questa particolarità diviene la loro essenza generale, il tratto cioè che le qualifica e specifica, la loro generalità generica invece è solo più un momento o una differenza che cade all'interno di quella; così avviene anche per il valore come prodotto del lavoro nel regime capitalistico. Come ci mostra appunto il Capitale. Qui infatti ci troviamo, sì, di fronte a un corso deduttivo per cui Marx svolge il valore dal valore di scambio e questo dal valore d'uso, o, più brevemente, il denaro dalla merce; ed è pur vero, come si è già accennato, che quest'andamento riepiloga i precedenti storici del regime capitalistico, nei quali, proprio perché « manca ancora molto a che il processo sociale della produzione sia dominato in tutta la sua estensione e in tutta la sua profondità dal valore di scambio », quest'ultimo, nella sua esistenza come denaro, non compare ancora come un fine ma solo come un mezzo o un tramite per la circolazione semplice dei valori d'uso; come un mezzo, cioè, « per un fine ultimo che sta fuori della sfera della circolazione, per l'appropriazione di valori d'uso, per la soddisfazione di bisogni »; quindi come un'articolazione del valore d'uso: donde la ben nota formula generale M-D-M.

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Solo che la generalità iniziale non viene qui presa per sé ma come la generalità di un concreto, come quell'elemento semplice che rappresenta il limite della scomposizione specifica di un oggetto e, quindi, come quella condizione necessaria più semplice di esistenza del concreto, che è in pari tempo la base e il prodotto dell'interazione di tutti gli altri aspetti di esso. Il " valore " non è considerato solo come l'elemento comune alle varie forme che assume il valore d'uso, ma anche e innanzitutto come espressione di un tratto analitico oggettivo che, proprio nella sua esistenza reale come astrazione dal valore d'uso, costituisce il lato fondamentale di un oggetto concreto. Ne deriva che ciò che dal punto di vista logico-astratto si presenta come una disgiunzione di valore d'uso e valore di scambio, cioè come una deduzione dall'universale al particolare, dal punto di vista logico-concreto appare invece come un'induzione dall'inessenziale all'es-senziale, in cui proprio l'elemento che più si dilunga e si distacca dal genere rappresenta il principio di sviluppo del concreto e, quindi, quel tratto generale specifico donde si articolano le progressive differenze particolari, dalle quali, nella deduzione, esso sembrava invece scaturire e risultare. La deduzione con cui dal valore d'uso discendo al valore di scambio e da questo al valore, è funzione, insomma, di un'induzione mediante la quale risalgo, nell'analisi, dagli aspetti accidentali o generici a quelli essenziali o specifici del concreto in esame, cioè dal valore d'uso al valore di scambio di cui esso è portatore, e dal valore di scambio al valore che ne sta a fondamento. « De prime abord — scrive Marx ■—- io non parto da ' concetti ', neppure dal ' concetto di valore ' e non ho perciò in alcun modo da ' tagliare in due ' questo concetto astratto », come fanno invece Rodbertus, Wagner e, ben prima di loro, Hegel, per il quale — sappiamo — « nella maniera filosofica di dividere è il concetto stesso quello che si deve mostrare come fonte delle sue determinazioni ». « Ciò da cui parto — continua Marx — è la forma più semplice in cui si presenta nella società attuale il prodotto del lavoro, e questa è la merce. Io analizzo la merce prima di tutto nella forma in cui essa appare. Qui trovo che essa è da una parte, nella sua forma naturale, un oggetto d'uso, alias un valore d'uso, dall'altra portatore di valore di scambio... Un'ulteriore analisi del valore di scambio mi mostra che esso è solo una ' forma fenomenica ', un modo di rappresentarsi indipendente del valore che è contenuto nella merce, e passo allora all'analisi di quest'ultimo... Io non divido dunque il valore in valore d'uso

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e valore di scambio come opposti in cui si scinda il concetto astratto, ' il valore '; divido, bensì, la concreta figura sociale del prodotto del lavoro e cioè la ' merce ', che è appunto da una parte valore d'uso e dall'altra ' valore '... Il mio metodo analitico, che non parte dall'uomo ' in generale ', ma da un dato periodo economico della società, non ha nulla in comune con il metodo dei professori tedeschi consistente nel combinare tra di loro dei concetti [Begriffsankniipfungs-Methode~i. » Infatti, essi, procedendo « dal concetto di ' valore ', e non dalla ' cosa sociale ', dalla ' merce ', lasciano che questo concetto si scinda duplicandosi in se stesso, salvo poi a contendere tra loro per decidere quale di questi due fantasmi sia il vero Giacobbe! » 16.

Ragione funzionale per l'analisi, dunque; e, infatti, è proprio in forza del nesso razionale di valore d'uso e valore che l'analisi può svilupparsi, cioè procedere mediante anticipazioni e ipotesi17 onde, avendo per es. individuato il lato più generico e superficiale del prodotto del lavoro nel regime capitalistico, il fatto cioè ch'esso è anche un valore d'uso, passo poi a ricercare quel valore di scambio di cui tramite l'idea anticipo e illaziono l'esistenza; per muovere, infine, dopo aver accertato la presenza di questo e quindi dopo aver verificato la prima ipotesi, all'individuazione del valore. Come è stato acutamente osservato 1S, « ogni singola generalizzazione viene qui elaborata su un fondamento rigorosamente oggettivo. Ogni astrazione che precede crea la base per una nuova astrazione », in quanto « le definizioni dell'oggetto sono qui elaborate in modo che il metodo stesso dell'elaborazione è in pari tempo un metodo di chiarificazione del nesso che le con-

16 Randglossen zu A. Wagner cit., pp. 847, 849, 852. 17 F. ENGELS, Dialettica della natura, Roma 1955, p. 233: «La forma

di sviluppo della scienza, in quanto essa pensa, è l'ipotesi. Viene osservato un nuovo fatto, che rende impossibile l'interpretazione fino a quel mo mento data dei fatti appartenenti a quello stesso gruppo. Da questo mo mento in poi delle nuove interpretazioni — basate in un primo tempo solo su di un numero limitato di fatti e di osservazioni — diventano una ne cessità. Ulteriore materiale di osservazione epura queste ipotesi, scarta le une, corregge le altre, finché, all'ultimo, riesce a completare e a mettere a punto la legge ». E osservazioni assai acute sui limiti della sola induzione e sul nesso di induzione-deduzione a pp. 220 sgg. « Induzione e deduzione sono necessariamente implicate l'una nell'altra proprio come sintesi e ana lisi. Invece di innalzare in cielo, unilateralmente l'una a danno dell'altra, bisogna cercare di usare ciascuna di esse al posto che le è proprio e ciò si può fare solo una volta che si abbia ben presente la loro reciproca ap plicazione, il loro mutuo completarsi. »

18 E. ILENKOV, Dialettica di astratto e concreto nella conoscenza scien tifica, trad. it. in « Critica economica », giugno 1955, p. 83.

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giunge. Analisi e sintesi, deduzione e induzione coincidono qui or-ganicamente, per la sostanza della questione. E il pensiero non deve connettere a posteriori, collegare, ridurre a sintesi logica definizioni astratte elaborate in modo puramente analitico, delle quali dovette occuparsi, per esempio, la scuola ricardiana che fallì proprio perché le astrazioni ottenute con metodo analitico unilaterale non potevano essere collegate, unite tra loro da nessuna logica ».

L'importanza di questo nesso di analisi e sintesi può cogliersi appieno se consideriamo che, invece, « la trattazione delle forme particolari dell'economia classica, che questa di continuo mette in un sol fascio con la forma generale, è, scrive Marx, una olla podrida » l'. Generale e particolare, infatti, qui ribaltano e si confondono l'uno con l'altro, senza riuscire mai a mediarsi. A Ri-cardo, per es., « da un lato si potrebbe rimproverare — egli dice — di non essere andato abbastanza avanti, di non aver completato l'astrazione, dall'altro di aver concepito la forma fenomenica in maniera immediata, diretta, come conferma o rappresentazione delle leggi generali, di non averla in alcun modo sviluppata. Nel primo senso la sua astrazione è troppo incompleta, nel secondo è astrazione formale, in sé e per sé falsa ». Così, « ciò che in Ricardo vi è di unilaterale è che egli vuol dimostrare in generale che le differenti categorie o rapporti economici non sono in contraddizione con la teoria del valore, invece di svilupparle, insieme alle loro apparenti contraddizioni, partendo da questo fonda-mento, o di esporre lo sviluppo di questo fondamento stesso » 20.

Comprendiamo a questo punto il particolare svolgimento delle prime due Sezioni del Capitale. Qui, infatti, troviamo, sì, un corso deduttivo per cui il valore (di scambio) viene sviluppato dal valore d'uso e il denaro appare come una merce particolare che è mezzo della circolazione, cioè della sfera intermedia tra produzione e consumo. Ma, entro questo quadro deduttivo in cui sembra che si discorra sulla merce " in generale " e, quindi, su qualcosa che è comune a tutte le epoche storiche, ha luogo in realtà un'analisi, per la quale, mentre viene scartato quel tratto generale-generico che è il valore d'uso, progressivamente si induce e si generalizza, invece, il valore di scambio, cioè l'elemento che

19 Lettera di Marx a Engels del 24-8-'67 in Carteggio, V, Roma 1951, p. 52.

20 K. MARX, Storia delle teorìe economiche, voi. II, trad. di E. Conti, Torino 1955, pp. 72 e 264.

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nella deduzione appare come " particolare ". « Quando si deve analizzare la ' merce ' — il concreto economico più semplice [della produzione capitalistica] — si debbono tener lontane \_hat man fernzuhalten'], dice Marx, tutte le relazioni che non hanno nulla a che fare col presente oggetto dell'analisi. Quindi, ciò che va detto della merce, in quanto valore d'uso, io l'ho espresso in poche righe, sottolineando, altresì, la forma caratteristica in cui qui compare il valore d'uso » 21. Nell'esame scientifico concreto, « le determinazioni che valgono per la produzione in generale debbono venir isolate [gesondert] in modo che per l'unità [...] non vada poi dimenticata la differenza essenziale. In questa dimenticanza consiste per es. tutta la saggezza degli economisti moderni che dimostrano l'eternità e l'armonia dei rapporti sociali esistenti » 22.

Inversamente, il denaro, come merce particolare, viene pro-gressivamente sviluppato: cioè si passa dal denaro come misura al denaro come mezzo di scambio fino al denaro come denaro, dove il discorso che sembrava vertere sulla merce " in generale " si scopre, finalmente, come discorso su una merce generale in quanto forma più semplice di esistenza del valore; e dove la circolazione " in generale ", che finora appariva come un semplice risultato della nostra mente, come una semplice generalizzazione mentale dell'elemento comune a tutte le forme assunte nelle varie epoche dallo scambio, si manifesta in realtà come riflesso di un'epoca determinata, in cui lo scambio penetra per la prima volta fin dentro la produzione, è cioè realiter generale, e in cui la forma di merci dei prodotti del lavoro acquista tale validità generale da abbracciare la forza-lavoro stessa. La deduzione M-D, insomma, si rivela funzionale alla comprensione del rapporto capitalistico più semplice e fondamentale, alla comprensione cioè di D-M come relazione tra capitale e lavoro salariato, ovvero tra quella merce generale che è il denaro, in cui il valore, la qualità sociale, si presenta immediatamente come una qualità naturale, e quella merce particolarissima che è la forza-lavoro, in cui la qualità naturale è invece immediatamente sociale, il valore d'uso è fonte del valore.

In quanto il pensiero comprende passando dal semplice al complesso, il capitale è dedotto nella seconda Sezione dal denaro,

21 K. MARX, Randglossen zu A. Wagner cit., pp. 846-7. 22 K. MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica cit., p. 12.

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che è a sua volta dedotto dalla merce. In quanto, però, il corso logico-astratto non è qui ipostatizzato, Marx non commette l'errore di ridurre il moderno capitale alle forme antidiluviane in cui esso compare nelle società precapitalistiche, quando, come capitale mercantile e usurario, è solo un fenomeno marginale che si annida nei pori della produzione per il consumo. Non commette l'errore di sfumare il discorso scientifico sulla società capitalistica in una filosofia della storia, salvo poi a mutare, come Proudhon, « le differenti membra della società in altrettante società a parte che si succedono le une dopo le altre » 23. Bensì prende questo corso logico-astratto in riferimento all'oggetto reale, in occasione e per la comprensione del quale — del resto — esso si produce. Vede, cioè, che « le più astratte determinazioni, esaminate attentamente, sempre rimandano ad un'ulteriore base storica concreta: of course, perché ne sono state astratte in questa loro determinatezza ». Allora, la deduzione dalla merce al denaro che, presa di per sé, costituirebbe solo un discorso genericissimo valido per tutte le società precapitalistiche nelle quali la circolazione del denaro è mezzo all'appropriazione dei valori d'uso, diventa funzione di un'analisi in cui dalla merce, come modo d'esistenza particolare, si risale al denaro come modo di esistenza generale del valore 24, dalla circolazione alla produzione: dove ciò che logicamente appare come primo e, quindi, come condizione di ciò che segue, si rivela come condizionato in realtà da questo e, perciò, come un suo effetto, come una sua determinazione e un suo sviluppo. Nella circolazione semplice, le forme autonome, le forme di denaro, assunte dal valore delle merci, servono soltanto da intermediario allo scambio di queste in quanto valori d'uso. Invece, nella circolazione D-M-D, che ci dà la differenza essenziale tra la circolazione capitalistica da un lato e tutte le rimanenti dall'altro, « merce e denaro funzionano soltanto come dif-ferenti modi d'esistere del valore stesso »; cioè, non solo « la cir-colazione del denaro come capitale è fine a se stessa », ma, proprio in quanto tale, essa rimanda per la sua autoriproduzione a quello scambio specialissimo che è la compera e vendita della forza-lavoro, cioè alla produzione.

Deduzione-induzione: il capitale è dedotto solo nella seconda Sezione, ma la prima Sezione " merce e denaro " è già parte di quel

25 Miseria della filosofia cit., p. 90. 24 II Capitale cit., I, 1, p. 170.

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Libro I che tratta " il processo di produzione del capitale ". Cioè, l'oggetto dell'analisi logico-storica tanto nella sezione sulla merce che in quella sul denaro è il capitale, e non la merce e il denaro come tali. Il corso in apparenza puramente deduttivo del pensiero di Marx si rivela, così, come il mezzo per garantire lo sviluppo di una induzione realmente scientifica: induzione che non ha più nulla a che vedere, ovviamente, con tutti i primitivi metodi elaborati dal positivismo, a partire da Bacone fino alla Logica di Stuart Mill.

« Nel denaro — come dimostra lo sviluppo delle sue deter-minazioni — posto il postulato del valore che entra nella circolazione e vi si conserva ponendo nello stesso tempo la circolazione stessa — c'è il capitale », dice Marx. « Questo trapasso è nello stesso tempo storico. La forma antidiluviana del capitale è il capitale mercantile, che sviluppa sempre denaro. Nello stesso tempo nascita del vero e proprio capitale dal denaro o dal capitale mercantile che si impadronisce della produzione. » Allo stesso modo, « il passaggio dal capitale alla proprietà fondiaria è nello stesso tempo storico, perché la forma moderna della proprietà fondiaria è un prodotto dell'effetto del capitale sulla proprietà fondiaria feudale. Ugualmente, il passaggio dalla proprietà fondiaria al lavoro salariato è non soltanto dialettico, ma storico, perché l'ultimo prodotto della proprietà fondiaria moderna è il costituirsi ovunque del lavoro salariato, che appare quindi come la base di tutto » 25.

Tocchiamo qui l'aspetto forse più rilevante dell'astrazione de-terminata o scientifica, vale a dire quel suo carattere intrinsecamente storico per cui il nesso di induzione-deduzione, di analisi-sintesi si rivela come una coniugazione di elementi storico-materiali e storico-razionali, come un passaggio cioè dalla storia alla ragione e viceversa. Come passaggio dalla storia alla ragione, in quanto, se è vero che nella sua generalità l'astrazione " valore " riassume i caratteri storici precedenti che ha il prodotto del lavoro nelle società precapitalistiche, è pur vero che questi caratteri si trovano nell'idea appunto solo come riassunti, cioè non con le particolarità che essi hanno rivestito nelle varie fasi dello sviluppo storico, ma riepilogati e sintetizzati in un concetto: quindi in forma di caratteri storico-razionali, di categorie. Come

25 Lettera di Marx a Engels del 2-4-1858 in Carteggio, III, Roma 1951, pp. 196 sgg.

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passaggio dalla ragione alla storia, in quanto, non venendo ipo-statizzata, l'idea non serve qui da pretesto per confondere tutte le differenze storiche, come avviene negli economisti borghesi; non dà motivo a scambiare il " primo " logico per il " primo " reale al modo di Hegel, il quale, prendendo per mera parvenza quello " sviluppo naturale " in cui « l'intuizione o l'essere sono il primo, cioè la condizione per il concetto », disperde l'induzione nella deduzione, l'analisi nella sintesi, col risultato di ottenere alla fine un universale nel quale sono annullate tutte le sue condizioni reali. Bensì è presa come una sintesi in funzione dell'analisi. Il che vuol dire che i precedenti storici, riassunti nell'idea, si convertono, da condizioni logiche per comprendere il fatto (nel nostro caso: il prodotto del lavoro nella moderna società borghese), in effetto di questo effetto, entrando a costituire così un ordine razionale inverso a quello storico-temporale26: dove merce e denaro, per es., non vengono compresi come tali, cioè così come sono per sé, ma come sono per il capitale, come articolazioni del capitale che costituisce, dunque, il vero punto di partenza dell'intera trattazione.

Quest'ordine razionale si configura: 1) come dialettico, perché l'analisi può svilupparsi e non procedere a caso solo in forza "

28 Cfr. G. DELLA VOLPE, Logica cit., p. 195, alla nota 75, di grande importanza.

27 C. BERNARD, Introduzione allo studio della medicina sperimentale, Milano 1951, voi. I, p. 50: « Sperimentando senza idee preconcette si va a caso ». « ho sperimentatore è colui che mediante una interpretazione più o meno probabile ma anticipata dei fenomeni osservati, impianta un espe-rimento in modo tale che, secondo la logica delle sue previsioni, dia un risultato che possa servire di controllo all'ipotesi o all'idea preconcetta [...]. È necessario sperimentare con una idea preconcetta. La mente dello speri-mentatore deve essere attiva, deve cioè interrogare la natura e porle le do-mande in tutti i sensi, secondo le diverse ipotesi che si possono fare » (pp. 37-8). D'altra parte, « non appena appare il risultato dell'esperimento, lo sperimentatore si trova di fronte ad una vera e propria osservazione provocata che egli deve accertare come qualunque altra osservazione, senza più alcuna idea preconcetta. Lo sperimentatore deve allora scomparire o piuttosto deve trasformarsi istantaneamente in osservatore, e solo dopo aver accertato i risultati dell'esperimento proprio come in un'osservazione ordinaria, la sua mente interverrà di nuovo per ragionare, confrontare e giudicare se l'ipotesi è stata confermata o infirmata dai dati sperimentali ». « La mente dello scienziato si trova posta sempre fra due osservazioni: una da cui comincia il ragionamento, l'altra che lo conclude » (p. 40). E si veda a p. 73 la polemica contro il positivismo e contro la repugnanza baconiana per le ipotesi.

BÉLA FOGARASI, Logik, Berlin 1955, opera estremamente contraddittoria ma non priva anche di spunti interessanti, e che ha comunque il merito di essere uno dei pochissimi testi marxisti in cui si tocca il problema

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di un'idea che, anticipando certe connessioni e rapporti nella ragione, mi permette poi di identificarli quando li osservo in concreto. È l'idea, la forma relazionale del pensiero, insomma, che mi suggerisce certe illazioni e mi fa ipotizzare un nesso tra il fatto in questione e un altro non ancora osservato: onde, per es., è solo in forza di un'idea che Marx può dire: « la semplice circolazione del denaro non ha in sé il principio dell'autoriproduzione e perciò accenna al di là di se stessa ». E 2) come ordine storico, in quanto questa anticipazione si rivela come una spiegazione reale e non illusoria del fatto, solo quando evitiamo l'er-rore del post hoc propter hoc, solo quando cioè essa viene verificata nella sua congruenza col fatto e, quindi, liberata da quell'alone di generalità e di indeterminatezza che ha finché è una semplice idea. (Per es. « dallo sviluppo della legge sulla determinazione della massa circolante ad opera dei prezzi, ne consegue — dice Marx — che qui son state fatte delle ipotesi che non si verificano affatto per tutte le situazioni sociali; quindi l'ingenuità, per es., di accostare tout bonnement l'afflusso di oro dall'Asia a Roma e il suo effetto sui prezzi di lì, alle condizioni commerciali moderne».) In altre parole, la categoria "denaro" in tanto mi permette di comprendere realmente il capitale, in quanto la prendo nella sua determinatezza e, quindi, in quanto arrivo a cogliere la differenza essenziale che vi è tra il denaro come agente della circolazione semplice e il denaro come agente della circolazione capitalistica; differenza che mi dà appunto quel movi-mento reale, quello scarto o passaggio storico che si compie allorché il denaro si impadronisce per la prima volta della produzione e si trasforma in moderno capitale, mutandosi così — da semplice mezzo o effetto che era — in causa della sua causa. Astrazione storica, dunque, nel senso più completo della parola, giacché proprio mentre il capitale viene capito e sviluppato nelle sue determinazioni più semplici (merce e denaro), proprio allora mi si illuminano anche le sue cause e, quindi, la sua formazione e la sua genesi storica.

La dialettica, che nella sua forma mistificata di dialettica di puri concetti contraeva i processi reali in una mobilità falsa e ap- dell'ipotesi scientifica. Vedasi anche qui, a pp. 309-13, la polemica contro la svalutazione positivistica dell'ipotesi (Newton, Comte, Ostwald ecc.) nonché l'osservazione che, in tutta la sua Logica, Hegel non dice parola circa l'ipotesi; il che, nota Fogarasi, è da spiegare col fatto che « sulla base dell'idealismo il significato logico-scientifico dell'ipotesi non può essere riconosciuto e, anzi, deve essere addirittura negato » (p. 310).

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parente, mi restituisce alla comprensione del divenire storico proprio nella sua forma scientifica, proprio cioè come dialettica di ragione e materia, di teoria e pratica, di ipotesi ed esperimento. « Vi è — scrive Schumpeter — una cosa di importanza fondamentale per la metodologia economica, che Marx ha fatto. Gli economisti o avevano svolto un'opera personale nel campo della storia economica, o si erano serviti dell'opera storica altrui. Ma i fatti della storia economica rimanevano confinati in una sezione a parte. Entravano nella teoria, se mai vi entravano, al solo titolo di esemplificazioni o, eventualmente, di conferme dei risultati, fondendosi solo meccanicamente con essa. In Marx la fusione è di natura chimica: in altre parole, qui i fatti sono introdotti nel cuore del ragionamento da cui i risultati sgorgano. Egli fu il primo grande economista che capì e insegnò in modo sistematico come la teoria economica possa trasformarsi in analisi storica, e il racconto storico in histoire raisonnée » (cors. mio) 2\

Ancora una volta, dunque, analisi scientifica e storia a un parto, cioè scienza-storia e storia-scienza: ecco lo storicismo di Marx; che non è né quello di Vico, né quello di Hegel e tantomeno quello di Croce, come pur vorrebbero che fosse quei marxisti, i quali — non vedendo la storia nel Capitale — la cercano solo nel 18 Brumaio!

Ma si osservi: analizzando il capitale nelle sue interne arti-colazioni, sviluppando dal capitale quel suo ramo che è, per es., la proprietà fondiaria moderna, noi comprendiamo al tempo stesso il passaggio storico dalla proprietà fondiaria feudale al capitalismo. Cioè: il passaggio dalla società feudale a quella borghese non lo colgo ragionando al di sopra di queste due società, bensì comprendo il nesso tra queste due specie solo analizzando i nessi interni alla specie più sviluppata. In altre parole, la mia analisi in tanto si apre alla comprensione della storia generale, in quanto si interna nello studio della presente società, che è la società più

28 J. SCHUMPETER, Capitalismo socialismo e democrazia, Milano 1955, p. 40.

BÉLA FOGARASI, Logik cit., p. 284: « ...duplice analisi, una induttiva e una deduttiva, insieme e reciprocamente complementari — questo il metodo che Marx adopera nel Capitale ». E poco oltre: « Nel complesso il metodo di Marx poggia sulla connessione e sull'unità più stretta di deduzione e induzione. Esteriormente si ha l'impressione che si alternino capitoli a carattere deduttivo e capitoli che elaborano materiale empirico-induttivo [...]. Nella ricerca tuttavia ogni singola proposizione è fondata con il pari concorso sia dell'elemento induttivo che di quello deduttivo ».

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sviluppata e complessa. Verifichiamo qui, in concreto, come il marxismo non sia prima una filosofia generale, una filosofia della storia, e, secondariamente, un'analisi del capitalismo; ma come esso sia, viceversa, una teoria che in tanto si apre all'intelligenza del passato, in quanto — addentrandosi nell'analisi del capitalismo moderno — coglie quelle sue " differenze " estreme ed essenziali che illuminano di riflesso anche le altre società.

Non vi è una logica della stasi e un'altra del puro e indeterminato movimento, una logica della cosa e, poi, una logica delle relazioni tra le cose: come crede Engels quando scrive che nelle scienze naturali, per es., « prima di poter indagare i processi bisognava sottoporre a indagine le cose », « prima che si potessero constatare i cambiamenti che si producono in una cosa qualunque bisognava incominciare a sapere che cosa era questa cosa » (Feuer., p. 53); onde — accertato « il nesso che esiste tra i processi della natura nei singoli campi » — si passerebbe poi a cogliere « il nesso che unisce i diversi campi tra di loro », cioè « il quadro sinottico » (p. 55), la panoramica generale. Bensì vi è una sola ed unica logica in virtù della quale unifichiamo razionalmente solo dividendo in pratica, e dividiamo in astratto solo unificando in concreto. Vale a dire: sintesi che ha a base un'analisi, deduzione in funzione dell'induzione.

Anche le astrazioni più " semplici " che stanno al vertice della moderna economia politica 29 e che esprimono rapporti antichissimi e validi per tutte le forme di società, appaiono tuttavia praticamente vere — dice Marx — solo come categorie della più moderna società. Anche le categorie più astratte, pur essendo valide in virtù della loro astrattezza (generalità) per tutte le epoche, sono tuttavia astrazioni specifiche e determinate; astrazioni, cioè, che costituiscono il prodotto e il riflesso di determinate condizioni storiche 3° e che posseggono la loro piena validità solo

29 Da qui in poi esponiamo il testo dell'Introduzione alla critica del l'economia politica cit., pp. 44-51.

30 E si ricordi, per es., come Marx spiega il fatto che per Aristotele (il quale pure arrivò a decifrare la " forma di equivalente ") fosse impossi bile salire al concetto scientifico di valore-lavoro. « Aristotele non poteva ricavare dalla forma di valore stessa il fatto che nella forma dei valori di merci tutti i lavori sono espressi come lavoro umano eguale e quindi come egualmente valevoli, perché la società greca poggiava sul lavoro servile e quindi aveva come base naturale la diseguaglianza degli uomini e delle loro forze-lavoro. L'arcano dell'espressione di valore, l'eguaglianza e la validità eguale di tutti i lavori, perché e in quanto sono lavoro umano in genere, può essere decifrato soltanto quando il concetto della eguaglianza umana

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per e all'interno di queste condizioni. Quindi, se le categorie più generali della società borghese hanno al tempo stesso valore anche per tutte le altre società, ciò non vuol dire che il loro aspetto specifico e quello generico siano da confondere. Infatti, vero è che la società borghese, essendo la più sviluppata e complessa organizzazione della produzione, esprime i suoi rapporti con categorie che consentono di capire anche la struttura e i rapporti di produzione di tutte le formazioni sociali passate, sulle cui rovine e con i cui elementi essa si è costruita. Se non sorprende che l'anatomia dell'uomo sia la chiave per intendere l'anatomia delle scimmie, non può neppure sorprendere che l'economia borghese fornisca la chiave dell'economia passata. Ma ciò non va inteso — avverte ancora Marx — al modo degli economisti che cancellano tutte le differenze storiche e vedono in tutte le forme di società la società borghese. Perché, se si comprendono i tributi e le decime solo quando si conosce la rendita fondiaria, non è lecito identificare poi queste cose tra loro. La società borghese contiene certamente entro di sé il passato; ma, in quanto essa stessa è solo una forma dello sviluppo storico, nata in antitesi ad altre, i rapporti economici che hanno caratterizzato le società precedenti si rinvengono entro di lei solo in modo del tutto atrofizzato o anche travestito (come ad es. la proprietà comunale) e sempre, comunque, con un raggio d'azione limitato e circoscritto.

possegga già la solidità di un pregiudizio popolare. Ma ciò è possibile soltanto in una società nella quale la forma di merce sia la forma generale del prodotto del lavoro, e quindi anche il rapporto reciproco fra gli uomini come possessori di merci sia il rapporto sociale dominante. Il genio di Aristotele risplende proprio nel fatto che egli scopre un rapporto d'eguaglianza nell'espressione di valore delle merci. Soltanto il limite storico della società entro la quale visse gli impedisce di scoprire in che cosa insomma consista 'in verità' questo rapporto di eguaglianza» (Capitale cit., I, 1, p. 73). Inversamente, l'astrazione " lavoro in generale " cessa di essere « soltanto il risultato mentale di una concreta totalità di lavori » e diviene per la prima volta un concetto scientifico, quando « l'indifferenza verso un lavoro determinato corrisponde a una forma di società in cui gli individui passano con facilità da un lavoro ad un altro e in cui il genere determinato del lavoro è per essi fortuito e quindi indifferente. Il lavoro qui è divenuto non solo nella categoria, ma anche nella realtà il mezzo per creare in generale la ricchezza, ed esso ha cessato di concrescere con l'individuo come sua destinazione particolare. Un tale stato di cose è sviluppato al massimo nella forma d'esistenza più moderna delle società borghesi, gli Stati Uniti. Qui, dunque, l'astrazione della categoria ' lavoro, ' il ' lavoro in generale, ' il lavoro sans phrase, che è il punto di partenza dell'economia moderna, diviene per la prima volta praticamente vera » (Introduzione alla critica dell'economia politica cit., p. 44).

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Quindi, anche se è vero che le categorie dell'economia borghese contengono una verità per tutte le altre società, ciò è da intendere, dice Marx, cum grano salis; tenendo, cioè, conto che esse possono contenere le caratteristiche di quelle società, ma sempre con una differenza essenziale. Giacché in tutte le società « vi è sempre una determinata produzione che decide del rango e della influenza di tutte le altre »; una produzione, che è come « una luce generale che si effonde su tutti gli altri colori modificandoli nella loro particolarità: come un'atmosfera che determina il peso specifico di tutto quanto essa avvolge ». Nel Medioevo, per es., se si eccettua quello in moneta, il capitale ha come tradizionale strumento produttivo il carattere di proprietà fondiaria. Nella società borghese, invece, accade il contrario: l'agricoltura diviene sempre più un puro e semplice ramo dell'industria ed è completamente dominata dal capitale. Lo stesso avviene anche per la rendita fondiaria. In tutte le società in cui domina la rendita fondiaria, è predominante ancora il rapporto con la natura; in quelle, invece, dove domina il capitale, prevale l'elemento creato dalla società, l'elemento storico.

Ora, in quanto noi comprendiamo il passato sempre alla luce delle categorie espresse dal presente e la rendita fondiaria, ad es., non può essere capita senza il capitale, mentre il capitale, al contrario, può essere compreso anche senza la rendita fondiaria — sarebbe cosa impratica ed erronea (untubar una falsch), dice Marx, che la scienza adoperasse le categorie nella successione in cui esse furono determinanti nel corso della storia; giacché il loro ordine di sequenza è deciso piuttosto dalla relazione che esse hanno l'una con l'altra nella moderna società borghese, e quest'ordine è esattamente l'inverso della loro successione naturale così come del loro sviluppo lungo il corso della storia. In questo caso, egli aggiunge, non si tratta del posto che i rapporti economici occupano storicamente nella successione delle diverse società e tantomeno della loro successione " nell'Idea ", come fantasticano Hegel e Proudhon, bensì della loro articolazione all'in-terno della moderna società borghese.

Ma, se il capitale che è la potenza economica dominante nella società borghese, deve costituire l'inizio e il termine della trattazione scientifica ed essere spiegato, quindi, prima della proprietà fondiaria, la scienza non deve poi dimenticare che il capitale è divenuto il " regolatore " della produzione solo nella moderna società borghese, e che nei sistemi economici precedenti

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esso esprimeva aspetti marginali e secondari della società. Applicare meccanicamente l'ordine e la connessione con cui le categorie si presentano nella società borghese alle altre società del passato, significa pertanto non solo avere una visione unilaterale e ingenuamente finalistica della storia, quasi che le fasi e le epoche precedenti rappresentino solo un gradino all'avvento dell'ultima formazione sociale; ma falsificare il passato, scorgendo in esso sempre e ovunque i tratti della società borghese. Una simile concezione del " cosiddetto sviluppo storico ", dice Marx, è stata finora comune a quasi tutte le epoche ad eccezione solo di quei rari periodi che, sotto il peso di determinate circostanze, sono stati capaci di criticare se stessi, cioè di avere coscienza della storicità dei propri ordinamenti e, quindi, del valore condizionato, non assoluto, delle categorie in cui quegli ordinamenti si sono espressi. Così la religione cristiana, per es., è stata in grado di fornire una obiettiva comprensione delle passate mitologie solo quando divenne in potenza {dynamei) capace di autocritica, e così l'economia borghese è giunta a capire il mondo feudale, quello antico e quello orientale solo quando è cominciata l'autocritica della società borghese.

10. Colletti

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VII. LENIN E HEGEL

« L'analisi scientifica del modo di produzione capitalistico di-mostra — scrive Marx nelle ultime pagine del Capitale — che [...] i rapporti di distribuzione sono in sostanza identici ai rapporti di produzione, costituiscono il rovescio di questi ultimi, così che gli uni e gli altri hanno lo stesso carattere storicamente transitorio [...]. Il salario presuppone il lavoro salariato, il profitto presuppone il capitale. Queste forme determinate di distribuzione presuppongono quindi determinati caratteri sociali delle condizioni della produzione e determinati rapporti sociali tra gli agenti della produzione. Un determinato rapporto di distribuzione è, di conseguenza, solo l'espressione di un rapporto di produzione storicamente determinato [...]. Ogni forma di distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata, a cui essa corrisponde e da cui deriva. » l

« La concezione che considera storicamente solo i rapporti di distribuzione e non anche i rapporti di produzione — continua Marx poco oltre — è, da un lato, la concezione di una critica iniziale, ancora timida, dell'economia borghese. Dall'altro lato, si fonda sullo scambio e sull'identificazione del processo sociale di produzione col processo lavorativo semplice, che deve compiere anche un uomo artificiosamente isolato, senza alcun aiuto sociale. In quanto il processo lavorativo è soltanto un processo tra l'uomo e la natura, i suoi elementi semplici rimangono identici in tutte le forme dell'evoluzione sociale. Ma ogni determinata forma storica di questo processo ne sviluppa la base materiale e le forme sociali » (ivi, p. 301).

L'importanza della prima parte di questa lunga citazione (che dovrebbe essere ormai fin troppo ovvia) sta nel fatto che essa

1 II Capitale, III, 3, Roma 1956, pp. 295, 299, 301.

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afferma, su un piano di " principio ", l'unità profonda e organica tra l'opera economica e l'opera storica di Marx; unità, che quando oggi viene riproposta ingenera da noi il sospetto di determinismo, e che dovrebbe invece risultare chiara a chiunque conosca il carattere che ha l'analisi economica contenuta nel Capitale. Essa, infatti, è fondata, sì, sui rapporti di produzione tra i membri della società; fa vedere — è vero — come si evolve l'organizzazione mercantile dell'economia sociale e come si trasforma in organizzazione capitalistica, senza mai ricorrere per spiegare la cosa a un qualsiasi elemento che si trovi al di fuori di questi rapporti di produzione. Ma, nel far ciò, procede in modo tale da non ridursi mai a teoria economica pura. L'analisi della struttura, della base reale capitalistica costituisce, certo, lo scheletro del Capitale; « tutto sta però nel fatto — dice Lenin — che Marx non si accontentò di questo scheletro, che egli non si limitò alla sola ' teoria economica ' nel senso abituale della parola, che egli — pur spiegando la struttura e l'evoluzione di una data formazione sociale esclusivamente con i rapporti di produzione — investigò ciò nondimeno sempre e dappertutto le sovrastrutture corrispondenti a questi rapporti di produzione, rivestì lo scheletro di carne e sangue » 2, fece cioè a un tempo economia e storia.

A questo risultato, ovviamente, Marx non pervenne attraverso un lavoro di giustapposizione: compiendo, cioè, prima una analisi puramente economica e rimpolpando poi i dati di questa analisi con elementi storici e politici. Egli non lavorò con due criteri, ma con categorie che fin dall'inizio e già nella loro più intima natura rappresentano, insieme, agenti della produzione e agenti storico-sociali, sono cioè, a un parto, economiche e storiche.

« Nell'argomentazione marxista, scrive Schumpeter3, sociologia ed economia si permeano a vicenda »; « tutti i concetti e le tesi fondamentali sono economici e sociologici insieme e hanno lo stesso significato su entrambi i piani — ammesso che, dal nostro punto di vista, si possa ancora parlare di due piani. Così, la categoria economica [forza-] ' lavoro ' e la classe sociale ' proletariato ' vengono, almeno in linea di principio, fatte convergere e, in pratica, identificate. Ovvero, la distribuzione funzio-

2 V. I. LENIN, Che cosa sono gli Amici del popolo, in Opere cit., I, p. 136.

3 J. SCHUMPETER, Capitalismo socialismo cit., pp. 41-3.

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naie degli economisti — cioè la spiegazione del modo di insorgere del reddito in quanto corrispettivo di servizi produttivi indipendentemente dalla classe sociale cui ogni singolo percettore di esso appartiene — entra nello schema marxista solo sotto la forma di una distribuzione fra classi sociali, e assume quindi connotati diversi ». Da qui la forza del Capitale. Esso mostra, dice Lenin, « tutta la formazione sociale capitalistica come una cosa viva, con i suoi aspetti della vita quotidiana, con la manifestazione sociale concreta dell'antagonismo delle classi inerente ai rapporti di produzione, con la sovrastruttura politica borghese che protegge il dominio della classe dei capitalisti, con le idee borghesi di libertà, eguaglianza, ecc. ». « La sintesi di Marx » — rincalza, seppure con un certo " veleno ", Schumpeter — « abbraccia tutti quei fatti storici — guerre, rivoluzioni, trasformazioni legislative — e tutti quegli istituti sociali — proprietà, rapporti con-trattuali, forme di governo — che gli economisti non-marxisti sono abituati a considerare come elementi di disturbo o come semplici dati. Il tratto caratteristico del sistema marxista è ch'esso sottopone anche quei fatti storici e quegli istituti sociali al processo esplicativo dell'analisi economica o, per usare il linguaggio tecnico, li tratta non come dati ma come variabili. »

Vera e grande opera di storia, dunque, è da ritenere proprio e anzitutto il Capitale stesso. Il 18 Brumaio, Le lotte di classe in Francia ecc., tutti gli scritti cosiddetti storici, non solo hanno le loro radici in questa opera, non solo la presuppongono e l'hanno per base, ma lungi dal rappresentare un " passaggio ad altro genere " nella ricerca di Marx, restano inclusi nel suo stesso orizzonte. Non veder questo (come anche da molti marxisti ancora non si vede) significa in pratica misconoscere la pregnanza storico-sociale che hanno tutte le categorie economiche del Capitale, anche le più " astratte "; e, quindi, perseverare nella separazione borghese di produzione e distribuzione, di economia e politica, di natura e storia: come se per Marx il movimento della società non fosse « un movimento nei suoi fondamenti ma solo sui suoi fondamenti » (Dobb); non fosse appunto un processo storico-naturale, ma un processo da relegare ancora soltanto nel campo dei " rapporti sociali ideologici ".

Accenneremo ancora in seguito a questo tema; per ora ci interessa osservare — ed è questo lo spunto contenuto nella seconda parte della citazione iniziale — che, come la sociologia borghese con la sua separazione di natura e storia, di produzione

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e distribuzione, di economia e politica, implica una logica e, pre-cisamente, una logica che scambia il genere per la specie, il processo lavorativo semplice pel processo sociale di produzione, così può dirsi anche del Capitale, il cui " oggetto " è appunto di natura tale da riuscire assolutamente inconcepibile senza una particolare metodologia. Benché questa implicazione di metodo e contenuti del sapere sia al centro dello sforzo teorico di Marx, nella letteratura che si richiama al suo indirizzo di pensiero il problema è passato generalmente inosservato, come se si trattasse di cosa fin troppo ovvia: in parte per la sordità (tipicamente positivistica) del marxismo della seconda Internazionale ai problemi di metodo, in parte per la confusione tra metodo di Marx e dialettica di Hegel che, dopo di allora, si è sempre meglio compiuta e perfezionata, fino a scadere da ultimo in una vera e propria precettistica. Eccezione a questo corso di cose è quel gruppo mirabile di scritti di Lenin, che vanno da Che cosa sono gli Amici del popolo al Contenuto economico del populismo, alle Caratteristiche del romanticismo economico fino allo Sviluppo del capitalismo in Russia; scritti, dove i problemi di metodo sorgono direttamente dall'analisi e dall'interpretazione del Capitale e nei quali Lenin riesce a ristabilire per la prima volta un colloquio profondo e vitale con l'opera di Marx.

Il problema che è al centro di queste opere e, in particolare, degli Amici del popolo è, com'è noto, quello di una sociologia critica o scientifica di cui Lenin vede il modello nel Capitale e l'antitesi nella sociologia populista o borghese in genere, in quanto metafisica anziché scienza della società. Il particolare interesse che suscita la sua trattazione, tuttavia, sta proprio nel fatto che Lenin non si limita qui a constatare la divergenza tra marxismo e populismo, per rimettere poi la decisione a una... prise de parti; ma spinge la sua analisi fino a vedere in che senso la sociologia borghese, arrestandosi nello studio della società alle forme giuridiche e politiche ovvero ai rapporti sociali ideologici, deve involgersi necessariamente nella metafisica; e, inversamente, perché il marxismo può costituirsi come scienza solo a patto di assumere come base della società i rapporti sociali materiali, ovvero di considerare l'aggregato sociale come una formazione eco-nomico-sociale, cioè come un " intero ", un toturn o blocco storico avente per fondamento i rapporti di produzione.

Dice Lenin in una delle prime pagine degli Amici del popolo che, se i sociologi populisti ripetono lo stesso errore di tutti

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i sociologi borghesi i quali non riescono a discendere nell'analisi della società fino ai rapporti più semplici, fino ai rapporti primordiali come sono i rapporti di produzione, ma affrontano direttamente l'indagine delle forme giuridiche e politiche, ciò accade in quanto essi separano produzione e distribuzione, in quanto ritengono, cioè, che vadano considerati come appartenenti alla storia umana solo i rapporti di distribuzione e non anche la produzione. La produzione dipende piuttosto, essi dicono, da leggi naturali e eterne, mentre la distribuzione dipende dalla politica, dall'influenza che esercitano sulla società il potere, gli intellettuali ecc. Tuttavia, se l'economista e il sociologo borghesi si arrestano ai rapporti di distribuzione, ai " rapporti sociali ideologici " o, come dice Lenin, « a quei rapporti che prima di formarsi passano attraverso la coscienza degli uomini », ritenendo, al contrario, che la produzione materiale, nella sua essenza, possa ridursi a un semplice rapporto tra il singolo uomo e la natura: ciò non accade a caso, ma si deve al fatto che nella produzione essi vedono solo un processo lavorativo semplice, solo cioè un rapporto tra l'uomo e la natura e non anche un rapporto dell'uomo con l'uomo.

« Tutta la concezione che sinora si è avuta della storia » — os-serva già l'Ideologia tedesca — « o non ha assolutamente tenuto conto di questa base reale della storia o l'ha considerata solo come collaterale, che sta al di fuori di ogni nesso col corso della storia. Per questa ragione si è sempre costretti a scrivere la storia secondo un criterio che le è estraneo: la reale produzione della vita appare come fatto preistorico, mentre il fatto storico, inteso come qualche cosa che è separato dalla vita comune, appare come extra e sovramondano. Conseguentemente il rapporto dell'uomo con la natura viene escluso dalla storia e da qui si genera l'antitesi natura-storia », natura-spirito.

La separazione tra produzione e distribuzione si configura, quindi, come separazione tra un rapporto (che è presunto come) esclusivamente materiale o naturale da un lato, e un rapporto (che è presunto come) esclusivamente umano, o meglio esclusivamente spirituale dall'altro. In altre parole, la sociologia borghese scinde il rapporto uomo-natura dal rapporto dell'uomo con l'uomo, perché divide nell'uomo, per così dire, anima e corpo, considerando solo come corpo l'uomo che è in rapporto con la natura (e, quindi, l'intero processo produttivo come un processo regolato da leggi " naturali " eterne) e, inversamente, solo come anima,

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solo come coscienza, l'uomo che è in rapporto con gli altri uomini (e, quindi, l'intero processo storico come un processo esclusivamente spirituale o ideale). Va da sé che, di fronte a questa separazione, Lenin non obietta al modo della bellettristica socialista di allora e di oggi, la quale crede che l'errore sia « di non concepire i momenti nella loro unità: come se questa dissociazione fosse passata non dalla realtà nei libri, ma viceversa dai libri nella realtà, e come se qui si trattasse di una conciliazione dialettica di concetti, anziché della dissoluzione di rapporti reali! » (Marx). Egli vede bene infatti, che la scissione di produzione e distribuzione rimanda chiaramente alla struttura di una società caratterizzata dalla divisione antagonistica del lavoro, dalla divisione cioè di lavoro manuale e intellettuale, da una divisione in-somma in classi. Senonché la passione teorica che anima questi scritti è tale che Lenin non si limita a ricondurre o, peggio ancora, a " schiacciare " il fatto ideologico sulla sua base sociale, ma lo ricostruisce e ne sviluppa tutte le implicazioni anche di metodo. Egli vede, cioè, che come il dualismo che l'uomo proietta sull'oggetto è espressione di un dualismo reale tra i soggetti, tra gli uomini, cosi quest'ultimo deve coinvolgere anche una separazione dualistica di soggetto e oggetto nella prassi del sapere. Infatti, se nella struttura dell'oggetto " società " non vedo come essenziali i rapporti materiali è perché in questa società il mondo del lavoro e della produzione ha un riconoscimento inessenziale, quindi perché vi è una separazione tra pratica e teoria, perché la teoria insomma sta per sé. Ma se ciò ha un senso, questo vuol dire anche che, nel rapporto del sapere, la teoria non tiene conto veramente dell'oggetto, ma si pone come pensiero per sé stante, cioè si ipostatizza, si sostantifica. E questa appunto è la conclusione di metodo che Lenin ricava. « Oggetto dell'economia politica — egli scrive — non è affatto la ' produzione dei valori ma-teriali ', come spesso si dice (questo è l'oggetto della tecnologia), ma i rapporti sociali tra gli uomini nel processo di produzione. Solo se si intende la ' produzione ' nel primo senso è possibile separare da essa la ' distribuzione ', e allora nella ' sezione ' che tratta della produzione, il posto delle categorie di forme storicamente determinate dell'economia sociale viene occupato dalle categorie che si riferiscono al processo lavorativo in generale »; ha luogo, cioè, uno scambio del genere con la specie. « Di solito queste vuote banalità — egli conclude — servono esclusivamente

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a occultare le condizioni storiche e sociali. (Esempio: il concetta di capitale). » '

Tuttavia, non si deve credere che Lenin si limiti a questa rapida ricostruzione del processo di ipostatizzazione; giacché egli ne fa anzi il tema centrale della sua critica alla sociologia borghese, sottolineando con grande acutezza le conseguenze di metodo a cui si va incontro, quando le società siano sondate solo al livello dei rapporti sociali ideologici. In questo caso, infatti, poiché le loro forme giuridiche e politiche debbono necessariamente apparire — egli osserva — come « originate da queste o quelle idee del genere umano » e, quindi, come semplici prodotti del pensiero, l'indagine non verte più su un oggetto reale bensì su un'oggettività meramente ideale. Il rapporto della teoria con l'oggetto, in altre parole, si contrae, per la natura ideale di questo, in un semplice rapporto da idea a idea, in un puro monologo interno al pensiero. L'oggetto dell'analisi ci si dissolve tra le mani, e noi siamo nell'impossibilità — dice Lenin — di intraprendere lo studio dei fatti, dei processi sociali, proprio perché non abbiamo più dinanzi a noi una società, un oggetto reale, ma solo Vìdea di società, la società in generale. Ecco l'ipostasi a cui' mette capo la sociologia borghese; ed ecco perché, per i nove decimi, le sue teorie consistono, " in costruzioni puramente aprioristiche, dog-matiche, astratte ", del tipo: " che cos'è la società, che cos'è il progresso? ". Qui si parla della società in generale, si discute con gli Spencer « la definizione della società in generale, il fine e l'essenza della società in generale, ecc. », senza vedere — dice Lenin — che « simili teorie sono dannose per il fatto stesso di esistere; sono dannose per i loro metodi fondamentali, per il loro carattere puramente e interamente metafisico. Infatti, cominciare col domandarsi che cos'è la società e che cos'è il progresso, significa incominciare dalla fine. Dove prendete voi il concetto di società e di progresso in generale, se non avete ancora studiato neppure una formazione sociale in particolare, se non avete saputo neppure stabilire questo concetto, se non avete neppure saputo intraprendere un serio studio dei fatti, un'analisi obiettiva di uno qualunque dei rapporti sociali? Questo è il contrassegno più evidente della metafisica, dalla quale incominciava ogni scienza: finché non si riusciva a intraprendere lo studio dei fatti, si inventavano sempre, a priori, delle teorie generali, sempre ri-

4 Opere cit., II, p. 191.

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maste infeconde ». Il contrassegno più evidente della metafisica, dunque (possiamo concludere), è non già il " sì-sì " " no-no " di hegeliana e engelsiana memoria, ma il fatto che essa volge le spalle alla molteplicità reale per sostituire o sovrapporre ad essa una genericità o un'idea che non rimanda né si riferisce a questo o a quell'aspetto del reale, ma si presenta al contrario essa stessa come la sola e intera realtà. La metafisica, insomma, non riesce a intraprendere lo studio dei fatti perché per essa, a rigore, non vi sono più fatti, o meglio perché, al posto dei concreti fenomeni storici, ha interpolato l'idea, al posto di una concreta e determinata società ha sostituito la società in generale.

Scrive con grande finezza Lenin: « il chimico metafisico, non sapendo ancora indagare di fatto i processi chimici, inventava una teoria che rispondesse alla domanda: che forza è l'affinità chimica? Il biologo metafisico dissertava intorno alla questione: che cosa sono la vita e la forza vitale? Lo psicologo metafisico ragionava intorno alla questione: che cos'è l'anima? Qui —continua Lenin— già il procedimento stesso era assurdo. Non si può ragionare intorno all'anima senza spiegare particolarmente i processi psichici; qui il progresso deve consistere appunto nel rigettare le teorie generali e le elucubrazioni filosofiche relative alla questione: che cos'è l'anima? e saper porre su un terreno scientifico lo studio dei fatti che caratterizzano questi o quei processi psichici ». Il progresso deve cioè consistere nel restaurare e ristabilire, contro le ipostasi che li occultavano, quei " fatti ", quei processi reali, elusi e trascesi dal metafisico, la cui esistenza è la premessa indispensabile per intraprendere qualsiasi indagine scientifica.

Ipostasi, dunque, caratterizzate da una radicale infecondità, cioè dall'incapacità di servire come ipotesi e criteri per l'esperienza, e che portano quindi a un'introduzione surrettizia di contenuti immediati, non controllati: questo il metodo della sociologia metafisica. E ben s'intende allora, dice Lenin, come il Capitale non sia « un lavoro rispondente allo scopo per il sociologo metafisico che non ha notato la sterilità dei ragionamenti aprioristici intorno alla natura della società e non ha capito che, invece di studiare e spiegare, tali metodi insinuano soltanto, come concezione della società, le idee borghesi di un mercante inglese o gli ideali del socialismo piccolo-borghese di un democratico russo, e niente di più. Ed è perciò che tutte queste

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teorie storico-filosofiche sono sorte e sono scoppiate come bolle di sapone, rappresentando nel migliore dei casi un sintomo delle idee e dei rapporti sociali del loro tempo, e non facendo progredire di un iota la comprensione da parte dell'uomo di rapporti sociali anche singoli, ma reali ».

Senonché, se un'indagine della società che sia limitata solo ai rapporti ideologici implica un'elusione dell'oggetto reale e, di conseguenza, produce la contrazione dell'analisi in un ragionamento aprioristico, è evidente che il solo modo di garantire alla teoria un contenuto effettivo non può essere che quello di sondare la società al livello della sua produzione materiale, al livello cioè di quella base reale che le impedisce di fondersi e risolversi in un'idea. L'assunzione dei rapporti materiali di produzione a base della società nasce qui, insomma, proprio come un'ipotesi e, precisamente, come un'ipotesi che viene formulata come condizione per poter istituire un processo di indagine scientifica. Nel senso che, avendo verificato come la nega-zione della materia stravolga il fatto in un assioma metafisico, l'analisi in una costruzione dogmatica e aprioristica, si ipotizza viceversa l'esistenza della materia, e quindi la natura non ideale dell'oggetto, per poter così avviare un'analisi effettiva.

Questa e non altra è la ragione per cui —dopo aver riportato quel celebre passo della prefazione a Zur Kritik (tante volte citato e così poco compreso) in cui Marx ricorda come proprio attraverso la " revisione critica della filosofia del diritto di Hegel " egli arrivò a quel " filo conduttore " della sua ricerca futura, che è l'idea che « tanto i rapporti giuridici quanto le forme dello Stato non possono essere compresi né per se stessi né per la cosiddetta evoluzione generale dello spirito umano ma hanno le loro radici, piuttosto, nei rapporti materiali dell'esistenza » — Lenin conclude che il materialismo storico non è altro che "l'idea del materialismo in sociologia ", l'idea, cioè, che — per fare scienza della società — è necessario presupporre l'esistenza oggettiva, la struttura materiale di questa. « S'intende — egli continua —, che per il momento si trattava ancora soltanto di un'ipotesi, ma di un'ipotesi tale [si noti bene] che creava per la prima volta la possibilità di un atteggiamento rigorosamente scientifico verso i problemi storici e sociali »; di un'ipotesi che « non pretende affatto di spiegare ' tutta ' la storia », ma « soltanto di portare a un livello scientifico i metodi di questa spiegazione » e che, per la prima volta, ha portato « la sociologia

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su un terreno scientifico, stabilendo il concetto di formazione economico-sociale come complesso di determinati rapporti di produzione e stabilendo che lo sviluppo di queste formazioni è un processo storico naturale ».

Non una " concezione del mondo ", dunque, come fantasticano quei " marxisti " che — dopo averci servito, nella " sezione " sul metodo, la dialettica di Hegel e le sue venerande leggi— arrivati alla "sezione" sul materialismo, mettono mano a Democrito; ma un materialismo che si risolve e scarica senza residui mitologici nella concreta indagine della scienza. « Il materialismo — è stato acutamente osservato — può presentarsi come un'ontologia metafisica, come una visione del mondo e •della vita: ma, prima e indipendentemente da tutto ciò, è la struttura formale del metodo scientifico », proprio perché « l'indagine scientifica ha sempre richiesto che i fenomeni venissero trattati come se fossero materiali » (G. Preti)5.

Tuttavia, se l'esteriorità del dato empirico-materiale è la sola garanzia perché l'idea non si sostituisca all'oggetto reale e, quindi, è la sola condizione che crea la possibilità di un atteggiamento scientifico verso l'oggetto (onde — dice Lenin — solo a questo modo, il sociologo riesce « a venir fuori dal campo delle frasi vuote e a passare a fatti determinati, i quali ammettono una verifica »), è da tener presente, poi, che, proprio in quanto è un'ipotesi e quindi in funzione della materia, quest'idea è, a sua volta, una condizione indispensabile per sviluppare l'analisi. Per esempio, mentre « finora i sociologi trovavano difficoltà a distinguere, nella rete intricata dei fenomeni sociali, i fenomeni importanti e i fenomeni non importanti [...] e non sapevano trovare un criterio oggettivo per una tale differenziazione », l'idea del materialismo ha dato, al contrario, scrive Lenin, « un criterio completamente oggettivo, separando ' i rapporti di produzione ', come struttura della società e dando la possibilità di applicare a questi rapporti quel criterio scientifico generale della reiterabilità, la cui appli-

5 E. GARIN, La cultura italiana tra '800 e '900, Bari 1962, p. 325, in una valutazione d'assieme del nostro scritto, ha osservato, in riferimento a questo luogo, che « nel punto in cui si insiste sul non essere il ' materialismo ' concezione del mondo ma scienza, perché — come dice Preti — ' l'indagine scientifica ha sempre richiesto che i fenomeni venissero trattati come se fossero materiali ', probabilmente non si apprezza abbastanza quel come se, e tutto quello che implica, col rischio di finire seguaci di Mach invece che di Marx ». La critica è interamente da condividere. La nostra interpretazione, infatti, del passo di Giulio Preti contiene un'evidente forzatura del suo significato originario. (Nota aggiunta.)

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cazione alla sociologia era negata dai soggettivisti. Fino a quando costoro si limitarono ai rapporti sociali ideologici [...] non potevano notare la reiterabilità e la regolarità dei fenomeni sociali nei diversi paesi, e la loro scienza, nel migliore dei casi, era soltanto una descrizione di questi fenomeni, una scelta di materiale greggio. L'analisi dei rapporti sociali materiali [...] ha subito reso possibile di rilevare la reiterabilità e la regolarità e di generalizzare gli ordinamenti di diversi paesi in modo da giungere ad un unico concetto fondamentale di formazione sociale. Soltanto questa generalizzazione ha permesso di passare dalla descrizione (e dalla valutazione dal punto di vista di un ideale) dei fenomeni sociali all'analisi rigorosamente scientifica di tali fenomeni, individuando, per spiegarci con un esempio, ciò che distingue un paese capitalistico dall'altro e analizzando ciò che è comune a tutti ». E solo « quest'ipotesi — conclude Lenin — creò per la prima volta la possibilità di una sociologia scientifica, perché soltanto riconducendo i rapporti sociali ai rapporti di produzione, e questi ultimi al livello delle forze produttive, si è ottenuta una base salda per rappresentare l'evoluzione delle formazioni sociali come un processo storico naturale ».

Dicevamo poc'anzi che la letteratura marxista ha scarsamente riflettuto sull' "oggetto" del Capitale, cioè sulla " formazione economico-sociale " borghese di cui esso tratta. Possiamo aggiungere ora che sarebbe bastata una tale riflessione per tagliar corto con tutte le contaminazioni hegeliane a cui va tuttora soggetto presso la maggior parte degli interpreti il metodo di Marx, e per vedere come lo stesso concetto di formazione sociale non sia comprensibile se non alla luce di una teoria dell'astrazione determinata. E, infatti, se l'oggetto del Capitale, come « forma tipica generalizzata di tutte le società capitalistiche esistenti » (Dobb), non può non essere un'astrazione, è pur vero che questo " oggetto " non è il prodotto di un'astrazione di tipo lockiano che si limita a isolare ogni generale, ogni elemento semplicemente comune a una serie o classe di oggetti mediante una comparazione o un conguaglio tra di essi, bensì è una gè-neralizzazione che si compie analizzando e mettendo in luce al tempo stesso proprio l'elemento materiale, proprio cioè il fattore individuante e discriminante per eccellenza: nel nostro caso, i rapporti materiali di produzione. Esclusivamente a questo modo si spiega l'apparente paradosso per cui Lenin può affermare che

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solo partendo dai rapporti materiali (che sono i rapporti individuanti per eccellenza) si possono compiere generalizzazioni e quindi rilevare la reiterabilità e la regolarità dei fenomeni sociali; e, inversamente, che proprio questa generalizzazione permette di passare all'analisi, all:'individuazione dell'oggetto. Ciò è possibile appunto, in quanto il tratto che accomuna tutti i paesi capitalistici distinguendoli dalle società ad altro regime, è al tempo stesso proprio l'elemento specifico e essenziale a ciascuno di essi, ossia l'elemento che individua ognuno di questi singoli paesi come capitalista. Altrimenti, se l'esclusione di ciò che distingue un paese capitalistico dall'altro non rappresentasse proprio l'esclusione dei suoi tratti generici, ma di quelli specifici, la generalità comune a tutti i paesi capitalistici non rifletterebbe alcuna situazione di fatto né permetterebbe, quindi, l'analisi di nessuna società capitalistica in particolare. Le leggi del processo produttivo borghese di cui parla il Capitale opererebbero, in questo caso, nel vuoto, anziché nel pieno della realtà: sarebbero, insomma, leggi e astrazioni metafisiche.

Ma, se proprio per questa reciproca funzionalità di ragione e materia si spiega come siano appunto dei fattori materiali che consentono la generalizzazione e, viceversa, come sia proprio una idea, un'ipotesi, che, guidando l'analisi, ci riporta in presenza dell'oggettività (onde ■— come osservava già Engels — la legge, il concetto scientifico è « assai più concreto di ogni singolo esempio ' concreto ' »), è evidente allora che generalizzazioni scientifiche e oggetto reale dell'analisi si trovano nel Capitale in un duplice rapporto di unità-distinzione. E, precisamente, per un verso in un rapporto tale che le generalizzazioni hanno per contenuto i fenomeni oggettivi stessi di cui consta la realtà capitalistica: onde, come esse sono astrazioni determinate, concetti empirici, così viceversa questi fenomeni compaiono qui come regolari, reiterabili, tipici, cioè realizzanti al massimo l'ideale di semplificazione scientifica. E, per un altro, in un rapporto tale, invece, che come quelle astrazioni, pur essendo determinate, restano sempre astrazioni e quindi generalità, semplici ipotesi da verificare, così inversamente quei fenomeni, anche se tipici, rimangono sempre fenomeni e, quindi, dati di fatto oggettivi, esterni alla trattazione del Capitale.

Il che vuol dire, tra l'altro, che il discorso storico-scientifico del Capitale risulta dalla convergenza di due fondamentali condizioni storiche: 1) l'esistenza di tutt'una serie di ricerche e

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approfondimenti teorici da W. Petty a Ricardo, tendenti a pa-droneggiare teoricamente il processo di produzione capitalistico. Ricerche in cui, specie dopo Ricardo, emergono le aporie e le contraddizioni conseguenti all'uso di metodi non scientifici e, quindi, più viva diviene l'istanza di una generalizzazione capace di spiegare questo particolare processo produttivo: l'istanza, insomma, di una astrazione determinata o storica. E 2) il prodursi di una situazione oggettiva tale da realizzare al massimo quelle condizioni " modello " indispensabili per istituire un esperimento; situazione che cadde, appunto, in « quel ' tempo ' unico nella storia del mondo in cui una mirabile composizione di forze ha convertito il vasto teatro dello sviluppo industriale inglese in un gabinetto scientifico nel quale uno scienziato sommamente geniale ha potuto intuire e teorizzare — attraverso un minimo di perturbazioni -— proprio come i ricercatori delle ' scienze esatte ' sperimentano nei loro laboratori » 6. Situazione-modello che per quanto riguarda — invece — lo sviluppo delle istituzioni politiche borghesi e i modi in cui si articola a questo livello la lotta delle classi, Marx trovò — com'è noto — nella società francese, dove lo Stato rappresentativo moderno, il centralismo burocratico e, insomma, tutti i sovvertimenti politici di una società classista borghese produssero quella loro fenomenologia esemplare e " classica " di cui egli fornì non solo la descrizione ma l'analisi storico-sociologica in scritti come he lotte di classe in Francia ecc. Opere che diciamo sociologiche non per incontinenza verbale ma avendo riguardo al soggetto storico loro, che non è più l'Idea, lo spirito del mondo, il soggetto trascendentale,

6 Cfr. G. PIETRANERA, La struttura logica del « Capitale », parte II, p. 686 in « Società », agosto 1956. Studio di grande importanza per le considerazioni che svolge circa i rapporti tra il I e il III libro del Capitale e, in particolare, circa il carattere storico che ha la stessa assunzione marxiana dell'« uguale composizione organica del capitale in tutti i rami di produzione »: che è, com'è noto, la condizione per la validità della teoria del valore-lavoro, e che viene ancora oggi considerata (a volte da Dobb stesso) come un'astrazione di tipo ricardiano.

Per il giudizio circa le condizioni-modello offerte dallo sviluppo indu-striale inglese, è da ricordare anzitutto quanto dice Marx nella Prefazione alla prima edizione del Capitale: « Il fisico osserva i processi naturali nel luogo dove essi si presentano nella forma più definita e meno offuscata da influssi perturbatori, oppure, quando è possibile, fa esperimenti in condizioni tali da garantire lo svolgersi del processo allo stato puro. In quest'opera debbo indagare il modo capitalistico di produzione e i rapporti di produzione e di scambio che gli corrispondono. Fino a questo momento, loro sede classica è l'Inghilterra. Per questa ragione è l'Inghilterra principalmente che serve a illustrare lo svolgimento della teoria ».

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e ancor meno l'individuo atomistico della concezione liberale crociana, bensì un insieme di specie o formazioni empiriche come sono appunto le classi sociali; specie, che vengono qui analizzate proprio alla luce di concetti empirici o scientifici, e cioè proprio di quegli... " pseudoconcetti " tanto aborriti dallo storicismo idealistico e teologizzante.

Ma, se per il rapporto di unità-distinzione in cui ragione e materia vengono a trovarsi entro il concetto di formazione capitalistica (così come, del resto, in ogni altra astrazione determinata), non ci appare concepibile un corso storico-naturale oggettivo che non si traduca per noi in nessi razionali o concettuali e, quindi, in leggi, né un concetto che non si presenti, a sua volta, come una razionalità empirica o del fatto, e perciò come una legge la cui congruenza colla natura è costantemente da verificare e controllare con l'esperimento e con la pratica: è chiaro come la verifica del Capitale (al pari, s'intende, di ogni altra opera scientifica) debba essere una-duplice. E, precisamente: 1) una verifica, che possiamo chiamare interna, con cui si accerta se il tessuto di concetti che l'opera ci presenta è tale da manifestare l'oggetto, da ricostruirlo cioè nelle sue articolazioni fondamentali e, quindi, da riprodurlo e spiegarlo. Che è ciò a cui pensa Lenin quando afferma che « dal momento della comparsa del Capitale, la concezione materialistica della storia, non è più un'ipotesi ma una tesi scientificamente dimostrata », almeno « finché non avremo un altro tentativo di spiegare scientificamente il funzionamento e lo sviluppo di qualche formazione sociale, finché non avremo un altro tentativo che riesca a ordinare i ' fatti corrispondenti ' esattamente come ha saputo fare il materialismo, che riesca a dare un quadro vivo di una data formazione, unito ad una spiegazione rigorosamente scientifica di essa ». E 2) una verifica conclusiva, che possiamo dire esterna, in cui la vera conferma al Capitale viene apportata invece dallo sviluppo storico successivo: verifica a cui si riferisce Lenin quando afferma che è « il criterio della pratica — cioè lo sviluppo di tutti i paesi capitalistici in questi ultimi decenni — che dimostra la verità obiettiva di tutta la teoria economica e sociale di Marx in generale ».

Di tutta la teoria, — si noti; il che vuol dire che intessuta e contesta di ipotesi verificate e, quindi, di leggi continuamente da controllare e da " aggiustare " alla luce dell'esperienza storico-reale, è non già questa o quella parte ma l'opera intera di Marx.

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Opera, che è sorta sulla base di condizioni storiche assai precise e che, fin nelle sue formulazioni apparentemente più " generali ", ci si configura quindi come un grandioso tentativo di risposta e di soluzione a tutta la problematica pratico-ideale scatenata dallo sviluppo della società capitalistica moderna, E, proprio dall'analisi di queste condizioni, Marx trasse la propria ipotesi o, com'egli disse, quel " filo conduttore " che gli prospettò fin dal '43-'44 la possibilità di superare la tradizionale separazione tra il rapporto uomo-natura da un lato e il rapporto dell'uomo con l'uomo dall'altro, ovvero tra produzione e distribuzione, tra economia e politica, tra natura e storia. Espresso nei Manoscritti del '44 con l'affermazione che « il rapporto dell'uomo alla natura è immediatamente il suo rapporto all'altro uomo » e viceversa, e che, « come la natura esiste per l'uomo come legame con l'altro », così « la società è l'unità essenziale dell'uomo con la natura »: questo " filo conduttore ", quest'ipotesi « enunciata nel decennio 1840-1850 » viene richiamata ancora nella Prefazione al Capitale (quando cioè — per dirla con Lenin — Marx «intraprende lo studio concreto del materiale ») con queste parole: « il mio modo di vedere sta nel concepire l'evoluzione della formazione economica della società come un processo storico naturale » e cioè, ancora una volta, come unità di storia e natura. A questo modo, il mondo " morale ", il mondo della storia, ultima provincia della metafisica, si è trasformato per la prima volta con Marx in scienza. « Laddove la speculazione cessa, nella vita reale, comincia la scienza reale, positiva, la rappresentazione dell'attività pratica, del processo pratico di sviluppo degli uomini. Le frasi sulla coscienza cessano e al loro posto deve subentrare un sapere reale. Con la rappresentazione della realtà la filosofia autonoma perde il suo medium d'esistenza. »

Una, l'unica concezione scientifica della storia, dunque — questo è il materialismo storico, il marxismo: il costituirsi per la prima volta a scienza del mondo " morale ", ovvero l'estendersi del dominio della scienza dalla natura alla storia, e, quindi, l'innalzarsi per la prima volta della scienza a unico e totale sapere dell'uomo. Come Lenin ripeterà alcuni anni più tardi, « Marx, approfondendo e sviluppando il materialismo filosofico, lo spinse alle ultime conseguenze e lo estese dalla conoscenza della natura alla conoscenza della società umana. Il materialismo storico di Marx fu una delle più grandi conquiste del pensiero scientifico ».

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In altre parole, « tutto si riduce a una concezione positiva del presente e della sua evoluzione necessaria »; a una concezione in cui alla vecchia dialettica hegeliana, « alle triadi, non resta altra funzione che quella del coperchio e della pelle (' mi misi a civettare con le espressioni proprie a Hegel ', dice Marx), che può interessare soltanto dei filistei ». « Ciò che Marx ed Engels chiamavano metodo dialettico — in contrapposto al metodo metafisico — non è null'altro, Lenin conclude, che il metodo scientifico in sociologia, consistente nel considerare la società come un organismo vivente, in continuo sviluppo [...], per lo studio del quale è necessaria l'analisi obiettiva dei rapporti di produzione che costituiscono una data formazione sociale e la ricerca delle leggi del suo funzionamento e del suo sviluppo. »

Questa è, anche, l'atmosfera di pensiero che ritroviamo in Materialismo ed empiriocriticismo. Opera ben più complessa di quanto possa sembrare a prima vista, e il cui contenuto si compendia nella riaffermazione di quel principio di gnoseologia materialistica, già da noi più volte ricordato, che è Vunità-distinzione di pensiero ed essere. Unità: il che significa — sappiamo — conoscibilità del mondo da parte del pensiero: quindi, superamento dell'agnosticismo, negazione della " cosa in sé " come realtà inconoscibile per principio. E, d'altra parte, distinzione, in quanto se la nostra conoscenza penetra la realtà, è anche vero però che ricerca scientifica e sapere effettivo in tanto possono darsi in quanto abbiano a contenuto una realtà oggettiva a noi esterna e, quindi, inesauribile da parte del pensiero. Donde le due grandi tesi centrali di Materialismo ed empiriocriticismo: 1) l'oggettività del mondo, 2) il carattere sempre approssimato della nostra conoscenza, che deve essere perciò continuamente controllata dalla pratica e dall'esperimento; tesi, che l'opera sviluppa con la chiara coscienza di metodo che solo per esse è possibile istituire un processo d'indagine scientifica e che ad esse perciò deve e non può non richiamarsi, consapevolmente o meno, ogni scienziato, non appena intraprenda una ricerca effettiva.

Il materialismo, l'ipotesi della materia, in altri termini, è con-dizione e premessa indispensabile per fare scienza, per passare cioè a quello studio di fatti determinati, che ammettono una verifica, in cui consiste ogni sapere reale, e per sfuggire quindi a quelle conseguenze viziose in cui incorre, invece, la metafisica con la sua negazione aprioristica della positività del reale. Di qui la costruzione particolare di Materialismo ed empiriocriticismo.

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Il suo carattere polemico-negativo è espressione non solo o non tanto di intransigenza ideologica, ma di un'istanza di metodo profonda, per la quale l'impossibilità di prescindere dalla materia viene ricavata e indotta negativamente, proprio cioè dalla constatazione che, al di là di tutti gli artifici formali e verbali, l'empiriocriticismo non può evitare le insufficienze e le contraddizioni tipiche dell'idealismo. Ma di qui anche quella fondamentale conclusione dell'opera — ancora da meditare per gran parte del marxismo contemporaneo — che è la distinzione tra il concetto filosofico o gnoseologico e il concetto scientifico di materia; distinzione in cui converge e si chiarisce tutta la vexata quaestio del rapporto tra marxismo e scienze della natura. Nel senso che, alla luce di essa, Lenin riconosce bensì che, in quanto metodologia, il marxismo apporta al ricercatore una più precisa coscienza di quel metodo dialettico sperimentale che egli segue per lo più inconsapevolmente (« lo scienziato — dice Lenin — fa della dia-lettica senza saperlo »); riconosce, quindi, che il marxismo è di-rettamente interessato a tutta la problematica gnoseologica che gravita intorno alla ricerca scientifica: per es., che esso è interessato a combattere quelle tipiche extrapolazioni concettuali per cui la scomparsa, al livello della fisica moderna, di certe proprietà della materia che prima ci sembravano assolute, diviene pretesto nelle mani del filosofo borghese per conclusioni di ordine gnoseologico e metafisico, del tipo: " la materia è scomparsa ". Solo che, proprio in quanto ad es. « la differenza tra le due scuole della fisica contemporanea è soltanto filosofica, soltanto gnoseologica », il marxismo — a meno che non voglia ricadere al livello del materialismo metafisico — deve tener ben presente, dice Lenin, che « Yunica proprietà della materia il cui riconoscimento è alla base del materialismo filosofico è la proprietà di essere una realtà obiettiva, di esistere fuori della nostra coscienza », ovvero che « in gnoseologia il concetto di materia non ha nessun altro significato all'infuori di questo: realtà obiettiva esistente indipendentemente dalla coscienza umana e rispecchiata da essa ». Per il resto — oltre a questo riconoscimento della realtà obiettiva che è di ordine gnoseologico e che è già implicito, del resto, nella ricerca concreta dello scienziato — il marxismo non ha assolutamente, dice Lenin, alcuna condizione da porre allo sperimentatore. Esso infatti — non essendo una filosofia della natura — non ha nulla da dire circa la struttura e le proprietà del mondo esterno, ma lascia che sia compito esclusivamente della scienza indagarle e scoprirle.

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In base a questo riconoscimento, si spiega non solo come Lenin possa respingere di fatto la pretesa engelsiana di un marxismo che generalizzi i risultati della scienza mutando faccia ad ogni nuova scoperta nel campo dell'indagine naturalistica e, quindi, come i capitoli di Materialismo ed empiriocriticismo siano dedicati e intitolati alla teoria della conoscenza, anziché a quelle ge-neralizzazioni metafisiche da cui è invece afflitta, almeno per i nove decimi, la Dialettica della natura; ma si spiega e si comprende anche come si debba qualificare per quello che è, e dunque non solo come una metafisica ma come una metafisica volgare, il tentativo di costruire una biologia o una genetica marxista. Il che significa che non confuteremo, però, le " teorie " biologiche di Lysenko e della Lepescinskaja partendo « dalla stessa piattaforma ideologica dalla quale dicono di partire Lysenko e gli altri, e cioè dal materialismo dialettico », come pure ha fatto un valente scienziato marxista italiano, perché da Marx non si deduce né una biologia seria né una artefatta e falsificata. Ma che le confuteremo, invece, con l'argomento ben più decisivo che adduce lo scienziato (poco importa, in questo caso, se non marxista) e cioè con « la dimostrazione della insostenibilità degli esperimenti concreti » 7.

Materialismo ed empiriocriticismo, dunque, non come gene-ralizzazione dei risultati della ricerca scientifica del tempo, ma come opera di teoria materialistica della conoscenza, epperò passaggio obbligato per il marxismo contemporaneo; anche se è giusto riconoscere, poi, che Lenin non riesce ad articolare tutti i nessi di questa teoria della conoscenza né riesce a sviluppare fino in fondo, insieme a quella della materia, l'istanza complementare e insopprimibile della ragione. L'opera, in altri termini, ci dà, sì, un momento fondamentale: quello dell'oggettività della materia; ma un momento che da solo è insufficiente o, per meglio dire, ancora generico. Manca ad essa, insomma, una vera e propria teoria del concetto e della legge scientifica; e ciò ha per conseguenza non solo che la gnoseologia marxista qui appaia in qualche modo " semplificata ", come risulta per es. già dal fatto che la trattazione di Lenin procede spesso ad un livello in cui Feuerbach e Dietzgen possono tenere il passo di Marx e di Engels; ma anche che la polemica contro l'empiriocriticismo non sia comple-

7 Cfr. La situazione nelle scienze biologiche, lettere di Montalenti e Aloisi in « Società », giugno 1955.

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tamente esauriente. Infatti, proprio in quanto Lenin -(o non vede fino in fondo) la reciproca funzionalità di 1^ e materia, egli non riesce a cogliere pienamente neppure la mediazione tra scienza e società; non riesce cioè ad afferrare che, come il mio sapere può essere universalmente valido, tale ossia da aprirmi alla comunicazione con gli altri e da inserirmi nella vita associata, solo per l'oggettività dei suoi contenuti, così, all'inverso, l'oggettività del mio sapere può essere verificata solo per e nella società, solo cioè in rapporto agli altri uomini.

Ciò non vuol dire, evidentemente, che si debba " integrare " il marxismo con la tesi empiriocriticista secondo la quale l'oggettività dell'esperienza si riduce tout court alla " concordanza sociale dell'esperienza di diversi uomini. " Ma, al contrario, che si tratta di condurre fino in fondo la critica al machismo e al pragmatismo, mostrando come la stessa " concordanza sociale " sia funzione dell'oggettività naturale, ovvero come quegli stessi rapporti intersoggettivi, a cui si appellano ancora oggi i cosiddetti " filosofi della prassi ", siano non già un'alternativa al materialismo, bensì qualcosa che è seriamente concepibile solo alla luce di esso, e, quindi, solo alla luce della tesi di Marx che il rapporto sociale è immediatamente rapporto con la natura e viceversa.

Per questa insufficienza di Materialismo ed empiriocriticismo, tuttavia, si spiega non solo come sia rimasto in genere scarsamente sviluppato, almeno al livello della logica, quell'aspetto fondamentale del pensiero di Marx che si esprime nell'affermazione che « il rapporto sociale è il principio della teoria » e, quindi, come sia rimasta scarsamente sviluppata quella tesi della socialità e storicità della scienza che è, invece, sia pure con alcune contaminazioni empiriocriticiste, al centro del pensiero di Gramsci; ma anche come questa " semplificazione " della gnoseologia marxista operata da Lenin si configuri già, pur con i suoi alti meriti, come parte e momento di quel più vasto processo onde la grande sintesi teorica di Marx ci appare oggi soggetta a una progressiva " riduzione " o decomposizione nei suoi ingredienti più elementari, e cioè nel materialismo metafisico da un lato, nella dialettica hegeliana dall'altro.

Questo giudizio esce a nostro avviso confermato, almeno in parte, anche dall'esame e dallo studio dei Quaderni filosofici e cioè di quella raccolta di excerpta con commenti, riguardanti nella maggior parte l'opera di Hegel, che Lenin trasse negli anni in-

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torno al 1915 dalla lettura della Logica, dell'Enciclopedia, delle Lezioni sulla storia della filosofia ecc., oltreché dallo studio della Metafisica di Aristotele, di alcuni scritti di Feuerbach e di varie altre opere. Lo sviluppo che ha avuto finora il nostro discorso, rende superfluo un commento analitico dei documenti raccolti nei Quaderni, anche perché la maggior parte delle questioni che vi si affrontano sono già state da noi trattate a lungo. Qui giova però osservare che lo stesso criterio generale cui si ispira Lenin nella sua lettura di Hegel e che egli riassume in questi termini: « mi sforzo di leggere Hegel materialistica-mente; Hegel è il materialismo messo con la testa all'ingiù (secondo Engels), vale a dire: elimino in gran parte il buon Dio, l'assoluto, l'Idea pura ecc. »8 — non può non lasciare alquanto perplessi. Infatti, mentre per un verso tale criterio induce Lenin a una lettura che spesso è solo di tipo " radicale ", cioè portata a sottolineare l'antitesi ateismo-religione, per un altro esso gli impedisce di vedere bene come teologia e idealismo, lungi dal costituire dei semplici incidenti nella carriera filosofica di Hegel, siano invece degli ingredienti che entrano a strutturarne direttamente la dialettica. Dio, l'assoluto ecc., eliminati e messi da parte dove si presentano ex professo come tali, non vengono più identificati da Lenin là dove sono effettivamente operanti: cioè nella concezione negativa del sensibile, nella teoria della mediazione, nella concezione della dialettica come dialettica di puri concetti o semplicemente " razionale ".

Insomma, come già nel caso di Engels, anche Lenin non riesce a vedere (se non a tratti) che il passaggio da Hegel a Marx non può consistere in un semplice raddrizzamento o capovolgimento meccanico della dialettica idealistica, quasi che si trattasse di " applicare " questa dialettica alle cose e alla materia lasciandola per il resto nella forma datale da Hegel; con la conseguenza che, anche nel suo caso, la materia finisce per aggiungersi alla dialettica come un elemento estrinseco, senza che si veda cioè come essa entri in concreto a costituire e formare il nuovo metodo. Accade così che egli scambi per oggettività l'ipostasi del concetto; per concretezza quella che è solo " incarnazione " o veste essoterica dell'Idea; e che, salvo rarissime riserve, finisca addirittura per sottoscrivere in pieno tutta la polemica di

8 V. I. LENIN, Quaderni filosofici, Milano 1958, p. 92.

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Hegel contro Kant, senza sospettare mai come il superamento della " cosa in sé " abbia il suo rovescio in una identificazione acritica e immediata del reale con l'Idea, dell'essere col pensiero. Kant, del quale pure in un importante capitolo di Materialismo ed empiriocriticismo Lenin era arrivato a vedere sulla traccia di Feuerbach l'aspetto ancora vitale, l'aspetto critico e materialistico, viene in tal modo considerato solo attraverso la lente deformante della logica e della dialettica hegeliana. Si vede, cioè, solo il Kant del noumeno, dell'agnosticismo, del fenomenismo ecc., ma senza che se ne colga mai, d'altra parte, l'istanza profonda di una concezione positiva del sensibile, di una distinzione reale e non formale tra essere e pensiero. In altre parole, spinto dall'interesse che è al centro della sua lettura, vale a dire dal problema del divenire, dal problema del movimento, Lenin si allinea nella sostanza alla logica hegeliana, senza comprendere che — quando sia fatta valere unilateralmente — la " fluidità " dei concetti, la coincidenza degli opposti, non garantisce alcuna reale mobilità, proprio in quanto la tesi che una cosa è e non è nello stesso tempo e sotto lo stesso riguardo, è un risultato a cui Hegel può giungere solo prescindendo dalla materia, dalle determinazioni reali, solo costruendo cioè una dialettica che è fuori dello spazio e del tempo.

Le considerazioni già svolte sul problema del movimento e, in genere, tutta l'analisi di Marx circa la mobilità mistificata a cui mette capo la dialettica di Hegel, rendono superfluo un ulteriore indugio sulla questione; qui dobbiamo notare però che la carica irrazionalistica di questa dialettica è tale che essa riesce in qualche punto a imporre i suoi diritti anche a un pensatore materialista della statura di Lenin, piegandone il discorso ad accenti che suonano talvolta persino bergsoniani. Questo accade, ad es., quando — trascritto un passo in cui Hegel afferma che « ciò che crea la difficoltà è sempre il pensiero, poiché esso tien separati l'uno dall'altro, nella loro differenza, i momenti di un oggetto, che nella realtà sono collegati » — Lenin fa seguire, a commento, l'affermazione che « noi non possiamo rappresentarci il movimento, non possiamo esprimerlo, misurarlo, riprodurlo, senza interrompere la continuità, senza semplificarla, alterarla, sminuzzarla, senza uccidere il vivente »; per concludere, infine, che « la riproduzione del movimento ad opera del pensiero è sempre una adulterazione, un'uccisione, e invero non solo ad opera del pen-

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siero, ma anche della sensazione, e non solo del movimento ma anche di ogni qualsiasi concetto ». E questo accade ancora, in genere, in tutti quei luoghi in cui il pensiero di Marx viene " reinterpretato " da Lenin in chiave di " filosofia " del divenire e abbassato, quindi, a un vago eraclitismo.

Sottolineati questi elementi a nostro avviso negativi, è doveroso avvertire però che il discorso di Lenin non si riduce ad essi, ma è sempre ricco di spunti e di stimoli teorici di grande importanza nei quali vengono spesso individuati nodi cruciali del pensiero di Hegel. Si avverte, allora, che « la logica di Hegel non si può impiegare », « non la si può prendere così com'è data »; che « si devono sceverare da essa le sfumature logiche (gnoseologiche) dopo che la si è ripulita dalla mìstica delle Idee »; e, soprattutto, che « questo è ancora un grosso lavoro » da fare. Oppure, si sottolineano elementi caratteristici del processo di ipostatizzazione (che in genere, peraltro, qui sfugge a Lenin). Si segnala allora, per es., il fatto che " legge " e " fenomeno " vengono in Hegel sempre a confondersi, onde — egli osserva — non si accenna mai al carattere approssimato della nostra conoscenza; o, come in un passo scritto a commento di Aristotele, si riconosce che tratto fondamentale e originario dell'idealismo è la concezione per cui « l'universale (il concetto, l'Idea) è un ente particolare, a sé»: cosa — aggiunge Lenin — che «sembra essere barbarica, incredibilmente (o meglio: infantilmente) sciocca »; e che tuttavia — egli conclude — ritroviamo nell'idealismo moderno fino a Kant e a Hegel.

Tralasciamo anche tutte le brevi osservazioni, talvolta espresse in forma ironica o addirittura di scherno, e tuttavia rivelatrici, come per es. la risata con cui Lenin commenta l'affermazione di Hegel che « la natura è l'esser immerso del concetto nell'esteriorità »: restano pur sempre alcuni scorci di altissimo livello che bastano da soli a riscattare le parti meno felici dei Quaderni. Esemplare, in questo senso, è il commento al capitolo su Aristotele delle Lezioni sulla Storia della filosofia di Hegel. Qui, infatti, non solo vengono segnalate — come del resto già per il caso di Democrito e altri — le vere e proprie contraffazioni in cui incorre Hegel storico con i suoi apriorismi e con le sue elusioni della filologia determinata dei testi; ma si centra quel fondamentale problema di logica e di storia della filosofia che è la critica aristotelica alla dottrina platonica delle idee. Problema che Lenin individua con

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grande finezza teorica, attirando l'attenzione sia sul fatto che « la critica di Aristotele alle ' Idee ' platoniche è una critica all'idealismo come idealismo in generale: giacché donde provengono i concetti, le astrazioni, di là provengono tanto la ' legge ' che la ' necessità ' ecc. »; sia sul fatto che « l'idealista Hegel ha vilmente aggirato — com'egli dice — quest'affossamento delle basi dell'idealismo ad opera di Aristotele (nella sua critica delle Idee di Platone) ». Che è un aperqu magistrale di storia della filosofia, di cui va il merito a un marxista italiano 9 avere approfondito le implicazioni teoriche, ma di cui merito non meno grande va certo a Lenin per il semplice fatto di averlo avvertito e individuato: merito tanto maggiore, se consideriamo che uno storico del pensiero greco della statura di Stenzel non riesce a ve-dere, invece, l'importanza della critica aristotelica a Platone, non riesce a vedere che il contrasto verte qui su idealismo e materialismo, ma sottoscrive al contrario la contraffazione di Hegel10.

Quanto, tuttavia, il giudizio su Hegel che danno i Quaderni sia lontano dal giudizio che Lenin dava nel 1894 al tempo degli Amici del popolo e degli altri scritti ricordati, — è addirittura superfluo sottolineare. " L'insistenza sulla dialettica ", la " scelta di esempi che dimostrano che la triade è giusta " ecc., che allora apparivano come un semplice residuo nel " modo di esprimersi ", come un' " allusione all'origine della dottrina e niente più ", a distanza di venticinque anni son divenuti per Lenin, se non la sostanza, tratti così congeniti e fondamentali del marxismo che la sua vita si chiude auspicando un rifiorire dello studio di Hegel, la fondazione di circoli dediti allo studio della Grande Logica.

Si obietterà che il Lenin degli Amici del popolo non conosceva bene Hegel, — ed è probabile. Senonché conosceva assai bene il Capitale. Come spiegare allora che ciò che a un'analisi interna di quest'opera sembrava accessorio nel '94, nel '98, negli anni cioè in cui Lenin dà i suoi migliori contributi allo studio del Capitale in polemica con Bulgakov, con Tugan-Baranov-skij ecc., divenga invece premessa indispensabile per la comprensione nel '15? Il problema che qui si prospetta è ancora da analizzare; e, se richiamiamo alla mente taluni aspetti ancora più dichiaratamente hegeliani del pensiero di Engels, esso si allarga

9 Cfr. G. DELLA VOLPE, Logica cit., pp. 85-113. 10 J. STENZEL, Hegels Auffassung der griechischen Philosopbie in

Hegelkongress, II, Tiibingen 1932, p. 176.

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fino a prospettare due diverse " vocazioni " che si affrontano ancora oggi nel cuore stesso del marxismo. Spiegare come e perché queste due " vocazioni " si siano storicamente congiunte e sovrapposte è un compito di grande lena, ma che sarà comunque da affrontare. Mostrare, invece, come sia da scegliere tra queste, risulta in parte anche dalla presente ricerca.

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PARTE SECONDA

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I. HEGEL E LA « DIALETTICA DELLA MATERIA »

Il tema centrale del pensiero di Hegel è nella tesi dell'identità di idealismo e filosofia. « Ogni filosofia — dice la Logica 1 — è essenzialmente idealismo, o per lo meno ha l'idealismo per suo principio, e la questione non è allora se non di sapere fino a che punto codesto principio vi si trovi effettivamente realizzato. » Che cosa si debba intendere poi per idealismo, Hegel lo spiega con grande chiarezza. L'idealismo è il punto di vista che nega che le cose e il mondo finito abbiano vera realtà. « L'idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere » (I, 169). L'idealismo attribuisce l'essere all'infinito, allo Spirito, a Dio. La successiva precisazione, con cui Hegel estende l'identità di filosofia e idealismo a quella di idealismo e religione, idealismo e cristianesimo, è conseguente e non desta sorpresa. « La filosofia è idealismo com'è idealismo la religione. Perché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d'increato, di eterno. L'opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Una filosofia che attribuisse all'esistenza finita, come tale, un vero essere, un essere definitivo, assoluto, non meriterebbe il nome di filosofia » (I, 170).

