classi sociali e rappresentanza degli interessi · le classi sociali negli anni ’80 (bari, later...
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Rassegna bibliografica
Classi sociali e rappresentanza degli interessiL’ipotesi di Sylos Labini
di Paolo Pezzino
Quale la chiave di lettura più appropriata per l’ultimo lavoro di Paolo Sylos Labini, Le classi sociali negli anni ’80 (Bari, Laterza, 1986)? Il libro richiama, nel titolo, il noto Saggio sulle classi sociali, pubblicato nel 1974, ma se ne distacca fondamentalmente per il carattere: mentre il Saggio forniva un’analisi concentrata su un solo caso, quello italiano, ruotante attorno al problema di una ricostruzione della stratificazione sociale dall’Unità in poi, qui ci troviamo di fronte ad un’ampia sintesi relativa alle grandi linee evolutive della società contemporanea nella sua dimensione planetaria.
Se così la prospettiva viene ampliata rispetto al Saggio, e lo sforzo richiama casomai altri più recenti lavori dell’autore, necessariamente ne risulta un certo appiattimento dell’indagine in termini di profondità della visione: nonostante le ampie competenze e le “buone letture” di Sylos Labini, non sempre i materiali utilizzati presentano quei caratteri di omogeneità e novità propri di una ricerca di prima mano, né quella carica polemica che rappresentava uno degli aspetti più stimolanti del Saggio sulle classi sociali (del quale, anche rileggendolo a distanza di più di dieci anni, non si può non apprezzare il vigore della polemica, sostenuta da una rigorosa argomentazione critica).
Qui Sylos Labini utilizza fonti diverse, da annuari statistici di vari paesi, a studi del- l’International Labour Office di Ginevra e della Banca Mondiale, nel tentativo di deli
neare linee evolutive delle società contemporanee, raggruppate secondo quattro fonda- mentali tipi di struttura socio-economica: paesi capitalistici avanzati (Europa occidentale, Nord-america, Australia e Nuova Zelanda, Giappone); paesi capitalistici relativamente arretrati (paesi latinoamericani, altri paesi capitalistici relativamente arretrati); paesi del socialismo reale (Unione Sovietica, Europa orientale, Cina); paesi a struttura sociale composita (in pratica tutti i rimanenti). Le osservazioni dell’autore si concentrano, tuttavia, soprattutto sui primi tre gruppi.
Secondo l’autore il problema delle classi sociali si presenta con particolare vigore soprattutto là dove esiste un’eredità dell’epoca feudale, cioè in Europa o in quei paesi dove sono state importate varianti del feudalesimo, come quelli latinoamericani (qui “continuò a valere come norma l’attribuzione di tutte le terre al sovrano, o a coloro che, nel processo di colonizzazione, venivano a prendere il posto dei vassalli e dei valvassori” , p. 120): unica eccezione il Giappone, dove lo sviluppo capitalistico è stato caratterizzato da una sottolineatura della grandezza nazionale e della potenza militare che, nonostante una radicata tradizione feudale, hanno cementato classi alte e basse.
Nelle società europee si è dispiegato, negli ultimi tre secoli, un processo di democratizzazione, definito come ricerca di libertà e tendenza all’eguaglianza, che, dopo aver
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trovato nella rivoluzione francesce un momento fondamentale di realizzazione, è continuato collegandosi allo sviluppo economico ed alla ascesa di nuove classi sociali, la borghesia, la classe operaia, le classi medie (mentre declina la consistenza e il peso politico dei proprietari fondiari). È una tendenza che viene interrotta dal fascismo, del quale Sylos Labini sottolinea il carattere di reazione violenta dei ceti medi davanti agli sconvolgimenti della guerra ed alla paura della rivoluzione bolscevica, giudicando cronologicamente successivo il sostegno di agrari ed industriali, e negando che tra questi ultimi e fascismo vi fosse un’alleanza organica.
Dopo la guerra il processo di democratizzazione riprende, sostenuto dalle tendenze strutturali delle società a capitalismo avanzato, così riassumibili: i contadini proprietari ed i salariati agricoli sono in netta flessione e in alcuni paesi stanno scomparendo; avanzano le classi medie urbane, e tra queste soprattutto aumentano impiegati privati e pubblici; tende a diminuire, in termini assoluti o relativi, la classe operaia. Su queste tendenze, che rappresentano una definitiva smentita delle previsioni di Marx (non solo per quel che riguarda il bipolarismo, ma per il catastrofismo caratterizzante la sua analisi del capitalismo: si veda a tal proposito tutto il capitolo 13), si innescano conflitti che sempre meno hanno la caratteristica di conflitti di classe: nei paesi dell’Europa occidentale essi diventano prevalentemente economici, mentre negli Stati Uniti hanno sempre avuto carattere di conflitto etnico (ma la società americana, secondo l’autore, ha sempre rivelato grandi capacità di assimilazione, che le hanno consentito di preservare l’originario stampo liberaldemocratico di origine anglosassone e di avanzare sulla strada della democratizzazione), ed in Giappone ha prevalso una linea di sviluppo industriale fondata sul paternalismo e la tendenziale concordia tra lavoratori e datori di lavoro che,
ripristinata dopo la guerra la libertà sindacale ed estirpati i tratti militaristici e reazionari dello sviluppo giapponese, ha assicurato a quel paese un livello di conflittualità molto basso.