1 G. W. F. HEGEL, La scienza della logica cit., I, pp. 169-70. Come nella parte prima, le citazioni da quest'opera saranno d'ora in poi indicate, nel corpo del testo, con la cifra romana del volume seguita dal numero della pagina. Per l'Enciclopedia, sempre nella traduzione di B. Croce, Bari 1951, salvo che per le Aggiunte (Zusàlze), daremo tra parentesi il numero del paragrafo anche quando il luogo citato sia mWAmnerkung. Per la Fenomenologia dello spirito, 2 voli., trad. di E. De Negri, Firenze 1933, all'abbreviazione Fen. faremo seguire, egualmente nel corpo del testo, il numero del volume e della pagina. Salvo avvertenza contraria, i corsivi sono sempre dell'autore citato. Per ragioni di omogeneità, in questo come negli altri casi, le opere vengono citate nelle edizioni già utilizzate nella parte prima.

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L'intuizione del mondo che è alla base di queste proposizioni è quella stessa del cristianesimo. Il finito è il limitato, il perituro, il caduco. Il finito " sembra " essere e non è. È parvenza illusoria. Il finito è ciò ch'è destinato a finire: caducità e disvalore. « Quando delle cose diciamo che son finite, con ciò s'intende — scrive Hegel — [...] che la loro natura, il loro essere è costituito dal non essere. Le cose finite sono, [...] ma la verità di questo essere è la loro fine. Il finito non solo si muta, come in generale il qualcosa, ma perisce; e non è già soltanto possibile che perisca, quasi che potesse essere senza perire, ma l'essere delle cose finite, come tale, sta nell'avere per loro essere dentro di sé il germe del perire: l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte » (I, 135-6).

Date queste premesse, il problema che si pone alla filosofia è quello di concepire coerentemente o fino in fondo il " principio dell'idealismo ", l'idea del cristianesimo. Tutte le " vere " filosofie hanno lo stesso principio: si tratta però di vedere "fino a che punto cotesto principio vi si trovi effettivamente realizzato ". « In una nota precedente — insiste Hegel poco oltre — fu assegnato il principio dell'idealismo, e fu detto che in una filosofia si tratta allora più precisamente di vedere fino a che punto un tal principio si trova attuato. Intorno alla maniera di questa attuazione si può [...] fare ancora un'ulteriore osservazione. Una tale attuazione dipende anzitutto da questo, se cioè accanto all'esser per sé non continui ancora a sussistere, come indipendente, l'esistenza finita » (I, 177).

Il problema, quindi, è di concepire coerentemente l'idealismo. Ma non nel senso, si badi, che l'esecuzione di questo compito importi semplicemente uno sviluppo logico coerente, bensì nel senso che questo sviluppo implica, al tempo stesso, anche l'attuazione del principio, la sua realizzazione, cioè la traduzione dell'idealismo in realtà. Se infatti il principio della filosofia è che il finito è non-essere e solo l'infinito è, la filosofia potrà dirsi conseguente nei suoi svolgimenti solo a una condizione: di porre fine al finito e far valere soltanto l'infinito, di annientare il mondo e sostituirgli la " vera " realtà.

La tesi di Hegel, a questo riguardo, è che nessuna filosofia finora è riuscita a risolvere questo problema, a realizzare l'idea del cristianesimo. Il principio dell'idealismo è risultato, ovunque, contraddetto e negato nell'esecuzione. La filosofia sempre incon-gruente con sé. La responsabilità di ciò è fatta risalire da lui

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essenzialmente al metodo. La filosofia ha adottato, dice Hegel, il punto di vista dell'" intelletto ", il principio di non-contraddizione o esclusione reciproca degli opposti. Credendo che il problema dell'" attuazione " si riducesse semplicemente a quello della coerenza " logica ", essa ha abbracciato la " veduta ", la quale suppone « che il finito sia incompatibile e incongiungibile coll'infinito, che il finito sia assolutamente opposto all'infinito » (I, 137). Questa veduta sembra, a prima vista, la più naturale. Essa consente di « mantenere l'infinito puro e lontano dal finito » (I, 146). Sembra quindi il metodo più adatto ad affermare il principio dell'idealismo nella sua incontaminatezza. In realtà, proprio la non-contraddizione, che passa per essere il principio della coerenza assoluta, è nel caso della filosofia — dice Hegel — la fonte dell'incongruenza più radicale.

L' " intelletto " separa e divide, tiene gli opposti l'uno fuori dell'altro, pone da un lato il finito, dall'altro l'infinito. Esso rende rigida la loro separazione, quasi a sottolineare meglio come il primo sia solo disvalore e nullità e come " l'essere, l'assoluto essere " spetti solo all'infinito. Senonché, « posto come tale che non si possa unire coll'infinito, il finito — dice Hegel — rimane assoluto da parte sua ». La possibilità di " passare " nel?" altro " gli è preclusa. La sua caducità non ha sbocco. E, poiché il nonessere del finito è qui inteso come una negazione " fissata in sé ", che " si erge rigida di contro al suo affermativo ", l'intelletto non si avvede di prendere il finito " come imperituro e assoluto ".La caducità delle cose, non potendo perire, diviene " la loro qualità immutabile, non trapassante cioè nel suo altro, non trapassante nel suo affermativo ". E la finità, non finendo mai di finire, "così è eterna" (I, 136-7).

Ciò che ne risulta è l'opposto del programma della filosofia. Il finito, che doveva sparire, persiste. L'infinito, al contrario, che doveva essere l'assoluto o la totalità, si trova ad essere solo " uno dei due ". E, « in quanto è soltanto uno dei due, è esso stesso finito; non è l'intiero, ma soltanto l'un lato; ha il suo termine in quello che gli si contrappone; è così l'Infinito finito. Non si hanno dinanzi che due finiti » (I, 155).

Il metodo dell'" intelletto " — che, garantendo la non-contraddizione, sembrava dovesse garantire con ciò stesso la coerenza perfetta — si dimostra in effetti incapace di esprimere " il concetto fondamentale della filosofia, il vero infinito ", il Logos cristiano. L'intelletto reifica tutto ciò che tocca. Trasforma in

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finito ciò che non è cosa. Non è il principio della filosofia o idealismo ma dell'Unphilosophie. È il punto di vista del materialismo.

Partita dalla premessa che il finito è caducità e disvalore, la filosofia è costretta dall'" intelletto " ad enunciare il contrario di ciò che essa ha in mente. La sua incongruenza non potrebb'essere più palese. « Una volta — dice Hegel — si ammette che il finito non sìa a sé e per sé, che non gli spetti realtà indipendente, non l'essere assoluto; che esso sia solo qualcosa di transitorio: Valira volta, tutto ciò vien dimenticato, e si rappresenta il finito come soltanto posto di fronte all'infinito, affatto separato da questo e sottratto all'annientamento, indipendente e persistente per sé. Il pensiero crede per tal modo di elevarsi all'infinito, e gli accade il contrario: di giungere cioè a un infinito che è solo un finito, e, per contro, il finito, che era stato scacciato, ritenerlo sempre e farne un assoluto » (Enc, § 95).

L'intelletto, in breve, « urta nella difficoltà di compiere il passaggio dal finito all'infinito » (Enc, § 36). Esso produce una opposizione dualistica nella quale l'infinito decade esso stesso a finito. E, poiché considera il passaggio dall'uno all'altro termine come un processo nel corso del quale si astrae o si prescinde dal primo lasciandole però sussistere, l'infinito non riesce a confi-gurarglisi altro che come " il negativo della determinatezza in generale, come il vuoto al di là ": in quanto la sua opposizione al finito viene intesa nel senso che questo valga come il reale e l'infinito, invece, come l'ideale, " o precisamente come un che di soltanto ideale " (I, 163). Il finito sta di qua, l'infinito al di là, l'uno di sotto, l'altro di sopra. Ambedue, dice Hegel, « sono collocati in un diverso luogo, — il finito come l'esistenza da questa nostra parte, l'infinito invece [...] come un al di là in una nebulosa, irraggiungibile distanza, fuor della quale si trova e continua a rimanere quell'altro » (I, 150). La conseguenza ne è che il finito, che doveva essere il caduco e il perituro, resta, cioè diventa una salda realtà che non si lascia liquidare; mentre l'infinito, che doveva risultare " l'assoluto essere ", appare solo un che di astratto o mentale. Il finito, che era dichiarato " non un vero essere ", diventa il reale o positivo; l'infinito, per contro, che doveva essete " l'assolutamente necessario ", cioè il positivo per eccellenza, diventa invece il non-Unito, il negativo, una semplice idealità.

Due errori in una volta dunque: l'infinito come finito, cioè

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Dio come oggetto; e, insieme, Dio separato dal mondo, confinato nell' " al di là ", segregato in una distanza irraggiungibile. I termini del problema che l'idealismo deve risolvere sono tutti qui. La sua attuazione implica l'eliminazione di questi errori. Per concepire coerentemente l'infinito, occorre distruggere il finito, annientare il mondo: l'infinito, infatti, non può avere una realtà accanto a sé che lo limiti. D'altra parte, annullato il finito, soppresso ciò che respinge l'infinito nellW di là facendone un " vuoto ideale " privo di esistenza effettiva, l'infinito può passare dall'ai di là di qua, cioè incarnarsi e prendere veste terrena. La differenza tra la vecchia e la nuova filosofia è la differenza tra la teologia comune e la teologia speculativa, tra il teismo e la filosofia, tra la metafisica precritica e l'idealismo assoluto.

È ciò che Feuerbach ha visto bene. « La teologia speculativa » — è detto all'inizio delle Tesi provvisorie — « si distingue dalla teologia comune per il fatto che quell'essere divino che quest'ultima allontana [...] nell'ai di là, essa lo traspone nell'ai di qua, e lo rende presente, determinato e attuale » 2. « Di quel Dio » — aggiungono i Princìpi — « che per il teismo è soltanto un essere della fantasia, un essere lontano, indeterminato e nebuloso, essa [la teologia speculativa] ha fatto un essere attuale e determinato » \

La differenza tra queste due teologie è la chiave, secondo Feuerbach, per intendere la differenza tra le due metafisiche, cioè tra la metafisica di Hegel e la metafisica prekantiana (soprattutto Cartesio e Leibniz). « Il teista si rappresenta Dio come un essere personale che esiste in generale al di fuori della ragione e al di fuori dell'uomo: egli, in quanto soggetto, pensa Dio come oggetto. Egli pensa Dio come un essere spirituale e non sensibile [...] »; ma, in quanto «la caratteristica essenziale di un'esistenza oggettiva, di un'esistenza posta al di fuori del pensiero e della rappresentazione, è il senso », il teista « distingue Dio da sé nello stesso modo in cui distingue da sé le cose e gli esseri sensibili che esistono fuori di lui: in breve, egli pensa Dio dal punto di vista del senso. Il teologo o filosofo speculativo invece pensa Dio dal punto di vista del pensiero; egli perciò non interpone tra sé e Dio la rappresentazione perturbatrice di un essere sensibile; egli identifica senza alcuna diffi-

3 L. FEUERBACH, Princìpi della filosofia dell'avvenire cit., p. 49. 3 Ivi, p. 77.

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colta l'essere oggettivo pensato con l'essere soggettivo pensante » *. Questo modo di vedere del teismo e della " teologia comune ",

che è assai meno percepibile in Spinoza — " colui che ha veramente fondato la moderna filosofia speculativa ", quella filosofia che ha in Schelling " colui che l'ha restaurata " e in Hegel " colui che l'ha condotta a compimento " 5 —, emerge con particolare evidenza nel caso di Cartesio e di Leibniz. « L'inizio della filosofia cartesiana — scrive Feuerbach — [...] rappresenta l'astrazione dal senso e dalla materia. » Ma « Cartesio e Leibniz considerarono questa astrazione soltanto come una condizione soggettiva per conoscere l'essere immateriale di Dio, si rappresentarono l'immaterialità di Dio come un attributo oggettivo, indipendente dall'astrazione e dal pensiero; essi insomma rimasero ancora fermi al punto di vista del teismo, fecero dell'essere immateriale soltanto un oggetto, ma non un soggetto né un principio attivo [...]. Certamente, anche per Cartesio e Leibniz, Dio è il principio della filosofia, ma soltanto come oggetto distinto dal pensiero, e quindi è un principio soltanto in generale e nella rappresentazione, non di fatto e nella realtà. Dio è soltanto la causa prima e universale della materia, del movimento e dell'azione; ma i movimenti e le azioni particolari, le cose materiali, reali e deter-minate, vengono trattate e conosciute indipendentemente da Dio. Cartesio e Leibniz — conclude Feuerbach ■— sono idealisti soltanto per quel che riguarda l'universale, non altro che materialisti invece nel particolare » \

È l'incongruenza, appunto, che abbiamo visto segnalata da Hegel. La vecchia filosofia è metà idealismo, metà materialismo. È idealismo nella sostanza o nel contenuto — l'infinito, lo Spirito, Dio. Materialismo nella forma o nel metodo. Il principio di identità e di non-contraddizione, che è il principio del " senso comune " e dell'" ordinario intelletto umano ", le impedisce di porre fine al finito e di distruggere il mondo. Di qui, la sua incapacità a concepire coerentemente l'infinito come 1'" intiero " o la " totalità ". Di qui, la sua impotenza ad attuarsi, cioè a far valere Dio come la vera e unica realtà.

Visto il problema, si tratta di considerarne ora la soluzione. La soluzione ha un nome preciso. Il mezzo con cui Hegel rende

4 Ivi, pp. 74-5. 5 Ivi, p. 49. 6 Ivi, p. 79.

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coerente la " filosofia " e realizza l'idealismo assoluto è la dialettica della materia, — la dialettica della materia, proprio nell'accezione del materialismo dialettico di Engels, di Plechanov e Lenin.

Riprendiamo il problema dall'inizio. — Il finito non ha vera realtà. " L'idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere ". Hegel è nella linea della tradizione platonico-cristiana. È in questa linea, ma la sviluppa. Egli non si limita alla semplice negazione del finito: integra questa negazione con una proposizione affermativa, completa cioè la tesi che " il finito non è un vero essere " con quella che " il finito è ideale ". La definizione dell'idealismo che ci dà la Logica comincia proprio così: « La proposizione, che il finito è ideale, costituisce l'idealismo » (I, 169). La definizione è ripetuta anche nell'Enciclopedia: « La verità del finito è la sua idealità [...]. Questa idealità del finito è la proposizione fondamentale della filosofia » (§ 95).

L'innovazione in pratica significa questo, che non si dice più soltanto: il finito non ha vera realtà, non ha un proprio essere; ma si aggiunge: il finito ha come " sua " essenza e fondamento 1' " altro " da sé, cioè l'infinito, l'immateriale, il pensiero. La conseguenza che ne risulta è decisiva. Se infatti il finito ha per essenza 1'" altro " da sé, è chiaro che, per essere veramente — o " essenzialmente " — sé, esso non dovrà essere più sé — cioè il sé che è " in apparenza ": finito — ma 1'" altro ". Il finito " non è " quando è veramente finito; viceversa " è ", quando non è finito ma infinito. " È " quando " non è ", è " sé " quando è 1'" altro ", nasce quando muore. Il finito è dialettico.

Ancora: « quando delle cose diciamo che son finite, con ciò s'intende [...] che la loro natura, il loro essere è costituito dal non essere ». Anche il senso di questa proposizione è ora chiaro. Essa significa che, per riferirsi a sé, le cose non debbono riferirsi a sé ma all'" altro "; ovvero, come spiega Hegel, che « la loro relazione a se stesse è che si riferiscono a se stesse come negative, che appunto in questa relazione a sé si mandano al di là di se stesse, al di là del loro essere » (I, 136) — si mandano dentro al pensiero.

Il meccanismo potrebb'essere naturalmente più semplice. Hegel potrebbe dire che non considera il finito, che lo tralascia, che lo trascende. In realtà egli fa questo, ma denominando il procedimento in un altro modo. Anziché affermare a chiare lettere

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che egli non considera il finito, afferma che considera il finito per ciò che esso non è, o, meglio ancora, afferma che il finito ha per sua " essenza " l'opposto. Il vantaggio che ne risulta è evidente: l'atto con cui egli astrae o prescinde dal finito, Hegel può ora presentarlo come un movimento oggettivo compiuto dal finito stesso per andare al di là di sé e passare così nell'essenza. « È la natura stessa del finito di sorpassarsi, di negare la sua negazione [cioè la sua finità reale o ' parvenza '] per diventare infinito. L'infinito non sta quindi come un che di già per sé dato sopra il finito, cosicché il finito continui a restar fuori o al di sotto di quello. E nemmeno andiamo soltanto noi, come una ragione soggettiva, al di là del finito nell'infinito. Così, quando si dice che l'infinito è il concetto razionale, e che per mezzo della ragione noi ci solleviamo sopra il temporale, viene inteso che questo accada senz'alcun pregiudizio del finito, che non sarebbe toccato da cotesto sollevamento a lui estrinseco. Ma in quanto è il finito stesso che vien sollevato nell'infinito, non è nemmeno una potenza straniera che opera questo in lui, ma è appunto la natura sua, di riferirsi a sé come limite [...], e di sorpassarlo, o anzi di averlo negato [...] e di essere al di là di esso » (I, 147). Se pertanto il finito si rivela " dialettico ", tale cioè che " si distrugge in sé ", che è " la contraddizione di sé in sé " e, quindi, " si toglie via, perisce " (I, 145), ciò non accade, dice Hegel, ad opera di una potenza estranea (come la nostra astrazione soggettiva), ma perché il finito ha come essenza e base 1'" altro ", e il suo essere " in sé " è quindi, immediatamente, un passare in quello. Il finito insomma è soltanto questo, di diventare infinito esso stesso per sua natura. « L'infinità è la sua destinazione affermativa, quello che esso è veramente in sé. Così il finito è scomparso nell'infinito, e quello che è, è soltanto l'infinito » (I, H7)._

Il finito " vero ", quindi, non è il finito che è fuori dell'infinito, ma il finito interno ad esso, il finito così com'è nell'Idea. " Reali " non sono le cose esterne al pensiero, ma le cose " pensate ", cioè le cose che non sono più cose ma semplici " oggetti logici " o momenti ideali. La negazione, 1'" annientamento " della materia è proprio in questo passaggio da " fuori " a " dentro ". Come si ammette, scrive Hegel, che il finito, « posto tutt'uno con l'infinito, non potrebbe certamente restare ciò che era fuori di questa unità, e dovrebbe perdere almeno qualcosa della sua determinazione » (Enc, § 95), così è « anche comunemente am-

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messo che, in quanto il pensiero si appropria un oggetto dato, questo subisca con ciò un mutamento e di oggetto sensibile che era venga ridotto ad essere un oggetto pensato »: l'importante è capire soltanto che « questo mutamento però non solo non altera nulla nell'essenzialità sua, ma che anzi l'oggetto solo nel suo concetto è nella sua verità, mentre nell'immediatezza in cui è dato è soltanto fenomeno e accidentalità » (III, 28). E Hegel prosegue: « Il concepire un oggetto non consiste infatti in altro, se non in ciò che l'Io se lo appropria, lo penetra e lo porta nella sua propria forma, vale a dire nell'universalità [...]. Nell'intuizione, o anche nella rappresentazione, l'oggetto è ancora un che di esteriore, di straniero. Mediante il concepire, quell'essere in sé e per sé, che l'oggetto ha nell'intuire e nel rappresentarsi, vien trasformato in un esser posto; l'Io penetra l'oggetto pensandolo. Ma come l'oggetto è nel pensare, soltanto così esso è in sé e per sé; com'è nell'intuizione o nella rappresentazione, l'oggetto è apparenza o fenomeno » (III, 20).

La tesi, in breve, è che « la materia non abbia verità cosi come apparisce fuori e prima del concetto, ma l'abbia soltanto nella sua idealità o nella sua identità col concetto » (III, 29). Pertanto, come e anzi assai più che nella vecchia metafisica, anche qui il finito è escluso o negato; ma con la differenza che — poiché si è stabilito che « solo nel suo concetto qualcosa ha realtà e in quanto è diverso dal suo concetto, cessa di esser reale ed è un che di nullo » — Hegel può ora dare all'esclusione ch'egli compie della materia la forma di un'inclusione o di una sua affermazione positiva. La materia non è negata: è affermata per ciò che essa non è. Hegel, quindi, non la esclude ma la include. Ma, poiché « nello spirito [...] il contenuto non è come una cosiddetta esistenza reale » e, anzi, « nella semplicità dell'Io un tale esterno essere è soltanto tolto, è per me, è idealmente in me» (I, 171), è chiaro anche che quest'affermazione è in effetti una negazione; ovvero che, dichiarando " essenziale " solo la materia com'è nel pensiero, è con ciò stesso escluso che essa abbia realtà così com'è fuori e prima del concetto. L'elemento di continuità rispetto alla tradizione platonico-cristiana è in questa concezione negativa del sensibile. L'elemento invece di sviluppo — lo vedremo meglio più avanti — è nel superamento dell'eleatismo cristiano, cioè nel fatto che l'infinito o lo Spirito non è più concepito come un " essere " e, perciò, come una sostanza unilaterale che abbia il negativo fuori di sé, ma è con-

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cepito come ragione, cioè come unità o compresenza logica degli opposti (" medesimezza " e " alterità ", infinito e finito «^/'infinito) e, quindi, come tautoeterologia o dialettica.

Il finito ha per sua essenza e fondamento 1'" altro " da sé. Il finito, quindi, è sé e il negativo (l'opposto) di se stesso a un tempo, è la contraddizione di sé in sé, si toglie via, perisce: ciò che vuol dire che — per essere " veramente " sé — il finito non deve essere sé ma l'altro, deve negarsi come finito esterno all'infinito e passare nell'opposto, diventare cioè " finito ideale ", momento interno all'Idea. D'altra parte, negato nella sua " fittizia " indipendenza, riconosciuto che il finito non ha l'essere in sé, che esso è solo " parvenza ", e che la " sua " essenza è al di là di lui, il finito diventa appunto la parvenza o l'apparizione di quell'essenza, Val di qua di quell'ai di là, diventa cioè il positivo attraverso il quale l'assoluto si espone, cioè si incarna e prende veste terrena.

Il reale diventa ideale, l'ideale reale. Il concreto si fa astratto, l'astratto concreto. E, come « le singole cose sensibili sono idealmente nel principio, nel concetto, e più ancora nello spirito, ossia vi sono come tolte », non cioè come determinazioni reali ma come determinazioni dell'Idea; così questo negarsi del mondo, questo suo idealizzarsi, conta viceversa per un realizzarsi dell'Idea o infinito, del quale ora Hegel dice appunto che « è ed è determinatamente, c'è, è presente» (I, 161) e che esso «è la realtà in un senso più elevato, che non quella che dapprima si era determinata qual semplice realtà » (I, 162).

In quanto dialettico, il finito si nega, si toglie, scompare: cioè, se si vuol considerare il finito, non bisogna considerare il finito ma l'infinito; per prendere l'essere, occorre prendere il pensiero, l'Idea; non c'è la cosa, c'è la ragione; non c'è la determinatezza esclusiva (dell'opposto), il " questo ", ma l'inclusione razionale, il " tanto questo quanto quello ", cioè l'unità di " medesimezza " e " alterità ", di " essere " e " non essere ", di finito e infinito nell'infinito. D'altra parte, come l'essere è immediatamente pensiero, così il pensiero, a sua volta, immediatamente è; come la cosa è ragione, la ragione è cosa; come il finito è una parvenza che ha la sua essenza al di là di sé, così quel-l'essenza, che è l'assoluto, ha nel positivo o finito il suo apparire. « La parvenza — dice Hegel — non è il nulla, ma è riflessione, riferimento all'assoluto, ossia è parvenza in quanto appare in lei l'assoluto. Questa esposizione positiva trattiene così ancora il

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finito dal suo sparire, e lo considera come una espressione e un'immagine dell'assoluto. Ma la trasparenza del finito, il quale non lascia intravvedere attraverso a sé altro che l'assoluto, termina in un completo sparire; poiché non v'è nulla nel finito che gli possa mantenere una differenza di fronte all'assoluto; il finito è un mezzo che viene assorbito da quello che appare attraverso a lui. » E Hegel conclude: « Questa esposizione positiva dell'assoluto non è quindi essa stessa altro che un parere; perché il vero positivo, quello che essa e il contenuto esposto racchiudono, è l'assoluto stesso» (II, 190-191).

Il mondo è scomparso. Ciò che sembrava finito, in realtà è infinito. Un mondo materiale indipendente non c'è più. D'altra parte, in quanto il finito è trattenuto nel suo sparire, esso è restaurato come " altro " da sé. Non è il finito ma è l'esposizione positiva dell'Assoluto. Non è, non significa " questo " oggetto determinato — pane e vino, ad esempio — ma significa lo Spirito. Hier werden Wein und Brot mysfische Objekte \ Pane e vino diventano qui oggetti mistici. « Lo Spirito di Gesù, nel quale i suoi discepoli son Uno, è, per il sentimento esterno, presente come oggetto, è diventato un reale » 8. Ma questo reale è solo die objektiv gemachte Liebe, dies zur Sache gewordene Subjektive. « Nel banchetto d'amore, il corporeo scompare ed è presente solo sensazione di vita » *.

In un certo senso, come dice Marx, tutto « è lasciato tale qual è, ma riceve a un tempo il significato di una determinazione dell'idea » 10. Un mondo c'era prima, un mondo c'è dopo... Solo che V" ostia " non è più acqua e farina. Il " principio " dell'idealismo è stato attuato. Al mondo annientato si è sostituita la " vera " realtà. Non è però avvenuta la Rivoluzione ma soltanto la Transustanziazione. « La realtà empirica apparirà, dunque, tale quale è: essa è anche enunciata come razionale, ma non è razionale per sua propria razionalità, bensì perché il fatto empirico ha, nella sua empirica esistenza, un significato altro da se stesso. Il fatto, da cui si parte, non è inteso come tale, ma come risultato mistico » (OFG, 18).

7 Hegels theologische Jugendschriften, Tùbingen 1907, p. 298. 8 Ivi, p. 299. 9 Ivi. 10 K. MARX, Opere filosofiche giovanili cit., p. 17. D'ora in poi, come

nella parte prima, citate, nel corpo del testo, con l'abbreviazione: OFG, seguita dal numero della pagina.

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La dialettica della materia è tutta qui. Il finito è infinito, il Reale è Razionale. Cioè, non c'è più l'oggetto determinato o reale, il " questo " esclusivo: c'è la Ragione, l'Idea, l'inclusione logica degli opposti, il " tanto questo quanto quello ". Risolto d'altra parte l'essere in pensiero, il pensiero a sua volta è: cioè, l'unità logica degli opposti viene ad esistere e s'incarna in un oggetto reale. Ogni cosa è sé e il suo opposto, " è " e " non è " : questa contraddizione la fa muovere, cioè la fa morire come cosa per rinascere come pensiero o infinito (« ogni finito — dice Hegel — ha questo di proprio, che sopprime sé medesimo », Eric, § 81). D'altra parte, « se nelle categorie logiche si trova la sostanza di ogni cosa, si può ben immaginare — dice Marx — di trovare nella formula logica del movimento il metodo assoluto che non solo spiega ogni cosa, ma che implica anche il movimento della cosa » 11. In altre parole, l'oggetto reale si risolve nella contraddizione logica — il primo movimento è questo; secondo movimento: la contraddizione logica, a sua volta, diventa oggettiva e reale. Il filosofo è ormai un cristiano perfetto. Ciò che li distingue, dice Marx, è solo questo: che « il cristiano non ha che una sola incarnazione del Logos, a dispetto della logica », mentre « il filosofo non la finisce più con le incarnazioni » ".

Apriamo ora il Libro II della Scienza della logica e vi troveremo la '' dialettica della materia " affermata a chiare lettere. A coronamento della sua critica al principio di identità e di non-contraddizione, Hegel rileva che, contrariamente a questo principio, è da affermare piuttosto che « tutte le cose sono in se stesse contraddittorie, e ciò propriamente nel senso che questa proposizione esprima anzi, in confronto delle altre, la verità e l'essenza delle cose ». È « uno dei pregiudizi fondamentali della vecchia logica e dell'ordinaria rappresentazione, che la contraddizione non sia una determinazione altrettanto essenziale e immanente quanto l'identità ». Senonché, « quando si dovesse parlare di un ordine di precedenza e si dovessero tener ferme le due determinazioni come separate, bisognerebbe prendere la contraddizione come la più profonda e la più essenziale. Poiché di fronte ad essa l'identità non è che la determinazione del semplice

! ' K. MARX, Miseria della filosofia cit., pp. 86-7. '- Ivi.

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immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove, ha un istinto e un'attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione ».

D'altra parte, come ogni cosa è contraddittoria, così la con-traddizione logica, a sua volta, esiste ed è reale. « La contraddizione — continua Hegel — viene ordinariamente allontanata [...] dalle cose, dall'essere e dal vero in generale; si afferma, che non v'è nulla di contraddittorio », come se la contraddizione dovesse essere « un'accidentalità, quasi un'anomalia e un transitorio parossismo morboso ». Ma, « per quanto riguarda ora l'affermazione che la contraddizione non si dia, che non esista, non abbiamo alcun bisogno d'inquietarci d'un'asserzione simile. Una determinazione assoluta dell'essenza si deve riscontrare in ogni esperienza, in ogni reale come in ogni concetto [...]. E la contraddizione non è poi da prender semplicemente come un'anomalia che si mostri solo qua e Jà, ma è il negativo nella sua determinazione essenziale, il principio di ogni muoversi, muoversi che non consiste se non in un esplicarsi e mostrarsi della contraddizione. Persino l'esterior moto sensibile non è che la sua esistenza immediata. Qualcosa si muove, non in quanto in questo Ora è qui, e in un altro Ora è là, ma solo in quanto in un unico e medesimo Ora è qui e non è qui, in quanto in pari tempo è e non è in questo Qui. Si debbon concedere agli antichi dialettici le contraddizioni che essi rilevano nel moto, ma da ciò non, segue che pertanto il moto non sia, sibbene anzi che il moto è la contraddizione stessa come esistente ».

E Hegel conclude: « In pari maniera, il muoversi interno, il vero e proprio muoversi, l'istinto in generale [...] non consiste in altro, se non in ciò che qualcosa è, in se stesso, sé e la mancanza, il negativo di se stesso, sotto un unico e medesimo riguardo. L'astratta identità con sé non è ancora vitalità, ma perché il positivo è in se stesso la negatività, perciò esso esce fuori di sé ed entra nel mutamento. Qualcosa è dunque vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione ed è propriamente questa forza, di comprendere e sostenere in sé la contraddizione » (II, 69-71).

Fin qui la Scienza della logica. È un fatto — comunque si vogliano giudicare le due pagine che abbiamo citato — che il luogo di nascita del materialismo dialettico è qui. Anche se si voglia lasciare per ora impregiudicato che cosa una " dialettica della materia " possa eventualmente significare, un dato incon-

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trovertibile è questo: che il primo " dialettico della materia " è stato Hegel; il primo e — aggiungiamo — anche il solo. Giacché, dopo di lui, v'è stata semplice trascrizione macchinale.

L'identità non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice del movimento e vitalità. È Hegel e — insieme — è anche YAntì-duhring. « Sino a quando consideriamo le cose in stato di riposo e prive di vita, ciascuna per sé, l'una accanto all'altra, l'una dopo l'altra, è certo — ci avverte Engels — che in esse non incontreremo nessuna contraddizione [...]. Ma è invece tutt'altra cosa allorché consideriamo le cose nel loro movimento, nel loro cambiamento, nella loro vita, nella loro azione reciproca. Qui cadiamo subito in contraddizioni. Lo stesso movimento è una contraddizione; già perfino il semplice movimento meccanico locale si può compiere solamente perché un corpo in un unico e medesimo istante è in un luogo e nello stesso tempo in un altro luogo, è in un solo e medesimo luogo e non è in esso. E il continuo porre e nello stesso tempo risolvere questa contraddizione è precisamente il movimento » 1S.

Per la Scienza della logica qualcosa è vitale solo in quanto contiene in sé la contraddizione, cioè solo in quanto è sé e il negativo di se stesso a un tempo. Per YAntiduhring, allo stesso modo, « la vita consiste anzitutto precisamente nel fatto che un essere, in ogni istante, è se stesso ed è anche un altro. Quindi la vita è del pari una contraddizione presente nelle cose e nei fenomeni stessi, contraddizione che continuamente si pone e continuamente si risolve; e non appena la contraddizione cessa, cessa anche la vita e sopraggiunge la morte » ".

Due concezioni che parrebbero dover essere diversissime tra loro, due autori che ci aspetteremmo di trovare agli antipodi l'uno dell'altro — Hegel che professa l'idealismo, Engels che si dichiara materialista — definiscono allo stesso modo la realtà e allo stesso modo ciò che a loro sembra astratto o irreale.

Ci si consenta di insistere ancora nell'esibizione di qualche testo. « Tutto ciò che ci circonda — scrive Hegel — può essere considerato come un esempio della dialettica. Noi sappiamo che ogni finito, anziché essere un che di saldo e di definitivo, è mutevole e caduco, e ciò non è altro che la dialettica del finito

13 F. ENGELS, Antiduhring cit., p. 133. 14 Ivi, p. 134.

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[die Dialektik des Endlichen], mediante la quale il finito, come ciò che è in sé l'altro di se stesso, è sospinto al di là di ciò che è immediatamente e ribalta nel suo opposto [...]. Noi affermiamo che tutte le cose (cioè ogni finito in quanto tale) vanno alla lor fine [zu Gericht gehen], e consideriamo perciò la dialettica come quella potenza irresistibile universale dinanzi alla quale nulla può mantenersi, per saldo e sicuro che possa anche sembrare. Con questa determinazione, naturalmente, la profondità dell'essenza divina, il concetto di Dio non è ancora esaurito; essa costituisce però, certamente, un momento essenziale in ogni coscienza religiosa. — La dialettica, inoltre, dà prova di sé in tutti i campi e le sfere particolari del mondo naturale e spirituale. Così per esempio nel movimento dei corpi celesti. Un pianeta sta ora in questo luogo, ma esso è in sé di essere anche in un altro luogo, e porta questo suo esser altro all'esistenza col fatto di muoversi. Parimenti dialettici si dimostrano gli elementi fisici, la manifestazione della cui dialettica è il processo meteorologico. E appunto questa dialettica è il principio che sta alla base di tutti i restanti processi naturali e in forza del quale la natura è insieme sospinta al di là di se stessa. »

È il paragrafo 81 dell'Enciclopedia o, per meglio dire, il suo Zusatz 1. Orbene, quando nei suoi Contributi alla storia del materialismo Plechanov è finalmente al punto di dover indicare che cosa sia, per Marx la " dialettica ", egli non trova nulla di meglio che, prima, citare e trascrivere largamente da questo paragrafo (salvo, beninteso, il riferimento a Dio e alla religione) e, poi, riassumerne così il risultato più importante: « Dunque: 1. La peculiarità di ogni finito è di negare se stesso e trasformarsi nel suo contrario » 1S. Cioè, ancora una volta, ogni cosa è in se stessa contraddittoria, ogni cosa è sé e il negativo di se stessa sotto un unico e medesimo riguardo.

Concludiamo la presentazione dei testi riprendendo la pagina della Logica citata poc'anzi. « L'identità — vi è detto — non è che la determinazione del semplice immediato, del morto essere; la contraddizione invece è la radice di ogni movimento e vitalità; qualcosa si muove ha un istinto e un'attività, solo in quanto ha in se stesso una contraddizione. » Giunto nel corso della sua lettura della Logica a questa pagina, come vinto da un

15 G. PLECHANOV, Essais sur l'histoire du matérialisme, Paris 1957, pp. 121-22.

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moto incontenibile di consenso Lenin annota febbrilmente: «Movimento e 'automovimento' [...], 'trasformazione', 'movimento e vitalità ', ' principio di ogni automovimento ' ' impulso ' [Trieb] al ' movimento ' e ali" attività ' — opposto al ' morto essere ': chi crederebbe che questo è il nocciolo dell''hegelismo', dell'astratto e astruso [...] hegelianismo? Questo nocciolo, lo si dovette scoprire, afferrare, ' salvare superandolo ', liberarlo dalla scorza, ripulirlo, cosa che Marx ed Engels hanno anche effettuato » 13.

Lasciamo stare Marx. È un fatto che anche Lenin, come Engels, vede in questa pagina della Logica il " nocciolo " da salvare della filosofìa di Hegel, l'irrompere di un realismo genuino in contraddizione con la " scorza " del sistema e con la " mistica dell'idea ".La convinzione che in questo punto lo domina è quella stessa che egli ha innalzato a criterio di tutta la sua lettura di Hegel: « mi sforzo in generale di leggere Hegel materialisticamente; Hegel è il materialismo messo testa all'ingiù (secondo Engels) •— vale a dire elimino in gran parte il buon Dio, l'assoluto, l'Idea pura, ecc. » 17.

La pagina di Hegel, di cui ci stiamo occupando, è all'inizio della Nota 3, Cap. II, C del Libro II della Scienza della logica. Prima di congedarci da essa, sia consentito di riprodurre le considerazioni con cui Hegel chiude questa nota e che, in ossequio al suo " criterio ", Lenin ha omesso di trascrivere e commentare: « Le cose finite nella loro indifferente molteplicità consistono in generale nell'esser contraddittorie in se stesse, nell'esser rotte in sé e nel tornare al loro fondamento. — Come si vedrà più innanzi, la vera conclusione da un essere finito e accidentale a un essere assolutamente necessario non sta nel concludere a questo assolutamente necessario partendo dal finito e accidentale come da un essere che si trovi a fondamento e vi rimanga, ma sta (com'è anche immediatamente implicito nell''accidentalità) nel concludere a quell'assolutamente necessario movendo da un essere soltanto caduco, contraddicentesi in se stesso; o meglio sta nel mostrare che l'essere accidentale torna in se stesso nel suo fondamento, dove si toglie, — nel mostrare inoltre che con questo tornare cotesto essere pone il fondamento soltanto in modo che fa anzi di se stesso il posto. Nell'ordinaria maniera di sillogizzare sembra

16 V. I. LENIN, Quaderni filosofici cit., p. 129. 17 Ivi, p. 92.

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che fondamento dell'assoluto sia l'essere del finito; perché v'è un finito, v'è l'assoluto. La verità invece è che perché il finito è l'opposizione contraddicentesi in se stessa, perché esso non è, per questo l'assoluto è. Nel primo senso la conclusione è: Yessere del finito è l'essere dell'assoluto; in quest'altro senso invece è: il non essere del finito è l'essere dell'assoluto » (II, 74).

La " lettura " che Lenin ha dato di queste pagine poggia, come si vede, su un equivoco di fondo. Egli si è " sforzato " di leggere Hegel " materialisticamente ", proprio nel punto in cui questi stava... annientando la materia. Hanté dalle celebri proposizioni ó&ÌYAntidùhring e fuorviato dal metodo stesso che si era prescritto, di distrarsi nei luoghi in cui Hegel parla di Dio, Lenin non si è accorto che la Nota 3 del Cap. II —-la quale si apre con l'affermazione che " tutte le cose sono in se stesse contraddittorie " e prosegue nel modo che abbiamo visto — ha un argomento preciso: il problema delle dimostrazioni dell'esistenza di Dio.

La questione, che qui Hegel discute, è quella stessa da cui abbiamo preso le mosse: l'incongruenza che il principio di non-contraddizione induce nella filosofia; l'impossibilità di realizzare il " principio " dell'idealismo servendosi del metodo dell' " intelletto " o, come in questo caso si dice, dell' " ordinaria maniera di sillogizzare ". L'intelletto, che separa il finito dall'infinito, non riesce, dice Hegel, a porre fine al finito. La conseguenza ne è la contraddizione in cui si avvolgono le cosiddette prove cosmologiche dell'esistenza di Dio. Esse, infatti, hanno certamente il " loro punto di partenza nella contemplazione del mondo, determinato in qualsiasi modo come un aggregato di accidentalità " e, quindi, come un cumulo di cose senza valore; solo che prendono questo punto di partenza come " un saldo fondamento " che debba " restare ed essere lasciato nella forma affatto empirica " che esso ha dapprima. « La relazione del punto di partenza col punto finale, al quale si procede, viene rappresentata così come solamente affermativa, come un inferire da uno che è e resta, ad un altro che egualmente è» (Ette, § 50): con il risultato, che il mondo, che è il creato, diventa nel loro sillogismo il " primo ", mentre Dio, che è il creatore e perciò il primo, diventa invece il " secondo ". L'effetto diventa causa, la causa effetto. Cosicché, dice Hegel, Jacobi ha potuto muovere a queste prove il " giusto rimprovero " che, per esse, « si ricerchino le condizioni (il mondo)

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dell'incondizionato; che l'infinito (Dio) venga in tal modo rap-presentato come causato e dipendente ».

L' " intelletto ", insomma, consolida il finito. Impedendogli di passare nell'opposto — se il finito, dice Hegel, « fosse toccato dall'infinito, sarebbe annientato » (Enc, § 9.5) —, esso ne fa un " fermo essere " che è e resta a fondamento. La dialettica della materia, invece, cioè la concezione dialettica del finito, la concezione del finito come " ideale " e dunque l'idealismo — in quanto porta il finito a distruggersi ed elimina così ogni fondamento materialistico — realizza per la prima volta il " principio " della filosofia, cioè Dio, facendolo coerentemente valere come l'incondizionato e l'assoluto. Neil' " ordinaria maniera di sillogizzare " e ragionare, l'essere del finito è fatto " assoluto ", cioè il finito è considerato come una realtà che sussiste indipendentemente o per sé. Nel modo di sillogizzare, invece, della filosofia o idealismo, la concezione dialettica della materia permette di affermare che, proprio « perché il finito è l'opposizione contraddicentesi in se stessa, perché esso non è, per questo l'assoluto è ». Nel primo caso in cui il finito " resta " ed è un " fermo essere ", è il regno della morte: il " fermo essere ", dice Hegel, è il " morto essere ": è la materia che non si è trasvalutata nello e come Spirito. Nel secondo caso, invece, il " passaggio " o " movimento ", con cui il finito " si " annienta andando nel? " altro ", è detto vitalità, proprio nel senso in cui, per il cristiano, la morte è l'inizio della vera vita e quest'ultima comincia quando si passa dall'ai di qua di là.

Il senso e la funzione che la " dialettica della materia " ha nel pensiero di Hegel è questo. « Essa costituisce certamente —■ come egli ha rilevato — un momento essenziale in ogni coscienza religiosa. » Il senso, invece, che la dialettica della materia ha in Engels e Lenin è, notoriamente, un altro: essa costituisce, per loro, la forma più matura e elevata di materialismo. Si potrebbe a questo punto supporre che, sotto la comunanza del nome, si abbia a che fare con due concezioni diverse. In realtà, quest'ipotesi è da scartare. I lunghi confronti di testi a cui ci siamo lasciati andare, e gli altri che istituiremo ancora, dimostrano, ci sembra, due cose: a) che tutte le proposizioni fondamentali della " dialettica della materia " sono state formulate originariamente da Hegel; b) che il materialismo dialettico si è limitato a trascriverle dai suoi testi. Poiché, in questa trascrizione, gli autori del materialismo dialettico hanno mostrato chiaramente di inten-

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dere che quegli enunciati implicassero, già nel testo di Hegel, un assunto materialistico, la conclusione da trarre, secondo noi, è che essi sono incorsi, semplicemente, in un errore di interpretazione. Un errore, che è ormai alla base di circa un secolo di marxismo teorico.

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II. HEGEL E SPINOZA

Il problema della realizzazione dell'idealismo e, quindi, del superamento dell'incongruenza che ha finora contrassegnato la filosofia, coincide essenzialmente, per Hegel, con lo sviluppo e la riformulazione del pensiero di Spinoza. Spinoza è, per lui, l'essenza stessa della filosofia. « Spinoza è un punto talmente importante della filosofia moderna, che in realtà si può dire: o tu sei spinoziano, o non sei affatto filosofo » \ « Essere spinoziani è l'inizio essenziale del filosofare »: perché « non si comincia a filosofare, senza che l'anima si tuffi anzitutto in quest'etere dell'unica sostanza, in cui è sommerso tutto quel che si era ritenuto vero; questa negazione di tutto quel eh'è particolare, cui deve esser pervenuto ogni filosofo, è la liberazione dello spirito e la sua base assoluta ». Quindi, « quel che c'è di grandioso nella maniera di pensare di Spinoza è l'aver egli potuto rinunziare ad ogni determinato, a ogni particolare, per riferirsi soltanto all'Uno, per poter tenere in considerazione soltanto questo (SF, 111/2, 110).

Ma c'è di più. « La sostanza di questo sistema — scrive Hegel — è una sostanza unica. » « Non si dà alcuna determinazione che non sia contenuta e risoluta in questo assoluto, ed è assai importante che tutto quello che appare e sta dinanzi come indipendente all'immaginazione naturale o all'intelletto determinativo viene in quel concetto intieramente rabbassato a un semplice esser posto » (II, 196). « Spinoza — aggiunge Hegel — fa al pensiero la sublime richiesta di pensar tutto sotto la forma dell'eternità, sub specie aeterni, vale a dire com'è nell'assoluto »

1 G. W. F. HEGEL, Lezioni sulla storia della filosofia, HI/2, Firenze 1944, p. 137. Le citazioni da queste Lezioni saranno d'ora in poi indicate con l'abbreviazione: SF, seguita dal numero del volume e dall'indicazione della pagina.

13. Colletti 193

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(II, 198), cioè non come è nella realtà empirica o di fatto bensì com'è nello Spirito o nell'Idea.

Senonché, malgrado Spinoza abbia visto che omnis determi-natio est negatio e, quindi, che il finito, il determinato, non ha un'esistenza propria, la natura intimamente " dualistica " (cioè distinguente e separante) dell 'intelletto lo ha indotto, dice Hegel, a porre il finito fuori dell'assoluto: senza vedere che in tal modo, mentre egli restituiva al primo quella consistenza che gli aveva già negato, l'assoluto ne risultava, a sua volta, circoscritto e limitato. Così — pur avendo Spinoza compreso che il reale è un negativo, un che di insussistente e quindi qualcosa che deve tornare al fondamento — il movimento dal mondo a Dio, dal nulla all'assoluto, dai modi e dagli attributi alla sostanza, gli si è configurato sempre solo come una " caduta " nell'unità, solo cioè come un movimento soggettivo o della " riflessione esterna " che riconduce e immerge tutto nell'assoluta identità, anziché come un movimento di quest'identità medesima. Il termine, il punto d'arrivo di questa caduta, ciò in cui il reale o il finito va a perdersi, si vede: è la sostanza. Ma, donde inizi questo movimento, donde proceda questa caduta, non si sa: giacché, come l'assoluto vien concepito solo come identità immobile, vale a dire come qualcosa che sta oltre e al di là del finito, così quest'ultimo resta pur sempre come un presupposto esterno, da dove comincia il mo-vimento e dal quale l'assoluto stesso rimane perciò limitato. Il circolo risulta, così, interrotto e spezzato: il modo in cui noi veniamo a conoscere l'assoluto resta esterno a ciò che l'assoluto è: con la conseguenza che il pensiero e l'essere, il pensiero e l'estensione, rimangono separati come due " attributi assunti empiricamente " (II, 197) e che, " per quanto profondi ed esatti ", i concetti restano definizioni, cioè Verstandesbegriffe e non Ver-nunftbegriffe.

« L'attributo », dice Spinoza, « è ciò che l'intelletto pensa di Dio ». Ma « qui sorge la domanda: come sopraggiunge, all'infuori di Dio, l'intelletto, il quale applica le due forme del pensiero e dell'estensione alla sostanza assoluta? e donde provengono queste due forme medesime? » Esse, dice Hegel, sono applicate dall'esterno alla sostanza, non procedono da essa. Ma « in tal modo tutto va dentro, nulla vien fuori; le determinazioni non vengono ricavate dalla sostanza, essa non si schiude a questi attributi » (SF, IH/2, 117). In breve: il finito rimane ancora, malgrado tutto, di fuori; e l'infinito, avendo l'altro di contro a sé, resta

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pur sempre un infinito uni-laterale, de-finito, un'identità immobile di tipo eleatico, una sostanza che non riesce a diventare soggettività autocosciente.

Di più. Anche ciò che procede dall'assoluto, ne discende solo in modo esteriore e meccanico. « L'esposizione spinozistica dell'assoluto è bensì — dice Hegel — completa, poiché comincia dall'assoluto, fa seguire a questo l'attributo, e finisce col modo; ma questi tre vengon soltanto enumerati un dopo l'altro senza alcuna consecuzione interna di sviluppo, e il terzo non è la negazione come negazione, non è una negazione che si riferisca negativamente a sé, così che sia in lei stessa il ritorno nella prima identità e questa sia vera identità » (II, 199), cioè identità dialettica, " identità dell'identità e della non-identità "; bensì, si ripete, press'a poco, ciò che capita " nella rappresentazione orientale dell'emanazione " dove le espansioni dell'assoluto " sono allontanamenti dalla sua limpida chiarezza " e " le creazioni susseguenti son più imperfette che le precedenti dalle quali provengono ". « L'espandersi è preso unicamente come un accadere, il divenire com un progressivo perdersi. Così l'essere si offusca sempre più, e la notte, il negativo, è l'estremo termine della linea, che non torna più nella prima luce » (II, 192).

Naturalmente, lo spinozismo è idealismo, immaterialismo as-soluto. « Spinoza afferma che ciò che si chiama mondo non esiste affatto: è soltanto una forma di Dio, non è niente in sé e per sé. L'universo non ha vera realtà: tutto è gettato nell'abisso dell'unica identità. Non c'è quindi nulla nella realtà finita; questa non ha verità alcuna; secondo Spinoza, quello che è è soltanto Dio. » Coloro che hanno quindi incolpato Spinoza di ateismo, non sanno ciò che si dicono. Quelli « che così lo denigrano non vogliono salvare Dio, ma il finito, la mondanità: gli mostrano corruccio perché egli li ha distrutti insieme col loro mondo » (SF, III/2, 135-6).

E tuttavia, se non di ateismo, un rimprovero a Spinoza va pur mosso: ed è « il rimprovero di concepire Dio soltanto come sostanza, e non come spirito » (SF, IH/2, 134). « Nel sistema spinoziano non si fa altro che gettar tutto in questo abisso dell'annientamento », dice Hegel. « Ma nulla ne esce; e il particolare, di cui parla Spinoza, è soltanto trovato, preso dalla rappresentazione, senz'essere giustificato. Per giustificarlo, Spinoza dovrebbe dedurlo dalla sua sostanza; ma questa non si schiude, e non perviene quindi ad alcuna vita, spiritualità e attività. La sua filosofia

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ha soltanto la rigida sostanza, non ancora lo spirito. » In essa, « Dio non è spirito, perché non è trino. La sostanza rimane nella rigidità, nella pietrificazione, senza lo sgorgare di Bohme » (SF, III/2, 142).

Tiriamo le somme. L'interpretazione che Hegel dà di Spinoza, il filosofo con cui più profondo è il suo rapporto, ripropone tutti i temi fondamentali già individuati nel corso della nostra analisi. L'annientamento del mondo ("ciò che si chiama mondo non esiste affatto "). Il duplice movimento per cui, allo sparire del finito nell'Idea, deve far da pendant l'apparire dell'Idea nella cosa, l'esposizione positiva dell'assoluto (e, invece, in Spinoza " tutto va dentro, nulla vien fuori "). La trasformazione della Sostanza in Soggetto. Il problema, infine, del principio di non-contraddizione.

Dice la Scienza della logica: « l'essere eleatico o la sostanza spinoziana non sono che l'astratta negazione di ogni determinazione, senza che in questa negazione stessa sia posta l'idealità » (I, 177). E la Storia della filosofia: « in complesso l'idea spinoziana [...] è quel medesimo che gli Eleati chiamarono ov. Questa idea spinoziana si deve accettare in generale come verace e fondata; la sostanza assoluta è il vero, ma non l'intero vero; per esser tale, essa dovrebbe pensarsi anche come attività vivente in se stessa, e così appunto determinarsi come spirito » (SF, III/2, 109).

Il punto decisivo, come si vede, è sempre lo stesso: la pro-posizione che // finito è ideale. Si tratta di portare il finito dentro l'infinito, l'essere nel pensiero. Ciò consente, da una parte, di " annientare " veramente il finito, dall'altra, di tramutare la Sostanza in Soggetto. L'essere eleatico che, come tale, è solo l'astratta negazione di ogni determinazione, l'universale che esclude il particolare (donde la sua uni-lateralità e rigidezza da oggetto), diventa, così, unità degli opposti, " essere " e " non essere " insieme, tauto-eterologia o dialettica. Quest'unità è ciò che Hegel chiama giustamente: autocoscienza, ragione. Giustamente. Infatti, che altro può essere la ragione se non criterio, compresenza alla mente d'entrambe le alternative tra cui si deve scegliere sia nell'operare che nel definire? Il limite di Hegel non è questo. Il limite è di credere che « come l'oggetto è nel pensiero, soltanto così esso è in sé e per sé »; ovvero è di prendere la ragione non come attributo e qualità dell'ente naturale uomo ma come Dio, Logos, Spirito cristiano, sostanza essa stessa.

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Giacché, oltre che come ragione, essa deve valergli allora anche come realtà.

Qui è veramente il punto che decide di tutto: la sostantifi-cazione della ragione conseguente all'assunto cristiano, cioè all'identificazione di essa con lo Spirito e, quindi, con Dio. Che la cosa com'è nel pensiero sia ridotta ad essere, da oggetto sensibile che era, un oggetto pensato — questo è chiaro. Di ciò non dubita nessuno. « Il concreto del pensiero — dice Marx stesso — è un prodotto del pensare. » Ciò che invece non è chiaro — o che almeno non lo è fino a che non si assuma il presupposto che il pensiero è Spirito e lo spirito Dio — è perché il " pensato " debba essere scambiato immediatamente con la realtà, e all'oggetto reale, viceversa, debba essere negata qualsiasi vera esistenza così com'esso è fuori e prima del concetto.

« L'idealismo del nobile Malebranche -— dice Hegel — è in sé più esplicito », di quanto non sia Spinoza. « Esso contiene i seguenti pensieri fondamentali. Poiché Dio racchiude in sé tutte le verità eterne, le idee e le perfezioni di tutte le cose, per modo ch'esse son soltanto le sue, così noi non le vediamo che in lui [...]. Come dunque le eterne verità e le idee (essenzialità) delle cose, così anche la loro esistenza è in Dio, è ideale, e non già un'esistenza effettiva » (I, 177).

Quest'assunto cristiano è il vero fulcro di tutto il pensiero di Hegel. Esso gli consente di dilatare l'eleatismo, cioè di rompere il quadro di ogni concezione " istituzionalizzata " del pensiero e di abbattere gli schemi dell'" intellettualismo " scolastico (quell' " intellettualismo ", abbiamo visto, che sopravvive persino in Spinoza). Da qui, il suo concetto dell'infinito, la sua distinzione dell'infinito della " ragione " da quello dell'" intelletto " (" La gran questione " della filosofia, dice Hegel, « è di distinguere il vero concetto dell'infinità dalla cattiva infinità, l'infinito della ragione dall'infinito dell'intelletto »: quest'ultimo, infatti, è solo " l'infinito reso finito ", I, 146). E da qui, anche, il riconoscimento che la vera " unità " è totalità, cioè non solo " essere " ma " essere " e " non essere " insieme, non solo identità ma " identità della identità e della non-identità ". Senonché, a questa trasformazione della Sostanza in Soggettività, si accompagna simultaneamente, in Hegel, una riconversione di questa in quella, (l'esposizione positiva dell'assoluto), proprio perché la ragione, essendo per lui Spirito, Dio, deve valere anche come l'unica realtà.

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« Ciò che di positivo Hegel ha compiuto qui, nella sua logica speculativa » — dice Marx — è che « le generali forme fisse del pensiero » egli « le ha esposte e sistemate come momenti del processo d'astrazione ». Hegel, cioè, ci ha dato non più astrazioni fisse ma " l'intero atto d'astrazione " o " l'astrazione che abbraccia se stessa ". Egli « ha fatto un blocco, nella sua Logica, di tutti questi spiriti fissi », cioè ha sostituito « l'atto del circolare in sé dell'astrazione a quelle astrazioni fisse » (OFG, 309-311). Senonché, in quanto questa negatività, che è la ragione, non si costituisce per lui in funzione di un oggetto reale, ma lo elude ponendosi come per sé stante, essa diventa, dice Marx, « un'astrazione che si fissa di nuovo come tale e che viene pensata come un'autonoma attività, come pura attività » (OFG, 309, cors. mio).

La Totalità hegeliana — si dice — non esclude nulla. Essa è l'unità di soggetto e oggetto, di pensiero e mondo. Essa abbraccia tutto e non lascia nulla fuori di sé. Che il concetto hegeliano di totalità includa anche l'identità eleatica e anzi — con l'accogliere in essa il finito come ideale — la dilati a " identità dell'identità e della non-identità ", è vero ed è appunto ciò che ci siamo sforzati di mostrare finora. Senonché, se la " totalità " hegeliana è lo sviluppo dell'originario principio eleatico (l'identità come " astrazione fissa " o identità dell'" essenza logica " con sé, che ha dominato tutta la tradizione scolastica), è pur vero che questo sviluppo avviene nel quadro della più stretta continuità con la concezione negativa del sensibile o finito che è propria della tradizione platonico-cristiana. Ciò che significa che quella " totalità " hegeliana è essa stessa tanto unilaterale e parziale da escludere e lasciar fuori di sé il principio della materia, cioè quell'altro aspetto dell'identità che ha trovato espressione non in Parmenide ma nel principio aristotelico di determinazione e il cui senso è appunto che il finito è un vero finito solo quando è fuori dell'infinito; che l'essere è reale essere solo quando è indipendente dal pensiero; che l'oggetto si determina per ciò che è, solo attraverso l'esclusione del negativo, dell'opposto, cioè di quell'universale logico in cui si compendia tutto ciò che l'oggetto stesso o particolare non è.

Hegel include tutto; il principio della totalità dialettica non esclude nulla. In realtà, poiché Hegel trasforma quell'inclusione logica degli opposti, che è la ragione, nel principio stesso del-l'idealismo (la ragione è l'unica realtà, non c'è nulla all'infuori

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di essa), egli esclude proprio quell'esclusione degli opposti — o esteriorità dell'essere al pensiero — ch'è il principio stesso del materialismo. Vero, quindi, che Hegel accoglie l'essere nel pensiero, il finito nell'infinito; ma, poiché il finito com'è " dentro " è assai diverso dal finito che è " fuori ", e un conto è l'oggetto reale (Gegenstand) un altro l'oggetto logico (Objekt), la " totalità " hegeliana, per essere veramente tale, dovrebbe poter saldare i due princìpi insieme: la contraddizione dialettica e l'identità non-contraddittoria, l'unità degli opposti e la loro esclusione.

La ragione è totalità: questo è ciò che Hegel ha visto bene. Ma, poiché questa " totalità " è anche solo ragione, è chiaro che, oltre ad essere sé, essa dev'essere anche " intelletto ": oltre che " totalità ", anche solo " uno dei due "; e, insomma, che il pensiero — oltre ad essere unità di pensiero ed essere nel pensiero — dev'essere anche funzione di una realtà esterna ad esso.

Ora, proprio questo è ciò che Hegel, invece, non vede. In lui, l'unità soverchia e annulla la distinzione; la totalità " razionale " cancella 1'" intelletto "; il principio della ragione esclude quello della materia. Con la conseguenza, che — dovendo fungere, simultaneamente e sotto uno stesso riguardo, da pensiero e da realtà — la ragione si cristallizza in cosa, cioè diventa un'unità unica, positiva, incapace di aprirsi e di tener conto del diverso, acquistando così il carattere esclusivo che è proprio della materia.

Tutte le " vere " filosofie sono idealismo; il materialismo è Unphilosophie, antifilosofia. E, poiché la discussione è possibile solo dove è unità nei princìpi, la storia della filosofia è solo storia dell'idealismo, storia della progressiva attuazione dell'Idea o Logos cristiano, storia della realizzazione di Dio. « J'ai trouvé que la plùpart des sectes ont raison dans une bonne partie de ce qu'elles avancent, mais non pas tant en ce qu'elles nient », scrive Hegel, citando Leibniz, nell'opera giovanile dedicata al Rapporto dello scetticismo con la filosofia 2. « Il superficiale modo di considerare le controversie filosofiche — egli aggiunge — fa vedere soltanto le differenze dei sistemi, mentre già l'antica regola: cantra negantes principia non est disputandum, permette di capire che, quando i sistemi filosofici contendono tra loro [...], esiste accordo nelle premesse »3. Le differenze, quindi, che sono

3 G. W. F. HEGEL, Verhàltniss des Skepticismus zur Philosophie, in Sàmtliche Werke (Glockner), voi. I, p. 218. 3 Ivi.

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finora esistite tra le filosofie vanno ricondotte esclusivamente « al grado maggiore o minore di astrazione, con cui la Ragione si è esposta in princìpi e sistemi ». E il metodo con cui queste differenze tra le filosofie devono essere superate è quello stesso con cui Hegel ha allargato l'eleatismo. Si tratta di dilatare l'idea qu'elles avancent fino a includervi anche le altre idee qu'elles nient, cioè si tratta di sostituire alle " astrazioni fisse " 1'" astrazione che abbraccia se stessa " e, quindi, di integrare idea con idea. Ma si badi: l'idea con l'idea, non l'idea con la materia, che — anders ist es freilich, wenn Philosophie mit Unphilosophie streitet "".

Il difetto della metafisica precritica, così come essa si è configurata anche nel suo rappresentante più alto, Spinoza, non è stato dunque quello di essere una metafisica, cioè di togliere a suoi oggetti il sovransensibile e l'assoluto: il contenuto di quella filosofia (Dio, l'anima, ecc.) era anzi " schiettamente speculativo " (Ette, § 27); il difetto è da ascrivere, piuttosto, al metodo o alla forma intellettuale di cui fece uso, cioè al fatto che essa sia stata una " mera veduta intellettuale degli oggetti della ragione " (Enc, § 27). « Questa metafisica divenne domma-tismo — dice l'Enciclopédia — perché, seguendo la natura delle determinazioni finite, doveva ammettere che di due affermazioni opposte [...], l'una dovesse esser vera, e l'altra falsa » (Enc, §32).

Il dogmatismo, in altre parole, non venne a quella filosofia dal suo apriorismo, cioè dal fatto di muovere da un'idea prestabilita o "già data " da sempre, il principio dell'idealismo, il quale, mentre negava qualsiasi realtà a tutto ciò che era fuori od esterno all'idea, avocava viceversa questo valore di realtà immediatamente a se stesso; il dogmatismo, al contrario, le veniva dall'adozione del principio di non-contraddizione, del metodo dell'" intelletto ", che — in quanto fa del finito il " morto essere ", cioè una realtà " ferma ", immobile, e immobile proprio nel senso che non si annulla " passando " nell'infinito o nell'Idea — ne fa anche un saldo fondamento che è e resta. Qui sta, secondo Hegel, il dogmatismo di quella filosofia: non nel fatto di assumere come " già date " idee o conoscenze puramente aprioristiche (" che si posseggono — direbbe Kant — non si sa donde e sul credito di princìpi di cui non si conosce l'origine "); non

4 Ivi.

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nel prendere le mosse eia un sapere innato o apriori; bensì nel-l'accogliere come dati i " fatti ", il finito, 1'" aposteriori ", o« — meglio — nell'assumere che ci è dato un oggetto da conoscere. Questa è la contraddizione o l'incongruenza, secondo Hegel, in cui quella filosofia è incorsa. Sebbene sapesse perfettamente che " l'universo non ha vera realtà ", che " non c'è nulla nella realtà finita " e che " il mondo non esiste affatto, è soltanto una forma di Dio ", essa non ha potuto svolgere coerentemente il suo sapere,, perché è rimasta presa nei lacci dell'" ordinario intelletto umano ",. cioè di quel punto di vista che è comune, insieme, al materialismo del " senso comune " e alla scienza. Così, pur essendo filosofiche-(o idealistiche) nella sostanza, quelle metafisiche riuscirono scientifiche (o materialistiche)5 nella forma: pretendendo, come Spinoza, che quella sostanza assoluta potesse essere ordine geometrico demonstrata, o seguendo, come Leibniz « nella sua filosofia, il procedimento cui s'attengono ancor oggi i fisici nella formazione di un'ipotesi per spiegare certi dati di fatto » (SF, IH/2, 186). Il risultato ne è stato, come Hegel dice di Spinoza, che-i suoi « concetti, per quanto profondi ed esatti, son definizioni,, che vengono ammesse immediatamente in testa alla scienza »,, proprio come avviene con « la matematica e le altre scienze subordinate » (II, 197).

Questo discorso non significa affatto — si badi — che Hegel cada nell'errore, oggi così diffuso 6, di credere che la metafisica precritica sia il materialismo e, quindi, che il materialismo (il quale, in gnoseologia, si riduce, poi, alla tesi critica kantiana che l'esistenza non è predicato o nota di concetto) sia di origine: religiosa e perciò da confondere o col " realismo " tomista o con il dualismo cartesiano di res extensa e res cogitans. In quest'errore, si capisce, Hegel non cade. Egli è un conoscitore profondo-

5 G. W. F. HEGEL, Scienza della logica cit., I, pp. 36-7: « Intorno a questo metodo [della scienza], e in generale intorno a ciò che dipende- da quel carattere scientifico, che si può avere nella matematica, dissi già l'essenziale nella Prefazione alla Fenomenologia dello Spirito; ma l'argo mento sarà preso in più particolare considerazione anche dentro la logica stessa. Spinoza, Wolf ed altri si lasciaron fuorviare applicando un tal me todo anche alla filosofia, e facendo dell'andamento estrinseco, proprio della inconcettuale quantità, l'andamento del concetto, ciò ch'è in sé e per sé contraddittorio. Fino a qui la filosofia non aveva ancora trovato il suo- metodo ».

6 Quest'errore, assai diffuso, è passato — com'è noto — anche in A.. GRAMSCI, cfr. Il materialismo storico e la filosofia di B. Croce, Torino 1948, p. 138.

201?

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della storia della filosofia. E sa che, come le due res cartesiane sono entrambe " sostanze " (cioè universali), così « il più sublime

pensiero di Descartes » è « che Dio è quello // cui concetto include in sé il suo essere » (III, 179). Il senso del discorso di Hegel è, anzi,

l'opposto: la metafisica prekantiana è vera filosofia, è idealismo; il materialismo, in essa, esiste solo nella forma scientifica, cioè nel

modo di esporre o di svolgere il principio. Esiste, in una parola, solo formalmente. E, proprio perché l'errore è solo di forma, solo di forma

deve esserne anche la correzione. Su questo punto decisivo, Hegel non potrebb'essere più chiaro. L'errore della vecchia metafisica non è stato

additato da Kant, è stato additato da Jacobi! « Se Kant attaccò la vecchia metafisica più che altro dal lato della materia » o dei contenuti

(Dio, l'anima, ecc.), « Jacobi l'attaccò principalmente dal lato del suo modo di dimostrare, mettendo in rilievo nella maniera più chiara e

profonda il punto fondamentale, che cioè cotesto metodo di di-mostrazione è assolutamente stretto nel circolo della rigida necessità

del finito, e che la libertà, vale a dire il concetto, e quindi tutto ciò che veramente è, sta al di là di un tal metodo e non ne può esser raggiunto.

— Secondo il risultato kantiano — scrive Hegel — è la materia particolare della metafisica che la conduce a contraddizioni, e

l'insufficienza del conoscere consiste nella sua soggettività; secondo il risultato jacobiano invece è il metodo e tutta quanta la natura stessa del

conoscere, che afferma soltanto un nesso di condizionalità e dipendenza e si mostra quindi inadeguato a ciò che è in sé e per sé e

che costituisce assolutamente il vero. Infatti, mentre il principio della filosofia è il concetto infinito e libero e tutto il suo contenuto si basa

unicamente su quello, il metodo della finità inconcettuale non si confà a tal concetto » (III, 325-326).

La conclusione è inequivocabile. Il principio, il contenuto della vecchia metafisica va preservato e sviluppato. Si tratta, soltanto, di dare ad esso un'altra forma, di cambiare il metodo, cioè di liberare la metafisica dagli impacci che le ha finora arrecato 1'" intelletto ". Il dogmatismo non è la metafisica. Il dogmatismo è il materialismo, la scienza, il senso comune.

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,1

III. IL MATERIALISMO DIALETTICO E HEGEL

Il discorso di Hegel, che abbiamo fin qui ricostruito, ci immette nel cuore stesso del " materialismo dialettico ". L'unica variante è che, nella lettura engelsiana del testo di Hegel, il senso del discorso è, inconsapevolmente, sovvertito: non la vecchia metafisica è dogmatica perché prigioniera del finito e dell'intelletto scientifico, ma dogmatico, al contrario, è l'intelletto perché metafisico. Engels, in altre parole, prende come elemento essenziale e intrinseco al pensare metafisico quel principio di noncontraddizione che Hegel considerava, invece, impedimento alla piena esplicazione della metafisica stessa. Per Hegel la non-contraddizione era la scienza, cioè la logica del finito alla quale egli contrapponeva la logica schiettamente metafisica o dell'infinito (la dialettica idealistica). Per Engels, al contrario, la non-contraddizione scientifica è la metafisica, e la logica idealistica o metafisica è invece la logica della " scienza " nuova.

« Il vecchio metodo di indagine e di pensiero, che Hegel chiama ' metafisico ', e che si occupava prevalentemente di indagare le cose considerandole come oggetti fissi determinati [...], ebbe, a suo tempo — scrive Engels —, una grande giustificazione storica. Prima di poter indagare i processi bisognava sottoporre a indagine le cose. Prima che si potessero constatare i cambiamenti che si producono in una cosa qualunque, bisognava incominciare a sapere che cosa era questa cosa. E così fu nelle scienze naturali [cors. mio]. La vecchia metafisica, che considerava le cose come compiute in se stesse, sorse da una scienza naturale [cors. mio] che indagava le cose vive e le morte come compiute in se stesse » 1.

La critica, come si vede, è in sostanza quella stessa di Hegel;

1 F. ENGELS, L. Feuerbach cit., p. 53.

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ma con una inconsapevole confusione che ne muta tutto l'indirizzo e il colore. Per Hegel, la vecchia metafisica derivava il suo dogmatismo dall' " intelletto ", cioè dall'adozione del metodo della scienza e del senso comune (il principio di non-contraddizione); ciò che vuol dire che, nel combattere quella metafisica, Hegel non combatteva, in effetti, la metafisica stessa ma le tracce di ciò che egli propriamente intendeva per dogmatismo: il materialismo e la scienza. Per Engels, al contrario — nel quale istintivamente (e, del resto, giustamente) il termine " dogmatismo " si associa invece a quello di " metafisica " —, il discorso assume questo senso stravolto: che causa della metafisica è, nientemeno, la scienza e, quindi, che, per debellare il dogmatismo metafisico, occorre anzitutto combattere la non-contraddizione scientifica. Il risultato di questo scambio assai ingenuo (le cui conseguenze, vedremo, sono ben gravi) è che, nel ripetere il discorso di Hegel, Engels, e il " materialismo dialettico " con lui, credono di combattere l'idealismo e la metafisica, mentre si trovano a lottare, di fatto, contro il materialismo e la scienza.

« L'analisi della natura nelle sue singole parti, la ripartizione dei diversi fenomeni e degli oggetti della natura in classi determinate, l'indagine dell'interno dei corpi organici nelle loro molteplici conformazioni anatomiche sono state — scrive Engels — la condizione principale dei progressi giganteschi che nella conoscenza della natura gli ultimi quattrocento anni ci hanno portato. Ma questo metodo ci ha del pari lasciato l'abitudine di concepire le cose e i fenomeni della natura nel loro isolamento, al di fuori del loro vasto nesso d'assieme; di concepirli perciò non nel loro movimento, ma nel loro stato di quiete, non come essenzialmente mutevoli, ma come delle costanti fisse, non nella loro vita, ma nella loro morte. E poiché questa maniera di vedere le cose, come è accaduto con Bacone e con Locke, è passata dalla scienza della natura nella filosofia, essa ha prodotto la limitatezza specifica degli ultimi secoli, cioè il modo di pensare metafisico » 2.

La metafisica, dunque, ha avuto origine dalla scienza moderna, — quella scienza che, malgrado tutti i suoi apporti parziali, ha trasmesso e inoculato, essa per prima, alla filosofia, la " ristrettezza " del proprio metodo e del suo abito mentale " metafisico ". A confronto di questa scienza, Engels esalta la grandezza della filosofia greca nella quale " il pensiero dialettico si presenta an-

2 F. ENGELS, Antidiihrìng cit., p. 27.

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cora con spontanea semplicità ". « Nei Greci, proprio perché essi non erano ancora arrivati allo smembramento, all'analisi della natura, la natura viene guardata ancora come un tutto, nella sua interezza. Il nesso d'assieme dei fenomeni naturali non viene ancora dimostrato nei dettagli, è per i Greci il risultato della intuizione immediata. » In ciò sta, certamente, « la insufficienza della filosofia greca », ma sta anche « la sua superiorità nei confronti di tutti i suoi oppositori metafisici a venire »: giacché, « se la metafisica » — cioè qui: la scienza della natura — « ebbe ragione nei confronti dei Greci nei particolari, i Greci ebbero ragione nei confronti della metafisica nell'assieme » ". Pertanto, se la scienza vuol oggi convertirsi da semplice " scienza empirica " in " scienza naturale teorica ", essa " è costretta a ritornare ai Greci "4. Infatti, con il materialismo dialettico, noi siamo « oggi ritornati alla concezione dei grandi fondatori della filosofia greca, che vedevano il carattere essenziale di tutta la natura, dalle parti infime alle massime, dal granellino di sabbia al sole, dai pratisti agli uomini, in un eterno nascere e trapassare, in un incessante flusso, in un moto e in un cangiamento senza tregua » 5.

Alla base di tutto il ragionamento, c'è una filosofia della storia a tre stadi, di origine hegeliana, ma dall'andamento assai popolare. Il primo stadio ci dà un quadro del mondo, " in cui nulla rimane quel che era, dove era e come era, ma tutto si muove, si cambia, nasce e muore ". « Questa visione primitiva, ingenua ma sostanzialmente giusta del mondo è quella dell'antica filosofia greca e fu espressa chiaramente per la prima volta da Eraclito: tutto è ed anche non è, perché tutto scorre, è in continuo cambiamento, in continuo nascere e morire. » 6 A questa prima fase, che è rappresentata dalla filosofia ionica e che coglie " giustamente " il quadro d'assieme dei fenomeni dando però risalto " più al movimento, ai passaggi, ai nessi, che a ciò che si muove, passa e sta in connessione ", più alla Totalità che ai singoli particolari, Engels fa seguire una seconda fase, che è l'esatta antitesi della prima e che egli identifica con la moderna scienza della natura come si è venuta svolgendo " dalla seconda metà del sec. XV " in poi. Il compito, che questa seconda fase ha dovuto affrontare, era quello di porre rimedio ai difetti della

3 F. ENGELS, "Dialettica della natura cit., p. 41. 4 Ivi. 5 Ivi, p. 27. 6 Antidiihring cit., pp. 26-7.

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prima, cioè di approfondire l'analisi di quei particolari che la filosofia ionica aveva trascurato a esclusivo vantaggio del " quadro d'assieme " e della visione totale. Ma, poiché « per conoscere questi particolari dobbiamo enuclearli dal loro nesso naturale o storico ed esaminarli ciascuno per sé, nella sua natura, nelle sue cause, nei suoi effetti particolari, ecc. » 7, isolando la parte dal Tutto, è accaduto, dice Engels, che nell'ovviare al difetto della filosofia greca, la scienza moderna sia incorsa nell'errore opposto e ancora più grave di fermarsi alla " divisione in classi, ordini e specie " senza più cogliere la Totalità. Da qui, abbiamo visto, il carattere di metafisica della scienza moderna. Nella terza fase, infine, che è rappresentata dalla filosofia dialettica di Hegel e dal " rovesciamento materialistico " che Engels suppone di averne operato, sono restaurate e rivendicate le " ragioni dei Greci ". Il periodo dello " smembramento " e dell'analisi, aperto dalla scienza moderna e che rappresentava la negazione della Totalità originaria della filosofia ionica, è, a sua volta, negato dalla terza epoca, la quale, essendo " negazione della negazione ", segna il ristabilimento della Totalità (il " ritorno ai Greci"!), ma, questa volta, non nella sua "primitiva ingenuità ", bensì arricchita di tutte le determinazioni particolari. Nella prima fase, la visione del Tutto oscurava quella della parte; nella seconda, la visione della parte quella del Tutto; nella terza, il particolare è finalmente saputo nella Totalità.

Si potrebbe obiettare che ciò che Engels dice della scienza riguarda la scienza alla " vecchia maniera ", la scienza non-dialettica, a cui egli oppone la scienza " nuova ", compenetrata e ravvivata dalla dialettica. E si ricorderà anche che, nel Feuerbach come in molti altri luoghi, Engels avverte che, « se le scienze naturali furono fino alla fine del secolo scorso scienze prevalentemente raccoglitive, scienze di cose compiute [e, perciò, metafisica], nel nostro secolo la scienza è essenzialmente oriina-tiva, è scienza dei processi dell'origine e dell'evoluzione delle cose e del nesso che unisce tutti i processi naturali in un gran tutto » \ Senonché, non mancano seri e fondati motivi per dubitare che sia mai esistita veramente (all'infuori, s'intende, del... " materialismo dialettico " stesso) un'altra scienza diversa da quella che Engels ha criticato. La " vecchia " scienza... " racco-

7 Ivi. 8 L. Feuerbach cit., p. 54.

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glitiva " e metafisica, di cui egli qui palla, è — non dimentichiamolo — anche la scienza di Keplero, di Galilei e di Newton. La scienza " nuova ", invece, che dovrebbe contrapporsi a quella, sembra per lo più, e a Engels per primo, solo una scienza... di là da venire. E, infatti, è ben vero che egli continuamente ripete che la scienza alla " vecchia maniera " ha fatto il suo tempo, che essa cede ogni giorno di più il passo alla scienza " nuova ", filosofica e dialettica per sua propria natura; ma, « quantunque, all'ingrosso, l'identità astratta sia adesso praticamente accantonata », essa — nota Engels con una punta d'im-pazienza — « domina ancora, teoricamente, le menti »: « la massa degli scienziati è sempre ferma alle vecchie categorie metafisiche ed è assolutamente disarmata quando si devono spiegare razionalmente questi risultati moderni (che ci fanno vedere, per così dire, la dialettica nella natura) e quando essi devono esser posti in rapporto tra di loro » *.

La verità è che ciò che Engels con tanta insistenza chiedeva, poteva essergli concesso non dalla scienza ma solo da una re-staurazione acritica della vecchia " filosofia della natura " di Hegel; e che ciò che in fondo egli auspicava, era non già l'emancipazione sempre più piena della scienza (cioè dell'unica forma di conoscenza di cui disponiamo) da qualsiasi superstite ipoteca speculativa, ma l'opposto: una prevaricazione della vecchia metafisica sulla scienza o — come suona una sua espressione assai grave — l'avvento del momento in cui " la filosofia compie una vendetta postuma contro la scienza " 10.

La scienza è metafisica, perché è fondata sul principio di identità e di non-contraddizione. L'identità, a sua volta, è metafisica perché è astratta; ed è astratta, perché ci dà il finito fuori dell'infinito, l'oggetto particolare fuori della " totalità ", il " questo " ad esclusione di tutto ciò che esso non è. Le astrazioni metafisiche, cioè, non sono — si badi — le conoscenze che hanno per loro oggetto universali sovrasensibili (Dio, l'anima ecc.) o, come direbbe Kant, " quelle conoscenze che trascendono il mondo sensibile e per le quali l'esperienza non può dare in nessun modo né una guida né un controllo "; non sono le astrazioni che separano l'universale logico dal mondo dell'esperienza, facendone un apriori esistente per sé; bensì l'astrazione metafi-

9 Dialettica della natura cit., pp. 210 e 198. 10 Ivi, p. 198 (cors. mio).

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sica è quella che separa e distingue Voggetto particolare dall'uni-versale. La metafìsica, in breve, — o, come diceva Hegel, il dogmatismo — è 1' " ordinario intelletto umano ", il senso comune, cioè proprio quel punto di vista al quale, anche tradizionalmente, è ricondotto qualsiasi approccio materialistico alla realtà ".

« Il senso comune, per quanto sia un compagno tanto rispettabile finché sta nello spazio compreso tra le quattro pareti domestiche, va incontro — scrive Engels — ad avventure assolutamente sorprendenti appena si arrischia nel vasto mondo dell'indagine scientifica. » Qui, infatti, « la maniera metafisica di vedere le cose, giustificata e perfino necessaria in campi la cui estensione è più o meno vasta a seconda della natura dell'oggetto, [...] va ad urtare contro un limite, al di là del quale diventa unilaterale, limitata, astratta e si avvolge in contraddi-zioni insolubili, perché, attenendosi alle cose singole, dimentica il loro nesso, attenendosi al loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, attenendosi al loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, perché stando davanti a grandi alberi, non vede la foresta » 12.

La parte è l'astratto, la totalità il concreto. Engels ripete, come sempre, Hegel, ma senza neppure sospettare quel duplice movimento — l'idealizzarsi o vanificarsi del mondo e il realizzarsi dell'Idea — che è implicito in queste due affermazioni. Quando Hegel dice che il finito — preso a sé o separatamente dall' " altro " — è astratto, egli può dire ciò in piena coerenza con il principio della sua filosofia, cioè con l'assunto che il finito è ideale, momento interno all'Idea. « Noi chiamiamo parvenza — dice la Fenomenologia — l'essere il quale è in lui stesso immediatamente un non-essere » (Fen., I, 124). E, se il finito, il particolare, non ha l'essere in sé ma ha per sua " essenza " o fondamento 1' " altro ", è chiaro non solo che, per essere sé, il finito deve " passare " nell'infinito, cioè annullarsi, ma è chiaro

11 G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, I, p. 27: «Per intelletto ri flettente o riflessivo è da intendere in generale l'intelletto astraente e con ciò separante, che persiste nelle sue separazioni. Vòlto contro la ragione, cotesto intelletto si conduce quale ordinario intelletto umano o senso co mune, e fa valere la sua veduta che la verità riposi sulla realtà sensibile, che i pensieri sian soltanto pensieri, nel senso che solo la percezione sen sibile dia loro sostanza e realtà, e che la ragione, in quanto resta in sé e per sé, non dia fuori che sogni ».

12 F. ENGELS, Antiduhring cit., p. 28.

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anche che, preso fuori da questa sua relazione «e/Hdea e, quindi, come reale, il finito deve apparire ad Hegel " astratto ", cioè separato dalla sua " vera " essenza. Non a caso, infatti, il punto di vista di Hegel è che il materialismo è solo un'illusione, l'inganno del senso comune che scambia la " parvenza " per vera realtà.

Senonché, questo discorso che in Hegel, ripetiamo, è chiaro e coerente, in Engels diventa un semplice non-senso. Engels, che vuole essere materialista, considera " astratto " il finito fuori dall'infinito (l'oggetto esterno al pensiero) e " concreta ", invece, la totalità. Egli non vede: a) che la " totalità " hegeliana è l'infinito, la Ragione, il Logos cristiano (« oltre il sensibile come mondo dell'apparenza », dice la Fenomenologia, ecco dischiudersi « un mondo ultrasensibile come mondo vero; oltre l'ai di qua che dilegua, l'ai di là che resta », I, 125); b) che, quando Hegel dice che l'infinito " è ed è determinatamente, c'è, è presente " o che la totalità è il concreto, egli intende il pas-saggio dell'ai di là di qua, cioè l'incarnazione, l'esposizione positiva dell'assoluto.

« U ultrasensibile » — scrive Hegel nella Fenomenologia, in riferimento a questa esposizione dell'assoluto — « è il sensibile e il percepito, posti come in verità essi sono. Ma la verità del sensibile e del percepito è di essere apparenza. L'ultrasensibile è dunque apparenza come apparenza ». E subito dopo, quasi presago dei fraintendimenti dialettico-materialistici, Hegel precisa: « Se si volesse con ciò intendere che l'ultrasensibile è il mondo sensibile o il mondo com'esso è per l'immediata certezza sensibile e per la percezione, sarebbe un capire a rovescio; che anzi l'apparenza non è il mondo del sapere sensibile e del percepire come essenti, ma è quelli stessi posti però come tolti o, nella loro verità, come interni » (Fen., I, 128).

Questa incarnazione dell'ultrasensibile segna — come la Fe-nomenologia mostra con grande chiarezza — il radicale capo-volgimento del mondo del senso comune e del materialismo. Ciò che è reale per il materialismo, qui diventa " parvenza "; ciò che per esso è irreale o non-cosa (l'infinito), qui è suprema realtà. Hegel sottolinea con forza come il mondo della filosofia — cioè l'idealismo " attuato ", la realizzazione dell'Idea — sia il mondo del senso comune messo testa in già, il mondo invertito, die verkehrte Welt {Fen., I, 138). La realtà non è il mondo: è 1' " immanenza ", la transustanziazione, l'ai di là venuto di qua, l'anima

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fattasi anima mundi. « Questa infinità semplice — scrive Hegel — o il concetto assoluto è da dirsi l'essenza semplice della vita, l'anima del mondo, il sangue universale che, onnipresente, non vien turbato né interrotto da differenza alcuna e che è, anzi, tutte le differenze, nonché il loro esser-tolto; esso pulsa in sé senza muoversi, trema in sé senza essere inquieto. Questa infinità semplice è eguale a se stessa perché le differenze sono tautologiche: sono differenze che non sono differenze » (Fen., I, 143).

Ora, proprio questa verkehrte Welt, questo mondo " testa in giù " — che è la sostantificazione della ragione o " esposizione positiva dell'assoluto " — è ciò che anche Engels assume come il vero reale e l'oggettivo. L'oggetto particolare è l'astratto, la totalità il concreto. Il finito è ideale, l'infinito reale. Accolti, più o meno inconsapevolmente, questi due perni essenziali del ragionamento di Hegel, non sorprende che Engels si trovi nell'impossibilità di capovolgerne la dialettica e, quindi, di rimetterla " sui piedi ". La dialettica, dice Marx, è in Hegel testa in giù, auf dem Kopf: « bisogna rovesciarla per scoprire il nocciolo razionale [den rationellen Rem] entro il guscio mistico [in der mystischen H lille] ». La lettera di questo testo è, per noi, essenziale. Il " nocciolo razionale " è, appunto, la teoria hegeliana stessa della ragione, cioè la scoperta (che passa attraverso l'allargamento dell'eleatismo, ecc.) che la ragione è " essere " e " non essere " insieme, finito e infinito nell'i<n&ni\o, tautoeterologia o dialettica. Il " guscio mistico ", invece, è la traduzione immediata della ragione in un positivo, la sua sostan-tificazione; sostantificazione che consegue, abbiamo visto, alla tesi che essa debba essere, a un tempo e indistintamente, ragione e realtà, cioè Logos cristiano. Se questa nostra interpretazione è esatta, la rottura del " guscio mistico " e, quindi, il " raddrizzamento " della dialettica — tanto per servirci ancora di queste metafore abusate — non può consistere in altro che nel recupero del principio di identità e di non-contraddizione o, il che è lo stesso, nel recupero (nel senso che abbiamo indicato) del punto di vista materialistico. La ragione è totalità: questo è ciò che Hegel ha visto bene. Ma, poiché questa totalità è appunto solo ragione, cioè pensiero, essa deve essere, insieme, anche solo " uno dei due ", cioè totalità e, al tempo stesso, funzione o predicato di un oggetto particolare estemo ad essa.

Quale sia invece la linea interpretativa di Engels, abbiamo

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visto. Egli non intende il reale significato della " dialettica del finito " — l'idealizzarsi o vanificarsi del mondo; e, non avendo inteso l'effettiva natura di questo primo movimento, non intende, di conseguenza, neppure il significato dell'altro " passaggio " che lo integra e gli è complementare: il realizzarsi dell'Idea (che è, appunto, ciò che Hegel chiama propriamente Wirkiichkeit a differenza della Realitat). La conseguenza ne è che ciò che Engels e tutto il " materialismo dialettico " dopo di lui presentano come la forma più alta e evoluta di materialismo non è altro, in effetti, che idealismo assoluto. L' " esposizione positiva dell'assoluto " è scambiata per una forma di oggettività materialistica; la " dialettica della materia ", attraverso cui il finito si fa ideale e si annulla, è confusa con l'osservazione e la " constatazione scientifica " di processi e trasformazioni aventi luogo in forza propria e al livello della semplice fattualità.

Quanto questo " scambio " abbia pesato e influito sugli sviluppi del marxismo teorico, è mutile dire. Qui interessa accennare soltanto come esso abbia avuto ripercussioni profonde entro il campo stesso dell'interpretazione del pensiero di Hegel, ingenerandovi una serie di problemi che — pur con tutto il rispetto per i singoli interpreti — noi non possiamo fare a meno di considerare o fittizi o mal posti.

« Per quel che concerne la coscienza immediata delle cose esterne » — si legge nell'Enciclopedia — « ciò non vuol dir altro se non che si ha la coscienza sensibile. Ma l'aver noi siffatta coscienza è l'infima delle conoscenze. Ciò che importa invece è conoscere che questo sapere immediato dell'essere delle cose esterne è illusione ed errore; che nel sensibile come tale non è verità alcuna; che l'essere di queste cose estrinseche è piuttosto alcunché di accidentale, di passaggiero, un'apparenza » (Enc, § 76).

È una delle tante professioni di idealismo che abbiamo imparato a conoscere movendo direttamente dai testi di Hegel. Il suo significato non sembra che possa essere dubbio. Essa implica la negazione di qualsiasi esistenza extra-logica. Implica che " la materia non abbia verità così come apparisce fuori e prima del concetto, ma l'abbia soltanto nella sua idealità o nella sua identità col concetto ". Implica quell'identità di pensiero ed essere o " inseparabilità " del secondo dal primo che — come Hegel ha sempre visto con grande lucidità — è il principio stesso dell'idealismo: il principio comune, tanto, da una parte, a Car-

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tesio e Spinoza, quanto, dall'altra, alla sua propria filosofia e all'idealismo post-kantiano in genere. L'assunto fondamentale della filosofia di Cartesio, egli ripete, è « l'inseparabilità della rappresentazione di Dio e della sua esistenza, in modo che l'esistenza è contenuta nella rappresentazione stessa di Dio, e la rappresentazione di Dio non è senza la determinazione dell'esistenza, onde questa è necessaria e eterna ». Presso Spinoza, — aggiunge — « è del tutto lo stesso: l'essenza di Dio, cioè la rappresentazione astratta, include in sé l'esistenza. La prima definizione di Spinoza è quella della causa sui ' cuius essentìa involvit exìstentiam' [...]; — l'inseparabilità del concetto dall'essere è la determinazione fondamentale e il presupposto » (Enc., § 76).

Questo da una parte — cioè l'idealismo. Dall'altra, in Hegel abbiamo, però, anche la dialettica della materia. La Scienza della logica, ad es., ci dice che « nelle combinazioni chimiche si pre-sentano, col progressivo mutarsi dei rapporti di mistione, tali nodi e salti qualitativi, che due sostanze, in certi particolari punti della scala di mistione, formano prodotti i quali mostrano particolari qualità »: « per esempio, le combinazioni dell'ossigeno e dell'azoto danno i diversi ossidi di azoto ed acidi nitrici, che si producono solo con determinati rapporti quantitativi della mistione, ed hanno essenzialmente qualità diverse, in modo che coi rapporti di mistione intermedi non ha luogo nessuna combinazione di esistenze specifiche » (I, 448). Apriamo ora la Dialettica della natura. Ragionando del passaggio della quantità in qualità e viceversa, Engels ci avverte che « il campo nel quale tale legge della natura [!] scoperta da Hegel [!] può celebrare i suoi più grandi successi è la chimica. La chimica si può definire la scienza delle variazioni qualitative dei corpi derivanti da modificata composizione quantitativa. Lo sapeva già lo stesso Hegel. Così per l'ossigeno, se invece degli ordinari due atomi se ne uniscono tre, per formare una molecola, si ottiene l'ozono, che è una sostanza nettamente differente dall'ordinario ossigeno per odore e per azione. E che dire — egli conclude — delle differenti proporzioni nelle quali l'ossigeno si combina con l'azoto e con lo zolfo, ognuna delle quali dà luogo a una sostanza qualitativamente diversa da tutte le altre! » 13.

La " legge ", come si vede, è assolutamente la stessa; gli esempi i medesimi. È un fatto non solo che la dialettica della

13 F. ENGELS, Dialettica della natura cit., pp. 59-60.

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materia del " materialismo dialettico " è quella stessa che incontriamo nell'opera di Hegel; ma che il " salto " della quantità in qualità è qui giudicato una legge della natura non dissimile, e anzi di portata assai più generale di quella della caduta dei gravi o della gravitazione universale: una legge della natura " scoperta " da Hegel, così come Galilei e Newton avrebbero scoperto le loro.

Ci si metta ora dal punto di vista del " materialismo dialettico ", e si faccia la prova di pensare tutti in una volta i due aspetti del pensiero di Hegel che abbiamo testé esemplificato. Il risultato non può essere altro se non che nella filosofia di Hegel — pensatore dalla straordinaria coerenza interna — esiste una profonda contraddizione. Il lato dell'idealismo si vede e non si può negare; la dialettica della materia, d'altra parte, è in tutto identica a quella del " materialismo dialettico ": la conclusione obbligata non potrà essere che quella che Hegel è per metà idealista, per metà materialista; che tutta la sua filo-sofia è rotta e divisa da una profonda contraddizione; che " metodo " e " sistema " vi sono in permanente lotta tra loro. In breve, la " lettura " che di Hegel hanno dato Engels, Ple-chanov e Lenin (e il secondo e il terzo — si noti — già sull'autorità del primo) è assunta come un metro di valutazione pacifico e che non si discute; mentre la " contraddizione ", che è nel metro stesso, è tranquillamente proiettata nell'oggetto misurato. Da qui, la serie dei problemi " irreali " cui si accennava poc'anzi. La questione del materialismo di Hegel. La questione della contraddittorietà della sua filosofia. (Problemi, sia detto subito, che non restano circoscritti al campo del " materialismo dialettico " ma che si riverberano, come vedremo, anche tra gli interpreti del pensiero di Hegel non marxisti o " marxisti occidentali ".) E da qui, infine, il problema del rapporto tra il " Marx giovane " e il '' Marx vecchio ": problema — lo concediamo — affatto insolubile, ove, come pensiero di Marx, nella sua piena maturità, si intenda pacificamente quello di Engels e di tutta la tradizione del " materialismo dialettico ".

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IV. HEGEL E LA « WIDERSPIEGELUNGSTHEORIE »

Nella Prefazione del 1812 alla prima edizione della Scienza della logica, prendendo a considerare la " completa trasformazione " che " da circa venticinque anni" era avvenuta nel pensiero filosofico, Hegel rileva il discredito e l'abbandono in cui era nel frattempo caduta la metafisica. « Quello che prima si chiamava metafisica è stato, per così dire, estirpato fin dalla radice, ed è scomparso di fra le scienze. Dove si ascoltano più, o dove si possono più ascoltare le voci dell'antica ontologia, della psicologia razionale, della cosmologia, o anche della stessa teologia naturale? Dove potrebbero ormai destar interesse ri-cerche come per esempio quella sull'immaterialità dell'anima o sulle cause meccaniche e finali? Anche delle antiche prove dell'esistenza di Dio non si parla più che o semplicemente per la storia, oppure in un intento di edificazione e di elevazione spirituale. È un fatto che l'interesse, sia per il contenuto sia per la forma, sia infine per il contenuto e la forma insieme dell'antica metafisica, è andato perduto» (I, 1).

Nel richiamare questi contenuti e queste forme della "vecchia metafisica ", Hegel sa bene che essi rappresentano proprio ciò che ha costituito l'oggetto dell'analisi e della " distruzione teoretica " compiuta nella Critica della ragion pura. (È probabile, anzi, che i venticinque anni da cui egli fa datare la " completa trasformazione " siano calcolati proprio a partire dal 1787, che è l'anno della seconda edizione della Critica e del suo arricchimento con la celebre " Confutazione dell'idealismo ".) In ogni caso, il suo riferimento a Kant è esplicito. « La dottrina essoterica della filosofia kantiana, che cioè l'intelletto non possa oltrepassare l'esperienza », senza con ciò mettere al mondo altro che sogni, « ha giustificato, egli dice, dal punto di vista scientifico, la rinuncia al pensare speculativo »: con la conseguenza

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che, « mentre la scienza e l'ordinario intelletto si davano così la mano per lavorare alla distruzione della metafisica, parve prodursi il singolare spettacolo di un popolo civile senza metafisica — simile a un tempio riccamente ornato, ma privo di santuario » (I, 2).

Alla filosofia critica vennero incontro e ne propiziarono il successo — Hegel continua — « le grida della moderna pedagogica », il volgare praticismo dei tempi « che dirizza lo sguardo al bisogno immediato » e, in genere, la convinzione che « come per il conoscere è l'esperienza il primo, così per le attitudini e l'abilità nella vita pubblica e privata il considerare le cose teoreticamente riesca addirittura dannoso ». Il risultato ne è stato che « la teologia, che in altri tempi era stata la custode dei misteri speculativi e della metafisica (benché in un tal rapporto questa diventasse sua dipendente) », ha « abbandonato questa scienza in cambio dei sentimenti, in cambio dell'indirizzo pratico-popolare e dell'erudita considerazione storica »; e che « quei solitari i quali venivano sacrificati dal loro popolo e segregati dal mondo affinché vi fosse una contemplazione dell'eterno ed una vita che a quella unicamente servisse, e ciò non già per un qualsiasi utile, ma solo per la benedizione, — sparirono », lasciando il posto alla fatuità dell'ordinario intelletto umano e della filosofia dei lumi, cioè di quell'età (già qualificata sprezzantemente come der Dogmatismus der Aufklàrerei nello scritto giovanile su Fede e Sapere1) in cui — cacciate le " tenebre " della metafisica (come aggiunge ora con aspro sarcasmo Hegel) —- « sembrò che l'esistenza si fosse tramutata nel sereno mondo dei fiori, fra i quali, com'è noto, non ve ne son di neri » (I, 2).

Il vuoto aperto dalla " filosofia critica " — il tempio riccamente ornato ma senza più santuario che Hegel si accinge ora a riconsacrare presentando al pubblico la Scienza della logica — sarà colmato appunto da questa: « la scienza logica, che costituisce la vera e propria metafisica ossia la pura filosofia speculativa » (I, 4).

Sono, queste di Hegel, pagine importanti, se anche, certo, significative, e che si farebbe, però, male a giudicare in modo precipitoso. In esse è il segno — come, del resto, in tutta la sua opera — di un pensiero vigoroso e forte, dal quale emana

1 G. W. F. HEGEL, Glauben und Wissen, in Sàmtliche Werke (Glockner), voi. I, p. 284.

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il fascino che sanno sprigionare, a volte, i grandi conservatori.. Vi risuona la nota di un " organicismo " grandioso e l'inquietudine per la divisione e l'interna diaspora della " società civile " moderna e per l'utilitarismo devastatore che l'incipiente modo di vita capitalistico apporta. E tuttavia, son queste, anche pagine da giudicare con mente ferma e sobria.

L'obiettivo centrale della loro polemica è la Reflexionsphi-losophie che ha tratto vita dall'illuminismo, e — su queste* sfondo storico — Kant. Uno studioso marxista italiano, che per primo ha fermato da noi l'attenzione su queste pagine, ha osservato giustamente che, mentre Kant « è qui chiamato a rappresentare la pars destruens » nell'uscita del pensiero moderno dalla vecchia metafisica (corrispondentemente, del resto, « a quella che è stata l'efficacia diretta ed aperta del kantismo nella cultura del tempo »), è « significativo che Hegel non ne dia un giudizio di simpatia ». « Hegel — egli conclude — si presenta così apertamente come il più consapevole restitutore della metafisica » (sebbene « al culmine del recente movimento di pensiero » e, quindi, « naturalmente, al livello della trasformazione avvenuta in quegli anni » 3).

Questo giudizio è, a nostro avviso, importante. Esso è consolidato ulteriormente, nel discorso di Luporini, con il richiamo a quel celebre luogo della Sacra Famiglia, in cui Marx ragiona dell'illuminismo, della sua battaglia contro la metafisica e del ruolo che, rispetto a quest'ultima, si è assegnata invece la filosofia di Hegel. (« La metafisica del sec. XVII, che fu messa fuori combattimento dall'illuminismo francese e specialmente dal materialismo francese del sec. XVIII, ebbe la sua restaurazione vittoriosa e piena — scrive Marx — nella filosofia tedesca e specialmente nella filosofia speculativa tedesca del sec. XIX. Dopo che Hegel genialmente la ebbe unita a tutta la metafisica che c'era stata dopo di allora e all'idealismo tedesco ed ebbe fondato un regno metafisico universale, all'attacco contro la teologia fece riscontro, come nel sec. XVIII, l'attacco alla metafisica speculativa e ad ogni metafisica. Quest'ultima soccomberà definitivamente dinanzi al materialismo perfezionato dal lavoro-della stessa speculazione e coincidente con l'umanesimo.»3)

L'importanza di quel giudizio sta, a nostro avviso, nel fatto

2 C. LUPORINI, Spazio e materia in Kant, Firenze 1961, pp. 13-5. 3 K. MARX, Sacra Famiglia cit., p. 135.

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che esso è uno dei rarissimi riconoscimenti che oggi si possano incontrare, in sede di " materialismo dialettico ", del carattere metafisico del pensiero di Hegel. Esso sembra anzi rompere, a tratti, con la teoria di Engels (sviluppata, poi, soprattutto da Lukàcs), secondo la quale " dialettica " e " metafisica " sarebbero sempre termini alternativi e antitetici. Di più: nel sottolineare la grande importanza della critica kantiana dell'argomento ontologico (« quella critica è fondata, com'è noto, sulla irresolubilità dell'esistenza nel mero concetto, punto centralissimo del pensiero di Kant »), Luporini osserva giustamente che proprio « sul rigetto di tale posizione antiidealistica di Kant si basa, in ultima analisi, la restaurazione hegeliana della metafisica, che è così, come tante volte è stato osservato, una ricostruzione della teologia in forma speculativa, ancorché non più teologia di un dio trascendente e personale » i.

E tuttavia, malgrado l'acutezza delle sue considerazioni, anche questo autore finisce col riconoscere come merito precipuo di Hegel la sua concezione dell'" oggettività " — che qui è intesa, direttamente, in senso assai vicino a quello materialistico. La superiorità di Hegel su Kant è nella scoperta del " carattere essenziale e necessario della contraddizione ". Questo riconoscimento dell'oggettività della contraddizione — che, si noti, « rimarrà, nella sostanza, valida anche dal punto di vista del materialismo dialettico » 5 — è ciò che, secondo l'autore, costituisce la ragione della « continuità ideale, pur nel contrasto, in cui i fondatori del materialismo dialettico si posero con Hegel » '.

E Luporini continua: « Portatore di quella continuità è il < metodo dialettico ', passato dall'idealismo al materialismo, e nuli'altro che la oggettività della contraddizione (implicante la positività del negativo) è il nucleo operante e dinamico della moderna dialettica. La contraddizione come propria del ' contenuto delle categorie ', come propria delle cose e della ' essenza del mondo ' e quindi tale che sono le ' determinazioni intellettuali', in quanto rispecchiano [NB] o accolgono quella realtà, a porla nel ' razionale ', è la veduta in base alla quale una immensa ricchezza di contenuti reali e di positive determinazioni potè calarsi nel sistema di Hegel, così che Engels arriverà a scrivere che ' i sistemi idealistici si riempivano sempre più di

* C. LUPORINI, op. cit., pp. 71-2. 5 Ivi, p. 18. 0 Ivi.

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contenuto materialistico ' e che ' il sistema di Hegel alla fine rappresenta soltanto, per il suo metodo e per il suo contenuto, un materialismo posto idealisticamente con la testa all'ingiù ' » r.

Categorie o determinazioni intellettuali, dunque, che " rispec-chiano " la realtà: questo, da una parte. Dall'altra, tuttavia, uno Hegel che respinge la critica kantiana dell'argomento ontologico, che respinge cioè la tesi che l'esistenza non è un attributo del pensiero, non è concetto, ma è qualcosa di esterno o diverso dal pensiero stesso. Da un lato, quindi, affermazione hegeliana dell'" oggettività della contraddizione ", intesa nel senso che la ragione è poi il rispecchiamento di quest'oggettività; dall'altro lato, al contrario, affermazione hegeliana dell'idealismo, cioè negazione dell'esistenza di una realtà empirica esterna al pensiero e che debba essere " rispecchiata " da questo, — con conseguente " restaurazione della metafisica ". Da un lato, insomma, il materialismo, dall'altro l'idealismo, e tutt'e due nello stesso autore. « Quell'idealismo-materialismo, o materialismo capovolto in forma idealistica — scrive Luporini —, il quale conteneva il ' metodo rivoluzionario ' della dialettica, era stato nello stesso tempo, proprio attraverso quella sua forma sistematica e i presupposti e le implicazioni di essa, una restaurazione della metafisica. Esso conteneva sì [...] in tutto il proprio sviluppo, e nella ricchezza dei suoi contenuti, esplicitamente, quell'elemento rivoluzionario, ancorché mistificato nella forma idealistico-siste-matica. E tuttavia, appunto, era una restaurazione » 8.

È un fatto che i problemi qui sollevati non possono risolversi voltando semplicemente le spalle a Hegel. Né il senso del nostro discorso vuol essere quello di un semplice rifiuto. Se ciò che abbiamo finora detto circa l'importanza e il significato della teoria hegeliana della ragione ha un senso (e, più avanti, cercheremo di svolgere ulteriormente questo senso), è chiaro che un apporto di Hegel alla concezione dell'oggettività non può non esserci. L'oggettività, infatti, deve pur poter essere stabilita e riconosciuta da qualcuno — e questi non può essere altri che la ragione. La realtà non può essere qualcosa da apprendersi senza o facendo a meno del pensiero. Né il materialismo è una teoria della fede o del " sapere immediato ". L'essere — diceva Feuerbach stesso, che pure è quegli che più ha peccato in direzione del sensismo — « è

7 Ivi, p. 19. 8 Ivi, pp. 19-20.

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pensabile soltanto in modo mediato, cioè pensabile soltanto mediante i predicati che stabiliscono l'essenza di una cosa » 9: il che vuol dire, certamente, che l'oggettività non può essere l'immediato della sensazione, ma è ciò, per stabilire e riconoscere il quale, occorre, vedremo, il criterio della ragione, cioè la mediazione e, quindi, senza alcun dubbio, la deduzione stessa.

Senonché, un conto è riconoscere questo, cioè l'apporto della teoria hegeliana della ragione come momento indispensabile per la determinazione dell'oggettività, un altro conto è credere che l'oggettività, così come è in Hegel, cioè 1'" esposizione positiva -dell'assoluto ", sia l'oggettività stessa del " rispecchiamento " materialistico. È tanto vero, del resto, che qui vi è contraddizione, che Lukàcs, che è il maggiore assertore, in sede di " materialismo dialettico ", della continuità immediata tra Hegel e il marxismo, mentre non ricorda neppure una volta la tesi di Marx circa la restaurazione hegeliana della metafisica, afferma •esplicitamente ciò che invece Luporini sembra dire solo in forma velata: e cioè che Hegel ha praticato, di fatto, la " teoria del rispecchiamento ", la Widerspìegelungstheorie, o, il che è lo stesso, che egli è stato un seguace della gnoseologia materialistica! Dopo aver ricordato, in termini che qui conviene non richiamare, quello che sarebbe stato il modo di concepire il " criterio della verità " da parte di Kant, Lukàcs così prosegue: « L'idealismo oggettivo doveva necessariamente cercare altri criteri. Schelling li trova nel rinnovamento della dottrina platonica delle idee: la corrispondenza con le idee ha da essere il criterio della verità, non essendo altro gli enunciati filosofici, le creazioni artistiche ecc. che rispecchiamenti di queste idee nella coscienza umana. Qui abbiamo a che fare con un materialismo misticamente capovolto, con una mistificazione dell'essenza della realtà oggettiva in idee platoniche ». Invece, « la logica dialettica he-geliana va sotto ogni rispetto molto al di là dei suoi predecessori ». Essa « mostra, da un lato, che le cose apparentemente rigide sono in realtà processi, e d'altra parte concepisce l'oggettività degli oggetti come prodotti dell" alienazione ' del soggetto. ■ [...] Ora la concezione degli oggetti come 'alienazioni' dello spirito dà a Hegel la possibilità — nella considerazione gnoseologica della realtà empirica — di applicare puramente, senza confessarlo, la teoria del rispecchiamento. Egli può con-

9 L. FEUERBACH, Princìpi della filosofia dell'avvenire cit., p. 109.

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frontare ogni pensiero con la realtà oggettiva che gli corrisponde — e l'esattezza del criterio della corrispondenza con la realtà oggettiva non viene meno nei singoli casi —, benché questa realtà non sia concepita come effettivamente indipendente dalla coscienza, ma come un prodotto dell" alienazione ' di un soggetto che è superiore alla coscienza individuale. E poiché il processo dell' ' alienazione ' è dialettico, Hegel si spinge a volte, in questa applicazione non voluta e inconsapevole di criteri materialistici della giusta conoscenza, anche più in là degli stessi vecchi materialisti » ,0.

Il discorso è un monumento alla consequenzialità! La filosofia di Schelling è un " materialismo misticamente capovolto ": il titolo, come si vede, è tolto questa volta a Hegel per essere attribuito invece a Schelling e al platonismo in genere (il quale è un " materialismo capovolto " allo stesso modo, si potrebbe dire, che è un " platonismo capovolto " il materialismo). Hegel, d'altra parte, che concepisce gli oggetti come prodotti dell'alienazione del soggetto, cioè come oggetti dipendenti e creati dal pensiero, abbraccia, proprio in forza di questa su9 concezione, la teoria materialistica del " rispecchiamento ", cioè quella teoria secondo la quale è il pensiero che dipende dagli oggetti ed è il giudizio che si studia di corrispondere alle cose. Infine, se nei singoli casi, cioè nell'elaborazione dei particolari interni al sistema, « la dialettica hegeliana ha un enorme vantaggio sulle altre forme di gnoseologia dell'idealismo classico tedesco » perché « essa può lavorare, per amplissimi tratti della conoscenza umana, con una gnoseologia — anche se non legittimamente dedotta —■ fondata sul rispecchiamento della realtà »; invece, quando esce dai particolari per tirare le somme, cioè per abbracciare il sistema o « la totalità della conoscenza, Hegel può risolvere la questione del criterio gnoseologico, la questione a che cosa, con che cosa deve corrispondere l'oggetto conosciuto per essere riconosciuto come vero, solo in modo altrettanto mistico e mistificato dei suoi predecessori » ", cioè con lo stesso " platonismo " di Schelling 12.

10 G. LUKÀCS, II giovane Hegel cit., pp. 740-41 (cors. mio). 11 Ivi, p. 742. 12 Questa interpretazione del pensiero di Hegel, in chiave di teoria

materialistica del " rispecchiamento ", ricorre anche nell'opera di G. LUKÀCS intitolata Prolegomeni a un'estetica marxista, trad. it., Roma 1957. A pp. 70-71, ad esempio, riferendosi alla teoria hegeliana del sillogismo,

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È lo stesso punto di vista, in fondo, che abbiamo ritrovato anche in Lenin. Si celebra la " dialettica della materia " di Hegel, convinti ch'essa sia del materialismo genuino; si scarta, invece, " il buon Dio, l'assoluto, l'Idea pura, ecc. ", quasi che

Lukacs scrive: « Si tratta di nessi reali nella realtà, nella natura e nella società che nella logica ricevono il loro più astratto rispecchiamento, corrispondente tuttavia tendenzialmente alla realtà. Né è decisivo il fatto che la teoria della conoscenza in Hegel non si basi sul punto di vista della teoria del rispecchiamento; la sua logica aspira obiettivamente purtuttavia ad un tale rispecchiamento della realtà oggettiva ». A p. 67, l'autore afferma che « il grande progresso nella logica che il metodo di Hegel comporta », sta nella « priorità del contenuto rispetto alla forma ». D'altra parte — Lukacs prosegue —, in Hegel è da riconoscere, « al tempo stesso, anche una esagerata tensione idealistica dell'obbiettività ». « Hegel dice, polemizzando con la logica dell'intelletto metafisico e soggettivo, ' che noi non formiamo affatto i concetti e che il concetto in generale non è affatto da considerare come qualcosa di nato ' (Enc, § 163, Zusatz 2.) La dialettica materialistica — continua Lukacs — nella quale l'oggettività è garantita dal rispecchiamento della realtà che esiste e si muove indipendentemente, può naturalmente considerare i problemi dell'oggettività in maniera assai più elastica e dialettica di Hegel stesso, il quale — poiché l'oggettività per lui è presente soltanto nell'atmosfera del pensiero, dello ' spirito ' —- spesso viene indotto ad una certa rigidità per poter evitare — appoggiandosi in qualche modo al platonismo -— una ricaduta nell'idealismo soggettivo » (pp. 67-68). Questa confusione (appena mascherata dalla forma involuta) tra l'oggettività, come oggettività di " essenze intelligibili " (nel senso dell'ontologia prekantiana), e l'oggettività nel senso del molteplice empirico-materiale, è la nota che contrassegna tutto il discorso interpretativo di Lukacs. D'altra parte, che cosa egli intenda per metafisica, si può ricavare anche dalle poche righe citate. La metafisica è, per Lukacs, " la logica dell'intelletto metafisico " e, in primo luogo, l'Analitica di Kant! In questo senso è di estremo interesse il riferimento al citato § 163 dell'Enciclopedia. Hegel vi polemizza contro il problema centrale della Critica: il problema dell'origine e della formazione delle nostre conoscenze. Si tratta, com'è noto, del problema critico per eccellenza. Esso presuppone, da una parte, il rifiuto di assumere conoscenze (concetti) " già date ", l'innatismo; dall'altra, presuppone la distinzione di essere e pensiero, di esistenza e concetto (che, se si assumesse invece l'identità di pensiero ed essere, il pro-blema di come essi si incontrino e di come, da questo incontro, nasca la conoscenza, non si potrebbe ovviamente neppure porre). Ora, anche in questo caso, è significativo che, salvo una lieve riserva, Lukacs si schieri con Hegel contro Kant. E dire che, come risulta chiaramente dal testo, Hegel polemizza, nel citato paragrafo dell'Enciclopedia, proprio con quel tanto di materialismo che è presente, seppure larvatamente, nell'impianto della Critica. « È errato — scrive Hegel — assumere che prima vi siano gli oggetti, i quali costituiscono il contenuto delle nostre rappresentazioni e che poi sopraggiunga la nostra attività soggettiva, la quale, attraverso la già menzionata operazione dell'astrarre e del sintetizzare ciò che è comune agli oggetti stessi, costruisca i loro concetti. Il concetto, piuttosto, è veramente il primo, e le cose sono ciò che sono mediante l'attività dei concetto che abita in esse e che in esse si manifesta [des ihnen innewohnenden und in ihnen sich ofenbarenden Begriffs]. Nella nostra coscienza religiosa — Hegel prosegue — ciò s'incontra, quando diciamo che Dio ha creato il mondo dal

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tutto ciò fosse solo un " coperchio " senza relazione con la prima, e come se teologia e idealismo costituissero poco più che degli incidenti nella carriera filosofica di Hegel. A pensarci bene, il meccanismo è semplice. Si saluta nell'idealismo hegeliano ciò che si è imparato prima dal " materialismo dialettico " (sorpresi di ritrovare in Hegel proprio tutto ciò che si è già appreso da Engels, e senza mai dare il giusto peso al fatto che quest'ultimo ha trascritto dal primo). Constatata poi questa identità di vedute, si trae la conclusione che la filosofia di Hegel contenga svolgimenti materialistici in contraddizione con i princìpi del sistema, addossando così a Hegel l'incoerenza radicale di aver prodotto una filosofia che è un " idealismo-materialismo ". Ciò che, al contrario, non si considera mai — sebbene, in via di principio, quest'eventualità sia altrettanto ragionevole della prima — è l'ipotesi opposta: l'ipotesi, cioè, che Hegel sia un idealista assolutamente coerente, e il " materialismo dialettico " invece un idealismo ignaro di sé.

Si potrebbe obiettare che, a rendere in parte superflua questa nostra critica, è la critica, assai più efficace, che nel frattempo hanno esercitato le cose stesse. Sopravvissuto per molti decenni

nulla o, con altre parole, che il mondo e le cose finite sono uscite dalla pienezza dei pensieri divini e delle divine deliberazioni. Con il dire ciò si riconosce che il pensiero, e più precisamente il concetto, è la forma infinita o la libera attività creatrice, cui non occorre una materia esistente fuori di lei, per realizzarsi. » È, evidentemente, in relazione a questi testi di Hegel, che Lukàcs parla di un suo... " appoggiarsi al platonismo ". Come egli, però, possa contemporaneamente affermare che, in Hegel, si dà " una priorità del contenuto rispetto alla forma ", è, almeno per noi, assolutamente misterioso. È ancora da rilevare che, sempre nei Prolegomeni (p. 85), Lukàcs accenna ai processi di ipostatizzazione, cioè alla sostantificazione della ragione o " esposizione positiva dell'assoluto ", ma solo in forma episodica e senza cavarne alcun costrutto. Egli cita una breve annotazione di Lenin a commento della Metafisica di Aristotele, cfr. I. LENIN, Quaderni filosofici cit., p. 356: « Idealismo originario: l'universale (il concetto, l'idea) è un ente particolare ». Senonché, mentre Lenin fa propria, in questo passo, la critica di Aristotele alla dottrina platonica delle idee, estendendola ad Hegel, Lukàcs crede (e ciò va rilevato per sottolineare la disinvoltura della sua lettura) che la critica di Lenin sia rivolta proprio ad Aristotele! Quanto, del resto, tutto il testo lukacciano sia intessuto di contraddizioni, il lettore può rilevarlo anche da questo esempio. A p. 68, Lukàcs attribuisce ad Hegel una concezione del " singolare " come " fondamento " e sostrato del giudizio. A p. 100, invece, trattando della dialettica della " certezza sensibile " nel primo capitolo della Fenomenologia, Lukàcs accoglie la critica di Feuerbach a questo capitolo, rilevando che, per Hegel, « il singolare è ' il non vero, il non razionale, ciò che è puramente opinato ' », e che « nella sua Critica della filosofia di Hegel Feuerbach protesta con piena ragione contro questo svilimento della singolarità »!

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soltanto come una " filosofia di Stato ", il " materialismo dialettico " è ormai tanto in là nel suo declino che ogni giorno diventa più difficile riconoscerne i seguaci. E tuttavia, poiché nulla è mai semplice, si deve dire che certe sue tesi tengono tuttora il campo, seppure con altro nome e sotto mutate vesti. Filosofie, che col " materialismo dialettico " nulla hanno da dividere, ne dividono tuttavia l'essenziale del giudizio su Hegel; così che, se si volesse indugiare a discorrere di politica culturale, si potrebbe anche dire che — passate in queste nuove mani — quelle tesi possono finalmente adempiere, con piena efficacia, al vero e proprio ufficio loro, che è quello di surrogare e contraffare, come che sia, il pensiero di Marx.

Tipico è, in questo senso, il caso di Kojève e Marcuse. Ad essi, beninteso, della " dialettica della materia " non importa assolutamente nulla. E tuttavia, o perché suggestionati dall'autorità che sempre emana dalle filosofie " ufficiali ", o perché posseduti, com'è più verosimile, dal gusto incontenibile della "civetteria ", essi non solo interpretano, a volte, la dialettica delle cose o del finito, che trovano in Hegel, come una forma di vero e proprio materialismo, ma vi scoprono, persino, la " teoria del rispecchiamento "! Per Hegel, « ogni filosofia — scrive Kojève — rivela o descrive correttamente una svolta o un punto d'arresto [...] della dialettica reale, della Bewegung o 'movimento ' dell'Essere esistente; e, come tale, è in un certo senso ' vera '. Ma è tale solo relativamente o temporaneamente: rimane ' vera ' finché una nuova filosofia, anch'essa ' vera ', non sopravvenga a dimostrarne la ' erroneità '. Solo, non è una filosofia che si trasformi essa stessa o da sé in un'altra o che la generi in e con un movimento dialettico autonomo: lo stesso Reale corrispondente a una filosofia data diviene effettivamente altro da qual era [...], e, a sua volta, quest'altro Reale genera un'altra filosofia adeguata, la quale, in quanto ' vera ', sostituisce la prima divenuta ' falsa '. Così — continua Kojève —- il processo dialettico della storia della filosofia [...] è solo un riflesso, una ' sovrastruttura ', del movimento dialettico della storia reale del Reale » ". « In Hegel — egli conclude — c'è una Dialettica reale »; « il metodo filosofico è una semplice descrizione, la quale è dialettica solo nel senso che descrive una dialettica della realtà » ".

', A. KOJÈVE, La dialettica e l'idea della morte in Hegel cit., pp. 54-5. 14 Ivi, p. 57.

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E veniamo ora a Marcuse. Tutto il suo discorso sembra at-traversato da un'indecisione fondamentale. Marcuse non sa decidere se egli debba fare di Hegel un idealista o un materialista. E, incapace di scegliere entro questa alternativa, egli ci propone tranquillamente nelle pagine dispari il contrario di ciò che ha affermato nelle pari.

Hegel è tendenzialmente un materialista. « Il suo ' panlogismo ' — dice Marcuse — coincide quasi con il suo opposto: si potrebbe dire che Hegel ricava i princìpi e le forme del pensiero dai princìpi e dalle forme della realtà, così che le leggi logiche riproducono [reproduce] quelle che governano il movimento della realtà. » IO In questo senso, « il processo del pensiero riproduce il processo dell'essere »; « l'interrelazione e la dinamica dei concetti riproducono il processo concreto della realtà » 16. La straordinaria diversità tra la Logica hegeliana e la logica tradizionale — continua Marcuse — è stata spesso sottolineata con l'affermazione secondo cui Hegel « ha sostituito alla logica formale una logica materiale »: « le categorie e i modi di essere del pensiero derivano dal processo della realtà a cui essi si riferiscono. La loro forma è determinata [determirted'] dalla struttura di questo processo » 17. « Il metodo filosofico che Hegel elaborò intendeva riflettere il processo della realtà in atto e in-terpretarlo in una forma adeguata. » 1S « Il movimento delle categorie nella logica hegeliana riflette [is but a reflection] il movimento dell'essere. » "

D'altra parte, come anche sappiamo, Hegel non è un materialista, ne è anzi l'antitesi più risoluta. Per lui, afferma Marcuse, « ogni cosa esiste, più o meno, come ' soggetto ' » 2°. « Per questa ragione il pensiero è più ' reale ' dei suoi oggetti. » 21 « L'oggetto riceve la sua oggettività dal soggetto. Il 'reale' [...] è un universale che non può essere ridotto a elementi oggettivi indipendenti dal soggetto; esso, in un certo senso, ' appartiene ' al soggetto. Quest'ultimo scopre di stare ' alla base ' degli oggetti e che il mondo diventa reale solo in

15 H. MARCUSE, Ragione e rivoluzione, Bologna 1966, p. 43. , p. 84.

p 144. , p. 145. p. 155. p. 83.

p. 93.

15. Colletti 225

Ivi Ivi 18 ivi !" Ivi 20 Ivi 21 Ivi

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virtù della forza comprensiva della coscienza. »22 « L'oggetto non è di per sé; è in quanto io lo conosco. » 2S « L'oggettività della cosa è costituita dallo stesso soggetto. »2J « Al di là dell'apparenza delle cose vi è il soggetto stesso, il quale costituisce la loro vera essenza. »25 « Il senso comune e il pensiero scientifico tradizionale — prosegue Marcuse — considerano il mondo come una totalità di cose esistenti più o meno di per sé, e cercano la verità in oggetti indipendenti dal soggetto conoscente. » 26 Per Hegel, invece, « il pensiero consiste nel sapere che il mondo oggettivo è in realtà un mondo soggettivo, l'oggettivazione del soggetto » 27. Per lui, « il concetto è 1" essenza ' e la ' natura ' delle cose » 2S.

La ragione di queste oscillazioni — che conducono il nostro autore, a pag. 167, ad affermare che « l'essere oggettivo, se compreso nella sua vera forma, deve essere compreso come essere soggettivo » e a pag. 168, invece, a scrivere che « il pensiero è vero solo fintanto che rimane adapted al concreto movimento delle cose e ne segue da vicino i vari passaggi » — sarà da cercare, senza alcun dubbio, nella noia e nel fastidio che temperamenti, come quello del Marcuse, debbono provare per il discorso logico definito e coerente. E tuttavia, un ulteriore motivo di queste oscillazioni dev'essere sicuramente ricercato anche nella suggestione esercitata su di lui dal " materialismo dialettico ". Quando Marcuse s'imbatte in quella pagina della Scienza della logica, che abbiamo sopra riportato, e nella quale Hegel afferma che " l'essere delle cose è costituito* dal non essere " e che " l'ora della loro nascita è l'ora della loro morte ", è chiaro che la sua lettura, in questo caso, è fortemente condizionata dalla tradizione interpretativa inaugurata dall''Antidùhrìng. « Queste frasi » — è il commento di Marcuse — « costituiscono il preannuncio dei passaggi decisivi in cui Marx in seguito rivoluzionò il pensiero occidentale. Il concetto hegeliano di finitudine permise al pensiero filosofico di avvicinarsi alla realtà liberandolo dalle fortissime influenze religiose e teologiche che agivano anche sul pensiero laico del diciottesimo secolo. Allora la comune interpre-

22 Ivi, p. 115. 23 Ivi, p. 126. 24 Ivi, p. 129. 25 Ivi, p. 132. 26 Ivi, p. 134. 27 Ivi, p. 140. 28 Ivi, p. 151.

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tazione idealistica della realtà continuava a concepire il mondo come finito in quanto si trattava di un mondo creato, e la sua negatività era messa in rapporto con il peccato. L'opposizione a questa interpretazione del ' negativo ' fu dunque in gran parte un'opposizione alla religione e alla chiesa. L'idea hegeliana di negatività non era né morale né religiosa, e il concetto di finitudine che la esprimeva divenne con Hegel un principio critico e quasi materialistico [a criticai and almost materidistic~\. Il mondo, diceva Hegel, è finito non perché creato da Dio ma perché la finitudine è la sua qualità intrinseca » 29.

Non staremo a osservare che, per sostenere questa sua inter-pretazione, Marcuse deve amputare, appena due pagine dopo, la celebre definizione hegeliana dell'idealismo, che egli pure riporta (« La proposizione che il finito è ideale costituisce l'idealismo. L'idealismo della filosofia consiste soltanto in questo, nel non riconoscere il finito come un vero essere »), censurandone proprio la parte che smentisce direttamente la sua fantasiosa ricostruzione della lotta ingaggiata dall'ateo Hegel contro l'illuminismo superstizioso e bacchettone (« La filosofia è idealismo com'è idealismo la religione. Perché nemmeno la religione riconosce la finità come un vero essere, come un che di ultimo ed assoluto, o come un che di non posto, d'increato, di eterno »)30.

29 Ivi, p. 160. 30 È da rilevare che una distorsione, quasi altrettanto profonda, dell'at

teggiamento di Hegel verso la religione, è anche nel Giovane Hegel cit., di Lukàcs. La linea dell'argomentazione lukacciana può dare, in questo caso, un'idea delle forzature di cui è intessuta tutta l'opera. Lukàcs fa mostra di accogliere, in vari luoghi, la tesi di Feuerbach circa il rapporto teo logia-filosofia in Hegel (tesi, d'altra, parte, che corrisponde perfettamente al rapporto che Hegel stesso istituisce tra religione e filosofia: si cfr., a questo riguardo, il saggio su Hegel, assai ricco di riferimenti testuali, di K. LOWITH, La onto-teo-logica di Hegel e il problema della totalità del mondo, in « De Homine », n. 2-3, settembre 1962, pp. 18-66). A p. 721, ad esempio, Lukàcs scrive: « Il succo della critica di Feuerbach, che cioè la filosofia hegeliana toglie la teologia cristiana e poi la ripristina, investe i momenti essenziali della terza parte della Fenomenologia ». A p. 722, que sto giudizio è ribadito nei seguenti termini: « La filosofia è, anche in Hegel, critica nei confronti della religione; essa è anche in lui una critica della religione. Ma questa critica non deve — come nel materialista Feuerbach — smascherare l'interna falsità di tutto il mondo delle rappresentazioni reli giose, e ricondurre i rapporti contenuti in forma deformata nella religione a ciò che sono realmente. La critica hegeliana della religione è piuttosto una conservazione, un eternamento di tutti i contenuti della religione, con una semplice critica del loro modo di manifestarsi, del loro carattere di rappresentazione. Naturalmente, come vedremo, anche questa critica tra passa nel contenuto e implica quindi una certa qual sconfessione anche dei

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Qui interessa rilevare soltanto, a conclusione di questo capitolo, che la convinzione che la " dialettica della materia ", in Hegel, sia un effettivo materialismo, è tanto forte da imporsi anche presso quegli interpreti, come Marcuse, che né sono ma-contenuti religiosi, ma la sua linea fondamentale è tuttavia, come ha giustamente sottolineato Feuerbach, una restaurazione della religione e della teologia ». Precedentemente, a p. 717, e sempre su questa linea, Lukàcs aveva osservato, trattando della Fenomenologia, che « qui l'importanza dell'illuminismo viene ridotta e la funzione della religione nello sviluppo della coscienza dell'umanità viene posta decisamente al centro ». Senonché, tutte queste ammissioni e riconoscimenti sembrano fatti propri da Lukàcs — si direbbe — proprio nell'intento di " digerirli " e di ristabilire, loro malgrado, il punto di vista antitetico. A p. 732, ad esempio, Lukàcs rileva che « la forma hegeliana di rinnovamento idealistico della religione, il suo modo di lasciar sfociare la filosofia idealistica nella religione e nella teologia » — essendo " oggettivistico " — « non si pone affatto in contrasto con la conoscenza della realtà oggettiva: anzi, il valore della religione per Hegel consiste proprio nel fatto che in essa si manifestano, per quanto in forma inadeguata, le categorie supreme, oggettive della dialettica, che essa costituisce il penultimo gradino alla conoscenza adeguata della realtà oggettiva »; dove è appena il caso di rilevare come la confusione, già sopra analizzata, tra l'oggettività materialistica e l'oggettività delle " essenze ideali " consenta a Lukàcs di prospettare tutta la questione in una luce assai positiva. A p. 734, « la duplicità e ambiguità della filosofia della religione hegeliana » — che, naturalmente, non è affatto ambigua di per sé ma solo nella versione di Lukàcs — è addossata... all'illuminismo e, sia pure, all'illuminismo tedesco, oltreché, s'intuisce, a Kant. A p. 735, le distanze tra Kant e Hegel, a questo riguardo, sembrano per un momento ristabilite (« Queste differenze importano, in Hegel, un'ambiguità ancora maggiore, in questo campo, che non in Kant. La filosofia della religione kantiana è, malgrado tutte le riserve, la filosofia di un deismo illuministico »). Ma, come subito si vede, la posizione è rapidamente capovolta. Richiamata infatti l'influenza del panteismo spinoziano (ma, sia detto tra parentesi, Hegel non considera che la filosofia di Spinoza sia panteismo, bensì acosmismo), Lukàcs scrive: « Questo panteismo dà agli idealisti tedeschi la possibilità di rappresentare la realtà oggettiva (natura e società) in senso scientifico, e cioè come dominata dalle proprie leggi immanenti, di respingere nettamente ogni aldilà [...]. L'ambiguità ineliminabile dell'idealismo classico tedesco e in particolare di Hegel consiste in ciò che essi cercano, qui, di conciliare l'inconciliabile, che negano che il mondo sia creato e mosso da Dio e vogliono tuttavia salvare le rappresentazioni religiose ricollegate ad esso » (p. 736). Vorremmo che il lettore si provasse a contare quante volte, nelle righe di Lukàcs citate in questa nota, ricorra la parola ambiguità; e che egli si domandasse se sia lecito scrivere di storia del pensiero usando e abusando di questa categoria: introdotta la quale, certo, ogni operazione diventa legittima. Chi ritenga, poi, che debba essere proprio l'interpretazione materialistico-storica a comportare procedimenti così " spregiudicati ", nei quali si chiama costantemente in causa la " coscienza particolare " del filosofo (o, per meglio dire, la sua buona fede), dovrebbe rileggere il passo del giovane Marx su Hegel e sugli hegeliani di sinistra, citato nella prima parte di questo saggio al capitolo Engels e Hegel. Quanto, infine, alla tesi che " l'idealismo classico tedesco e in particolare Hegel " abbiano sempre negato " che il mondo sia creato e mosso da Dio ", va rilevato che i testi, che possono smentire

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terialisti né hanno per il materialismo propensione alcuna. Osser-vazione, quest'ultima, che ci deve indurre a rassodare con ulteriori argomenti la nostra tesi.

Lukacs e Marcuse, sono a disposizione di tutti coloro che vogliano leggerli; e che, lasciando pure da parte le Lezioni sulla religione, basta aprire la Scienza della logica per leggervi: « Questo regno è la verità, com'essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimer così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com'egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito » (I, 32). È caratteristico, d'altra parte, come Lowith ha ricordato (art. cit., p. 20), « che Hegel raccomandasse lo studio della sua lezione berlinese del 1829 sulle prove dell'esistenza di Dio come integrazione della contemporanea lezione sulla logica, e che il suo ultimo corso del 1831 abbia avuto per tema la prova ontologica ».

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V. HEGEL E LO SCETTICISMO

La dialettica hegeliana della materia è, nella sua parte critico-negativa, la dialettica stessa dello scetticismo antico. Di fronte all'opposizione, reciprocamente esclusiva, del principio dello stoi-cismo e di quello epicureo, « di contro » — dice Hegel nelle Lezioni sulla storia della filosofia — « a questi princìpi unilaterali, il loro medio negativo è ora il concetto, che supera questi estremi fissi della determinazione, e, mentre essi sono soltanto in quanto opposti, li mette in movimento e li dissolve ». Appunto « questo movimento del concetto, questa restaurazione della dialettica — contro i princìpi unilaterali del pensiero astratto e della sensazione [che sono, rispettivamente, il principio della Stoa e di Epicuro] — li vediamo apparire, dapprima in forma soltanto negativa, in parte nella nuova Accademia 1, in parte negli Scettici» (SF, II, 481).

Il senso del discorso di Hegel è già tutto in queste prime enunciazioni. Il merito dello scetticismo o pirronismo è di aver restaurato la dialettica; l'importanza della dialettica sta nel fatto che — nel mettere in relazione tra loro quelle determinazioni materiali o finite che 1' " intelletto " invece distingue e separa — essa le rende mobili, fluide, instabili, dissolvendo così la certezza sensibile nell'esistenza delle cose esteriori. Il senso comune e la filosofia " dogmatica ", dice Hegel, credono nell'esistenza di ciò che è; essi, ad esempio, si attentano a dire: " questo è giallo ". Ora lo scetticismo, con i suoi " tropi ", cioè con le sue " guise

1 Circa l'identificazione, compiuta da Hegel in polemica con Schulze, delle posizioni della cosiddetta " nuova Accademia " (Cameade, in partico-lare) con il pirronismo di Sesto, cfr. G. DELLA VOLPE, Logica come scienza positiva cit., pp. 107-108. In proposito, si veda anche l'ottima trattazione di tutto 0 problema in N. MERKER, Le orìgini della logica hegeliana, Milano 1961, pp. 185 sgg.

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determinate del contrapporre ", mostra che di quella cosa si può dire tanto questo quanto il contrario. E, poiché quei tropi « si indirizzano contro ciò che noi chiamiamo fede volgare nella verità immediata delle cose, e la confutano » (SF, II, 521), si può dire che anche quelli più rozzi tra loro, come sono i tropi più antichi, risultano « opportunissimi per combattere il dogmatismo del volgare buon senso, il quale dice senz'altro: ' la tal cosa è così, perché è così ' », pago del fatto che egli « lo trae dall'esperienza » (SF, II, 532).

L'importanza, quindi, dello scetticismo antico è che esso annienta la materia dialettizzandola; e che, nel dissolvere le cose e tutto il mondo finito, annienta, con ciò stesso, le determinazioni dell' " intelletto ", ossia tutte le proposizioni e affermazioni determinate (cioè fondate sul principio di non-contraddizione) a cui il pensiero si costringe finché ritiene di esser legato e vincolato all'esistenza di dati di fatto reali. Senza dubbio, « l'antico scetticismo — dice Hegel — è unicamente la soggettività del sapere: questa però si fonda nel processo del pensiero, che annichila per mezzo di uno sviluppo tutto ciò che passa per vero e per sussistente, di modo che tutto sia instabile » (SF, II, 506).

Pertanto, « la natura generale dello scetticismo sta in questo »: che, col « dileguarsi di tutto l'oggettivo, di ciò che è tenuto per vero [...], di ogni determinazione, di ogni affermativo (SF, II, 515), esso opera una liberazione dell'autocoscienza dalla schiavitù del materialismo, cioè dalla schiavitù di dover ammettere che la coscienza non è tutto ma esistono cose fuori di lei. Quando " questo punto fermo scompare ", quando l'autocoscienza " perde il suo sostegno e la sua quiete ", che consistono nel tenersi stretta alle cose, essa, dice Hegel, " viene spinta nell'inquietudine ", prova " angoscia " e " timore ". Ma « l'autocoscienza scettica è per l'appunto la soggettiva liberazione da ogni verità di questo essere oggettivo e dal fatto di porre la sua essenza in alcunché di simile; la scepsi adunque ha lo scopo di superare questa servitù incosciente, cui è vincolata l'autocoscienza naturale, di ritornare alla sua semplicità, e, in quanto il pensiero si fissa saldamente in un contenuto, di sanarlo » e distoglierlo da questa sua fissazione (SF, II, 516).

Il peso e il significato che questo rapporto con lo scetticismo ha nel quadro dell'opera di Hegel, è assai rilevante — anche se, a dire il vero, esso non sempre è stato osservato. Lukacs, ad esempio, nella sua opera sul Giovane Hegel, afferma, col tono

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di chi dica cosa pacifica, che, sebbene « Schelling metta una volta la dialettica in stretto rapporto con lo scetticismo », « in Hegel non si determina alcuno scetticismo » \ Da queste sue parole, parrebbe che la questione di un qualsiasi rapporto tra la dialettica di Hegel e lo scetticismo non possa neppure porsi. In realtà, i testi dicono tutt'altro. Oltre al fondamentale scritto giovanile sul Rapporto dello scetticismo con la filosofia (del quale Lukàcs, peraltro, non parla mai) e oltre al capitolo della Stona della filosofia, di cui ci stiamo occupando, e che è sostanzialmente modellato su di esso, il discorso sullo scetticismo ritorna in una serie di luoghi capitali. Nei capoversi, ad esempio, della Fenomenologìa, che trattano di questa filosofia, Hegel dice che, con lo scetticismo, « il pensiero diventa pensare perfetto che annienta l'essere del mondo molteplicemente determinato ». Lo scetticismo — aggiunge — è « l'atteggiamento polemico contro l'indipendenza delle cose »; esso « fa dileguare l'oggettività come tale » (Fen., I, 180-82). Gli stessi " elenchi " sofistici, che possono ben considerarsi un'anticipazione dei " tropi " dello scetticismo, come, ad es., gli elenchi del " Calvo ", del " Mucchio " ecc., sono ripresi e valorizzati, come " prove " del passaggio della quantità in qualità e viceversa, nel primo libro della Scienza della logica, dove Hegel dice che questi " rigiri " non sono « un trastullo vuoto e pedantesco, ma sono-in sé giusti e testimoniano di una coscienza la quale prende interesse ai fenomeni che si verificano nel pensiero » (I, 406-407). Infine, per non parlare di molti altri luoghi, il rapporto con lo scetticismo ha un ruolo decisivo nel primo capitolo s della Feno-

2 G. LUKÀCS, Il giovane Hegel cit., p. 738. 3 Cfr. anche J. HYPPOLITE, Genèse et structure de la Phénoménologìe

de l'Esprit de Hegel, Paris 1946, p. 84. Hyppolite rileva che « la critique que Hegel présente de cette certitude sensible est largement inspirée de la philosophie grecque », e che « on ne peut pas ne pas ètre frappé des ressemblences entre cette première dialectique de la Phénoménologìe, et celle des anciens philosophes grecs •— Parmenide ou Zénon [...] ». Ma, malgrado questi riferimenti (già sviluppati, del resto, con grande ampiezza, da W. PURPUS, Die Dialektik der sinnlichen Gewissheit bei Hegel, Ntìrnberg 1905), Hyppolite non realizza veramente il senso di questo capitolo decisivo della Fenomenologia, disperdendo il suo commento in una serie di annota zioni più o meno casuali. L'esempio migliore di questa incomprensione, da parte di Hyppolite, del senso del discorso di Hegel è che, mentre in questi la " dialettica della certezza sensibile " ha come scopo la distruzione del finito e di tutte le cose, Hyppolite conclude che « désormais nous n'avons plus affaire à un maintenant, ou à un ici, uniques et ineflables, mais à un maintenant ou à un ici qui ont la médiation en eux-mèmes, qui sont des choses [cors. mio] ayant en elles à la fois l'unite de Funiversalité et la multiplicité des termes singuliers » (p. 98).

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menologia sulla " certezza sensibile "; capitolo che, a suo tempo, noi abbiamo già analizzato, e il contenuto del quale è interamente tolto dalla scepsi antica. Le considerazioni, infatti, che Hegel vi svolge sul " Qui ", suU' " Ora ", ecc., sono le considerazioni stesse degli scettici sulle determinazioni temporali, che troviamo citate nella Storia della filosofia: « oggi è sì l'oggi, ma è un oggi anche domani ecc.; ora è giorno, ma anche quando è notte è ora, ecc. » (SF, II, 507). Quanto, del resto, sia grande il peso che Hegel attribuisce allo scetticismo antico, può desumersi anche dalla contrapposizione, che egli istituisce, tra di esso e lo scetticismo moderno. « Lo scetticismo dell'Hume » — è detto nel § 39 dell'Enciclopedia — è « da ben distinguere dallo scetticismo greco. Quello dell'Hume pone a fondamento la verità dell'empirico, del sentimento, dell'intuizione; e, movendo da essa, combatte i princìpi e le leggi generali, per la ragione che non si giustificano mediante la percezione sensibile. L'antico scetticismo [invece] era così lontano dal considerare il sentimento e l'intuizione come principio di verità, che anzi si rivolgeva, in prima linea, contro il sensibile ». Questa considerazione è ripresa anche nella seconda Aggiunta al § 81. Lo scetticismo antico, Hegel vi dice, non ha nulla a che vedere con quello recente. Mentre quest'ultimo infatti — che « in parte anticipa la filosofia critica, in parte è scaturito da essa » —• consiste « semplicemente in questo, che si nega la verità e la certezza del sovrasensibile, per affermare, al contrario, il sensibile e quel che è presente nella sensazione immediata, come ciò a cui noi dobbiamo tenerci », lo scetticismo antico, invece, ha piena coscienza della " nullità di ogni finito " {der Nichtigkeit alles Endlichen).

Nella Storia della filosofia, infine, la semplice constatazione di questa differenza è integrata da un esplicito apprezzamento e da un eloquente giudizio di valore. Premesso infatti, ancora una volta, che « bisogna distinguere lo scetticismo antico dal recente », Hegel precisa che solo il primo « è di natura verace e profonda, mentre il recente in fondo è puro epicureismo », cioè sensismo, empirismo, in ultima analisi: materialismo. Schulze ed altri, egli scrive, « pongono per principio che si deve ritener per vero l'essere sensibile, ciò che ci dà la coscienza sensibile, e dubitare invece di tutto il resto [...]. Lo scetticismo moderno — egli prosegue — si volge soltanto contro il pensiero, il concetto, l'idea, quindi contro ciò che v'è di più alto nella filosofia; accetta con

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ciò come assolutamente indubitabile la realtà delle cose, e solo afferma che da esse non si può inferir nulla per il pensiero. Ma questa — conclude Hegel — è una filosofia indegna perfino di contadini, perché questi sanno benissimo che tutte le cose terrene sono passeggiere, e che, quindi, tanto vale il loro essere quanto il loro non essere » (SF, II, 505).

Questa contrapposizione dei due scetticismi non significa, ov-viamente, che Hegel non abbia obiezioni da muovere anche allo scetticismo antico. Significa soltanto — e questa differenza, però, è di enorme peso — che, mentre nei riguardi dello scetticismo moderno Hegel si colloca in un atteggiamento di totale rifiuto, allo stesso modo, del resto, che verso il senso comune, l'empirismo e il materialismo; nei confronti dell'altro, invece, egli riconosce e afferma l'esistenza di un rapporto necessario e organico con la filosofia " vera " o idealismo. A differenza, infatti, di quello recente, lo scetticismo antico non combatte l'Idea o la Filosofia, bensì VUnphilosophie, cioè il " dogmatismo " del senso comune e dell' " ordinario intelletto umano ". Il contenuto dei suoi tropi — dice Hegel nello scritto giovanile — « mostra quanto essi siano lontani da ogni tendenza contraria alla filosofia e come siano invece orientati esclusivamente contro il dogmatismo del comune intelletto umano; non uno solo di essi riguarda la ragione e la sua conoscenza, tutti riguardano invece solo il finito e la conoscenza del finito, l'intelletto » \ Questo orientamento basta, da solo, a conferire allo scetticismo greco una sua funzione e un ruolo precisi. Infatti, « per quanto questi tropi » — come accade soprattutto nei più antichi — « possano apparire triviali e volgari, è certamente ancor più triviale e volgare la realtà dei cosiddetti oggetti esteriori, il sapere immediato, quando io dico per es.: ' questo è giallo '. Non si può affatto interloquire in cose filosofiche — esclama Hegel — allorché a modo dei novizi s'afferma la realtà di siffatte determinazioni ». E il merito di codesto scetticismo è, appunto, che esso « era però per sua essenza tutt'altro che disposto a considerar vere le cose della certezza immediata »: anzi, proprio « contro la realtà delle cose » (SF, II, 552), indirizzava tutti i suoi strali. Ora, questa funzione annientatrice della materia è appunto ciò, secondo Hegel, che pone in rapporto organico tra loro scet-

4 G. W. F. HEGEL, Verhaltniss des Skepticismus zur Philosophie cit., p. 242.

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ticismo e filosofia. Più precisamente — egli dice — il loro rapporto è questo: « che il primo è la dialettica d'ogni determinato. Di ogni rappresentazione del vero si può dimostrare la finitezza, giacché essa contiene in se stessa una negazione, quindi una contraddizione. Quello che comunemente vien chiamato universale, infinito, non si sottrae a questa sorte; infatti l'universale, che si contrappone al particolare, l'indeterminato, che si contrappone al determinato e l'infinito, che si contrappone al finito, non sono che un lato, quindi soltanto un che di determinato. Lo scetticismo si volge adunque contro il pensiero intellettualistico, che fa delle differenze determinate un ultimo, un essere. Invece il concetto logico è esso medesimo questa dialettica dello scetticismo: infatti questa negatività, insita nello scetticismo, è necessaria anch'essa alla vera conoscenza dell'idea » (SF, II, 503-504).

In altre parole, ciò che collega lo scetticismo antico alla filosofia speculativa o idealismo e fa sì che esso faccia tutt'uno con ogni vera filosofia (mit jeder wahren Philosophie der Skepti-cismus selbst auf's innigste Ein ist5) o possa essere considerato come l'introduzione e " il primo grado " di essa 6, è la comune presenza, in entrambi, della dialettica della materia o del finito. « Infatti l'additare la contraddizione nel finito è — dice Hegel — un punto essenziale del metodo filosofico speculativo » (SF, II, 542).

Ciò che quindi è importante comprendere è che ogni " vera " filosofia contiene in sé lo scetticismo, per la stessa ragione per cui essa « ha necessariamente in sé, a un tempo, anche un lato negativo, rivolto contro tutto ciò che è limitato [...], contro l'intero campo della finità ». « Qual più completo e autosufficiente documento e sistema dell'autentico scetticismo — si domanda Hegel — potremmo noi trovare che il Parmenide nella filosofia platonica? » — quel Parmenide « che abbraccia e distrugge [zerstort] l'intero ambito del conoscere intellettuale [durch Ver-standesbegriffe] ». Questo « scetticismo platonico — egli incalza — non si limita a dubitare delle verità dell'intelletto [...], bensì si spinge fino alla completa negazione di qualsiasi verità di una siffatta conoscenza » 7.

Quanto ora allo scetticismo vero e proprio, l'opera essenziale che esso compie, e che fa da iniziazione alla filosofia, è presto

5 Ivi, p. 229. 6 Ivi, p. 243. 7 Ivi, p. 230.

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detta. Dinanzi all'opposizione dei princìpi dello stoicismo e di Epicuro, di contro alla separazione per cui, da una parte, è l'uni-versale, cioè il pensiero astratto o l'infinito e, dall'altra, il finito o l'essere sensibile, inteso come un'entità esterna e indipendente dal primo, lo scetticismo dialettizza questi " estremi fissi della determinazione ", cioè li pone in relazione tra loro, così da "ravvivarli " e metterli in movimento, fino a che — trapassando l'uno nell'altro — essi infine non si dissolvano.

Il senso comune e la " filosofia dogmatica " credono che la tal cosa è così e non altrimenti? Ebbene, lo scetticismo prende quel finito e lo congiunge all'infinito, assume la singola cosa e, insieme, tutto ciò che essa non è, prende tanto l'oggetto particolare quanto l'opposto. Il risultato ne è che, mentre l'infinito non è più " uno dei due " ma diventa vero infinito, cioè unità di sé e dell' " altro ", il finito, essendo preso con e nell'infinito, scompare, cioè perde la sua " rigidità " e si fa " instabile ": vale a dire, non è più " questo " ma " tanto questo che quello ", non è più oggetto esterno o reale ma solo oggetto pensato, non è più essere ma pensiero esso stesso.

Senonché, e qui appunto è il suo limite, lo scetticismo non svolge fino in fondo questa dialettica della materia. « Nello scetticismo — dice Hegel — troviamo bensì il superamento delle due unilateralità finora considerate, ma questo negativo rimane soltanto negativo, e non sa assurgere a nulla di affermativo » (SF, II, 482). « Lo scetticismo — aggiunge egli poco oltre — non trae alcun risultato, vale a dire non esprime la sua negazione come un che di positivo » (SF, II, 548). Il suo merito — abbiamo visto — è di essere la « soggettività stessa del sapere », cioè di riscattare l'autocoscienza da qualsiasi servitù verso la realtà esteriore. Solo che, se, per questo verso, si può ben dire che, nello scetticismo, « lo spirito perviene ad approfondirsi in se stesso come il pensante, e nella coscienza della sua infinità si intende come l'ultimo » (SF, II, 548), per un altro esso ha il torto di non capire che questo estremo fortilizio in cui si riduce non è la semplice coscienza accidentale dell'individuo empirico ma è il principio e il fondamento di tutta la realtà. « Nello scetticismo — dice Hegel — vediamo che la ragione è andata tanto oltre che è scomparso per l'autocoscienza tutto l'oggettivo [...]. L'abisso dell'autocoscienza del pensiero puro ha tutto inghiottito, rendendo perfettamente puro il terreno del pensiero » (SF, II, 547). Senonché, compiuta questa grande opera, pervenuto alla liberazione

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della Ragione da qualsiasi condizionamento esterno, lo scetticismo fa di quest'unità della coscienza « alcunché di completamente vuoto, che può venir veramente riempito da qualsivoglia contenuto » (SF, II, 548): senza vedere che, come quell'opera di distruzione e di annientamento si compie tirando il finito dentro all'infinito, così il rovescio di questa negazione è, al tempo stesso, il dilatarsi dell'infinito a vero infinito, il suo rapportarsi all' " altro " e, quindi, il suo uscire da sé verso l'esistenza terrena. L' " idea speculativa ", precisa Hegel, « non è un finito, un determinato, non ha l'unilateralità propria della proposizione: ha invece in lei l'assolutamente negativo, è rotonda in se stessa, contiene in lei questo determinato e il suo opposto nella loro idealità ». Ma, « in quanto questa idea, come unità di codesti opposti, è essa stessa un'idea determinata verso l'esterno, [...] si pone di bel nuovo in unità col determinato opposto » (SF, II, 544), cioè con quel finito dall'avere incluso il quale entro di sé essa è risultata; ma non per farlo valere di per se stesso, bensì per farne il corpo e il mezzo della sua propria incarnazione o " esposizione " terrena.

Lo scetticismo, in breve, ha il torto di non esprimere la sua negazione come un che di positivo; onde — avendo dissolto tutto nella Ragione e, quindi, in quel " concetto logico " che " è esso medesimo la dialettica dello scetticismo " — è poi incapace di convertire questo negativo in un positivo, il logico nell'ontologico, cioè di affermare che la Ragione è, ovvero che l'infinito, il Concetto " è ed è determinatamente, c'è, è presente ". E poiché questo ripudio, questa vanificazione del mondo non diventa mai, nello scetticismo, l'epifania di Dio, lo scetticismo stesso si scopre solo come una parte o il " primo grado " della filosofia, ma non come la vera filosofia tutt'intera. Giacché se, come abbiamo visto, si può ben dire che la filosofia, in quanto ha un lato negativo rivolto contro tutto il finito, ha lo scetticismo entro di sé, è pur vero che essa contiene lo scetticismo solo come il concavo di un convesso, e che lo scetticismo è esso stesso, nella filosofia, « il lato negativo della conoscenza dell'assoluto », cioè quel lato che « presuppone immediatamente la ragione come il lato positivo » s. Il che significa che, mentre lo scetticismo si limita ad additare la contraddizione nel finito, lo " scetticismo platonico " e, con esso, ogni " vera " filosofia, riconosce che « il non essere del finito è

8 Varhàltniss des Skepticìstnus zur Philosophie cit., pp. 230-31.

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l'essere dell'assoluto », ovvero che — proprio « perché il finito è l'opposizione contraddicentesi in se stessa, perché esso non è — per questo l'assoluto è » (II, 74).

La dialettica della materia o distruzione del finito è, quindi, la vera iniziazione alla filosofia. Non si filosofa senza la coscienza che il mondo è caducità e disvalore. Ma, nella vera filosofia, questo scetticismo contro tutto ciò ch'è terreno è solo la preparazione alla beatitudine suprema. L'uno non sta senza l'altra. « Perciò, dice Hegel, malgrado il "Parmenide platonico si mostri solo dal lato negativo, Ficino ad esempio riconosce assai bene che chi si volge al sacro studio di esso, deve preliminarmente prepararsi con la purificazione dell'animo e la libertà dello spirito, prima che egli osi attingere ai misteri della sacra opera » 9.

Lasciamo Hegel e volgiamoci ad uno dei suoi interpreti. Ciò che in Platone, in Ficino e in Hegel (naturalmente, con differenze tecniche e storiche che qui nessuno si sogna di cancellare) è negazione del mondo e affermazione di Dio, nelle mani di Marcuse diventa una... teoria della rivoluzione. L'" intelletto ", cioè il senso comune e la scienza, che si tengono alle cose e ai dati di fatto reali, sono il positivismo e il mondo della sicurezza borghesi; sono il conformismo e la conservazione; rappresentano quella " falsa " e " tranquilla " coscienza, che si tiene stretta agli oggetti, ben sapendo che, se " questo punto fermo scompare ", essa è " spinta nell'inquietudine ", è costretta all' " angoscia " e al " timore ".La Ragione, viceversa, che nega che esistano cose fuori del pensiero e afferma che le cose sono veramente " reali " quando non sono più cose ma pensieri, la Ragione è la distruzione dell'ordine costituito. L' " intelletto " è il pensiero positivo, il pensiero che riconosce la realtà esistente; la Ragione, al contrario, che annulla il mondo... nell'Idea, è il pensiero negativo. L'Intelletto è la Reazione, la Ragione è Rivoluzione. « Il pensiero dialettico — dice Marcuse — è negativo di per se stesso. La sua funzione consiste nell'abbattere la sicurezza e la soddisfazione di sé proprie del senso comune, nell'indebolire la sinistra fiducia nel potere e nel linguaggio dei fatti, nel dimostrare che la mancanza di libertà è così intrinseca alle cose che lo sviluppo delle loro contraddizioni interne conduce necessariamente a un mutamento

9 Ivi, p. 231.

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qualitativo: il crollo catastrofico dello stato di cose stabilito » 10. La colpa di tutto, come al solito, è del principio di non-con-

traddizione. I fatti pretendono d'essere se stessi e nient'altro. Essi si rifiutano di accogliere l'opposto. Al contrario, « la funzione liberatrice della negazione propria del pensiero filosofico dipende — dice Marcuse — dal riconoscimento del fatto che la negazione è un atto positivo: ciò che è rifiuta ciò che non è, e con ciò rifiuta le sue vere possibilità. Di conseguenza, esprimere e definire ciò che è nei suoi stessi termini significa svisare e falsificare la realtà. La realtà è qualcosa di diverso da ciò che è codificato nella logica e nel linguaggio dei fatti; essa trascende questi limiti. È questo l'intimo legame tra il pensiero dialettico e il tentativo della letteratura d'avanguardia: lo sforzo di superare il potere dei fatti sul mondo, di parlare un linguaggio che non sia il linguaggio di coloro che stabiliscono i fatti, impongono l'obbedienza ad essi e ne traggono profitto » 11.

Come in Hegel la materia, così qui il gran nemico sono i fatti, i dati stessi dell'esperienza reale. « Questo potere dei fatti — ammonisce Marcuse — è un potere di opprimere. » 12 E, come la scepsi antica era, per Hegel, il " primo grado " della filosofia perché era la liberazione dell'autocoscienza dalla " servitù " di dover ammettere che esistono cose fuori di noi; così, per Marcuse, « il pensiero dialettico ha inizio con la constatazione che il mondo non è libero ». Il « principio della dialettica — egli scrive — porta il pensiero al di là dei confini della filosofìa. Comprendere la realtà, infatti, significa comprendere ciò che le cose sono, e ciò, a sua volta, comporta la non accettazione della loro apparenza come dati di fatto. La non accettazione, la rivolta, costituisce il processo del pensiero così come dell'azione » ".

11 cattivo genio, che ha incarnato invece il principio della con servazione, è Hume. « Se si accettava la filosofia di Hume », si accettavano i fatti; e, se si accettavano i fatti, « doveva di con seguenza essere respinta la pretesa della ragione di organizzare la realtà », cioè di rivoluzionare il mondo, di distruggere le cose. Bene ha fatto quindi Hegel a criticare e respingere il pensiero di Hume. La filosofia di questi « confinava l'uomo entro i limiti del ' dato ', entro l'esistente ordine di cose e avvenimenti ». « Le

,0 H. MARCUSE, Ragione e rivoluzione cit., p. 9. " Ivi, p. 10. 12 Ivi, p. 15. " Ivi, pp. 8-9.

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conseguenze non consistevano solo nello scetticismo, ma anche nel conformismo. » 14

Quanto poi a Kant, egli stesso è prigioniero del più vieto empirismo. « Kant adottò la concezione degli empiristi secondo cui ogni conoscenza umana inizia e termina con l'esperienza »; per lui, « solo l'esperienza fornisce il materiale per i princìpi della ragione ». « Non vi è affermazione più recisamente empiristica di quella che apre la sua Critica della ragion pura: ' Ogni pensiero, in ultima analisi, deve essere direttamente o indirettamente in rapporto con le intuizioni, e pertanto, in noi, con la sensibilità, poiché non vi è altro modo in cui un oggetto possa venire da noi conosciuto '. »15 Al contrario, « il concetto hegeliano di ragione ha un carattere chiaramente critico e polemico » 16 contro tutta la realtà. La filosofia di Hegel — prosegue Marcuse — è " una filosofia negativa ". « Essa originò dalla convinzione che i dati di fatto che appaiono al senso comune come indice positivo della verità sono in realtà la negazione della verità, così che la verità può essere raggiunta solo attraverso la loro distruzione. » 17

Formidabile esempio di eterogenesi dei fini! Il vecchio disprezzo spiritualistico per il finito e il mondo terreno risorge, con Marcuse, come filosofia della rivoluzione o, per meglio dire, ...della " rivolta ". Non si lotta contro determinati istituti storico-sociali — che so io? il " profitto ", la " rendita ", il " monopolio " o, magari, la " burocrazia socialista ": si lotta contro gli oggetti e le cose. Siamo schiacciati dal potere oppressivo dei fatti. Soffochiamo nella " schiavitù " di riconoscere che vi sono cose fuori di noi. « Elles sont là, grotesques, tétues, géantes et [...] je suis au milieu des Choses, les innomables. Seul, sans mots, sans défenses, elles m'environnent, sous moi, derrière moi, au-dessus de moi. Elles n'exigent rìen, elles ne s'imposent pas: elles sont là. » 1S Di fronte a questo spettacolo delle cose, l'indi-gnazione ci prende alla gola e diventa Nausea. Si fa presto a dire: le radici di un albero! « J'étais assis, un peu voùté, la tète basse, seul en face de cette masse noire et noueuse, entièrement brute et qui me faisait peur. » Ecco l'assurdità che grida vendetta al cielo: « ces masses monstrueuses et molles, en désordre — nues,

14 Ivi, p. 37. 15 Ivi, p. 38. "■ Ivi, p. 28. " Ivi, p. 44. '" J. P. SARTRE, La nausee, Paris 1963, p. 177.

16. Colletti 241

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d'une effrayante et obscène nuditi. » 19 L'assurdità non è che Roquentin porti a spasso per i giardini pubblici la sua povera débauché da piccolo borghese, console Daladier o addirittura Lavai: l'assurdo sono le radici dell'albero. « L'absurdité, ce n'était pas une idée dans ma téte, ni un soufflé de voix, mais ce long serpent mort à mes pieds, ce serpent de bois. Serpent ou griffe ou racine ou serre de vautour, peu importe. "Et sans rien formuler nettement, je comprenais que j'avais trouvé la clef de l'Existence, la clef de mes Nausées, de ma propre vie. »20

La rivoluzione, dunque, non come rivolgimento e trasformazione dei rapporti sociali, ma come annientamento della materia e distruzione delle cose. Nella concezione originaria di Hegel, sappiamo quale fosse la funzione e il significato di questa " di-struzione ": il mondo era vanificato per far posto alPimmanen-tizzazione di Dio; il finito era " idealizzato ", perché il Logos cristiano potesse incarnarsi e l'infinito passare dall'ai di là di qua. Nel caso di Marcuse invece, smarrito interamente il significato di ciò che Hegel intendeva come " secolarizzazione del cristianesimo ", quel che resta della vecchia teologia è solo la volontà nichilistica della distruzione del mondo.

La Rivoluzione è l'annientamento delle cose. Il Manifesto che la proclama è negli scritti giovanili di Hegel: è il richiamo, palesemente schellinghiano e romantico, alla " Notte " e al " Nulla ", contenuto nello scritto giovanile sulla Differenz21. « Nei suoi primi scritti filosofici — rileva Marcuse —, Hegel sottolinea intenzionalmente la funzione negativa della ragione: il suo distruggere il mondo stabile e sicuro del senso comune e dell'intelletto. L'assoluto viene descritto come ' la Notte ' e ' il nulla ' in contrapposizione con gli oggetti chiaramente definiti della vita di tutti i giorni. Ragione significa ' assoluto annientamento ' del mondo del senso comune, poiché, come abbiamo detto, la lotta contro il senso comune segna l'inizio del pensiero speculativo, e la perdita della sicurezza della vita comune le origini della filosofia. » 23

19 Ivi, p. 180. 20 Ivi, p. 182. 21 G. W. F. HEGEL, Differenz des Fichteschen und Schellingschen Sy

stems der Philosophie, in Sàmtliche Werke cit., I, p. 49: « Das Absolute ist die Nacht [...]; — das Nichts das Erste, woraus alles Seyn, alle Mannigfaltigkeit des Endlichen hervorgegangen ist ». E p. 50: « ...die Re- flexion vernichtet insofern sich selbst und alles Seyn und Beschrankte, indem sie es aufs Absolute bezieht ».

22 H. MARCUSE, Ragione e rivoluzione cit., p. 67.

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La rivoluzione, insomma, è la distruzione scettica del senso comune e della sua fiducia " dogmatica " nell'esistenza del mondo. « Il primo principio della ragione » — afferma Marcuse richiamando esplicitamente lo scritto sul Rapporto dello scetticismo conia filosofia — « consiste nel non accettare l'autorità della realtà di fatto, in quello scetticismo che Hegel chiama ' la parte libera ' di ogni vera filosofia. »23

D'altra parte, la ripresa del pirronismo nel primo capitolo della Fenomenologia dello Spirito (la dialettica del " Qui " e dell'" Ora ") e tutto il corso dei capitoli successivi è anche considerato da Marcuse — secondo una consuetudine interpretativa di cui più avanti varrà la pena di indicare le origini — come l'anticipazione e il nucleo stesso del discorso di Marx sul " feticismo " e la " reificazione " connessi alla produzione capitalistica delle merci. « Le prime tre sezioni della Fenomenologia sono una critica al positivismo e, anche maggiormente, alla ' reificazione ' [...]. Ci serviamo — precisa Marcuse — del termine 'reificazione ' proprio della teoria marxista, in cui esso denota il fatto che tutte le relazioni tra gli uomini nel mondo capitalista appaiono come relazioni tra cose », in quanto « Hegel accenna a questo stesso fatto nell'ambito della filosofia. » « Il senso comune e il pensiero scientifico tradizionale considerano il mondo come una totalità di cose esistenti più o meno di per sé, e cercano la verità in oggetti considerati indipendenti dal soggetto conoscente. Questa posizione è di più di un semplice orientamento epistemo-logico; penetra in ogni attività umana e porta gli uomini ad accettare il sentimento di essere sicuri solo quando conoscono fatti oggettivi e agiscono su di essi. » 24

La conclusione è inequivocabile. Il " feticismo " e la " reifi-cazione " sono un prodotto del senso comune e del pensiero scien-tifico " tradizionale ". La fabbrica dei " feticci " non è nel capitalismo, è nelle opere di Bacone e Galilei.

Il nostro excursus su Marcuse è concluso. Nella misura in cui il suo discorso ha un senso, esso ci ripropone l'antitesi hegeliana tra " intelletto " e " ragione ", tra " dogmatismo " e filosofia, tra materialismo e idealismo. Per Hegel, scrive Marcuse, « la distinzione tra intelletto e ragione è la stessa che passa tra senso comune e speculazione filosofica, tra la riflessione non dialettica e la conoscenza dialettica. I processi dell'intelletto — egli con-

23 Ivi, p. 65. 24 Ivi, pp. 134-35.

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elude — seguono il tipo di pensiero comune, che prevale nella vita quotidiana così come nel mondo della scienza » 25.

Questa antitesi, abbiamo visto, è anche il cuore e il nucleo del cosiddetto " materialismo dialettico ". La sola variante, in questo caso, è che, identificando il dogmatismo nel senso in cui ne parla Hegel (e cioè il dogmatismo nel senso del principio materialistico di non-contraddizione) con la metafisica (che è, invece, il dogmatismo nel senso che a questa parola attribuisce la tradizione materialistica), Engels è costretto a concludere imputando l'origine della metafisica alla scienza e al senso comune stesso, cioè al modo di pensare della " vita quotidiana ".

Il capitolo che tratta dello scetticismo nelle Lezioni sulla storia della filosofia è stato annotato e commentato da Lenin nei suoi Quaderni filosofici. Delle due annotazioni, che a questo proposito meritano di essere rilevate, la prima riguarda la considerazione di Hegel secondo cui i « tropi scettici colpiscono in pieno quella che si chiama filosofia dogmatica, non perché abbia un contenuto positivo, ma perché afferma come assoluto alcunché di determinato» (SF, II, 540).

Il senso di quest'affermazione è stato da noi già ampiamente illustrato. Lo scetticismo, dice Hegel, liquida il dogmatismo dell' " intelletto "; 1' " intelletto " è dogmatico perché rende il finito assoluto. Il significato di questo termine è quello stesso etimologico: solutus ab..., sciolto da condizionamenti, a sé stante, quindi incondizionato e indipendente. Il concetto " razionale ", ad es., è detto da Hegel il concetto assoluto o Idea speculativa, perché, a differenza dell'" intelletto ", la " ragione ", contenendo 1'" altro " entro di sé, è l'Idea libera da qualsiasi condizionamento esteriore, l'Idea " rotonda in se stessa ", l'Idea indipendente e che sussiste per sé. Questo significato è esplicito, tra gli infiniti altri luoghi, nella chiusa del § 60 dell'Enciclopedia: « lì principio della indipendenza della ragione, della sua assoluta indipendenza in sé, è da considerare, da ora in poi, come principio universale della filosofia ».

Nello stesso senso e allo stesso modo, quando Hegel dice che 1'" intelletto " fa del finito un assoluto, egli intende che l'intelletto assume il finito come indipendente e esterno all'infinito,

25 Ivi, p. 63.

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ovvero che esso concepisce l'essere empirico-sensibile come un essere positivo, a sé stante, non creato e non " posto " dal pensiero.

Ora, l'annotazione di Lenin al passo sopracitato, dove Hegel è palesemente in polemica col materialismo, è questa: « Hegel contro l'assoluto! Qui abbiamo un embrione di materialismo dialettico » M. È chiaro che i Quaderni filosofici sono quello che sono: appunti e rapide annotazioni prese nel vivo della lettura, senza ripensamenti e senza tornarci su. E tuttavia, per quello che vale, la prima annotazione dimostra una singolare abitudine e attitudine del " materialista dialettico " a ritenere che il dogmatismo sia il pensare determinato. Attitudine — è appena il caso di ricordarlo — che ha alle spalle la famosa considerazione del-V Antiduhring che, per il modo di pensare " metafisico ", idesl dogmatico, o " cosiddetto senso comune ", « una cosa esiste o non esiste » ed « è impossibile che una cosa nello stesso tempo sia se stessa ed un'altra »27.

La seconda annotazione, che riguarda Kant, è non meno in-soddisfacente. Lenin trascrive a margine, con segno di palese consenso, l'affermazione di Hegel che " il criticismo è il peg-gior dogmatismo " (« Per il criticismo, che in generale non conosce alcun in sé, alcun assoluto, — dice Hegel — ogni sapere dell'essere in sé passa come tale per dogmatismo, mentre esso medesimo è il peggiore dei dogmatismi », SF, II, 540). Vero è che il passo di Hegel continua, dopo la parte da noi trascritta, chiamando in causa la teoria kantiana della " cosa in sé ". Ma, come avviene del resto nel corso di tutti i Quaderni, sembra che Lenin sappia vedere solo quest'aspetto del pensiero di Kant, come se la Critica non contenesse altro. La stessa posizione — elementare ma, certamente, più ragionevole — da lui assunta vari anni prima all'inizio del cap. IV (La critica del kantismo da sinistra e da destra) di Materialismo ed empiriocriticismo (« La principale caratteristica della filosofia di Kant è la conciliazione del materialismo con l'idealismo, un compromesso fra l'uno e l'altro... Quando ammette che alle nostre rappresentazioni corrisponde qualcosa fuori di noi, una certa cosa in sé, Kant è un materialista. Quando dichiara questa cosa in sé inconoscibile... si comporta come un idealista »; e ancora: « In quanto Kant riconosce nel-

-*• W. I. LENIN, Quaderni filosofici cit., p. 304. 27 F. ENGELS, Antiduhring cit., pp. 27-8.

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l'esperienza e nelle sensazioni la sorgente unica [del contenuto] delle nostre conoscenze orienta la sua filosofia verso il sensismo e..., in determinate condizioni, verso il materialismo »28), questa stessa posizione — dicevamo — è interamente abbandonata nei Quaderni dove Lenin è sempre, o quasi sempre, d'accordo con Hegel contro Kant.

Ricordare i giudizi di Engels (o di Plechanov) su Hume e Kant è inutile, tanto essi sono noti29. Hume e Kant vi rappresentano, in genere, la parte peggiore —- l'agnosticismo, lo scetticismo, l'idealismo, ecc. In Lukàcs, infine, questa tendenza — che in Engels e in Lenin, almeno, ha l'attenuante del carattere non " professionale " della loro opera e della loro attività " filosofica " — si disfrena al di là dello stesso buon senso e di qualsiasi misura. Kant è all'origine di ogni errore. Meglio della sua filosofia è tutto, — persino « il tentativo di un rinnovamento dialettico della dottrina platonica delle idee » compiuto da Schellingso. Anche « questo oggettivismo idealistico significa un progresso rispetto a Kant ». Infatti, « questa svolta dà a Schelling la possibilità di proclamare nuovamente la conoscibilità delle cose in sé sul terreno di un idealismo oggettivo e perciò sono presenti nella sua opera — nonostante tutto il misticismo irrazionalistico — anche tendenze alia obbiettività, ad ammettere la conoscibilità del mondo esterno che vanno molto oltre Kant »31.

Diciamo subito che l'accusa di " ritorno a Kant ", che even-tualmente fosse mossa, ci lascia del tutto indifferenti. Noi stiamo parlando della Critica della ragion pura e non della Pratica, Ne stiamo inoltre parlando in una situazione in cui tutto il quadro del marxismo filosofico tradizionale è andato in pezzi. Ora, il fatto che ci interessa è che qui è in giuoco un problema decisivo. Che significa " dogmatismo "? Che è " metafisica "? C'è una " critica " o una scepsi che sia salutare?

28 W. I. LENIN, Materialismo ed empiriocriticismo, Roma 1953, p. 183. 29 Per l'importanza attribuita a Hume dalla moderna filosofia della

scienza, cfr. L. GEYMONAT, Storia del pensiero filosofico, III, Milano 1956, p. 321, il quale oppone il concetto di " razionalità " di Hume a quello della tradizione metafisica e, in particolare, di Spinoza e di Hegel.

30 G. LUKACS, Prolegomeni a un'estetica marxista, Roma 1957, p. 35 31 Ivi, p. 36.

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VI. SCEPSI VERSO LA MATERIA E SCEPSI VERSO LA RAGIONE

L'alternativa, a questo riguardo, è semplice: o si assume che siano dati oggetti reali da conoscere, o, altrimenti, deve risultare " già " data (" innata ") la conoscenza, il sapere stesso. In Hegel questa alternativa è assolutamente chiara: la negazione di ogni presupposto reale del pensiero, che compie lo scetticismo antico, costituisce il " lato negativo " che ogni " vera " filosofia ha in sé; ma questo lato negativo « presuppone immediatamente la Ragione come il lato positivo [setzt unmittelbar die Vernunft ah die positive Sette voraus] ». La Ragione come un positivo: cioè come un'entità a se i-tante, indipendente, quindi esistente come un oggetto particolare, — non categoria o funzione di un diverso da unificare o pensare, ma realtà autosufficiente e " rotonda in se stessa ".

La Ragione è " rotonda " perché contiene " già " il diverso entro di sé. Essa è " l'identità dell'identità e della non-identità ". È, quindi, identità di pensiero ed essere. Ma, se la negazione di presupposti reali, la negazione di presupposti che sono esterni perché indipendenti e indipendenti perché qualitativamente (realmente) diversi dal pensiero, implica l'identità di pensiero ed essere, è chiaro anche che quella negazione porta all'assunzione che il sapere sia già formato " da sempre ". Se infatti la conoscenza deve nascere dalla sintesi o dall'incontro dei due — pensiero ed essere — e questi però sono identici tra loro, cioè uniti da sempre, ciò non può significare altro se non che il loro incontro è avvenuto ab aeterno e che la conoscenza è già compiuta dall'inizio dei tempi. Il sapere si è prodotto prima di noi e alle nostre spalle. Troviamo, nascendo, che il sapere ci è dato, così come nell'altro caso troviamo che ci è dato un mondo da apprendere.

Da chi questo sapere è dato? La risposta essoterica è che, per lo più, esso è dato dal parroco. Nel caso di filosofi partico-

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larmente sfortunati, a volte anche dal padre. « Perché tu credi? » — si domanda Jaspers. « Perché me lo ha detto mio padre. Questa risposta di Kierkegaard vale anche in rapporto al filosofare. » In genere, però, ha ragione Jaspers quando dice: « der philosophische Glaube ist in Ueherlieferung » \

L'altra risposta invece — quella esoterica — è l'innatismo. Il sapere è Dio, e il Logos divino è in noi. « Per ciò che concerne il sapere immedialo di Dio, del diritto, della moralità » — è detto nel § 67 dell'Enciclopedia — « [...], qualunque forma si dia a questa originarietà, è un'esperienza universale che, perché si acquisti coscienza di ciò che vi è contenuto, si richiede essenzialmente educazione o svolgimento: se ne richiede anche per la reminiscenza platonica. Perfino il battesimo cristiano, quantunque sia un sacramento, contiene l'impegno ulteriore di un'educazione cristiana. Il che vuol dire che religione e moralità, per quanto siano una fede e un sapere immediato, sono senz'altro condizionate da quella mediazione, che si chiama svolgimento, educazione, cultura ».

Qui, come si vede, il sapere immediato e la sua " originarietà " non sono affatto negati: si dice soltanto che occorre anche la mediazione. « All'affermazione delle idee innate — prosegue Hegel — si faceva l'obiezione empirica: che, se tutti gli uomini hanno queste idee, per es. hanno nella loro coscienza il principio di contraddizione, dovrebbero saperlo. » Ma questa obiezione — egli aggiunge — che è « del tutto calzante contro il sapere immediato », cioè contro chi, come Jacobi, rifiuta la mediazione, « può essere tacciata di equivoco, in quanto le determinazioni cui si accenna, non perché innate debbono essere già nella forma di idee, di rappresentazioni di cose sapute ».

In questo luogo, l'innatismo, cioè la presupposizione delle idee — che in Hegel, naturalmente, sono l'Idea — ha veramente la sua formulazione corretta: il sapere è già dato; la mediazione, lo svolgimento, servono soltanto ad acquistare " coscienza di ciò che vi è contenuto ". In altre parole — e si ricordi, però, Kant su e contro i " giudizi analitici a priori " — la mediazione, cioè la cultura, la filosofia, hanno soltanto il compito di esplicare l'implicito. Infatti, « il procedere della filosofia — precisa Hegel —, essendo metodico cioè necessario, non è altro se non il porre esplicitamente ciò che è già contenuto in un concetto » {Ette,

' K. JASPERS, Der philosophische Glaube, Munchen 1951, p. 22.

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§ 88). Voler però risalire oltre il concetto stesso o il sapere, cioè porsi il problema della loro origine, sarebbe assurdo, giacché il Concetto non è mai nato (« Riguardo alla discussione consueta nella logica dell'intelletto circa l'origine e la formazione dei concetti » — dice Hegel nello Zusatz 2. del § 163 già esaminato — « è ancora da rilevare che noi non formiamo i concetti e che il concetto in genere non è da considerare come qualcosa di nato [...]. È sbagliato assumere che prima vi siano gli oggetti, che costituiscono il contenuto delle nostre rappresentazioni, e che poi ad essi sopraggiunga la nostra attività soggettiva [...] che costruisce i loro concetti. »).

Delle due, quindi, l'una: o si presuppone il mondo, oppure si deve assumere come presupposto il sapere stesso. La filosofia di Hegel, che comincia senza presupposti (esterni), comincia, in realtà, presupponendo se stessa, cioè il sapere, l'Idea, il Logos o Dio. « La filosofia — dice Feuerbach — che comincia con il pensiero senza realtà, conclude conseguentemente mit einer ge-dankenlosen Realitàt », cioè con una realtà non mediata e non controllata dal pensiero. È assai preferibile — egli prosegue — « cominciare con la non-filosofia e concludere con la filosofia, che al contrario, come qualche ' grande ' filosofo tedesco — exempla sunt odiosa — aprire la propria carriera con la filosofia e concluderla con la non filosofia » ".

Queste formulazioni anticipano, chiaramente, la considerazione svolta da Marx nell'ultimo Manoscritto del '44: « già nella Fenomenologia — malgrado la sua sembianza affatto negativa e critica [...] — è latente, come germe, come potenza e come segreto, il positivismo acritico e l'idealismo parimenti privo di critica delle opere posteriori di Hegel — questa filosofica decomposizione e restaurazione dell'empiria presente » (OFG, 297).

È il culmine della consapevolezza critica, circa la natura del dogmatismo, cui sia pervenuta la tradizione materialistica. Negare l'esistenza di presupposti reali (quei presupposti di cui parla l'inizio dell'Ideologia tedesca quando dice: « I presupposti da cui muoviamo non sono arbitrari, non sono dogmi: sono presupposti reali, dai quali si può astrarre solo nell'immaginazione »3), significa assumere il Concetto o l'Idea come l'incondizionato e l'assoluto, come un'entità indipendente o a sé. Ma, per essere indi-

2 L. FEUERBACH, Sammtlic.be Werke (Bolin und Jodl), voi. II, p. 208. 3 K. MARX-F. ENGELS, L'ideologia tedesca cit., p. 17.

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pendente e quindi per valere, oltre che come ragione, anche come realtà, l'Idea deve presentarsi come un oggetto particolare, cioè deve restaurare acriticamente l'empiria prima trascesa, facendo del positivo o particolare, che è propriamente l'oggetto da intendere e da spiegare, il corpo o il " vaso " dell'esposizione dell'assoluto (per Hegel — dice Marx — « ciò eh'è il momento filosofico non è la logica della cosa, ma la cosa della logica. La logica non serve a provare lo Stato, ma lo Stato serve a provare la logica », OFG, 29).

L'alternativa, da noi delineata all'inizio di questo capitolo, è formulata da Marx con piena evidenza. Se si nega che si diano presupposti reali del pensiero, si è costretti ad assumere, come una realtà presupposta e data, il sapere stesso: con il che, quei presupposti empirici, prima negati e trascesi, ritornano acriticamente (cioè non controllati e non mediati dal pensiero) come semplici predicati o incarnazioni dell'Idea. « Se per un momento Sancio » — cioè Stirner — « fa astrazione da tutto il ciarpame dei suoi pensieri, [...] egli si è spogliato per un momento — scrive Marx nell'Ideologia tedesca — di tutti i presupposti dogmatici, ma in cambio per lui cominciano solo allora i presupposti reali. E questi presupposti reali sono anche i presupposti dei suoi presupposti dogmatici, i quali gli ritornano insieme con quelli reali, lo voglia o non lo voglia, fin tanto che egli non riceva altri presupposti reali e quindi anche altri presupposti dogmatici, o fin tanto che non riconosca materialisticamente che i presupposti reali sono presupposti del suo pensiero, ciò che fa scomparire i presupposti dogmatici in genere » 4.

L'opposta natura del dogmatismo e del pensiero critico è qui individuata nettamente. Il dogmatismo è la presupposizione dell'Idea, l'assunzione che il sapere è già dato (« La filosofia che non presuppone nulla è la filosofia che presuppone se stessa — dice Feuerbach —, la filosofia che comincia immediatamente con se stessa »5); questa presupposizione dell'Idea significa al contempo — è ovvio — negazione dei presupposti reali, affermazione che il contenuto stesso del sapere è indipendente dall'esperienza, cioè assunzione di « conoscenze — dice Kant — che trascendono il mondo sensibile e per le quali l'esperienza non può dare in nessun modo né una guida né un controllo, [...] conoscenze

4 Ivi, p. 437. Traduzione modificata. 5 L. FEUERBACH, Sàmmtliche Werke, II, p. 209.

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che si posseggono non si sa donde, e sul credito di princìpi di cui non si conosce l'origine ». Il pensiero critico, viceversa, è quel pensiero che — proprio in quanto non si assume come sapere " originario " o avente " già " il contenuto entro di sé — può, sia controllare i suoi propri contenuti, evitando che essi gli si impongano surrettiziamente o " sotto mano ", sia — controllando quelli — controllare insieme sé, cioè indagare il modo in cui si produce e si forma il sapere, che è, appunto, il problema critico fondamentale della formazione e dell'origine delle nostre conoscenze.

Il dogmatismo è la metafisica; il pensiero critico il materialismo. L'antitesi, rispetto ad Hegel, non potrebb'essere più puntuale. La metafisica è l'identità di pensiero ed essere: il contenuto è " già " interno al pensiero, il contenuto è indipendente dall'esperienza, cioè sovrasensibile; ergo, forma e contenuto sono uniti da sempre, il sapere è già formato, impossibile porre il problema dell'origine delle nostre conoscenze. Il pensiero critico, viceversa, si identifica con la posizione che assume Veterogeneità, cioè la differenza reale e non formale (o meramente " logica ") tra essere e pensiero. In tanto, infatti, si può porre il problema " critico " dell'origine della nostra conoscenza, in quanto la conoscenza stessa non sia già data: ma ciò presuppone, appunto, che i due elementi da unire non siano uniti da sempre; presuppone, in una parola, che le fonti della conoscenza siano due: il dato della recettività o sensibilità e la spontaneità dell'intelletto.

Nel primo caso, il rapporto del pensiero con l'essere coincide col rapporto del pensiero con sé: il passaggio dall'essere al pensiero, dal non-sapere al sapere, dal concreto all'astratto, si presenta come un passaggio dentro al sapere: dalla cognitio inferior alla cognitio superior, dal sapere implicito al sapere esplicito, dall'idea oscura e confusa, così com'essa è nel senso (si ricordi la critica di Kant a Leibniz e Wolff), all'idea chiara e distinta; il che significa che la gnoseologia, cioè la teoria del rapporto tra i due elementi della conoscenza, si risolve nella logica, cioè nella teoria del mèro pensiero. Nel secondo caso, al contrario, poiché il pensiero è solo uno dei due elementi, la logica viene a cadere entro la gnoseologia, cioè si presenta come una delle due parti di quella " dottrina degli elementi " o Elementarlehre, in cui è suddivisa appunto la teoria della conoscenza della Critica della ragion pura: essendo, dal punto di vista critico-materialistico, decisivo, come una volta ha visto bene Lenin, « non presupporre

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che la nostra conoscenza sia bell'e fatta e invariabile, ma ricercare in qual modo dal non-sapere si passa al sapere, in qual modo una conoscenza incompleta, imprecisa diventa più completa e più precisa » 6.

Malgrado il dono, non sollecitato, che Lukàcs, e anche Kojève e Marcuse, hanno voluto fargli di una Widerspiegelungstheorie, è chiaro che, in Hegel, non vi è nulla di tutto questo. Le pagine della Scienza della logica sono, come al solito, di esemplare chiarezza (e la polemica con Kant vi è più trasparente che mai): « Il concetto che fino a qui si è avuto della logica — scrive Hegel — è basato sulla separazione, presupposta una volta per sempre nella coscienza ordinaria, del contenuto della conoscenza dalla forma di essa, sulla separazione cioè della verità e della certezza. Si presuppone in primo luogo che la materia del conoscere sussista già in sé e per sé quale un mondo bell'e compiuto al di fuori del pensiero, che il pensiero sia di per sé vuoto, che sopravvenga a quella materia estrinsecamente quale una forma, si riempia di essa, e solo con questo acquisti un contenuto e così diventi un conoscere reale. Questi due elementi poi (giacché secondo tal maniera di vedere debbono star fra loro nel rapporto di elementi, ed il conoscere ne vien composto in guisa meccanica o, al più, chimica) vengono ordinati l'uno di fronte all'altro per modo che l'oggetto sia un che di già per sé compiuto, un che di già pronto, che per la sua realtà possa perfettamente fare a meno del pensiero, e che all'incontro il pensiero sia qualcosa di manchevole cui occorra completarsi in una materia, e cioè rendersi a questa adeguato quale una cedevole forma indeterminata. Verità è l'accordo del pensiero con l'oggetto; e affin di produrre quest'accordo (poiché esso non sussiste in sé e per sé) bisogna allora che il pensiero si adatti e si acconci all'oggetto » (I, 25).

Il lettore avrà già capito dove vogliamo arrivare. Se la scepsi verso la materia (il pirronismo, lo scetticismo antico) è un momento indispensabile alla filosofia come idealismo, il punto di vista critico-materialistico non può non implicare, viceversa, una scepsi verso la ragione. Il fondamento di questa scepsi o " critica della ragione " è il principio stesso del materialismo: Yeterogeneità di pensiero ed essere, il carattere extra-logico àe\Y esistenza. L'esistenza non è predicato, non è concetto. Le condizioni per

6 W. I. LENIN, Materialismo ed empiriocriticismo cit., p. 92, trad. mo-dificata.

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cui ci è dato qualcosa da conoscere non sono da confondere con le condizioni per cui questo qualcosa è pensato; la possibilità reale non si identifica con la possibilità logica; il " processo logico " non è da confondere col " processo reale ".

Questa distinzione di oggetto logico e oggetto reale, di Objekt e Gegenstand, si deve dire giustamente una scepsi perché essa implica che la ragione sia, di per sé, un negativo (così come, viceversa, un negativo è per lo " scetticismo platonico " il finito) — cioè carente di realtà. La ragione non ha " già " la realtà in sé. La ragione è forma o, per meglio dire, funzione. Non è soggetto essa stessa, ma predicato di un soggetto reale. I segni di ammirazione e di consenso con cui tutti i " materialisti dialettici " hanno sempre accompagnato la polemica hegeliana contro il " formalismo " di Kant, provano solo che anche per essere materialisti moderni non basta purtroppo una semplice decisione della " volontà ". La rivendicazione hegeliana di un pensiero " ricco di contenuto ", la sua affermazione che il pensiero ha il deter-minato o la " differenza " entro di sé ed è perciò il concreto, è la proposizione stessa che " il finito è ideale ". Ciò che spiega — sia detto en passant — come la critica hegeliana al " forma lismo logico " sia assolutamente coerente anche quando essa ap paia, A prima vista, contraddittoria, per il fatto di muovere a quel " formalismo ", a volte, la critica di assenza di contenuto e, a volte, viceversa, quella di assenza di forma \

7 La critica hegeliana alle cosiddette " leggi del pensiero " o al " for-malismo logico " si svolge secondo due linee che sono apparentemente con-traddittorie. La prima linea è quella della " vuotezza delle forme logiche ". Le forme logiche sono " astratte ", perché prive di. contenuto. « Il puro elemento formale senza realtà — dice ad es. Hegel nella Fenomenologia — è l'ente di ragione o la pura astrazione la quale non ha in lei la scissione [o differenza] che non sarebbe se non il contenuto » (Fen., I, 270). Questa critica ritorna spesso anche nella Scienza della logica: « la vuotezza delle forme logiche » nasce dal fatto che esse « mancano del vero contenuto, — di una materia, che sia in se stessa una sostanza e un valore » (I, 30). D'altra parte, nella pagina seguente a quella sopracitata della Fenomenolo gia, Hegel sembra contraddirsi grossolanamente: alle leggi logiche egli muo ve ora il rimprovero di esser prive di forma: « ...non viene a mancar loro il contenuto (esse hanno infatti un contenuto determinato) ma difettano piuttosto della forma che è loro essenza. In effetto quelle leggi non sono la verità del pensiero, e non già perché esse debbano essere soltanto formali e prive di contenuto, ma anzi piuttosto per la ragione opposta: ossia per ché nella loro determinatezza, o appunto come contenuto cui è sottratta la forma, debbono valere per qualcosa di assoluto » (Fen., I, 271). La con traddizione è solo apparente. L'esigenza hegeliana, infatti, che la logica sia una scienza reale e non formale fa tutt'uno con l'esigenza che, come vero contenuto oggettivo, si riconosca non il contenuto esterno al pensiero

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Ora, i due capisaldi essenziali di questa critica del dogmatismo metafisico o idealistico sono impostati, per la prima volta, nella Critica della ragion pura. Il primo di essi emerge, com'è noto, nella rivendicazione del carattere positivo del sensibile (e qui si ricordi, per non dire altro, la nota che chiude il § 7 dell''Antropo logia prammatica, con la violenta polemica contro Leibniz il quale, " seguace della scuola platonica ", « faceva risiedere la sensi bilità soltanto in una mancanza », cioè in un che di negativo privo ™ di sua propria realtà); il che significa che, per questa natura eterogenea o extralogica del sensibile o esistente, il rapporto pensiero-essere non può ridursi alla semplice coerenza del pensiero con sé: la logica non basta da sola a dare la verità, non può produrre da sola conoscenza. Il secondo di essi emerge in quella mirabile distruzione teoretica — vero monumento della scepsi moderna — che Kant compie di tutta la vecchia metafisica (la metafisica compianta nella prefazione alla Scienza della logica), , cioè dell'" uso produttivo " della logica formale (la logica formale "j. trattata come " organo " per la produzione di conoscenze ogget- : tive), che è la critica della trasposizione del logico nell'onto- h logico o potenziamento, arbitrario e dogmatico, del mentale o soggettivo a " essenza " del mondo, cioè del concetto a fonda- ! mento e sostrato della realtà, — critica senza la quale è assoluta mente impossibile dare un senso all'espressione " pensiero mo- j derno ». j(

ma quello interno ad esso (l'idealità del finito). « Quando si prende la lo- V gica come scienza del pensare in generale, s'intende con ciò — dice la ^ Scienza della logica — che questo pensare sia la semplice forma di una | conoscenza, che la logica astragga da ogni contenuto, e che il cosiddetto | secondo elemento che apparterrebbe a una conoscenza, vale a dire la ma- ] teria, debba esser dato da un'altra parte, per modo che la logica, come 1 quella da cui questa materia sarebbe affatto indipendente, non possa dare ]' altro che le condizioni formali di una vera conoscenza, non già contenere ii essa stessa una verità reale, e nemmeno esser soltanto la via per giungere , a questa, appunto perché l'essenziale della verità, il contenuto, rimarrebbe j| fuori di essa » (I, 24). In altre parole, la logica è, per Hegel, scienza reale lì perché non solo ha un contenuto ma addirittura « un contenuto che, solo, il è l'assoluto Vero o, se si voglia ancora adoprare la parola materia, che, lì solo, è la vera materia, — una materia, però, cui la forma non è un che H di esterno, poiché questa materia è anzi il puro pensiero, e quindi l'assoluta 11 forma stessa » (I, 32). L'apparente contraddizione, di cui sopra, è risolta, il perché l'inclusione del contenuto nella logica fa tutt'uno col riconoscimento m che la forma è sé e F " altro " insieme, cioè con quello " sviluppo " della ™ forma o dilatazione dell'eleatismo (cfr. sopra le pagine su Hegel e Spinoza) di cui è invece ancora carente il formalismo logico il quale ritiene che la forma sia solo " uno dei due " e il contenuto sia esterno o fuori di essa.

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Questi due temi critici decisivi si fondono nelle mirabili pagine che chiudono l'Analitica dei princìpi, — le pagine della Nota all'anfibolia dei concetti della riflessione. I due aspetti complementari del procedimento dogmatico —■ l'idealizzarsi del mondo e il trasformarsi dell'idea logica in essenza oggettiva della realtà — sono qui colti nella loro reciproca implicazione e investiti da un discorso critico unitario.

Primo: idealizzazione o intellettualizzazione del mondo: « il celebre Leibniz costruì un sistema intellettuale del mondo ». Qui ritornano le fondamentali considerazioni già da noi, a suo tempo, esaminate. Leibniz « credette di conoscere addirittura l'interna natura delle cose, confrontando tutti gli oggetti solo con l'intelletto e con i concetti formali astratti del suo pensiero. [...] Egli confrontò tutte le cose fra di loro semplicemente mediante concetti, e trovò, come era naturale, che non c'erano differenze, tranne quelle per cui l'intelletto distingue l'uno dall'altro i suoi concetti puri. Le condizioni della intuizione sensibile, che portano in sé la loro special differenza, egli non le considerò come originarie; poiché la sensibilità era per lui soltanto una specie di rappresentazione [logica] confusa, e non già una fonte speciale di rappresentazioni; il fenomeno per lui era la rappresentazione della cosa in sé, rappresentazione differente per forma logica dalla conoscenza per mezzo dell'intelletto, poiché quello, nel suo solito difetto d'analisi, porta nel concetto della cosa una certa mescolanza di rappresentazioni accessorie, che l'intelletto poi sa eliminare » 8.

Secondo: trasposizione della logica in ontologia, potenziamento delle semplici connessioni logiche a connessioni reali. In quanto « Leibniz confrontò fra loro semplicemente nell'intelletto gli oggetti dei sensi come cose in generale » e « poiché dunque egli aveva innanzi agli occhi unicamente i loro concetti, e non i rispettivi posti nell'intuizione, dove soltanto gli oggetti possono essere dati, [...] egli non poteva non riuscire al risultato di estendere il suo principio degli indiscernibili, che vale unicamente dei concetti delle cose in generale, anche agli oggetti dei sensi [mundus phaenomenon] e non credere di aver così prodotto una non piccola dilatazione della conoscenza della natura » 9.

In altre parole, " se nel concetto di una cosa in generale non

8 I. KANT, Critica della ragion pura cit., I, pp. 261-62. 9 Ivi, p. 262.

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si incontra una certa differenza, essa non si incontrerà nemmeno nelle cose stesse ": cioè, l'indiscernibilità logica è trasposta pacificamente a indiscernibilità reale, ciò che è nel pensiero è immediatamente trasformato in sostanza della realtà. E, « poiché nel semplice concetto di una cosa qualsiasi s'è fatta astrazione — dice Kant — da talune condizioni necessarie alla sua intuizione, così, per una singolare precipitazione, si finisce col considerare ciò da cui si è fatta astrazione, come qualche cosa che non si incontrerà mai in nessuna parte, e col non concedere alla cosa se non ciò che è contenuto nel suo concetto » '".

Si ponga mente a questa conclusione, cioè all'indicazione del-l'errore consistente nel " non concedere alla cosa se non ciò che è contenuto nel suo concetto ". Se è vero, dice Kant, « che ciò che conviene o contraddice in generale a un concetto, conviene anche, o contraddice, a ogni particolare che è contenuto sotto quel concetto [dictum de omni et nullo] », sarebbe però « assurdo cangiare questo principio logico in quest'altro: ciò che non è contenuto in un concetto generale, non è contenuto neppure nei particolari, che sono ad esso subordinati »: ciò sarebbe assurdo « giacché questi sono concetti particolari, appunto perché contengono in sé più [mehr~] che non si pensi nel generale » ". Il senso del discorso non potrebb'essere più chiaro: la cosa particolare o reale contiene più che la semplice cosa pensata; il pensiero non esaurisce entro di sé la realtà; la possibilità logica non è la possibilità reale stessa.

Riprendiamo in mano Hegel, in quelle pagine iniziali della Scienza della logica cosi fiere nella loro polemica contro Kant. « La vecchia metafisica — egli scrive — aveva sotto questo riguardo un concetto più alto del pensiero, che non quello ch'è venuto di moda ai tempi nostri. Metteva cioè per base che quello, che per mezzo del pensiero si conoscesse delle cose e nelle cose, fosse il solo veramente vero che le cose racchiudessero. Il vero, per quella metafisica, non eran quindi le cose nella loro immediatezza, ma soltanto le cose elevate nella forma del pensiero, le cose come pensate. Quella metafisica riteneva perciò che il pensiero e le determinazioni del pensiero non fossero un che di estraneo agli oggetti, ma anzi fossero la loro essenza, ossia che le cose e il pensar le cose [...] coincidessero in sé e per sé, che

'° Ivi, p. 269. 11 Ivi.

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il pensiero nelle sue determinazioni immanenti, e la vera natura delle cose, fossero un solo e medesimo contenuto» (I, 26).

È la vera alternativa di fondo: identità o, viceversa, eterogeneità di pensiero ed essere, — l'alternativa che divide il dogmatismo dal materialismo critico. Dopo aver ridotto l'essere a pensiero, risolvendo i rapporti degli oggetti tra loro nel semplice rapporto dei concetti formali astratti del suo pensiero, Leibniz compie l'operazione inversa: pretende, cioè, di « estendere il suo principio degli indiscernibili, che vale unicamente dei concetti delle cose in generale, anche agli oggetti dei sensi », cioè pretende di « far valere questi concetti come fenomeni », vale a dire come oggetti sensibili. Dopo aver ridotto il rapporto essere-pensiero a un mèro rapporto del pensiero con sé, egli pretende di esibire questa connessione logica come una connessione reale e oggettiva; presenta come " una legge della natura " quella che « è unicamente una regola analitica, o paragone delle cose per via di semplici concetti » 12. Tutta la sua filosofia è fondata su questo duplice scambio: la riduzione del Gegenstand aìì'Objekt, o assunzione del finito come " ideale '" (« ogni rappresentazione, anche empirica, degli oggetti, — dice Kant — la cercava nell'intelletto e ai sensi non lasciava se non il vile ufficio di confondere e deformare le rappresentazioni di quello »); e, secondo, la trasformazione del-VObjekt in Gegenstand, cioè dell'idea logica in struttura e sostrato della realtà. Ora, appunto questo scambio è l'anfibolia: altro non essendo quest'ultima, secondo la definizione stessa di Kant, che « uno scambio dell'oggetto puro dell'intelletto col fenomeno [Ver-wechslung des reinen Verstandesobjects mit der Erscheinung~\ » ".

E, di nuovo, l'istanza critica kantiana erompe profonda: « Tutto questo avrebbe la sua esattezza, se nelle condizioni, in cui soltanto ci posson essere dati gli oggetti dell'intuizione esterna, e da cui fa astrazione il concetto puro, non ci fosse qualcosa più [etwas mehrl del concetto d'una cosa in generale. [...] Ma, [...] nell'intuizione c'è qualcosa che non è punto nel semplice concetto d'una cosa in generale, ed è questo che procura il sostrato [das Substratum~\, che non sarebbe punto conosciuto per via di semplici concetti » li.

Qualcosa di più. Cioè il sostrato, l'esistente, non è il concetto

12 Ivi, p. 263. 13 Ivi, p. 261. 14 Ivi, p. 271.

17. Colletti 257

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stesso: il sostrato è extralogico. Il contrario in Hegel: « La dimostrata assolutezza del concetto contro la materia e nella materia empirica [...] consiste appunto in ciò che cotesta materia non abbia verità così come apparisce fuori e prima del concetto, ma l'abbia soltanto nella sua idealità o nella sua identità col concetto ». « La derivazione del reale dal concetto... » (III, 29). L'Idea è più reale della realtà. « Non il finito è reale, ma l'infinito » (I, 162). Il contrario del contrario in Marx: « Hegel dà un'esistenza indipendente ai predicati, agli obietti [Obfekte], ma astraendoli dal loro soggetto [o sostrato], ch'è realmente indipendente. Dopo, il reale soggetto appare come risultato loro, mentre, invece, bisogna partire dal reale soggetto e considerare il suo obbiettivarsi. La mistica sostanza diventa, dunque, il reale soggetto, e il reale soggetto appare come qualcosa d'altro, come un momento della mistica sostanza. Proprio in quanto Hegel prende le mosse dai predicati della determinazione generale, invece che dall'ente reale (immei^vov, soggetto), e ci ha da essere tuttavia un supporto di queste determinazioni, la mistica idea diventa questo supporto » (OFG., 37).

Conclusione fondamentale di Kant, nella sua critica dello scambio logica-ontologia operato da Leibniz e da tutta la vecchia metafisica: l'opposizione reale è altra cosa dall'opposizione logica. « Quando la realtà vien rappresentata solo dall'intelletto puro [realitas noumenon], non è possibile pensare fra le cose verun'opposizione, cioè nessun rapporto tale che, delle realtà congiunte nel soggetto, ciascuna sopprima l'effetto dell'altra, e si abbia 3 — 3 = 0. Al contrario, il reale fenomeno [realitas phaenomenon~\ può indubbiamente contenere opposizioni, e, riunite nello stesso soggetto, può una realtà annullare in tutto o in parte l'effetto dell'altra, come due forze agenti sulla medesima linea retta, in quanto tirano o spingono un medesimo punto in direzione opposta, o come anche un piacere che contrabbilanci un dolore. » 15

Ancora un ulteriore sviluppo e conferma di questo enunciato, perchè il lettore possa avere i termini essenziali del discorso innanzi a sé: « Il principio, che i reali (come semplici affermazioni) non sono mai tra loro logicamente opposti, è una proposizione verissima rispetto al rapporto dei concetti, ma non ha nessun significato rispetto alla natura [...]. Infatti, l'opposizione reale

15 Ivi, p. 258.

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ha luogo dovunque A — B = 0, ossia dove un reale, unito con un altro in un soggetto, annulla l'efletto dell'altro: ciò che ci mettono continuamente sott'occhio tutti gli ostacoli e le reazioni della natura, che intanto, poiché dipendono da forze, devono esser dette reditates phaenomena. La meccanica generale può perfino indicare la condizione empirica di tale opposizione in una legge a priori, prendendo il caso della opposizione delle direzioni: condizione, di cui il concetto trascendentale di reale non sa nulla » ". Al contrario, Leibniz e « i seguaci di lui trovano non pure possibile, ma anche naturale, di riunire in un Ente tutte le realtà senza darsi pensiero d'alcuna opposizione, poiché essi non ne conoscono alcun'altra all'infuori della contraddizione (per cui il concetto stesso d'una cosa viene annullato), ma non quella del reciproco annullamento, per cui un principio reale annulla l'effetto dell'altro, e per cui soltanto nella sensibilità incontriamo le condizioni per rappresentarcela » 17.

Il punto essenziale da tener presente per intendere il senso di questo discorso è quello indicato sopra: l'opposizione reale è altra cosa dall'opposizione o contraddizione logica.

Come Leibniz, Kant ha per fermo che la regola del pensiero sia il principio di (non-) contraddizione. Un concetto che contraddice se stesso s'annulla. « L'oggetto di un concetto, che contraddice se stesso, è niente, poiché il concetto è niente, l'impossibile, come per es. la figura rettilinea di due lati [nihil negativum]. » " Sotto questo profilo, la posizione di Leibniz e di Kant coincide. Entrambi sono ancora al principio eleatico; entrambi sono ancora al di qua della rivoluzione logica apportata (o portata a compimento) da Hegel: la dilatazione dell'eleatismo, il riconoscimento che la ragione è " identità dell'identità e della non-identità ", tau-toeterologia o dialettica.

Da questa base comune, tuttavia, le strade di Leibniz e di Kant si separano in direzioni opposte. Per Leibniz, il principio del pensiero è anche il principio della realtà: la possibilità logica è la possibilità reale stessa; per cui, ciò che è impossibile logicamente (l'opposizione) è anche impossibile realmente. Per Kant, viceversa, il principio di non-contraddizione è solo un principìum rationis: la coerenza del pensiero con sé è altra cosa dalla con-

18 Ivi, p. 263. 17 Ivi, p. 264. 18 Ivi, p. 276.

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gruenza del pensiero con la realtà; onde l'irrealtà della contraddizione logica non deve far concludere all'irrealtà o inesistenza dell'opposizione reale. « Nel concetto di una cosa — egli scrive — non c'è punto contraddizione, quando niente di negativo è unito con un elemento affermativo, e concetti meramente affermativi non possono unendosi far capo a una negazione. Se non che, nel-l'intuizione sensibile, in cui è data una realtà (per es., il movimento), si trovano condizioni (direzioni opposte), da cui nel concetto di movimento in generale si astraeva, le quali rendono possibile un contrasto, che certamente non è logico; facendo cioè di un mero positivo, uno zero = 0; e non si potrebbe dire, che tutte le realtà siano in accordo tra loro per questo, che tra i loro concetti non c'è contraddizione. » l*

Quanto poi alla differenza di Leibniz da Hegel, essa è nel diverso modo di intendere il principio logico, che, per il primo, è la non-contraddizione e, per il secondo, la contraddizione dialettica. Al di sopra, però, di questa differenza, c'è la continuità metafisica (quella continuità che oppone, invece, entrambi a Kant): l'identità di principio logico e principio della realtà, il potenziamento e la trasposizione della logica a ontologia. Leibniz, negando la contraddizione logica, nega l'opposizione reale (estendendo, così, il principio degli indiscernibili fino a farne una pretesa " legge di natura "). Hegel, che afferma la contraddizione logica, l'afferma facendone il sostrato dell'opposizione reale. Ogni cosa è in se stessa contraddittoria, ogni cosa " è " e " non è ": vale a dire, l'opposizione reale è risolta nella contraddizione logica, cioè nella ragione in quanto unità di medesimezza e alterità, " essere " e " non essere " insieme. D'altra parte, come l'oggetto è solo l'incarnazione della ragione, così tutte le opposizioni oggettive o reali, che sono opposizioni specifiche, diventano 1' " esistenza " o il " fenomeno " dell'opposizione razionale, cioè dell'opposizione generica. Questo punto, che basta da solo a relegare tutto il " materialismo dialettico " nel museo accanto alla scure di pietra 20,

19 Ivi, pp. 269-70. 20 Come per Hegel, anche per Engels le opposizioni " reali " o spe

cifiche non sono che " manifestazioni " della contraddizione logica — sem pre eguale e perciò eterna — della ragione con sé. Il sostrato del finito è anche per lui l'infinito; onde ogni conoscenza gli si configura come cono scenza dell'eterno e dell'assoluto. Cfr., ad es., Dialettica della natura cit., p. 227: « Ogni conoscere effettivo, esauriente, consiste soltanto in ciò: [...] che noi ritroviamo e stabiliamo l'infinito nel finito, l'eterno nel ca duco ». E p. 228: « Ogni vera conoscenza naturale è conoscenza dell'eterno,

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è stato visto con esemplare chiarezza da Marx — oltre che nel passo citato della Miseria della filosofia sul " movimento " — nell'ultimo Manoscritto del '44: « il vero interesse » di Hegel « è l'opposizione di in sé e per sé, di coscienza e autocoscienza, di oggetto e soggetto: cioè l'opposizione, entro il pensiero stesso [cors. mio], di pensiero astratto e realtà sensibile o sensibilità reale. Tutte le altre opposizioni e tutti gli altri movimenti di queste opposizioni sono soltanto ^apparenza, l'involucro, la forma essoterica di queste opposizioni unicamente interessanti, che costituiscono il senso delle altre, profane opposizioni » (OFG, 296).

Del resto, quanto sia diverso, nei due casi, il modo di concepire l'opposizione reale, è provato dal fatto che, mentre Kant, nel-l'indicare una determinata opposizione, pensa subito alla scienza specifica che ne tratta (cfr. sopra: la meccanica); per Hegel la scienza delle contraddizioni è la filosofia generale o idealismo, così come per Engels è o dev'essere la sempre auspicata e mai realizzata scienza " nuova ", filosofica e dialettica per sua stessa natura.

Abbiamo indugiato così a lungo su questa distinzione kantiana tra " opposizione logica " e " opposizione reale " — oltre che, com'è ovvio, per la sua intrinseca importanza — per due ragioni, alla prima delle quali vorremmo che il lettore prestasse particolare attenzione. È probabile che, seguendoci nella nostra critica del " materialismo dialettico " e vedendoci al tempo stesso rivendicare il principio di identità o di determinazione materiale, egli abbia tratto la conclusione che da parte nostra si negasse l'esistenza di opposizioni oggettive o materiali. È evidente che, se fosse così, qualsiasi pretesa di ragionare con (cioè sulla linea di) Marx, sarebbe destituita a priori di qualsiasi fondamento (ciò che spiega, sia detto tra parentesi, perché, proprio quest'obiezione, ci sia stata mossa da un critico sottile)21. Senonché, appunto la distinzione kantiana tra " opposizione logica " e " opposizione reale " sta a mostrare, ci sembra, come una conclusione del genere sia ingiusta. Quella distinzione, infatti, in quanto implica Pirriduci-

delFinfinito, e perciò, nella sua essenza, assoluta ». E, circa il carattere " definitivo " di ogni vera legge di natura, cfr. p. 219: « Attraverso nuove scoperte noi possiamo dare ad essa nuovi documenti, un nuovo e più ricco contenuto. Ma alla legge stessa, cosi come essa è ivi espressa, non possiamo aggiungere più nulla. Nella sua universalità, nella quale forma e contenuto sono entrambi allo stesso modo universali, non è suscettibile di nessun ampliamento: è una legge assoluta della natura ».

21 N. BADALONI, Marxismo come storicismo, Milano 1962, pp. 201 sgg.

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bilità dell'opposizione " reale " all'opposizione " logica ", ovvero dell'esistenza (il " di più " di Kant) al concetto, implica anche l'irriducibilità della sua particolarità o specificità all'opposizione universale o generica, e cioè il fatto che essa si determina per quello che " è " proprio attraverso l'esclusione o negazione di tutto ciò che essa non è. Il che è la conferma, ci sembra, — sebbene ciò possa urtare (ce ne rendiamo conto) abitudini di pensiero inveterate — di come sia impossibile prescindere dal principio di «o«-contraddizione proprio quando si vogliano rilevare opposizioni o contraddizioni materiali, cioè specifiche (che, nulla è garantito meno dalla logica dialettica hegeliana, delle " specie ", cioè delle esistenze naturali o finite: e si tratta invece — si ricordi anche Labriola — di lasciare " impregiudicata la natura empirica di ciascuna particolare formazione "); così come, viceversa, è la conferma, ci sembra, del come, proprio l'abbandono o il " superamento " della non-contraddizione e la sua sostituzione con la cosiddetta " dialettica della materia ", implichi il disperdersi e vanificarsi delle opposizioni reali, cioè la loro pacifica risoluzione nell'unità della ragione.

La seconda delle ragioni, che ci hanno indotto a dare risalto all'argomento di Kant circa la differenza tra " opposizione reale " e " opposizione logica ", è che, sebbene taluni marxisti contemporanei ne abbiano giustamente colto l'importanza (si veda la discussione Sui problemi della logica nella « Deutsche Zeitschrift fùr Philosophie » del 1956 e C. Luporini nel suo Spazio e materia in Kant), essi rischiano, a nostro avviso, di mandarne perduto l'insegnamento, quando tendono a interpretarla in senso " mate-rialistico-dialettico ".

Luporini, ad es., il quale vede giustamente come la tesi di Kant contro la leibniziana " intellettualizzazione dei fenomeni " (« Ciò che ad essa resiste — egli scrive — è l'opposizione reale fra le cose, le forze operanti l'una contro l'altra irriducibili alla mera contraddizione ' logica ' » 22) sia tutta imperniata sulla priorità dell'esistenza e sul suo carattere extralogico, considera che il significato dell'argomento kantiano sia da cercare nel fatto che esso « è il germe appunto di una dialettica materialistica » 2\

Se ci è riuscito di essere chiari, crediamo che la nostra difficoltà ad accogliere questo giudizio debba risultare da tutto il corso

22 C. LUPORINI, Spazio e materia in Kant cit., pp. 73 e 112 sgg. 23 Ivi, p. 74.

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dei ragionamenti tenuti finora. La " dialettica materialistica " è, nella sua accezione precisa, la dialettica stessa della materia di Hegel: la quale, come presuppone la piena e totale risoluzione dell'opposizione reale nell'opposizione o contraddizione logica (dell'essere nel pensiero), così presuppone anche — e, dal suo punto di vista, coerentemente — il ripudio del materialismo, cioè di quel " di più " extralogico, su cui invece, come ha visto bene anche Luporini, è impiantato tutto il ragionamento di Kant.

Ora, il paradosso è che, mentre per essere materialista al " materialismo dialettico " occorreva proprio quel " di più ", esso ha invece abbracciato la " dialettica della materia " di Hegel, cioè la tesi che tutte le cose " sono " e " non sono ", senza rendersi conto che il fondamento di quella dialettica era proprio Yannulla-mento (o la " distruzione ") di quel " di più ". L'assoluta e irreparabile insignificanza teorica del " materialismo dialettico " è tutta qui: esso ha mimato l'idealismo credendo di fare del materialismo; ha sottoscritto la liquidazione hegeliana dell' " intelletto " e del principio di non-contraddizione, senza capire che ciò significava la liquidazione stessa dell'indipendenza del finito dall'infinito, dell'irriducibilità dell'essere al pensiero.

« L'intelletto che pensa metafisicamente — scrive Engels — non può assolutamente passare dall'idea della quiete a quella del movimento, perché qui la contraddizione che abbiamo visto sopra gli sbarra il cammino. »2* Si sarebbe curiosi di sapere — se Y " intelletto " è metafisico — con che cosa Engels, e tutti i " materialisti dialettici " dopo di lui, riescano a garantire quella irriducibilità dell'essere al pensiero, senza la quale l'opposizione reale sfuma nella semplice contraddizione logica, e il materialismo in una pia intenzione.

Il finito, che non " passa " nell'infinito, l'essere, che non " passa " nell'opposto, — è il " morto essere "! Questo discorso in Hegel ha un senso. Il " morto essere " è l'essere che rimane a fondamento del pensiero, è quel " di più " che Kant chiama appunto das Substratum. Si capisce quindi fin troppo bene come Hegel abbia avuto interesse a liberarsi di tutto questo. Ciò che, al contrario, si capisce poco o, per meglio dire, non si capisce affatto, è come Engels e Lenin abbiano potuto insorgere contro il " morto essere " e pretendere, al contempo, di fare del materialismo.

24 F. ENGELS, Antidiihring cit., pp. 133-34.

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Perché sia materialismo, il " materialismo dialettico " ha bisogno di affermare l'eterogeneità di pensiero ed essere. Perché possa praticare invece la " dialettica della materia ", esso ha bisogno di ridurre tutte le opposizioni reali a opposizioni di " essere " e " non essere ", cioè a contraddizioni logiche (si ricordi Engels sul movimento). Nel primo caso, gli occorre il principio di non-contraddizione; nel secondo, gli occorre dimostrare, con Hegel, che questo principio è il principio del dogmatismo. La via d'uscita da quest'impasse sarebbe stata quella di ripensare organicamente l'istanza della non-contraddizione, o determinatezza materiale, e quella della contraddizione dialettica o istanza della ragione (la via aperta appunto da Della Volpe con il suo principio dell'identità tautoeterologica). Incapace, invece, anche solo di percepire il problema, il " materialismo dialettico " ha patito la contraddizione fino in fondo. Il risultato ne è stato che dove, come in Materialismo ed empiriocriticismo, c'è la chiara affermazione del materialismo e, quindi, dell'eterogeneità di pensiero ed essere, manca una teoria della ragione, cioè del concetto e della legge scientifica (donde il carattere metaforico e velleitario della Wi-derspiegetungstheorie rivendicata in quell'opera, nonché il livello " primitivo " del materialismo che vi si afferma); e che, viceversa, dove c'è una teoria della contraddizione dialettica, questa c'è a scàpito dell'eterogeneità tra " opposizione reale " e " opposizione logica ", come nei Quaderni filosofici e massime nella Dialettica della natura di Engels, — opere che sono, certo, ricche di " dialettica " ma tanto povere di " materia " da riuscire inconsapevoli metafisiche idealistiche.

Questo radicale disorientamento è stato vissuto e impersonato con rigore — se così si può dire — da Lukàcs: il quale, avendo trovato in Hegel la " dialettica della materia " ed essendo d'altra parte convinto che questa fosse del materialismo genuino, ha cercato ad ogni costo di attribuire ad Hegel anche una Widerspie-gelungstheorie (non ignorando il fatto che sarebbe, in effetti, difficile immaginare un materialismo senza una teoria della verità come " corrispondenza "). Dopodiché, sposate le premesse hegeliane e, in particolare, quella dell'identità di logica e ontologia (col conseguente realismo dei concetti*.), egli si è dedicato alia lotta senza quartiere contro Kant, cioè contro il solo filosofo classico tedesco nel quale sia possibile rintracciare almeno un grano di materialismo: convinto che « l'oggettivismo idealistico significa

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un progresso rispetto a Kant » (anche l'oggettivismo di Schelling!),, e affatto dimentico o ignaro, invece, che quell'oggettivismo, da lui ardentemente propugnato, il vecchio di Konigsberg lo aveva, sì, attentamente considerato ma, giustappunto, nei Sogni di un visionario chiariti coi sogni della metafisica.

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VII. CASSIRER SU KANT E HEGEL

Cerchiamo di ragionare la nostra tesi fino in fondo, così da spingere il discorso quasi " al limite ". Se il centro e il nucleo vitale della Critica della ragion pura (quali che siano, peraltro, tutte le sue gravi contraddizioni) è nell'argomento che il dogmatismo è la trasposizione, lo scambio immediato della logica con l'ontologia (e, quindi, il realismo dei concetti), ciò vuol dire, né più né meno, che in Kant si trova, almeno abbozzato, un rudimento — e sia pure solo un rudimento — della critica dei processi di ipostatizzazione. In un passo dello scettico Schulze, l'autore di Aenesidemus, che Hegel cita nello scritto giovanile sul Rapporto dello scetticismo con la filosofia indicandolo esplicitamente come redatto " in tono kantiano " 1, questo motivo esce chiaramente confermato. « Se mai è stato fatto — scrive Schulze — un tentativo illusorio e accecante di legare immediatamente il regno della realtà oggettiva alla sfera dei concetti e di passare da questa in quello semplicemente con l'aiuto di un ponte fatto di bel nuovo con puri concetti, ciò è avvenuto nell'Ontoteologia; nondimeno, recentemente, la vuota sofisticheria e il miraggio, in cui così si incorre, sono stati interamente scoperti e svelati. »

Questo passo, che compare nella stessa pagina dove Hegel qualifica la critica kantiana dell'argomento ontologico come un Witz, cioè come una spiritosaggine e quasi una freddura, ci dà un'idea di quali " germi " Kant abbia immesso, a suo tempo, nella cultura tedesca, dominata prima di lui dalla Ontoteologia e, dopo di lui, dalla Onto-teo-logica di Hegel (su cui cfr. il saggio di Lowith sopra citato). Ma, senza spingerci tanto in là, una testimonianza significativa, circa gli insegnamenti che si possono trarre

1 G. W. F. HEGEL, Verhàltniss des Skepticismus zur Pbilosophie cit., p. 255.

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dalla Critica, ci è offerta anche dall'ambiente del neokantismo (nel quale peraltro, com'è noto, la foresta kantiana è stata abbon-dantemente potata e spesso ridotta quasi a un giardino francese). Esemplare, in questo senso, è il capitolo Idealismo critico e idealismo assoluto di Das Erkenntnisproblem, in cui Cassirer pone a raffronto i due massimi pensatori tedeschi. Qui, infatti, accanto a una serie di considerazioni giuste ma relativamente scontate (venendo da parte neokantiana), se ne incontrano altre che non possono non far pensare alla efficacia critica che il kantismo conserva, anche quando se ne voglia tentare l'applicazione ad Hegel.

Le considerazioni " scontate ", e tuttavia pur sempre interessanti, cui accennavamo, son quelle che riguardano il rapporto pensiero-essere nei due filosofi. Cassirer imposta il suo discorso sulla base della distinzione kantiana tra intellectus archetypus e intellectus ectypus, intelletto intuitivo e intelletto discorsivo. Quest'ultimo, che è l'intelletto di cui si tratta nella Critica o " ordinario intelletto umano ", ha « di fronte a sé una varia molteplicità sensibile ch'esso può progressivamente determinare mediante le unità pure del pensiero, mai però risolvere completamente in esse »: onde questo intelletto « pone, sì, l'oggetto come determinabile mediante il pensiero, ma per esso essere e concetto continuamente si separano ». Quell'altro, invece, eh'è l'intelletto intuente o P " intuizione intellettuale ", di cui Hegel parla spesso come sinonimo della " ragione ", non solo negli scritti giovanili {ancora sotto il peso della terminologia schellinghiana), ma nelle opere stesse della maturità, quell'altro, dicevamo, « conosce ogni molteplicità solo come svolgimento e più precisa determinazione dell'unità originaria ch'esso stesso è »: onde « il pensiero e il pensato sono diventati una cosa sola, di modo che anche la barriera che il nostro intelletto empirico deve necessariamente porre fra il reale e il semplicemente possibile ha cessato di esistere per esso »2.

La logica di Hegel, prosegue Cassirer, « è la logica dell'intelletto intuitivo; di un intelletto che ha fuori di sé soltanto ciò ch'esso stesso ha prodotto. Essa non conosce rifrazione od offuscamento che questo intelletto subirebbe attraverso un mezzo estraneo, una ' sensibilità ' posta accanto o sotto di esso » 3. Ciò

2 E. CASSIRER, Storia della filosofia moderna cit., Ili, pp. 457-58. 3 Ivi, p. 458.

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che è — come certamente si rileverà — considerazione ovvia, e tuttavia salutare come un bagno di buon senso, dopo tutte le tirate lukacciane sulla Widerspiegelungstheorie nella filosofia di Hegel.

Lasciamo da parte altre osservazioni, pure interessanti, come quella, ad es., in cui Cassirer rileva come « la forma di considerazione speculativa della natura », prodotta da Hegel, disdegnando « la via che passa attraverso la scienza matematica ed empirica della natura », dia luogo a « una nuova forma di penetrazione nella ' interiorità della natura ' intesa come interiorità spirituale » (onde egli osserva, che « l'esposizione della filosofia hegeliana della natura ha certamente mostrato come questo apparente cambiamento di direzione verso un più concreto modo di considerare conduca in realtà soltanto a una volatilizzazione dialettica del contenuto della natura », così che « vanno perdute le leggi proprie della natura e dell'esperienza »). E tralasciamo pure la menzione, assai significativa, dell'avversione, provata da Goethe, per la " filosofia della natura " di Hegel, in quanto " conversione del divenire organico nella forma di divenire logico " (« Le proposizioni della logica hegeliana — in cui si dichiara che il bocciolo scompare nello sbocciare del fiore e che si può quindi dire che quello venga contraddetto da questo, come pure che il frutto definisca il fiore una ' falsa esistenza della pianta ' — gli sembrarono — scrive Cassirer — semplicemente mostruose; gli diedero l'im-pressione che si volesse distruggere l'eterna realtà della natura con un cattivo scherzo sofistico. »4).

Qui ci interessa rilevare soltanto come, sviluppando la sua analisi da un punto di vista strettamente kantiano, Cassirer giunga tuttavia, quasi inavvertitamente, a fissare il suo giudizio critico su Hegel in formule analoghe, o addirittura identiche, a quelle coniate da Marx nella Critica del diritto statuale o nell'ultimo Manoscritto del '44: fatto tanto più significativo, ove si consideri che, rispetto alla pubblicazione postuma di questi scritti, Das Erkenntnispro-hlem è in anticipo, com'è noto, di alcuni decenni.

Tipica è, in questo senso, la considerazione che il procedimento di Hegel « è costretto ad innalzare ad assoluto ciò che è elemento singolo e contingente »; e che « qui in realtà l'idealismo assoluto si trova di fronte al suo opposto sistematico, all'empirismo assoluto, e minaccia di convertirsi in esso », perché, « col pretesto

4 Ivi, pp. 472-73.

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che la ragione è ' tutto ciò che è reale ', una realtà di volta in volta determinata e raggiunta viene dichiarata senz'altro razionale »: dove la mente del lettore non può non correre alla formula marxiana della compresenza, in Hegel, dell' " idealismo acritico e del positivismo parimenti privo di critica ". E tipica, anche, la considerazione che, « nel presente dell'idea pura e del suo attuarsi, minaccia sempre d'introdursi surrettiziamente un particolare presente empirico come realizzazione ed espressione adeguata di quello », oppure che « un determinato presente temporale minaccia di sostituirsi alla ' sostanza che è immanente e all'eterno che è presente ' » °: dove il modo, vizioso e surrettizio, in cui il positivo ritorna quando serve a dare un corpo all'Idea, cioè alla realizzazione del " principio dell'idealismo " e, quindi, all' " esposizione positiva dell'assoluto ", non solo richiama vividamente le analoghe considerazioni di Marx, ma induce anche a un confronto, non senza delusioni, con le incertezze e la confusione di tanti marxisti contemporanei circa la natura e il significato dell' " og-gettivismo " hegeliano.

Infine, non meno significativa delle precedenti, è anche l'anno-tazione di Cassirer che « il linguaggio del panlogismo hegeliano si converte nel linguaggio del mito » e che « in questo modo di presentare l'idea [...] riecheggiano in realtà antichi motivi mitico-religiosi, riecheggiano rappresentazioni del divenire del mondo creato dall'essere originario di Dio » 6: dove, non solo è inevitabile, per il lettore, il confronto con le " manipolate " affermazioni di Marcuse, e anche di Lukàcs, sull'irreligiosità e l'ateismo di Hegel, ma è inevitabile anche il ricordo delle considerazioni di Feuerbach e di Marx sulla " mistica razionale " o " misticismo logico " della filosofia hegeliana.

È possibile che, se — nello scrivere quel capitolo — Cassirer era certamente ignaro di Marx, egli non lo fosse di Feuerbach o, magari, di Trendelenburg 7, nel quale pure ricorrono affermazioni consimili. E tuttavia, il vero dato, incontrovertibile e sicuro, è che la prima guida e lo stimolo più immediato a formulare quelle considerazioni gli venivano dal contatto diretto con l'opera di Kant: dalla quale egli sentiva, appunto, levarsi l'ammonimento

5 Ivi, pp. 464-65. 6 Ivi, p. 471. 7 Per la critica antihegeliana di Trendelenburg, si vedano le pagine as

sai importanti di M. Rossi, Marx e la dialettica hegeliana, voi. II, Roma 1963, pp. 66 sgg.

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contro la metafisica in quanto « tendenza generale del pensiero a trasformare i puri mezzi conoscitivi in altrettanti oggetti di conoscenza » 8, — le categorie in " essenze " o strutture della realtà; e, insomma, in quanto « tendenza apparentemente invincibile a trasformare le funzioni della conoscenza in concetti [cioè in sapere già formato], le condizioni [logiche] in cose » 9. Ciò che spiega la capacità di Cassirer a far luce su un aspetto, spesso ignorato della Critica, e cioè come la " cosa in sé " — essendo il mero Objekt del pensiero puro, senza riscontro nell'esperienza — abbia (insieme agli altri significati e funzioni che, pure, essa ha certamente nell'economia generale del pensiero di Kant) anche e, forse, soprattutto il significato di rappresentare, non la " realtà " più vera e profonda rispetto alla semplice esistenza " fenomenica " (come spesso esclusivamente si crede), bensì la realtà illusoria (e, proprio per questo, inconoscibile) della metafisica, e cioè quel-P " oggetto " fittizio e irreale in cui « noi non facciamo altro che ipostatizzare la struttura » 10 della nostra stessa coscienza soggettiva. Il concetto di " noumeno ", scrive Cassirer, significa « non già la particolarità di un oggetto, ma il tentativo di isolare una determinata funzione della conoscenza » ll, per farne immediatamente una realtà come tale. La " cosa in sé " — egli aggiunge — sorge « come termine correlativo, e per così dire come il ' contraccolpo ' della funzione dell'unità sintetica; essa si costituisce, quando noi consideriamo la x, che in realtà è unicamente l'unità di una regola concettuale di connessione, come un particolare contenuto oggettivo, e pretendiamo di riconoscerla come tale. L'oggetto ' non empirico ', cioè trascendentale, delle rappresentazioni, questa x insomma, non può certo venire intuito da noi, — non già però per il fatto di essere qualcosa di totalmente sconosciuto e sussistente per sé, che si nasconda dietro alle rappresentazioni, ma piuttosto per il fatto che esso costituisce soltanto la forma della loro unità, aggiunta a esse dal pensiero, senza possedere invece all'infuori di ciò un'esistenza concreta e isolata » 12.

Il che significa, a sua volta, che la limitazione delle nostre conoscenze al mondo delle " apparenze " e dei " fenomeni " — i quali, però, non sono le " parvenze " di Hegel, ma assai più spesso

8 E. CASSIRER, op. cit., II, pp. 792-93. 9 Ivi, p. 793. 10 Ivi, p. 810. 11 Ivi, p. 808. 12 Ivi, pp. 810-11.

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gli oggetti empirici stessi, cioè i fenomeni o eventi naturali proprio nel senso in cui ne parla Newton — non implica, per Kant, " più nulla di quella rassegnazione scettica " 13, che traspare invece spesso nel " positivismo " di un d'Alembert o di Maupertuis, ma rappresenta, al contrario, una barriera o, appunto, una " limitazione ", opposta all'uso sovrasensibile (e perciò illusorio) dei nostri poteri di conoscenza. Che è appunto — ma con la mirabile forza e sobrietà del linguaggio della Crìtica — ciò che dice Kant stesso, quando scrive che, « se i nostri lamenti che noi non scorgiamo punto l'interno delle cose, devono significare che noi non concepiamo, mediante l'intelletto puro, quello che le cose che ci appaiono possono essere in sé, essi sono al tutto ingiusti e irragionevoli, perché pretendono che senza i sensi si conoscano tuttavia le cose, e si possa quindi intuirle, e per conseguenza che noi si abbia una facoltà conoscitiva affatto diversa, non solo per grado, ma anche per intuizione e per specie da quella dell'uomo; insomma, che si debba essere, non uomini, ma esseri, dei quali noi stessi non possiamo dire se siano mai possibili, e tanto meno come siano costituiti » ". — Non uomini ma padreterni, come i metafisici di allora e quelli di oggi.

Certo, la Critica kantiana ha anche altri risvolti. La distinzione, ad es., tra denken e erkennen, tra pensare e conoscere. Onde diventa possibile un rapporto del pensiero con sé, che non sia al contempo rapporto con la realtà. Possibile il mantenimento dell' " a priori " logico. E quest'ultimo, seppure non si pone esso stesso come realtà, legittima tuttavia la metaphysica naturalis almeno come aspirazione: aspirazione alla conoscenza dell' " oggetto assoluto ", cioè àtìì'Objekt del pensiero puro, onde la " cosa in sé " diventa veramente l'inconoscibile dell'agnosticismo, e il fenomeno la semplice " apparenza " soggettiva del fenomenismo. Senonché, senza star qui a ripetere le osservazioni critiche, che già abbiamo accennato nella prima parte (e che, naturalmente, manteniamo), interessa sottolineare non solo la presenza effettiva e reale, nel pensiero di Kant, dell'altra linea di tendenza (che è merito precipuo, del resto, proprio di Hegel aver contribuito ad estrarre e a portare alla luce, sia pure solo per combatterla), ma anche come, al marxismo meno che ad altri, convenga tener quella linea sotto il segno dell'equivoco o, addirittura, nell'oscurità dell'oblìo.

;■'' Ivi, p. 797. ■': I. KANT, Critica della ragion pura cit., I, p. 266.

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È evidente che la complessa partita dei rapporti del marxismo, da una parte, con Kant e, dall'altra, con Hegel, non può considerarsi chiusa a questo punto. Il discorso è, fino a qui, solo un discorso di teoria della conoscenza. Ed è sicuro che ciò che Hegel perde in questa sede specifica, egli lo riguadagna in gran parte sul piano dove, solo e propriamente, il pensiero di Marx, in fondo, vive: la storia. Senonché i concetti apparentemente più semplici del materialismo storico sono anche i più ardui. E quello di " rapporti sociali di produzione ", che è il più arduo tra tutti, impone ancora un détour e una battuta d'arresto.

18. Colletti

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Vili. KANT, HEGEL, MARX

Una discussione significativa, da parte di Marx, della Critica della ragion pura, nella sua opera, che noi si sappia, non esiste. C'è una presa di posizione, rapida ma essenziale, sulla Rechtslehre, cioè sullo scritto in cui Kant ha tracciato i lineamenti fondamentali di quello " Stato di diritto ", che è tanta parte dello Stato con cui la borghesia ha governato in Europa per tutto l'Ottocento. Invece, della Critica come tale, un'analisi manca.

Il caso è in un certo senso analogo (se non anche più grave) a quello del rapporto con Rousseau. È impossibile intendere la Judenfrage, senza la critica di Rousseau alla scissione dell'uomo moderno in bourgeois e citoyen; impossibile capire la critica delia rappresentanza parlamentare, contenuta nella Critica del diritto statuale o nella stessa Guerra civile in arancia, senza l'antiparla-mentarismo di Rousseau e la sua teoria della sovranità popolare come sovranità inalienabile. Eppure, le poche volte in cui Marx fa cadere il discorso su Rousseau, è solo per criticarne il (presunto) giusnaturalismo contrattualista.

Il caso colpisce, ma non è né raro né impossibile da spiegare. Un pensatore fa delle " scoperte " — che in parte, poi, sono anche, come sempre, delle " riscoperte " — e tuttavia è incapace di rap-presentarsene chiaramente la genealogia. La sua coscienza non riesce a rendere interamente conto del suo essere. Di più: certe influenze gli sono giunte per via indiretta, cioè mediate da un altro autore: quella di Kant ad esempio — soprattutto per ciò che occorreva a Marx — gli pervenne indubbiamente, a noi pare, attraverso l'intermediazione di Feuerbach. Infine, è da mettere in bilancio il clima storico in cui un pensatore si forma (non escluse le infatuazioni stesse e le mode, che non sono un privilegio di oggi): le polemiche tra le varie " scuole " hegeliane, i dibattiti all'interno della sinistra stessa, la presenza incombente e maestosa,

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sullo sfondo, del grande pensiero di Hegel e — last but not least — un fatto decisivo: l'orientamento e il forte interesse storico-politico con cui Marx subito debutta, il " non cale " in cui da lui è stato sempre tenuto il problema gnoseologico come tale; ciò che non significa, si badi, come talvolta volgarmente si è inteso, nichilismo gnoseologico o un " volgere le spalle " sprezzante alla filosofia, ma significa — cosa ben più ardua da intendere — che, proprio per il fatto che quel problema filosofico o gnoselogico gli si era chiarito, esso veniva a disporsi per lui su un altro piano, dove tutto — categorie e materie — cambiavano nome e natura.

È per noi certo che — in casi come questi, più che mai — il motto dello storico debba essere: zu den Sachen selbstì Contare quante volte il nome di Kant ricorra negli scritti di Marx, sarebbe impresa inutile. Il modo di procedere non può essere che quello di andare direttamente ai problemi stessi e qui, cioè nel vivo della questione reale, fare il conto del " dare " e dell' " avere ", quale che possa essere stata, altrimenti, la consapevolezza o l'autocoscienza del singolo pensatore come tale.

Ora, nel caso del rapporto con Kant, noi pensiamo che il luogo, dove l'esperimento possa farsi con un alto grado di precisione, esiste. Si tratta delle prime pagine del § 3 Aél'Einleitung del '57 ai Grundrisse der Kritik der polìtischcn Oekonomie. Marx vi discute e vi critica il pensiero di Hegel. Noi crediamo di aver trovato il luogo della Scienza della logica che, nello scrivere, Marx ha avuto presente (e non importa se presente agli occhi del corpo o a quelli della memoria). Il testo di Hegel contiene una critica a Kant. Marx, d'altra parte, critica questo testo di Hegel. Sussistono, quindi, le condizioni ragionevoli per tentare di mettere a fuoco il rapporto tra i tre.

Scienza della logica, III, pp. 24-25: « Un errore capitale che regna qui », cioè nella dottrina del concetto, scrive Hegel, « è di credere che il principio naturale, ossia il cominciamento da cui si prendono le mosse nello sviluppo naturale o nella storia dell'individuo che si sta formando, sia il vero e quello che nel concetto è il primo. L'intuizione o l'essere son bensì secondo la natura il primo ovvero la condizione per il concetto, ma non per questo sono l'in sé e per sé incondizionato; nel concetto si toglie anzi la realtà loro e con ciò insieme quell'apparenza che avevano come di un reale condizionante ». Pertanto, anche se la filosofia « premette quei gradi del sentimento e dell'intuizione, della co-

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scienza sensibile etc. all'intelletto », è da considerare — Hegel conclude — che « essi son bensì le sue condizioni, ma soltanto nel senso che il concetto sorge dalla lor dialettica e nullità come loro ragion d'essere, e non già nel senso che sia condizionato dalla loro realtà ».

La questione, come si vede, è quella stessa che noi abbiamo più volte analizzato. Lo sviluppo " secondo natura " è il processo reale; lo sviluppo " secondo il concetto " il processo logico. Il primo ci dà la situazione come si prospetta all'" intelletto ": l'essere empirico-sensibile è il prìus, il pensiero è un condizionato. Il secondo ci dà la situazione come si configura alla " ragione ": il pensiero annulla — dialettizzandole — le condizioni o i presupposti reali da cui sembrava dipendere, include 1'" altro " entro di sé; e, così facendo, come trasforma se stesso da condizionato in condizionante, così trasforma anche l'essere empirico, da cui sembrava dipendere, in un suo effetto e in un suo risultato. Il primo sviluppo ci dà la relazione che segna il processo al conoscere: il passaggio dall'essere al pensiero, dal non-sapere al sapere; il secondo ci dà il processo del conoscere. Nello sviluppo " secondo natura ", il concetto è il secondo e la realtà il primo; nel processo logico, viceversa, il concetto è il primo e il reale il secondo: il reale, vale a dire, è ciò che è dedotto e derivato da lui.

E un fatto che, al pari di qualsiasi altro autentico pensatore, Hegel non può sbarazzarsi di nessuno di questi due processi. E tuttavia, presi insieme, essi costituiscono la croce della sua teoria della mediazione. Lo sviluppo " secondo natura " gli è indispensabile perché il concetto appaia un risultato, cioè un che di mediato (« giacché mediazione — egli precisa — è principio e passaggio a un secondo termine, in modo che questo secondo solo in tanto è in quanto vi si è giunti da un qualcosa che è altro rispetto ad esso », Enc, § 12); e, se non fosse mediato, il concetto sarebbe una semplice fede soggettiva, sarebbe, appunto, il sapere immediato di Jacobi. D'altra parte, Hegel ha anche bisogno di liberarsi dello sviluppo " secondo natura ", per poter affermare il principio dell'idealismo: cioè che il concetto non ha condizioni o presupposti fuori di sé, ma è Yincondizionato e l'assoluto. « Se la mediazione — afferma l'Enciclopedia — è presentata come una condizionalità ed è messa unilateralmente in rilievo, si può dire — ma non si dice gran cosa — che la filosofia deve la sua prima origine all'esperienza (all''aposteriori). In realtà — Hegel prosegue — il pensiero è essenzialmente la

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negazione di un esistente immediato. Allo stesso modo, il mangiare si deve ai mezzi di nutrizione, perché senza questi non si potrebbe mangiare: il mangiare viene in verità, sotto questo aspetto, rappresentato come un ingrato, che distrugge ciò a cui deve se stesso. E il pensiero, in questo senso, non è meno un ingrato » (Erre, § 12).

Stretto tra queste opposte necessità, è noto quale soluzione Hegel abbia abbracciato: lo sviluppo " secondo natura " è da lui declassato a processo apparente; lo sviluppo " secondo il concetto " è potenziato invece a processo reale. Meglio: il processo reale o secondo natura è ridotto all'" apparenza " o alla manifestazione del processo logico o secondo il concetto.

Come ha osservato acutamente A. Moni (quest'oscuro ma straordinario conoscitore italiano di Hegel, con la cui traduzione della Logica non regge il confronto neppure la traduzione del-YEncictopedia curata da Croce), la soluzione hegeliana è quella stessa di Aristotele, ma con segno invertito. La distinzione tra processo logico e processo reale — egli scrive — « è la nota distinzione aristotelica fra il Ttpùrov jcad'rjna? e il JIQÒ>TOV qniaEi », con l'avvertenza, però, « che quello che dice poi Hegel, cioè che l'intuizione e l'essere sono il primo secondo natura {der Natur nach), va inteso nel senso che sono il primo secundum genera-tionem, mentre alla yvoic. corrisponde invece qui il concetto » \

Ora, proprio su questo terreno, avviene lo scontro di Hegel con Kant. Anche nella Critica della ragion pura, infatti, si possono rintracciare i due processi sopra accennati: il processo per cui l'intelletto è un che di condizionato, e il processo, viceversa, per cui il reale appare come un prodotto del pensiero. Per non parlare dello " schematismo trascendentale ", dove 1'" immaginazione produttiva " determina l'intuizione pura e così crea il passaggio all'esperienza (« la congiunzione di questo doppio » — dice Hegel — è « uno dei lati più belli della filosofia kantiana », perché, « per suo merito, vengono ora riuniti la pura sensibilità e il puro intelletto, prima affermati assolutamente opposti », e perché « in ciò è contenuto un intelletto intuente o un'intuizione intellettiva », SF, III/2, 302), il processo logico ha il suo risalto nella stessa teoria della " sintesi originaria del-l'appercezione ". Kant, scrive Hegel, « mostrando che il pensiero ha giudizi sintetici a priori, giudizi che non vengono attinti alla

' G. W. F. HEGEL, Scienza della logica, III, p. 25 nota.

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percezione, mostra il pensiero come concreto in se stesso » (SF, III/2, 291), cioè come già avente il diverso entro di lui. « Questa sintesi originaria dell'appercezione » — incalza la Logica — « è uno dei princìpi più profondi per lo sviluppo speculativo; essa racchiude l'inizio della vera comprensione della natura del concetto » (III, 26), perché non presenta il concetto come un che di vuoto o di unilaterale ma come un'unità che ha l'altro entro di sé. Qui, ribadisce Hegel, « siamo in presenza ad una grande idea ». Senonché — egli aggiunge —, essa « assume, d'altra parte, un significato volgarissimo, poiché il suo particolare svolgimento resta racchiuso dentro vedute grossolane ed empiriche, e a nulla può meno pretendere che ad avere forma scientifica. Nell'esposizione fa difetto l'astrazione filosofica, e si ricorre ad una volgar maniera di parlare; e, pur tacendo della terminologia barbarica, Kant resta imprigionato nella considerazione psicologica e nella maniera empirica» (SF, IH/2, 291).

In altre parole, malgrado la grande idea di una " sintesi originaria dell'appercezione ", « lo svolgimento ulteriore — nota Hegel — corrisponde poco a questo cominciamento ». « Già l'espressione di sintesi conduce facilmente daccapo alla rappresentazione di un'unità estrinseca e di un semplice collegamento di tali, che sono in sé e per sé separati. La filosofia kantiana si è fermata allora soltanto al riflesso psicologico del concetto ed è ritornata indietro all'affermazione del permanente condizionamento di esso per parte di un molteplice dell'intuizione » (III, 26).

Stringiamo il senso del discorso. Hegel ritrova in Kant entrambi i due processi, — sia il processo logico sia il processo reale. Il primo è quello in cui il concetto appare come la totalità, cioè come la " sintesi originaria " o unità di sé e dell'altro insieme: e qui — avendo già il particolare o la differenza entro di sé — il concetto è esso stesso il concreto. Il secondo, invece, è quello in cui il concetto o il pensiero appare solo come " uno dei due ", avente 1' " altro " fuori di sé. Nell'un caso, il reale è un prodotto del pensiero; nell'altro il pensiero è condizionato dall'essere empirico. Da questa base problematica che, nelle grandi linee, possiamo considerare comune, Hegel e Kant proce-dono in direzioni opposte. Kant, pur affermando che il pensiero è " sintesi originaria ", mantiene la distinzione tra condizioni reali e condizioni logiche: onde, riconosciuto che il pensiero è totalità, egli considera che — proprio in quanto questa totalità è solo pensiero — essa è pur sempre soltanto un elemento o una

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parte del processo reale. Hegel, viceversa, compie l'operazione opposta: assorbe il processo reale entro il processo logico, riduce il rapporto in cui il pensiero è solo " uno dei due " a quello in cui esso è la " totalità ": con il risultato che — mentre il concetto gli si trasforma, da mèra condizione logica o ratio cogno-scendi, in ratio essenii, cioè in ragion d'essere o condizione della realtà — quest'ultima, invece, diventa un semplice prodotto o una manifestazione dell'Idea.

È chiaro quale sia il problema che si agita al fondo di questa distinzione. Non c'è pensiero, se prima non è dato qualcosa da pensare: ciò che vuol dire che l'oggettività reale — in quanto è la condizione perché vi sia un contenuto della conoscenza — è anche la condizione perché vi sia pensiero (che non c'è pensiero, se non in quanto si pensi qualcosa di determinato). D'altra parte, se per quest'aspetto il reale è la causa e il pensiero è l'effetto, è pur vero che, in quanto quel che è " pensato " è inevitabilmente un prodotto del pensiero, ciò che prima era causa diventa ora effetto e ciò che effetto causa della sua causa. Qualsiasi tentativo di venir fuori da questo duplice processo, in cui realtà e pensiero appaiono, di volta in volta, come la condizione e il condizionato, è solo un'illusione. Se il reale infatti è l'oggettivo, e l'oggettivo — sia detto contro l'idealismo — è proprio ciò che è esterno e indipendente dalla soggettività pensante; non è meno vero tuttavia — e questo sia detto contro l'empirismo o il materialismo " primitivo " — che una condizione indispensabile per discriminare l'oggettivo dal soggettivo e, quindi, la realtà dall'illusione, è proprio il pensiero, in una parola: la soggettività stessa. Il che significa che induzione e deduzione qui si implicano e si coinvolgono a vicenda: giacché, come la realtà è anteriore e indipen-dente, e il pensiero, rispetto ad essa, è solo un che di condizionato, così è anche un fatto che, al riconoscimento di quella realtà, noi possiamo arrivare solo deduttivamente, cioè attraverso un processo in cui essa emerga come un risultato dal vaglio e dalla selezione che opera il pensiero.

L'intreccio di recettività e spontaneità, di determinazione causale e creatività soggettiva, finora solo enunciato, ma non dimostrato, dalle varie formulazioni della Widerspiegelungstheorie (con il ben noto argomento che il " rispecchiamento " non è una semplice immagine speculare ma implica progetto e iniziativa), qui comincia a delinearsi e a prendere forma precisa. Il reale o il concreto è il primo: il materialismo, dunque, resta un punto

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fermo. D'altra parte, in quanto al riconoscimento di che cosa sia concreto noi perveniamo soltanto attraverso il pensiero, e cioè movendo dalle " determinazioni astratte " che sono appunto quelle che " conducono alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero ", il concreto stesso — dice Marx — « appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell'intuizione e della rappresentazione » 2.

E, entrando nel vivo della replica alla Scienza della logica, Marx prosegue: « È per questo che Hegel cadde nell'illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automovente si, del pensiero che abbraccia e approfondisce sé in se stesso, mentre il metodo di salire dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso. [...] Per la coscienza — e la coscienza filosofica è così fatta che per essa il pensiero pensante è l'uomo reale e il mondo pensato è, in quanto tale, la sola realtà — il movimento delle categorie appare come l'effettivo atto di produzione (il quale purtroppo riceve soltanto un impulso dal di fuori) il cui risultato è il mondo; e ciò è esatto in quanto — ma qui abbiamo di nuovo una tautologia — la totalità concreta, come totalità del pensiero, come un concreto del pensiero, è in faci un prodotto del pensare, del comprendere; ma mai del concetto che genera se stesso e pensa al di fuori e al di sopra dell'intuizione e della rappresentazione, bensì dell'elaborazione in concetti dell'intuizione e della rappresentazione. L'insieme, il tutto, come esso appare nel cervello quale un tutto del pensiero, è un prodotto del cervello pensante che si appropria il mondo nella sola maniera che gli è possibile [...] ». E tuttavia — conclude Marx — « il soggetto reale rimane, sia prima che dopo, saldo nella sua indipendenza fuori della mente », onde, « anche nel metodo teorico », esso « deve essere presente alla mente come presupposto ».

1 dati essenziali, che ci interessano, son contenuti tutti in questa pagina. Come ogni autentico pensatore, Marx riconosce il

2 K. MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica cit., p. 38. Nella stessa traduzione YEinleitung del 1857 può leggersi anche in appen dice a K. MARX, Per la critica dell'economia politica, Roma 1957. I succes sivi riferimenti a questa Introduzione non verranno specificati, in quanto essi son tolti dalle pagine iniziali del § 3.

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ruolo insostituibile del processo logico-deduttivo \ Egli sa bene che, in quanto è " pensato " e ad esso non si può pervenire altro che per la via del pensiero, il concreto è esso stesso un prodotto del pensare, del conoscere: non punto di partenza, ma risultato. Senonché, a differenza di Hegel, accanto al processo logico egli mantiene il processo inverso o reale. Il passaggio dall'astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il reale: non è da confondere col processo di origine del concreto stesso. Se, quindi, nel corso logico, il concetto è il prius e il reale è solo un particolare dedotto e derivato dal primo, è da tener presente — avverte Marx — che, poiché il concetto non genera se stesso né pensa al di fuori e al di sopra dell'intuizione e della rappresentazione, ma è il risultato esso stesso (si colga l'accento kan-tiano, profondo, di quest'affermazione) dell'« elaborazione in concetti dell'intuizione e della rappresentazione [Verarbeitung voti Anschauung imd Vorstellung in Begriffe] », è da tener presente, dicevamo, che a quel corso logico è sotteso un corso reale dal-l'andamento opposto, cove il concetto, che in quello è il primo, realiter è il secondo, e dove la realtà, che in quello invece è un risultato, è in effetti il punto di partenza e non il punto d'arrivo. Il rapporto di Marx con Hegel e Kant qui esce, ci sembra, chiaramente confermato. Da Hegel, Marx deriva soprattutto la teoria della ragione, cioè l'insegnamento del ruolo e della struttura del processo logico-deduttivo (un processo che in Kant, invece, non è mai stato pienamente sviluppato). Deriva, potremmo aggiungere (ma questo, a ben vedere, è solo un altro modo di ripetere la stessa cosa), l'istanza profonda dell'unità di processo logico e processo reale, cioè di quell'unità di pensiero ed essere che in Hegel, peraltro, è stata così imperiosa da pregiudicare, fin da principio, la loro reale distinzione. Da Kant, invece, Marx deriva chiaramente — consapevole o no ch'egli ne fosse e quali che possano essere state, altrimenti, le intermediazioni — l'istanza dell'esistenza reale come un "di più " rispetto a tutto ciò che

3 L'importanza che ha il processo logico-deduttivo in Marx è stata op-portunamente richiamata, contro ogni possibile fraintendimento o contro l'eventuale interpretazione empiristica della sua stessa critica giovanile ad Hegel, da M. DAL PRA, La dialettica in Marx, Bari 1965, pp. 114 sgg. Noi condividiamo, nelle linee generali, tutta l'impostazione di quest'opera, salvo che nell'interpretazione deìl'Einleitung. La nostra ricostruzione si discosta anche, soprattutto nella parte che segue, dallo scritto di DELLA VOLPE del 1962, Sulla dialettica, pubblicato in appendice alla Libertà comuniste, Milano 1963.

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è contenuto nel concetto: istanza che, mentre rende il processo reale irriducibile al processo logico, ci impedisce anche di dimenticare che, se il concetto è logicamente il primo, per un altro verso è esso stesso un risultato: il risultato, appunto, dell'" elaborazione in concetti dell'intuizione e della rappresentazione ", cioè il punto d'arrivo di quel passaggio dal non-sapere al sapere, o processo di formazione della conoscenza, che è stato —• sappiamo — il problema critico per eccellenza.

Ma un'ulteriore conferma che si può trarre, dalla citata pagina deil'Einleitung del 1857, è anche quella dell'assoluta e totale omogeneità (contro tutte le incomposte réveries, che corrono oggi, sulla cosiddetta coupure), tra la critica ad Hegel che in essa è contenuta, e quella che ad Hegel muoveva Marx, nel 1843, nella sua Critica del diritto statuale. In entrambi gli scritti, la critica è imperniata sempre su uno stesso argomento. Hegel riduce il processo reale a semplice processo logico; fa dell'Idea il soggetto o sostrato della realtà. Dopo, come la realtà empirica gli diventa il fenomeno o la " parvenza " dell'Idea, così il processo con cui si perviene a conoscere la realtà deve necessariamente trasformar-glisi nel processo di creazione della realtà. L'universale logico o categoria, che è appunto il predicato, è da lui tramutato in soggetto; viceversa, il particolare, che è il vero soggetto reale, gli diventa " predicato del suo predicato ", cioè manifestazione o incarnazione dell'universale logico così sostantificato.

Il nostro discorso sulla pagina deil'Einleitung, potrebbe, a questo punto, considerarsi concluso. Ma, poiché crediamo di intuire fin troppo bene il modo vago e fluttuante con cui l'unità di deduzione e induzione, da noi prima asserita, deve riflettersi nella mente del lettore, ci si impone di prendere in esame anche il problema concreto che Marx adduce come esempio nelle prime pagine del § 3, così da mostrare, nel particolare, come il processo logico-deduttivo e il processo induttivo o reale si intreccino e si combinino tra loro.

Facciamo uno sforzo estremo di chiarezza. Il punto centrale, da cui occorre muovere, è quello, più volte ribadito, della duplice natura (per ora diciamo così) del pensiero: cioè del pensiero come " intelletto " e del pensiero come " ragione ", del pensiero come " uno dei due " e del pensiero come la " totalità " della relazione. Questa semplice distinzione ci dà subito l'accesso a una fondamentale affermazione di Marx, contenuta nel passo del-l'Etnleitung che abbiamo prima citato. « La più semplice cate-

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goria economica, come per es. il valore di scambio, presuppone — dice Marx — la popolazione, una popolazione che produce entro rapporti determinati, ed anche un certo genere di famiglia, o di comunità o di Stato ecc. Esso non può esistere altro che come relazione unilaterale astratta di un insieme vivente e concreto già dato. Come categoria, al contrario, il valore di scambio mena un'esistenza antidiluviana »; tanto antidiluviana, che tutti i trattati di economia cominciano, giustamente, la loro esposizione con questa categoria, anziché con la popolazione, che, pure, ne è il presupposto: in modo non dissimile, da come « per es. Hegel — dice Marx — comincia giustamente la filosofia del diritto con il possesso, come la più semplice relazione giuridica del soggetto », sebbene, com'è chiaro, « non esista possesso alcuno prima della famiglia o dei rapporti tra servo e padrone, che sono rapporti molto più concreti ».

Ciò che emerge da queste righe, se le si legge con attenzione, è che in esse si parla dell'astrazione in duplice modo: come totalità o generalizzazione mentale e come un aspetto o un tratto analitico dell'oggetto particolare in esame; come astrazione dal punto di vista logico e come astrazione dal punto di vista reale.

Il valore di scambio, dice Marx, « non può esistere altro che come relazione unilaterale astratta di un insieme vivente e concreto già dato ». Qui, quello che ci viene incontro con chiarezza è, senza dubbio, il secondo significato: l'astrazione è (o esprime) un aspetto, un tratto unilaterale, che è stato separato (o, appunto, " astratto ") da un oggetto concreto e reale: oggetto che, come sempre, è a più lati. Il valore di scambio, ad es., presuppone una popolazione che scambia; ma di quest'oggetto, eh'è la popolazione, la categoria " valore di scambio " ci dà appunto solo un tratto, solo un modo d'essere o una relazione unilaterale.

L'altro aspetto, invece, che è quello per cui la categoria — oltre ad essere un lato dell'oggetto particolare o concreto — è una generalizzazione mentale o un'idea, emerge con chiarezza dalle righe che aprono il § 3. Nella trattazione o esposizione scientifica, dice Marx, « sembra corretto cominciare con il reale ed il concreto, con l'effettivo presupposto, quindi, per es., nel l'economia, con la popolazione, che è la base e il soggetto del l'intero atto sociale di produzione. Ma, ad un più attento esame, ciò si rivela falso. La popolazione è un'astrazione, se tralascio ad esempio le classi da cui essa è composta. A loro volta, queste classi sono una parola priva di senso, se non conosco gli elementi

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su cui esse si fondano, per es. lavoro salariato, capitale ecc. E questi presuppongono scambio, divisione del lavoro, prezzi ecc. Il capitale, per es., senza lavoro salariato, senza valore, denaro, prezzo ecc., è nulla. Se cominciassi quindi con la popolazione, avrei una rappresentazione caotica dell'insieme [...] ».

Qui, ciò che dev'essere sùbito rilevato è che la presupposizione, di cui si parla, è l'inverso di quella prima accennata. La popolazione è il presupposto reale, è la base e il soggetto dell'intero atto sociale di produzione. Ma questo presupposto reale presuppone, a sua volta, tutta una serie di condizioni, senza le quali non significa nulla, è una parola priva di senso, una rappresentazione caotica. La popolazione non ha senso senza le classi, da cui essa è composta; a loro volta, le classi non significano nulla " se non conosco gli elementi su cui esse si fondano ", cioè lavoro salariato e capitale; questi ultimi, infine, presuppongono il valore di scambio, la divisione del lavoro e i prezzi.

È chiaro che, mentre la prima è una presupposizione reale, la seconda è una presupposizione logica. Il valore di scambio " presuppone la popolazione ": esso " non può esistere altro che come relazione unilaterale, astratta di quest'insieme vivente e concreto già dato "; d'altra parte, la popolazione, che è il presupposto e la base reale di tutto, presuppone a sua volta, dal punto di vista logico, tutta una serie di categorie, senza le quali essa non avrebbe alcun significato (donde l'impossibilità per la trattazione o esposizione scientifica di cominciare da essa): serie di categorie, la quale fa invece capo al valore di scambio. La popolazione, che è il prius dal punto di vista reale, è l'ultimo dal punto di vista logico. Viceversa, il valore di scambio, che realiter è solo un tratto unilaterale, è, dal punto di vista logico o come generalizzazione mentale, la generalità più comprensiva, rispetto alla quale tutte le altre categorie appaiono solo particolarità derivate.

Il discorso, come si vede, ci ha ricondotti al problema di fondo. Presupposizione logica e presupposizione reale. Cioè: causa cognoscendi e causa essendi, deduzione e induzione, sviluppo " secondo il concetto " e sviluppo " secondo natura "; o, anche, per usare la terminologia adottata da Marx nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale: Darstellungsweise e Forschungs-weise, cioè modo di esposizione del pensiero e modo di indagine del materiale (da cui quel pensiero si è formato). « Il modo di esporre un argomento deve distinguersi formalmente dal modo

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di compiere l'indagine. L'indagine deve appropriarsi il materiale nei particolari, deve analizzare le sue differenti forme di sviluppo e deve rintracciarne l'interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento reale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce, e se la vita del materiale si presenta ora idealmente riflessa, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori. Fondamentalmente, il mio metodo — dice Marx — è non solo differente da quello hegeliano, ma ne è anche direttamente l'opposto. Per Hegel il processo del pensiero, che egli trasforma addirittura in soggetto indipendente col nome di Idea, è il demiurgo del reale, che costituisce a sua volta solo il fenomeno esterno dell'idea o processo del pensiero. Per me, viceversa, l'elemento ideale non è altro che l'elemento materiale trasferito e tradotto nel cervello degli uomini. » 4

Nel caso dunque dell'esempio preso in considerazione — una popolazione che produca capitalisticamente — il valore di scambio ci si presenta sotto due profili diversi: da un lato, come la generalità più comprensiva o più larga, da cui si deducono tutte le altre categorie e dalla quale quindi deve incominciare l'esposizione scientifica; dall'altro, invece, come un tratto oggettivo che, essendo realiter l'ultimo e, quindi, il tratto più superficiale e periferico, l'elemento più generico e (se preso a sé) più indeterminato dell'oggetto concreto in esame, non può non rimandare ai rapporti interni e più concreti che ne stanno alla base e dai quali esso deriva come un loro semplice modo d'essere e una loro articolazione.

Ora, la situazione qui delineata è appunto quella che si incontra ad apertura del Capitale. L'opera inizia l'esposizione studiando la " forma di valore ", o " forma di merce ", che assume il prodotto del lavoro quando è prodotto per lo scambio. Marx prende le mosse da qui perché, com'egli spiega, « la forma di valore del prodotto del lavoro è la forma più astratta, ma anche più generale del modo borghese di produzione » 5. Essa è la forma più lata e più comprensiva, per la semplice ragione che non c'è nulla (o quasi), nella società borghese, che non abbia forma di valore e non si presenti come merce. La " forma di denaro " e la stessa " forma di capitale " sono solo sue specifi-

'' K. MARX, Il capitale cit., I, 1, pp. 27-8. ° Ivi, p. 94 nota.

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cazioni o particolarizzazioni, — forme derivate che sarebbero as-solutamente incomprensibili, ove prima non fosse stata chiarita la forma di valore o di merce dalla quale esse traggono origine.

Da ciò, il corso logico-deduttivo dell'opera. Prese le mosse dalla " forma di valore " o forma di merce, si discende alla " forma di denaro " e, da questa, alla " forma di capitale ", proprio come, logicamente, si passa dall'universale al particolare e, dal particolare, all'individuale. Prima, quindi, la merce; poi il denaro, che è esso stesso una merce, seppure avente una particolare funzione; infine, il capitale che è esso stesso denaro, destinato a un particolare impiego. Tutti gli anelli della catena deduttiva paiono sospesi al prius logico da cui si son prese le mosse, così che, dice Marx, " può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori ". In realtà, ciò che impedisce qualsiasi apriorismo è che — oltre che come generalità o come idea e, quindi, come prius logico — la categoria è qui presa in relazione all'oggetto particolare, da cui è stata astratta, e cioè come il tratto ultimo, o più generico e superficiale, a cui si è pervenuti (ecco l'importanza decisiva del processo di formazione del concetto) nel corso dell'indagine o scomposizione analitica dell'oggetto stesso. Il che significa che, insieme al corso deduttivo, già visto, per cui si discende dalla merce al denaro e da questo al capitale, l'opera sviluppa un pro-cesso induttivo per cui si rìsale dai tratti generici o secondari ai tratti specifici o primari dell'oggetto in esame, dagli elementi subordinati a quelli dominanti, e, insomma, dalla merce e dal denaro, come sue " forme fenomeniche particolari " r', al capitale stesso che ne è alla base e che riveste alternativamente quelle forme nel corso del suo ciclo vitale.

Non si fraintenda questo discorso circa l'ordine inverso del processo logico e del processo reale. Esso non significa che la nostra conoscenza ci presenta un'immagine del mondo capovolta, come se noi fossimo condannati a vedere il mondo testa in giù. Significa che il pensiero da solo non è la conoscenza; che la conoscenza è la congruenza tra il pensiero e la realtà; e che, anzi, è condannato a vedere il mondo alla rovescia proprio chi non tiene conto di quella differenza.

Merce-denaro-capitale: l'ordine logico ci si prospetta così. Il pensiero passa dall'universale al particolare. Il suo modo di procedere è questo. Solo che, in quanto l'universale da cui si

6 Ivi, p. 170.

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prendono le mosse non è un universale a sé stante ma è solo il tratto più semplice di un oggetto complesso, la forma espositiva che va dalla merce al denaro e dal denaro al capitale, nel mentre soddisfa pienamente l'esigenza deduttiva del pensiero, si rivela anche come l'esposizione adeguata del corso con cui la nostra analisi si addentra progressivamente nell'oggetto in esame, risalendo dagli aspetti inessenziali o generici a quelli fondamentali o specifici, dagli effetti alle cause, e, insomma, dai fenomeni più superficiali alla base reale che ad essi è sottesa.

È evidente che tutto quello che il Capitale dice, all'inizio, sulla merce, vale anche per la merce quali che siano le condizioni storiche in cui essa compare. « La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta — dice Marx — come una immane raccolta di merci, e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l'analisi della merce. » 7 Ma poiché, anche quando non è " forma elementare " della ricchezza borghese, la merce, in quanto merce, è fatta sempre allo stesso modo (unità di valore d'uso e valore), l'analisi che ce ne dà il Capitale vale anche per la merce come compare, ad es., nella società greca dell'Odissea. Altrettanto dicasi per il denaro. Anzi, in quanto nel corso logico-deduttivo la merce appare come la condizione per la nascita del denaro, e il denaro come la condizione del capitale, è certo che quel corso logico stesso non è altro che il riassunto, in forma sintetico-razionale, di tutto il cammino storico che ha preceduto la nascita del capitale moderno, a partire dal momento, che si perde nella notte dei tempi, in cui il prodotto del lavoro ha per la prima volta preso la " forma di valore " e quindi di merce. « La circolazione delle merci — scrive Marx — è il punto di partenza del capitale. La produzione delle merci e la circolazione sviluppata delle merci, cioè il commercio, costituiscono i presupposti storici del suo nascere. Il commercio e il mercato mondiale aprono nel secolo XVI la storia moderna della vita del capitale. » Allo stesso modo, « dal punto di vista storico, il capitale si contrappone dappertutto alla proprietà fondiaria nella forma di denaro, come patrimonio in denaro, capitale mercantile e capitale usurano ». Pertanto, anche se « non c'è bisogno dello sguardo retrospettivo alla storia dell'origine del capitale, per riconoscere che il denaro è la prima forma nella quale esso

7 Ivi, p. 47.

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si presenta », perché « la stessa storia si svolge ogni giorno sotto i nostri occhi » e perché « ogni nuovo capitale calca la scena, cioè il mercato — mercato delle merci, mercato del lavoro, mercato del denaro che sia — in prima istanza come denaro » ", è pur vero che la deduzione logica dal denaro al capitale ci rida l'essenziale del corso storico che ha preceduto la nascita del capitale moderno. (A proposito di che — sia osservato solo di passata — comincia a prendere corpo anche il nostro discorso circa la derivazione, che Marx ha operato da Hegel, del processo logico-deduttivo e circa il ruolo che questa eredità ha avuto nel costituirsi del suo pensiero come pensiero storico.)

Ma, se è certamente vero che il corso con cui noi risaliamo, nell'analisi del capitalismo moderno, dai suoi aspetti più superficiali e periferici a quelli più interni e essenziali, è al tempo stesso (nella misura in cui esso non può non configurarsi, logicamente, come un processo deduttivo dove il generale-generico appare condizione o causa del particolare-.r/>m/zco) anche un riepilogo dei presupposti storici che hanno presieduto alla nascita del capitalismo moderno, è, d'altra parte, decisivo cogliere, insieme a quest'unità dei due processi, anche la loro distinzione e, insomma, tener fermo, più che mai, che la deduzione non è l'induzione, né il processo logico il processo reale stesso. Una volta che sia presupposta la moderna produzione fondata sul capitale, la causa di tutto, dice Marx, è da ricercare in questo presupposto reale stesso, cioè in questo dato presente, che è ed esiste, non nei presupposti storici, che ormai non esistono più e sono scomparsi. La causa, il fondamento reale, è, in breve, il capitale, non la merce e il denaro che appaiono invece come le sue condizioni dal punto di vista logico. Il corso deduttivo, che fa discendere il denaro dalla merce e il capitale dal denaro, in quanto riassume la storia che ha preceduto la nascita del capitale moderno, varrà a spiegarci, ad esempio, il fatto che il denaro con cui il primo capitalista ha comperato forza-lavoro non poteva essere esso stesso il risultato del lavoro salariato ma doveva avere come condizione la semplice produzione di merci. Senonché questi presupposti logici ci danno, appunto, le " condizioni antidiluviane del capitale ": sono i « suoi presupposti storici, che, proprio perché storici, sono passati e quindi appartengono alla storia della sua formazione, ma

8 Ivi, p. 162.

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mai e poi mai alla sua storia contemporanea, cioè al sistema reale del modo di produzione da esso dominato » *.

E Marx prosegue: « Le condizioni e i presupposti del divenire del capitale, del suo sorgere, implicano appunto che esso non esiste ancora ma è solo sul punto d'essere; essi scompaiono quindi con il capitale reale, con quel capitale che, a partire dalla sua realtà, pone esso stesso le condizioni della sua propria realizzazione ». Quei presupposti, « che originariamente apparivano come condizioni del suo venire ad essere — e che perciò non potevano scaturire ancora dalla sua azione come capitale — appaiono ora come risultati della sua propria realizzazione, della sua realtà, come posti da lui — non come condizioni della sua nascita ma come risultati della sua esistenza ». Coloro invece che scambiano il processo logico con il processo reale, come « gli economisti borghesi, i quali considerano il capitale come una forma della produzione eterna e conforme a natura (anziché conforme alla storia), cercano poi di giustificare il capitale presentando le condizioni della sua nascita come le condizioni della sua esistenza presente, cioè spacciando i momenti in cui il capitalista si appropria ancora come non-capitalista — perché è sul punto di diventarlo —, come le vere condizioni, nelle quali egli opera l'appropriazione in quanto capitalista » ".

Concediamoci una breve parentesi distensiva. La totale incom-prensione di questo nesso tra processo logico e processo reale — che è il nesso decisivo da approfondire se si vuol dare un senso rigoroso al concetto di storia che ebbe Marx — permette di spiegare una delle " curiosità " più rilevanti che hanno caratterizzato il marxismo teorico finora: e, cioè, la sua inclinazione a scambiare il " primo nel tempo " — che è poi il primo da cui muove il corso logico in quanto riepilogo degli antecedenti storici — con il " primo reale " o vero fondamento dell'analisi. li risultato ne è stato, che, mentre la riflessione logico-storica di Marx culmina nell'impostazione del problema decisivo della co«-temporaneità della storia o, come disse una volta con efficace espressione Lukàcs, del " presente come storia "; il marxismo tradizionale si è sempre mosso, invece, nella direzione di una filosofia della storia che derivasse la spiegazione del presente dal-

0 K. MARX, Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie, Berlin 1953, p. 363.

10 Ivi, pp. 363-64.

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1"' inizio dei tempi ". Ciò che consente di intendere, da una parte, l'inesausta aspirazione a una storia universale che, partendo dall'" uovo " di Epimenide, scendesse fino ai giorni nostri (magari con l'ausilio delle ben note " leggi generali "): onde le pensose asseverazioni che, per " una giustificazione teorica del materialismo storico ", per una sua giustificazione veramente esauriente, occorra — come scriveva Plechanov 1L — "un trattato riassuntivo della storia universale dal punto di vista materialista " (un auspicio, cui avrebbe poi dato esecuzione Kautsky con Die mate-rialistiscke Gescbichtsauffassung). E, dall'altra, permette di intendere la mai ben celata nota di sufficienza con cui il marxismo ha sempre giudicato il Capitale, in quanto analisi di un fenomeno storico particolare o " esempio " di applicazione di una " concezione generale ", che rimaneva, però, come sospesa e incerta, nella sua giustificazione, fino a che non si fosse provveduto a " fondarla " con una ricostruzione di tutta la storia.

Ma la prova e il documento più significativo di quell'incom-prensione, cui prima si accenava, è offerta dagli scritti in cui autori marxisti si sono cimentati col compito di restituire la linea del discorso tracciato da Marx nelle prime due sezioni del Capitale; e nei quali, ciò che in quest'opera è un serrato riepilogo di antecedenti /og/co-storici trascelti in funzione del presente, come il presupposto reale da spiegare, si diluisce in una narrazione o descrizione (più o meno colorita) delle relazioni mercantili in quanto tali; descrizione nella quale, poiché merce e denaro sono presi a sé (anziché come le forme più generali e astratte del modo di produzione capitalistico), il discorso finisce con l'essere non l'avvìo all'analisi del capitale ma una divagazione sull'epoca, dai contorni temporali indefiniti, in cui c'erano sì merce e denaro ma neppure l'ombra del capitale. Tipica è, in questo senso, e tanto più se si tien conto della vivida intelligenza dell'autrice, l'Introduzione all'economia politica della Luxemburg (che è ricca, peraltro, di spunti interessanti); o, per venire ai nostri giorni (e discendere, però, da quelle cime), il secondo e terzo capitolo del Trattato di economia marxista di E. Mandel (anche lui, naturalmente, un " materialista dialettico "), con i suoi patetici paragrafi su " baratto silenzioso e doni cerimoniali " e, in genere, con tutta la zavorra e il materiale di riporto su come in Papuasia, o tra i

11 G. PLECHANOV, Le questioni fondamentali del marxismo, Milano 1945, p. 107.

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Toda, i Karumba e i Badoga, dal baratto si è sviluppato, poco a poco, lo scambio e il denaro.

La radice non casuale di questi errori è, naturalmente, nello scambio di processo logico e processo reale, ovvero in quell'astratta dialettizzazione del finito, o oggetto concreto in esame, onde i rapporti determinati, costitutivi dell'oggetto stesso — come, ad es., il fatto che merce e denaro rappresentino alternativamente i modi d'essere del capitale, il quale, nell'investimento, passa dalla forma di denaro a quella di merce (mezzi di lavoro, materie prime e forza-lavoro) e poi ritorna, con la realizzazione del valore prodotto, dalla forma di merce a quella di denaro —, questi rapporti determinati, dicevamo, vengono risolti e dissolti in astratti rapporti razionali: con il risultato, che le categorie (nel nostro caso, merce, denaro e capitale), anziché essere prese nella relazione e con il significato che esse hanno all'interno della moderna società borghese, vengono concepite secondo il posto, e con il significato, che esse hanno nel succedersi delle diverse forme di società, ovvero secondo quella loro successione che è più o meno riepilogata nel corso logico-deduttivo o " successione ' nell'Idea ' " 12.

Da qui, due modi di vedere profondamente diversi. E cioè, da una parte, la tesi dell''Antiduh ring che « l'economia politica, come scienza delle condizioni e delle forme, nelle quali le diverse società umane hanno prodotto e scambiato e nelle quali hanno volta per volta distribuito i loro prodotti in modo conforme a questa produzione e a questo scambio, l'economia politica in questa estensione così lata, deve tuttora essere creata »: con l'osservazione-corollario che « la scienza economica che sinora possediamo si limita quasi esclusivamente alla genesi e allo sviluppo del modo di produzione capitalistico » 13. Dall'altra, la tesi di Marx che, a coronamento del discorso sul rovesciarsi dei " presupposti storici ", da condizioni del sorgere del capitale in ristatati della sua esistenza, non solo afferma che « non è perciò necessario, per sviluppare le leggi dell'economia borghese, di scrivere la storia reale dei rapporti di produzione », ma aggiunge che è « la deduzione di questi, come rapporti storicamente divenuti », che « conduce sempre a equiparazioni [GleichungenJ » e confronti, « i quali rimandano a un passato che è alle spalle di questo sistema »; e che sono appunto " questi accenni " o

12 K. MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica cit, p. 49. 13 F. ENGELS, Antidiihring cit., p. 166.

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confronti che « offrono, insieme alla giusta comprensione del presente, anche la chiave per l'intendimento del passato » ".

Tentiamo di concludere con una messa a punto che riporti il discorso ai suoi fondamenti gnoseologici. Con uno sforzo estremo di concisione, tutta la questione dei rapporti tra deduzione e induzione, processo logico e processo reale, può essere ridotta a questa duplice affermazione di Marx: che « ogni capitale è una somma di merci, cioè di valori di scambio » e, d'altra parte, che « non ogni somma di merci, di valori di scambio, è capitale » 15. In termini di parafrasi da Kant, ciò significa né più né meno: a) che quel che conviene in generale a un concetto — qui la merce o valore di scambio — conviene anche a ogni particolare che è contenuto sotto quel concetto — qui il capitale; b) che tuttavia è « assurdo cangiare questo principio logico in quest'al-tro: ciò che non è contenuto in un concetto generale, non è contenuto neppure nei particolari, che sono ad esso subordinati, giacché questi sono concetti particolari, appunto perché contengono in sé più che non si pensi nel generale», — onde l'errore di chi pretenda « di non concedere alla cosa se non ciò che è contenuto nel suo concetto ».

Se capiamo bene, ciò significa tre cose. Primo: che la deduzione merce-denaro-capilale è indispensabile per comprendere il capitale in quanto anche il capitale è una merce. Secondo: che il passaggio deduttivo dall'astratto al concreto, che si compie " nel cammino del pensiero ", è pur sempre un passaggio astratto-concreto nell'astratto: dove il concreto o particolare è solo una particolarizzaztone dell'universale, non un che di eterogeneo rispetto ad esso (e, infatti, quel passaggio ci dice che anche il capitale è merce ma non ciò che fa della merce un capitale); onde l'inevitabile tautologia in cui incorre chi pretenda di far valere solo la deduzione, e il forzoso ricorso surrettizio all'esperienza, cui è costretto, per ottenere quel " di più " che è indispensabile a farci uscire dalla tautologia, e che il pensiero, però, da solo non riesce mai a darci. Terzo: che il vero passaggio dall'astratto al concreto non è il passaggio astratto-concreto nell'astratto ma è il passaggio da quest'ultimo al concreto reale (o conversione della deduzione nell'induzione): quindi, non il rapporto pensiero-essere nel pensiero ma il rapporto tra il pensiero e la realtà; dove si

14 K. MARX, Grundrisse cit., pp. 366-67. 15 K. MARX, Lavoro salariato e capitale, Roma 1960, p. 49.

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verifica, ancora una volta, la necessità di considerare il pensiero non solo come la " totalità " della relazione ma anche come " uno dei due ".

Ciò significa, ancora, che se la deduzione o ragione — col mostrarci che anche il capitale è merce — ci dà quell'indispensabile componente della considerazione storica che è la continuità del presente rispetto al passato; l'altro elemento non meno indispensabile ad essa, e cioè l'aspetto per cui la storia è continuità di eventi, ma sempre discontinui, e per cui il presente in tanto ha un senso proprio in quanto non è riducibile al passato: quest'altro elemento, dicevamo, può essere apportato solo da quella istanza materiale che fornisce il " di più " onde una somma di merci o di valori di scambio diventa capitale.

Continuità dunque e differenza. E, cioè, inclusione del particolare o presente nel pensiero, onde quel particolare, che è il moderno capitale, essendo collegato al riepilogo logico dei suoi antecedenti storici, diventa una differenza interna al concetto di merce (Hegel diceva: " il negativo del negativo ", il finito come momento interno all'infinito). Ma, d'altra parte, differenza reale, perché, lungi dal ridurre il particolare a momento dell'universale logico, esso è fatto valere nella sua natura eterogenea di cosa che esorbita dall'universale e, quindi, come esclusione di tutti i precedenti riassunti nel pensiero: in base a quell'istanza, appunto, della non-contraddizione materiale, che è più che adombrata nella profonda considerazione di Marx, secondo cui, quando ci sono le condizioni e i presupposti storici del capitale, non c'è ancora il capitale, e quando c'è invece il capitale, quei presupposti storici sono scomparsi.

Il senso ultimo del discorso è che, non solo nella conoscenza scientifica ma anche nella conoscenza storica — e, anzi, nella conoscenza storica proprio perché è essa stessa conoscenza scientifica —, non basta l'istanza della ragione o contraddizione dialettica ma occorre anche quella dell'identità materiale o non-contraddizione; e che insomma, per dirla con Marx, si tratta anche qui di « una dialettica di cui vanno definiti i limiti e che non annulla la differenza reale »ie, — quella differenza che ci è data appunto dalla considerazione del particolare, oltre che come momento interno all'universale, anche come esclusione di tutto ciò che esso non è.

16 K. MARX, Introduzione alla critica dell'economia politica cit., p. 52.

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Vero, quindi, che merce e denaro, che erano prima le condizioni del sorgere del capitale, ricompaiono poi nel capitale stesso e che quest'ultimo, dunque, non è un'identità inarticolata ma un oggetto complesso o a più lati. Solo che, tra quel " prima " e quel " poi ", e cioè tra la merce e il denaro come condizioni della nascita del capitale e come risultati invece della sua esistenza (risultati posti dal capitale stesso), c'è la differenza fondamentale (che si sa quale peso abbia avuto nella difficile elaborazione della teoria del valore, non come teoria valida per lo " stato primitivo e rozzo ", di cui parla Smith, ma come teoria valida proprio per le condizioni dello sviluppo capitalistico moderno), c'è la differenza, dicevamo, che passa tra la produzione mercantile semplice e la produzione capitalistica di merci: la prima, ramo secondario e subordinato di modi di produzione ancora fondamentalmente volti alla produzione per il consumo diretto (e nei quali l'appropriazione stessa, da parte dei nonproduttori, non è mediata dallo scambio e dal mercato: il grano d'obbligo per il signore feudale, il grano della decima per il prete, l'appropriazione diretta del prodotto da parte del proprietario di schiavi); la seconda, caratterizzata, invece, dall'eliminazione di tutto ciò che là era primario e dall'imporsi come elemento fondamentale di ciò che prima era marginale o secondario: onde il valore, diventando ' soggetto prepotente ' dell'intero processo produttivo, non è più valore di merce o di denaro, ma plusvalore, cioè capitale; e « si presenta improvvisamente come una sostanza dotata di proprio processo vitale e di moto proprio, per la quale merce e denaro sono entrambi pure e semplici forme », così che, « invece di rappresentare relazioni fra merci, il valore entra ora, per così dire, in relazione privata con se stesso »; e « si distingue, come valore originario [investito], da se stesso come plusvalore, allo stesso modo che Dio Padre si distingue da se stesso come Dio Figlio, ed entrambi sono coetanei, e costituiscono di fatto una sola persona [...], e appena è generato il figlio, e mediante il figlio, il padre, la loro distinzione torna a scomparire, ed entrambi sono uno » 17.

Se non si vuole quindi ripetere l'errore di quegli economisti i quali confondono i presupposti storici del capitale con le sue attuali condizioni di esistenza o, il che è lo stesso, la produzione mercantile semplice con la produzione capitalistica, occorre avere

17 II capitale cit., I, 1, pp. 170-71.

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ben chiaro: primo, che la differenza di questa da quella ha la sua base in quel principio dell'identità materiale che fa valere il particolare (qui il modo di produzione capitalistico stesso) a esclusione di quell'opposto o universale, in cui è riepilogato tutto ciò che esso non è; in modo, quindi, diametralmente inverso alla dialettica della materia di Hegel e del " materialismo dialettico ", per la quale, invece, il particolare o finito ha come essenza 1'" altro ", cioè l'infinito o il negativo. Secondo, che proprio quest'istanza dell'esclusione dell'opposto o «o«-contraddizione ha tuttavia bisogno, per potersi realizzare appieno, del principio della contraddizione dialettica o razionale, perché, per poter misurare la differenza di una cosa dalle altre, è pur necessario metterle a confronto e stabilire tra loro una comparazione (si ricordi la considerazione di Marx che sono, appunto, questi confronti che " offrono, insieme alla giusta comprensione del presente, anche la chiave per l'intendimento del passato "). E terzo, infine, che le stesse opposizioni o contraddizioni reali che si rinvengono entro il concreto dato, in quanto oggetto a più lati (come, ad es., la contraddizione che insorge con la forza-lavoro, nel passaggio del capitale dalla forma di denaro a quella di merce, o la contraddizione delle crisi di realizzo, che accompagna la riconversione del capitale dalla forma di merce in quella di denaro) sono tutte contraddizioni costitutive dell'oggetto, cioè reali e, per ciò stesso, particolari o storicamente determinate: e, insomma, contraddi-zioni che, proprio in quanto specificano il modo di produzione capitalistico rispetto a tutte le altre formazioni economico-sociali, concorrono a definirne l'identità, risultando così irriducibili all'unità della semplice contraddizione razionale ".

18 Tutta la critica di Marx al metodo dell'economia politica è imperniata su questo tema dell'irriducibilità dell'opposizione reale all'opposizione logica, ovvero dell'impossibilità di assumere l'unità degli opposti o inclusione razionale come esclusiva dell'esclusione degli opposti o loro antitesi reale. Il discorso ha particolare sviluppo nell'esame dei modi con cui l'economia politica nega le crisi. Qui di seguito diamo alcuni dei luoghi più significativi. Storia delle teorie economiche cit., Ili, pp. 98-9: « Quando il rapporto economico — e quindi anche le categorie che lo esprimono — implica delle antitesi, è contraddittorio ed è appunto unità di contraddizioni, egli [James Mill] mette in evidenza il momento dell'«/tòà delle antitesi, e nega le antitesi. Egli fa dell'unità delle antitesi l'identità immediata di queste antitesi. Per esempio, la merce implica l'antitesi di valore d'uso e valore di scambio. Quest'antitesi si sviluppa, si rappresenta, si realizza come lo sdoppiamento della merce in merce e in denaro. Questo suo sdoppiamento appare come processo nella metamorfosi della merce, in cui la vendita e l'acquisto sono momenti differenti di un unico processo, ma ogni

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atto di questo processo implica nello stesso tempo il suo contrario. Nella prima parte di questo scritto, io ho accennato come fa Mill a liberarsi di questa antitesi: egli stabilisce semplicemente l'unità dell'acquisto e della vendita, trasformando quindi la circolazione in commercio di scambio, ma reintroduce di contrabbando nel commercio di scambio categorie prese a prestito dalla circolazione ». E ancora a p. 112: « È sempre la medesima logica. Quando un rapporto include delle antitesi, esso non è soltanto antitesi, ma unità di antitesi. E quindi è unità senza antitesi. È con questa, logica che Mill supera le ' contraddizioni ' ». Sempre nella Storia delle teorie economiche, II, pp. 552-53, questo passo assai significativo: « L'apologetica consiste nella falsificazione dei più semplici rapporti economici e specialmente nel sostenere, di fronte all'antitesi, l'unità. Se, per esempio, l'acquisto e la vendita, o il movimento della metamorfosi della merce, rappresenta l'unità di due processi o meglio il corso di un processo attraverso due fasi contrapposte, dunque essenzialmente l'unità di tutte e due le fasi, questo movimento è essenziale quanto la separazione e la contrapposizione delle medesime l'una di fronte all'altra come fasi indipendenti. Ma ora, poiché esse sono connesse, il realizzarsi dell'indipendenza dei momenti connessi non può apparire che violento, come un processo distruttivo. È appunto nella crisi che si manifesta la loro unità, l'unità dei distinti. L'indipendenza che assumono i momenti che appartengono l'uno all'altro e si completano l'un l'altro, è distrutta violentemente. La crisi manifesta dunque l'unità dei momenti divenuti indipendenti l'uno dall'altro. Senza questa intima unità degli apparentemente equivalenti tra loro, non si verificherebbero crisi. Ma no, dice l'economista apologetico. Verificandosi l'unità, non possono verificarsi crisi. È come dire che l'unità di momenti contrapposti esclude l'antitesi. Per dimostrare che la produzione capitalistica non può condurre a crisi generali, vengono negate tutte le condizioni e tutte le determinazioni formali, tutti i princìpi e le differentiae speci-ficae, in breve la produzione capitalistica stessa, e in realtà si dimostra che, se il modo di produzione capitalistico, invece di essere una forma specificamente sviluppata, particolare della produzione sociale, fosse un modo di produzione rimasto dietro i suoi più rozzi inizi, non esisterebbero le sue antitesi particolari, le sue contraddizioni e quindi neppure la loro esplosione nelle crisi. [...] Si retrocede non solo dietro la produzione capitalistica, ma perfino dietro la semplice produzione di merci, e si nega il fenomeno più complesso della produzione capitalistica — la crisi del mercato mondiale —, negando la prima condizione della produzione capitalistica ».-E ancora a p. 573: « Le frasi apologetiche che hanno lo scopo di negare le crisi, sono importanti in quanto dimostrano sempre il contrario di quello che vogliono dimostrare. Per negare la crisi, esse sostengono l'unità dove esiste l'antitesi e la contraddizione ». Sia consentita ancora questa citazione, assai significativa, dai Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie cit., p. 161: « Per esempio il rapporto di capitale e interesse viene ridotto allo scambio di valori di scambio. Dopo che si è tratto dall'empiria che il valore di scambio non esiste solo in questa semplice determinazione ma esiste anche in quella essenzialmente diversa del capitale, il capitale viene di nuovo ridotto al semplice concetto di valore di scambio, e l'interesse, che esprime appunto un determinato rapporto del capitale come tale, è strappato [herausgerissen] da questa determinatezza e fatto eguale al valore di scambio; è astratto dall'intero rapporto nella sua specifica determinatezza e riportato al rapporto, assai meno sviluppato, dello scambio di merce contro merce. Nella misura in cui astraggo da ciò che differenzia un concreto dal suo astratto, esso è naturalmente l'astratto e non si differenzia in nulla da lui » (cors. mio).

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IX. HEGEL E JACOBI

L'importanza di questa teoria, sviluppata da Marx, della duplice natura dell'astrazione (in quanto, formalmente, generalità e, reali ter, particolarità dell'oggetto concreto in esame) non può essere apprezzata appieno (così come non può esserne apprezzato neppure l'elemento che essa ha innegabilmente derivato da Kant), fino a che non si allarghi il discorso, e sia pure soltanto per rapidi scorci, a quel momento capitale della storia dell'irrazionalismo moderno e contemporaneo che è la lotta intrapresa per la distruzione dell'intelletto. Questa lotta, tutt'altro che priva di torbidi aspetti oscurantistici, e che è in corso ancora oggi (non senza la complicità, vedremo, del " materialismo dialettico " stesso), non è da confondere in alcun modo con quella descritta da Lukàcs nella sua celebre Distruzione della ragione: perché — non essendo la " ragione ", assunta a criterio da Lukàcs nella sua opera, la raison illuministica ma, al contrario, la " ragione dialettica " hegeliana — essa stessa risulta contaminata da elementi mistici: secondo, del resto, l'affermazione stessa di Hegel, nell'Aggiunta al § 82 dell'Enciclopedia, che « l'elemento mistico è, sì, qualcosa di misterioso ma solo per l'intelletto e, precisamente, in quanto il principio dell'intelletto è l'astratta identità, mentre l'elemento mistico [das Mystische], come sinonimo di speculativo, è l'unità concreta di quelle determinazioni, che per l'intelletto valgono come vere solo nella loro separazione e contrapposizione »: onde egli conclude, che « ogni razionale è perciò da designare al tempo stesso come mistico, con il che si vuole però intendere soltanto che esso trascende l'intelletto e non già che lo si debba considerare in genere come inattingibile e incomprensibile per il pensiero ».

Ora, in questa storia, ancora da scrivere, della " distruzione dell'intelletto ", un aperqu di grande interesse è offerto dalla

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critica di Jacobi a Kant: quel Jacobi, che abbiamo visto spesso richiamato nel testo di Hegel e del quale, malgrado la costante polemica (più aspra, peraltro, nel giovanile Glauben und Wissen che non negli scritti della maturità), Hegel tenne così alto conto — come giustamente ha ricordato Croce — da anteporlo a Kant, « quando, nei preliminari alla Logica della sua Enciclopedia, segnando in ordine progressivo le ' tre posizioni del pensiero rispetto all'oggettività ', [...] collocò, terza e più alta, la teoria del sapere immediato di Jacobi » \

L'argomento centrale che la filosofia di Jacobi subito ci impone è, di nuovo, quello della critica dell'" intelletto ": " intelletto " che, nella sua prima fase e cioè nella fase delle Lettere sulla dottrina di Spinoza (1785) o del dialogo su Idealismo e realismo (1787), è identificato con tutto il pensiero, e che più tardi, invece, come in Le cose divine e la loro rivelazione (1798) o nella lunga Introduzione del 1815 all'edizione delle opere, Jacobi distingue 2 esplicitamente dalla " ragione ". Ora, la linea del discorso mostra immediatamente un punto di contatto importante con Hegel. Il pensiero, dice Jacobi (e la differenza, però, da Hegel, ripetiamo, è che qui egli ancora non distingue il pensare " intellettivo " dal pensare " razionale "), è sempre conoscenza del finito. Pensare, comprendere, spiegare è scire per cau-sas, cioè addurre le condizioni di qualcosa, la causa o il fondamento da cui la cosa stessa deriva. Ma ciò significa, dice Jacobi, che « noi, in quanto concepiamo, rimaniamo in una catena di condizioni condizionate », dove tutto ci appare « come un risultato di connessioni meccaniche, cioè come qualcosa di semplicemente mediato », e, insomma, come un che di causato e dipendente a cui si perviene (si ricordi la definizione hegeliana della " mediazione ") movendo da altro. « Tutto ciò che la ragione può produrre mediante l'analizzare, connettere, giudicare, ragionare, conoscere riflesso, sono semplici cose della natura, e la stessa ragione umana, come essenza limitata, appartiene anche a queste cose. Ma tutta la natura, l'insieme degli esseri determinati, all'intelletto che ricerca non può manifestare più di quello che è contenuto in essa, cioè esistenza molteplice, mutazioni,

1 B. CROCE, Considerazioni sulla filosofia del Jacobi, in « La Critica », voi. XXXIX, Napoli 1941, pp. 320-21.

2 Cfr. F. H. JACOBI, Idealismo e realismo, a cura di N. Bobbio, To rino 1948, pp. 10 e 159.

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giuoco di forme: non mai un cominciamento reale, non mai un principio reale di qualche esistenza oggettiva. »3

Ora, questa natura mediata, e improntata al principio di causa, della nostra conoscenza logico-intellettiva fa sì, dice Jacobi, che, non solo il pensiero non possa concepire " il concetto di un cominciamento assoluto od origine della natura ", il concetto del-Yincondizionato, ma che quando esso si prova a pensarlo non possa fare a meno di sovvertirne il senso: giacché, « se diventa possibile un concetto di questo incondizionato e non connesso — e quindi extranaturale, l'incondizionato deve cessare di essere l'incondizionato; esso deve anche ricevere condizioni ». Da qui, continua Jacobi, « l'irrazionalità della pretesa di una dimostrazione dell'esistenza di Dio », in quanto, non appena il nostro intelletto e la nostra volontà (« che, l'uno e l'altra, sono innestati nella coesistenza, cioè nella dipendenza e nella finitezza ») si attentano a trattare della " causa prima ", essi la convertono da prima in seconda: prova ne sia l'intima contraddittorietà della vecchia metafisica la quale non si è mai resa conto — nella sua pretesa di dimostrare Dio per via logica — che « al soprannaturale era stato posto a base il naturale, e tuttavia questo doveva essere concepito sotto quello ». E Jacobi conclude: « siccome tutto ciò che è fuori della connessione del condizionato, del naturalmente mediato, è anche fuori della sfera della nostra conoscenza chiara, e non può esser compreso mediante concetti; così il soprannaturale non può essere ammesso da noi in nessun altro modo, se non come a noi dato; cioè, come fatto — ESSO È » *.

Il discorso, come si vede, ci riporta — e, anzi, ne è propriamente una delle fonti — alla critica sviluppata da Hegel contro la metafisica precritica (in particolare: Cartesio, Spinoza e Leibniz). Il principio di quella filosofia era l'idealismo, cioè la tesi che il mondo sensibile è nullità e disvalore; il contenuto di quella metafisica era l'assoluto, cioè l'affermazione che Dio, Dio solo,

3 F. H. JACOBI, Lettere sulla dottrina di Spinoza cit., pp. 224, 226 e 222. 4 Lettere sulla dottrina Ai Spinoza, pp. 224, 225 e 227. E cfr. anche

Idealismo e realismo, p. 246: « Quando si deve dare la dimostrazione di qualche cosa, è necessario sempre avere un argomento su cui possa fon darsi la dimostrazione. Questo comprende sotto di sé la cosa da dimostrarsi, e ne fa scaturire la verità e la certezza, in modo che quella riceva da esso la propria realtà [...]. Parimenti se si dovesse dimostrare l'esistenza di un Dio vivente, bisognerebbe che Dio si lasciasse spiegare, dedurre e svolgere come dal suo principio, da qualche cosa che noi potessimo accogliere come il suo fondamento, e che sarebbe precedente ed estraneo a lui ».

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è la verità; e, tuttavia, il metodo della " dimostrazione intellettuale ", da essa adottato, costringeva quella filosofia, suo malgrado, a contraddirsi. Nel passaggio dal mondo a Dio, Dio, che era dichiarato il creatore e quindi il primo, diventava il secondo; mentre il mondo, che era dichiarato non-essere e caducità, diventava il " fermo essere " che sta a fondamento.

Il richiamo di Hegel a Jacobi su questo punto è — come sappiamo — inequivocabile. In una pagina assai importante del terzo libro della Scienza della logica, che prima si è riportata, Hegel distingue tra l'attacco, che alla vecchia metafisica mosse Kant, dal lato del contenuto, e cioè criticandone la pretesa di togliere ad oggetto il sovrasensibile e l'assoluto (Dio, l'anima, ecc.), e la critica, viceversa, che a quella metafisica aveva mosso Jacobi, il quale « l'attaccò principalmente dal lato del suo modo di dimostrare, mettendo in rilievo nella maniera più chiara e profonda il punto fondamentale, che cioè cotesto metodo di dimostrazione è assolutamente stretto nel circolo della rigida necessità del finito, e che la libertà, vale a dire il concetto, e quindi tutto ciò che veramente è, sta al di là di un tal metodo e non ne può esser raggiunto » (III, 325).

L'alto apprezzamento di questo motivo centrale del pensiero di Jacobi ritorna anche nei paragrafi dell'Enciclopedia, che gli son dedicati. « Comprendere un oggetto — scrive Hegel esponendone il pensiero — non significa altro che metterlo sotto forma di condizionato e mediato. Allorché dunque quell'oggetto è il vero, l'infinito, l'incondizionato, il pensiero lo muta in un condizionato e mediato; e per tal modo, in luogo di comprendere, pensando, il vero, lo converte piuttosto in non-vero. » E Hegel continua: « Nell'appendice VII alle Lettere su Spinoza, il Jacobi ha condotto nel modo più conseguente questa polemica, ch'egli del resto ha attinto alla filosofia stessa di Spinoza e adoperato per combattere la conoscenza in genere. In questa polemica, il conoscere vien concepito soltanto come conoscenza del finito, come il procedere per mezzo del pensiero attraverso date serie da condizionato a condizionato, in cui ciò che era condizione riappare, a sua volta, come condizionato: — attraverso condizioni condizionate. Spiegare e comprendere significa, secondo questo indirizzo, mostrare una cosa come mediata da un'altra: ogni contenuto è perciò solo particolare, dipendente e finito; l'infinito, il vero, Dio, resta fuori del meccanismo di questa connessione in cui il conoscere è rinserrato » (Ene, § 62).

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La riserva critica di Hegel, naturalmente, non viene mai meno. Già in questo paragrafo, il quale pure si conclude accogliendo la polemica di Jacobi contro la scienza e il materialismo, trapela il principale motivo di dissenso. La critica di Jacobi va bene solo contro 1'" intelletto "', non può essere estesa alla " ragione ". L'intuizione, la fede, il " sapere immediato " di Jacobi non vanno esenti da grossi equivoci. Mentre a volte quell'intuizione ha gli accenti di un sensualismo soggettivo, altre volte — come quando « fede e intuizione debbono essere prese in senso più alto, come fede in Dio » — l'intuizione è null'altro che " l'intuizione intellettuale " stessa e, quindi, il pensiero (Enc, § 63). E neppure qui, s'intende, mancano del tutto i sarcasmi, di cui abbondava lo scritto giovanile, contro lo " sfrenato arbitrio delle immaginazioni e asserzioni "; così come non manca il severo ammonimento che « la filosofia non ammette il semplice asserire, né le immaginazioni, né le capricciose giravolte del raziocinio » {Enc, § 77). L'espressione " fede ", osserva Hegel, « reca con sé il particolar vantaggio di ricordare la fede religiosa cristiana [...] ». Ma « bisogna non lasciarsi ingannare dall'apparenza [,,.]. La fede cristiana include in sé un'autorità della chiesa: ma la fede di quel punto di vista filosofico è solo l'autorità della propria rivelazione soggettiva » {Enc, § 63). Per il " sapere immediato ", " ogni superstizione e culto d'idoli " può benissimo essere " dichiarato verità ": « per l'indiano, la vacca, la scimmia, o il brah-mino, il lama, non sono già Dio in forza del cosiddetto sapere mediato, in forza di raziocini e di sillogismi, ma egli vi crede » {Enc, § 72).

Senonché, detto tutto questo, noi pensiamo che avesse ragione Croce quando — sulla base della recensione hegeliana, del 1817, al terzo volume delle Opere di Jacobi, oltreché dei paragrafi del-ì'Enciclopedia — non solo sottolineava che, dopo la " vivace critica " giovanile a Jacobi, Hegel « fece nella maturità del suo ingegno ammenda di quel primo giudizio e gli assegnò un posto assai alto nella formazione della logica filosofica »; ma rilevava anche che, « d'altronde, lo stesso Hegel approvò e lodò il Jacobi per aver sostenuto con ogni vigore e determinatezza la somma importanza della immediatezza della conoscenza di Dio, che è Dio vivente, spirito ed eterno amore, e che, distinguendo sé in se stesso, è conoscenza di se stesso » *. Qui infatti, oltre a certe

5 B. CROCE, art. cit., p. 320.

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alleanze in alcune dispute accademiche, e oltre al precisarsi stesso della filosofia di Jacobi che, nel far propria la distinzione tra pensiero " intellettivo " e pensiero " razionale ", riconobbe, da ultimo, non essere la sua " intuizione ", o fede, altro che la " ragione speculativa " stessa, ciò che contribuì al mutare dell'atteggiamento di Hegel fu la comprensione più piena, che egli venne maturando, della natura effettiva della filosofia di Jacobi. Senza tema di esagerazione, si può dire che una delle conferme migliori di come tuttora Hegel rimanga, malgrado tutto, il maggior storico della filosofia, è offerta proprio dalla straordinaria acutezza con cui egli ha colto la vera prospettiva in cui si colloca, nella storia del pensiero, la filosofia di Jacobi. Si pensi: Jacobi critico di Spinoza! Una delle prime affermazioni che l'Enciclopédia gli dedica è che, gli argomenti della sua polemica contro 1'" intelletto ", Jacobi li " ha attinti alla filosofia stessa di Spinoza ". E il " realismo "! quel realismo di Jacobi, che così spesso ha stimolato considerazioni poco fondate sul materialismo (come chi dicesse: se volete il materialismo dovete rifarvi a Jacobi e non a Kant!). Anche qui Hegel è di una penetrazione mirabile: « Ciò che questo sapere immediato sa è, che l'infinito, l'eterno, Dio ■— il quale è nella nostra rappresentazione, — è anche realmente; che a questa rappresentazione si congiunge, nella coscienza, immediatamente e inseparabilmente, la certezza del suo essere» (Enc, § 64). E ancora: 1'" intuizione " di Jacobi, che così spesso è servita a presentare il materialismo come un atto di fede! La risposta di Hegel è che quell'intuizione, quel " sapere immediato " (un'estasi verso l'alto e non verso... il basso della materia) è l'intuizione stessa con cui comincia l'idealismo moderno: l'identità immediata di pensiero ed essere, il Cogito ergo sum di Cartesio — questo " fondatore della filosofia moderna " intorno alla cui proposizione, scrive Hegel, « può dirsi si aggiri tutto l'interesse della moderna filosofia ». E infatti — aggiunge egli subito con deliziosa ironia — « bisogna non saper altro circa la natura del sillogismo se non che in un sillogismo si trova la parola ergo, per credere che quella proposizione sia un sillogismo: dove sarebbe, infatti, il medius termìnus? E il termine medio appartiene alla natura del sillogismo ben più essenzialmente che non la parola ergo. Se, per giustificare il nome, si vuole denominare quel nesso posto dal Descartes un sillogismo immediato, questa forma superflua non significa altro che una connessione di determinazioni distinte, non mediata da niente. Ma, in tal caso, anche la connessione del-

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l'essere con la nostra rappresentazione, quale viene espressa dal detto del sapere immediato, è né più né meno che un sillogismo » (Erte, § 64).

Non si sarebbe potuto dire meglio! Alla base dell'idealismo moderno c'è il " sapere immediato ", l'innatismo o la presupposizione dell'idea; non c'è il sillogismo, che sarebbe un ragionamento: c'è un'intuizione " intellettuale " o, per dirla in parole povere, una fede. Il merito di Hegel è di averne avuto almeno coscienza 6.

Nella filosofia quindi di Jacobi — del quale, d'altra parte, egli sa valutare bene le reali proporzioni di pensatore di secon-d'ordine (dinanzi alle espressioni, " così eloquenti e determinate ", di Descartes, sull'" inseparabilità del me come pensante dall'essere ", « le proposizioni moderne del Jacobi e di altri » — dice il § 64 dell'Enciclopedia — « non possono considerarsi se non come ripetizioni superflue ») — in quella filosofia, dicevamo, Hegel coglie giustamente (che tale ne è, in effetti, il senso vero) la restaurazione — ai suoi occhi importante — del " principio " stesso della metafisica classica (l'identità di pensiero ed essere), contro e dopo la filosofia di Kant.

Quali che possano essere, infatti, le enormi differenze che dividono Hegel da Jacobi, è indubbio che — almeno nella parte critico-negativa del loro pensiero e, soprattutto, nella critica a Kant, nella critica del materialismo, dell'" intelletto scientifico " e del principio di causa — esiste tra i loro discorsi una larga zona di convergenza.

Nella Critica della ragion pura, dice Jacobi, « l'intelletto, per quanto venga chiamato la seconda fonte della conoscenza, non è in verità fonte di conoscenza perché gli oggetti vengono da lui non posti ma soltanto pensati » \ « Senza il dato, sia esso nell'intuizione pura o in quella empirica, l'intelletto [...] non si può sviluppare né pervenire ad una reale esistenza. Perciò esso è condizionato dal senso e con l'attività del pensare che gli è propria si riferisce ad esso in tutto e per tutto soltanto come strumento. » * Non solo: ma, poiché « l'intelletto non può trovare nella natura quello che non c'è, cioè il suo creatore », si giunge « a formulare

" Cfr. G. W. F. HEGEL, Differenz des Fichteschen und Schellingschen Systems cit., pp. 67-8: « Ebenso ist transcendentales Wissen und transcen-dentales Anschauen Eins und dasselbe ».

7 F. H. JACOBI, Idealismo e realismo cit., p. 19. 8 Ivi, p. 20.

20. Colletti 305

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la tesi che la natura è per sé stante, autosufficiente [...], concludendo che solo la natura esiste e al di fuori e al di sopra di essa non esiste nulla » 9.

Da ciò — prosegue Jacobi — un radicale " capovolgimento ". L'intelletto e la scienza presentano una visione della realtà che è l'inverso di quella offerta dalla filosofia. « Procedendo dall'intuizione sensibile », e « svolgendosi primamente in essa », l'intelletto « non può presupporre a questa intuizione il concetto del vero quale gli è imposto dalla ragione », cioè il concetto del-Vincondizionato: al contrario, « esso si pone il problema del sostrato di questo concetto senza del quale non vi è modo di verificarne la realtà, e lo cerca sul terreno dei fenomeni, dove crede di poter trovare l'essere in sé di tutti gli esseri e delle loro molteplici proprietà » 10. Il risultato è che, nella filosofia di Kant, si ricusa " validità oggettiva all'idea dell'incondizionato ", riconoscendole soltanto " una validità meramente soggettiva ", così che « nella facoltà conoscitiva dell'uomo si verifica un totale capovolgimento attraverso questa artificiosa trasformazione dell'incondizionato da ente reale in ente meramente ideale; la ragione viene abbassata al piano dell'intelletto, ed ha inizio la filosofia del nulla assoluto. Già, perché se nulla vi è di veramente incondizionato, nulla più esiste, e vien meno la verità là dove vien meno l'essere » ll.

Qui, come il lettore stesso può vedere, il nesso con Hegel si fa più trasparente. Quasi forzando i limiti stessi della sua propria filosofia intuizionista, Jacobi arriva a impostare il discorso sullo sviluppo " secondo natura " e lo sviluppo " secondo il concetto ". Il torto di Kant è di aver fatto del concetto, che dovrebb'essere l'incondizionato, un che di secondario e dipendente. In lui, il finito è e l'infinito non è: « la rivelazione del nulla viene a porsi dalla parte di Dio e del soprasensibile o soprannaturale; la verità e la realtà, invece, dalla parte di ciò che è intuibile coi sensi, della natura che sola si dispiega oggettivamente ». In altre parole, l'errore di Kant è stato quello di aver mantenuto in piedi lo sviluppo " secondo natura "; laddove, oppone Jacobi, « se si vuol lasciare anche una sola via aperta per dare un significato oggettivo alle idee o ai concetti puri della ragione, bisogna negare anzitutto il significato oggettivo dei concetti primi dell'intelletto,

9 Ivi, p. 66. 10 Ivi, p. 57. 11 Ivi, p. 269.

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cioè delle categorie, e quindi la realtà della natura e delle sue leggi, e rifiutare all'intelletto la caratteristica di essere in qualche modo una facoltà atta a conoscere il vero »; e, invece, nella Critica, Kant « contrappone all'interesse della ragione quello della scienza (o dell'intelletto), al platonismo l'epicureismo, e si presenta come rappresentante della scienza, dell'epicureismo, contro il platonismo, del naturalismo contro il teismo » 12.

11 programma della " distruzione dell'intelletto " — la An- nihilation des Verstandes di cui parla anche Hegel in Fede e Sapere " — qui è pronunciato con estrema decisione. Per dare « un significato oggettivo alle idee o ai concetti puri della ragione » (!'" oggettivismo " così ardentemente rivendicato, contro Kant, anche dal " materialismo dialettico ", quell'oggettivismo per cui Lukacs non ha temuto di farsi postulante anche presso Schelling), « bisogna negare il significato oggettivo dell'intelletto e, quindi, la realtà della natura e delle sue leggi ».

Distruzione, quindi, della natura e, insieme, distruzione del-l'intelletto e della scienza. Il programma di Jacobi è questo. E si capisce allora come, malgrado tutto, esso non dovesse dispiacere a Hegel. « L'intelletto e la ragione — scrive Jacobi — si comportano come la carne e lo spirito che, secondo il detto di Paolo, si contrappongono, perché desiderano cose diverse. E come la carne è l'elemento manifesto, [...] e lo spirito è l'elemento nascosto », così, abbagliati da quella esteriorità, si giudica che « la facoltà delia nostra conoscenza mediata è superiore a quella della conoscenza immediata, il sapere condizionato all'incondizionato, la eco spenta alla voce viva che annunzia lo spirito, l'intelletto alla ragione » ". Mentre la scienza è solo " eco di un'eco " 15, conoscenza illusoria e vuoto trastullo. « Le nostre scienze, considerate semplicemente come tali, sono giocattoli, che lo spirito umano si è fabbricato per passatempo. Fabbricando questi giocattoli egli ha organizzato la propria ignoranza senza avvicinarsi neppure d'un capello alla conoscenza del vero. » "

La concezione del mondo di Jacobi — non ci vuole molto a capirlo — è non solo una concezione religiosa del mondo, ma (come capita spesso in questi casi) una concezione su cui pesano

12 Ivi, pp. 250, 247 e 249. 13 G. W. F. HEGEL, Glauben und Wissen cit., p. 334. 14 F. H. JACOBI, Idealismo e realismo cit., p. 267. 15 Ivi. 16 Ivi, pp. 183-84.

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addirittura elementi apertamente superstiziosi. E tuttavia, malgrado questo (ma si potrebbe anche dire: proprio per questo), a Jacobi spetta un posto significativo nella storia del pensiero. E non solo per la risolutezza e violenza della sua polemica contro la scienza e il principio di causa, che ha finito col farne un capostipite di una lignee fin troppo fortunata; ma, anche e soprattutto, per un argomento — non " scoperto " da lui e a cui Jacobi, però, ha forse dato, per primo, piena efficacia espressiva — con cui egli seppe accompagnare quella polemica: l'argomento, vale a dire, che la scienza è l'astratto e la filosofia il concreto; astratta ogni concezione naturalìstica, concreto lo spiritualismo.

Il tema che qui ci viene incontro è un tema a noi già familiare. Ci siamo imbattuti in esso, analizzando la tesi che è al centro di tutto il pensiero di Hegel: la tesi, cioè, che il finito è ideale e l'infinito reale; astratta la conoscenza della " parte ", concreta la conoscenza della " totalità ". Senonché, mentre, malgrado ciò, Hegel continua a qualificare la propria filosofia come " idealismo ", questo tema in Jacobi riceve ima formulazione assai più radicale. Questa formulazione, che deriva immediatamente dall'accusa di astrattezza mossa al " conoscere finito ", in quanto conoscenza del particolare, e dalla contrapposizione ad esso del conoscere " razionale " o infinito come il solo concreto, consiste in un rovesciamento di significato dei termini idealismo e realismo: dove ciò che, secondo l'uso tradizionale, si direbbe naturalismo o materialismo, è denominato invece " idealismo "; e, viceversa, ciò che, sempre secondo quell'uso, si direbbe idealismo o spiritualismo, è qualificato come " realismo ".

Idealismo è la scienza, il determinismo causale, il naturalismo o tutto ciò che Jacobi chiama genericamente " spinozismo ": perché, non uscendo mai " dal cerchio chiuso del condizionato ", la conoscenza logico-intellettuale può metterci in presenza solo del mondo della natura e delle sue leggi, — un mondo " manifesto " come la " carne ", ma, " in verità ", irreale come un sogno. Realismo, viceversa, è il sentimento mistico, la " certezza " immediata che è nello spirito, la fede nell'esistenza di Dio che prorompe dalla coscienza. « Nei filosofi variamente e contraddittoriamente spinozistici — scrive Croce — egli intravedeva 1" idealismo ', come lo chiamava, nel senso originario dell'uso polemico di questa parola: il considerare come verità o sola verità accessibile all'uomo le astrazioni della scienza fisico-matematica e della metafisica cau-

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salistica e deterministica sopr'essa modellata; e, professandosi egli realista, unicamente realista, stava in guardia contro ogni immistione dell'intelletto, ogni ricorso all'intelletto. » "

La scienza quindi è il nulla perché la scienza implica astrazione, e l'astrazione un assottigliamento e quasi una rarefazione dell'essere. La scienza è il nulla, perché ci dischiude un mondo accidentale, contingente, fenomenico (e qui, naturalmente, Jacobi cerca di cavare tutto il possibile dal fenomenismo di Kant). La realtà, piena e effettiva, invece, è quella che ci presenta la " fede " o " l'autorità immediata della ragione ", la cui conoscenza — essendo « una conoscenza che non ha bisogno di prove, una conoscenza originaria, suprema, che non dipende da caratteristiche particolari » 1S — sfugge al controllo e al lavoro di selezione che opera il pensiero. « La ragione è la coscienza dello spirito. Ma lo spirito può essere soltanto se deriva immediatamente da Dio. Perciò posseder la ragione e aver coscienza di Dio è tutt'uno, così come è tutt'uno non aver coscienza di Dio ed essere un bruto. » 19

Ancora una volta: " perché il finito non è, per questo l'assoluto è "; " il non essere del finito è l'essere dell'assoluto ". Fatte salve tutte le debite differenze, tra Hegel e Jacobi qualcosa di comune c'è. La filosofia, che comincia senza presupposti (esterni), comincia, in realtà, presupponendo se stessa; comincia, cioè, assumendo l'Idea come qualcosa che è " già " dato, il sapere come precostituito " da sempre ", il Logos come un fatto. Jacobi, che si richiama a " una conoscenza che non ha bisogno di prove ", a " una conoscenza originaria, suprema, che non dipende da caratteristiche particolari " e dove quindi il concetto non è condizionato da un finito che gli faccia da sostrato; Jacobi che dice che « il soprannaturale non può essere ammesso da noi in nessun altro modo, se non come a noi dato, cioè come un fatto — ESSO È »: questo Jacobi non è certo da confondere con Hegel e tuttavia ha in comune con lui l'identità di pensiero ed essere.

Ha in comune questa identità e — di conseguenza — ha in comune anche la repugnanza alla " spiegazione causale ", il famoso Erklaren (si veda il capitolo secondo della terza sezione del terzo Libro della Logica): quell'Erklàren, va ricordato, contro cui si

17 B. CROCE, art. cit., p. 323. 18 F. H. JACOBI, Idealismo e realismo cit., p. 246. 19 Ivi, p. 262.

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appunterà, più tardi, anche la polemica irrazionalistica di Dilthey e di Rickert.

Qui ciò che si può e si deve concedere è solo un fatto: non che tra l'idealismo di Hegel e il misticismo spiritualistico di Tacobi non esistano punti di contatto, almeno nella parte critico-negativa; ma che, nel prosieguo dei tempi, tutte le forti e serie riserve che — con Hegel — l'idealismo aveva ancora da opporre all'intuizionismo di Jacobi, poco a poco si sono affievolite e ridotte; così che — uniti nell' " abbraccio mortale " della loro comune opposizione al materialismo e alla scienza — idealismo e spiritualismo hanno visto progressivamente assottigliarsi il diaframma che li divideva e sempre più hanno mescolato e confuso le loro acque.

Croce, che pure è Croce, non solo trova che — a differenza di Kant, il quale « non aveva osato dichiarare la scienza dell'intelletto non-scienza in quanto non verità, e sola vera scienza e filosofia quella della ragione, ma aveva tenuto la prima unica e vera scienza, la sola che sia data all'uomo » —, Croce non solo trova che Jacobi " fu in ciò più radicale e meglio ispirato "; non solo giustifica il misticismo di Jacobi come una salutare reazione « all'ideale filosofico del tempo suo, al materialismo, al naturalismo, al determinismo, all'intellettualismo e logicismo, che innalzavano a metafisica la scienza esatta della natura, e questa metafisica introducevano nel campo delle verità filosofiche » (quasi che l'illuminismo tedesco fosse popolato da tanti Lamettrie); non solo ne espone con simpatia « la sua critica del filosofare condotto col metodo causalistico e deterministico della scienza fisico-matematica della natura », consentendo, con Jacobi, che « il principio di causalità non oltrepassa la natura, l'insieme del finito, e anzi per esso si viene a riconoscere che un insieme non c'è »; ma finisce addirittura con lo sposarne la causa a tal punto da rivoltarsi, in nome di Jacobi, contro Hegel stesso. « In effetto — scrive — lo Hegel, sebbene fosse pervenuto a un pensiero così importante e così fecondo come quello della dialettica, ossia della logica che è intrinseca alla filosofia e alla storia, lasciava sussistere, per una sorta di transazione con la tradizione filosofica ellenica e scolastica, e razionalistica cartesiana e spinoziana, le costruzioni dell'intelletto, solo riservandosi di correggerle e innalzarle e compierle mercé della dialettica, la quale di necessità, in tal modo adoperata, diventava estrinseca: ond'egli di conseguenza serbava gran parte dei quadri della vecchia metafisica, pure riem-

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pendoli di nuovi pensieri, i quali logicamente avrebbero dovuto rompere, far saltar in aria e spazzar via quei quadri. » 30

Lasciamo stare l'interpretazione, un pò sbrigativa e sommaria, della critica di Hegel alla vecchia metafìsica, che non fu semplice opera di " correzione " ma un processo ben più complesso: il processo della trasformazione della Sostanza in Soggetto, il trasferimento di Dio dall' " al di là " nell'ai di qua dell1'autocoscienza soggettiva e — insomma — per riprendere la formula di Feuerbach, fu il passaggio dal teismo o " teologia comune " alla " teologia speculativa " o immanentismo (una trasformazione, vedremo, dal significato storico profondo). Qui, ciò che non può non colpire è come, anche nel filosofo " dei distinti ", il raptus spiritualistico agisca con tale violenza, da fargli giudicare insufficiente la stessa " distruzione " del finito e dell'intelletto operata da Hegel. Hegel non ha compiuto fino in fondo l'opera. Le " costruzioni dell'intelletto ", i " quadri " del pensare logico determinato, debbono essere ulteriormente " rotti ", fatti " saltare in aria " e " spazzati via "; lo spirito, liberato da tutti i concetti definiti, determinati, non " fluidi ", o, come li chiamerà Bergson, figés, —■ quei concetti " fissi " già esorcizzati nell'introduzione all'Anti-dùhrìng. E, poiché la metafisica sono appunto le " costruzioni " dell'intelletto, Croce, che non vuole la metafisica, sa correggere Hegel con Jacobi. « Contro 1' ' idealismo ', legato pur sempre senza volerlo al conoscere come Verstand e agli schemi naturalistici ancorché si sforzasse di perfezionarli con la dialettica, il Jacobi affermava l'ingenua verità delle cose visibili o sensibili, non alterate dalle astrazioni » S1, — l'ingenua verità dei " poveri di spirito " cui sono aperte le Porte del Cielo, le " cose sensibili " di cui Jacobi parla in Le cose divine e la loro rivelazione.

Le righe di critica ad Hegel, poco sopra citate, sono tutte una trama ricca di riferimenti. Vi ritorna il motivo, che è centrale in Hegel e nel suo rapporto con Spinoza, del superamento dell'eleatismo, cioè dell'allargamento del principio di Parmenide a " identità dell'identità e della non-identità " (e qui, però, il motivo, che costituisce uno dei meriti più alti della logica di Hegel, è ingenerosamente ritorto contro di lui). E, sull'onda e come sviluppo di questo primo tema, quell'altro, che ne è come un corollario, della grande antitesi tra II realismo cristiano e l'idealismo greco: un'antitesi che fu resa popolare in Europa, al principio

20 B. CROCE, art. cit., pp. 320, 317, 318 e 323. 21 Ivi, p. 325.

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del secolo, dall'abate Laberthonnière, blondeliano e modernista, in un libro appunto così intitolato; ma che, ben prima di diventare un cavallo di battaglia dello spiritualismo cristiano, afiondava le sue radici nella filosofia romantica tedesca e nel pensiero stesso di Hegel: l'antitesi, cioè, tra l'intellettualismo naturalistico greco e il principio della Soggettività infinita — e, tuttavia, spirito individuale e concreto — introdotto nel mondo dal Cristianesimo con l'idea del Dio-uomo. « Il nostro punto di vista — scrive Hegel trattando di Spinoza — si distingue dalla filosofia eleatica soltanto in questo, che il mondo moderno grazie al Cristianesimo possiede nello spirito l'individualità concreta» (SF, III/2, 110). E, invece, proprio questo è ciò che manca a Spinoza: « il principio della soggettività, dell'individualità, della personalità, il momento dell'autocoscienza nell'essenza (SF, III/2, 141).

L'importanza di questo tema e il ruolo che esso ha giuocato nel neo-idealismo italiano non hanno quasi bisogno di essere ricordati. Qui basti accennare soltanto come l'antitesi tra " intelletto " e " ragione ", sviluppata come antitesi tra Videalismo naturalistico greco e il realismo spiritualistico cristiano, sia stata assunta a motivo e criterio centrale del Sistema di Logica dell'attualismo gentiliano. « Tutta la filosofia, che noi comprendiamo nella storia del suo svolgimento da Talete a noi, si stende ■— scrive Gentile — per due epoche nettamente distinte. Nella prima, che si può dire della filosofia greca, essa costruisce la realtà intelligibile o il concetto della realtà, ingenuamente; e non s'accorge perciò del carattere soggettivo di questa intelligibilità del reale, e quindi del reale stesso; e sviluppa ampiamente fino alle sue ultime conseguenze questa posizione, potenziando, per così dire, fino al massimo grado il concetto della realtà in sé. Nella seconda, che dal suo primitivo e più possente motivo ispiratore, deve denominarsi cristiana, acquista gradatamente coscienza critica e riflessa dell'opera dello' spirito nella produzione della realtà. Talché può dirsi che due siano le filosofie, che si sono storicamente delineate; e l'una grado all'altra. La prima, definibile come il concetto della realtà; la seconda, come il concetto dello spirito; ovvero, la prima, concetto dello spirito come realtà; e la seconda, concetto della realtà come spirito. » 22

La logica del finito, dunque, è " la logica dell'astratto "; la logica dell'infinito, " la logica del concreto ". Il naturalismo è

22 G. GENTILE, Sistema di logica, I, Firenze 1940, p. 22.

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idealismo, lo spiritualismo realismo. « La filosofia greca, naturalistica prima di Socrate, idealistica da Socrate ad Aristotele, e na-turalisticamente idealistica dopo, a chi guardi a questo suo costante carattere, onde sempre cercò lo spirito nell'antecedente dello spirito (natura) è tutta quanta propriamente naturalistica; e, come tale, non filosofica, ma partecipante della natura propria delle scienze particolari. » M

Come già in Hegel, quindi, il materialismo e la scienza sono l'Unphilosophie. La " vera " filosofia è sempre e solo idealismo — la filosofia del " concreto ". L'opposizione di filosofia idealistica e realistica è quindi priva di significato. Una filosofia che attribuisse all'esistenza finita, come tale, un vero essere, non meriterebbe il nome di filosofia. E, poiché, come dice Gentile, il metodo della scienza è « implicito tutto in quel principio del presupporre dommaticamente il proprio oggetto » 24 (patetica persuasione che la somma ingiuria che si possa arrecare al pensiero sia quella di sostenere che il calamaio è fuori di noi!), la scienza è il dogmatismo; mentre l'idealismo che ci chiede di accettare come dati una lista di presupposti assai più impegnativi (Dio, l'anima, l'Idea, ecc.), l'idealismo è il pensiero critico (e poco importa che Kant ne abbia scritto la Confutazione).

Monotono refrain cui oggi non sembra più sottrarsi nessuno: la scienza è idealismo, formalismo; la dialettica idealistica è il realismo; la parte è l'astratto, la totalità il concreto. Il principio di identità o di determinazione materiale, il principio che ci dà il particolare a esclusione dell'opposto, è la metafìsica. Al contrario, l'idealismo, la " dialettica della materia ", cioè l'assunzione che il finito non ha realtà in sé ma ha per sua essenza e fondamento l'infinito, e, quindi, tutto ciò che esso non è: quest'idealismo è la scienza effettiva. Ciò che i tempi più recenti vi hanno aggiunto di nuovo è solo un'ingenuità: l'impagabile ingenuità di credere che la " totalità razionale " di cui parla Hegel — e cioè quell'Idea, " rotonda in se stessa ", che, com'egli dice, è un " tanto " questo " quanto " quello, proprio perché è un Weder-Noch, cioè né questo né quello — sia... semplicemente la totalità del mondo naturale.

« L'esperienza scientifica — scrive Kojève — è solo una pseudo-esperienza. Né può essere altrimenti, giacché di fatto la

23 Ivi, p. 30. -4 Ivi.

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scienza volgare ha da fare non con la realtà concreta, ma con un'astrazione. Nella misura in cui lo scienziato pensa o conosce il proprio oggetto, quel che esiste realmente e concretamente è sempre l'insieme dell'Oggetto [...]. L'Oggetto isolato è una mèra astrazione. » Ciò significa, continua Kojève, che, ad es,, per il suo carattere limitato e unilaterale, « la descrizione fisica (verbale) del Reale implica necessariamente delle contraddizioni; il ' reale fisico ' è simultaneamente onda riempiente tutto lo spazio e corpuscolo localizzato in un punto, ecc. Per sua stessa confessione, la Fisica non può dunque pervenire mai alla Verità, nel senso rigoroso della parola. Di fatto, la Fisica studia e descrive non già il Reale concreto, ma solo un aspetto artificiosamente isolato del Reale, cioè un'astrazione. Nel campo della Fisica (e della scienza in generale) — conclude Kojève — non c'è dunque Verità. Solo il Discorso filosofico può attingerla, perché solo esso si riferisce al Reale concreto, ossia alla totalità della realtà dell'Essere. Le varie scienze vertono sempre su astrazioni »2S.

E ancora (perché è bene che il lettore abbia un'idea completa di questo tipo di discorso): « consideriamo — dice Kojève — una tavola reale. Non è né la Tavola ' in generale ' né una tavola ' qualsiasi ', ma questa tavola concreta. Ora, quando l'uomo ' ingenuo ' o il rappresentante di una qualsiasi scienza parlano di questa tavola, la isolano dal resto dell'Universo; ne parlano senza parlare di quel che non è. Pure, questa tavola non si libra nel vuoto. Si trova su questo pavimento, in questa stanza, in questa casa, in questo luogo della Terra, la quale è a una data distanza dal Sole, che a sua volta ha un posto determinato nella Galassia, ecc. Parlare di essa senza parlare del resto significa dunque fare astrazione da quest'ultimo, che di fatto è altrettanto reale e concreto. Parlare di questa tavola senza parlare dell'insieme dell'Universo che la implica [...], significa parlare di un'astrazione, e non di una realtà-concreta. [...] In breve — conclude Kojève — ciò che esiste come realtà-concreta è la totalità spaziale-temporale del Mondo naturale; e tutto quanto ne viene isolato è perciò stesso un'astrazione, che, in quanto isolata, esiste solo nel e per il pensiero dell'uomo che la pensa »26.

La citazione è un po' lunga, ma meritava di essere riportata. Ragionando così, un pensatore attualista italiano affermò, vari

25 A. KOJÈVE, La dialettica e l'idea della morte in Hegel cit., pp. 46-7. 26 Ivi, p. 85.

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anni or sono, che, essendo il particolare di cui si occupa la scienza incomprensibile fuori della totalità, il problema della scienza fosse da identificare con il problema teologico. È lecito dubitare che questo punto di vista fosse " illuminato " o, più semplicemente, accettabile da parte degli scienziati. Non è dubbio, però, che, se messa a confronto con quella di Kojève o, addirittura, con quella sostenuta da Stalin all'inizio del suo noto saggio 27 (e di cui la pagina di Kojève è solo un'amplificazione retorica), la tesi del filosofo italiano mostrava un'innegabile superiorità: la superiorità di chi parla avendo coscienza di ciò che dice.

27 Qui ci si riferisce alle definizioni della metafisica come « conoscenza della parte », contenute all'inizio dello scritto di J. V. STALIN, Del materia-lismo dialettico e del materialismo storico, in Questioni del leninismo, Mosca 1947.

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X. DA BERGSON A LUKÀCS

Nella Logica come scienza del concetto puro, trattando della critica di Bergson alla scienza, Croce ha questa considerazione illuminante: « Tutte codeste critiche rivolte alle scienze non suonano nuove all'orecchio di chi ebbe già a udire le critiche del Jacobi, dello Schelling, del Novalis e di altri romantici, e segnatamente quella stupenda che fece lo Hegel dell'intelletto astratto (cioè empirico e matematico) e che corre attraverso tutti i suoi libri, dalla Fenomenologia dello spirito alla Scienza della logica, e si arricchisce di esempi nelle osservazioni ai paragrafi della Filosofia della natura » \

In realtà, Bergson è appunto questo: il punto più alto di ricongiungimento della moderna " reazione idealistica contro la scienza " 2 con i grandi temi della filosofia romantica. La " Vita " è movimento, divenire, essere e non-essere insieme, continuità e compenetrazione reciproca degli opposti. L' " intelletto ", per contro, è l'astrazione che isola il particolare dall'opposto, che prende l'oggetto determinato a esclusione di tutto ciò che esso non è. Basta tener fermi questi due motivi e si è subito nel cuore del pensiero di Bergson. L'intelletto — « et je dis — egli precisa — l'intelligence, je ne dis pas la pensée, je ne dis pas l'esprit »s — « ripugna al fluido e solidifica tutto ciò che tocca »i. Esso " si rappresenta in modo chiaro solo l'immobilità ",

' B. CROCE, Logica come scienza del concetto puro cit., p. 359. 2 Quest'espressione, che fu usata originariamente da Aliotta in senso

positivo, in un noto libro del 1912, è stata giustamente riproposta, ma nel suo significato di fenomeno regressivo, da F. LOMBARDI, II senso della sto ria, Roma 1965, pp. 137 sgg.

3 H. BERGSON, La Pensée et le Mouvant, Paris 1946, p. 102. La prima edizione del libro è del 1936, ma esso raccoglie, com'è noto, saggi di varia epoca, tra cui l'Introduzione alla metafisica del 1903.

4 H. BERGSON, L'évolution créatrice, Paris 1914, p. 50.

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non sa pensare « la continuità vraie, la mobilità réelle, la com-pénetration réciproque et, pour tout dire, cette évolution créatrice qui est la vie » 5. Le " difficoltà insolubili ", in cui l'intelletto s'avvolge quando " ragiona sull'insieme delle cose ", derivano semplicemente dal fatto che « l'intelletto è specialmente destinato allo studio d'una parte, e noi pretendiamo tuttavia di adoperarlo per la conoscenza del tutto » 6.

Il senso comune che si occupa solo di oggetti a se stanti (détachés), " come d'altronde la scienza che considera solo dei sistemi isolati ", si ostinano « a trattare il vivente come l'inerte e a pensare qualsiasi realtà, per fluida ch'essa sia, sotto la forma di un solido definitivamente concluso. Noi siamo a nostro agio — continua Bergson — solo nel discontinuo, nell'immobile, nel morto. L'intelletto è caratterizzato da una incomprensione naturale della vita » 7.

AI di sotto, però, di " questi cristalli ben ritagliati e di questo congelamento superficiale " che l'intelletto e la scienza ci prospettano come la realtà, vi è, in effetti, " une continuiti d'écou-lement ": « ciò che è reale non sono gli ' stati ', semplici istantanee che noi prendiamo sul corso del mutamento; ma è, al contrario, il flusso, la continuità di transizione, il mutamento stesso ». La filosofia non può cogliere questa realtà più profonda, che è il divenire, se non quando « supera il concetto, o almeno quando si libera dei concetti rigidi e già fatti per creare dei concetti ben diversi da quelli che maneggiamo abitualmente, cioè a dire delle rappresentazioni flessibili, mobili, quasi fluide, sempre pronte a modellarsi sulle forme fuggevoli dell'intuizione »8; e, insomma, quando essa riesce a innalzarsi a « dei concetti fluidi, capaci di seguire la realtà in tutte le sue sinuosità e di adottare il movimento stesso della vita interiore delle cose » 9. Che, se invece si cerca di cogliere il " significato profondo del movimento " armati dei concetti ordinari (concetti " figés, distinets, immobiles ")r allora « invano noi costringiamo il vivente entro questo o quello dei nostri quadri. Tutti i quadri saltano in aria. Essi sono troppo stretti, troppo rigidi » 10.

5 L'évolution... cit., pp. 169 e 175. 6 La Pensée... cit., p. 35. 7 L'évolution... cit., pp. 9 e 179. 8 La Pensée... cit., pp. 183-88. 9 Ivi, p. 213. 10 L'évolution... cit., p. il.

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Lasciamo da parte il confronto con Hegel, per il quale il discorso sarebbe più complesso. Qui le analogie con Engels si impongono da sole. L'identità è l'inerzia, la quiete, il " morto essere "; la " vita ", il movimento, è, invece, divenire, unità di essere e non-essere insieme, contraddizione e compenetrazione reciproca degli opposti. E, come per Engels il senso comune, o " la maniera metafisica di vedere le cose ", che è " giustificata e perfino necessaria " nella pratica quotidiana della vita, finisce con l'avvolgersi « in contraddizioni insolubili, perché, attenendosi alle cose singole, dimentica il loro nesso, attenendosi al loro essere, dimentica il loro sorgere e tramontare, attenendosi al loro stato di quiete, dimentica il loro movimento, perché stando davanti a grandi alberi non vede la foresta »; così, per Bergson, « è incontestabile che, seguendo i dati abituali dei nostri sensi e della nostra coscienza, noi arriviamo, nell'ordine della speculazione, a contraddizioni insolubili » ", perché, mentre « l'intelletto è essenzialmente indirizzato allo studio di una parte, noi pretendiamo invece d'impiegarlo per la conoscenza del tutto ».

E così per il resto. L'intelletto è incapace di pensare la vita. La vita, dice Engels, è contraddizione; la vita è la confutazione stessa del principio di identità. Lo schellinghiano Jankélévitch, esponendo Bergson, è costretto a fargli eco involontariamente: « la vita si fa giuoco delle contraddizioni che sono la disperazione dell'intelletto. Il divenire, misto di essere e non essere, è l'elu-sione del principio del terzo escluso » 12.

E ancora. Il movimento è una contraddizione. Un corpo in movimento, dice V Antidùhring, " è " e " non è ", e « il continuo porre e nello stesso tempo risolvere questa contraddizione è precisamente il movimento ». Mutato appena il soggetto, che questa volta non è il movimento tout court ma il tempo, Jankélévitch, che ha letto Bergson e forse mai Engels, può constatare, quasi con le stesse parole, che « il tempo non è semplicemente l'assenza della contraddizione, ma è piuttosto la contraddizione vinta e perpetuamente risoluta; o, meglio ancora, che esso è questa risoluzione stessa, considerata sotto il suo aspetto transitivo » ".

Lasciamo andare le concordanze minori e tuttavia significative: come, ad es., l'interpretazione " dialettica " che Bergson

11 La Pensée... cit., p. 156. 12 V. JANKÉLÉVITCH, Henri Bergson, Paris 1959, p. 37. 13 Ivi, p. 38.

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dà del calcolo infinitesimale, o i suoi accenni alla " legge " del ro-vesciamento della quantità in qualità (« la quantità est toujours de la qualité a l'état naissant »), o, infine, la sua esaltazione della nuova " scienza " che, « più progredisce, più risolve la materia in azioni che solcano lo spazio, in movimenti che corrono qua e là come dei brividi, così che la mobilità diventa la realtà stessa » " — che è anche questo, come si ricorderà, un motivo tipico del pensiero di Engels, e cioè il suo auspicio che la scienza cessi di essere scienza delle cose (o, com'egli dice, metafisica) per farsi finalmente scienza dei soli movimenti.

Qui ciò che interessa rilevare, al di là dell'analogia delle formule, è il paradosso che vi si cela dietro. È un fatto che il programma filosofico di Engels non ha nulla a che vedere con quello di Bergson. L'intenzione, lo " spirito " delle due filosofie è radicalmente diverso; le due mentalità lontanissime tra loro (ciò che spiega, tra l'altro, perché la somiglianza delle loro enunciazioni non sia stata finora mai rilevata). Eppure, malgrado la differenza dei " programmi ", malgrado l'intenzione materialistica di Engels, è indubbio che la convergenza degli enunciati delle due filosofie costituisce assai più che un fatto semplicemente formale. Alla base di essa, in realtà, è un nucleo dottrinario comune: la critica dell'intelletto, la critica del principio di non-contraddizione. E ciò che differenzia le due filosofie è solo che, nelPesercitare questa medesima critica, esse ne traggono conclusioni opposte.

Nel caso di Bergson, la critica dell'intelletto scientifico è la critica stessa del materialismo. Come già in Jacobi o in Hegel, intelletto e materialismo appaiono qui legati a uno stesso destino. I concetti dell'intelletto e della scienza sono " determinati " e " distinti " tra loro, perché essi sono il corrispettivo, a parte subjecti, dell'assunzione della realtà oggettiva come spazio e materia. « L'intelletto — scrive Bergson — è nel vero finché esso si attacca, amico com'è della regolarità e della stabilità, a ciò che vi è di stabile e regolare nel reale, vale a dire alla materialità. » 15 « Lo stesso movimento che porta lo spirito a determinarsi come intelletto, e quindi in concetti distinti, conduce la materia a frantumarsi in oggetti nettamente esteriori gli uni agli altri. Più la coscienza s'intellettualizza, più la materia si spazializza. » ,0

14 H. BERGSON, La Pensée... cit., pp. 214, 215 e 165. 15 Ivi, p. 104. 16 L'évolution... cit., p. 206.

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Nel caso di Engels, viceversa, poiché — equivocando — egli ha tratto la conclusione che l'intelletto, in quanto " dogmatico ", sia la metafisica (mentre in Hegel esso è dogmatico proprio perché è materialistico), la critica dell'intelletto e il superamento del principio di non-contraddizione appaiono come la fondazione del materialismo.

In entrambi i casi, i contenuti sono gli stessi; ciò che cambia è solo il modo di denominarli. In entrambi i casi, una metafisica vitalistica con una forte carica irrazionale. Solo che, mentre Bergson sa bene di che si tratta (« l'intelligence est faite pour utiliser la matière »; « à la science la matière et à la métaphysique l'esprit » "), Engels crede invece che l'intelletto sia la metafisica spiritualistica e che, viceversa, la metafisica o il vitalismo sia una forma superiore di materialismo. Il risultato ne è che la stessa biologia vitalistica di De Vries, di cui Bergson si è servito per dare veste " scientifica " alla propria metafisica, è indicata da Plechanov come prova e conferma del " materialismo dialettico " 18.

Ma, ancora più esemplare, forse, è il giudizio sul senso comune e la scienza. Come per Jacobi le scienze erano solo dei " giocattoli " che lo spirito umano si è fabbricato " per passatempo ", così anche per Bergson (e, inutile aggiungere, per Croce), la scienza non ha valore conoscitivo ma soltanto pratico. Essa non ci dischiude la vera realtà. È solo una finzione che ci è utile per agire. Alla vera realtà noi accediamo con l'intuizione, oppure — dato che anche Bergson, come Jacobi, riconosce che l'intuizione e la ragione speculativa sono la stessa cosa — noi accediamo con concetti di " ordine superiore " a quelli che maneggiamo abitualmente.

Ora, questa stessa concezione è già in nuce anche in Engels. Il principio di identità va bene nella pratica di tutti i giorni; il senso comune è un compagno fidato finché sta nello spazio compreso " tra le quattro pareti domestiche "; la " maniera metafisica di vedere le cose " è giustificata e perfino necessaria nell'uso spicciolo quotidiano. La differenza è solo che, mentre in Engels questa critica avviene sulla base di un equivoco, come quello di credere che la pratica quotidiana sia il regno della metafisica (un equivoco ben strano per un pensatore materialista); per Bergson, vice-

17 La Pensée... cit., pp. 35 e 44. 18 G. PLECHANOV, Le questioni fondamentali del marxismo cit., p. 53.

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versa, il quale sa bene che proprio la pratica è il regno per eccellenza del materialismo, quella critica si compie (come già in Jacobi) sulla base della distinzione paolina tra il mondo della " carne " e il mondo dello " spirito ": il primo, " solido " e " manifesto ", ma in verità fittizio e irreale come un sogno; il secondo, impalpabile e " fluido " e tuttavia " vero ".

È noto che Engels non arrivò a vivere in pieno l'epoca in cui si sarebbe levata, in Europa, la grande onda della " reazione idealistica contro la scienza ". Il momento in cui " la filosofia compie una vendetta postuma contro la scienza " 19 è, nella Dialettica della natura, più vaticinato che constatato. E tuttavia come, al levarsi di quella " reazione ", la vecchia filosofia romantica della natura, che è al fondo del " materialismo dialettico ", dovesse rendere il marxismo teorico testimone inerme, se non addirittura complice attivo, di quel moto oscurantistico e involutivo, è provato, per tenerci all'esempio più alto, dall'adesione acritica con cui Lenin, nel corso dei suoi Quaderni filosofici, accompagna e fa propria la distruzione hegeliana dell'intelletto e del principio di non-contraddizione, spingendosi fino al punto di reinventare, per suo conto, le formule stesse dell'irrazionalismo spiritualistico bergsoniano. « Noi non possiamo rappresentarci il movimento, non possiamo esprimerlo, misurarlo, riprodurlo, senza interrompere la continuità, senza semplificarla, alterarla, sminuzzarla, senza uccidere ciò che è vivo. La riproduzione del movimento ad opera del pensiero è sempre una adulterazione, un'uccisione, e invero non solo ad opera del pensiero, ma anche della sensazione, e non solo del movimento ma anche di ogni qualsiasi concetto. »20

Qui, come in tanti altri luoghi, del resto, dei Quaderni, sotto la coscienza illusoria di un nuovo e superiore materialismo, ciò che viene avanzato è, in effetti, una silloge di tutti i motivi più tipici dell'irrazionalismo vitalistico. Il motivo del morcelage che opera l'intelletto: « dalla totalità dell'esistente — scrive Sim-mel — il nostro intelletto ritaglia singoli frammenti che vengono separati dall'irrequieta mobilità del Tutto »; « l'intelletto tagliuzza la materia della vita e delle cose, per farne strumenti, sistemi, concetti » 2l. Il motivo del principio di identità e di non-contraddizione come principio dell'inerte e del morto essere: « la nostra

19 F. ENGELS, Dialettica della natura cit., p. 198. 20 V. I. LENIN, Quaderni filosofici cit., p. 259. 21 G. SIMMEL, H. Bergson (1914), in Zur Pbilosophie der Kunst,

Potsdam 1922, pp. 135-37.

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logica — dice Simmel — è la logica dei corpi solidi »; « essa riposa essenzialmente sui concetti fondamentali di identità e alterità, ma proprio questi concetti sono totalmente privi di validità per gli stati psichici [/«> seelische Zustànde], ad analogia dei quali Bergson concepisce il mondo »; « l'opposizione di identità e alterità scompare nella continuità dell'automutamento »22. E, infine, il motivo che la " Vita " è inafferrabile, unbegreifiich, dal pensiero, perché essa è contraddizione, unità degli opposti e, quindi, totalità, mentre il pensiero o, almeno, i Verstandesbegriffe sono concetti unilaterali e parziali, incapaci, perciò, di « conoscere le pura essenza della vita cosmica » 2\

Ma, nella filosofia di Bergson c'è ancora di più. La sua teoria della funzione soltanto pratica e non conoscitiva della scienza è anche il luogo di nascita di quel particolare concetto di " reificazione " che ha poi finito con l'improntare di sé gran parte del cosiddetto " marxismo occidentale ". Se la realtà è fluido divenire, è " vita ", iurée spirituale, — e l'intelletto ci dà invece il solido, l'inerte, il morto, — donde trae origine il mondo delle cose? Esse sono 1' " astratto ", 1' " unilaterale "; appaiono, si è visto, come positive e indipendenti, mentre sono, in effetti, " momenti " irreali fuori della totalità, istantanee che l'intelletto " fissa " e " coagula " nell'atto stesso in cui le ritaglia dal " flusso ininterrotto " della vita. « Tout ce qui apparati comme positif au physicien et au geometre » — dice Bergson —- è in effetti « un système de négatìons, l'absence plutót que la présence d'une réalité vraie » 2\ Chi ha dunque evocato questo mondo di cose? chi ha conferito loro quest'esistenza illusoria di rigidi " cristalli ", se non l'intelletto e la scienza stessa? La nostra intelligenza, dice l'Evoluzione creatrice, è una funzione « essenzialmente pratica, fatta per rappresentarsi cose e stati anziché mutamenti e atti. Ma cose e stati non sono che immagini prese dal nostro spirito sul divenire. Non esistono cose, vi sono solo azioni ». Quindi, se « la cosa risulta da una solidificazione operata dal nostro intelletto » e se « non vi sono mai altre cose all'infuori di quelle che l'intelletto ha costituito » 25, ciò vuol dire che il mondo materiale, che la scienza ci presenta come la realtà, è in effetti solo un'illusione e un artificio che la scienza stessa ha suscitato.

22 Ivi, p. 137. 23 Ivi, p. 140. 24 H. BERGSON, L'évolution... cit., p. 227. 25 Ivi, p. 270.

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La materia è solo una creazione dell'intelletto. Le " cose " sono i cristalli in cui si rapprende e coagula la nostra vocazione a... cosificare, cioè a " solidificare " il mondo per agirvi praticamente e trasformarlo. La reificazione è il prodotto della scienza e della tecnica. E scienza e tecnica, a loro volta, nascono dalle esigenze della " vita quotidiana ", cioè dal bisogno di " regolarità " e " stabilità " che è caratteristico del senso comune, dalla nostra vocazione, puramente " carnale " e esteriore, a muoverci nel sicuro, vale a dire in un mondo consolidato e stabile, dove il tripudio e lo slancio originario della Vita sia stravolto e pietrificato in un cumulo di " oggetti " inerti, dai contorni ben definiti.

Questa tematica, naturalmente, in Bergson è ancora solo agli esordi. (In lui, essa riaffiorerà più tardi, ma in modo sfocato e parziale, solo nella descrizione del circuito istintuale e " automatico " che contrassegna la " società chiusa " delle Deux Sources.) E tuttavia, già in quest'esordio non è difficile individuare gli embrioni dello sviluppo futuro. Il mondo reificato è il mondo fisiconaturale che ci esibisce la scienza. È la realtà solida, e tuttavia inconsistente, in cui trova il suo appagamento, sia la nostra propensione al " dominio della natura ", cioè a disporre delle cose, ad averle sottomano, ad adoperarle come strumenti e mezzi di lavoro (la Zuhandenheit di cui parlerà più tardi Heidegger), sia il bisogno di sicurezza che caratterizza l'esistenza " inautentica " (la " quotidianeità " di Sein und Zeit), in quanto esistenza immersa e versata tutta nelle cose, e sperduta dietro le " cure " del mondo e — insomma — in quanto esistenza civile o " borghese ".

La scienza è il positivismo. E poiché il positivismo è la mentalità tipica in cui si esprime il bisogno della " sicurezza borghese ", la vittoria sulla reificazione può venire solo dalla distruzione di quel mondo cosificato che è il prodotto artificioso della scienza. Il discorso ritorna così alle pagine, che abbiamo già esaminato, di Marcuse (in origine, non a caso, discepolo di Heidegger). Il superamento della reificazione è la distruzione delle cose. La dialettica del " Qui " e dell' " Ora ", con cui, all'inizio della Fenomenologia, Hegel annienta gli oggetti e rinnova la distruzione scettica della " certezza sensibile ", quella dialettica è appunto " una critica al positivismo e, anche maggiormente, alla ' reificazione ' ": perché la reificazione non è altro che il senso comune e il pensiero scientifico, che « considerano il mondo come una totalità di cose esistenti più o meno di per sé, e cercano la verità in oggetti considerati indipendenti dal soggetto cono-

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scente »; e perché, insomma, ciò che aliena e disumanizza gli uomini è, appunto, " questa posizione ", questo modo di vedere della scienza, la quale — essendo assai " più di un semplice orientamento epistemologico " — « penetra in ogni attività umana e porta gli uomini ad accettare il sentimento di essere sicuri solo quando conoscono fatti oggettivi e agiscono su di essi ».

Ma il discorso risale ben al di là di Marcuse. Esso investe una complessa varietà di motivi che nei primi anni del secolo —■ in parte

sull'onda di spunti originarii di Bergson e in gran parte, però, indipendentemente da lui e come ripresa diretta di temi della filosofia romantica (basti pensare, tanto per dare solo un esempio, al concetto

della " natura " come versteinerte Intel-ligenz in Schelling) — si sono sviluppati, soprattutto in Germania, entrando a comporre, grado a

grado, i lineamenti di quella particolare teoria della reificazione, di cui ci stiamo ora occupando. È chiaro che tentare di dare anche solo

un'idea vaga dello straordinario intreccio di questi motivi, a volte portati avanti anche da indirizzi di pensiero diversi tra loro, è in questa sede assolutamente impossibile. Per non parlare di Dilthey, la intensità della spinta antiintellettualistica e irrazionalistica, che investe, al prin-cipio del secolo, la filosofia tedesca, formando l'humus e il preambolo immediato alla critica della scienza come reificazione, è testimoniata, nel modo forse più impressionante, dalla dissoluzione di una filosofia così " accademica " come il neokantismo. Basterebbe qui ricordare le

due Antrittsreden, assolutamente esemplari sotto questo profilo, dedicate da Windelband, nel 1910, alla " riscoperta dell'hegelismo "

(Die Erneuerung des Hegelianismus)26 e alla " mistica del rostro tempo " (Von der MysHk unserer Zeit) ", — due documenti senza i quali è difficile farsi un'idea di che cosa sia certa filosofia dell' " età

dell'imperialismo ". L'orrore per ogni assunzione del mondo come universo a molteplici determinazioni e la repugnanza verso qualsiasi

forma di oggettività o " esteriorità " di tipo materialistico, sono qui innalzati a contrassegno di tutta l'epoca. Il carattere della filosofia del

momento è indicato come " l'impulso all'unità e la spinta all'in-teriorizzazione {Drang nach Verinnerliebung] " 2S. Si tratta — dice

Windelband — di promuovere e far valere « un'unità spirituale

26 W. WINDELBAND, Pràludien, I, Tiibingen 1921, pp. 273-89. 27 Ivi, pp. 290-99. 28 Ivi, p. 290.

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di vita contro la frantumazione della cultura rivolta all'esteriorità materiale » 2". In un certo senso — aggiunge —, « noi stiamo vivendo lo stesso rovesciamento del modo di pensare che, intorno all'anno 1800, si compì dappertutto in Europa, ma soprattutto in Germania, nel passaggio tra Aufklàrung e Romantik: il rovesciamento dal razionalismo nell'irrazionalismo ». Perciò, « anche ora l'irrazionale viene di nuovo annunciato come il sacro arcano [das beili gè Geheimnis] di tutta la realtà, come quel fondamento di tutta la Vita che è al di là di ogni conoscenza; e perciò anche l'impulso religioso, che è presente nel bisogno di concezione del mondo, assume di nuovo, volentieri, la forma della mistica »30. « Come un tempo il romanticismo ha innalzato di nuovo agli onori il già dimenticato Jakob Bòhme, così ora è salito nel cielo della storia della filosofia, come una nuova stella, il padre di tutta la mistica filosofica, il grande neoplatonico Plotino. » L'epoca — afferma Windelband — ha fame, dopo la lunga parentesi neokantiana, di " concezione del mondo ". Dappertutto si leva l'invocazione a una " filosofia dell'azione e della volontà ". Ed è appunto « questa fame di concezione del mondo [Hunger nach W eltanse hauung'], che ha afferrato la nostra giovane generazione e che cerca il suo appagamento in Hegel » 31.

Ma, oltre a Windelband, ben altro ancora sarebbe da ricordare. Un momento importante di quella critica dell'intelletto, che, come abbiamo visto, è la base da cui si sviluppa il particolare concetto di reificazione cui si è prima accennato, è l'analisi di Rickert sui " limiti della concettualizzazione naturalistica " 32: analisi tanto più significativa se si pensa all'influenza che Rickert ha esercitato sul giovane Lukacs e su Heidegger stesso. Qui basti accennare soltanto al grande sviluppo, che ha nelle Grenzen, la critica del-VErklàren, cioè della conoscenza come " spiegazione causale " qual è prodotta dall'intelletto naturalistico; e, per contro, al forte rilievo che, nella descrizione del conoscere individualizzante o storico (il Verstehen), è dato all' " intuizione ", e, in genere, all'esigenza di " trascendimento dei limiti di ciò che è conoscibile solo mediante concetti " {das Ueberscbreiten der Grenzen des begrif-

29 Ivi, p. 291. ',0 Ivi, pp. 292-93. ••" Ivi, pp. 288 e 278. 32 H. RICKEKT, Die Grenzen der naturwissenschaftlichen Begriffsbildung

(dritte und vierte verbesserte und erganzte Auflage), Tubingen 1921.

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flich Erkennbaren 33): fino, da una parte, alla ripresa dei motivi, apertamente irrazionalistici, delì'Erleben, déll'Einfiihlen ecc. (motivi, tutti, che, in quanto implicano una " penetrazione simpatetica " di soggetto e oggetto, presuppongono la loro identità: donde anche l'esplicito richiamo alla " teoria delle scienze dello spirito " di Dilthey 34); e, dall'altra, fino alla presentazione della filosofia come " scienza della totalità ".

Entrare in un'analisi articolata del ruolo decisivo svolto da Heidegger nell'elaborazione di questa teoria della funzione reificante della scienza, è in questa sede impossibile. La teoria è un tema centrale di tutta la sua opera. E, per essa, le determinazioni del mondo si producono a un parto con le nostre attività, propriamente " intellettive ", del comprendere e del " giudicare ", le quali culminano nella scienza. Sein und Zeit insiste a lungo sul come l'essere delle cose significhi il loro essere utilizzate dall'uomo e sul come, a sua volta, il " giudizio " trasformi ciò che è utilizzabile in una " cosa corporea " 3S. La natura " cosificante " della scienza e il suo carattere, a un tempo, " formalistico " e " empirico " (si ricordi anche Croce a proposito di Hegel) emerge con particolare evidenza nell'ultima parte di Sein und Zeit. « L'esempio classico per lo sviluppo storico di una scienza, ma al tempo stesso anche per la sua genesi ontologica, è — scrive Heidegger — la nascita della fisica matematica. L'essenziale per la sua costituzione non sta né nel più alto apprezzamento dell'osservazione dei ' fatti ' né nell' ' impiego ' della matematica — ma nel progetto matematico della natura stessa. Questo progetto scopre preliminarmente un che di presente in modo stabile (la materia) » 3\ Esso è quindi come l'orizzonte e l'apriori in forza del quale per noi vengono a esserci cose.

Il punto, tuttavia, in cui questa particolare concezione della reificazione ha uno dei suoi sviluppi più importanti è nella dila-tazione, che essa compie, della critica dell'intelletto a critica della " cultura " e della " società ". Lukàcs ha accennato a questa " critica filosofico-borghese della cultura " nella prefazione del 1967 all'edizione italiana di Storia e coscienza di classe. Si tratta della posizione centrale che — sullo sfondo della grande antitesi (es-senziale nella filosofia tedesca dell'epoca) tra Kultur e Zivilisation,

" Ivi, pp. 265-68. 34 Ivi, p. 412. 35 M. HEIDEGGER, Sein und Zeit, Tubingen 1949, pp. 71, 84, 106 e 156 56 Ivi, p. 362.

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" cultura " e " incivilimento ", cultura organicistico-romantica e cultura razionalistico-illuministica — venne allora assumendo, da varie parti, il problema dell'estraneazione dell'uomo nella società tecnico-industriale, e di massa, del capitalismo moderno. La que-stione, come Lukacs ha ricordato, era allora " nell'aria ". Essa si profilava come l'esito e il punto d'arrivo di varie correnti di pensiero. Ed « era egualmente riconosciuta ed ammessa da pensatori sia borghesi che proletari, orientati a destra o a sinistra dal punto di vista politico-sociale »'". Oltre a Heidegger, il cui nome qui viene naturalmente in primo piano, è forse il caso di ricordare almeno Der Konfliki der modernen Kulturss di Simmel, — un pensatore dal quale, come per Rickert, è difficile prescindere quando ci si occupi dello scritto giovanile di Lukacs. La critica della scienza e la connessa svalutazione dell'agire tecnico-pratico — il mondo del lavoro e della produzione — qui si allargano in una critica della civiltà moderna, il cui conflitto non è spiegato alla luce di ragioni storiche e sociali particolari, ma sulla base dell'antitesi — insopprimibile — tra il principio della totalità organica della " Vita " e quello, puramente " esteriore ", della connessione meccanica o causale. Il contrasto della civiltà moderna sta, per Simmel, nel fatto che le " forme ", che la Vita produce, si consolidano in istituti oggettivi, separati da essa, i quali acquistano una loro autonomia e si contrappongono al divenire che li ha generati. Così, mentre la Vita tende continuamente a risolvere e dissolvere entro di sé le forme in cui essa si è momentaneamente oggettivata, queste forme si consolidano e si irrigidiscono in enti definiti, che avversano e ostacolano il ricostituirsi dell'unità originaria, e cioè la ricomposizione dell'identità di finito e infinito ". Da qui il conflitto, cioè lo stato di interna divisione e lacerazione, che contrassegna la civiltà moderna; e la sua tendenza a rovesciare e capovolgere, addirittura, il significato della realtà. Nel senso che le forme — che originariamente erano state prodotte come forme e funzioni della Vita — consolidandosi in istituti oggettivi, tendono a subordinare e costringere nella loro routine e nel loro meccanismo ripetitivo la Vita che le ha originate. Il finito, che in realtà è una proiezione momentanea dell'infinità vitale,

37 G. LUKACS, Storia e coscienza di classe, Milano 1967, p. xxin. ■',s Munchen und Leipzig 1918. ■■" Cfr. P. Rossi, LO storicismo tedesco contemporaneo, Torino 1956, p.

258, dove è visto assai bene che questa identità del finito e dell'infinito è il " presupposto centrale della filosofia romantica ".

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diventa il fondamento del reale; mentre la Vita, che era il vero principio e l'incondizionato, diventa un che di subordinato e secondario.

La mente non può non riandare ai temi di fondo del pensiero di Hegel e al sovvertimento della realtà ch'egli imputa all'intelletto. L' " ordinario intelletto umano " trasforma ciò ch'è primo in secondo e viceversa. Nella " dimostrazione intellettuale ", il finito, che non è, diventa un " fermo essere ", il positivo o il fondamento; mentre l'infinito, ch'è il vero positivo e l'incondizionato, diventa l'infinito " reso finito ", il negativo, l'irreale. Ma l'accostamento fa emergere subito una differenza essenziale. In Hegel, il superamento della " scissione ", che l'intelletto produce, è garantito. Il capovolgimento del mondo, già capovolto dal senso comune, è il consapevole e fiducioso programma di tutta la sua filosofia. L'unità si ristabilisce. Il principio dell'idealismo si realizza. Così che già la Fenomenologia può annunciare che la nuova filosofia è la verkehrte Welt, il mondo messo " testa in giù " rispetto a come lo vedeva il senso comune. In Simmel, invece (per non parlare, naturalmente, di tutte le altre differenze), la stessa vicenda metafisica si svolge sotto il segno di un'infausta costellazione. Il processo vitale è anche in lui un porsi dell'infinito come finito. Solo che, mentre in Hegel questa " alienazione ", oltre che momentanea, è considerata necessaria ai fini dell'esplicazione che lo spirito deve compiere di sé per potersi riassumere e godere come Spirito autocosciente; in Simmel invece — e la diversa Stimmung è significativa — la necessità che ha l'infinito di porsi come finito è avvertita come una " tragica fatalità " ", cioè come una " scissione " che apre una crisi permanente mettendo a repentaglio il " ritorno " all'Unità.

Sotto le mentite spoglie di un'analisi della " società moderna ", in realtà ciò che viene avanti è sempre la critica dell'intelletto, del materialismo e del principio di causa. Il conflitto della civiltà moderna nasce dal fatto che le " forme " della sua vita assumono il carattere di " istituzioni ". Il " tragico " della moderna società è che essa è una sfera pubblica, un mondo oggettivo: il luogo dcìl'Allgemeingultigkeit, cioè dell'universale e impersonale validità che è comune sia agli enunciati della scienza sia ai compor-

40 P. Rossi, op. cit., p. 262. Le considerazioni di Rossi si riferiscono a Lebensamchauung di Simmel, che noi non abbiamo visto.

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lamenti e alle " regole " della vita associata ". E, è appena il

41 L'Essai sur les données immédiates de la conscience di BERGSON (Paris 1914, ma l'opera è del 1888) già sviluppa il rapporto tra la solidificazione o " cosificazione ", che opera l'intelletto, e le esigenze del linguaggio e della vita sociale. La comunicazione intersoggettiva e la società presuppongono la traduzione-falsificazione della durée, psicologica o reale, in termini di esteriorità-spazialità. Alle due durées, corrispondono anche due diversi soggetti, l'uno " fondamentale " l'altro " superficiale " e fittizio. P. 97-98: « Au-dessous de la durée homogène, symbole extensif de la durée vraie, [...] une durée dont les moments hétérogènes se pénètrent; [...] au-dessous du moi aux états bien définis, un moi ou succession implique fusion et organisation. Mais nous nous contentons le plus souvent du premier, c'est-à-dire de l'ombre du moi projetée dans l'espace homogène. La conscience, tourmentée d'un insatiable désir de distinguer, substitue le symbole à la réalité, ou n'apercoit la réalité qu'à travers le symbole. Comme le moi ainsi réfracté, et par là méme subdivisé, se prète infiniment mieux aux exigences de la vie sociale en general et du langage en particulier, elle le préfère, et perd peu à peu de vue le moi fondamental. [...] En d'autres termes, nos perceptions, sensations, émotions et idées se présentent sous un doublé aspect: l'un net, précis, mais impersonnel; l'autre confus, infiniment mobile, et inexprimable, parce que le langage ne saurait le saisir sans en fixer la mobilité, ni l'adapter à sa forme banale sans le faire tomber dans le dormine commun ». Qui, come il lettore può vedere, è già adombrata una teoria della " vera " e " falsa " coscienza, dell'esistenza " personale " e " impersonale ". E il mondo della società è il mondo della " banalità ". •Queste antitesi, tuttavia, non vanno confuse immediatamente con quelle che presenta Heidegger, per il quale, almeno nel primo periodo di Sein und Zeit e di Vom Weseti des Grundes, non valgono i presupposti romantico-spiritualistici che sono alla base del discorso di Bergson (a questi, semmai, potrebbe essere avvicinato Jaspers). Tornando alle Données, la solidarietà dell' " intelletto " con il linguaggio e la vita sociale è confermata ovunque. P. 99: « Nous tendons instinctivement à solidifier nos impressions, pour les exprimer par le langage ». La ragione (p. 100) ne è, « que notre vie «xtérieure et pour ainsi dire sociale a plus d'importance pratique pour nous que notre existence intérieure et individuelle ». E ancora, circa il nesso linguaggio-società-impersonalità: « le mot aux contours bien arrétés, le mot brutal, qui emmagasine ce qu'il y a de stable, de commun et par conséquent d'impersonnel dans les impressions de l'humanité ». P. 104: « ...l'intuition d'un espace homogène est déjà un acheminement à la vie sociale ». Circa i due soggetti dell'esistenza autentica o personale e dell'esistenza sociale o impersonale — « deux moi différents, dont l'un serait comme la projection extérieure de l'autre, sa représentation spatiale et pour ainsi dire sociale » — Bergson osserva che: « la plupart du temps, nous vivons extérieurement à nous-mèmes, nous n'apercevons de notre moi que son fantóme décoloré, ombre que la pure durée projette dans l'espace homogène. Notre existence se déroule donc dans l'espace plutót que dans le temps: nous vivons pour le monde extérieur plutòt que pour nous » (p. 178). E ancora sulla funzione socializzante che ha l'intelletto e la cosificazione che esso opera: « Cette intuition d'un milieu homogène [...] nous permet d'extérioriser nos concepts les uns par rapport aux autres, nous révèle l'objectivité des choses, et ainsi, par sa doublé opération, d'un coté en favorisant le langage, et d'autre part en nous présentant un monde extérieur bien distinct de nous dans la perception duquel toutes les intelligences communient, annonce et

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caso di rilevarlo, questa validità anonima ha il suo luogo di origine nell'objektive Giiltigkeit del giudizio e della pratica tecnico-scientifica. Non meno che il soggetto della scienza, il protagonista della vita sociale è il man, l'impersonale del " si dice " e " si fa ", cioè il soggetto dell1'esistenza anonima in quanto esistenza di tutti e di nessuno.

In Sein und Zeit, naturalmente, quest'analisi esistenziale si muove a un altro livello. Malgrado i presupposti teorici dell'opera impediscano il concretizzarsi dell'analisi, il discorso di Heidegger non è soltanto — sebbene fondamentalmente sia proprio questo — una critica della democrazia e dell'avanzante società delle " grandi masse ", ma è anche, seppure solo subordinatamente e a livello della semplice descrizione fenomenologica, la percezione di quel ben più specifico processo di " spersonalizzazione " che è legato all'avvento e al dominio del capitalismo monopolistico moderno e delle sue grandi " società anonime ". Malgrado l'arduo tecnicismo filosofico del libro, Sein und Zeit è un'opera in cui sono impressi profondamente i segni della crisi della società tedesca dell'epoca. Il regno dell'esistenza impersonale, che essa descrive, con la caduta in balìa, da parte dell'individuo, di forze " oggettive " incontrollate, sembra evocare, a tratti, (anche se alla co-scienza di Heidegger, naturalmente, questa differenza non è mai risultata, né allora né dopo), quell'altro processo di " spersona-lizzazione ", di cui parla Rathenau, nel suo abbozzo di analisi, del 1918, delle grandi " società per azioni ". Qui la " spersonalizzazione " della proprietà significa, al contempo, l'acquisizione di un'esistenza autonoma, da parte della proprietà stessa, rispetto ai medesimi titolari del diritto di proprietà. L' " impresa " assume una vita indipendente come se non appartenesse a nessuno: l'oggetto diventa il soggetto, e il soggetto l'oggetto del suo oggetto 43. Le forze incontrollate della società acuiscono all'estremo quel carattere, lungamente analizzato da Marx, di forze che operano " alle spalle " degli uomini, con la necessità imperiosa di eventi naturali. Senonché, anche a voler essere generosi, come nel caso di Heidegger, il tema di fondo rimane sempre quello della critica dell'intelletto. Il mondo reificato è il mondo fisico-naturale.

prépare la vie sociale » (pp. 181-82). E, infine, a p. 105: « La tendance en vertu de laquelle nous nous figurons nettement cette extériorité des choses et cette homogéneité de leur milieu est la méme qui nous porte à vivre en commun et à parler ».

42 W. RATHENAU, Voti kommenden Bingen, Berlin 1918, pp. 129 sgg.

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L'estraneazione è la divisione di soggetto e oggetto. Ciò che aliena e disumanizza l'uomo, è la scienza.

Qui, rispetto a tutta questa letteratura critica della " cultura " e della " società ", il merito che si può ascrivere a libri, venuti assai dopo, come la Dialettica dell'illuminismo di Horkheimer e Adorno è che — mancando in essi qualsiasi vero contenuto di analisi, anche solo filosofica, ed essendovi ormai l'apparato delle categorie ridotto alle forme assai semplici di una vuota sofistica o bavardage personale — essi ci danno, in qualche modo, la Summa di tutti gli " orrori " e le idiosincrasie che sono al fondo di una produzione filosofica pluridecennale, senza imporci la fatica di decifrazione che esige, invece, non dico Heidegger, ma la stessa Krisis di Husserl.

Il titolo dell'opera, intanto, già merita un encomio. L'oggetto dell'impeto polemico dei due autori è l'illuminismo, — seppure non come epoca storica particolare (che obbligherebbe a discorsi determinati) ma in quanto età in cui, hegelianamente, ha dominato 1' " ordinario intelletto umano " con la fatale distinzione di soggetto e oggetto, e, quindi, età che non solo si estende all'Odissea di Omero ma, come il lettore capisce, abbraccia tutti i tempi. Anche a volerci restringere alle prime ottanta pagine dell'opera, il valore di Summa, che noi le ascriviamo, ci sembra che esca confermato. L'orrore per l'intelletto scientifico qui assume forme che, se non temessimo il giudizio dei giovani, potremmo anche definire vicine al grottesco. Per Horkheimer e Adorno, « la forma stessa deduttiva della scienza riflette coazione e gerarchia » 4\ Il common sense è " reazionario ", la scienza " positivistica " "". L'illuminismo, poi, cioè quella stagione del rischiaramento che faceva dire a Kant: « l'illuminismo è l'uscita dell'uomo dallo stato di minorità [...]. Sapere aude\ Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza! È questo il motto dell'illuminismo » "5 — l'illuminismo, per i nostri autori, è poco più che un grosso Lager. Esso « proclama impassibile il dominio come scissione, la frattura tra soggetto e oggetto » 46. " L'illuminismo è totalitario più di qualunque sistema. "

43 M. HORKHEIMER-TH. W. ADORNO, Dialettica dell'illuminismo, To rino 1966, p. 30.

44 Ivi, pp. 49 e 26. 46 E. KANT, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto, Torino 1956, p.

141. 4,1 Dialettica dell'illuminismo cit., p. 48.

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Quanto poi alla reificazione, è chiaro, essa è il pensiero matematico. Con la " matematizzazione galileiana della natura ", il pensiero " si reifica in un processo automatico ". E, poiché la scienza è questo, s'intuisce che considerazione non più benevola i nostri autori debbono riservare all'industria, che essi trattano — naturalmente — fuori da qualsiasi specificazione di rapporti sociali, nel suo aspetto neutro di mèra tecnologia, a prescindere dal fatto che essa sia industria capitalistica o meno. Anche qui, si sa quel che ci aspetta: " l'industrialismo reifica le anime " "; " oggi il macchinismo mutila gli uomini anche se li sostenta ", perché la macchina è " la ratio estraniata ", il pensiero " cristallizzato in apparato materiale e intellettuale "4\

Ma idiosincrasia non meno forte Horkheimer e Adorno ma-nifestano per la società: e non, di nuovo, in quanto essa sia or-ganizzata in questo o quel modo, come pure ci aspetteremmo trattandosi di professori di scienze sociali, ma in quanto essa sia semplicemente organizzata. " La socializzazione radicale è una radicale estraneazione ". Sia dinanzi allo " Stato borghese ' guardiano notturno ' " che si trasforma " nella violenza del collettivo fascista ", sia dinanzi al " socialismo di Stato, ai cui primi passi sono caduti Robespierre e Saint-Just " ", i nostri storici, che non sopportano disciplina, fremono sempre di eguale indignazione.

Lasciamo le asprezze contro Bacone, reo di aver aperto l'èra del " dominio dell'uomo sulla natura "; e lasciamo anche " i foschi scrittori della prima borghesia, come Machiavelli, Hobbes, Man-deville " o0. Anche a costo di andare al di là delle prime ottanta pagine entro le quali ci eravamo proposti di restare, si deve dire che la volontà di distruzione e cancellazione nichilistica di ogni più alto acquisto del pensiero umano, di cui queste " anime belle " si mostrano capaci, tocca il segno nel giudizio su Kant. « Kant ha anticipato intuitivamente ciò che è stato realizzato consapevolmente solo da Hollywood ». « Con la sanzione — ottenuta come risultato da Kant — del sistema scientifico a forma della verità, il pensiero suggella la propria inutilità, poiché la scienza è esercitazione tecnica. » « La scienza stessa non ha alcuna coscienza di sé; è uno strumento. Ma l'illuminismo è la filosofia che identifica la verità al sistema scientifico. »51

" Ivi, pp. 33, 34, 36-7. 48 Ivi, p. 46. <" Ivi, pp. 71 e 127. 50 M. HORKHEIMER-TH. W. ADORNO, op. cit., p. 99. " Ivi, pp. 93 e 94.

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È chiaro che, nella linea di pensiero di cui ci stiamo occupando, Horkheimer e Adorno segnano il punto limite. Insieme a Marcuse, essi rappresentano l'esempio più vistoso degli estremi a cui può giungere lo scambio tra critica romantica dell'intelletto e della scienza e critica storico-sociale del capitalismo. Senonché il punto che è al centro dei loro discorsi — e cioè la tesi che la scienza è un istituto del mondo borghese — non avrebbe forse mai preso forma, senza un libro — dall'importanza decisiva nella storia del pensiero contemporaneo — come Storia e coscienza di classe di Lukacs: libro nel quale, per la prima volta, venivano appunto legate due linee di pensiero, non solo, come vedremo, antitetiche tra loro, ina fino allora rimaste prive di qualsiasi interno collegamento: e cioè, da una parte, la critica dell'intelletto e del materialismo, e, dall'altra, l'analisi della reificazione o estraneazione o feticismo, sviluppata da Marx, nel Capitale, in riferimento alle condizioni storico-sociali della moderna produzione capitalistica di merci.

Come Lukacs ha più volte chiarito autocriticamente, specie negli ultimi anni, il collegamento e lo scambio tra queste due teorie (a proposito delle quali, però, è bene avvertire che Lukacs non parla mai di " critica dell'intelletto ", ma solo di materialismo), si era compiuto, in lui, nel quadro di una visione, ancora non chiara, del rapporto — e in questo caso, naturalmente, soprattutto della differenza — tra Hegel e Marx. L'opera era stata scritta ancora alla luce e sulla base della teoria hegeliana del-Videntità di soggetto e oggetto. E ciò non aveva mancato di riflettersi sul « problema decisivo del libro, il problema della reificazione, in quanto, nella linea fondamentale del discorso, la reificazione (alienazione, estraneazione) » — Verdinglichung {En-tàusserung, Entfremdung) — veniva « identificata, come in Hegel, con l'oggettività » 52.

Nell'introduzione alla recente edizione italiana dell'opera, Lukacs è tornato su quest'argomento in termini ancora più chiari: « In Hegel il problema dell'estraneazione appare per la prima volta come problema fondamentale della posizione dell'uomo nel mondo e rispetto al mondo. Essa è tuttavia in lui, con il termine di alienazione \JLntàusserung\, al tempo stesso la posizione di qualsiasi oggettività. L'estraneazione si identifica perciò, se viene

5- Cfr. la dichiarazione di Lukacs del settembre 1962 in I. FETSCHES, Der Marxismus, voi. I, Miinchen 1962.

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coerentemente concepita, con il porre l'oggettività. Il soggetto-oggetto identico deve quindi, nella misura in cui supera l'estraneazione, superare al tempo stesso l'oggettività. Poiché tuttavia l'oggetto, la cosa, in Hegel esiste soltanto come alienazione dell'autocoscienza, la sua riassunzione nel soggetto rappresenterebbe la fine della realtà oggettiva, quindi della realtà in generale. Ora, Storia e coscienza di classe segue Hegel nella misura in cui anche in questo libro l'estraneazione viene posta sullo stesso piano dell'oggettivazione (per far uso della terminologia dei Manoscritti economico-filosofici di Marx). Questo fondamentale e grossolano errore ha sicuramente contribuito in notevole misura al successo di Storia e coscienza di classe » 5\

L'errore quindi del libro era consistito nello scambiare la concezione di Hegel, per il quale l'alienazione si identifica con l'oggettività naturale e, quindi, con l'esteriorità o eterogeneità dell'essere rispetto al pensiero (il punto di vista materialistico, o " dogmatico ", del senso comune e dell' " ordinario intelletto umano ", la cui alienazione dev'essere appunto soppressa con la realizzazione del principio dell'idealismo), con la concezione di Marx per il quale, viceversa, l'oggetto è estraneo, non in quanto " esterno ", ma in quanto assume il carattere (storico-sociale) di merce e capitale, cioè di prodotto del lavoro salariato: prodotto che è appunto " alieno ", in quanto non solo non appartiene al produttore, ma serve all'ulteriore impiego del produttore stesso come forza-lavoro venduta alla giornata.

Questa differenza tra la propria concezione e quella di Hegel è chiarita da Marx stesso, nei Manoscritti, in termini inequivocabili: in Hegel, egli scrive, « ciò che vale come la essenza posta e da sopprimere dell'alienazione non è che l'ente umano si oggettivi disumanamente in opposizione a se stesso, ma bensì ch'esso si oggettivi a differenza e in opposizione dell'astratto pensiero » (OFG, 296); quindi, « la riappropriazione dell'ente alienato oggettivo o la soppressione dell'oggettività nella determinazione dell 'alienazione [...] ha per Hegel — continua Marx — a un tempo, principalmente, il significato di sopprimere Voggettività, in quanto non il determinato carattere dell'oggetto, bensì il suo carattere oggettivo è per l'autocoscienza lo scandalo dell'alienazione » (OFG, 304).

Lukàcs stesso ha rievocato l'importanza che queste pagine dei

53 G. LUKACS, Storia e coscienza di classe cit., p. xxv.

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Manoscritti — che egli potè leggere nel 1930, prima ancora che fossero pubblicate — ebbero ai fini della comprensione, da parte sua, dell'errore che era alla base del proprio libro del '23 (non mancando anzi di aggiungere, con ragione, che il beneficio, ch'egli ne trasse, fu tuttavia soltanto suo e non però degli altri: giacché, « purtroppo, anche la pubblicazione dell'opera giovanile di Marx è servita a poco », venendo essa « interpretata prevalentemente in modo hegeliano, anziché come fondamentale critica di questa concezione di Hegel » "'). « Ricordo ancora oggi — egli ha scritto — l'impressione sconvolgente che fecero su di me le parole di Marx sull'oggettività come proprietà materiale primaria di tutte le cose e di tutte le relazioni. » Ne scaturiva « la comprensione del fatto che l'oggettivazione è un modo naturale [...] di dominio umano del mondo, mentre l'estraneazione è un tipo particolare di oggettivazione che si realizza in determinate circostanze sociali ». E, con ciò, « erano crollati definitivamente i fondamenti teorici di ciò che rappresentava il carattere particolare di Storia e coscienza dì classe » ".

Naturalmente, oggi questa autocritica può apparire anche troppo severa. Quali che siano i suoi difetti, Storia e coscienza di classe rimane un libro importante, che non si può e non si deve confondere con nulla di tutto ciò che le è venuto dietro, — da Ideologia e Utopìa di K. Mannheim fino agli scritti stessi di Horkheimer e Marcuse. Se vogliamo parlare seriamente e senza falsi pudori, Storia e coscienza di classe è il primo libro marxista dopo Marx (Labriola è rimasto un fenomeno troppo isolato), in cui ci si occupi di Hegel e della filosofia classica tedesca a livello europeo e con cognizione di causa; — il primo libro in cui il marxismo filosofico cessi di essere un romanzo cosmologico e, quindi, un surrogato di " religione " per classi subalterne. Del resto, per apprezzare adeguatamente il significato di quest'opera e la svolta ch'essa ha segnato nella storia dell'interpretazione di Marx, è più che sufficiente — oltre al contatto e al confronto, ch'è certo decisivo, con l'incondita farragine del marxismo positivistico ed evoluzionistico della Seconda Internazionale — il richiamo di un semplice dato di fatto: la riscoperta, ch'essa ha compiuto, seppure con i limiti e gli equivoci di cui si è detto, di un'intera zona del pensiero di Marx, in ogni senso essenziale

'"' Cfr. I. FETSCHER, op. eh. '" Storia e coscienza di classe cit., p. XL.

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per la comprensione del Capitale: la teoria, intendiamo dire, dell'estraneazione o reificazione; teoria che, come era stata inte-ramente sepolta nell'opera interpretativa di Engels, di Plechanov e di Lenin (e, naturalmente, non per cattiva volontà, ma per radicale insufficienza di strumenti teorici), così è tornata ad esserlo, subito dopo, in tutto il " materialismo dialettico " fino a noi.

E tuttavia, riconosciuto questo, anche noi — che pur siamo nella cerchia (troppo larga) degli estimatori di Storia e coscienza di classe — consideriamo che si debba condividere la severità autocritica del giudizio di Lukàcs. Il " fondamentale e grossolano errore ", che è alla base di quest'opera, è anche — come l'autore ha visto bene — ciò ch'è stato in gran parte all'origine del suo successo: e non solo all'inizio degli anni '30, ma anche nei decenni successivi fino a oggi: basti pensare, tanto per seguire anche in questo caso un'indicazione di Lukàcs, a Sartre e alla " mescolanza di motivi di pensiero marxisti ed esistenzialisti " prodottasi " soprattutto in Francia subito dopo la seconda guerra mondiale " ".

È nota la tesi di Goldmann — implicitamente convalidata da Lukàcs già nel suo saggio su Heidegger " redivivus ", scritto in occasione del Brief iiber den Humanismus — circa le radici che Storia e coscienza di classe affonderebbe nell' " Heidelberger Kreis " (Rickert e Lask) e il peso che essa avrebbe esercitato su Setn und Zeit. L'opera di Heidegger sarebbe da intendere, secondo Goldmann, come in gran parte una replica polemica, " forse persino inconsapevole ", al libro lukacciano del '23. La " vera " e " falsa " coscienza, di cui parla Lukàcs, sarebbe diventata l'esistenza " autentica " e " inautentica " di Heidegger; la distinzione lukacciana tra " essenza '* e " fenomeno " quella tra " ontico " e " ontologico " di Heidegger, ecc. '". Ed è anche significativo — sebbene a questo rilievo non debba darsi alcuna enfasi particolare — che, nel tracciare l'arco di sviluppo che, dalla filosofia classica, porta, attraverso Fichte, Schelling e Hegel, alla filosofia moderna e contemporanea, Goldmann non tralasci di porre, a capo della linea in cui egli colloca Lask, Lukàcs, Heidegger e Sartre, il nome di Bergson °8.

56 Ivi, p. xxm. 57 L. GOLDMANN, Mensch, Gemeinschaft und Welt in der Philosophie

Immanuel Kants, Ziirich-New York 1945, pp. 13 e 245-6. 58 Ivi, p. 15.

22. Colletti 337

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Senonché, lasciando stare questi problemi di genealogie e di " influenze " (nei quali non è escluso che Goldmann abbia applicato un poco della sua fantasia romanesque), e tornando invece alla linea del nostro discorso, è un fatto che il tema centrale di Storia e coscienza di classe è nell'identificazione della reiezione capitalistica con la " reificazione " prodotta dalla scienza. Il pensiero di Lukacs, a questo riguardo, non è esente, a dire il vero, da sfumature e oscillazioni. Spesso, ad esempio, la sua polemica contro la scienza è solo una polemica contro la concezione naturalistica e deterministica delle " scienze sociali " propria del marxismo della Seconda Internazionale. « L'ideale conoscitivo delle scienze naturali — egli scrive — che, applicato alla natura, serve appunto unicamente al progresso della scienza, quando viene riferito allo sviluppo sociale, si presenta come mezzo della lotta ideologica della borghesia » 59. Il metodo, infatti, delle scienze della natura, dice Lukacs, « non conosce alcuna contraddizione, alcun antagonismo nel proprio materiale »; mentre, " in rapporto alla realtà sociale ", le contraddizioni (che, nelle scienze della natura, sono solo il segno « di una comprensione scientifica della realtà ancora imperfetta ») « appartengono piuttosto inseparabil-mente all'essenza della realtà stessa, alla essenza della società capitalistica » 60.

Altre volte — come anche in Marxismo e filosofia di Korsch — il problema che viene in primo piano è quello, ancora più complesso (e, tuttavia, prima e dopo d'allora, quasi mai visto da tutta la tradizione interpretativa), della natura e del posto reale che " diritto " e " economia " hanno nella concezione di Marx. È noto, infatti, che il costituirsi di queste due sfere, nella loro reciproca separazione e " purezza " di oggetti di " scienze " autonome, è ricondotto da Marx alla separazione tra società economica o " civile " e società " politica " o Stato, in quanto fenomeno specifico della società capitalistica moderna. Senza qui voler entrare nel merito di questo problema, che è arduo anche solo dal punto di vista ermeneutico (e per il quale, forse, potranno essere di qualche utilità le questioni che accenneremo alla fine di questo saggio), è un fatto che con esso vengono al pettine due questioni decisive: quella dell'estinzione del Diritto e della Politica, connessa all'estinzione dello Stato; nonché quella dell'estinzione del-

59 G. LUKACS, Storia e coscienza di classe cit., p. 15. 90 Ivi, p. 14.

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P " economia politica ", connessa alla fine della produzione delle merci: tema, quest'ultimo, che emerge chiaramente dal modo in cui Marx intitola tutta la sua opera, che è " Critica dell'economia politica " e non solo dell'economia politica " borghese " (per il presupposto, a volte chiaramente espresso, che l'economia politica, in quanto tale, debba intendersi non come una scienza, bensì come metafisica).

E, tornando a Lukacs, si capisce, quindi, sotto questo profilo, quanto di positivo vi sia, non solo nella sua polemica contro la falsa " scientificità " del marxismo positivistico dei Cunow, dei Kautsky, dei Plechanov, dei Conrad Schmidt, ecc., ma anche — e stavamo per dire: persino — nel suo ricorso alla categoria della " totalità ", quando questa serva a sottolineare il problema del-Vunità della formazione economico-sociale capitalistica, in quanto " totalità " delle sfere (economia, diritto, politica, ecc.), malamente entificate e rese autonome dalla scolastica che regna tuttora nel campo delle cosiddette " discipline morali " (dove, si direbbe, chi al mattino si sveglia per primo, può, volendo, fondare una " scienza " nuova).

Senonché, se vogliamo vedere tutto, senza nulla concedere al " furore antimatematico ", che oggi ancora (ma domani chissà) la moda prescrive, si deve aggiungere subito, che il centro vero di Storia e coscienza di classe è in ben altri motivi che quelli che abbiamo indicato. Alla base dell'opera è non solo la distinzione tra il metodo delle scienze storico-sociali e il metodo delle scienze della natura, elaborata da Rickert nelle Grenzen: distinzione che già in Rickert, naturalmente (e, per lo meno, a partire dalla terza e quarta edizione, che abbiamo visto), è assai più che una semplice distinzione di " metodi " o punti di vista soggettivi, ma è vera e propria dualità di ambiti o campi " oggettivi ", dualità di " natura " e " storia " ", di Natur e Kultur, fino alla contrapposizione (di cui è noto quali siano state poi le " applicazioni ") di Kulturvolker e Naturvólker": non solo, dicevamo, alla base dell'opera è questa distinzione; ma vi è anche, e soprattutto, quell'inevitabile sviluppo di essa che, come porta a negare il carattere di vera realtà alla natura, così deve anche negare valore di effettivo sapere alla scienza fisico-naturale.

Il punto di vista di Storia e coscienza di classe, a questo ri-

81 H. RICKERT, Die Grenzen... cit., pp. 145 e 362-63. 1,2 Ivi, pp. 394-95.

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guardo, non dà adito a dubbi. Il fatto che la moderna scienza della natura si sia sviluppata in e con lo sviluppo della società capitalistica moderna (basti pensare solo alla "rivoluzione industriale ") e costituisca la base tecnica della produzione fondata sulla grande industria, significa, secondo Lukacs, che la « definizione della natura — rimasta immutata fino ad oggi dai tempi di Keplero e di Galilei, ma formulata chiaramente solo da Kant — come ' sistema delle leggi ' dell'accadere », è condizionata « strutturalmente ed organicamente dalla struttura economica del capitalismo » "3. La « natura » — egli scrive — « è una categoria sociale » M. La visione della realtà, che ci è dischiusa dalla costruzione concettuale della scienza della natura, è, quindi, una proiezione sul mondo del punto di vista ideologico capitalistico. E, significativamente, cita Tonnies: « i concetti scientifici, che per il modo in cui di solito hanno origine e per la loro struttura cosale, sono giudizi attraverso i quali vengono dati dei nomi ai complessi di sensazione, si comportano all'interno della scienza come merci all'interno della società. Essi confluiscono nel sistema come merci sul mercato. Il concetto scientifico supremo che non contiene più il nome di qualche cosa di reale è uguale al denaro. Ad es., il concetto di atomo o quello di energia » f'°.

Il caso vuole che la radicale antitesi in cui questo discorso di Lukàcs-Tonnies si trova rispetto a Marx, si possa questa volta documentare. Nei Manoscritti del '44, Marx collega (questo è un punto che svilupperemo più avanti) il Concetto assoluto o Logos della Scienza della logica di Hegel con il " valore " come esso si produce nella società delle merci. Quale il rapporto, in Hegel, tra concetto e realtà sensibile, tale il rapporto tra il " valore " e i " valori d'uso " delle merci. " La Logica ", dice Marx, è « il denaro dello spirito, il valore speculativo, di pensiero, dell'uomo e della natura — la loro essenza divenuta completamente indifferente a ogni reale determinatezza e però divenuta irreale — il pensiero alienato, quindi astraente dalla natura e dall'uomo reale » (OFG, 295-6).

Nel caso di Tonnies-Lukacs, viceversa, non l'ipostasi del concetto speculativo è il riflesso e, insieme, un momento di quel processo di ipostatizzazione o sostantificazione dell'astratto, ch'è la

63 G. LUKACS, Storia e coscienza di classe cit., p. 178. 64 Ivi, p. 171. 85 Ivi, p. 172.

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produzione di " valore " e capitale, ma il concetto scientifico, e la reificazione che si presume ad esso connessa, è la causa e il luogo di nascita della reificazione capitalistica. La reificazione, in altre parole, è prodotta dalla scienza. E, poiché tra scienza e capitalismo vi è assoluta omogeneità e solidarietà di natura, al punto che la scienza appare essa stessa come un istituto del mondo borghese, destinato ad essere travolto con lui, con ciò salta anche quell'altro fondamento di tutta l'analisi di Marx (su cui poggia la sua stessa valutazione del capitalismo come fenomeno storico progressivo) che è la tesi della necessaria contraddizione tra le forze produttive moderne e il modo di appropriazione privato, cioè tra lo sviluppo della scienza e dell'industria, da un lato, come presupposto e condizione dell'emancipazione sociale umana, e, dall'altro, l'involucro capitalistico entro cui questo sviluppo si è prodotto.

La reificazione capitalistica — insomma — è la reificazione stessa della scienza. Esiste, dice Lukacs, un « orientamento della struttura della società capitalistica verso il metodo delle scienze naturali ». E l'espressione di quest'orientamento è già Galileo, la cui istanza dell' " esattezza scientifico-naturale " presuppone " proprio la ' costanza ' degli elementi ", cioè quella solidificazione del mondo da cui sorgono i " cosiddetti fatti — gli idoli ". In altre parole, « i fatti ' puri ' delle scienze della natura », come fatti i cui « caratteri conformi a legge possono essere indagati a fondo senza l'intervento perturbatore di altri fenomeni », debbono essere considerati, dice Lukacs, avendo sempre ben presente che lo « sviluppo capitalistico tende a produrre una struttura della società che asseconda ampiamente una simile impostazione di pensiero » e che « è proprio dell'essenza del capitalismo produrre i fenomeni in questa forma » 6\

In apparenza, il discorso verte sul capitale; in realtà, l'imputato è P " intelletto ". Le " forme feticistiche dell'oggettualità " — prima ancora che il plusvalore, il profitto, la rendita e l'interesse — sono " le determinazioni riflessive " dell'intelletto, — quell'intelletto del quale Lukacs parla, appunto, come dell' " intelletto reificato " ". E poiché, prima che nella separazione tra capitale e lavoro salariato, l'estraneazione è fatta risiedere nella distinzione di soggetto e oggetto, il superamento dell'estranea-

64 Ivi, pp. 8-9. "7 Ivi, pp. 19 e 137.

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zione stessa è affidato a un processo « nel quale venga soppressa la dualità di soggetto e oggetto (di cui la dualità di pensiero ed essere è soltanto un caso particolare), e nel quale dunque il soggetto e l'oggetto arrivino a coincidere e siano identici ». Infatti, il culmine del feticismo è ...il materialismo, cioè " l'assunzione dogmatica di una realtà puramente data ed estranea al soggetto " "8; « in questa teoria —■ dice Lukacs — si oggettiva teoricamente la dualità insuperata — per la coscienza reificata — tra pensiero ed essere, coscienza e realtà » b9.

Come per Sartre-Roquentin, lo scandalo dell'alienazione è che esista un mondo naturale. E, siccome questa è la schiavitù (si ricordi Hegel sulla scepsi antica) da cui occorre liberarci, la schiavitù che ci impongono le cose e i " fatti ", l'emancipazione umana torna a coincidere con quella distruzione scettica dell'intelletto e dell'oggettività naturale, per ottenere la quale, com'è noto, basta comprendere (auspice magari Bergson) che « ciò che si suole denominare ' fatto ' consiste in un processo » e che « i fatti non sono altro che parti, momenti del processo complessivo che sono stati separati, irrigiditi ed isolati artificialmente » e che i fatti, insomma, sono scio « il massimo feticcio teorico e pratico del pensiero borghese ». La liberazione, in altre parole, è nella considerazione del « processo complessivo, nel quale la processuali tà arriva ad affermarsi senza falsificazioni », e « la cui essenza non è intorbidata da alcuna fissazione », ma « rappresenta — rispetto ai fatti — una realtà più vera e più alta » '".

Lo spiritualismo bergsoniano — come si vede — serra il nostro marxista da presso. E, poiché ogni posizione ha la sua logica, Lukacs, che sta entrando in fabbrica non con il Capitale ma con l'Essai sur les données immédiates de la conscience, venuto al cospetto della catena di montaggio, trova che il supremo affronto che vi si faccia all'uomo è che qui non c'è più la... durée. La fabbrica « riduce il tempo e lo spazio ad un unico denominatore », « porta il tempo al livello dello spazio »: « il tempo perde così il suo carattere qualitativo, mutevole, fluido », si « irrigidisce in un continuum esattamente delimitato, quantitativamente misurabile, riempito da ' cose ' quantitativamente misurabili »: non è più la durée vécue, ma è un « tempo astratto, esattamente

,;8 G. LUKACS, op. cit., p. 161. 09 Ivi, p. 263. 70 Ivi, p. 243.

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misurabile, che si è trasformato in uno spazio fisicalistico, come mondo circostante » 71.

Il male della fabbrica, dunque, è che essa è anzitutto un sistema oggettivo, un sistema di macchine dove il processo complessivo viene considerato oggettivamente in sé e per sé, viene analizzato nelle sue fasi costitutive, e dove il problema di eseguire ciascun processo parziale e di collegare i diversi processi parziali viene risolto per mezzo dell'applicazione tecnica della meccanica, della chimica, ecc. Questo è il male: la meccanizzazione, cioè che il sistema delle macchine si presenti come un organismo di produzione del tutto oggettivo, che il lavoratore trova davanti a sé, come condizione materiale di produzione già pronta. Il male, in altre parole, non è l'uso capitalistico delle macchine, ma, prima ancora, è Vuso stesso delle macchine; non è che le scienze fisiche, incorporate nel processo produttivo, compaiano come poteri del capitale sul lavoro, ma che il sistema delle macchine, in ogni caso, abbia come base l'applicazione consapevole delle scienze e, quindi, anche la " matematizzazione " o " quantificazione " della natura. Come il dott. Ure, Lukacs non sa distinguere, a volte, ciò che vale per qualsiasi applicazione del macchinario su larga scala e ciò che caratterizza la sua applicazione capitalistica 7\

Naturalmente, in quanto Storia e coscienza di classe è un libro serio, quest'errore vi trova spesso la sua correzione. In pochi altri scritti, come qui, Lukacs ha tenuto presente il Capitale e le Teorie sul plusvalore. E tuttavia, bagliori di critica romantica si accendono spesso: e proprio nei punti, a guardar bene, dove, polemizzando non con il capitale ma con la " razionalizzazione ", Lukacs —■ che ha appena messo sullo stesso piano " la reificazione, la despiritualizzazione, la meccanizzazione crescente " " — sente di dover prendere le distanze da Carlyle, da Ruskin, ecc. e, insomma, di dover dissociare la sua critica dalla " lotta contro la reificazione " condotta dal romanticismo.

Inutile qui perdere tempo a indicare quanto in queste parti, e cioè dovunque all'analisi del capitalismo si sostituisce la critica del ...feticismo materialistico, Lukacs sia tributario di Rickert. La polemica contro la conoscenza sperimentale, cui Lukacs imputa un atteggiamento "contemplativo" (!) verso la natura, è tolta

71 Ivi, pp. 116-17. 72 K. MARX, Il capitale, I, 2, cap. 13. 73 G. LUKACS, op. cit., p. 179.

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di peso dalle Grenzen 7i. E così tutta l'improbabile concezione della struttura e dei metodi delle " scienze naturali ". E così la critica dell'Abbildtheorie, la teoria materialistica del " rispecchiamento " ". Lo stesso saggio centrale di Storia e coscienza di classe sulla " reificazione " si apprezza meglio tenendo presente il capitolo delle Grenzen in cui Rickert svolge la differenza tra Dingbegriffe e Relationsbegriffe 7B.

Tuttavia, lasciando stare queste questioni secondarie e, con esse, anche quella (a dire il vero, importante) del peso e dell'influenza che su Storia e coscienza di classe ha esercitato l'analisi di Max Weber, qui sembra opportuno prendere posizione circa la valutazione, che Lukàcs dà, di Kant e della filosofia classica, nel capitolo centrale del suo libro, intitolato alle " antinomie del pensiero borghese ".

L'importanza di questo capitolo, in cui culmina tutto il discorso di Lukàcs sulla reificazione, sta nel fatto, per noi, che egli vi porta alla luce un nodo problematico fondamentale, analogo a quello che finora ci siamo sforzati di enucleare, — anche se, come vedremo, soltanto per dargli una soluzione opposta.

Il problema che Lukàcs vede al centro della Critica della ragion pura e, in genere, di tutta l'opera di Kant, in quanto filosofo in cui ha la massima espressione " la paradossalità e la tragicità della filosofia classica tedesca " ", non meno che (secondo lui) la resa al feticismo e alla reificazione della società borghese, è quello che nasce dall'assunzione del reale come ir-razionale, cioè come esteriorità o eterogeneità inderivabile dal pensiero, e dalle ripercussioni che questo assunto ha sul modo in cui viene a prospettarsi l'istanza della totalità.

Si tratta, come Lukàcs chiarisce, da una parte, del problema della " materia ", cioè della " questione del contenuto delle forme " della conoscenza; e, dall'altra, del " problema dell'intero ", vale a dire « di quegli oggetti ' ultimi ' della conoscenza che sono i soli che consentono, quando sono appresi, di raccogliere i diversi sistemi parziali in modo tale da formare una totalità, un sistema del mondo compreso nella sua interezza » 7S. Questi oggetti — che Kant, com'è noto, esprime con l'idea di

74 H. RICKERT, Die Grenzen... cit., pp. 279 e 306. 75 Ivi, pp. 164-64 sgg. 76 Ivi, pp. 51 sgg. 77 G. LUKÀCS, op. cit., p. 153. 78 Ivi, pp. 149-50.

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" Dio ", dell' " anima " ecc., considerandole questioni, dal punto di vista conoscitivo, mal poste — sono rifiutati anche da Lukàcs: ma solo nelle loro denominazioni (che egli ritiene " espressioni mitologico-concettuali per indicare il soggetto oppure l'oggetto della totalità pensata ", in quanto totalità " di tutti gli oggetti della coscienza "); non, però, nel loro contenuto o nella loro sostanza, in cui, anzi, egli vede un'esigenza inderogabile, che, in tanto la Critica ha potuto eludere, solo in quanto, com'egli dice, « Kant porta qui a compimento la filosofia del XVTII secolo », dove, sia lo sviluppo dell'empirismo inglese, « sia quello del materialismo francese si muovono appunto in questa direzione » 79. Ora, l'assunzione, da parte di Kant, del contenuto o " materia " come datila di fatti o " irrazionalità " di base (dove il termine " irrazionalità ", si badi, sta a indicare la natura extralogica dei fenomeni sensibili e, quindi, la loro irriducibilità al penserò, con la conseguente negazione dell'identità di soggetto-oggetto, pensiero-essere) importa — questa è la tesi di Lukàcs — una crisi del principio della totalità, a livello dei concetti o categorie: nel senso che, poiché « i fatti empirici sono da assumere come ' dati ' nella loro fatticità » (dove « l'esserci, l'esser-così dei contenuti sensibili resta una datità che non può assolutamente essere dissolta ») e poiché, quindi, « il problema dell'irrazionalità sfocia in quello dell'impenetrabilità di ogni datità da parte del concetto dell'intelletto, nel problema della sua inderivabilità » 80 o indeducibilità dal pensiero (e, infatti, per Kant, com'è noto, la " materia ", l'esistenza, non si ricava dalla mente), la conseguenza che ne risulta, dice Lukàcs, è quella che la totalità, cioè la possibilità che i concetti facciano " sistema ", viene ad essere irri-mediabilmente pregiudicata. In altre parole — e per parlare più semplicemente — il fatto che Kant ponga una differenza tra il singolo concetto e il suo contenuto particolare, tra il concetto e Yoggetto, produce, dice Lukàcs, anche una differenza dei concetti tra loro, impedendo che le diverse conoscenze parziali si integrino-in una totalità o " sistema del mondo compreso nella sua interezza ": così che « l'irrazionalità dei contenuti particolari del concetto » ingenera « l'inafferrabilità della totalità da parte delle costruzioni concettuali dei sistemi parziali » 81. Qui, « il pensiero

79 Ivi, p. 150. 80 Ivi, p. 151. K1 Ivi, p. 152.

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è costretto — dice Lukàcs — a riconoscere che la datità, il contenuto, la materia interviene in maniera decisiva [...] nella struttura delle forme, nel rapporto delle forme tra loro, quindi nella struttura del sistema stesso »: e la conseguenza ne è che « allora si deve rinunciare al sistema come sistema », ovvero che esso « si riduce ad una registrazione il più possibile comprensiva, ad una descrizione il più possibile ordinata di contesti fattuali, la cui connessione non è più razionale, e dunque non è più sistematiz-zabile, benché le forme dei loro elementi siano razionali secondo l'intelletto » 82.

Il discorso, come si vede, investe la questione di fondo. La " tragicità " della filosofia di Kant, cioè la sua impossibilità di superare la " crisi " dell' " estraneazione borghese " (crisi che, per Lukàcs, qui si identifica, naturalmente, con la distinzione materialistica di soggetto ed oggetto, di pensiero ed essere) risale all'assunzione dell'esistenza come realtà extralogica. Storia e coscienza dì classe cita *3 le pagine in cui la Critica dimostra 1' " impossibilità di una prova ontologica dell'esistenza di Dio ". « Essere — dice Kant —, manifestamente, non è un predicato reale, cioè un concetto di qualche cosa che si possa aggiungere al concetto di una cosa. » Dal punto di vista logico, quindi, « cento talleri reali non contengono assolutamente nulla di più di cento talleri possibili ». « Perché — egli prosegue —, dal momento che i secondi denotano il concetto, e i primi invece l'oggetto e la sua posizione in sé, nel caso che questo contenesse [logicamente] più di quello, il mio concetto non esprimerebbe tutto l'oggetto, e però anch'esso non ne sarebbe il concetto adeguato. Ma rispetto allo stato delle mie finanze nei cento talleri reali c'è più list mehr] che nel semplice concetto di essi (cioè nella loro possibilità). Infatti l'oggetto, per la realtà, non è contenuto senz'altro, analiticamente, nel mio concetto, ma s'aggiunge sinteticamente al mio concetto [...], senza che per questo essere fuori del mio concetto questi cento talleri stessi del pensiero vengano ad essere menomamente accresciuti » 8\

Qui, — come anche nelle pagine di critica a Leibniz —, con la tesi che l'esistenza non è predicato, cioè concetto, ma è un " di più " rispetto al pensiero, Kant respinge, com'è noto, ogni

Ivi, p. 154. Ivi, p. 166. I. KANT, Critica della ragion pura cit., II, pp. 472-73.

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acritica identificazione tra " possibilità logica " e " possibilità reale ", ovvero tra sviluppo " secondo natura " e sviluppo " secondo il concetto ". Come — non essendo l'esistenza predicato — il rapporto tra il pensiero e la realtà non può ridursi a un semplice rapporto di concetti entro il pensiero, così è illegittima ogni trasposizione della logica a ontologia. Allo stesso modo, infatti, che il confronto delle cose tra loro, e del pensiero con le cose, non si identifica con un confronto entro il pensiero, così la coerenza del pensiero con sé non può valere immediatamente come congruenza del pensiero con la realtà.

È un fatto — e non mancherà l'occasione di accennarvi ancora tra breve — che questo discorso, che, per un verso, segna il culmine della coscienza critica di Kant, è, per un altro, anche il luogo dove emerge, forse più chiaramente che altrove, la sua incapacità a saldare organicamente tra loro " sviluppo logico " e " sviluppo reale ", causalità ideale e causalità efficiente, finalismo e causalità: donde l'impossibilità, per Kant, di aprirsi finalmente la strada, fuori e al di là delle strettoie della mèra gnoseologia, a un'effettiva comprensione del mondo del lavoro e dell'agire storico reale, in quanto produzione di cose e, insieme, autoproduzione dell'uomo. Senonché, se è certamente questa chiusura di Kant al mondo della storia, ciò che spiega il disinteresse e l'incomprensione di cui il marxismo ha sempre dato prova nei suoi confronti '"; è pur vero — e il capitolo dedicatogli da Storia e coscienza di classe ne è una conferma — che ciò che, d'altra parte, ha fatto ostacolo a un'effettiva intelligenza del pensiero di Kant, è stata la pregiudiziale " critica dell'intelletto " (e, insieme all'in-telletto, naturalmente, del principio di non-contraddizione e, quindi, anche della scienza) che il marxismo ha derivato acriticamente da Hegel, sia nella forma del cosiddetto " marxismo occidentale ". sia nella forma del " materialismo dialettico " di tipo sovietico.

La vicenda di Lukàcs può essere assunta, in questo caso, come esemplare. All'epoca di Storia e coscienza di classe, e cioè nella fase in cui egli scambiava " estraneazione " e " materialismo ", " alienazione " e " intelletto ", la tesi di Kant circa il carattere extralogico dell'esistenza doveva fargli apparire la Critica della

85 Questo giudizio non è invalidato, a nostro avviso, né dal socialismo " etico " di Bernstein e C. Schmidt, né dalla lettura della Critica della ragion pura, in chiave fichtiana, compiuta da MAX ADLER in Kausalitàt und Teleologie e nei Marxistische Probleme.

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ragion pura come il culmine della coscienza " reificata " borghese. Nel periodo successivo, quando egli aveva ormai abbandonato la pregiudiziale antimaterialistica ed era passato sul terreno del " materialismo dialettico ", ciò che doveva fargli apparire la Critica, se non come il culmine, questa volta, del " feticismo ", come quello del " dualismo metafisico ", era l'identificazione engelsiana di " intelletto " e " dogmatismo ", di metafisica e principio di non -contraddizione.

Nulla, a questo riguardo, è più significativo dell'autocritica con cui Lukacs ha spiegato il suo abbandono delle posizioni del '23 e l'adesione ai princìpi del " materialismo dialettico ". Sebbene la questione del materialismo sia sempre indicata da lui come il principale spartiacque tra le due epoche, non vi è una sola parola che accenni mai alla necessità di un riesame della critica hegeliana dell' " intelletto ". L'identificazione, istituita da Hegel, tra oggettività e alienazione è respinta; i presupposti teorici invece da cui quell'identificazione scaturiva — cioè la critica dell'intelletto, la critica del principio di non-contraddizione —-sono tranquillamente accolti e lasciati sussistere.

È evidente che questa profonda incoerenza di Lukacs ha la sua spiegazione in motivi che vanno ben al di là della sua persona. Se egli ha infatti creduto che una ripresa, contro Hegel, del punto di vista del materialismo non dovesse necessariamente implicare una revisione della critica dell'intelletto e, quindi, una ripresa anche del principio di non-contraddizione, ciò è dipeso essenzialmente dal fatto che — nell'abbandonare le posizioni del '23 per passare a quelle del " materialismo dialettico " — tra tutte le questioni su cui Lukacs si vedeva costretto a cambiare opinione ve n'era almeno una — quella, appunto, della critica dell'intelletto — dove questo sforzo non gli era richiesto.

Ciò che egli aveva imparato a criticare e combattere dalle sue vecchie posizioni del '23 — le " distinzioni " e " divisioni " introdotte dall'intelletto —, era criticato e combattuto, con non minore violenza, anche dal " materialismo dialettico ". Quel che mutava era, tutt'al più, solo il nome. Nel senso che, ciò che all'epoca di Storia e coscienza dì classe Lukacs avversava come " reificazione ", egli poteva avversarlo ora come " metafisica ". Nell'un caso e nell'altro, la sostanza era però la stessa; e, quale che fosse il nome sotto cui essa veniva bandita, era inteso che si trattava sempre di eliminare i concetti " determinati ", i famigerati concetti " empirici " (fossero quelli del senso comune o

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della scienza " tradizionale ") e, insomma, il sapere fondato sulla non-contraddizione, cioè la conoscenza avente come sostrato oggetti determinati.

Qui, nel faticoso passaggio da una sponda all'altra, nella dolorosa trasmigrazione e muta dalle " raffinatezze " del marxismo occidentale alle squadrate verità del " materialismo dialettico " russo, Lukàcs ritrovava, al di sotto di tutte le differenze più appariscenti, il conforto di muoversi sempre dentro la stessa tradizione. Il " conoscere finito ", di cui Hegel aveva " grattato " (per dirla con le sue stesse parole) le " rogne dogmatiche " con gli acidi dialettici del pirronismo antico; la conoscenza per concetti figés et distincts, contro la quale Bergson aveva obiettato che non esistono cose ma solo processi e che i " fatti " non sono altro che parti, " momenti " che l'intelletto ha separato e irrigidito, isolandoli artificialmente dalla continuità ininterrotta del " divenire spirituale ": in breve, tutte le cose imparate a detestare alla scuola dei vari Rickert, dei Simmel, ecc. e oggi riecheggiate fino a noi nelle platitudes dei Kojève e Marcuse; tutte queste cose, ora, Lukàcs le ritrovava scomunicate e bandite dal seno stesso del " materialismo dialettico ". Non vi sono cose ma solo processi. Niente è ma tutto passa. Tutto è nel chiaroscuro del divenire eracliteo. La luce del conoscere scientifico e intellettuale è solo l'abbaglio e l'illusione della metafisica. La " Metafisica " — così afferma la Dialettica della natura 86 — è " scienza delle cose, non dei movimenti ". « Il mondo » — incalza il L. Feuerbach — « non deve essere concepito come un complesso di cose compiute, ma come un complesso di processi, in cui le cose in apparenza stabili, non meno dei loro riflessi intellettuali nella nostra testa, i concetti, attraversano un ininterrotto processo di origine e di decadenza » 8?.

Materialismo, dunque, e in più dialettica della materia. Wi-derspiegelungstheorie e, in più, " dialettica del finito ". La nuova sponda verso cui Lukacs si portava, dopo il '30, era questa: il " materialismo dialettico " di Engels. E poiché per avere la prima cosa — il materialismo —, era indispensabile uscire dalla critica hegeliana dell'intelletto e della non-contraddizione, mentre, per avere la seconda, era indispensabile proprio quella critica (cioè la Annihilation des Verstand.es e, con essa, la distruzione del finito), si comprende bene il carattere intimamente contraddittorio dell'autocritica di Lukàcs.

ss F. ENGELS, Dialettica della natura cit., p. 199. " F. ENGELS, L. Feuerbach cit., p. 52.

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La sua dichiarazione del 1962 riconduce tutti i difetti di Storia e coscienza di classe a due punti essenziali: il mancato riconoscimento del " principio fondamentale della teoria marxiana della conoscenza — una realtà oggettiva esistente indipendentemente dalla coscienza "; e la negazione della dialettica della materia (das Leugnen einer Dialektik in der Natur)**. Una letteratura, a volte brillante, ma più spesso povera di analisi, ha sempre concordato, prima e dopo di allora, con Lukacs, nel riconoscere non solo (come in effetti è) che queste fossero, appunto, le due discriminanti principali tra il " marxismo occidentale " e il " materialismo dialettico ": la Widerspiegelungstheorie e la " dialettica della materia "; ma che entrambe queste due concezioni concorressero a definire il carattere, fondamentalmente materialistico, del marxismo russo, a differenza e in contrapposizione di quello " occidentale " (basti qui ricordare soltanto Les aventures de la diale ctìque di Merleau-Ponty).

In realtà, sia il Lukacs passato al " materialismo dialettico ", sia il cosiddetto " marxismo occidentale ", sono rimasti sempre impigliati negli stessi limiti teorici, senza arrivare a intendere mai come, proprio la " critica dell'intelletto ", accomunasse in uno stesso destino i due orientamenti, al di là di tutte le altre loro differenze.

Abbildtbeorie più " dialettica della materia ". Una coscienza critica, appena avvertita, dovrebbe avere la forza di capire la carica di dilettantismo che si cela nella pretesa di mettere insieme queste due cose. Il materialismo, infatti, è impensabile senza principio di non-contraddizione; la " dialettica della materia ", viceversa, ne è la negazione. Per il primo, l'oggetto particolare è il sostrato del giudizio: il particolare è esterno o irriducibile (si ricordi Kant) all'universale logico; per la seconda, al contrario, è vero l'opposto: nel senso che, poiché il finito ha per sua essenza e fondamento 1' "altro " da sé, esso è " veramente " sé, quando non è più sé ma è finito ideale o interno al pensiero.

Una pagina di Storia e coscienza di classe conferma il sin-cretismo che è alla base dell'ingenua combinazione di Abbildtbeorie e " dialettica della materia ", operata da Engels. Lukacs vi riporta due passi del Feuerbach, dei quali egli respinge il primo e accoglie il secondo. « Noi — scrive Engels — intendevamo i concetti della nostra testa ancora una volta materialisticamente

as Cfr. la dichiarazione del 1962 in I. FETSCHER, Der Marxismus, I, cit.

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come riflessi [Abbila] delle cose reali, in luogo di considerare le cose reali come riflessi di questo o quel grado del concetto assoluto. » Ora, commenta Lukacs, « si deve porre qui l'interrogativo che del resto si pone lo stesso Engels e al quale egli dà anzi, nella pagina seguente, una risposta del tutto conforme a ciò che noi pensiamo: ' il mondo: non è da comprendere come un complesso di cose già definite, ma come un complesso di processi ' ». Ma allora ■— Lukacs conclude — « se non vi sono cose — che cosa viene ' riflesso ' dal pensiero? » S9.

In questa che può sembrare soltanto una battuta, la differenza tra marxismo occidentale e materialismo dialettico ha — seppure solo implicitamente — la sua giusta collocazione. La trasformazione delle " cose " in " processi '" suppone il superamento non solo della distinzione tra cosa e cosa ma anche di quella tra soggetto e oggetto. La processualità, infatti, è la fluidità, la continuità ininterrotta che si instaura quando il " materiale " e 1' "immateriale ", il soggettivo e l'oggettivo, il finito e l'infinito, sono presi insieme, cioè assunti come " momenti " di una stessa unità. È questo, com'è noto, un punto essenziale del pensiero di Hegel. La ragione — egli dice — non è il soggettivo contro l'oggettivo: è l'unità dell'uno e dell'altro; non è l'infinito dell'intelletto, ma l'unità del finito e dell'infinito. Ora, assumere questa processualità dialettica e, insieme, pretendere di continuare a parlare di un pensiero che " riflette " le cose, come se tra i due sussistesse ancora un 'esteriorità reciproca, è palesemente — questa l'obiezione di Lukacs — un'assurdità.

È a nostro avviso innegabile che, in questa parte, e cioè nel rifiuto del sincretismo o eclettismo, il marxismo occidentale mostri la sua superiorità sul " materialismo dialettico ". Esso avverte, infatti, almeno nel caso del suo maggiore esponente, che l'assunzione del principio dialettico come principio (non solo della ragione ma anche) della realtà, non lascia spazio a nessun genere di materialismo. E, quanto questa posizione, pur nei suoi limiti, sia più corretta dell'altra, basta a provarlo la decadenza in cui il pensiero di Lukacs è incorso, dopo Storia e coscienza di classe, allorché egli ha posto in opera il tentativo di ritrovare in Hegel stesso ciò che nel '23 denunciava, giustamente, come una contaminazione eclettica di Engels: vale a dire, l'assunzione della dialettica come principio della realtà e, insieme a ciò, la possibilità di impiantare una " teoria del rispecchiamento ".

89 G. LUKACS, Storia e coscienza di classe cit., p. 263. 351

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Senonché, ciò che al di là di queste differenze, pur rilevanti, a noi sembra comune a entrambe le due posizioni, è il loro carattere di fenomeni, insieme epigonici e " corrotti ", del pensiero originario di Hegel. Nel caso del " materialismo dialettico ", l'elemento di questa " corruzione " è stato ampiamente discusso: quella filosofia scambia per materialismo la " dialettica della materia " con cui Hegel realizzava l'idealismo assoluto. Nel caso del " marxismo occidentale ", esso si esprime invece nella tendenza — oggi assai diffusa — a intendere l'unità hegeliana del " materiale " e dell' " immateriale ", del soggettivo e dell'oggettivo, come qualcosa di neutro (cioè comprensivo di entrambi, senza essere però nessuno dei due), e, quindi, come qualcosa che sia per ciò stesso destinato — esempio: la " prassi " di tutte le filosofie che vi si intitolano! — a superare lo stadio " arcaico " di ogni considerazione gnoseologica.

Che qui si tratti di un epigonismo troppo disinvolto nello stabilire il significato effettivo che Hegel attribuiva alla sua unità del soggettivo e dell'oggettivo, si può provarlo da mille testi: dallo Ztisatz 2 al § 24 agl'Enciclopédia, dove si afferma che « Dio solo è la vera coincidenza del concetto e della realtà », all'aggiunta al § 389 della stessa opera dove — dopo aver ricordato che « nelle filosofie di Descartes, di Malebranche e Spinoza si risale a una tale unità del pensiero e dell'essere, dello spirito e della materia, e questa unità viene riposta in Dio » — Hegel osserva che, « in quanto da quelle filosofie l'unità del materiale e dell'immateriale è collocata in Dio, che è essenzialmente da concepire come spirito, esse vogliono con ciò sottolineare che quell'unità non è da intendere come ein Neutrales nel quale siano convenuti due estremi di eguale importanza e consistenza », ma è da intendere piuttosto come quell'unità che, in tanto può rias-sumere in sé pensiero ed essere, in quanto è spirito o pensiero essa stessa.

Se questo è vero, la differenza tra " marxismo occidentale " e " materialismo dialettico " deve allora prospettarsi in modo diverso dal consueto: e, cioè, non tanto come una differenza tra marxismo d'impronta materialistica e marxismo in quanto " filosofia della prassi ", bensì come la differenza tra due propaggini estreme, e fortemente contaminate, della stessa tradizione hegeliana. Nel marxismo occidentale, questa tradizione è filtrata attraverso il " mezzo " del cosiddetto " storicismo tedesco contemporaneo " e dei suoi problemi specifici (in primo luogo, quello

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della distinzione tra scienze della natura e scienze storico-sociali): con, in più, tutto l'orientamento antioggettivistico peculiare del neo-hegelismo (Croce e Gentile, non esclusi): donde il ripudio, da parte di quel marxismo, della " dialettica della materia " e, in genere, di tutta la filosofia della natura di Hegel.

Nel materialismo dialettico, invece, la stessa tradizione è accolta proprio e soprattutto in quest'ultima versione, sia per il convincimento che la " dialettica della materia " sia una forma essa stessa di materialismo e, anzi, la forma più compiuta e rigorosa; sia per la possibilità che essa offriva — mercé questo fraintendimento e proprio nell'epoca in cui il " materialismo dialettico " si veniva costituendo — di essere posta in relazione e in osmosi con le grandi " sintesi " cosmogoniche del positivismo evoluzionistico.

Quanto, poi, entrambe queste due linee interpretative appaiano spostate rispetto al nucleo centrale del pensiero di Marx, si può vedere dalla sorte toccata a quello che a noi sembra il tema unitario che è al fondo di tutta la sua opera 90: il tema, intendiamo dire, della " reificazione " o " feticismo " o " estraneazione " o — il che è lo stesso — dell'ipostatizzazione o sostan-tificazione dell'astratto; tema che, in Marx, è alla base sia della critica della logica speculativa di Hegel e dell'economia politica in genere, sia della critica delle ipostatizzazioni reali dello Stato e del capitale, in quanto entificazione (o particolarizzazione), nel primo caso, dell'interesse generale o universale, che si pone per sé, come Stato, separatamente dalla generalità degli interessati; e, nel secondo, in quanto entificazione della forza produttiva sociale che, nella sua separazione dall'insieme dei lavoratori, diventa « forza di una parte della società [che] si conserva e si accresce attraverso lo scambio con la forza-lavoro vivente, immediata » ".

Ora, la sorte toccata a questo tema essenziale di tutta l'opera di Marx è espressa, significativamente, dalla vicenda stessa di Lukàcs. Storia e coscienza di classe — come l'autore ha giustamente ricordato — è l'opera in cui il « problema dell'estraneazione [...] viene trattato, per la prima volta dopo Marx, come questione centrale della critica rivoluzionaria del capitalismo » 92.

90 La percezione di questo motivo unitario dell'opera di Marx affiora nel complesso, se anche forse mai con piena consapevolezza, nell'equilibrato libro di K. KORSCH, Karl Marx, Frankfurt a. Main 1967 (trad. it., Bari 1969).

91 K. MARX, Capitale e lavoro salariato cit., p. 50. 93 G. LUKÀCS, op. cit., pp. XXII-XXIII.

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Dopo Marx e fino al 1923, il problema non era mai stato prima d'allora toccato. Un'intera zona nevralgica del pensiero di Marx — sviluppata in centinaia di pagine del Capitale, delle Teorie sul plusvalore, dei Gmndrisse, ecc. — era uscita interamente dal-l'orizzonte conoscitivo degli interpreti. Engels, Kautsky, Plecha-nov, Lenin, non vi dedicano mai una sola riga. Essi non riescono a capire di che si tratti. Nella loro ricostruzione del pensiero di Marx, non c'è posto per questo tema.

Il libro di Lukacs rompe per la prima volta con questa tradizione e scopre nel corpus degli scritti marxiani questa terra inesplorata. Poiché, tuttavia, il problema della reificazione capitalistica viene allora confuso da Lukacs con quello del materialismo e della scienza, la sua spiegazione dell'impasse di fondo di tutta la precedente tradizione interpretativa non gli pone alcuna difficoltà: la linea da Engels a Lenin è rimasta — secondo lui — tagliata fuori dal tema della reificazione, in conseguenza del suo stesso carattere materialistico.

Quando, dopo il '30, caduta la pregiudiziale contro il mate-rialismo, Lukacs potrebbe riproporsi il problema dalle radici, la continuità esistente tra le sue vecchie e le sue nuove posizioni, per quanto riguarda la " critica dell'intelletto ", gli impedisce un nuovo esame della questione. Seppure assai più colto ed esperto di tanti altri, egli è ormai diventato un " materialista dialettico " a tutti gli effetti. E il tema della reificazione perde, progressivamente, nella sua opera, peso e rilievo, salvo a riapparirvi (quando vi riappare) nei modi stessi del '23. La critica della reificazione è la critica, sviluppata dal giovane Hegel, della positività **. La metafisica è l'intelletto, il principio di non-contraddizione.

93 Qui sarebbero da analizzare attentamente i capitoli II e VI del Giovane Hegel, intorno alla critica hegeliana della " positività " e, in particolare, intorno alla critica della " religione positiva ". In genere, si può osservare che — sebbene Lukacs rilevi più volte che la critica hegeliana della religione positiva è « l'espressione filosofica dell'abolizione ultraidealistica di ogni oggettività » (p. 131) e che Hegel « non respinge e non combatte la religione in generale, ma contrappone una religione non positiva alla religione positiva » (p. 137) — il suo discorso tende tuttavia a dare maggior risalto agli aspetti per cui, nel discorso di Hegel, affiorano « presentimenti di quei tipi di oggettività sociale che Marx ha designato in seguito col termine di feticismo» (p. 131). La ragione delle continue oscillazioni che qui presenta il discorso di Lukacs è da ricercare, a nostro avviso, nel suo mancato approfondimento della critica hegeliana dell'intelletto. Ciò gli ha impedito di vedere, a noi sembra, che la critica hegeliana è una critica della positività e non della religione; o, per meglio dire, che essa è sì una critica della religione, ma solo in quanto è peculiare della reli-

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Lukàcs, non solo non è più in grado di capire le ragioni per cui il vecchio materialismo dialettico non ha potuto riprendere e interpretare l'analisi della reificazione compiuta da Marx, ma è ormai prigioniero, a sua volta, degli stessi limiti di quella tradizione. La metafisica è, per lui, la distinzione di soggetto e oggetto, il particolare preso a esclusione di tutto ciò che esso non è: in breve, è il particolare fuori dall'universale logico. Ora, appunto questo discorso è ciò che esclude Lukàcs dalla linea del pensiero di Marx, così come, già prima, ne aveva tagliati fuori Engels e Lenin. Per Marx, infatti, la metafisica è il realismo degli universali: è la totalità logica che si pone come per sé stante, trasformandosi in soggetto, e che, in quanto deve sussistere per sé, si identifica e confonde, acriticamente, con il particolare, facendo di questo, che è il vero soggetto reale, il suo proprio predicato o manifestazione.

Come questa idea di metafisica rimandi a tutta una tradizione che ha il suo caposaldo moderno nella Critica della ragion pura di Kant, è quanto abbiamo cercato di mostrare. L'innovazione, fondamentale e decisiva, apportatavi da Marx è che — come per Hegel la metafisica compiuta è la realizzazione dell'idealismo, cioè l'Idea o Logos che si fa realtà — così, per lui, la metafisica non è più solo una particolare forma della conoscenza, ma è un processo che investe dall'interno la realtà stessa. In altre parole, capovolta o " testa in giù " non è più soltanto la rappresentazione (metafisica) della realtà, ma è la realtà medesima, il mondo stesso, che va appunto sovvertito e raddrizzato. L'ipostatizzazione dell'universale, la sua sostantificazione o entificazione, non riguarda, soltanto o anzitutto, la Logica di Hegel, ma, prima che questa logica, riguarda la realtà. In breve, l'ipostasi del concetto hegeliano rimanda all'ipostasi del capitale e dello Stato.

gione, a differenza della filosofia, concepire Dio, che è spiritualità, in forme ancora naturalistiche. La critica della religione positiva è, in Hegel, anzitutto la critica del cattolicesimo. La critica è imperniata sul tema dell'oggettivismo naturalistico e pagano, che inficia questa che è la religione positiva per eccellenza. La lunga Antnerkung al § 552 àszWEnciclopedia afferma che, con il cattolicesimo, « nell'ostia Dio vien presentato all'adorazione religiosa come una cosa esterna (mentre al contrario nella chiesa luterana l'ostia come tale vien consacrata ed elevata al Dio presente solo nella fruizione, cioè nell'annullamento dell'esteriorità di essa, e nella fede, cioè nello spirito insieme libero e certo di sé) ». La critica, insomma, combatte la presentazione dello Spirito come una cosa, ricollegandosi, per questa via, alla critica hegeliana della metafisica prekantiana. Questa posizione della piena maturità è — come ha visto bene K. ROSENKRÀNZ, Vita di Hegel, Firenze

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1966 — analoga a quella del periodo giovanile, uscendo confermato da en-trambe che « la filosofia hegeliana è, per quanto riguarda la religione, es-senzialmente protestante ». E Rosenkranz aggiunge: « Chiamo protestante-simo quella forma di religione che fonda la conciliazione fra Dio e l'uomo attraverso la consapevolezza che l'essenza dell'autocoscienza umana ha per proprio contenuto l'autocoscienza divina ed ha perciò la libertà come sua forma » (pp. 19-20). Rosenkranz riconnette giustamente la critica della re-ligione positiva alla critica hegeliana dell' " intelletto " (p. 119) e, in par-ticolare, alla critica che Hegel sviluppa del rapporto che l'intelletto instaura tra il finito e l'infinito, quando concepisce il primo come 1' " al di qua " o P " esistenza terrena " e il secondo come il vuoto " al di là ". Lukacs, al contrario, tende a vedere, nella critica hegeliana, « lo smascheramento e annientamento teoretico dell'oggettività trascendente della positività » (p. 124), come se il senso del discorso di Hegel fosse quello di negare la trascendenza e non piuttosto quello di far valere la trascendenza come l'assoluto e la sola vera realtà, trasferendo Dio dall'ai di là di qua. Qui si scopre, di nuovo, il limite materialistico-dialettico di Lukacs. La dialettica del finito e dell'infinito è concepita infatti da lui, come se mediante essa — anziché annullare il finito — Hegel annullasse il soprasensibile o Dio (« già a Jena — dice Lukacs [p. 335] — Hegel comincia a trovare una giusta formulazione dialettica di questo problema; e proprio mediante questa dialettica, da lui scoperta, dell'infinito e del finito, a togliere all'infinito ogni carattere trascendente e oltremondano »). Come il lettore può vedere, qui Lukacs scambia l'immanentizzazione della trascendenza, con l'abolizione di essa. Quanto, poi, al persistere, in Lukacs, della vecchia concezione che identifica l'alienazione e il feticismo con la distinzione dell' " intelletto " tra soggetto e oggetto, basti qui accennare all'utilizzazione ch'egli ha fatto delle Lettere, in particolare la sesta, di Schiller Ueber die àsthetische Erziehung des Menschen (in Schillers Werke, a cura di E. Jenny, voi. X, Basel 1946, in particolare pp. 92 sgg.). La critica schilleriana della distinzione di " sensibilità " e " intelletto " è letta da Lukacs in chiave di critica marxiana del feticismo: cfr. G. LUKACS, Goethe e il suo tempo, Milano 1949, pp. 167 sgg. e II Marxismo e la critica letteraria, Torino 1953, pp. 150 sgg.

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XI. IL CONCETTO DI « RAPPORTI SOCIALI DI PRODUZIONE »

Il marxismo non è — o, almeno, non è fondamentalmente — una gnoseologia. (Nell'opera di Marx la Widerspiegelungstheorie, come tale, ha scarso rilievo.) E tuttavia, partire dalla gnoseologia può essere importante, per capire in che senso un concetto così originale, e anche così estraneo a tutta la tradizione speculativa, come il concetto di rapporti sociali di produzione, sia nato dallo sviluppo e dalla trasformazione dei problemi stessi della filosofia classica. Il punto che qui occorre anzitutto avere ben chiaro è che le difficoltà della gnoseologia sono le difficoltà stesse del rapporto tra " intelletto " e " ragione ".In quanto la gnoseologia deve spiegare la genesi del sapere, la formazione dei concetti, essa non può assumere la conoscenza come già data ma deve risalire alle condizioni da cui la conoscenza stessa si produce (sensibilità e intelletto, pensiero ed essere): il che significa che, per questa via, la gnoseologia non può non configurarsi come una Elementarlehre, cioè come una " dottrina degli elementi ", dove il pensiero non solo è " uno dei due " ma è condizionato dall'al-tro che ha fuori di sé. D'altra parte, in quanto quest'assegnazione delle condizioni, da cui si deve produrre la conoscenza, non può avvenire essa stessa che per mezzo di un atto del sapere, ciò che per un verso sembra condizionare il pensiero dall'esterno, si scopre anche come una condizione che il pensiero stesso ha posto a sé: onde, lungi dall'essere solo " uno dei due ", il pensiero si rivela qui come la " totalità " della relazione. Nel primo caso, e cioè in quanto voglia essere indagine circa la genesi o la formazione del sapere, la gnoseologia deve prospettare il concetto come un risultato e un punto d'arrivo che dipende da condizioni extralogiche. Nel secondo, viceversa, in quanto il tentativo di spiegare il conoscere implica un atto di conoscenza esso stesso, il concetto

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appare come l'unità originaria da cui è impossibile prescindere, e la gnoseologia si contrae nella logica.

Queste difficoltà della teoria della conoscenza sono il fulcro da cui si sviluppa il pensiero di Hegel e Kant. I primi paragrafi dell'Enciclopedia mostrano con esemplare chiarezza come Hegel padroneggi tutti i termini del problema. Se non vuol essere un sapere immediato o una fede, la conoscenza deve poter apparire al termine di un processo che va dal non-sapere al sapere, dall'essere al pensiero: il concetto, quindi, deve risultare un che di mediato e condizionato; donde l'affermazione, posta all'inizio del § 12, che « la genesi della filosofia [...] ha per suo punto di partenza l'esperienza ». D'altra parte, l'esigenza di questa ricerca intorno alla genesi della filosofia o del sapere si scontra con il fatto che la ricerca stessa non può avvenire se non alla luce e sulla base di ciò che ne dovrebbe risultare. « Uno dei punti di vista capitali della filosofia critica [kantiana] — scrive Hegel ■— è, che prima di procedere a conoscer Dio, l'essenza delle cose, ecc. bisogni indagare la facoltà del conoscere [...]. Se tuttavia non si vuole illudersi con parole, è facile vedere [...] che l'indagine del conoscere non può accadere altrimenti che conoscendo: dacché indagare questo cosiddetto istrumento non è altro che conoscerlo. Voler conoscere dunque prima che si conosca è assurdo, non meno del saggio proposito di quel tale Scolastico, d'imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell'acqua. » Per un verso, quindi, necessità della mediazione ^//'esperienza alla filosofia, dall'essere al concetto: perché, ove questa mediazione e questo condizionamento risultassero impossibili o illusori, avrebbe ragione l'intuizionismo di Jacobi (e, con Jacobi, l'indiano che adora la vacca e la scimmia). Per un altro verso tuttavia — in quanto il concetto è un prius — è impossibile che esso risulti da condizioni esterne. « La genesi della filosofia ha per suo punto di partenza l'esperienza »: ma — aggiunge subito Hegel, e nel corpo dello stesso paragrafo —• « se la mediazione è presentata come una condizionalità ed è messa unilateralmente in rilievo, si può dire — ma non si dice gran cosa — che la filosofia deve la sua prima origine all'esperienza {a^'aposteriori) ».

In altre parole, le difficoltà della gnoseologia nascono dall'in-contro di due istanze opposte. La prima è quella per cui — essendo ogni spiegazione uno scire per causas (si ricordi Jacobi) ■—-una teoria che si proponga di spiegare la conoscenza non può consistere in altro che nell'assegnare condizioni al pensiero, cioè nel-

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l'applicargli il principio di causa: donde il carattere tendenzialmente materialistico di ogni gnoseologia. (Hegel, che rivendica, contro Jacobi, la necessità della mediazione, sostiene, non a caso, una mediazione che tolga se stessa, cioè che abolisca le condizioni poste al pensiero.) La seconda, invece, è quella per cui — essendo " soggettività " e, quindi, " attività " spontanea •— il pensiero risulta irriducibile a qualsiasi spiegazione causale (il pensiero — si ricordi Hegel — è un ingrato come il mangiare " che distrugge ciò a cui deve se stesso "): nel senso che, in quanto la teoria che lo presenta come un effetto è un atto essa stessa del pensare, è chiaro che ciò che, suo malgrado, la gnoseologia ci prospetta non è la priorità delle condizioni reali ma la priorità del pensiero che le enuncia: e, quindi, non condizioni veramente esterne ma solo condizioni " pensate ", condizioni che sono un prodotto e un risultato del pensiero stesso.

Ha qui le sue radici la tesi di Hegel, già richiamata più volte, secondo cui la filosofia è sempre e inevitabilmente idealismo. Il materialismo è, a suo avviso, inconcepibile, perché una filosofia che affermi la priorità dell'essere o della materia rispetto al pensiero e, quindi, la dipendenza del secondo dal primo, non si avvede che, nell'atto stesso in cui procede a questa enunciazione, capovolge l'ordine che essa propone. La materia, che doveva essere il primo, vi compare in realtà solo come un contenuto ideale, cioè come un prodotto del pensiero; il pensiero, viceversa, che doveva essere il secondo, vi risulta il primo. « I princìpi delle filosofie antiche o moderne, l'acqua, oppur la materia, oppur gli atomi, sono —■ dice Hegel — pensieri, universalità, idealità, non cose quali immediatamente si trovano, vale a dire nella loro individualità sensibile. Nemmeno quell'acqua taletica; poiché, sebbene sia anche l'acqua empirica, è però in pari tempo, oltre a questo, l'in sé o l'essenza di tutte le altre cose; e queste non sono indipendenti, fondate in sé, ma poste da un altro, [...] ossia sono ideali » (I, 170).

D'altro canto, se il concetto è quell'unità originaria oltre cui è impossibile risalire e dalla quale è assurdo anche solo immaginare di prescindere, è pur vero che Hegel stesso deve rivendicare costantemente la necessità della mediazione. Il concetto non può essere solo il " primo " ma deve risultare anche 1' " ultimo ", non può essere solo punto di partenza ma deve essere anche punto d'arrivo: perché, altrimenti, il concetto diventa un presupposto immediato (una fede cieca o un istinto), e il sapere, che si deve costruire, risulta già dato.

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Questa stessa difficoltà è sperimentata anche da Kant, che pure procede in una direzione assai diversa da quella di Hegel. La Critica della ragion pura è, in un certo senso, l'unica grande opera, che il pensiero moderno conosca, in cui si sia tentato di costruire una gnoseologia come scienza. Ciò che per Hegel è una necessità da aggirare e da eludere — la distinzione di pensiero ed essere —, in Kant diventa elemento di forza. Per lui, non è la gnoseologia che tende a cadere entro la logica, ma viceversa. Non è il rapporto essere-pensiero che tende a contrarsi nel rapporto del pensiero con sé, ma, al limite, è vero l'opposto. Nel suo impianto di fondo, la Critica della ragion pura è una " dottrina degli elementi ", cioè una dottrina della distinzione di elemento sensibile e elemento logico (dove il pensiero non solo è il' secondo, ma è condizionato dal primo). In base a questa impostazione, Kant osserva continuamente che — perché si abbia conoscenza — occorre un riferimento del pensiero aW altro da sé: un " altro " — si badi — la cui eterogeneità è qualitativa e non formale, " trascendentale " e non meramente logica. « Senza sensibilità nessun oggetto ci sarebbe dato, e senza intelletto nessun oggetto pensato [...]. Queste due facoltà o capacità [la recettività e la spontaneità] non possono scambiarsi le loro funzioni. L'intelletto non può intuire nulla, né i sensi nulla pensare. La conoscenza non può scaturire se non dalla loro unione. Ma non perciò si devono confondere le loro parti; che, anzi, si ha grande ragione di separarle accuratamente e di tenerle distinte. Per questo — conclude Kant — noi distinguiamo la scienza delle leggi della sensibilità in generale, l'estetica, dalla scienza delle leggi dell'intelletto in generale, la logica. » 1

È sintomatico, tuttavia, che, proprio dal seno di questa " dottrina degli elementi ", risorga anche per Kant la difficoltà cui prima si accennava nel caso di Hegel. In quanto non c'è conoscenza se prima non è dato qualcosa da pensare, il pensiero è chiaramente solo " uno dei due ": esso è condizionato dall' " altro " che ha fuori di sé. In quanto, d'altra parte, perché qualcosa mi sia dato, occorre anche ch'io lo avverta come tale (che, i problemi e le cose di cui non ho coscienza, per me non esistono neppure), il rapporto si capovolge: nel senso che, mentre prima, per pensare, occorreva che mi si presentasse o rappresentasse qual-

' I. KANT, Critica della ragion pura eh., I, p. 92.

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cosa, ora viceversa, perché io abbia rappresentazioni, occorre che esse risultino fin dall'inizio mie, cioè legate e appartenenti già alla mia coscienza. « Giacché — dice Kant — le molteplici rappresentazioni, che sono date in una certa intuizione, non sarebbero tutte insieme mie rappresentazioni, se tutte insieme non appartenessero ad una autocoscienza »; cioè « io chiamo quelle rappresentazioni tutte mie, solo perché io posso comprendere la loro molteplicità in una coscienza. » "

Nel primo caso, il pensiero è solo " uno dei due ", e " quella rappresentazione, che può esser data prima di ogni pensiero " e che, come Kant scrive, " dicesi intuizione ", è il presentarsi stesso della cosa a me. Nel secondo, invece, come il pensiero è la " totalità ", cioè 1' " unità sintetica originaria dell'appercezione ", così la rappresentazione è soltanto " un atto della spontaneità ", una creazione del pensiero, cioè un atto con cui il pensiero si oggettiva a sé. Nel primo caso, non vi è pensiero se prima non è dato un oggetto da pensare; nel secondo, non c'è coscienza dell'oggetto, se non mediante e in dipendenza dell'autocoscienza del soggetto. La " dottrina degli elementi " che, con la sua distinzione dell'elemento sensibile dal logico, ambisce, per un verso, di risalire alle condizioni antecedenti al pensiero, si scopre, per un altro, come una semplice suddivisione della teoria, cioè come una distinzione interna alla logica stessa, dove il pensiero, lungi dall'apparire come il secondo o un condizionato, si rivela come quell'attività originaria che determina — si pensi allo " schematismo trascendentale " — l'intero campo della sensibilità.

Non è arduo riconoscere, dietro queste difficoltà della gnoseolo-gia, gli stessi problemi che abbiamo già incontrato precedentemente. Il pensiero come " uno dei due " e il pensiero come la " totalità " della relazione, oppure — per adottare i termini emersi da ultimo — il pensiero come coscienza dell'oggetto e il pensiero come coscienza di sé o autocoscienza, son tutte figure analoghe a quelle che prima abbiamo chiamato induzione e deduzione, sviluppo " secondo natura " e sviluppo " secondo il concetto ", processo reale e processo logico. Si tratta, in entrambi i casi, di due processi causali. Il primo è un processo di causalità efficiente o materiale, dove condizione è l'empiria o sensibile e condizionato il pensiero; il secondo è il processo inverso o della causalità ideale, in cui il prius è il concetto, che nell'altro appariva invece come

2 Ivi, pp. 130-31.

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un risultato. In breve, causalità e finalismo, causalità e teleologia: dal momento che « lo scopo », come dice Kant, « è l'oggetto di un concetto, in quanto questo è considerato come causa di quello (il fondamento reale della sua possibilità); e la causalità di un concetto in rapporto al suo oggetto è la finalità (forma fi-nalis) »3.

Inutile qui perdere tempo con chi pensi che queste alternative siano solo " arcaismi " metafisici di Kant o di Hegel. Myrdal ha mostrato lucidamente che esse costituiscono, piuttosto, « la difficoltà logica di ogni scienza » i: difficoltà che consegue dal fatto che, mentre, nell'indagine scientifica, l'idea o la teoria devono, per un verso, esser sempre un prius, per un altro esse debbono risultare anche un posterius, cioè « un nucleo teorico il cui fondamento può essere costruito soltanto su una base empirica » 5. Altrettanto dicasi per il collegamento, da noi accennato poc'anzi, tra deduzione e finalismo, ipotesi e ideologia. In ogni indagine scientifica, scrive Myrdal, vi è un elemento a priori che non si può eludere. « Ouestions must he asked before ansivers can be given. The questions are an expression of our interest in the world, they are at bottom valuations. Valuations are thus necessari^ involved already at the stage when we observe facts and carry on theoretical analysis, and not only at the stage when we draw politicai inferences from facts and valuations. » e In termini analoghi si esprime anche Joan Robinson. Le proposizioni ideologiche — o, come ella impropriamente le chiama, " metafisiche " — « non solo esprimono sentimenti morali, ma provvedono anche delle ipotesi » 7, cioè delle finalità, dei programmi di lavoro senza

3 I. KANT, Critica del giudizio, Bari 1949, p. 62. * Cfr. G. MYRDAL, Teoria economica e paesi sottosviluppati, Milano

1959, il cui capitolo XII si intitola appunto « La difficoltà logica di ogni scienza » (cfr. anche G. MYRDAL, Il valore nella teoria sociale, Torino 1966, pp. 222 sgg.).

5 G. MYRDAL, op. cit., p. 205. 6 G. MYRDAL, The politicai element in the development of economie

theory, London 1953, p. VII. Le considerazioni, che precedono le frasi ri portate nel testo, son queste: « This implicit belief in the existence of a body of scientific knowledge acquired independently of ali valuations is, as I now see it, naive empiricism. Facts do not organize themselves into concepts and theories just by being looked at; indeed, except within the framework of concepts and theories, there are no scientific facts but only chaos ». E si ricordi l'affermazione di Marx nell'Introduzione del 1857 (cfr. sopra, Parte seconda, cap. Vili): « Se cominciassi quindi con la popo lazione, avrei una rappresentazione caotica dell'insieme... ».

7 J. ROBINSON, Ideologie e scienza economica, Firenze 1966, p. 58.

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cui non si saprebbe che cosa indagare. Esse « non appartengono propriamente all'ambito della scienza, ma le sono necessarie » (il che vuol dire che, in effetti, le appartengono anche): perché << senza di esse noi non sapremmo che cosa desideriamo conoscere ». Quest'elemento a priori — ideologico o antropomorfico — che è contenuto nelP " anticipazione " ideale o nella " domanda ", va certamente eliminato dalla " risposta ", cioè attraverso la verifica sperimentale; ma « il fatto è -— conclude la Robinson — che senza l'ideologia non avremmo mai pensato a formulare il problema » 8.

Torniamo a Kant e a Hegel. Si tratta ora di vedere non solo come essi risolvano le difficoltà della gnoseologia ma anche di trarre alla luce la concezione dell'uomo che è sottesa ai loro discorsi.

Hegel: la sua soluzione ci è già nota. La gnoseologia è elusa ed è risolta nella logica. La mediazione reale, cioè il rapporto essere-pensiero (condizionante il primo, condizionato il secondo) cade ed è assorbito entro il rapporto del pensiero con sé. La distinzione di empiria e intelletto è " apparente " perché è interna a quell'unità o totalità originaria che è la " ragione ". Il concetto' non è mai nato: è l'incondizionato. Il particolare o finito da cui esso sembra dipendere come da una condizione è, in realtà, un suo effetto e un risultato. Ciò da cui il concetto pare quindi procedere è, in effetti, ciò in cui il concetto stesso passa per farsi reale. Ciò che sembra induzione è deduzione, cioè passaggio dell'ai di là di qua. Il positivo non è indipendente, non è fondato in sé, ma è solo " esposizione positiva dell'assoluto ". Il processo logico è il processo reale stesso: lo sviluppo " secondo natura " è solo la manifestazione dello sviluppo " secondo il concetto ". In quanto, infine, il processo di formazione del sapere è apparente (e, infatti, la mediazione toglie se stessa), l'Idea che ne risulta — non derivando, in realtà, da nulla — è solo e soltanto un presupposto, cioè sapere immediato (o mediato solo formalmente): donde l'inevitabile punto di contatto di Hegel con Jacobi, e dell'idea-lismo con lo spiritualismo in genere.

Quanto poi alla concezione dell'uomo che ne risulta, ciò che va posto subito in risalto è che Hegel intende la definizione tradizionale — homo animai rationale — nel senso che il predicato (la ragione) sia il sostanziale, e il soggetto reale (cioè l'uomo come

* Ivi, p. 36.

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ente naturale o finito) sia solo un predicato del suo predicato. In altre parole, l'uomo finito non rappresenta per Hegel un problema. La vera essenza dell'uomo è la spiritualità, cioè il Logos divino che abita in lui. Contrapponendosi alla filosofia dell' " intelletto " illuministico che presenta la ragione come una proprietà dell'uomo, Hegel mette in rilievo come ciò " per cui l'uomo è uomo " sia esclusivamente lo spirito. Questa frase, che è contenuta nella prima pagina della Filosofia della religione, mostra — come è stato giustamente osservato — « che il concetto hegeliano dello Spirito non è concepito antropologicamente, ma teologicamente, come Logos cristiano, e quindi ' sovrumanamente ' »9. « Conosci te stesso » — così è detto nel § 377 agl'Enciclopédia — « questo precetto assoluto, non ha — né preso per sé né dove lo s'incontra storicamente espresso — il significato di una conoscenza di sé medesimo come delle proprie capacità particolari (carattere, inclinazioni e debolezze dell'individuo); ma significa invece la conoscenza di ciò che è la verità dell'uomo, della verità in sé e per sé, dell'essenza stessa in quanto spirito ».

L'Aggiunta a questo § 377 precisa che, come il riferimento dell'uomo alla sua essenza, vale a dire a ciò che lo fa propriamente " uomo ", è "il rapporto dello spirito umano con quello divino " (che l'essenza dell'uomo è Dio); così, « solo il cristianesimo, con la sua dottrina del farsi uomo di Dio e della presenza dello Spirito santo nella comunità dei credenti, ha per la prima volta posto la coscienza umana in una relazione interamente libera con l'infinito, rendendo così possibile la conoscenza comprensiva [begreifende] dello Spirito nella sua assoluta infinità ». E, poiché « il pensiero, oltre che costituire la sostanza delle cose esteriori, è anche la sostanza universale dello spirituale », così l'umanità dell'uomo, la sua spiritualità divina, coincide — com'è chiarito nello Zusatz 1. al § 24 — con l'esser l'uomo strumento e organo della Logica speculativa. L'enunciazione vera, quindi, non è che l'uomo pensa o che il pensiero è una proprietà del-l'uomo, ma che l'uomo è una proprietà del pensiero, l'organo o il veicolo del Logos. Quando infatti — chiarisce Hegel — « noi concepiamo il pensiero a questo modo, esso appare in un rapporto diverso che quando diciamo semplicemente: noi abbiamo la facoltà di pensare tra e accanto ad altre facoltà, come l'intuire, il rappresentare, il volere, ecc. Se consideriamo il pensiero come

9 K. LOWITH, Da Hegel a Nietzsche cit., p. 496.

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la vera universalità di tutto ciò che è naturale e spirituale, il pensiero abbraccia e sopravanza tutto ciò ed è il fondamento [die Grundlage] di tutto ». Possiamo dire allora: Ich und Denken sind dasselbe o, più precisamente, Ich ist das Denken ah Denkendes. E Hegel conclude: « Ciò che ho nella mia coscienza è per me. Io è questo vuoto, il ricettacolo per tutto e per ogni cosa [das Receptakulum fiir Alles und ]edes\, ciò per il quale tutto è, e che tutto conserva in sé ».

In sostanza, non è l'uomo che pensa la realtà, ma lo spirito o il Logos che, attraverso l'uomo, si riferisce a ciò che esso stesso ha posto come realtà, per riassumersi così dall'alienazione ed assurgere alla piena consapevolezza! di sé. Come il disegno della Fenomenologia indica chiaramente, il cammino per cui l'uomo ascende alla comprensione della realtà è solo uno schermo dietro al quale si svolge la vicenda — più profonda e essenziale ■— con cui lo Spirito perviene all'autocoscienza. Da qui, « la proposizione paradossale di Hegel: ' la coscienza che noi abbiamo di Dio è l'autocoscienza di Dio ' »; questa proposizione — come Feuerbach ha rilevato — « non ha altro senso che questo: l'autocoscienza è un attributo della sostanza o di Dio, e Dio è l'io »10. In altre parole, Hegel « ha fatto dell'io un attributo o una forma della sostanza divina »: anche se poi — continua Feuerbach — « l'essere divino in Hegel non è altro, di fatto, che l'essere del pensiero o il pensiero stesso [dell'uomo], quando venga astratto dall'io, cioè dal soggetto pensante » e « rappresentato come un essere distinto da quello » ".

Nella stessa linea si muove anche il giudizio di Marx. Per Hegel — egli scrive — « l'uomo vale come un ente non-oggettivo, spiritualistico ». « L'ente umano, l'uomo, per Hegel è uguale ad autocoscienza. » Ma, perciò, « è ora del tutto falso dire: l'auto-coscienza ha degli occhi, degli orecchi, della forza sostanziale. L'autocoscienza è piuttosto una qualità [un predicato] della natura umana, dell'occhio umano etc, non è la natura umana una qualità dell'autocoscienza » (OFG, 299). « Un ente che non abbia fuori di sé la sua natura — scrive Marx — non; è un ente naturale, non partecipa dell'essere della natura. Un ente che non abbia alcun oggetto fuori di sé non è un ente oggettivo. Un ente che

10 L. FEUERBACH, Princìpi della filosofia dell'avvenire cit., p. 50. 11 Ivi, p. 102.

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non sia esso stesso oggetto per un terzo non ha alcun ente come suo oggetto, cioè non si comporta oggettivamente, il suo essere non è niente di oggettivo » (OFG, 302).

Ed egli prosegue: « Come l'essere, l'oggetto, è [per Hegel] un ente ideale, così il soggetto è sempre coscienza o autocoscienza ». Il che vuol dire che il risultato del movimento è solo « l'identità dell'autocoscienza con la coscienza, il sapere assoluto, il moto non più verso l'esterno, ma soltanto procedente in se stesso, del pensiero come risultato: cioè il risultato è la dialettica del pensiero puro » (OFG, 297-98). E Marx conclude: « Il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto ». « Questo movimento, nella sua astratta forma, quale dialettica, vale quindi come la verace vita umana; e poiché esso è tuttavia un'astrazione, un'estraneazione della vita umana, vale come processo divino, quindi come il divino processo dell'uomo. » In altre parole, il soggetto del processo non è l'uomo come ente finito ma è « il Soggetto che si sa come assoluta autocoscienza »: « quindi Dio, lo spirito assoluto, l'idea che sa e attua se stessa ». Mentre « l'uomo reale e la natura reale diventano dei semplici predicati, dei simboli di quest'uomo nascosto, irreale, e di questa natura irreale» (OFG, 308-309).

Il punto essenziale, quindi, è che, per Hegel, lo Spirito — « l'assoluto è lo spirito: questa è la più alta definizione dell'assoluto [...]; la parola e la rappresentazione dello spirito è stata trovata presto; ed è il contenuto della religione cristiana far conoscere Dio come spirito » (Enc, § 384) — per Hegel, dicevamo, lo Spirito è la vera essenza dell'uomo. Contro l'illuminismo, che ha rinunciato a conoscere " Dio ossia l'Assoluto " e il cui punto di vista è costituito piuttosto dall' " uomo e dall'umanità ", Hegel oppone che la vera comprensione dell'uomo consiste nel concepirne lo spirito come un'immagine o copia dell'Idea eterna {den Geist als ein Abhild der ewigen Idee: cfr. Zusatz al § 377).

Il senso e risultato ne è (questo è un punto che ora tocchiamo solo di sfuggita ma che vorremmo egualmente fosse ben chiaro) che la deduzione, il processo teleologico, cioè l'oggettivazione dell'idea o esteriorizzazione, da parte dell'uomo, dei suoi pensieri, sia nel linguaggio che nella produzione reale (il prodotto del lavoro — si ricordi il celebre luogo di Marx sulla differenza dell'architetto dall'ape — è l'estrinsecazione o realizzazione di ciò che è posto come scopo nell'idea del lavoratore), appare a Hegel non

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come una manifestazione o oggettivazione del pensiero dell'uomo, cioè come la prova della sua Diesseitigkeit o terrestrità (cfr. la seconda Tesi su Feuerbach); ma gli appare, al contrario, come il passaggio dell' " al di là " (jenseits) " di qua " {diesseits), cioè come una sorta di teofania, come l'ingresso di Dio nel mondo. In altre parole, mentre « il passaggio dall'ideale al reale trova il suo proprio posto — come dice Feuerbach — soltanto nella filosofia pratica »12, cioè nello studio delle varie forme della prassi umana (ivi compresa la conoscenza stessa in quanto essa pure è atto di vita), per Hegel, al contrario, « l'idea si realizza allo stesso modo che Dio si estrinseca, si manifesta, diventa mondano e reale » 13. In conclusione — e sia pure con straor-dinaria ricchezza di contenuti storico-empirici, sia pure con un alto grado di razionalità — la produzione che l'uomo compie della propria vita, il suo operare storico-pratico, appare a Hegel — così come la vicenda dei tempi, del resto, è sempre apparsa alla filosofia cristiana della storia — autosvolgimento di Dio attraverso il mondo: — Gesta Dei per Francos.

Lo sviluppo " secondo natura " diventa, insomma, un semplice momento interno allo sviluppo " secondo il concetto "; e poiché il concetto, venendo a mancare del sostrato reale (di cui esso, in effetti, è predicato o funzione) si ipostatizza, si sostanti-fica, cioè si costituisce in soggetto a sé, esso si trasforma anche, da concetto che dovrebb'essere dell'uomo, in " essenza " spirituale dell'intera realtà, cioè in Logos divino. La causalità efficiente o materiale, in altri termini, diventa un momento interno alla causalità ideale, cioè al finalismo o teleologia, onde — risultando tutto governato dalle finalità e dagli intendimenti di Dio — non c'è una causalità che sia comprensiva anche della teleologia (e, quindi, un materialismo che si realizzi come materialismo storico: il concetto di lavoro, di produzione), ma, viceversa, vi è solo una storia a disegno, in breve: una filosofia della storia.

È facile scorgere, a questo punto, l'errore di fondo che domina il celebre capitolo del Giovane Hegel su II lavoro e il problema della teleologia, su cui fa perno tutta l'analisi sviluppata da Lukacs in questa sua opera. L'intento di retrodatare da Marx a Hegel (che di questo si tratta), non solo l'analisi critica della società capitalistica ma la stessa concezione materialistica della storia,

12 Ivi, p. 56. 13 Ivi, p. 117.

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viene qui allo scoperto e apertamente entra in collisione coi testi. « L'analisi concreta della dialettica del lavoro umano -— scrive Lukacs in riferimento alla Realphilosophie — supera in Hegel l'antinomia di causalità e teleologia, mostrando il posto concreto che la finalità umana consapevole occupa all'interno del contesto causale complessivo. » 14 Ciò vuol dire che il fondamento o la base reale non è, per Hegel, il finalismo ma la causalità materiale stessa, la quale, proprio come in Marx, ricomprende poi in sé anche la teleologia. Hegel concepisce il lavoro, scrive Lukacs, nel senso che, col suo strumento o mezzo di lavoro, l'uomo « non può fare se non ciò che consente la legalità oggettiva degli oggetti o della loro combinazione, cioè il processo lavorativo non può mai andare al di là dei nessi causali delle cose [...]. Il carattere specifico della finalità, come vedono giustamente Hegel e Marx, consiste solo nel fatto che la rappresentazione della mèta è presente prima della messa in moto del processo lavorativo; che il processo lavorativo ha lo scopo di realizzare questa mèta con l'aiuto dei nessi causali — sempre più profondamente conosciuti — della realtà oggettiva » 15.

E Lukacs prosegue: « Nella Logica Hegel sviluppa ulteriormente questa idea nel senso che la teleologia, il lavoro umano, la prassi umana, rappresenta la verità di meccanismo e chimismo. Questa formulazione supera le considerazioni di Jena in chiarezza sistematica, ma anche qui le basi oggettive e sostanziali sono già contenute nelle riflessioni jenensi. Dove bisogna rilevare spe-cialmente che Hegel considera questo rapporto della teleologia al meccanismo e al chimismo in funzione del modo in cui la tecnica chimica e meccanica si rapporta alla realtà oggettiva della natura, e vede quindi nel processo economico di produzione il momento ad opera del quale la teleologia diventa la verità di meccanismo e chimismo » ie.

A confronto con queste pagine, il giudizio di Marx, secondo cui « il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto », deve apparire (quantunque Lukacs non lo dica apertamente) un'ingenua superficialità giovanile. In realtà, il difetto in questo caso è tutto dall'altra parte. E, infatti, non solo basta aprire la Logica (che Lukacs stesso, del resto, cita), e

M G. LUKACS, // giovane Hegel cit., p. 481. ,5 Ivi, pp. 481-82. 16 Ivi, p. 487.

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nella quale culmina (com'egli riconosce) tutta la riflessione del periodo di Jena, per leggervi che, « per l'idea pratica, invece, questa realtà, che le sta insieme di contro qual limite insuperabile, vale come l'in sé e per sé nullo, che solo per mezzo degli scopi del bene [!] debba raggiunger la sua vera destinazione e il suo unico valore » (III, 331, cors. mio); ma basta scorrere semplicemente il prospetto del Libro III della Logica per vedere che il rapporto, che Hegel istituisce, tra il meccanismo e il chimismo, da una parte, e la teleologia, dall'altra, è esattamente l'inverso di quello che Lukàcs gli attribuisce.

Meccanismo e chimismo vengono prima della teleologia, la quale — come Lukàcs ricorda — è considerata appunto da Hegel come la " verità " dei primi due; solo che, poiché nella costruzione della Logica ciò che precede è l'astratto e ciò a cui si perviene da ultimo è il concreto, quest'ordine significa non già che la teleologia è ricompresa nella causalità (com'è appunto nel materialismo storico), ma che meccanismo e chimismo, viceversa, sono " momenti " del finalismo, e che solo la teleologia, insomma, è il vero concreto!

Del resto, che l'affermazione di Lukàcs che « Hegel ha incluso la dialettica del ' lato attivo ' dell'uomo nella sua concezione della realtà oggettiva », il finalismo nella causalità materiale (al punto che « il rapporto di teoria e prassi ha ottenuto così una chiarificazione più alta di quanto avesse potuto conseguire finora in tutta la storia della filosofia », — « un'altezza a cui Marx potè direttamente ricollegarsi e da cui potè sollevare il rapporto di teoria e prassi all'altezza definitiva della chiarificazione filosofica »)17; che quest'affermazione di Lukàcs, dicevamo, sia più da intendere come un empito della sua generosità che come il risultato di un'analisi condotta a mente fredda, è provato da quanto egli stesso riconosce poche pagine oltre, a conclusione del suo capitolo su II lavoro e il problema della teleologia. E infatti, « poiché per l'idealista oggettivo Hegel — non meno che per Schelling — la totalità del processo evolutivo di natura e storia è l'opera di uno ' spirito ' », è chiaro — scrive Lukàcs — che qui « deve per forza ritornare la vecchia idea teologica [sic], già superata da Hegel in tutti i particolari sociali e storici »: giacché, « se il processo storico ha come portatore un soggetto unitario ed è il risultato dell'attività di questi », diventa inevitabile, « per l'idealista og-

17 Ivi, p. 491.

24. Colletti 369

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gettivo Hegel, scorgere nel processo storico stesso l'attuazione di quello scopo che questo ' spirito ' si è posto come mèta all'inizio del processo ». Onde — Lukacs conclude — « la totalità del processo si trasforma in Hegel — esattamente come in Schelling — in un movimento apparente: è il ritorno all'inizio, la realizzazione di qualcosa che è già esistito a priori fin da principio », così che « Hegel non osserva che nell'attuazione astrattamente conseguente del suo principio teleologico egli ricade nella vecchia teleologia teologica » 18.

Lasciamo Hegel e torniano a Kant, cioè alla sua gnoseologia e alla concezione dell'uomo che le è sottesa. Qui il discorso da fare è tutto diverso. La gnoseologia include la logica, anziché risolversi in essa. E, questo persistere nella gnoseologia, cioè nella ricerca delle condizioni poste al pensiero, come scopre l'inevitabile inclinazione materialistica che è connaturata a questo punto di vista, così rivela anche come proprio la gnoseologia (donde il nostro insistere su di essa) apra la strada alla scienza dell'uomo come ente naturale finito: scienza che per Kant, naturalmente, è ancora solo un:'antropologia e, quindi, un aborto.

La conclusione dell'Estetica trascendentale, dove Kant traccia la distinzione tra intuitus originarius e intuitus derivativus, esprime con grande chiarezza (come qui ha visto bene Heidegger nel suo Kant und das Problem der Metaphysik) il vero fondamento del-YElemenlarlehre, cioè della dottrina degli elementi della conoscenza e, quindi, il luogo a cui la gnoseologia come tale deve metter capo. La conoscenza ha " due " fonti, e la teoria della " sensibilità " non può coincidere con la teoria del " pensiero ", perché il soggetto della conoscenza —- l'uomo — è un ente naturale finito: « un essere che è dipendente, e rispetto alla sua esistenza, e rispetto alla sua intuizione (che determina la sua esistenza in rapporto ad oggetti dati) » l9. Se l'uomo fosse come Dio, anziché " un essere pensante finito ", la distinzione tra sensibilità e intelletto, recettività e spontaneità, non avrebbe più luogo: vi sarebbe " intuizione intellettuale " (quella che c'è, appunto, per Hegel); pensare e intuire farebbero tutt'uno; rappre-sentarsi un oggetto e crearlo sarebbe un moto solo.

Questo discorso, appena abbozzato da Kant, contiene in nuce una svolta essenziale. Il pensiero umano non ha nulla a che

18 Ivi, p. 506. 19 I. KANT, Critica della ragion pura cit., p. 90.

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vedere con quello divino. Non è identico ad esso, e diverso solo per grado o limitazione. Non è un Abbild der ewigen Idee, come in Hegel (per il quale, conseguentemente, l'antropologia dev'essere una teologia). Il fatto che l'uomo pensi implica, al contrario, che il molteplice sensibile, o materia, non è un suo prodotto, ma qualcosa che gli è dato. Il pensiero, in altre parole, è la qualità, l'attributo di un ente finito, recettivo, che ha oggetti fuori di sé (e, quindi, che è anche oggetto di altri oggetti). È, in breve, la qualità, la prerogativa specifica dell'uomo. Se pensare e creare facessero tutt'uno, cioè se l'uomo non fosse recettivo, la conoscenza — scrive Kant — si direbbe intuizione « e non pensiero, che dimostra sempre dei limiti » e presuppone l'esistenza di oggetti dati.

A prima vista, nulla di... trascendentale: sembra la scoperta — figurarsi! — che l'uomo nasce e muore. Senonché il senso della considerazione di Kant non è qui che l'uomo è anche un ente naturale finito, ma che, proprio in questa naturalità, ha la sua ragion d'essere l'attributo più alto dell'uomo: il pensiero, l'intelligenza; l'attributo più alto — s'intende — per quel tanto che l'uomo è oggetto della Critica della ragion pura (che nella Pratica, com'è noto, il discorso è ben diverso). Proprio perché è un ente naturale, per questo l'uomo è pensante: questo il senso del ragionamento di Kant. Se, quindi, il pensiero è veramente un " miracolo " (come vuole la retorica spiritualistica), in questo miracolo Dio o lo Spirito non ha parte. Per dirla in termini tecnici, insomma, Kant tien fermo all' " intelletto ", rifiutandosi alla pretesa ch'esso sia assorbito nella " ragione ". Per lui, la distinzione tra empiria e pensiero non è apparente, ma è connaturata alla naturalità del soggetto conoscitivo umano. Quanto poi all'altro soggetto, quello con la maiuscola, e al modo in cui si presume ch'esso, tutt'insieme, intuisca e pensi, rappresenti e crei, a lui, e, se non a lui, ai suoi delegati in terra, è riservata solo " la logica dell'apparenza ": « arte sofistica di dare alla propria ignoranza, anzi alle proprie volontarie illusioni la tinta della verità, imitando il metodo del pensare fondato IGrundlichkeit] che prescrive la logica generale, e servendosi della sua topica per colorire ogni vuoto modo di procedere » 20.

Pare niente ed è più che qualcosa. È l'apprezzamento, derivato dalla parte migliore della tradizione illuministica, che l'uomo è

20 Ivi, p. 98.

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pensante perché è ente naturale; e che, se il pensiero è ciò che differenzia l'uomo da tutti gli altri animali, ciò non significa che l'uomo non sia animale egli stesso (o che egli abbia in sé la " scintilla " divina), ma, più semplicemente, che questo è il suo tratto naturale specifico.

Qui si tocca con mano la differenza di Kant non solo da Hegel ma da Jacobi e da tutta la tradizione spiritualistica. Egli concentra il suo interesse proprio su ciò che gli altri due mettono da parte come insignificante: la naturalità dell'uomo, il suo " intelletto ". Considera come l'unica vera forma di sapere la scienza, che per gli altri due è solo " conoscere finito " o apparente (gli " pseudoconcetti " di Croce, le " etichette " di Bergson, il pensiero " reificato " di Lukàcs nel '23, ecc.); cioè, presenta come l'unico comportamento teoretico valido (si ricordi il discorso all'inizio della Critica su Galilei e Torricelli) quel conoscere intellettuale-sperimentale che Jacobi respinge proprio perché è legato alla naturalità dell'uomo, cioè a quell'aspetto dell'uomo da cui, per certa filosofia, è un punto d'onore prescindere. « Se per ragione — scrive Jacobi nelle Lettere sulla dottrina di Spinoza — s'intende l'anima dell'uomo, solo in quanto essa ha concetti chiari, e con questi giudica, ragiona e forma nuovamente altri concetti o idee; la ragione è una disposizione dell'uomo, che egli acquista a poco a poco, uno strumento, del quale egli si serve: essa gli appartiene. Ma se s'intende per ragione il principio della conoscenza in generale, essa è lo spirito, di cui è fatta l'intera natura vivente dell'uomo; mediante essa, l'uomo esiste; questi è una forma, che la ragione ha assunta. » 2I

E ancora, com'è detto nell'Introduzione del 1815 alle Opere (quando Jacobi s'era ormai chiarito, da tempo, la distinzione tra " intelletto " e " ragione "): « La bestia coglie soltanto ciò che è sensibile; l'uomo fornito di ragione coglie anche ciò che è sopra-sensibile, e chiama ragione appunto ciò con cui coglie il sopra-sensibile [...]. Alla bestia manca l'organo per l'apprendimento del soprasensibile, e a causa di questa mancanza non è possibile formarsi il concetto di una ragione appartenente soltanto alle bestie. L'uomo, sì, possiede tale organo, e proprio e soltanto con questo organo e ad opera di quest'organo egli è un essere razionale » 22. Per contro, « l'intelletto, in una certa misura, lo pos-

21 F. H. JACOBI, Lettere sulla dottrina di Spinoza cit., p. 223. 22 F. H. JACOBI, Idealismo e realismo cit., p. 9.

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siedono anche le bestie, e devono possederlo tutti gli esseri viventi, perché non possono considerarsi individui viventi quelli che non hanno una coscienza associativa la quale è poi la radice dell'intelletto »2S.

L'intelletto scientifico, insomma, è comune all'uomo e agli animali: è il pensiero dell'uomo per l'aspetto per cui anche l'uomo fa parte della natura; la ragione speculativa, al contrario, appartiene soltanto all'uomo, in quanto solo questi è " creatura " spirituale. E, poiché anche la " critica dell'intelletto " come ogni cosa ha un prezzo, il " materialismo dialettico ", che pure si è specializzato in questa critica, non può arretrare alla fine dinanzi alle conclusioni più oscurantiste. Intelletto e ragione (così Engels intitola un paragrafo della Dialettica della natura), « questa distinzione hegeliana (nella quale soltanto il pensiero dialettico è razionale) ha un certo significato. Tutta l'attività intellettiva: indurre, dedurre, quindi anche astrarre (i concetti generali di Dido [il cane di Engels]: a quattro gambe e a due gambe), analizzare oggetti sconosciuti (già il rompere una noce è un principio di analisi), sintetizzare (nelle astuzie degli animali) e come unione di entrambi sperimentare (di fronte a ostacoli non conosciuti e in situazioni nuove), noi l'abbiamo in comune con gli animali. Tutti questi procedimenti sono, quanto al loro tipo —■ e con essi tutti gli strumenti della ricerca scientifici riconosciuti dalla logica ordinaria — assolutamente uguali nell'uomo e negli animali superiori. La loro diversità è solo di grado (di sviluppo del metodo nei diversi casi). I caratteri fondamentali del metodo sono uguali e conducono a uguali risultati nel caso dell'uomo e in quello dell'animale, fintantoché l'uno e l'altro lavorano e vanno avanti soltanto con questi metodi elementari. Al contrario il pensiero dialettico — proprio perché ha come premessa lo studio della natura e dei concetti stessi — è possibile solo all'uomo, e anche ad esso solo ad un grado di sviluppo relativamente alto (buddisti e greci) e raggiunge il suo pieno sviluppo ancor molto più tardi con la filosofia moderna, — e malgrado ciò risultati colossali presso i greci, che anticipano di molto l'indagine scientifica »24.

Pensieri, come si vede, assai discutibili e che, come al solito, lasciano perplessi per la loro disinvoltura: la logica " ordinaria " e... la logica straordinaria, i concetti " elementari " e... i concetti

23 Ivi, p. 35. 24 F. ENGELS, Dialettica della natura cit., pp. 216-17.

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sublimi. E — dietro a questi pensieri, naturalmente — un vecchio bagaglio metafisico, cui montano tuttora la guardia anche marxisti italiani (seppure non più con la baldanza degli anni passati). « Alla filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere: la dottrina delle leggi del processo del pensiero, la logica e la dialettica. » 25 È un altro " pezzo " famoso del patrimonio del " materialismo dialettico ", infinite volte citato: il " pensiero puro " e la " dottrina delle leggi del pensiero ": come se potesse esserci pensiero " puro ", invece dell'uomo che pensa, e come se il discorso sul pensiero non dovesse trasformarsi nel discorso sulla socialità o storicità dell'uomo (che questa, appunto, è la sua natura: « l'atto di nascita dell'uomo — dice Marx — è la storia »), ma potesse avere come suo oggetto il pensiero " in sé ", il pensiero come una sfera o un oggetto autonomo dotato di leggi sue proprie.

La conoscenza, in breve, non appare a Engels come una funzione e manifestazione di vita dell'uomo nel suo rapporto sociale con la natura. Il senso del discorso, sviluppato da Marx nelle Tesi su Feuerbach, è interamente perduto. Esiste un " regno del pensiero puro ", un corso dei concetti parallelo al corso delle cose (« la dialettica — è detto nel Feuerbach — si riduceva in questo modo alla scienza delle leggi generali del movimento, tanto del mondo esterno, quanto del pensiero umano, a due serie di leggi identiche nella sostanza... »26). E, poiché il soggetto della conoscenza non è più l'uomo stesso ma l'identità o " unità originaria " di pensiero ed essere, è vero ciò che osservava Lukacs in Storia e coscienza di classe, e cioè che in Engels « l'interazione più essenziale, il rapporto dialettico tra soggetto ed oggetto nel processo storico non viene neppure menzionato, e tanto meno quindi posto — come si dovrebbe — al centro della considerazione metodica » ".

Quanto poi, per riprendere il discorso su Kant, all'insegnamento più profondo che si può trarre dalla Critica e cioè alla tesi che — non essendo il pensiero un ente a sé — la gnoseologia deve necessariamente far capo alla scienza dell'ente naturale umano, il rilievo che ora naturalmente s'impone è che il limite

25 F. ENGELS, L. Feuerbach cit., p. 71. 28 Ivi, p. 51. 27 G. LUKACS, Storia e coscienza di classe cit., p. 4.

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radicale che vizia tutta questa operazione dal profondo condannandola ad essere ancora una volta solo una metafisica, è il fatto che la " scienza dell'uomo ", cui Kant accenna, non è altro che un'antropologia. Riemergono qui tutte le insufficienze di fondo della Critica, a cominciare dall'incerta e contraddittoria concezione del " sensibile " (sempre a mezza strada tra l'oggetto reale e la rappresentazione soggettiva di esso): nel senso che, come il sensibile, l'oggetto che si riferisce al pensiero, non è una oggettività piena e reale, ma è solo un " fenomeno " (con tutta l'ambiguità da cui questo termine è avvolto nel discorso di Kant), così ai concetti non riesce di rendersi, attraverso questo contenuto dato, veramente sensibili, cioè di acquistare tramite esso un'effettiva, esteriore realtà. In altre parole, l'aspetto per cui la deduzione implica il finalismo e la conoscenza stessa è ideologia, prassi, cioè manifestazione vitale del soggetto e, quindi, realizzazione o oggettivazione delle sue idee, non riesce a trovare posto nel quadro della Critica della ragion pura, con la conseguenza che a Kant rimane interamente precluso il concetto del lavoro e dell'attività produttiva, in quanto non solo adeguazione dell'uomo al mondo ma trasformazione e adeguazione di questo a lui; cioè, rimane precluso l'aspetto per cui l'oggetto non è solo un " in sé " ma è anche oggettivazione del soggetto e per cui, insomma, nel prodotto del lavoro « emerge un risultato — come dice Marx — che era già presente al suo inizio nella idea del lavoratore, che quindi era già presente idealmente » 2S.

Da qui, la separazione dualistica della Critica della ragion pura dalla Pratica, del Mùssen dal Sollen, cioè del mondo del mecca-nicismo naturale, dove l'uomo in fondo è solo un anello della concatenazione causale, e il " regno dei fini ", inteso non solo come sfera esclusivamente morale ma di una morale circoscritta per di più alla mèra " intenzione ". Il tema dell'oggettivazione del soggetto, cioè della realizzazione delle sue idee, dei suoi fini e, quindi, dell'autoproduzione dell'uomo (nel processo lavorativo — dice Marx — l'uomo non effettua « soltanto un cambiamento di forma dell'elemento naturale; egli realizza nell'elemento naturale, allo stesso tempo, il proprio scopo, che egli conosce »), resta fuori dall'orizzonte kantiano (fuori, a ben vedere, anche dall'orizzonte della Critica del giudizio), onde recettività e spontaneità, causalità e finalismo non riescono mai a saldarsi veramente tra

28 K. MARX, Il capitale cit., I, 1, p. 196.

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loro, né a livello delle prime due Critiche né all'interno della stessa Critica della ragion pura.

L'elemento o dato sensibile, quando è effettivamente esistenza extralogica, tende a riproporsi (ecco il grano di verità della critica lukacciana del '23 ) nei modi stessi in cui l'esistenza era presentata nel periodo precritico, ad es. nel Beweisgrund (dove « l'esistenza è la posizione assoluta di una cosa » che « si distingue da ogni predicato » proprio per il fatto che, mentre quest'ultimo « è posto sempre solo relativamente ad un'altra cosa » 29, essa invece si presenta come ir-relativa, assoluta, cioè, al limite, impredicabile, non suscettibile di essere assunta a soggetto del giudizio). La spontaneità soggettiva, viceversa, incapace com'è di dar luogo a un'autoggettivazione reale, tende a contrarsi in quelP " operare ", meramente formale o interno, che è la sintesi delle forme dell'intelletto con le forme della sensibilità: dove tutto ciò che Kant riesce ad afferrare della creatività e produttività umana è nulla più che l'atto dell'..." immaginazione produttiva ".

Il lavoro come mezzo che socializza l'uomo, e il rapporto sociale, a sua volta, come mezzo alla mediazione, tramite il lavoro, dell'uomo con la natura: tutto ciò, come si è detto, resta interamente fuori dell'orizzonte di Kant; così che ciò che alla fine egli ci presenta — in alternativa alla concezione teologica dell'uomo come strumento e mezzo dell'autosvolgimento di Dio nel mondo — è solo una concezione che risulta dalla giustapposizione di antropologia ed etica, cioè dell'uomo come ente naturale finito e dell'uomo come soggetto morale. La prima tratta del posto « che io occupo nel mondo sensibile esterno, ed allarga la connessione, in cui mi trovo, in una grandezza interminabile con mondi su mondi e sistemi di sistemi »: mi dischiude lo spettacolo « di una quantità innumerevole di mondi », dove io compaio come « una creatura animale, che deve restituire nuovamente al pianeta (un semplice punto nell'universo) la materia della quale si formò, dopo essere stata provvista un breve tempo (non si sa come) della forza vitale ». La seconda, invece, « eleva infinitamente il mio valore [...], mediante la mia personalità, in cui la legge morale mi manifesta una vita indipendente dall'animalità e anche dall'intero mondo sensibile, almeno per quanto si può inferire dalla determinazione conforme a fini della mia esistenza mediante que-

28 I. KANT, Scritti precritici, Bari 1953, p. 112.

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sta legge, la quale determinazione non è ristretta alle condizioni e ai limiti di questa vita, ma si estende all'infinito » !0.

L'impianto di fondo è, sicuramente, quello del dualismo cristiano di anima e corpo: ma con la nota in più — non sviluppata nella chiusa della Ragion pratica e che, tuttavia, risuona distinta in tutto il corso della Ragion pura — che quella " creatura animale ", ch'io sono, non è semplice caducità insignificante, ma è, pur come tale e cioè come esistenza destinata a disperdersi e morire, intelligenza: intelligenza « che vede sé, vede e calcola l'Universo stellato » 31 e che, malgrado la sua accidentalità provvisoria, può dire pur sempre: « io esisto come intelligenza che è consapevole della sua potenza unificatrice ».

È il modello forse più significativo che abbia preso forma nel corso dell'umanesimo borghese. L'analisi della natura, il mondo delle scienze fisico-naturali è già costituito come un mondo autonomo, emancipato ormai dalla metafisica, e nel quale l'uomo è incluso in quanto egli stesso è un ente naturale. D'altra parte, poiché questa naturalità dell'uomo non è ancora colta nella sua intrinseca socialità e, quindi, come produttrice di storia, il mondo morale continua ad essere una riserva della metafisica. Cioè, in quanto l'ente naturale " uomo " appare solo come un individuo singolo, il cui rapporto alla specie è una generalità interna, muta e, perciò, aprioristica, il costituirsi dell'uomo in " persona ", cioè in soggetto morale, può essere garantito solo da un'etica spiritualistica. Il mondo naturale è già passato alla scienza, il mondo morale resta ancora alla metafisica (più di questo 1' " umanità " liberale borghese non ha mai prodotto). E poiché, sebbene non sia più semplicemente il " negativo ", la natura resta pur sempre solo una " mezza " realtà, il significato più alto a cui può aspirare l'uomo, in quanto " creatura naturale ", è quello di un " criticismo " temperato, cioè di un " umanesimo dell'intelligenza ".

S'intuisce qui il significato del pensiero di Hegel e del posto che ha, nella sua filosofia, il problema dell'attuazione dell'idealismo, della realizzazione dell'Idea. Seppure ipostatizzando la Ragione, il finalismo, e, quindi, col limite di concepire il processo storico dell'uomo ancora solo nella forma di un " processo divino ", Hegel è il primo che intenda, fino in fondo, come lo svi-

30 I. KANT, Critica della ragion pratica, Bari 1947, pp. 193-94. 31 L. SCARAVELLI, Saggio sulla categoria kantiana della realtà, Fi

renze 1947, pp. 176-78.

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luppo dell'uomo passi attraverso la sua autoggettivazione, e come questo farsi dell'uomo " altro " da sé si compia, essenzialmente, con il lavoro. « L'importante nella Fenomenologia hegeliana » — scrive Marx — è « che Hegel intende l'autoprodursi dell'uomo come un processo, l'oggettivarsi come un opporsi, come alienazione e come soppressione di questa alienazione; che egli dunque coglie l'essenza del lavoro e concepisce l'uomo oggettivo, l'uomo verace perché uomo reale, come risultato del suo proprio lavoro. Il reale, attivo contegno dell'uomo con se stesso come ente generico, o la manifestazione di sé come reale ente generico, cioè ente umano, è possibile solo in quanto esso esplichi realmente le sue energie di genere — il che a sua volta è possibile soltanto per l'agire in comune degli uomini, soltanto come risultato storico — e si contenga verso esse energie come verso qualcosa d'oggettivo, il che anzitutto è ancora possibile soltanto nella forma di un alienarsi ».

L' " unilateralità " e il " limite " di Hegel consistono piuttosto nel fatto che egli « resta al punto di vista dell'economia politica moderna », e che, nell'intendere « il lavoro come l'essenza, l'essenza che si avvera dell'uomo », egli « vede soltanto l'aspetto positivo del lavoro, non quello negativo »; e che, insomma, per lui, « il lavoro è il divenir per sé dell'uomo nelT'alienazione o in quanto uomo alienato », perché « il lavoro che Hegel soltanto conosce e riconosce è il lavoro spirituale astratto » (OFG, 298).

È lo stesso discorso, a ben vedere, sviluppato da Marx nella sua prima Tesi su Feuerbach: « Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi — compreso quello di Feuerbach — è che l'oggetto, il reale, il sensibile [Sinnlichkeit], è concepito solo sotto la forma di oggetto o di intuizione; ma non come attività sensibile umana, come attività pratica, non soggettivamente. È accaduto quindi che il lato attivo [die taetige Sei te] è stato sviluppato dall'idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l'idealismo ignora come tale l'attività reale, sensibile. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l'attività umana stessa come attività oggettiva ».

In Hegel, insomma, dove è afferrato con forza l'aspetto per cui l'oggetto è oggettivazione del soggetto, questo soggetto è solo spirito, autocoscienza, e non un ente naturale finito che abbia oggetti fuori di sé e che sia quindi esso stesso oggetto per altri. Nel materialismo, viceversa, dove la naturalità dell'uomo è ricono-

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sciuta e il pensiero non è più un soggetto a sé, resta preclusa ogni apertura al mondo della storia, perché manca la percezione di come, nel riferirsi con il pensiero agli oggetti sensibili esterni, l'uomo al contempo si oggettivi, cioè esteriorizzi e realizzi le proprie idee, sia nel linguaggio che nella produzione, entrando così in rapporto con gli altri uomini. Nel primo caso, la causalità materiale è elusa o trascesa a vantaggio della teleologia; nel secondo, poiché la causalità non riesce a includere in sé il momento soggettivo della piassi, il finalismo è abbassato a processo illusorio o " apparente ", oppure è giustapposto, dualisticamente, al mondo della natura, senza riuscire mai a mediarsi con esso.

Tipico è, in questo senso, ciò che accade con Feuerbach. Nel suo scritto del 1839, Per la critica della filosofia hegeliana, egli intravvede la connessione di logica e linguaggio. In quanto il pensiero non è un soggetto a sé, ma è funzione dell'ente umano, è inevitabile — egli scrive — che, « nell'atto stesso del pensare, noi esprimiamo i nostri pensieri, ossia parliamo » 32. Il processo logico-deduttivo, la " dimostrazione " è quindi, al contempo, un'esposizione o oggettivazione del mio pensiero all'altro. Infatti, « il significato della dimostrazione — scrive Feuerbach — non può essere inteso senza un riferimento al significato del linguaggio »; e — poiché « il linguaggio non è altro che la realizzazione del genere, la mediazione dell'io col tu al fine di rivelare l'unità del genere, superando la separazione individuale tra l'uno e l'altro » — « la dimostrazione ha la sua ragion d'essere soltanto in quanto venga considerata come attività mediatrice tra il mio pensiero e quello degli altri » s'\ Ogni dimostrazione dunque — egli prosegue — « non è una mediazione del pensiero nel pensiero e per il pensiero, ma è una mediazione ad opera del linguaggio tra il pensiero, in quanto mio pensiero, e il pensiero dell'altro, in quanto pensiero suo» 3 4 . Il che vuol dire che «le varie forme di dimostrazione e di sillogismi non sono quindi in se stesse forme della ragione, e neppure forme di un atto interno del pensiero e della conoscenza », ma « sono soltanto forme della comunicazione, modi di esprimersi, esposizioni e rappresentazioni, in una parola manifestazioni esteriori del pensiero » "s.

Da qui, la critica feuerbachiana dello scambio, operato da He-

32 L. FEUERBACH, Princìpi della filosofia dell'avvenire cit., p. 17. 33 Ivi, pp. 13-14. 34 Ivi, p. 15. 35 Ivi, p. 16.

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gel, di questo " per noi ", ch'è il processo logico-deduttivo, con 1' " in sé e per sé ", cioè col processo reale: Hegel — egli scrive — « ha finito per fare della forma la sostanza, dell'essere del pensiero per gli altri un essere in sé » 3\ E, poiché in lui « l'idea non si costituisce ad opera di qualcosa che è effettivamente altro [...] ma si costituisce per opera di un suo opposto apparente e formale » :,?, ne viene che — avendo sostituito il finalismo alla causalità, lo sviluppo " secondo il concetto " allo sviluppo " secondo natura " — « la filosofia assoluta — dice Feuerbach —-riduce a processi dell'assoluto i processi soggettivi psicologici », così che « in tal modo Hegel ha realmente considerato come verità oggettiva rappresentazioni che esprimono soltanto bisogni soggettivi, per il fatto di non esser risalito alle fonti da cui queste rappresentazioni sono sorte » :l8.

L'importanza che queste enunciazioni di Feuerbach hanno avuto per la formazione del materialismo storico non ha qui bisogno di essere sottolineata. Mentre in Hegel l'unità di pensiero e linguaggio è svolta nel senso che — poiché il " qui " e 1' " ora ", che si pronunciano, sono sempre un universale — il mio rapporto con la cosa si risolve in effetti in un rapporto interno al pensiero; in Feuerbach, al contrario, è il processo logico-deduttivo che viene risolto nella comunicazione intersoggettiva. E, basta aprire l'Ideologia tedesca, per capire che cosa ciò significhi. La coscienza — dice Marx — non è mai " pura " coscienza. « Fin dall'inizio lo ' spirito ' porta in sé la maledizione di essere ' infetto ' dalla materia, che si presenta qui sotto forma di strati d'aria agitati, di suoni, e insomma di linguaggio. Il linguaggio — egli prosegue — è antico quanto la coscienza, il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso »3*. « La realtà immediata del pensiero » — aggiunge Marx più oltre — « è il linguaggio »; il che significa che il vecchio problema della filosofia — quello « di scendere dal mondo dei pensieri nel mondo reale » — « si trasforma nel problema di scendere dal linguaggio nella vita »: giacché « né i pensieri né il linguaggio formano di per sé un proprio regno », — « essi sono soltanto manifestazioni della vita reale » ".

■•><■' Ivi, p. 19. " Ivi, p. 27. •s Ivi, pp. 37-38. 39 K. MARX, Ideologia tedesca cit., p. 27. '•° Ivi, pp. 450-51.

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Dopo il 1839, questi aperqus di Feuerbach, pur restando sempre e solo degli aperqus, riaffiorano con una certa frequenza. L'essenza del cristianesimo contiene proposizioni — e si vorrebbe dire: aforismi — di cui è facile riconoscere l'eco nei Manoscritti economico-filosofici del '44. Il rapporto dell'uomo alla natura è, insieme, rapporto dell'uomo all'altro uomo. « L'oggetto a cui un soggetto è legato da rapporti necessari, essenziali, quest'oggetto è la rivelazione, la manifestazione dell'essere stesso del soggetto. [...]. Perciò è nell'oggetto che l'uomo acquista la coscienza di se stesso: la coscienza dell'oggetto è la coscienza di sé dell'uomo. Dall'oggetto tu conosci l'uomo, in esso ti si rivela la sua natura: l'oggetto è il suo essere manifesto, il suo Io vero e oggettivo. E ciò vale non solo per gli oggetti del pensiero, ma anche per quelli che cadono sotto i sensi. Anche le cose più lontane dall'uomo, per il fatto che, e in quanto sono a lui oggetti, rivelano l'essere umano [...]. La facoltà che egli ha di vederli e il modo in cui li vede, sono una testimonianza della sua natura. » 4I E ancora: « Il primo oggetto dell'uomo è l'uomo ». « L'altro uomo è il legame fra me e il mondo. Io sono e mi sento dipendente dalla natura, perché sono e mi sento dipendente dagli altri uomini. » ,2 Infine, proposizioni analoghe — e forse anche più vicine a quelle formulate da Marx nel '44 — sono contenute nel breve scritto del '41 Ueber den Anfang der Philosophie.

Senonché, detto questo, è anche detto tutto: causalità e finalismo, in Feuerbach, non arrivano mai a coniugarsi veramente tra loro; e « se in lui si trovano talvolta punti di vista di questo genere, non vanno però mai al di là di qualche intuizione isolata e influiscono troppo poco sulla sua visione generale delle cose per poter essere considerati qui altrimenti che germi capaci di sviluppo » 4\

Da una parte, Feuerbach « non giunge mai a concepire il mondo sensibile come l'insieme dell'attività sensibile vivente degli individui che lo formano »; « non vede come il mondo sensibile che lo circonda sia non una cosa data immediatamente dall'eternità, sempre uguale a se stessa, bensì il prodotto dell'industria e delle condizioni sociali »44; non afferra, in altre parole, che l'oggetto è anche oggettivazione dell'uomo, comunicazione intersog-

41 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesimo, Milano 1949, voi. I, pp. 19-20.

42 Ivi, p. 79. '" K. MARX, Ideologia tedesca cit., p. 39. 11 Ivi, pp. 39-41.

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gettiva e, quindi, rapporto sociale (qui, al di là del linguaggio, Feuerbach non va mai: quell'altro " linguaggio della vita reale ", eh'è l'industria e " la produzione materiale ", gli sfugge).

Dall'altra parte, poiché egli « non concepisce gli uomini nella loro connessione sociale» ma «resta fermo all'astrazione 'l'uomo'», il rapporto interumano gli risulta fine a se stesso, gli appare cioè come un rapporto etico (« non conosce altri ' rapporti umani ' ' dell'uomo con l'uomo ' — scrive Marx — se non l'amore e l'amicizia, e per di più idealizzati »), anziché risultargli finalizzato, a sua volta, alla lavorazione e trasformazione del mondo oggettivo. Così che — conclude Marx giustamente — « fin tanto che Feuerbach è materialista, per lui la storia non appare, e fin tanto che prende in considerazione la storia, non è un materialista. Materialismo e storia per lui sono del tutto divergenti » 1".

Fermiamo il discorso qui. Il nostro intento è di arrivare a spiegare il concetto di " rapporti sociali di produzione ", — un concetto che i marxisti hanno dato sempre per pacifico e che, in realtà, è il più arduo di tutti. Già enunciato nell'Ideologia tedesca, questo concetto ha la sua formulazione più limpida ed essenziale nello scritto (ancora giovanile) di Marx su Lavoro salariato e capitale, « Nella produzione gli uomini non agiscono soltanto sulla natura, ma anche gli uni sugli altri. Essi producono soltanto in quanto collaborano in un determinato modo e scambiano reciprocamente le proprie attività. Per produrre, essi entrano gli uni con gli altri in determinati legami e rapporti, e la loro azione sulla natura [ihre Einwirkung auf die Natur~\, la produzione, ha luogo soltanto nel quadro di questi legami e rapporti sociali. »"

Una parafrasi di questo concetto ci rida alcune delle formule in-contrate poc'anzi, a) Il rapporto dell'uomo con la natura è, al tempo stesso, rapporto dell'uomo con l'uomo; cioè la produzione è comunicazione intersoggettiva, rapporto sociale, b) Il rapporto, d'altra parte, dell'uomo con l'altro uomo s'instaura al fine di produrre, cioè in vista e in funzione dell'azione dell'uomo sulla natura. Formulato più brevemente, il concetto significa queste due cose. La prima, che, per riferirmi all'oggetto, devo riferirmi all'altro uomo, perché l'oggetto stesso è, in realtà, un'oggettivazione umana (« il mondo sensibile », si ricordi, « non è una cosa data immediatamente dall'eternità, bensì è il prodotto del-

15 Ivi, pp. 41-42. "'' K. MARX, Lavoro salariato e capitale cit., p. 48.

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l'industria e delle condizioni sociali; e precisamente nel senso che è un prodotto storico, il risultato dell'attività di tutta una serie di generazioni »); ciò che significa, a sua volta, che il rapporto della specie " uomo " con le altre specie è, in realtà, un rapporto interno alla sua propria specie: cioè che il rapporto generico (o di più specie) è, in effetti, un rapporto specifico umano. La seconda, che, per riferirmi all'altro uomo, devo riferirmi all'og-getto naturale stesso, considerato proprio nella sua alterità o eterogeneità di specie, perché l'essere dell'uomo è la natura (« un ente » — si ricordi — « che non abbia fuori di sé la sua natura, non è — scrive Marx — un ente naturale »), ovvero perché l'uomo non ha un essere suo proprio ma ha come proprio essere quello degli altri: onde il riferimento specifico (dell'uomo all'uomo) implica il rapporto generico dell'uomo con gli altri enti naturali diversi da lui.

Il lettore, che abbia qualche familiarità con gli scritti di Marx, sa che le proposizioni, che abbiamo or ora sviluppato, son quelle stesse che stanno al centro dei Manoscritti economico-filosofici; e che questi, appunto, sono i concetti che fanno di questo testo l'opera di gran lunga più tormentosa e oscura tra quelle di Marx. Il lavoro vi è definito tfwto-produzione dell'uomo, non solo nel senso per cui il prodotto del lavoro è un'oggettivazione del lavoratore (e, quindi, il risultato di un'opera di trasformazione con cui la natura è stata adattata e conformata ai nostri bisogni e ai nostri scopi); ma anche per l'aspetto, viceversa, per cui, nel lavoro, l'uomo si adegua alla natura, e l'idea è il mezzo che gli consente di rispettare la specificità dei materiali ch'egli lavora, di trattare cioè l'oggetto del lavoro per ciò che esso propriamente è. In entrambi i casi, il lavoro è autoproduzione dell'uomo (sia quando è " creatività ", sia quando è " adeguazione "), proprio per la ragione che si è detta poc'anzi. Nel primo caso, perché il riferimento dell'uomo all'alterità oggettiva è, in effetti, manife-stazione (tramite l'oggettività) dell'uomo all'altro uomo. Nel secondo, perché il riferimento dell'uomo all'altro uomo e, quindi, alla sua propria specie o a sé, implica — essendo l'uomo un essere che ha la "sua " natura " fuori di sé " — che, per riferirsi a sé, egli debba riferirsi ad altro ente che non sia l'umano.

Tutto il materialismo storico — a ben vedere — è in nuce qui. L'impossibilità di separare " economia " e " società ", " natura " e " storia ", " produzione " e " rapporti sociali ", produzione " materiale " e produzione " di idee ", ha la sua radice qui,

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o non si saprebbe dove. « L'identità di natura e uomo — scrive Marx — emerge anche in ciò, che il comportamento limitato degli uomini verso la natura condiziona il comportamento limitato fra uomini e uomini, e il comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti limitati con la natura. »47 Viceversa, come l'espansione del primo rapporto è anche quella del secondo, così l'espansione del secondo è anche quella del primo. Da ciò la conseguenza, che « un modo di produzione o uno stadio industriale determinato è sempre unito con un modo di cooperazione o uno stadio sociale determinato » e viceversa: tant'è vero che « questo modo di cooperazione è anch'esso una ' forza produttiva ' » t8.

Il materialismo storico e la " logica " stessa del Capitale hanno le loro radici qui. Poiché l'uomo, producendo, produce sé, sia in quanto produce il suo rapporto con l'altro uomo, cioè con la sua propria specie, sia in quanto produce il suo rapporto con l'oggettività naturale e, quindi, coi mezzi e i materiali del suo lavoro, si capisce non solo la correlazione che esiste tra tutte le categorie del Capitale ma anche la " ciclicità " o principio di automovimento che presiede al processo dell'accumulazione capitalistica. « Il processo di produzione capitalistico, — scrive Marx — considerato nel suo nesso complessivo, cioè considerato come processo di riproduzione, non produce dunque solo merce, non produce dunque solo plusvalore, ma produce e riproduce il rapporto capitalìstico stesso: da una parte il capitalista, dall'altra l'operaio salariato. » "

E, appunto questo, è il contenuto che Marx ha per la prima volta elaborato e scoperto nei Manoscritti. Il manoscritto sul " lavoro alienato " — che è il vero rebus di tutta quest'opera — svolge la circolarità e interdipendenza dei seguenti rapporti: a) che « il rapporto dell'operaio col prodotto del lavoro come oggetto estraneo e avente un dominio su di lui » è, contemporaneamente, « il rapporto dell'operaio con la sua propria attività come estranea » (OFG, 229); b) che, «poiché il lavoro alienato 1) aliena all'uomo la natura, e 2) aliena all'uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all'uomo il genere » (230); e e) che questo " genere ", cioè la " specifica essenza

" K. MARX, Ideologia tedesca cit., p. 27. "s Ivi, p. 26. ''" K. MARX, II capitale cit., I, 3, p. 22.

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dell'uomo ", è, tanto la natura esterna (" il suo proprio corpo, come la natura di fuori"), quanto l'altro uomo: perché — dice Marx — « ciò che vale del rapporto dell'uomo al suo lavoro, al prodotto del suo lavoro e a se stesso, ciò vale del rapporto dell'uomo all'altro uomo, e al lavoro e all'oggetto del lavoro dell'altro uomo » (OFG, 232); onde — conclude — « attraverso il lavoro alienato l'uomo non istituisce, dunque, soltanto il suo rapporto con l'oggetto e con l'atto della produzione come con un uomo estraneo e nemico, ma istituisce anche il rapporto in cui altri uomini stanno con la sua produzione e il suo prodotto, ed il rapporto in cui egli sta con questi altri uomini » (OFG, 234).

Tentiamo di riprendere un discorso più lineare. In termini positivi, e cioè a prescindere dall'alienazione, l'intreccio di rapporti, cui ora abbiamo accennato, è già presente nel concetto stesso di lavoro. Il lavoro è, insieme, causalità e finalismo, causalità materiale e causalità ideale: è (invertendo l'ordine) azione dell'uomo sulla natura e, al tempo stesso, azione della natura sull'uomo. Da ciò, un duplice aspetto del prodotto del lavoro (e, in genere, dell'oggettività), sul quale giova ancora insistere un poco, a) Il prodotto del lavoro è l'oggettivazione delle mie idee, cioè dei miei bisogni e dei miei scopi consapevoli; b) è « semplice cambiamento delle forme dei materiali », dove « il procedimento dell'uomo nella sua produzione — dice Marx — può essere soltanto quello stesso della natura » 50, cioè trattamento dell'oggetto secondo la specificità che gli è propria e, quindi, nel rispetto e nell'adeguazione alla sua propria natura (si comanda alla natura — diceva Bacone — solo ubbidendole). In relazione a questo duplice carattere dell'oggettività, è duplice anche la funzione del-Yidea. Essa, infatti, è sia finalità soggettiva, che l'uomo persegue, e, quindi, prassi o ideologia; sia funzione di verità, cioè mezzo per riconoscere e trattare l'oggetto secondo la misura che gli è propria e, quindi, mezzo per uscire dall'antropomorfismo e dare dimensione oggettiva alla pratica umana. (Il marxismo — si abbia ben chiaro questo punto — non è né pragmatismo né Wissens-soziologie: esso, che è la prima teoria del " pensiero in situazione ", è anche una teoria del pensiero-verità.)

Questo discorso, che è presente in Marx sotto varie forme, è sviluppato, nel secondo paragrafo dell'Introduzione del 1857, anche sotto la forma del rapporto produzione-consumo, a) Il con-

50 Ivi, I, 1, p. 55.

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sumo crea la produzione. Esso la crea, « in quanto il consumo crea il bisogno di una nuova produzione e quindi quel motivo ideale che è lo stimolo interno della produzione e il suo presupposto. Il consumo crea lo stimolo della produzione; esso crea anche l'oggetto [ideale o interno] che agisce nella produzione determinandone lo scopo. Se è chiaro che la produzione offre esteriormente l'oggetto del consumo, è perciò altrettanto chiaro che il consumo pone idealmente l'oggetto della produzione, come immagine interiore, come bisogno, come impulso e come scopo. Esso crea gli oggetti della produzione in una forma ancora soggettiva. Senza bisogno non vi è produzione. Ma il consumo riproduce il bisogno ». b) « A ciò corrisponde da parte della produzione che essa: 1) fornisce al consumo il materiale, l'oggetto. Un consumo senza oggetto non è un consumo; per questo verso, quindi, la produzione crea, produce il consumo. 2) Ma non è soltanto l'oggetto che la produzione crea al consumo. Essa dà anche al consumo la sua determinatezza, il suo carattere, il suo finish [...]. Innanzitutto, l'oggetto non è un oggetto in generale, ma un oggetto determinato, che deve essere consumato in un modo determinato, in un modo ancora una volta mediato dalla produzione stessa. La fame è la fame, ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti. La produzione non produce perciò solo l'oggetto del consumo ma anche il modo di consumo, non solo oggettivamente ma anche soggettivamente. La produzione crea quindi il consumatore. 3) La produzione fornisce non solo un materiale al bisogno, ma anche un bisogno al materiale. » Il consumo, infatti, « esso stesso come impulso [ideale o interno] è mediato dall'oggetto, e il bisogno di quest'ultimo ch'esso prova è creato dalla percezione dell'oggetto. L'oggetto artistico — e allo stesso modo qualsiasi altro prodotto — crea un pubblico sensibile all'arte e capace di godimento estetico. La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l'oggetto ».

Da una parte, quindi, l'oggetto è l'idea stessa oggettivata: ciò che il consumo " pone idealmente ", la produzione pone in re. Dall'altra, questo " stimolo ideale interno " è mediato dall'oggetto prima consumato: cioè l'idea è determinata dalla percezione dell'oggetto. In conclusione e di nuovo: finalismo e causalità.

Ancora un'altra variazione sul tema, prima di afferrare il toro per le corna. « Come la musica stimola soltanto il senso musicale

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dell'uomo, e per l'orecchio non musicale la più bella musica non ha alcun senso, non è un oggetto, in quanto il mio oggetto può esser soltanto la conferma di una mia forza essenziale, e dunque può essere per me solo com'è la mia forza essenziale quale facoltà soggettiva per sé, andando il significato di un oggetto per me (oggetto avente significato soltanto per un senso corrispondente) tanto lontano quanto va il mio senso; così i sensi dell'uomo sociale sono altri da quelli dell'uomo asociale » (OFG, 263). In altre parole, la natura sensibile oggettiva è, in realtà, la mia sensibilità soggettiva stessa. Esse est percipi. Non vi è coscienza dell'oggetto che non sia autocoscienza. Ciò che vedo del mondo è ciò che le mie idee stesse mi predispongono a vedere. Il mio rapporto con la natura è condizionato dal grado dello sviluppo storico-sociale. « Un comportamento limitato fra uomini e uomini condiziona i loro rapporti limitati con la natura » (ecco il punto da cui muovere per la storicizzazione delle stesse scienze della natura).

D'altro lato, se, « nella società, la realtà oggettiva diventa per l'uomo realtà delle forze essenziali dell'uomo, realtà umana, e perciò realtà delle sue proprie forze essenziali », e se « tutti gli oggetti gli diventano la oggettivazione di lui stesso, oggetti che affermano e realizzano la sua individualità, oggetti suoi, e cioè egli stesso diventa oggetto », come questi oggetti « diventino suoi, ciò dipende dalla natura dell'oggetto » (OFG, 263): giacché — spiega Marx — « se l'uomo reale, corporeo » pone oggetti, « questo porre non è Soggetto: è la soggettività di oggettive forze sostanziali, la cui azione perciò dev'essere anche un'azione oggettiva »; il che significa, che l'uomo « crea, pone soltanto oggetti, perché è posto da oggetti, perché è intrinsecamente natura »; e, insomma, che, « nell'atto di porre qualcosa, non esce dalla sua ' attività pura ' per una creazione dell'oggetto, bensì il suo prodotto oggettivo attesta semplicemente la sua attività oggettiva, la sua attività in quanto attività di un oggettivo ente naturale » (OFG, 301).

Il lettore, che abbia gusto per il ragionamento, capisce che i lineamenti essenziali del materialismo storico sono già in nuce qui, cioè sotto la coltre di questo linguaggio incredibile. Gli svolgimenti dell'analisi — s'intende —, cioè la sua articolazione capillare, sono da cercare nel Capitale. Tuttavia, il ruolo essenziale dei Manoscritti (questo scoglio su cui è andata in secca una generazione di " marxisti " esistenziali francesi) è che, proprio in

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essi, è sciolto il nodo che dà significato al concetto di " rapporti sociali di produzione ", — questa vera summa della rivoluzione teorica prodotta da Marx. « La storia dell''industria » — egli scrive — è « l'aperto libro delle forze essenziali umane, la psicologia umana sensibilmente presente, che finora non fu vista nella sua connessione con l'essenza dell'uomo,, ma sempre solo in un esteriore rapporto di utilità perché — muovendocisi entro l'alienazione —> si seppe vedere come realtà delle forze essenziali umane e atti dell'uomo come ente generico soltanto l'esistenza generale dell'uomo, la religione, o la storia nella sua essenza generale-astratta, come politica, arte, letteratura, etc. » (OFG, 264-265). D'altra parte, questa psicologia, cioè il mondo di programmi e di idee, che è dietro all'industria, è quanto di meno soggettivo e antropomorfico si conosca, proprio perché il sapere che sorregge quella pratica non è metafisica, cioè sogni di visionari, ma scienza, vale a dire riconoscimento del mondo oggettivo. « Anche l'animale — scrive Marx — produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche etc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l'uomo produce universalmente; produce solo sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l'uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L'animale produce solo se stesso, mentre l'uomo riproduce l'intera natura; il prodotto dell'animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l'uomo confronta libero il suo prodotto. L'animale forma cose solo secondo la misura e il bisogno della specie cui appartiene; mentre l'uomo sa produrre secondo la misura di ogni specie e dappertutto sa conferire all'oggetto la misura inerente» (OFG, 231).

Stringiamo i tempi e veniamo al dunque. Il materialismo storico fa capo al concetto di " rapporti sociali di produzione ". Questo concetto, a sua volta, ha la sua prima e decisiva elaborazione, nei Manoscritti del '44, nella forma del concetto dell'uomo come " ente naturale generico ". Il passo che ora ci resta da compiere è appunto quello di tentare l'analisi di questo concetto.

Che l'uomo sia un ente naturale generico {generico — si badi — e non specifico) significa essenzialmente due cose. La prima, che l'uomo è appunto un " ente naturale ", cioè che egli è (o fa) parte della natura, quindi che è un ente oggettivo tra gli altri enti naturali oggettivi dai quali dipende ed è condizio-

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nato; in breve, che egli ha la sua ragion d'essere (causa essendi) fuori di sé: « un ente — dice Marx — che non abbia fuori di sé la sua natura, non è un ente naturale ». La seconda, che l'uomo è un ente pensante, cioè che quel che lo differenzia da tutti gli altri enti naturali e costituisce il suo tratto specifico, non è una cosa, cioè una specie naturale essa stessa, ma è il pensiero, cioè l'universale, il generale-comune di tutte le cose, onde la specificità dell'uomo è non quella di essere una specie ma il genere di tutti i generi etnpirici, cioè l'unità o totalità comprensiva di tutte le specie naturali.

Questa impostazione, di straordinaria importanza, che Marx dà al problema dell'uomo come " ente naturale generico ", fa del suo pensiero il punto di incontro e di risoluzione di due correnti, profonde e antitetiche, della tradizione storico-culturale: e cioè quella del determinismo materialistico, dove l'uomo come " ente naturale " appare un semplice anello della concatenazione causale oggettiva, e quella — sulla quale ora dovremo fermarci brevemente — della tradizione dell'umanesimo spiritualistico rinascimentale.

Il concetto, infatti, che la specificità dell'uomo è di essere ge-nerico, cioè non specie naturale ma genere di tutti i generi empirici, non è un'escogitazione di Marx (nella storia nulla si crea dal nulla e, tantomeno, le rivoluzioni), ma è un tema di lontana e complessa elaborazione, maturato nel seno di una tradizione a prima vista assolutamente estranea al marxismo, e senza la quale, tuttavia, non sarebbe mai giunta in porto la stessa concezione materialistica della storia.

Gli scritti, cui ora si tratta di accennare brevemente (e — com'è facile intendere — solo nei limiti e sotto la visuale particolare del problema posto nel nostro discorso), sono il De hominis Dignitate di Pico (il primo testo, come ha scritto Garin, che ci dia « l'immagine consapevole dell'uomo caratteristica del mondo moderno » 51) e il De Sapiente di Bovillus, « forse la creazione più strana e, per certi aspetti, più caratteristica — come ha scritto Cassirer — della filosofia della rinascenza »M.

Il tema, che subito ci viene incontro da entrambi gli scritti, è

51 E. GARIN, Giovanni Pico della Mirandola (Conferenza tenuta a Mi randola il 24 febbraio 1963 in ricorrenza del quinto centenario della na scita di Giovanni Pico), Parma 1963, p. 55.

52 E. CASSIRER, Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento, Firenze 1935, p. 143

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quello appunto della genericità dell'uomo, cioè della sua non-specificità. L'uomo, che è un nulla di realtà in quanto non è specie, può tuttavia incentrare in sé l'universo, in quanto è pensiero. « L'uomo non è nessuna delle cose », dice Bovillus. « La natura dell'uomo è la natura medesima dello specchio. La natura dello specchio consiste nell'essere fuori di tutto, contrapposto a tutto, nel non racchiudere niente, nessuna immagine naturale. [...] Il luogo proprio dello specchio e dell'uomo è perciò nell'opposizione, estremità, distanza e negazione di tutte le cose, là dove niente è, dove nulla è in atto » ". L'uomo, pertanto, è un Nulla, « nell'uomo è nulla la sostanza » 54.

Questo tema della " nullità ", cioè della non-sostanzialità o immaterialità dell'uomo, in quanto egli è pensiero, viene espresso da Pico (e, poi, ripreso da Bovillus) nei termini assai, significativi di un mito, che qui conviene ricordare. Giunto al termine della creazione, summus Pater architectus Deus concepì il desiderio di formare un essere che fosse in grado di conoscere la ragione dell'opera sua e di amarla per la sua bellezza. Ma tra gli archetipi non ve n'era nessuno sul cui modello la nuova prole potesse venir creata, né v'era nel tesoro alcunché che potesse venir dato in dote al nuovo figlio, né v'era più alcun luogo disponibile in tutto l'orbe che potesse esser assegnato al contemplatore dell'universo. Tutto era già occupato, poiché erano stati assegnati i loro posti, sia agli esseri dell'ordine superiore, sia a quelli del medio, sia a quelli dell'inferiore. Allora l'Autore supremo deliberò, che a colui, al quale egli non poteva assegnare niente in proprio {cui ilari nihil proprium poterai), fosse comune tutto ciò che alle singole creature era stato dato in particolare {commune esset quicquid pri-vatum singulis fuerat). Prese dunque l'uomo, quest'opera di tipo indefinito {indiscretae opus imaginis), e, postolo nel mezzo del-l'universo, così gli parlò: « A te, o Adamo, non assegnammo né un luogo determinato, né un aspetto particolare, né un tuo patrimonio esclusivo, affinché tu possa darti ed avere quel luogo, quell'aspetto, quel patrimonio che sceglierai, secondo il tuo desiderio e la tua volontà. La natura determinata degli altri esseri è costretta entro leggi da noi stabilite. Tu, non costretto invece da nessun limite, ti precostituirai la natura che vorrai, secondo la libertà nel cui potere ti ho posto. Ti posi al centro del mondo, perché

53 C. BOVILLUS (Charles de Bouelles), II sapiente, a cura di E. Garin, Torino 1943, pp. 92-93.

54 Ivi, p. 75.

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tu potessi, da qui, più facilmente osservare intorno a te tutto ciò che vi è in esso. Non ti creammo né celeste né terreno, né mortale né immortale, affinché tu, quasi artefice od effigiatore libero ed indipendente di te stesso, ti possa dare quella forma che tu ti sarai scelta (in quam malueris, tu te formarti effingas). Potrai degradarti a bestia o rigenerarti secondo la natura divina ». Gli animali nascono portando con sé dal seno della madre tutto ciò che debbono avere; gli spiriti superiori, o fin dall'inizio o poco dopo, son quello che rimarranno per tutta l'eternità. All'uomo invece il Padre, nel nascere, dette i semi e tutti i germi d'ogni genere di vita (omnifaria semina et omnigenae vitae germina indidit). Quelli, ch'egli coltiverà, si svilupperanno e daranno frutto in lui. Se vegetali, diventerà pianta; se sensuali, bruto; se razionali, uscirà fuori l'essere celeste; se intellettuali, sarà angelo e figlio di Dio 55.

I motivi storico-culturali, che convergono in quest'orazione di Pico e da essa si espandono sul pensiero rinascimentale, sono straordinariamente ricchi e complessi. Cassirer vi addita « una delle concezioni fondamentali del platonismo fiorentino », — una concezione, com'egli rileva, che non potè mai venire completamente sopraffatta e vinta dall'impulso verso la " trascendenza " e verso l'ascesi, che, nondimeno, « andò ivi acquistando, via via, sempre maggior terreno ». In questo senso, egli nota anche che, « per quanto il Ficino e il Pico, per tutto il resto, stiano sotto l'influenza dei motivi neoplatonici, tuttavia riappare sempre in loro il concetto genuinamente platonico del ' chorismos ' e della ' methexis ' »!6. Ed è inutile aggiungere — per chi conosca l'impianto di Individuo e Cosmo di Cassirer — il peso e il rilievo che è riservato nel suo discorso al pensiero di Cusano, in particolare — a questo riguardo — al De conjecturis.

Quale sia, del resto, la complessità dei motivi che qui concorrono, e quale e quanto, però, l'equilibrio storiografico da tenere verso di loro, è stato mostrato, ancora di recente, dal ricco disegno storico, tracciato da Garin, de Le interpretazioni del pensiero di Giovanni Pico (« La connessione del pensiero pichiano con l'ambiente ficiniano, innegabile anche se con notevoli diffe-

55 II nostro testo è una libera parafrasi di quello di Pico. Il testo cri tico originale, con traduzione a fronte, può leggersi in G. Pico DELLA MI RANDOLA, De Hominis Dignitate, Heptaplus, De ente et uno, a cura di E. Garin, Firenze 1942, pp. 104-107.

56 E. CASSIRER, Individuo e cosmo... cit., p. 140.

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renze di atteggiamento; la riduzione a un troppo generico platonismo di opere e pensatori tanto diversi tra loro; la collocazione sotto il segno del ritorno platonico di ogni rinnovamento del pensiero fra Quattrocento e Cinquecento: tutto questo — scrive Garin — ha favorito fino a noi un notevole filone interpretativo dell'opera pichiana, situata spesso pressoché senza residui nell'ambito dei platonici italiani, anzi della cosidetta ' accademia platonica ' di Firenze », per non parlare di quelP« altro esempio di queste visioni riduttive » che « è offerto dal Pico cabalista ») ".

Senonché, rientrando nei limiti in cui deve tenersi il nostro discorso, non è difficile rilevare quei temi fondamentali dello scritto di Pico, che più direttamente ci concernono. Il tema dell'uomo come « creatura comune » 58, che riunisce in sé tutte le determinazioni naturali; o quello dello spirito umano, che, avendo omnìfaria natura, è « l'attualità che in sé risolve e riunisce gli aspetti infiniti del reale, nella sua infinitezza tutti accogliendoli » 59; o, ancora, il tema per cui l'uomo è « delineato, non come ente fra gli enti, ma come oculus mundi, divino e creatore, vincolo e nodo dell'universo » "": tutti questi motivi ci rimandano distintamente al tema, già sottolineato più volte, dell'uomo come genere di tutti i generi empirici, cioè come quell'ente che, in quanto è provvisto di pensiero, è l'universale, il generale-comune di tutte le cose.

Lo stesso può dirsi per il De Sapiente di Bovillus, discepolo del Faber Stapulensis e « che colse l'ispirazione più profonda del Pico, la sistemò, la collegò e la fuse coi motivi centrali a lui familiari del pensiero cusaniano ». Anche in quest'opera, il tema di fondo è analogo a quello del De hominis Dignitate. Qui, scrive ancora Garin, « l'uomo è centro del mondo perché in lui il mondo prende coscienza di sé, da oggetto diviene soggetto, da essere conoscenza. L'uomo nella sua immediatezza è cosa, natura. È ente fra enti. Ma Dio — ripete il Bovillo col Pico — non ha dato all'uomo una natura; l'uomo non è; il suo essere è frutto del suo farsi. L'uomo sarà pietra, pianta, animale, angelo o Dio, se-

57 Cfr. Atti del Convegno Internazionale su L'opera e il pensiero di' G. Pico della Mirandola nella storia dell'umanesimo, Firenze 1965, voi. I, PP- 9 sgg.

58 E. GARIN, Giovanni Pico della Mirandola (Vita e Dottrina), Fi renze 1937, p. 197.

59 E. GARIN, op. cit., p. 198. •° Ivi, p. 200.

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condo l'opera sua. E quest'opera per Bovillo è conoscenza; la dignità umana è esser coscienza del mondo, farsi spettacolo del mondo » 61.

In quanto l'uomo, dunque, è pensiero, egli è tutto e niente insieme: tutto, in quanto è il generale-comune di tutte le cose, di tutte le specie naturali esistenti; niente, in quanto questa generalità, che è l'universale o pensiero, è nessuna delle specie particolari in essa riassunte. « Niente — scrive Bovillus — è proprio e peculiare dell'uomo, ma a lui sono comuni tutte quelle cose che sono proprie degli altri »: « egli realizza in sé la natura di tutto ». « L'uomo non è questo o quest'altro essere determinato, né la sua natura è questa o quella, ma è contemporaneamente tutte le cose: concorso e sintesi razionale di tutto. » "" In breve, l'uomo è la Ragione stessa: quella ragione che, come abbiamo visto, è sia " tanto questo quanto quello ", sia " né questo né quello ". È, in altre parole, il vuoto di sostanza e, insieme, il ricettacolo di tutto: giacché — si ricordi Hegel —> « Io è questo vuoto,, il ricettacolo per tutto e per ogni cosa [das Receptakulum fiir Alles und Jedes], ciò per il quale tutto è, e che tutto conserva in sé ». L'uomo insomma — afferma Pico — è un Proteo, un " camaleonte ".

D'altra parte, in quanto il generale-comune, se non si identifica con alcuna specie particolare, esprime tuttavia qualcosa che è presente in tutte, « in ogni sostanza del mondo — dice Bovillus — c'è qualcosa di umano, in ogni sostanza è nascosto qualche atomo umano, proprio dell'uomo » 63, così che può dirsi che « il mondo è come il corpo dell'uomo », mentre « l'uomo è l'anima del mondo » 64.

Due temi qui emergono con grande risalto. In primo luogo quello prometeico, prima anticipazione dello Streben faustiano (il mito di Prometeo — osserva Cassirer — « s'incontra con quello cristiano di Adamo, sia per fondersi con questo, sia per oppor-glisi e per fargli subire, grazie a questa antitesi, un'intima trasformazione » 65). Si tratta, in altre parole, del tema per cui l'essere dell'uomo nasce dal suo farsi: « l'uomo non è nulla — scrive Garin —, ma si fa tutto, in quanto, nella sua infinita potenza,

61 Cfr. l'introduzione di Garin a C. BOVILLUS, Il sapiente cit., pp. x e XII. "2 G. BOVILLUS, Il sapiente eit., p. 88. •s Ivi, p. 89. <" Ivi, p. 82. " E. CASSIRER, Individuo e cosmo... cit, p. 149.

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attua volta a volta tutte le realtà. L'uomo è tutto, in quanto sa tutto; mentre in ogni ente ' operavi sequitur esse ', nell'uomo ' esse sequitur operavi '; l'uomo è realmente un grande miracolo perché, oltre le barriere del mondo naturale, è attività che sempre si crea, in cui l'essere è un prodotto del suo farsi » "\

In secondo luogo, l'altro tema che emerge è quello dell'uomo come punto nel quale l'Universo giunge alla coscienza di sé. L'uomo, scrive Bovillus, è l'universo « trasparente a se stesso »; e « non » — si badi — « perché tutto ha nozione di tutto, ma perché — egli spiega — una parte dell'universo ha ragione, concetto e scienza di tutta se stessa » ".

È noto quale sia, a questo riguardo, il forte argomento avanzato da Cassirer. In relazione soprattutto al De Sapiente, Cassirer osserva che i pensieri, che qui s'intrecciano, « hanno un contenuto così puramente speculativo ed un'impronta così particolarmente nuova, che ci richiamano immediatamente ai grandi sistemi dell'idealismo filosofico moderno, a Leibniz e a Hegel » 6S. « Bovillus » — aggiunge egli poco oltre — « anticipa propriamente la formula hegeliana, secondo la quale senso e scopo del processo evolutivo dello spirito consistono in questo: che la ' sostanza ' diventa ' soggetto '. La ragione dell'uomo è la forza, mediante la quale ' madre natura ' torna in se stessa, compie la sua evoluzione e viene ricondotta a sé » 69.

Alla luce ora di questi due grandi temi emersi dai testi di Pico e di Bovillus, possiamo tentare di concludere il nostro excursus e di riprendere il filo del discorso che deve ricondurci a Marx. Il primo elemento che s'impone chiaramente è quello che, nell'uomo, esse sequitur operari. In quanto ragione, l'uomo è tutto e niente: egli può concretizzarsi in una serie infinite di forme. Il suo essere è divenire. Il motivo del carattere " proteiforme " dell'uomo, del suo " lato attivo ", della taetige Seite, qui ci viene incontro con tutta la forza espressiva del mito. L'universo è il teatro delle attuazioni dell'uomo. A questa dimensione, il materialismo naturalistico non è mai riuscito ad aprirsi. L'unica forma in cui esso ha potuto rappresentarsi il movimento, l'agire storico, è la forma immobile àeWanacyclosis.

D'altro lato, questo carattere diveniente dell'uomo è appog-

66 E. GARIN, G. Pico della Mirandola cit., pp. 201-202. " C. BOVILLUS, op. cit., p. 82. " E. CASSIRER, op. cit., p. 143. 88 Ivi, p. 144.

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giato, sia in Pico che in Bovillus, al concetto dell'uomo come Nulla; idea che non sta a significare — com'è ovvio — una concezione spregiativa dell' " umano " o spirituale, ma, al contrario, una concezione negativa della materia o sensibile. L'uomo, infatti, " non è ", proprio perché non è cosa, cioè essere naturale oggettivo: in breve, perché è Unding. Il che vuol dire — ed è questo il secondo elemento che ora s'impone all'esame — che l'altra caratteristica di questa concezione è che l'uomo vi è delineato (come, del resto, si è già detto) " non come ente fra gli enti " ma solo come oculus mundi o specchialità spirituale; e, insomma, che, nel mentre dell'uomo si coglie l'aspetto per cui egli è il genere di tutti i generi empirici, se ne attenua (e, anzi, se ne perde del tutto) l'altro per cui esso è pur sempre un ente naturale.

In altre parole, e per adoperare una formula un po' secca, l'evidenza che vien data al fatto che la specificità dell'uomo è di essere generico, oscura la reciproca: e, cioè, che questa genericità è pur sempre il tratto specifico di un ente oggettivo, attributo e non soggetto essa stessa, e, quindi, che se essa è il tratto che differenzia l'uomo da1 tutti gli altri enti naturali, questa differenza non ne abolisce tuttavia la naturalità ma si radica anzi in essa.

La prova di ciò è nello sviluppo che Pico e Bovillus danno al tema dell'uomo come sede e luogo in cui l'Universo perviene alla coscienza di sé. E, infatti, qui il motivo, l'idea, non è che l'uomo conosce e produce sé conoscendo e producendo le altre cose, cioè riproducendo (sia teoricamente, sia praticamente) l'alterità naturale e, quindi, conferendo a ogni oggetto la misura che gli è propria; bensì il motivo è quello opposto, che la conoscenza di tutta la natura da parte dell'uomo coincide — come Pico afferma chiaramente — col yvcòftì oeavtóv, perché chi « conosce se stesso, in sé tutto conosce » 7°; ovvero — come acutamente rileva Garin a proposito di Bovillus — che il sapiente è " pubblica creatura " proprio quando si china " a spiare i moti del suo animo ", che egli tanto più è pubblico, cioè versato all'esterno, " quanto più si concentra in se stesso " ".

« Possiamo anche definire la Ragione — scrive Bovillus — come quella forza per cui la natura torna a se stessa, per cui si

70 G. Pico DELLA MIRANDOLA, op. cit., pp. 124-25. 71 Cfr. l'introduzione di Garin a C. BOVILLUS, op. cit., p. xm.

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compie il circolo di tutta la natura, per cui la natura è restituita a sé » 72. Ma, poiché « in ogni sostanza del mondo c'è qualcosa d'umano, in ogni sostanza è nascosto qualche atomo umano, proprio dell'uomo » e, appunto, « questa particella l'uomo è nato a rivendicare a sé » ™, il viaggio con cui, attraverso l'uomo, la natura ritorna a sé, viene a coincidere con un rapporto della Ragione con se stessa: e, precisamente, con il rapporto della Ragione " in sé " (o com'era immersa nel mondo) con la Ragione <l in sé e per sé ", cioè con una mediazione interna alla coscienza. In altre parole, la Sostanza che si fa Soggetto è il Soggetto stesso che — " postosi " prima come natura — ora torna a sé: è — come dice Bovillus — il passaggio dall' " uomo sostanziale " all' " uomo razionale " '*; e appunto in modo tale, che quello che doveva essere un rapporto dell'uomo con la natura si risolve (secondo un'effettiva prefigurazione di quanto accadrà con Hegel, — con Hegel conoscitore profondo di Cusano) in un semplice rapporto del pensiero con sé: sulla linea della considerazione cu-saniana 7'' che « non activae creationis humanitatis alius extat finis quam humanitas. Non enim pergit extra se dum creai neque quic-quam novi efficit, sed cuncta quae expUcando creat, in se ipsa fuisse comperit ».

In breve, la genericità dell'uomo (vale a dire, il suo essere pensiero, ragione) non è svolta nel senso che la coscienza è un attributo specifico dell'uomo, cioè funzione sia del suo rapporto con l'alterità naturale sia con gli altri uomini, bensì è convertita in un soggetto a sé: così che il processo dell'autocoscienza viene a coincidere con l'ascesi, cioè con il progressivo liberarsi, da parte della Ragione, di tutti quegli elementi naturali o sensibili — inclusi quelli stessi presenti nella naturalità dell'uomo —, da cui altrimenti essa risulterebbe contaminata e condizionata. In altri termini, anche per Pico, come per Ficino, interprete (si ri cordi) del Parmenide platonico, occorre che la nostra anima scuota via progressivamente le proprie impurità, per mezzo dell'ascesi morale e della dialettica (per moralem et dialecticam suas scordes excusserit), fino a che « diventi essa stessa dimora del Signore » "; ovvero fino al punto che noi — « come Serafini ardenti tratti

72 C. BOVILLUS, op. cit., p. 28. 73 Ivi, p. 89. 71 Ivi. " Cfr. E. CASSIRER, op. cit., p. 141. 78 G. Pico DELLA MIRANDOLA, op. cit., pp. 120-21.

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fuori di noi e pieni del Nume » — « ormai non saremo più noi ma Colui che ci fece » 1~.

Il culmine dell'autocoscienza è Yepoptèia, « la visione cioè delle cose divine attraverso il lume teologico » 7\ Per contro, il carattere discorsivo o " intellettuale " del pensiero, il suo essere connaturato al linguaggio (« L'elemento stesso del pensiero — dice Marx —, l'elemento della manifestazione vitale del pensiero, il linguaggio, è di natura sensibile », OFG, 266), viene relegato nella sfera del conoscere inferiore o apparente; sfera dalla quale ci liberano, appunto, le " arti purificatrici " della dialettica e il rapimento in Dio, ovvero quei " furori socratici " che, come dice Pico, « ci traggono fuori dell'intelletto » ™.

Riaffiorano qui i motivi mistico-religiosi, profondi, della critica neoplatonica dell' " intelletto " (questo vero luogo di nascita della moderna distruzione dell'intelletto o principio di non-contraddizione). E, la repugnanza stessa di Hegel verso la proposizione e il giudizio, lo stesso orrore infantile di Heidegger per le " fatali categorie della grammatica ", ci appaiono già anticipati nella prefazione — opportunamente ricordata da Garin80 — con cui Lefèvre d'Étaples, il Faber Stapulensis, introduceva, nel 1501, l'opera giovanile del suo discepolo Bovillus, dedicata ail'Ars oppositorum: « Aristotele è vita nel sapere, Pitagora è morte, ma morte superiore alla vita. Perciò Aristotele insegnò con la parola, Pitagora col silenzio; ma questo silenzio è perfezione, quella parola difetto. In Paolo e Dionigi è grande il silenzio; silenzio nel Cusano e in Vittorino. In Aristotele invece scarso è il silenzio, molte le parole. Ma il silenzio parla, le parole tacciono».

Cerchiamo di trarre un bilancio e di concludere anche per quanto riguarda Marx. Il punto che accomuna Marx ad Hegel — e, attraverso Hegel, nella fattispecie, a Cusano e all'umanesimo spiritualistico rinascimentale — è chiaramente, come ripetuto più volte, il concetto di che cos'è Ragione. La ragione è il genere di tutti i generi empirici, è " totalità " e comprensione di tutto. La ragione è tutto e niente: è " tanto-quanto " e, insieme, " né-né "; " ricettacolo " di tutto e, insieme " vuoto " di sostanza. È il generale-comune di tutte le cose, senza essere in particolare nessuna delle cose o specie naturali in essa riassunte. Da qui la

77 Ivi, pp. 124-25. 78 Ivi, pp. 122-23. " Ivi. 80 Introduzione a C. BOVILLUS, op. cìt., p. x.

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taetige Sette. Da qui la possibilità di intendere il mondo come attuazione dell'uomo e del suo spirito proteiforme. Da qui il tema che l'oggetto è l'oggettivazione stessa del soggetto.

La differenza invece — e ormai il discorso è così chiaro che si può anche schematizzare — è che, anziché fare della ragione il soggetto stesso (innalzandola così a Logos divino), Marx tien fermo alla naturalità dell'uomo, l'elemento sviluppato dalla tradizione propriamente materialistica. « L'autocoscienza » — così egli obietta a Hegel — « è una qualità della natura umana, non è la natura umana una qualità dell''autocoscienza ».

Siamo così tornati, di nuovo, al concetto dell'uomo come ente naturale generico. Facciamo ora un ulteriore sforzo di approfon-dimento. Questo concetto significa, né più né meno, che la specificità dell'uomo è di essere generico, cioè — si presti attenzione a questo passaggio — che la differenza dell'uomo dagli altri enti naturali consiste nell'essere Vindifferenza di tutte le differenze (il genere di tutte le specie); ovvero, che la sua particolarità è la totalità: il tratto che lo diversifica da tutto, quello che lo unisce e accomuna a tutto. Ciò che qui ci viene incontro, palesemente, è di nuovo il concetto che la ragione è tauto-eterologia, o contraddizione dialettica, " identità dell'identità e della non identità ". D'altra parte, in quanto quest'essere l'indifferenza — o l'unità — di tutte le differenze non abolisce il fatto che l'uomo è pur sempre un ente naturale determinato, di cui la genericità è appunto il tratto specifico, riaffiora qui distintamente l'istanza antidialettica, o materialistica, che la contraddizione non sia esaustiva della «o«-contraddizione (l'istanza della ragione come pre-dicato anziché soggetto): in breve, l'istanza dell'esistenza come elemento extralogico. Due istanze che, ripensate organicamente, ci riconducono al cospetto della figura teorica centrale di questo scritto: e, cioè, all'identità tauto-eterologica o " astrazione determinata ".

Lasciamo stare le facili suggestioni polemiche contro il " ma-terialismo dialettico " e la sua incapacità di sciogliere il nodo dei Manoscritti del '44, cioè di intenderne il concetto dell'uomo come " ente naturale generico ". Qui il passo che vogliamo ancora compiere è in tutt'altra direzione. La teoria dell' " astrazione determinata " è la teoria — come si è avuto più volte occasione di chiarire nelle prime pagine di questo lavoro — dell'astrazione come " totalità razionale " e, insieme, fatto o " determinazione materiale ". È la teoria, insomma, che abbiamo incontrato di

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nuovo (nel capitolo Vili di questa seconda parte), allorché, ana-lizzando le pagine iniziali del paragrafo 3 dell'Introduzione del 1857, si è rilevato che, in esse, si parla dell'astrazione in duplice modo: come totalità o generalizzazione mentale e come un aspetto o tratto analitico dell'oggetto particolare, e a più lati, in esame (il " valore " —■ si ricorderà — come concetto che logicamente è più generale e, quindi, precede quello di " popolazione " e, al tempo stesso, come " relazione unilaterale astratta di quest'insieme vivente e concreto già dato ").

Ora, il concetto dell'uomo come " ente naturale generico ", nel mostrarci la stessa struttura (identità tautoeterologica) dell' " astrazione ", ci mostra al contempo perché questa teoria logico-gnoseologica — essendosi subito risolta, per Marx, nella teoria dei rapporti sociali di produzione — non abbia dato luogo da parte sua ad una trattazione particolare. L'uomo è un ente naturale generico. Egli è il genere di tutti i generi empirici, il generale-comune di tutte le cose. In quanto ciò che è comune a tutte le cose non è nessuna delle cose in particolare, questa genericità è l'elemento specifico dell'uomo: è l'idea, la ragione, la totalità razionale. In quanto, d'altra parte, essendo un ente naturale, l'uomo ha la " sua " natura " fuori di sé ", cioè non ha un essere suo proprio ma ha come proprio essere quello degli altri, la generalità, espressa nella sua idea, si rivela essere la " relazione unilaterale astratta di un concreto già dato ", e cioè si rivela come il tratto più generico o superficiale che presenta un oggetto o una specie naturale determinata e che, come tale, è appunto comune a tante altre. (Qui il rovesciamento materialistico del punto di vista di Bovillus-Hegel si tocca con mano: non è che " in ogni sostanza del mondo c'è qualcosa d'umano " o che " in ogni sostanza è nascosto qualche atomo umano, proprio dell'uomo ", cioè che, nel profondo, la natura è idea essa stessa e che, quindi, il finito è ideale: questo è antropomorfismo e finalismo astratto; è vero, bensì, l'opposto: cioè che l'elemento specifico-umano, la generalità logica o idea, non è altro che l'elemento più generico e superficiale dell'oggetto.)

Il concetto di rapporti sociali di produzione si rivela, a questo punto, come null'altro che lo sviluppo delle due relazioni che abbiamo or ora accennato. In quanto, infatti, la genericità è un requisito specifico dell'uomo, il rapporto dell'uomo con ogni altra specie si presenta come un rapporto interno alla sua propria specie, cioè il rapporto generico (o di più specie) appare un rapporto

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specifico interumano: il che vuol dire che il riferirsi dell'uomo all'alterità oggettiva è, insieme, un riferirsi dell'uomo a sé, cioè un riferire, tramite l'oggettività, i suoi bisogni e i suoi scopi all'altro uomo: dove, come il rapporto dell'uomo con la natura si scopre insieme un rapporto interumano, così la produzione si rivela inevitabilmente anche rapporto sociale. In quanto, d'altra parte, il riferirsi dell'uomo a sé o alla sua propria specie è anche un riferirsi suo agli altri enti naturali (che questi, appunto, sono la " sua " natura), il rapporto si capovolge: nel senso che non è più l'oggettività ad essere mezzo alla manifestazione dell'idea, cioè dei bisogni e degli scopi consapevoli dell'uomo, ma è l'idea, in quanto è " una relazione unilaterale astratta dell'oggetto dato " e, precisamente, il suo tratto più superficiale o generico, ad apparire come il mezzo tramite il quale questo elemento generico stesso va ricollegato e riferito all'oggetto da cui è stato astratto, così da poter risultare finalmente come quel tratto o quella relazione, appunto, che non solo concorre a definire la specificità dell'oggetto in esame ma attraverso cui questa specificità si manifesta e si fa valere.

Arrestiamoci qui, senza complicare più oltre l'analisi. L'essenziale di ciò che si doveva dire è ormai stato detto. Sia pure a grandi linee, il discorso ha mostrato quale sia l'impervio cammino che è alle spalle del concetto di "rapporti sociali di produzione ". Questo cammino ci è apparso segnato dal profondo contrasto di due esigenze insopprimibili e tuttavia difficilmente conciliabili tra loro: l'esigenza della gnoseologia critica e quella della logica filosofica; l'esigenza che il pensiero risulti " uno dei due " e che esso sia, al contempo, la " totalità " della relazione; l'istanza di una scienza dell'uomo come ente naturale finito e l'impossibilità, tuttavia, che questa scienza fuoriesca dai limiti dell'antropologia, senza che ad essa sia recuperato il momento dell'uomo come ragione, cioè come totalità ideale.

Insistere più oltre sul come, per intendere il concetto di " rapporti sociali di produzione ", occorra compiere questo cammino a ritroso, è ormai superfluo. Qui può essere utile, semmai, battere un poco sulla controparte che il discorso comporta. Perché se, per intendere i " rapporti sociali di produzione " è indispensabile rappresentarsi le difficoltà per le quali son passate la logica e l'antropologia filosofiche, è pur vero che quelle difficoltà e quei problemi hanno trovato a loro volta una soluzione, da parte di Marx, proprio in quanto si son venuti spostando su un terreno radical-

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mente nuovo, mai fino allora esplorato dal pensiero filosofico. Il concetto di " rapporti sociali di produzione " ha, certamente, una sua preistoria assai complessa; ciò non toglie, però, che quel che è emerso alla fine di questa preistoria, e cioè quel concetto stesso, sia qualcosa di assolutamente eterogeneo a tutta la tradizione speculativa. Se, come uno storico (Edward H. Carr) ha ricordato or non è molto, « la tensione fra gli opposti princìpi di continuità e di cambiamento è il fondamento della storia », occorre anche che questa tensione non sia mitigata arbitrariamente ma lasciata prorompere in tutto il suo vigore. I problemi, in un certo senso, sono sempre gli stessi e sono tuttavia sempre nuovi. Per capire Marx, occorre restaurare in qualche modo tutta la tradizione. E, nondimeno, è pur vero che non si capisce Marx se non si intende contemporaneamente come i problemi che un tempo si ponevano a livello della Scienza della logica di Hegel o della Cri-tica della ragion pura, quegli stessi problemi, siano divenuti, con lui, così diversi da non dar luogo più a una trattazione di logica ma all'analisi del Capitale.

Insistere su questo punto è, secondo noi, indispensabile anche per correggere l'orientamento di una linea di interpretazione del pensiero di Marx, a cui è capitato più volte, in questa sede, di richiamarci. La Logica come scienza positiva di Della Volpe è, a nostro avviso, quanto di più importante il marxismo europeo abbia prodotto in questo dopoguerra. E tuttavia, per profondo che sia il debito che noi abbiamo verso quest'opera, è un fatto (seppure un fatto ingigantito da interpretazioni non sempre corrette) che essa, e più ancora i suoi successivi sviluppi, ha segnato un'indubbia tendenza alla restituzione del pensiero di Marx in chiave di logica e gnoseologia (la teoria dell' " astrazione determinata "), anziché assecondare il senso e il movimento più profondo di quel pensiero: senso che, come abbiamo cercato di mostrare, è rappresentato dalla trasposizione e risoluzione dei problemi, che un tempo si ponevano a livello di logica e gnoseologia (e, quindi, della stessa teoria dell' " astrazione determinata "), nella teoria materialistico-storica del concetto di " rapporti sociali di produzione ". Da qui, il privilegio e il peso esorbitante (pur tenendo conto della loro straordinaria importanza) accordato, nell'economia generale delle opere di Marx, agli scritti, per così dire, logico-metodologici, come la prima parte della Critica del diritto statuale hegeliano o l'Introduzione del 1857 (limiti di cui risente in parte, com'è ovvio, anche il presente lavoro). E da qui ancora, per non

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dire del resto, la sottovalutazione del ruolo essenziale spettante agli stessi Manoscritti del '44, come quell'opera in cui Marx è per la prima volta giunto a trasporre tutta la precedente problematica filosofica sul terreno nuovo del concetto e dell'analisi dei "rapporti sociali di produzione ": opera che, mentre aveva attratto originariamente l'attenzione di Della Volpe, da ultimo ha finito con l'apparirgli come avente « un interesse filosofico solo nell'ultima parte dedicata alla critica della filosofia hegeliana, non comprensibile d'altronde senza la Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, constando per il resto di una specie di ' zibaldone ' economico-filosofico, ricco a tratti di spunti brillanti di ragionamenti e teorie sviluppati solo più tardi » 81.

81 G. DELLA VOLPE, Rousseau e Marx, Roma 1964, p. 150.

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XII. IDEA DELLA SOCIETÀ « CRISTIANO-BORGHESE »

La tesi di Hegel, che l'uomo ha il suo fondamento e la sua essenza in Dio, significa non solo che l'uomo perviene alla coscienza di sé per via indiretta, e cioè conoscendo la propria natura attraverso quella di Dio, ma che questa conoscenza dell'essenza divina è anche il senso e il fine di tutto il processo storico. L'impulso infatti che muove la storia del mondo consiste, secondo Hegel (si veda, ad es., il § 384 dell'Enciclopedia), nella progressiva ascesa della rappresentazione di Dio, dalle forme naturalistiche o particolari con cui essa si presenta dapprima, a quella in cui Dio è còlto come Spirito, cioè affermato nella sua schietta universalità e nella sua piena indipendenza da qualsiasi caratteristica etnica o nazionale. « L'universale nel suo significato vero e comprensivo — scrive Hegel — è un pensiero del quale si deve dire che ci son voluti millenni prima che esso entrasse nella coscienza degli uomini e che solo attraverso il cristianesimo è giunto al suo pieno riconoscimento. I Greci, pur dotati di una così alta cultura, non hanno conosciuto Dio nella sua vera universalità e neppure l'uomo. Gli dèi dei Greci erano soltanto le potenze particolari dello spirito, e il Dio universale, il Dio delle nazioni, era per gli ateniesi ancora il Dio ignoto. Così pure sussisteva allora tra i Greci e i barbari un abisso assoluto, e l'uomo come tale non era ancora riconosciuto nel suo valore infinito e nei suoi diritti infiniti [...]. La religione cristiana è la religione della libertà assoluta e soltanto per il cristiano l'uomo ha valore come tale, nella sua infinità e nella sua universalità. » (Eric, § 163, Zusatz lì1,

1 Si cfr., a conferma della tesi di Hegel, e come prova anche della sua influenza sulla storiografia del mondo antico, tra i tanti altri autori che potrebbero ricordarsi, a cominciare da Wilamowitz, B. SNELL, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, Torino 1951, p. 281: «Si sente

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L'affermazione, quindi, che " noi tutti siamo uomini ", il ri-conoscimento dell'eguaglianza e universalità della natura umana, si è compiuto con l'avvento del cristianesimo, quando gli uomini hanno riconosciuto di essere tutti egualmente figli di Dio, ovvero quando hanno còlto la divinità — e, quindi, il loro proprio principio e la loro essenza stessa — non più nelle vesti di questa o quella " forza " particolare, ma come Spirito, nella sua infinità e nella sua universalità incondizionate.

Il riconoscimento di questa funzione storica del cristianesimo (che è presente anche in Feuerbach e Marx) ritorna, nell'opera di Hegel, con tale insistenza da costituirne un vero e proprio Leitmotiv. Non solo il principio dell'eguaglianza, ma l'idea stessa della libertà — quella libertà che " è l'essenza propria dello spi-

dire talvolta che i Greci nella loro arte classica non hanno rappresentato un uomo qualunque nelle sue accidentalità, ma addirittura 1' ' uomo ', ' l'idea dell'uomo ', come si dice platonizzando. Ma questo modo di esprimersi è affatto anti-greco e anti-platonico. Mai un greco ha parlato sul serio dell'idea dell'uomo ». E, nello stesso senso, anche M. POHLENZ, Der hellenhche Menscb, Gòttingen, s.d. (ma del 1946), p. 446: « una speciale parola per questa idea di ' umanità ' i Greci non l'hanno mai coniata », né « avevano neppure occasione di farlo, poiché, in effetti, essi pensavano soltanto alla cerchia dei loro propri compatrioti ». Quanto al tema, toccato nel seguito della nostra esposizione, dell'integrazione dell'uomo greco nella polis, cfr. M. POHLENZ, op. cit., pp. 106, 108, 125, 131 ecc. (« Die Polis bildete also eine geistige Einheit... Darum war auch das gesamte staatliche Leben von der Religion durchdrungen. ») Circa l'estraneità della moderna concezione dei "diritti dell'uomo" al mondo greco, cfr. op. cit., p. 109. E ancora p. 404: « Die Polis ist fiir ihn [il greco] nicht eine ausserliche Rechtsorganisation, sondern die naturgemasse Lebensform, die sich der Geist des Volkes schafft ». Quanto alle differenze — su cui veniamo a parlare nel seguito della nostra esposizione — tra mondo antico e cristianesimo, è sempre da ricordare la classica opera di N. D. FUSTEL DE COULAN-GES, La città antica, Bari 1925, II, pp. 221 sgg., dove si rileva che, col cristianesimo, « il divino fu decisamente posto fuori e al di sopra della natura visibile. Mentre un tempo ogni uomo s'era fatto il suo Dio e ve ne erano tanti quante le famiglie e le città, Dio apparve allora come essere unico, universale, solo animatore dei mondi... » (p. 223). E p. 225: « Il Cristianesimo [...] presentò all'adorazione degli uomini un Dio unico, un Dio universale, un Dio che era di tutti, che non aveva popolo eletto, non faceva distinzione di razze, di famiglie o di Stato ». E, circa il rapporto tra cristianesimo e libertà soggettiva, cfr. pp. 228-29: « Il Cristianesimo insegnava che l'uomo apparteneva alla società con una sola parte di se stesso, col suo corpo e coi suoi interessi materiali [...]. Questo nuovo principio fu la sorgente da dove potè scaturire la libertà dell'individuo [...]. La politica e la guerra non costituirono più tutto per l'uomo; le virtù non furono riassunte più nel solo patriottismo, perché l'anima non aveva patria [...]. Il Cristianesimo distinse le virtù private dalle virtù pubbliche, abbassando queste, innalzò quelle; mise Dio, la famiglia, la persona umana sopra la patria, il prossimo sopra il cittadino ».

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rito, e cioè la sua realtà stessa " — ha il suo fondamento e la sua prima origine, secondo Hegel, nel cristianesimo. « Intere parti del mondo, l'Africa e l'Oriente, non hanno mai avuto questa idea, e non l'hanno ancora: i Greci e i Romani, Platone ed Aristotele, ed anche gli stoici non l'hanno avuta: essi sapevano, per contrario, soltanto che l'uomo è realmente libero mercé la nascita (come cittadino ateniese, spartano, ecc.), o mercé la forza del carattere e la cultura, mercé la filosofia (lo schiavo, anche come schiavo e in catene, è libero). Quest'idea è venuta nel mondo per opera del Cristianesimo; pel quale l'individuo come tale ha valore infinito, ed essendo oggetto e scopo dell'amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui; cioè l'uomo è in sé destinato alla somma libertà » (Une, § 482).

Questo processo di universalizzazione, mediante il quale Dio si libera da ogni travestimento naturalistico per comparire come Spirito e, quindi, come infinità trascendente, è còlto da Hegel in connessione con un altro e simultaneo processo che è quello della dissoluzione della comunità terrena di cui l'individuo originariamente è parte. « La religione — scrive Hegel — è la coscienza che un popolo ha di ciò ch'esso è, dell'essenza del supremo [...]. Come un popolo si rappresenta Iddio, così si rappresenta anche il suo rapporto con Dio, o sé medesimo: in tal modo la religione è anche concetto che il popolo ha di sé. Un popolo che considera la natura come il suo Dio non può essere un popolo libero: solo quando vede in Dio uno spirito al disopra della natura diviene esso stesso spirito, e libero. »s

Quando Dio è posto dunque al di fuori della natura e, quindi, anche al di sopra dei vincoli naturistici o di sangue che stanno alla base delle prime comunità etnico-tribali, ciò significa, a un tempo, che l'unità interna a queste comunità è dissolta, e che il legame naturale immediato di stirpe non è più riconosciuto come un legame effettivo. In questo caso, Dio è collocato al di sopra della comunità terrena, perché l'uomo non considera più questa comunità come Dio. Egli separa Dio dalla comunità, perché non riconosce più nella comunità la sua essenza, ovvero perché la comunità stessa e, quindi, i rapporti degli uomini tra loro, sono ormai internamente dissociati.

Il senso di questo discorso, che è svolto con mirabile pene-

- G. G. F. HEGEL, Lezioni sulla filosofia della storia cit., I, p. 122.

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trazione storica soprattutto nei Lineamenti di filosofia del diritto e nelle Lezioni sulla filosofia della storia, è imperniato da Hegel, com'è noto, sull'analisi delle differenze che separano il mondo greco da quello cristiano.

Nella Grecia antica, Dio è la polis stessa. Lungi dall'apparire come un'entità trascendente, lo Spirito — dice Hegel — è qui ancora nella forma dell' " eticità sostanziale " o naturale. La divinità è la totalità personificata della comunità etico-politica; comunità che è fondata, a sua volta, su vincoli naturali di sangue, cioè sulla comunanza naturale di stirpe. Non solo la scissione tra mondo terreno e mondo ultraterreno non è ancora presente; ma, per la stessa ragione, non è presente neppure la separazione di individuo e comunità, di vita pubblica e vita privata, di società e Stato. Tutto tiene come in un cosmo perfetto. La divinità è il contenuto stesso della vita spirituale del popolo, la sostanza e la ragion d'essere della sua esistenza politica. E, poiché « questo contenuto spirituale è qualcosa di saldo e compatto, completamente sottratto all'arbitrio, ai particolarismi, ai capricci dell'individualità e dell'accidentalità », esso « costituisce l'essenza dell'individuo, nello stesso modo in cui è lo spirito del popolo ». È — continua Hegel — « quell'elemento sacro che lega insieme gli uomini, gli spiriti »: « è un'unica vita, un solo grande og-getto, un solo gran fine, un solo gran contenuto »3, dal quale l'individuo dipende interamente.

La volontà del singolo e quella della comunità — la volontà soggettiva e la volontà oggettiva — coincidono qui immediatamente e « formano un unico complesso senza turbamento », perché — dice Hegel — nella polis « l'idea non si presenta ancora astrattamente per sé, da un canto, ma è immediatamente connessa al reale, così come in una bella opera d'arte il sensibile reca l'impronta e l'espressione dello spirituale ». « È l'eticità spontanea, che non è ancora moralità, perché il volere individuale del soggetto è solo nell'immediata abitudine e consuetudine di ciò ch'è giusto e legale. L'individuo è in spontanea unità con il fine universale »i: al punto che « un cittadino ateniese faceva quasi per istinto ciò che gli spettava » 5. In questa libertà " pu-ramente sostanziale ", « i comandi e le leggi — Hegel prosegue — sono qualcosa di saldo in sé e per sé, rispetto a cui la situazione

3 Ivi, p. 109. * Filosofia della storia cit., p. 281. 5 Ivi, p. 110.

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dei soggetti è quella della completa dipendenza. Non occorre che queste leggi quadrino con la loro volontà personale, e i soggetti vengono ad essere, così, simili ai bimbi che ubbidiscono ai genitori senza volontà e convinzione propria » 6.

Questa condizione di completa subordinazione dell'individuo rispetto alla comunità etnico-tribale di cui è parte (comunità che lo sovrasta e lo domina fino ad assumere ai suoi occhi il carattere di una " forza naturale " divina), è analizzata anche nell'opera di Marx in tetrnini non dissimili da quelli di Hegel. L'Ideologia tedesca si sofferma più volte nella descrizione di quella ch'essa chiama la naturwiichsige Gesellschaft o i natur-wùchsige Verhàltnisse, a differenza e in contrasto con le condizioni che insorgono con i Geldverhàltnisse. « La coscienza — scrive Marx — è innanzi tutto semplice coscienza dell'ambiente sensibile immediato e del limitato legame con altre persone e cose esterne all'individuo che prende coscienza; in pari tempo, è coscienza della natura, che inizialmente si erge di contro agli uomini come una potenza assolutamente estranea, onnipotente e inattaccabile, verso la quale gli uomini si comportano in modo puramente animale e dalla quale si lasciano dominare come le bestie: è dunque una coscienza della natura puramente animale (religione naturale). » « Qui si vede subito — Marx prosegue — che questa religione naturale, o questo determinato comportarsi verso la natura, è condizionato dalla forma sociale e viceversa [...]. Questo inizio è di natura animale, come la stessa vita sociale a questo stadio è pura coscienza da gregge, e l'uomo a questo punto si distingue dal montone soltanto perché il suo è un istinto cosciente. » 7 Analogamente, e sempre al fine di segnarne la differenza rispetto al successivo insorgere e diffondersi dei rapporti mercantili, il Capitale accenna più volte alla condizione di " immaturità dell'uomo individuale, che ancora non s'è distaccato dal cordone ombelicale del legame naturale di specie con altri uomini " \

Va da sé che come, per Hegel, il periodo dell' " eticità sostanziale " non si limita alla Grecia ma si estende ben al di là di essa, fino ad abbracciare condizioni assai più primitive di vita, così anche le proposizioni di Marx vanno riferite ad epoche più remote. Senonché, fatte le debite differenze, ciò che nel suo discorso sicuramente si attaglia alle condizioni della Grecia

6 Ivi, p. ZIA. 7 K. MARX, L'ideologia tedesca cit., p. 27. 8 K. MARX, Il capitale cit., I, 1, p. 93.

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antica è che qui l'individuo non è considerato come un'entità autonoma, sufficiente a se stessa, bensì come qualcosa che, rispetto alla polis, è nello stesso rapporto in cui la parte è rispetto al tutto, in modo non dissimile da come un organo qualsiasi è rispetto al corpo intero dell'uomo.

Questo modo di vedere, in cui si esprime l'essenza della concezione greca dell'uomo ancora nel pieno dell'età classica, emerge con forza nella Politica di Aristotele. Qui, infatti, non solo è affermata, con piena evidenza, la natura intrinsecamente socievole dell'uomo (« l'uomo — scrive Aristotele — è animale più socievole di ogni ape e di ogni altro animale che viva in greggi », così che si può dire che « la città appartiene ai prodotti naturali, che i'uomo è un animale che per natura deve vivere in una città e che chi non vive in una città, per la sua propria natura e non per caso, o è un essere inferiore o è più che un uomo »); ma, in modo altrettanto chiaro, è colta anche la priorità gerarchica della comunità rispetto all'individuo. « Nell'ordine naturale — scrive Aristotele — la città precede la famiglia e ciascuno di noi. Infatti il tutto precede necessariamente la parte, perché tolto il tutto, non ci sarà più né piede né mano [...]. È dunque chiaro — egli conclude — che la città è per natura e che è anteriore all'individuo perché se l'individuo, preso da sé, non è autosufficiente, sarà rispetto al tutto nella stessa relazione in cui lo sono le altre parti. Perciò chi non può entrare a far parte di una comunità o chi non ha bisogno di nulla, bastando a se stesso, non è parte di una città, ma una belva o un dio. » 9

Analogo il giudizio che dà anche Hegel. Il mondo greco non conosce l'indipendenza dell'individuo dalla comunità; non conosce quest'indipendenza, e tantomeno può immaginare l'anteriorità e priorità di valore dell'individuo rispetto al tutto del corpo sociale. « Negli Stati antichi, il fine soggettivo era semplicemente una cosa sola con la volontà dello Stato, mentre, nei tempi moderni, noi pretendiamo a una veduta particolare, a una particolare volontà e coscienza. Gli antichi non avevano nulla in questo senso; per loro, la volontà dello Stato era tutto. » 10 Mentre " l'essenza dello Stato moderno " — osserva

■' ARISTOTELE, Politica e Costituzione di Atene, a cura di C. A. Viano, Torino 1955, pp. 53-54.

10 G. G. F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. di F. Mes-sineo, Bari 1954, aggiunta al § 261, p. 370.

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ancora Hegel — è non solo « che l'universale è congiunto con la piena libertà della particolarità », ma che « l'universale del fine non può progredire, senza il sapere e il volere proprio della particolarità, che deve serbare il suo diritto » (donde la necessità che quel fine universale venga all'individuo " dimostrato col fatto "); negli Stati dell'antichità classica invece « la particolarità non era ancora svincolata e affrancata e ricondotta all'universalità » ": esempio tipico lo " Stato platonico ", dove « la libertà soggettiva — dice Hegel —• non ha ancora affatto valore, poiché l'autorità superiore indica ancora agli individui le professioni » 12.

In queste condizioni, lo sviluppo dell'individualità, cioè il suo costituirsi come soggettività autonoma con cui " l'uomo discende dalla realtà esteriore nel proprio spirito " 13, non poteva non agire, in quegli Stati, che come il principio della loro interna dissoluzione e rovina. « Lo sviluppo autonomo della particolarità •— scrive Hegel — è il momento che si mostra, negli Stati antichi, come corruzione irrompente del costume e come ragione ultima della rovina dei medesimi. Questi Stati, eretti in parte sul principio patriarcale e religioso, in parte sul principio d'un'eticità spirituale, ma semplice — in generale, sull'intuizione naturale originaria —, non poterono sostenere in sé la scissione della medesima e la riflessione infinita dell'autocoscienza [...]. Platone — Hegel prosegue — mostra, nel suo Stato, l'eticità sostanziale nella sua bellezza ideale e nella sua verità; ma egli non potè sbrigarsela col principio della particolarità autonoma, che al suo tempo aveva fatto irruzione nell'eticità greca, se non col contrapporgli il suo Stato soltanto sostanziale, e con l'escludere del tutto il medesimo principio, sin dentro ai suoi inizi, che esso ha nella proprietà privata e nella famiglia, e poi, nel suo ulteriore sviluppo in quanto arbitrio particolare e scelta della situazione etc. » " Questa incapacità del mondo greco di interpretare il nuovo che andava sorgendo, segna la sua inferiorità storica rispetto al cristianesimo. Infatti, « il diritto della particolarità del soggetto di trovarsi appagato, o, ciò che è lo stesso, il diritto della libertà soggettiva costituisce il punto critico e centrale della differenza tra l'antichità

11 Ivi, Aggiunta al § 260, p. 369. 12 Ivi, Aggiunta al § 262, p. 370. '•, Filosofia della storia cit., p. 274. 14 Filosofia del diritto cit., § 185, pp. 165-66.

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e l'età moderna ». E « questo diritto, nella sua infinità, è stato espresso — Hegel conclude — nel Cristianesimo e costituito a universale principio reale di un nuovo atteggiamento del mondo » ".

Come il lettore può vedere, l'acutezza della percezione storica di Hegel ha, in questi passi, il suo risalto più pieno. Lo sviluppo autonomo dell'individuo, nel mondo antico, è da lui collegato con lo sviluppo della proprietà privata: quella proprietà che Platone bandì dal suo Stato appunto per l'incapacità del mondo greco di conciliare il principio organicistico della polis con quello della libertà soggettiva. E non occorre certo forzare il testo di Hegel per realizzarne tutti i significati impliciti. La " proprietà privata " e il " suo ulteriore sviluppo in quanto arbitrio particolare e scelta della situazione :' alludono, in modo trasparente, a quel grande processo storico — più volte analiz-2ato in seguito da Marx — che è la disgregazione delle compatte e omogenee " comunità patriarcali " del mondo antico, sotto l'azione dissolvitrice dello sviluppo della produzione delle merci e dei rapporti di scambio e, quindi, del denaro. « Come nel denaro è cancellata ogni distinzione qualitativa delle merci, il denaro cancella per parte sua, leveller radicale, tutte le distinzioni. Ma anche il denaro è merce, una cosa esterna, che può diventare proprietà privata di ognuno. Così la potenza sociale diventa potenza privata della persona privata. Perciò la società antica [e qui Marx cita Sofocle] lo denuncia come moneta dissolvitrice del suo ordinamento economico e politico »; mentre « la società moderna, che già dalla sua prima infanzia ha preso Plutone per i capelli, e lo va traendo fuori dalle viscere della terra, saluta nell'aureo Gral la splendente incarnazione del suo prin-cipio di vita più proprio » 16.

Quest'analisi di Hegel e Marx, che finora abbiamo visto coincidere in larga parte, ha naturalmente una sua preistoria nel settecento e, soprattutto, in Rousseau. L'organicismo della città antica, l'integrazione che essa realizza tra individuo e comunità, la coincidenza di vita pubblica e vita privata, nonché la stessa azione dissolvitrice che, sulla solidità e compattezza delle antiche " repubbliche ", doveva esercitare lo scambio, il commercio e la circolazione del denaro, sono tutti temi che si

15 Ivi, § 124, p. 114. 16 II capitale cit., I, 1, p. 147.

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trovano già sviluppati nell'opera del grande ginevrino. Senonché, ciò che forse non è altrettanto noto è che, in Rousseau, vi è anche una delle impostazioni più originali, e più ricche di proiezione verso il futuro, del complesso problema del rapporto tra cristianesimo e mondo antico.

Il tema che qui ci viene incontro ha, sulle prime, la forma di una constatazione analoga a quella da cui abbiamo visto prendere le mosse Hegel stesso. Rousseau rileva che, proprio perché nel mondo antico l'uomo è organicamente integrato nella comunità particolare della sua città, egli è con ciò stesso escluso da quella società generale e più larga che è la comunità di tutto il genere umano. « L'esprit patriotique — egli scrive — est un esprit exclusif qui nous fait regarder comme étranger et presque comme ennemi tout autre que nos concitoyens. Tel était l'esprit de Sparte et de Rome. L'esprit du Christianisme au contraire nous fait regarder tous les hommes comme nos frères, comme les enfants de Dieu. La charité chrétienne ne permet pas de faire une dijférence odieuse entre le compatriote et l'étranger; [...] son zète drdent embrasse ìndifjéremment tout le genre humain. Il est donc vrai que le Christianisme est, par sa sainteté mime, contraire à l'esprit social particulier. » "

L'idea che qui emerge è sempre quella dell'impossibilità per il mondo antico di innalzarsi al riconoscimento dell'eguaglianza e universalità della natura umana. E l'introduzione di questo principio nel mondo è collegata, anche da Rousseau, all'avvento e alla propagazione del cristianesimo: « les idées du droit na-turel et de la fraternité commune de tous les hommes se soni répandues assez tard et ont fait des progrès si lents dans le monde qu'ìl n'y a que le Christianisme qui les ait suffisamment généralisées » I8.

Senonché, ciò che è caratteristico del discorso di Rousseau è che, nell'interpretare il passaggio dal mondo antico al cristianesimo come passaggio dalle società particolari del primo alla società generale dell'altro e, quindi, come progressiva universa-lizzazione dell'uomo, egli coglie, in questo processo, un vero e proprio sovvertimento di principio. Nel mondo antico, il vincolo che lega l'uomo alla comunità è particolare ma reale: cioè, se esso non lega l'uomo a tutto il genere ma solo a un gruppo

17 J.-J. ROUSSEAU, The Politicai Writings, Edited by C. E. Vaughan, Oxford 1962, voi. II, p. 166.

18 Ivi, I, p. 453.

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etnico particolare, lo lega tuttavia a questo gruppo in una comunità politica che è terrena, puramente umana. Nel cristianesimo, viceversa, dove l'individuo è collegato a tutto il genere umano, il vincolo con cui è annodata questa " société generale ", risulta innalzato e proiettato fuori del mondo, cioè non è un vincolo umano-terreno ma è Dio: così che la " société humaine en general ", " Vinstitution sociale universelle ", che ne risulta, è una società puramente ideale, astratta, non politica ma trascendente: è la società di tutti gli uomini in quanto " anime " e " figli di Dio "; una società in cielo, a cui fa da pendant quaggiù la dissociazione atomistica, la lotta degli egoismi e la concorrenza sfrenata che contrassegnano, agli occhi di Rousseau, le condizioni moderne, a differenza della " virtù " delle repubbliche antiche. « La grande société, la société humaine en general — scrive Rousseau — est fondée sur l'humanité, sur la bienfaisance universelle. Je dis et fai toujours dit que le Christianisme est fa-vorable à celle-là. Mais les sociétés particulières, les sociétés po-lìtiques et civiles, ont un tout autre principe; ce sont des éta-blissements purement humains, doni par conséquent le vrai Christianisme nous détache, comme de tout ce qui n'est que terrestre. » 19 Nei suoi lineamenti essenziali, il quadro che ne risulta è analogo a

quello tracciato da Hegel. L'innalzarsi dell'uomo alla coscienza della universalità e eguaglianza della sua natura passa attraverso la dissoluzione del vincolo etico-naturale delle comunità particolaristiche del mondo antico. Sotto l'azione del denaro e del commercio, quegli aggregati originari — compatti ma ristretti — si disgregano; le individualità, che in essi erano racchiuse, vengono proiettate fuori come atomi liberi; cadono le barriere localistiche, le differenze di ceppo e di stirpe; l'uomo non è più libero in quanto ateniese o spartano, e cioè come membro di una determinata comunità, ma ha valore come tale, cioè indipendentemente dalla razza, dalla religione, dalla nazionalità, ecc. Nelle grandi linee — ripetiamo — il quadro è ana-'Vyi logo in Hegel e in Rousseau. La situazione nuova è identificata da entrambi come quella in cui ciascun uomo ha valore infinito perché ciascuno — già nel suo isolamento e nella sua separazione dagli altri e, quindi, anche prima e indipendentemente da qualsiasi rapporto con la società — è in relazione immediata

19 Ivi, II, pp. 166-67.

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e diretta con Dio come Spirito: col Dio — s'intende — non degli Ateniesi o degli Ebrei ma col Dio universale e di tutte le genti. Senonché, mentre in questo disgregarsi dei rapporti in terra e nella loro nuova aggregazione intorno al Dio dei cieli, Hegel vede il progresso decisivo con cui la rappresentazione di Dio si libera da ogni travestimento naturalistico per porsi, finalmente, come Spirito, cioè come universalità libera e trascendente (« un popolo che considera la natura come il suo Dio » — si ricordi — « non può essere un popolo libero: solo quando vede in Dio uno spirito al di sopra della natura diviene esso stesso spirito, e libero »); Rousseau, invece, che — sotto questo riguardo — è veramente un figlio delle repubbliche antiche (l'uomo fuori della comunità è solo un animale; chi non ha bisogno di nulla e basta a se stesso, non è parte di una città, ma una belva o un dio), Rousseau coglie in questo nuovo rapporto una situazione talmente innaturale e alienata che, dove Hegel vede sorgere il principio della libertà moderna, egli vede precostituirsi le condizioni della tirannia e della servitù. « he Christianisme est une religion toute spirituelle, qui détaehe les hommes des choses de la terre. La patrie du chrétien n'est pas de ce monde. Il fait son devoir, il est vrai: mais il le fait avec une profonde indijjérence sur le succès des soins qu'ìl se donne. Peu lui importe que tout aille bien ou mal ici bas: si l'Etat est florissant, il jouit modestement de la félicité publique; si l'Etat dépérit, il bénit la main de Dieu qui s'appesantit sur son peuple. » « Le Christianisme ne préche que servitude et dépendance. L'esprit du Christianisme est trop fdvorable à la tyrannie pour qu'elle n'en profite pas toujours. Les vrais chré-tiens sont faits pour ètre esclaves. Ils le savent et ne s'en émeu-vent guère; cette courte vie a trop peu de prix pour eux. »20

È certo che nessun marxista che si rispetti potrà mai assecondare queste conclusioni. In questi ultimi sviluppi del suo discorso, Rousseau ha torto e Hegel ragione. Il cristianesimo è il principio della libertà soggettiva (o, per meglio dire, è il modo, seppure alienato, in cui questo principio è per la prima volta venuto alla luce). Il pensiero politico di Rousseau mostra qui i limiti stessi della mentalità antica: esso si dimostra incapace di intendere fino in fondo le condizioni nuove e moderne. Ed è anche chiaro d'altra parte — come vedremo tra poco — che la posizione di

20 Ivi, I, pp. 503-504.

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Hegel non si identifica neppure col punto di vista cristiano-liberale puro e semplice, cioè col punto di vista del contrattualismo giusnaturalistico culminato nella concezione dello " Stato di diritto ". Se egli considera un progresso che, con il cristianesimo, la " bella unità " originaria della polis greca sia andata in pezzi, liberando da una parte la coscienza soggettiva come coscienza ritratta in sé e, dall'altra, innalzando l'universale divino al di sopra della natura e, quindi, della comunità etnica; se que-st' " antitesi, un termine della quale è Dio, il divino, l'altro il soggetto come particolare "21, gli appare un avanzamento: è pur vero, d'altro canto, che il problema di Hegel è proprio quello di procedere alla riconciliazione dei due. « Nella storia del mondo — egli scrive — non si tratta d'altro che di far venire in luce il rapporto in cui questi due termini sono veramente conciliati in assoluta unità: conciliazione nella quale il soggetto libero non vien meno nell'oggettività dello spirito, bensì consegue quanto autonomamente gli spetta, ma nella quale ad un tempo anche lo spirito assoluto, la compatta unitarietà oggettiva, conquista quanto è suo assoluto diritto. »22

Senonché la forza del discorso di Rousseau, e il ruolo storico insostituibile che esso ha esercitato, è nel punto in cui Rousseau individua come una condizione innaturale e alienata il fatto che, ciò che nel mondo antico è vincolo terreno, col cristianesimo, non solo si presenti come vincolo oltremondano, posto al di fuori e al di sopra degli uomini, ma come un vincolo unitario " in cielo " alla cui base sta la disgregazione atomistica degli individui " in terra ". Cogliendo infatti la complementarità di questi due processi, Rousseau ci apre la strada per capire qualcosa senza cui l'opera di Marx resterà sempre chiusa con sette sigilli: e, cioè, il diverso rapporto unità-molteplicità, comunità-individuo, che è implicito nella soluzione terrena della polis antica e in quella oltremondana del cristianesimo.

Nel mondo antico, la comunità, il " vincolo sociale " (tanto per usare questa parola che —■ come vedremo — è un termine-chiave del discorso di Marx), non è altro che il nesso che collega gli individui tra loro. Il " tutto " della comunità e gli individui " particolari " sono tra loro, per cosi dire, nello stesso rapporto in cui è la mano con le dita, la totalità del corpo

21 G. G. F. HEGEL, Filosofia della storia cit., I, p. 274. 22 Ivi.

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rispetto ai suoi singoli organi. Come gli individui non hanno un'esistenza indipendente dalla comunità, una vita privata disgiunta da quella pubblica, così la comunità non ha un'esistenza separata da loro, cioè lo Stato è l'affare reale di tutti i cittadini. La terrestrità del vincolo sociale, su cui sopra si è insistito (« mais les societés particulières, les societés politiques et civiles, ont un tout autre principe: ce sont des établissements purement humains »), ha appunto questo significato: che, essendo la comunità null'altro che il rapporto degli individui tra loro, questo rapporto (com'è ovvio) non esiste al di fuori delle entità rapportate: cioè, l'unità è qui il collegamento stesso del molteplice.

Nelle condizioni moderne, viceversa, in quanto il vincolo sociale che lega gli uomini tra loro è diventato oltremondano (gli uomini sono uniti attraverso la loro comune discendenza da Dio), il vincolo stesso, cioè Y unità, — risultando posta fuori e al di sopra degli uomini — viene ad acquistare un'esistenza propria separata (è, infatti, Dio): così che si realizza il paradosso di un rapporto che si pone per sé, indipendentemente dalle entità rapportate. La situazione che ne nasce è di straordinaria importanza. Qui infatti il rapporto sociale, il rapporto degli uomini tra loro, appare anticipato e sostituito dalla relazione in cui ciascun individuo, nella sua separazione atomistica dagli altri, è destinato a trovarsi con Dio in quanto sua essenza e fondamento e, quindi, in quanto principio spirituale che abita nel profondo stesso dell'anima umana (nel cristianesimo — si ricordi Hegel —■ l'individuo ha valore infinito perché, « essendo oggetto e scopo dell'amore di Dio, è destinato ad avere relazione assoluta con Dio come spirito, e far che questo spirito dimori in lui »). E, poiché per attingere i valori dell' " umanità " o spiritualità, il singolo — prima ancora che con gli altri uomini — deve entrare in rapporto con Dio (che egli è fratello dei fratelli attraverso il padre), la " città ", in cui l'uomo da animale si fa " uomo ", appare come una societas in interiore homine (si cfr., per avere un'idea della sopravvivenza di questi temi fino ai nostri giorni, la stessa Genesi e struttura delld società di G. Gentile): societas, che si stabilisce, appunto, nel dialogo dell'anima con Dio, com'esso si celebra nell'intimità dello spirito.

Quel che ne risulta, se si vuol risalire al modello classico dell'etica e della politica cristiano-liberale, è la concezione del contrattualismo giusnaturalistico, dove, poiché ciascun individuo appare direttamente investito, attraverso il suo rapporto con la

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trascendenza, da diritti " originari " o naturali assoluti (e " naturali ", proprio perché pre-sociali, cioè antecedenti al rapporto storico degli uomini tra loro), la città terrena, cioè l'istituzione da parte degli uomini della società (tramite il contratto), appare solo come un mezzo o un espediente, cui essi ricorrono per veder garantito dalla " legge " (e, quindi, dalle " forze di pubblica sicurezza " dello Stato), l'esercizio indisturbato delle loro libertà e dei loro diritti originari stessi.

« Entra (se tu non puoi evitare la vita sociale) in una società cogli altri tale, che in essa ognuno possa conservare ciò che gli appartiene (suum cuique tribue) »: questa formula, che si incontra nelle prime pagine della Dottrina del diritto di Kant23, ci dà, con evidenza lapidaria, il senso del rovesciamento, operato dal cristianesimo, rispetto alla concezione del mondo antico. Mentre, per Aristotele, l'uomo è destinato a vivere nella città e chi vive fuori di essa è solo una belva o un dio; per la concezione cristiano-liberale, la società, quando non possa addirittura essere evitata, dev'essere solo il mezzo per garantire e ribadire (in quanto Stato) le condizioni di reciproca separazione e concorrenza in cui gli uomini vivono nello " stato di natura ". Ancora: mentre, nella concezione greca, " la città precede la famiglia e ciascuno di noi " come " il tutto precede necessariamente la parte "; nella concezione cristiano-liberale, viceversa, si realizza il paradosso per cui l'individuo appare maggiore e superiore alla comunità, la parte più grande del tutto, giacché — non procedendo i suoi " diritti " dalla società stessa ma direttamente da Dio — è chiaro che la loro sfera non potrà mai essere violata, quali che ne siano le ragioni e anche quando ciò rientri nell'interesse di tutto un popolo; paradosso, dove si conferma come qu2Ì diritti non siano l'espressione della sovranità popolare, ma, al contrario, l'espressione della sovranità del privato su e contro la società: secondo l'affermazione stessa di B. Constant, che « la sovranità non esiste che in modo limitato e relativo » e che « nel punto in cui comincia l'indipendenza e l'esistenza individuale, si arresta la giurisdizione di questa sovranità », onde, « se la società varca questa linea, essa è non meno colpevole del despota » 2*.

Stringiamo i tempi e veniamo al punto essenziale. Nel ca-

23 I. KANT, Scritti politici e di filosofia della storia e del diritto cit., p. 415.

-'' B. CONSTANT, Principes de politique, Paris 1815, p. 17.

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pitelo XVII dell'Essenza del cristianesimo, anche Feuerbach prende in esame " la differenza tra cristianesimo e paganesimo ". « I pagani — egli scrive — non solo considerarono l'uomo in relazione all'universo »; ma anche l'individuo, « ossia l'uomo singolo non fu da essi considerato che in relazione agli altri uomini ». Essi « distinsero rigorosamente l'individuo dalla specie, l'individuo come parte, dal tutto costituito dalla specie umana, e subordinarono il singolo al tutto »; mentre « il cristianesimo invece non si curò della specie, e prese in considerazione soltanto l'individuo ». « Gli antichi sacrificarono l'individuo alla specie, il cristianesimo sacrificò la specie all'individuo. Oppure: il paganesimo pensò e comprese l'individuo soltanto come parte a differenza del tutto, della specie, il cristianesimo invece soltanto in immediata, indistinguibile unità con la specie. » « Per il cristianesimo —■ continua Feuerbach — l'individuo è oggetto di una provvidenza diretta, cioè è direttamente oggetto dell'essere divino »; ma ciò significa che « i cristiani abolirono la mediazione, stabilirono un rapporto diretto fra sé e l'essere provvidente, onnisciente, universale; cioè identificarono senza mediazione l'essere singolo con l'essere universale ». La conclusione fu che, per realizzare il proprio essere, il cristiano non ha bisogno di entrare in rapporto con gli altri uomini, « perché egli come individuo nel contempo non è individuo, bensì specie, essere universale, perché egli ha ' la completa pienezza della sua perfezione in Dio ', cioè in se stesso »25.

Letta con attenzione, questa pagina ci mostra quanto Feuerbach sia vicino ad Hegel e, al tempo stesso, quanto già diverga da lui. Anche per l'Essenza del cristianesimo lo sviluppo storico della religione rappresenta un modo attraverso cui l'uomo progredisce nella coscienza di sé. Al pari di Hegel, anche Feuerbach considera che l'uomo perviene alla propria autocoscienza per via indiretta e cioè attraverso la conoscenza ch'egli acquista dell'essenza divina. In puntuale riscontro all'affermazione contenuta nelle Lezioni sulla filosofia della storia, secondo cui « come un popolo si rappresenta Iddio, così si rappresenta anche il suo rapporto con Dio, o sé medesimo », così che « la religione è anche concetto che il popolo ha di sé », Feuerbach scrive che « il rapporto stabilito dalla religione fra l'uomo e Dio è un rapporto tra l'uomo e la sua propria essenza »26, così che « la

25 L. FEUERBACH, L'essenza del cristianesimo cit., I, pp. 130-31. 26 Ivi, p. 35.

27. Colletti 417

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distinzione fra il divino e l'umano » non è altro « se non la distinzione fra l'essenza dell'umanità e l'uomo individuo »27. Analogamente anche Feuerbach considera il cristianesimo, al pari di Hegel, come la religione " per eccellenza ", cioè come quella religione particolare che realizza al contempo 1' " essenza " di tutte le religioni, in quanto non concepisce Dio sotto questa o quella veste particolare e, quindi, ancora, in modo naturalistico, ma lo concepisce come Spirito universale. Senonché — e la differenza non è di poco conto — ciò che Hegel presenta in senso positivo, per Feuerbach muta radicalmente di segno. Non l'essenza dell'uomo è costituita da quella di Dio, ma, al contrario, ciò che l'uomo si rappresenta come Dio non è altro che la propria essenza stessa alienata: cioè l'essenza dell'uomo trasposta al di fuori dell'uomo, separata da lui e ipostatizzata come un'entità esistente per sé. In altre parole, mentre Hegel, che ragiona dal punto di vista cristiano, considera, per così dire, naturale che l'uomo pervenga alla coscienza dell'eguaglianza e universalità della propria natura, e, quindi, alla coscienza del suo rapporto col genere, attraverso la conoscenza di Dio come spirito; per Feuerbach questa autoconoscenza dell'uomo per via indiretta è il segno di una condizione di estraneazione dell'uomo da sé; e, nel Dio come Logos, egli non vede che « il concetto di comunità posto in modo assurdo come un essere particolare, personale » 2S, cioè vede l'unità sociale posta separatamente dalla molteplicità dei membri che essa dovrebbe collegare, e, insomma, vede realizzarsi il paradosso di un rapporto che si pone per sé, indipendentemente dalle entità che esso dovrebbe mediare e rapportare. « Solo la vita in comune è vita vera [...]. Ma la religione dicendo: ' Dio è una vita in comune, una vita e un essere dell'amore e dell'amicizia ', enuncia questa verità, come ogni altra, in modo indiretto, facendo anche qui di una verità universale una verità particolare, e riducendo il vero soggetto a predicato. »29

L'intuizione di Rousseau qui comincia a prendere corpo. Mentre nel mondo antico il vincolo che congiunge gli uomini è particolare ma reale, cioè è una società terrena; nel cristianesimo, invece, dove la « società generale » è oltremondana, non si ha un'estensione reale del rapporto dell'uomo al genere umano,

27 Ivi, p. 26. 28 Ivi, p. 67. 29 Ivi.

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cioè una sua effettiva universalizzazione o socializzazione, ma si ha un'inversione di principio. L'unità sociale, in quanto oltremondana (e, quindi, trasformata in Dio), risulta posta al di fuori e al di sopra degli uomini, cioè presuppone la loro dissociazione atomistica; d'altra parte, in quanto quest'unità o universale — essendo posta per sé — deve acquistare un'esistenza sua propria, lo spirito divino finisce col confondersi immediatamente con la particolarità dell'individuo: che, come da un lato risulta avere il suo fondamento in esso, così da un altro ne è anche l'incarnazione sulla terra (donde la figura del Cristo come Dio-uomo e del cristiano come uomo-Dio, cioè corpo naturale in cui è racchiusa un'anima ultraterrena). « La più chiara espressione, il simbolo caratteristico di questa immediata unità di specie e individualità nel cristianesimo — scrive Feuerbach — è Cristo, il vero e proprio Dio dei cristiani. Cristo è l'immagine prima, il concetto vivente di umanità, il compendio di tutte le perfezioni morali e divine, è l'uomo puro, divino, senza peccato, con l'esclusione di tutto ciò che è negativo e imperfetto, è il concetto universale di uomo, ma non riguardato come la totalità della specie dell'umanità, bensì immediatamente come un individuo, come una persona. » 3° A sua volta, l'uomo cristiano — e, soprattutto, il cristiano del protestantesimo che, anche per Feuerbach come per Hegel, è il cristianesimo vero e proprio, cioè liberato dall'involucro mitico-fantastico e, quindi, ancora paganeggiante, in cui è impigliato invece il cattolicesimo o cristianesimo medievale — l'uomo cristiano, dicevamo, si presenta come la congiunzione del divino e del mondano, cioè come uomo della « società civile » o borghese: secondo la considerazione di Feuerbach, che « la morale protestante è il frutto del congiungimento del cristiano con l'uomo — con l'uomo naturale, politico, borghese, sociale, o come altro lo si voglia chiamare »31.

Fermiamoci qui, e cioè all'intuizione di questo incontro tra cristianesimo e « società civile » borghese, oltre la quale Feuerbach non ha mai saputo andare. Ciò che in lui è solo un'annotazione marginale, è il problema centrale in Hegel e in Marx. Le loro due grandi concezioni si misurano qui. Il loro rapporto culmina veramente nel confronto tra il discorso di Hegel sul

30 Ivi, p. 133. 31 Ivi, p. 120.

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« mondo cristiano-germanico » e l'analisi di Marx della società capitalistico-protestante.

Nel caso di Hegel, il punto di partenza ci è già noto. Dopo che l'« eticità sostanziale » del mondo antico si è rotta e divisa, sorge l'antitesi di soggettività e oggettività e, « da questo punto in poi, regno mondano e regno spirituale stanno l'uno di fronte all'altro »32. Il compito della storia del mondo è, ora, quello di superare quest'antitesi e di ricomporne gli estremi in unità. Lo Stato moderno, in altre parole, deve poter conciliare il principio della polis, cioè l'organicismo o universalità sostanziale, con il principio della singolarità e libertà soggettiva, apportato nel mondo dal cristianesimo. Il criterio a cui si deve ispirare questa conciliazione è Cristo, in quanto Dio fattosi uomo, cioè in quanto Logos infinito che è venuto anche " di qua ". « Questo ci rivela Cristo nella sua religione: la sua propria verità, ch'è quella dell'intimo umano, dev'esser messa in connessione con la divi-nità. Qui la conciliazione è compiuta in sé e per sé. Ma in quanto essa è in un primo tempo compiuta solo in sé, questa fase, a causa della sua immediatezza, comincia con un contrasto. Vero è che essa s'inizia storicamente con la conciliazione operata nel cristianesimo; ma poiché in un primo tempo anche questa è solo incipiente, e per la sua coscienza è avvenuta solo in sé, vien anzitutto in luce quell'immenso contrasto, che poi si manifesta invece come tale che non dev'essere, e che quindi è da superare. »33

In altre parole, il cristianesimo è già in sé il principio della conciliazione; solo che, immediatamente, il cristianesimo è soltanto questo principio e non ancora la conciliazione stessa attuata. Per ottenere ciò, il principio del cristianesimo deve realizzarsi; e la conciliazione dei due mondi, che nel Cristo è finora avvenuta solo in un punto, deve compenetrare l'intera realtà.

È facile qui riconoscere il tema da cui abbiamo preso a svolgere la filosofia di Hegel, all'inizio della seconda parte del nostro lavoro. Il problema della filosofia è di realizzare l'idealismo, cioè l'Idea o infinito, il Logos cristiano. L'idealismo è coerente quando esso si attua. Ma la iua attuazione implica la negazione o idealizzazione del finito e la realizzazione dell'infinito: cioè, il passaggio dell'« al di qua » di là e dell'« al di là » di qua.

32 G. G. F. HEGEL, Filosofia della storia cit., I, p. 237. 33 Ivi, p. 237.

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Questo duplice trapasso, in cui Hegel vede culminare il signi-ficato del « mondo cristiano-germanico » in quanto « assoluta conciliazione della soggettività esistente per sé con la divinità che è in sé e per sé, cioè col vero, col sostanziale »3i, è appunto ciò che egli presenta come la relazione tra religione e Stato D5. TI fondamento dello Stato è la religione, in quanto la religione è « la volontà divina » stessa: il che significa che il fondamento dell'ai di qua è nell'ai di là (« La conseguenza immediata di ciò che precede — dice Hegel — è, che l'eticità è lo Stato ricondotto alla sua interiorità sostanziale; lo Stato è lo svolgimento e la realizzazione di essa; ma la sostanzialità dell'eticità stessa e dello Stato è la religione. Lo Stato riposa, secondo questo rapporto, sulla disposizione d'animo etica; e questa, sulla religiosa. Poiché la religione è la coscienza della verità assoluta. ») D'altra parte, Val di là, che è la volontà divina contenuta nella religione, ha nello Stato e negli istituti in cui esso si articola, il suo al di qua, cioè la sua esistenza e la sua incarnazione terrena: così che si può dire che « lo Stato è volontà divina, in quanto attuale spirito esplicatesi a forma reale e ad organizzazione di un mondo »36.

Il senso di questo discorso, dall'impianto grandioso, emerge, con chiarezza e semplicità, nella sua portata storica profonda, nella lunga Anmerkung che accompagna il § 552 dell'Enciclopedia, dove Hegel contrappone la « santità » del cattolicesimo all'« eticità » protestante, mostrando la diversa concezione della spiritualità di Dio che si ha nei due casi. E infatti, mentre nel cattolicesimo Dio è concepito in modo tale che egli figura (come anche nella metafisica precritica) un oggetto esterno e, al tempo stesso, un infinito relegato nell'ai di là (donde il significato della « santità » cattolica come allontanamento e fuga dal mondo); nel protestantesimo invece (che, in quanto teologia razionale, è identificato da Hegel con la filosofia stessa) si ha l'inverso: e, cioè, non la dislocazione di Dio fuori dal mondo ma « l'intro-dursi dello spirito divino nella realtà », non la santità ma l'eti-cità. « In luogo del voto di castità, solo il matrimonio vale come etico, e quindi la famiglia come ciò che vi ha di più alto per quest'aspetto dell'uomo; in luogo del voto della povertà (a cui,

34 Ivi. 35 Per questo rapporto, sono da vedere, soprattutto, il § 552 delPE«-

cìclopedia e il § 270 della Filosofia del diritto. 36 Filosofia del diritto cit., § 270, p. 222.

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avvolgendosi in contraddizioni, corrisponde il merito del donare gli averi ai poveri, cioè l'arricchimento dei poveri), vale l'attività dell'acquistare mediante l'intelligenza e la diligenza, e la rettitudine in tale commercio e uso di ricchezze, l'eticità nella società civile; in luogo del voto dell'ubbidienza, vale l'ubbidienza verso la legge e le istituzioni legali dello Stato, che è la vera libertà, per cui lo Stato è la vera e propria ragione che si realizza: l'eticità nello Stato. » E Hegel prosegue: « Lo spirito divino deve compenetrare in modo immanente la vita mondana: così la saggezza diventa concreta in questa vita e fa che porti in se stessa la sua giustificazione. Ma quell'insidenza concreta sono le formazioni indicate dell'eticità: l'eticità del matrimonio contro la santità del celibato, l'eticità della ricchezza e del guadagno contro la santità della povertà e del suo oziare, l'eticità dell'ubbidienza da prestarsi al diritto dello Stato contro la santità dell'ubbidienza priva di diritti e di doveri, contro la santità della servitù di coscienza ».

Il senso del discorso non potrebb'essere più chiaro. Dio si realizza nel mondo. E quest'insidenza di Dio nel mondo è la sua presenza negli istituti civili e politici della società borghese moderna. Il matrimonio, la famiglia, il commercio, l'attività dell'acquistare « mediante l'intelligenza e la diligenza », cioè l'attività imprenditoriale e, infine, l'ubbidienza alle leggi dello Stato: questi, che a noi appaiono istituti storici, istituti di una determinata società, nata nel tempo e destinata a passare in esso, a Hegel appaiono (come il « pane » e il « vino » delle Jugend-schriften) come la presenza stessa di Dio nel mondo: non realtà profane ma « oggetti mistici », non istituti storici ma sacramenti.

Per strano che ciò possa sembrare, proprio questo è il punto in cui l'opera di Marx e quella di Hegel si toccano, fino a collimare per tutt'intera la loro superficie. Gli istituti del mondo borghese che Hegel considera come la realizzazione di Dio e, quindi, come le incarnazioni sensibili del sovrasensibile (l'esposizione positiva dell'assoluto), appaiono a Marx in questa stessa luce. Il Capitale (come abbiamo già ricordato all'inizio del capitolo su Marx e Hegel) parla estesamente del « carattere mistico della merce », di « tutto il misticismo del mondo delle merci, tutto l'incantesimo e la stregoneria che circondano di nebbia i prodotti del lavoro sulla base della produzione di merci ». Di più: nel definire, come era già avvenuto del resto

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in Per la critica dell'economìa politica, la merce come « una cosa sensibilmente sovrasensibile » (ein sinnlich ubersinnliches Ding), Marx precisa, nel Capitale, che, mentre « a prima vista una merce sembra una cosa triviale, ovvia », « dalla sua analisi risulta che è una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e di capricci teologici » 37.

C'è da supporre — tanto il marxismo è oggi ridotto a una cosa miserevole — che gli interpreti, nel tacere di queste pagine di Marx e delle centinaia di altre in cui egli parla del carattere di " feticcio " del capitale, abbiano voluto sottintendere che il senso da attribuire a queste espressioni fosse quello di semplici hors-d'oeuvres letterari, di figure retoriche o, addirittura, di " amorini " stilistici. In realtà, ciò di cui qui si tratta è qualcosa di così serio che, senza di esso, è difficile dire che senso più abbia il pensiero di Marx.

Come nel mondo « cristiano-germanico » Hegel vede la rea-lizzazione della verkehrte Welt già preannunciata nella Fenome-nologia; così in questo mondo, ch'è poi la società borghese stessa, Marx vede, a cominciare da quel suo istituto più semplice che è la merce, un mondo " testa in giù " che, per essere rimesso " sui piedi ", va rovesciato dalle fondamenta. La differenza è solo che, mentre nel divenire sensibile del sovrasensibile Hegel vede l'attuarsi di Dio, Marx (il quale ovviamente ragiona ormai fuori dall'orizzonte cristiano) vede il farsi presente e reale di forze alienate e estraniate dall'umanità, a cominciare dal capitale e dallo Stato stessi.

« In questo modo di produzione tutto si presenta rovesciato. »3S « Questo modo di produzione è essenzialmente cosmopolita, come il cristianesimo. Il cristianesimo è quindi la religione specifica del capitale. In entrambi non vale che l'uomo. Per l'uno tutto dipende dal fatto se egli ha la fede, per l'altro se ha credito. » '1* « La reificazione, il rovesciamento, la follia completa del capitale come capitale produttore di interesse — in cui tuttavia non appare in forma tangibile che l'intima natura della produzione capitalistica, la sua follia — è il capitale come produttore di ' interesse composto '. »40 « Per una società di produttori di merci, il cui rapporto di produzione generalmente

37 II capitale cit., I, 1, p. 84. 38 K. MARX, Storia delle teorie economiche cit., Ili, p. 497. 39 Ivi, p. 468. 40 Ivi, p. 477.

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sociale consiste nel comportarsi di fronte ai propri prodotti come merci, e dunque coma valori, e nel riferire i propri lavori privati l'uno all'altro in questa forma oggettiva come eguale lavoro umano, il cristianesimo col suo culto dell'uomo astratto, e in ispecie nel suo svolgimento borghese, nel protestantesimo, deismo, ecc., è la forma di religione più corrispondente. »4l « Nel denaro stesso, la totalità esiste come l'insieme rappresentato delle merci. La ricchezza (valore ■li scambio sia come totalità che come astrazione) esiste, dunque, individualizzata come tale, a esclusione di tutte le altre merci, per la prima volta nell'oro e nell'argento, come oggetto singolo tangibile. Il denaro perciò è il Dio tra le merci. Come oggetto isolato afferrabile con mano, il denaro può essere quindi ricercato, trovato, rubato, scoperto e la ricchezza universale può essere tangibilmente ridotta in possesso del singolo individuo. Dalla sua figura servile, nella quale esso appare come semplice mezzo di circolazione, il denaro diventa improvvisamente il Signore e Dio nel mondo delle merci. Esso rappresenta l'esistenza celeste delle merci. »i2

Ecco una serie di brevi scorci, scelti a caso tra una miriade, che possono dare un'idea di quanto reiterato e costante sia, nell'opera di Marx, il nesso tra capitalismo e cristianesimo; e quanto ribadita, in essa, la tesi che questo è un mondo sottosopra, " testa in giù ", un mondo da capovolgere e rovesciare, se lo si vuol rimettere " sui piedi ". La prima elaborazione del concetto di " equivalente ", che ci è pervenuta tra gli excerpta da James Mill e che contiene la formulazione embrionale della teoria del valore, svolge il concetto del denaro come « equivalente generale », in correlazione a quello del Cristo in quanto rappresentante dell'« uomo di fronte a Dio », di « Dio di fronte all'uomo » e, infine, dell'« uomo di fronte all'uomo»43. Il tema del nesso tra società borghese e cristianesimo è il filo conduttore, del resto, di tutta l'opera giovanile. La Questione ebraica, ad es., che contiene la prima grande analisi di Marx delle Costituzioni liberaldemocratiche uscite dalla Rivoluzione francese, è imperniata sul tema che la democrazia dell'« eguaglianza » solo « politica » o « astratta » è, nella essenza, democrazia cristiana.

È chiaro che, per la stessa ampiezza che questa tematica viene ad assumere nell'opera di Marx, rispetto a quella di tutti

41 K. MARX, Il capitale cit., I, 1, pp. 92-93. 42 Grundrisse der Kritik der politischen Oekonomie cit., pp. 132-33. 43 MEGA, I, 3, pp. 530-47.

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i suoi predecessori (Hegel non escluso), è difficile trattarne in queste poche pagine conclusive. Quella tematica si trasfonde e fa corpo, infatti, con tutta l'analisi economico-politica sviluppata nell'opera della piena maturità. E tuttavia, nell'essenziale, il problema, a cui essa sempre di nuovo mette capo, è quello del diverso rapporto tra comunità e individuo, unità e molteplicità, che sussiste nelle società " naturali " o precapitalistiche, rispetto a quello della società borghese moderna.

« Dove il lavoro è in comune, i rapporti fra gli uomini nella produzione sociale non si rappresentano come ' valore ' di ' cose '. Lo scambio di prodotti come merci è un determinato metodo dello scambio di lavoro, della dipendenza del lavoro dell'uno dal lavoro dell'altro, una determinata specie di lavoro sociale o di produzione sociale. Nella prima parte del mio scritto — Marx prosegue — ho accennato come ciò che caratterizza il lavoro basato sullo scambio privato, è che il carattere sociale del lavoro si ' rappresenta ' come ' proprietà ' delle cose — alla rovescia; che un rapporto sociale appare come un rapporto delle cose fra loro (dei prodotti, valori d'uso, merci). » "

È, in ogni senso, la chiave di tutto: dove il lavoro è in comune e dove il lavoro non è in comune. Il problema di fondo è qui. Dove il lavoro è infatti in comune, i lavori individuali sono, immediatamente, articolazioni e parti del lavoro sociale complessivo; il rapporto è quello della mano con le dita: né gli individui esistono separatamente dalla società, né il " vincolo sociale " (Marx dice: das gesellschaftliche Band) ha un'esistenza indipendente da loro; come l'unità è la molteplicità stessa correlata, così gli individui e le loro attività appaiono funzioni e articolazioni dell' attività sociale comune. Dove, viceversa, il lavoro non è in comune e i lavori individuali sono lavori privati, cioè lavori dove ciascuno decide per suo conto quanto e che cosa produrre indipendentemente da un " piano " o programma della comunità (« solo prodotti di lavori privati autonomi e indipen-denti l'uno dall'altro — dice Marx — stanno a confronto l'un con l'altro come merci »45): in questo caso, alla reciproca dissociazione o atomizzazione dei produttori tra loro, corrisponde il separarsi dell'unità sociale dagli individui stessi, cioè si realizza il paradosso di un rapporto che si pone per sé, indipenden-

44 Storia delle teorie economiche cit., Ili, p. 144. 45 II capitale cit., I, 1, p. 55.

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temente dalle entità che esso dovrebbe mediare e rapportare. Nel primo caso, « i determinati lavori dei singoli nella loro forma

naturale, la particolarità, non la generalità del lavoro, costituisce il legame sociale \_das gesellschaftliche Band] »: cioè, « qui il carattere sociale del lavoro, evidentemente, non salta fuori dal fatto che il lavoro del singolo assume la forma astratta della generalità o che il suo prodotto assume la forma di equivalente generale », perché « è la comunità, presupposta alla produzione [cors. mio], che impedisce che il lavoro del singolo sia lavoro privato e il suo prodotto un prodotto privato, e che fa apparire invece il lavoro del singolo immediatamente come funzione di un membro dell'organismo sociale »*". Nel primo caso, insomma, i lavori individuali sono immediatamente parti e aliquote del lavoro sociale complessivo nella loro stessa forma naturale di lavori « utili » o « concreti » (filare, tessere, arare, ecc.); cioè, come il lavoro sociale è qui l'insieme, il nesso dei lavori individuali stessi, così il prodotto sociale o generale non è altro che il cumulo dei valori d'uso prodotti: intendendo con quest'ultima parola i prodotti del lavoro nella loro stessa forma di oggetti fisici o naturali esteriori ".

Nel secondo caso viceversa — mancando una comunità pre-supposta che distribuisca il lavoro complessivo da compiere tra i suoi singoli membri e assegni a ciascuno ciò ch'egli deve produrre (mancando, cioè, il " piano ") — il lavoro del singolo, cioè il lavoro nella sua forma naturale di lavoro utile o concreto, « diventa sociale assumendo la forma del suo diretto opposto, la forma dell'astratta generalità » ", cioè la forma di lavoro astratto, di lavoro umano eguale indistinto; così come il suo prodotto, a sua volta, diventa prodotto sociale assumendo — entro il corpo o la forma di oggetto naturale, che esso ha, in

46 K. MARX, Per la critica dell'economia politica cit., p. 21. 47 " Valore d'uso " è, per Marx, l'oggetto naturale stesso, prodotto o

meno che sia del lavoro umano. Cfr. Il capitale cit., I, 1, p. 48: « L'uti lità di una cosa ne fa un valore d'uso. Ma questa utilità non aleggia nel l'aria. È un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, un diaman te, ecc., è quindi un valore d'uso, ossia un bene ». E cfr. Per la critica del l'economia politica cit., p. 15: « Questo esistere della merce come valore d'uso e la sua esistenza naturale tangibile coincidono ». È utile ricordare queste semplicità perché alcuni (teorici) marxisti stanno attraversando, in questo momento, un periodo di intensa polluzione fantastica intorno al " valore d'uso ".

48 Per la critica dell'economia politica cit., p. 22.

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quanto valore d'uso — la forma dell'opposto, cioè di valore: inteso, questo termine, nel senso di " coagulo " o oggettivazione di forza lavorativa umana eguale, di « cristallo di questa sostanza sociale comune » '" e, quindi, di un'oggettività immateriale, non sensibile, o, come la chiama Marx, " spettrale " (« nemmeno un atomo di materiale naturale — egli scrive — passa nell'oggettività del valore delle merci stesse »)50, che non è altro appunto se non l'unità sociale stessa ipostatizzata.

In quanto le attività individuali umane non sono immediatamente collegate tra loro, esse risultano riferibili l'una all'altra come aliquote del lavoro sociale complessivo, solo a condizione che ciascuna venga ridotta a " lavoro umano eguale ", astratto, cioè al " lavoro " così com'esso si presenta quand'è preso a prescindere dai soggetti concreti che lo esercitano: il che significa che, per valere come sociale (dato che non lo è immediatamente), il lavoro individuale qui deve negarsi e trasformarsi nel-Vopposto, cioè figurare non come lavoro individuale ma come « lavoro di nessun individuo singolo » ", come lavoro astratto (« Il tempo di lavoro rappresentato nel valore di scambio — dice Marx — è tempo di kvoro del singolo, ma del singolo indifferenziato dall'altro singolo, da tutti i singoli in quanto compiono un lavoro eguale »: « è il tempo di lavoro del singolo, il suo tempo di lavoro, ma solo come tempo di lavoro comune a tutti, per il quale è indifferente di quale singolo individuo esso sia il tempo di lavoro » '"). E qui è evidente che soggetto è, ormai, il lavoro, predicato l'uomo. Giacché, come dice Marx, « il lavoro, così misurato mediante il tempo, non appare come lavoro di soggetti differenti, bensì i differenti individui che lavorano appaiono invece come semplici organi del lavoro. Ossia il lavoro, come si rappresenta in valori di scambio, potrebbe essere espresso come lavoro generalmente umano. Questa astrazione del lavoro generalmente umano esiste nel lavoro medio che ogni individuo medio può compiere in una data società »53.

A loro volta, poiché i prodotti dei lavori individuali sono prodotti di lavori privati, accade che, per diventare sociali, essi

49 II capitale cit, I, 1, p. 55. 50 Ivi, p. 60. 51 Per la critica dell'economia politica cit., p. 80. 52 Ivi, p. 20. 53 Ivi, p. 18. Considerazioni sulla teoria del valore, che integrano

quelle svolte in questo capitolo, sono nei paragrafi 7 e 8 della nostra in troduzione a E. BERNSTEIN, Socialismo e socialdemocrazia, Bari 1968.

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debbano negarsi come valori d'uso per diventare l'opposto: cioè valori di scambio o valori, oggetti scambiabili; e, insomma, che essi si debbano negare come questa o quella cosa sensibile determinata, che sono, per figurare invece come espressioni di una identica soggettività, « espressioni di un'identica unità sociale »: in una parola, come forza lavorativa umana erogata (« I differenti valori d'uso — dice Marx — sono prodotti dell'attività di individui differenti, sono dunque il risultato di lavori individualmente differenti. Ma come valori di scambio rappresentano un lavoro eguale, indifferenziato, ossia lavoro in cui è cancellata l'individualità di chi lavora ») 5\

Il lettore che abbia avuto la forza di seguirci fin qui, può trarre tutte le deduzioni da solo. II lavoro umano " eguale " o " astratto " ci rimanda all' " uomo astratto " del cristianesimo. Il " valore ", come oggettivazione dell'unità sociale (« dove il lavoro è in comune — si ricordi Marx — i rapporti fra gli uomini nella produzione sociale non si rappresentano come ' valore ' di ' cose ' »), ci rimanda al paradosso (già esaminato trattando di Rousseau e di Feuerbach) del rapporto sociale come rapporto che si pone per sé, indipendentemente dagli individui che esso dovrebbe mediare e rapportare; e, quindi, del rapporto sociale che, ponendosi fuori e al di sopra degli individui, li domina come un padreterno, pur essendo soltanto la loro stessa forza sociale alienata, cioè estraniata da essi. Quanto poi questa estraneazione del " rapporto ", questa sua reificazione, cioè questo suo darsi un'esistenza indipendente in un oggetto naturale o valore d'uso {che figura, appunto, come « corpo » del valore), sia al centro dell'analisi di Marx, lo si può vedere dal modo in cui egli parla del denaro e ancor più, s'intende, del denaro-capitale. « Il denaro è la comunità stessa degli uomini posta come oggetto esteriore e perciò casuale 5S [ihr Gemeinwesen selbst als ein àusserliches und darum zufàlliges Ding~]. » « Das Geld ist damit unmìttelbar zug-leich das reale Gemeinwesen, insofern es die allgemeine Substanz des Bestehns fur alle ist, und zugleich das gemeinschaftltche Pro-

54 Per la critica dell'economia politica cit., p. 17. E cfr. Storia delle teorie economiche cit., Ili, p. 142: « anche la singola merce, in quanto valore, in quanto esistenza di quest'««itó [sociale], è differente da se stessa in quanto valore d'uso». E p. 143: «il valore di una merce [...] è una proprietà per la quale essa si differenzia dalla sua propria esistenza come cosa, come valore d'uso ».

65 Grundrisse der Kritik der politiscben Oekonomie cit., p. 909.

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dukt alter. Irn Geld ist aber, wie wir gesehn haben, das Gemein-wesen zugleich blosse Abstraktion, blosse àusserliche, zufàllige Sache jur den Einzelnen, und zugleich bloss Mittel seiner Be-friedigung ah eines isolierten Einzelnen. »56 E così via per mille pagine.

Infine, per riprendere il filo delle deduzioni, il lettore che abbia prestato attenzione all'affermazione di Feuerbach, secondo cui, nel cristianesimo, l'individuo « nel contempo non è individuo », perché, oltre che individuo, è l'essere universale, cioè Dio, non tarderà a riconoscere lo stesso processo nell'affermazione di Marx che, dove domina la produzione privata, il lavoro individuale « diventa sociale assumendo la forma del suo diretto opposto, la forma dell'astratta generalità »; così come non tarderà a riconoscere — vogliamo sperare — che il cristiano e la merce sono fatti allo stesso modo: corrispondendo all' " anima " e al " corpo " del primo, il " valore " e " valore d'uso " dell'altra.

Inseguiamo la nostra chimera fino all'ultimo suo rifugio. « L'oggettività del valore delle merci — scrive Marx — si distingue da Mrs. Quickly perché non si sa dove trovarla. In diretta contrapposizione all'oggettività rozzamente sensibile dei corpi delle merci, nemmeno un atomo di materiale naturale passa nell'oggettività del valore delle merci stesse. Quindi potremo voltare e rivoltare una singola merce quanto vorremo, ma come cosa di valore rimarrà inafferrabile. Tuttavia, ricordiamoci che le merci posseggono oggettività di valore soltanto in quanto esse sono espressioni di un'identica unità sociale, di lavoro umano, e che dunque la loro oggettività di valore è puramente sociale. » " Qui Marx ci ripete che la merce è una " cosa sensibilmente so-vrasensibile ", un corpo naturale (o valore d'uso) che alberga entro di sé un'oggettività immateriale: il valore. Se ciò ha un senso, questa affermazione vuol dire che — proprio come il cristiano — la merce è unità del finito e dell'infinito, unità degli opposti, essere e non-essere insieme. E, infatti, « la merce — dice Marx —

56 Ivi, p. 137. E cfr. Ver la critica dell'economia politica cit., p. 36: « Il fatto che un rapporto di produzione sociale si presenti come un oggetto presente al di fuori degli individui, e che le determinate relazioni che que sti allacciano nel processo di produzione della loro vita sociale si presen tino come qualità specifiche di una cosa, questo rovesciamento, questa mi stificazione non immaginaria, bensì prosaicamente reale, caratterizza tutte le forme sociali del lavoro creatore di valore di scambio. Nel denaro que sta mistificazione appare semplicemente più evidente che nella merce ».

57 II capitale cit., I, 1, p. 60.

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è valore d'uso, grano, tela, diamante, macchina, ecc., ma come merce allo stesso tempo non è valore d'uso »58. È e non è: la sottolineatura è di Marx. La famigerata " dialettica della materia ", con cui i russi vogliono fare il comunismo, ci si conferma qui come la logica del mondo cristiano-borghese, la logica di questo mondo invertito: secondo la mirabile intuizione di Marx, nel '44, che " la Logica " di Hegel " è il denaro dello Spirito ". II vecchio " materialismo dialettico ", ci sembra, è giudicato. E giudicato è, con esso, anche il concetto di reificazione sviluppato da Lukàcs nel '23, il concetto che oggi Marcuse commercia... a sinistra.

Facciamo un ultimo sforzo, scendendo questa volta direttamente sul terreno della teoria economica. Esiste un'antica obiezione alla " teoria del valore ", che è ripetuta da Joan Robinson e da Schumpeter, da Myrdal e da Lionel Robbins, da loro e da infiniti altri: un'obiezione a cui i marxisti non hanno mai saputo rispondere. Questa obiezione, che è l'obiezione che Samuel Bailey ha mosso a Ricardo e con la quale si è guadagnato un posto nelle storie del pensiero economico, è anche l'obiezione che Bohm-Bawerk — " il Marx della borghesia " (come si suole chiamarlo) — ha mosso al Capitale in Zum Abschluss des Marxschen Systems59: l'obiezione per cui Marx è tuttora sotto accusa di teologia e metafisica. L'obiezione è questa. Nel trattare del " valore di scambio ", che è un rapporto tra le cose scambiate e quindi un valore " relativo ", Ricardo e, dopo di lui, Marx, hanno compiuto l'errore, " tipicamente scolastico ", di supporre — dietro al valore di scambio — un valore reale, non relativo ma assoluto, cioè esistente nelle cose stesse rapportate. Ricardo e Marx, in altre parole, hanno dimenticato che — essendo un rapporto — il valore di scambio non poteva avere un'esistenza propria, non poteva essere un valore reale, esistente a differenza dei valori d'uso o " utilità " rapportate. Da qui, l'errore di entificazione scolastica del " valore ", che essi hanno compiuto.

Non interessa qui ricordare come l'asse di tutta la critica di Marx a Ricardo stia proprio nell'argomento, secondo cui « si potrebbe piuttosto rimproverare a Ricardo di aver dimenticato molto spesso questo ' valore reale ' o ' assoluto ', e di essersi

58 Per la critica dell'economia politica cit., p. 29. 59 E. BÒHM-BAWERK, Zum Abschluss des Marxschen Systems (in un

volume di scritti in onore di Karl Knies), Wien 1896, pp. 151-52, 157-58.

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soltanto attenuto al valore ' relativo ' o comparativo » 60: che è anche la linea con cui Schumpeter salva Ricardo dall'accusa di metafisico, per lasciarla in esclusiva a Marx ". Né vogliamo ora mostrare come, appunto in questo contesto di problemi, abbia le sue radici l'attuale " revisionismo " economico, il " revisio nismo " con cui Sraffa ha fatto un falò dell'analisi di Marx. Qui, quel che interessa rilevare — a parte il fatto, già noto, che i marxisti non leggono Marx — è che Marx, horribile dictu, ac cetta l'argomento che il " valore " è un'entità metafisica, e solo si limita a osservare che un'entità scolastica è qui la cosa, cioè la merce stessa, il valore, e non il concetto con cui lui, Marx, ha descritto come la merce è fatta! « Tanto il Verbai Observer quanto Bailey — scrive Marx — non hanno capito niente né del valore né dell'essenza del denaro, se considerano l'autonomizza- zione [Verselbstàndigung] del valore come un'invenzione sco lastica di economisti. Questa autonomizzazione si manifesta an cor meglio nel capitale, che da un lato può essere definito va lore in processo, e quindi, poiché il valore non esiste indipenden temente che nel denaro, denaro in processo, denaro che percorre una serie di processi nei quali si conserva, che parte da se stesso e ritorna a se stesso in/ quantità accresciuta. Che il paradosso della realtà *tNB questo!]" si esprima anche in paradossi verbali che contraddicono al buon senso umano, a ciò che il volgo crede e pensa, è naturale. Le contraddizioni dovute al fatto che, sulla base della produzione delle merci, il lavoro privato si rappre senta come lavoro generalmente sociale, che i rapporti fra le per sone si rappresentano come rapporti fra cose e come cose — que ste contraddizioni sono inerenti alla realtà, non all'espressione* scolastica della realtà. » 62 '-•—*«» - ^

Questa società delle merci e del capitale è, dunque, la metafisica, il feticismo, il " mondo mistico ": essa, ben prima che la Logica stessa di Hegel! Si obietterà che ciò non significa niente. Se infatti l'oggettività del valore è un'oggettività immateriale, questa oggettività non esiste, proprio come non esiste l'anima immortale del cristiano. Ammettiamolo (e tanto più volentieri, dal momento che chi scrive è un materialista " che non si vergogna "). « Quando parliamo della merce come materializzazione

60 K. MARX, Storia delle teorie economiche cit., II, p. 21. 81 Cfr. J. A. SCHUMPETER, Storia dell'analisi economica, Torino 1959, II, pp. 725-26.

62 K. MARX, Storia delle teorie economiche cit., Ili, p. 153.

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del lavoro — nel senso del suo valore di scambio —, con ciò intendiamo — scrive Marx — unicamente un modo di esistenza della merce immaginario, cioè puramente sociale, che non ha niente a che fare con la sua realtà corporea. » 63

Un'esistenza immaginaria e tuttavia sociale! Proviamoci a ra-gionare questo concetto in modo più ardito e più semplice. Se diciamo che il re o anche il presidente rappresentano l'unità nazionale o la sovranità popolare, in un certo senso può venire da ridere. Si sa che, da questo punto di vista, non rappresentano niente. E tuttavia quanti lo sanno? Lo sanno — ammettiamolo — quattro comunisti " non costituzionali ". Ciò non toglie, però, che tutto funzioni oggettivamente come se i sunnominati rappresentassero veramente qualcosa. Lo stesso dicasi per 1' " anima " del cristiano. Sfugge ai sensi, e tuttavia milioni di uomini si muovono come se fosse una presenza reale. Questo " come se " — è proprio il caso di dirlo — è, questa volta, un fatto sociale oggettivo e reale.

Concludiamo questo discorso che non finisce mai di finire. Il lettore capisce, anche dai brevi cenni fatti, che la " teoria del valore ", o, più semplicemente, l'analisi stessa della merce — quell'analisi che si trova nelle primissime pagine del Capitale — non è che si possa dire che abbia avuto una gran fortuna presso i marxisti; non è che si possa dire che sia stata proprio veramente capita. Prova ne sia il silenzio da cui la teoria del feticismo o alienazione è stata sempre avvolta, da Engels in poi. Quale la ragione? La merce, e più ancora — s'intende — lo Stato e il capitale, sono processi di ipostatizzazione reali. Ora la nostra tesi è che, essendo quelle realtà così fatte, sia impossibile intenderle appieno fino a che non si sia intesa la struttura dei processi di ipostatizzazione della Logica di Hegel. In altre parole, la critica di Marx alla dialettica di Hegel e l'analisi del capitale si tengono. Mancando di capire la prima, è impossibile capire anche la seconda.

Questo è un punto, del quale noi siamo stati sempre convinti, anche se ci è riuscito sempre difficile provarlo. Ora, il rin-

03 K. MARX, Teorie sul plusvalore, a cura di G. Giorgetti, Roma 1961, I, p. 294. Citiamo le Teorie sul plusvalore in questa edizione, anziché in quella utilizzata finora (Storia delle teorie economiche), per ricordare qui la bella traduzione di Giorgetti e il suo ampio saggio introduttivo.

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graziamento che dobbiamo a Rancière 6", che per il resto lo ha interpretato assai male, è di aver attratto la nostra attenzione su un testo di Marx — Die Wertform — che ne è la riprova.

Leggiamolo. « All'interno della relazione di valore e del-l'espressione di valore in essa contenuta, l'universale astratto — scrive Marx — vale non come qualità del concreto, sensibilmente reale, ma al contrario il concreto-sensibile vale come pura e semplice forma fenomenica o forma determinata di realizzazione dell'universale astratto. Il lavoro del sarto, che si trova ad es. nell'equivalente vestito, non possiede, entro la relazione di valore della tela, la qualità generale di essere anche lavoro umano. Al contrario. Essere lavoro umano è la sua propria natura; essere lavoro del sarto è solo la forma fenomenica o forma determinata di realizzazione dì questa sua natura. Questo quid prò quo è inevitabile, poiché il lavoro rappresentato nel prodotto del lavoro è creatore di valore solo in quanto è lavoro umano indistinto; così che il lavoro oggettivato nel valore di un prodotto non sì distingue affatto dal lavoro oggettivato nel valore di un altro prodotto. » E Marx conclude: « Questo totale rovesciamento, per cui il concreto-sensibile conta solo come forma fenomenica dell'universale-astratto, e non al contrario Puniver-sale-astratto come qualità del concreto, caratterizza l'espressione di valore. È questo che rende difficile la sua comprensione. Se io dico: diritto romano e diritto tedesco sono ambedue diritti, questa cosa è ovvia. Se io dico invece: il diritto, questo astratto, sì realizza nel diritto romano e nel diritto tedesco, questi concreti diritti, ne viene fuori una connessione mistica »65.

Die Wertform fu aggiunta da Marx alla prima edizione del Capitale, mentre l'opera era già in corso di stampa. È un fatto incontrovertibile che la pagina, che ne abbiamo tratto, riproduce alla lettera gli argomenti con cui Marx ha criticato per la prima volta la dialettica di Hegel nella giovanile Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico o, come a volte l'abbiamo anche chiamata, Critica del diritto statuale hegeliano. L'universale astratto, che dovrebb'essere il predicato, cioè la " qualità del concreto o sensibile ", diviene il soggetto, un'entità esistente per sé; " al

64 J. RANCIÈRE, Le concept de critique et la critique de l'economie politique des « Manuscrits » de 1844 au « Capital », in L. ALTHUSSER e AA.W., Lire le Capital, Paris 1965, I, pp. 137-38.

65 K. MARX, Scritti inediti di economia politica, a cura di M. Tronti, Roma 1963, p. 144. Traduzione lievemente modificata.

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contrario, il concreto-sensibile vale come pura e semplice forma fenomenica dell'universale astratto ", cioè vale come predicato del suo predicato così sostantificato. Questo rovesciamento, questo quid prò quo, questa Umkehrung, che, secondo Marx, presiede alla Logica di Hegel, presiede anche, e ben prima di essa, ai meccanismi " oggettivi " di questa stessa società, a cominciare già dal rapporto di " equivalenza " e dallo scambio delle merci. Da qui l'impossibilità, non avendo penetrato la prima critica, di intendere anche la seconda; e, in genere, l'incapacità, in cui il marxismo si è trovato finora, di " decifrare ", non dico il problema del rapporto tra il primo e il terzo Libro del Capitale, ma gli stessi elementi più semplici della " teoria del valore ", così come essi sono sviluppati nelle primissime pagine dell'opera. « L'acrisia, il misticismo — scrive Marx — è sia il mistero della filosofìa hegeliana che Venigma delle moderne costituzioni» (OFG, 115). « Astratta è certo questa veduta » — aggiunge egli a commento di Hegel — « ma è 1" astrazione ' propria dello Stato politico, quale Hegel stesso lo deduce. Atomistica essa è anche, ma è l'atomismo della società stessa. La ' veduta ' non può essere concreta quando 1'' oggetto ' di essa è ' as t ra t to '» (OFG, 110). Quindi, « non è da biasimare Hegel perché egli descrive l'essere dello Stato moderno tale qual è », ma, semmai, « perché spaccia ciò che è come l'essenza dello Stato » (OFG, 90).

È, palesemente, un modo nuovo di ragionare, un modo che impone una radicale emendatio della vecchia mentalità " filosofica ". Non si tratta di contrapporre astrazioni " determinate " a astrazioni " indeterminate ", una logica " corretta " a una logica " scorretta ": la metodologia è la scienza dei nullatenenti. Ma si tratta di capire che, come i problemi della gnoseologia critica, ragionati fino in fondo, ci immettono nella dimensione, totalmente nuova, dei " rapporti sociali di produzione "; così, la critica dei processi di ipostatizzazione ha avuto, in Marx, il suo luogo vero e reale nella critica degli istituti economico-politici della società borghese moderna.

Le vere " astrazioni indeterminate " — posto che così si debbano ancora chiamare — sono il capitale, il plusvalore, il profitto, l'interesse, lo Stato ecc. Se non si compie questo progresso, è inevitabile che, nella teoria del " valore " e in quella dello Stato, si resti dall'altra parte. Cioè, se non prima e al di là del " marxismo ", certamente prima e al di là di Marx.

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INDICI

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INDICE DEI NOMI

Adler, Max, 349 n. Adorno, Theodor Wiesengrund,

332 e n, 333 e n, 334. Aliotta, Antonio, 317 n. Aloisi, Massimo, 164 n. Althusser, Louis, 433 n. Aristotele, 53, 57, 58 n, 80, 94, 96,

125, 142, 143, 166, 168, 169, 223, 278, 313, 397, 405, 408 e n, 416. Arnaud, Eraldo, 90 n.

Bacone, Francesco, 138, 204, 243, 333, 385. Badaloni, Nicola, 261 n.

Bailey, Samuel, 430, 431. Bauer, Bruno, 90, 91, 97, 118. Bergson, Henri, 311, 317 e n, 318,

319, 320 e n, 321, 323 e n, 324, 325, 330, 337, 342, 349, 372.

Bernard, Claude, 139 n. Bernstein, Eduard, 349 n, 427 n. Belinskij, Vissarion Grigorevic,

89 n. Bobbio, Norberto, 15 n, 300 n. Bohm-Bawerk, Eugen von, 430 e n. Bòhme, Jacob, 21 n, 196, 326. Botkin, Vassilij Petrovic, 89 n. Bouelles, Charles, vedi Bovillus. Bovillo, vedi Bovillus. Bovillus, Charles, 389, 390 e n,

392, 393 e n, 394 e n, 395 e n, 396 e n, 397 e n, 399. Bucharin,

Nicolaj Ivanovic, 110. Bulgachov, Sergej Nikolaevic, 169.

Carlini, Armando, 79 n. Carlyle, Thomas, 343. Cameade, 231 n. Carr, Edward H., 401. Cartesio, vedi Descartes. Casanova, G. Giacomo, 105. Cassirer, Ernst, 55 e n, 56 n, 59, 60 n,

268 e n, 269, 270, 271 e n, 389 e n, 391 e n, 393 e n, 394 e n, 396 n.

Codignola, Ernesto, 36 n. Cognot, Georges, 105. Comte, Auguste, 140 n. Constant, Benjamin, 416 e n. Conti, Elio, 135 n. Cornu, Auguste, 91 n, 97 n. Croce, Benedetto, 6 n, 37, 67, 68 n,

141, 173 n, 278, 300 e n, 303 e n, 308, 309 n, 310, 311 e n, 317 e n, 321, 327, 353, 372.

Cunow, Heinrich, 339. Cusano, Niccolò, 391, 396, 397.

D'Alembert, Jean Baptiste, 272. Dal Pra, Mario, 282 n. Della Volpe, Galvano, 4 n, 22 n,

31 n, 47 n, 58 n, 74 n, 87 n, 101 n, 139 n, 169 n, 231 n, 264, 282 n, 401, 402. Democrito, 156,

168. De Negri, Enrico, 6 n, 173 n. Descartes, René, 9 n, 81, 93, 177,

178, 202, 211, 301, 304, 305, 352. De Vries, Hugo, 321. Dietzgen, Joseph, 164.

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Dilthey, Wilhelm, 309, 325, 327. Dobb, Maurice, 104 n, 106, 149,

157, 159 n. Diihring, Karl Eugen, 102.

Engels, Friedrich, 65 e n, 88, 89 e n, 91 e n, 92 e n, 93, 97, 98, 99, 100, 101, 102, 103, 104, 105, 106, 108, 109, 110, llln, 127, 134 n, 135 n, 138 n, 142, 158, 162, 164, 166, 169, 179, 186 e n, 188, 190, 203 e n, 204 e n, 205 e n, 206, 207, 208 e n, 210, 212 e n, 213, 218, 223, 244, 245 n, 246, 249 n, 260 n, 261, 263 e n, 264, 292 n, 319, 320, 321, 322 e n, 337, 349 e n, 350, 351, 354, 355, 373 e n, 374 e n, 432.

Epicuro, 231, 237. Epimenide, 291. Eraclito, 80, 205.

Faber, Stapulensis, vedi Lefèvre d'Etaples.

Fetscher, Iring, 334 n, 336, 350 n. Feuerbach, Ludwig, 9 n, 10 n, 14,

15 n, 22 n, 27 e n, 58 n, 67 n, 71 n, 73, 74 e n, 78, 81, 91 e n, 92 e n, 93 e n, 96 e n, 121, 164, 166, 167, 177 n, 178, 219, 220 n, 223, 227 n, 228 n, 249 e n, 250 e n, 270, 275, 311, 365 e n, 367, 378, 379 e n, 380, 381 e n, 382, 404, 417 e n, 418, 419, 428, 429.

Fichte, Johann G., 7, 337. Ficino, Marsilio, 239, 391, 396. Fogarasi, Béla, 139 n, 140 n, 141 n. Fustel De Coulanges, Numa-Denis,

404.

Galilei, Galileo, 41, 207, 213, 243, 340, 341, 372. Gans, Eduard, 97.

Garaudy, Roger, 105. Garin, Eugenio, 156 n, 389 e n,

390, 391 e n, 392 e n, 393 e n, 394 n, 395 e n, 397. Gentile,

Giovanni, 45, 46 n, 312 e n, 313, 353, 415.

Geymonat, Ludovico, 246 n. Gide, André, 102. Giorgetti, Giorgio, 432 n. Goethe, Johann Wolfgang, 99,

269. Goldmann, Lucien, 337 e n, 338. Gramsci, Antonio, 97, 110, 111 n,

165, 201 n.

Heidegger, Martin, 79 e n, 324, 326, 327 n, 328, 330 n, 331, 332, 337, 370, 397. Heine, Heinrich,

92 e n, 93. Herzen, Aleksandr Ivanovic, 89 n,

90 n, 91 n, 93 n. Hobbes, Thomas, 333. Holderlin, Friedrich, 90 n, Horkheimer, Max, 332 e n, 333

e n, 334, 336. Hume, David, 58 n, 65, 234, 240,

246 e n. Husserl, Edmund, 332. Hyppolite, Jean, 233 n.

Ilenkov, Evald Vasilievic, 134 n.

Jacobi, Friedrich Heinrich, 8 n, 10 n, 13, 189, 202, 248, 277, 300 e n, 301 e n, 302, 303, 304, 305 e n, 306, 307 e n, 308, 309 e n, 310, 311, 317, 320, 321, 322, 358, 359, 363, 372 e n.

Jankélévitch, Vladimir, 319 e n. Jaspers, Karl, 107, 248 e n, 330 n. Jenny, E., 356 n.

Kant, Immanuel, 45, 46 e n, 47 e n, 48, 49, 50 e n, 53, 54, 56 n, 58 e n, 59 e n, 60, 61, 62, 63, 64, 65, 67 e n, 77, 80, 81, 167, 168, 200, 202, 207, 215, 217, 218, 220, 222 n, 228 n, 245, 246, 248, 251, 252, 253, 254, 255 n, 256, 257, 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 267, 270, 271, 272 e n, 273, 275, 276, 278, 279, 282, 299, 300, 302, 304, 305, 306, 307, 309, 310, 313, 332 e n, 333, 340, 344, 345, 346 e n, 347, 350, 355, 358,

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360 e n, 361, 362 e n, 363, 370 e n, 371, 372, 374, 375, 376 e n, 377 n, 416 e n. Kautsky, Karl,

291, 339, 354. Keplero, Johannes, 41, 207, 340. Kierkegaard, Soren, 248. Knies, Karl, 430 n. Kojève, Alexandre, 21 n, 224 e n,

252, 313, 314 e n, 315, 349. Korsch, Karl, 338, 353 n.

Laberthonnière, Lucien, 312. Labriola, Antonio, 97, 109, 110,

336. Lamettrie, Julien Ofiroy de, 310. Lange, M. G., 91 n. Lask, Emil, 337. Lefebvre, Henri, 105, 122. Lefèvre d'Etaples, Jacques, 397. Leibniz, Gottfried Wilhelm, 9 n,

46, 47, 48, 81, 177, 178, 199, 201, 251, 254, 255, 258, 259, 260, 301, 346.

Lenin, Nikolaj (pseud. di Vladimir Il'ic UPjanov), VII, 36 n, 53, 103, 128 n, 148 e n, 149, 150, 151, 152, 153, 154, 155, 156, 157, 160, 161, 162, 163, 164, 165, 166 e n, 167, 168, 169, 179, 188 e n, 189, 190, 213, 222, 223 n, 244, 245 e n, 246 e n, 251, 252 n, 263, 322 e n, 337, 354, 355.

Lepescinskaja, Olga B., 164. Locke, John, 204. Lombardi, Franco, 317 n. Lombardo Radice, Giuseppe, 46 n. Lowith, Karl, 94 n, 227 n, 229 n,

267, 364 n. Lucrezio, 6. Lukàcs, Gyorg, 80, 90 e n, 92 e n, 98 n, 99, 119, 120, 218, 220, 221 n, 222 n, 223 n, 227 n, 228 n, 232, 233 e n, 246 e n, 252, 264, 270, 290, 299, 307, 326, 327, 328 e n, 334 e n, 335 e n, 337, 338 e n, 339, 340 e n, 341, 342 e n, 343 e n, 344 e n, 345, 346, 347, 348, 349, 350, 351 e n, 353 e n, 354 e n, 355, 356 n,

367, 368 e n, 369, 370, 372, 374 e n, 430. Luporini, Cesare,

217 e n, 218 e n, 219, 220, 262 e n, 263.

Luxemburg, Rosa, 291. Lysenko, Trofim Desinovic, 164.

Mach, Ernst, 36. Machiavelli, Niccolò, 333. Malebranche, Nicolas de, 81, 197,

352. Mandel, Ernest, 291. Mandeville, Bernard de, 333. Mannheim, Karl, 336. Marcuse, Herbert, 224, 225 e n,

226, 227, 228 n, 229, 239, 240 e n, 241, 242 e n, 243, 252, 270, 324, 325, 334, 336, 349, 430.

Martinetti, Piero, 59 n. Maupertuis, Pierre Louis M., 272. Mayer, Gustav, 89 n, 91 n, 92 n. Mazzone, Alessandro, 96 n. Mehring, Franz, 90 n, 91 n. Merker, Nicolao, 98 n, 321 n. Merleau-Ponty, Maurice, 350. Messineo, Francesco, 408 n. Michelet, Ludwig, 10 n. Mill, James, 296 n, 297 n, 424. Mill, John Stuart, 131, 138. Moni, Augusto, 6n, 20 n, 39, 41,

278. Montalenti, Giuseppe, 164 n. Myrdal, Gunnar, 362 e n, 430.

Napoleone, 90 n. Newton, Isaac, 140 n, 207, 213,

272. Novalis (pseud. di Friedrich L.

von Hardenberg), 317.

Omero, 332. Ostwald, Wilhelm, 140 n. Oswald (pseud. di Engels), 89 n.

Parmenide, 189, 233 n, 311. Petty, William, 159. Pico della Mirandola, Giovanni,

389 e n, 390, 391 e n, 392, 393, 394, 395 e n, 396 e n, 397.

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Pietranera, Giulio, 159 n. Pitagora, 397. Platone, 18, 95, 169, 239, 405, 409,

410. Plechanov, Georgij Valentinovic, 108,

179, 187 ' e n, 213, 246, 291 e n, 321 e n, 337, 339, 354.

Plotino, 326. Pohlenz, Max, 404. Prenant, Marcel, 105. Preti, Giulio, 156 e n. Proclo, 94 e n. Proudhon, Pierre-Joseph, 107, 144. Purpus, Wilhelm, 233 n.

Quintiliano, Marco Fabio, 104.

Rancière, Jacques, 433 e n. Rathenau, Walther, 331 e n. Ricardo, David, 135, 159, 430, 431. Rickert, Heinrich, 309, 326 e n,

328, 337, 339 e n, 343, 344 e n, 349. Robespierre, Maximilien de,

333. Robbins, Lionel, 430. Robinson, Joan, 362 e n, 363, 430. Rodbertus, Karl, 133. Rosenkranz, Karl, 355 n, 356 n. Rosenthal, M. M., 105. Rossi, Mario, 87 n, 270 n. Rossi, Pietro, 328 n, 329 n. Rousseau, Jean-Jacques, 116 e n,

275, 410, 411 e n, 412, 413, 414, 418, 428. Ruge,

Arnold, 97. Ruskin, John, 343.

Saint-Just, Louis Antoine, 333. Sanna, Giovanni, 36 n. Sartre, Jean-Paul, 241 n, 337, 342. Scaravelli, Luigi, 377 n. Schaff, Adam, 108 e n, 109. Schelling, Friedrich, 7, 13, 15,

21 n, 77, 78, 80, 88, 178, 220, 221, 233, 246, 265, 307, 317, 325, 337, 369, 370. Schiller,

Friedrich, 356 n. Schmidt, Conrad, 339, 349 n. Schulze, Hermann, 231 n, 234,

267.

Schumpeter, Joseph A., 113, 141 e n, 148 e n, 149, 430, 431 e n. Sesto,

Empirico, 231. Simmel, Georg, 322 e n, 323, 328,

329 e n, 349. Smith, Adam, 295. Snell, Bruno, 403. Socrate, 96, 313. Sofocle, 410. Solmi, Renato, 90 n. Spencer, Herbert, 153. Spinoza, Benedetto, 16, 41 n, 81,

82, 178, 193, 194, 195, 196, 197, 200, 201 e n, 212, 228 n, 246 n, 301, 302, 304, 311, 312, 352.

Sraffa, Piero, 431. Stalin (pseud. di Josif Vissariono-

vic), 315 e n. Stenzel, Julius, 169 e n. Stirner, Max (pseud. di Johann

Caspar Schmidt), 250. Strauss, David Friedrich, 91 e n,

97. Talete, 312. Teissier, Pierre, 105. Tònnies, Ferdinand, 340. Torricelli, Evangelista, 372. Trendelenburg, Friedrich Adolf,

270. Tronti, Mario, 433 n. Tugan-Baranovskij, Michail Ivano-

vic, 169.

Van Der Meule, J., 79 n. Viano, Carlo Augusto, 408 n. Vico, Giambattista, 141. Vidari, Giovanni, 47 n. Vittorino da Feltre, 397. Vorlander, Karl, 103.

Wagner, Adolf Heinrich, 130, 133. Weber, Max, 344. Wilamowitz, Mollendorff, Ulrich

von, 403. Windelband, Wilhelm, 325 e n,

326. Wolff, Christian von, 15, 46, 77, 79, 80, 201 n, 251.

Zenone d'Elea, 108, 233 n.

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INDICE DEL VOLUME

Avvertenza VII

PARTE PRIMA

I. La teoria hegeliana della mediazione 3 IL Senso e intelletto 35 III. Ragione e intelletto 67 IV. Hegel nella storia del pensiero 77 V. Engels e Hegel 87 VI. Marx e Hegel 112 VII. Lenin e Hegel 147

PARTE SECONDA

I. Hegel e la « dialettica della materia » 173 IL Hegel e Spinoza 193 III. Il materialismo dialettico e Hegel 203 IV. Hegel e la « Widerspiegelungstheorie » 215 V. Hegel e lo scetticismo 231 VI. Scepsi verso la materia e scepsi verso la ragione 247 VII. Cassirer su Kant e Hegel 267 Vili. Kant, Hegel, Marx 275 IX. Hegel e Jacobi 299 X. Da Bergson a Lukàcs 317 XI. Il concetto di « rapporti sociali di produzione » 357 XII. Idea della società « cristiano-borghese » 403

Indice dei nomi 437

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Finito di stampare nel marzo 1969 nello stabilimento d'arti grafiche Gius. Laterza & Figli - Bari - 1057