Alcune delle tendenze sopra menzionate sono riscontrabili anche nei paesi a socialismo reale, dove è possibile individuare fenomeni di incremento degli impiegati, di esodo agrario e progressiva terziarizzazione dell’economia; ma il sistema socialista, nella versione sovietica, soffre di un limite insito nella sua stessa costituzione, la rigidità del sistema produttivo (oltre ovviamente alla nota mancanza di libertà). Non che questo limite sia di per sé insuperabile: da un punto di vista teorico il socialismo è caratterizzato, secondo Sylos Labini, dall’abolizione del mercato del lavoro, ma non necessariamente di quello dei prodotti (e infatti in Urss la domanda è relativamente libera, l’offerta controllata, ma non esclusivamente monopolistica): perciò un ampio decentramento produttivo, che permetta l’ingresso-uscita delle imprese dal mercato dei prodotti sarebbe compatibile con il sistema e non determinerebbe automaticamente il ripristino della proprietà privata dei mezzi di produzione. Ma sull’effettiva capacità dei dirigenti sovietici di affrontare la sfida che proviene dalle esigenze dello sviluppo economico Sylos Labini nutre seri dubbi, anche se temperati dalle speranze dell’avvento al potere di Gorba- ciov (si veda la nota 16).
Più aperta la situazione cinese, per il minor peso assegnato dai dirigenti di quel paese alPindustria pesante e di base, anche negli anni in cui fu adottato un modello di tipo sovietico (1949-1952). Dopo la parentesi egualitaria della rivoluzione culturale, che ha avuto conseguenze negative anche sull’economia, con la riforma dell’ottobre 1984 la Cina sembra avviarsi verso una più decisa decentralizzazione dell’economia e, non dovendo affrontare, a differenza dell’Unione Sovietica, il problema della molteplicità di
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nazionalità presenti nella compagine statale, è verosimile un suo avvio più deciso, rispetto a quest’ultima, anche sul terreno delle libertà civili.
Sylos Labini passa quindi ad analizzare il così detto Terzo Mondo: solo qualche cenno sui paesi africani a struttura tribale, per rilevare come essi, con un mercato dei prodotti molto limitato e un mercato del lavoro pressoché inesistente, se non in limitate aree di piantagioni o nelle miniere, non possano essere considerati capitalistici, ed i conflitti vi si svolgono secondo linee di divisione etnica o tribale (un’ulteriore riprova, secondo l’autore della scarsa validità interpretativa della tesi di Marx ed Engels secondo cui la storia dell’umanità è una storia di lotta di classi). Struttura sociale relativamente simile ai paesi capitalistici hanno invece i paesi latinoamericani: tuttavia le condizioni storiche dello sviluppo di quei paesi (colonizzazione, scomparsa di terre libere, estendersi del sistema dei latifondi e delle piantagioni, scarsa presenza di un ceto di contadini-proprietari e debole sviluppo dell’industrializzazione), hanno prodotto un’espansione abnorme del settore dei servizi e dei ceti medi (qui Sylos Labini riprende alcune analisi già esposte nel suo libro su II sottosviluppo e l ’economia contemporanea, Bari, Laterza, 1983): la crisi economica, dovuta all’eccessiva vulnerabilità di una produzione di materie prime o prodotti agricoli scarsamente differenziata e orientata verso l’esportazione, ha coinvolto pesantemente le classi medie, una parte delle quali (composta soprattutto da intellettuali) ha abbracciato ideologie marxiste leniniste o intrapreso la via del terrorismo di destra, provocando per reazione una richiesta di sicurezza e di protezione che ha trovato sbocco nel sostegno concesso da buona parte delle classi medie a governi militari e dittatoriali, i quali si sono però rivelati incapaci di affrontare le ragioni strutturali della crisi. Sylos Labini rileva che “il subcontinente latinoamericano è diventato un grande
e drammatico laboratorio, dove sono stati tentati tutti gli esperimenti di politica generale e di politica economica — marxismo-leninismo, liberismo, statalismo di tipo protezionistico e staliniano di tipo keynesiano — con risultati ... negativi se non addirittura catastrofici” (p. 136). L’auspicio è che ci si stia avviando, sull’esempio di paesi come l’Argentina, verso la strada delle riforme e di un patto tra il governo e le parti sociali.
Quest’ultima considerazione ci riporta alla domanda iniziale: quale la chiave di lettura più corretta per quest’ultimo lavoro dell’economista romano? Dovrebbe apparire evidente, dall’esposizione che ho fatto dei contenuti del volume, che esso mal si presta ad esercitazioni interdisciplinari fra storici ed economisti. L’analisi resta su terreni troppo generali per consentire agli storici interventi di merito: tutt’al più questi potrebbero notare che l’utilizzazione di categorie come feudalesimo e capitalismo sempre meno garantisca il riferimento ad un quadro sufficientemente omogeneo e uniforme che rappresenti un contesto generale euristica- mente significativo entro il quale collocare l’analisi dei singoli casi. Non è casuale che definizioni come “borghesia”, “aristocrazia”, “classe operaia”, lascino il campo, nelle più recenti tendenze storiografiche, ad analisi più sfumate, che rivelano una tal varietà di casi, una così consistente presenza di ceti di frontiera scarsamente delimitabili in una di quelle grandi classificazioni, un intreccio tra “vecchio” e “nuovo” in combinazioni sempre varie ed originali così fitto, che serio è l’imbarazzo degli studiosi quando devono cercare di ricondurre ad una trama unitaria la varietà dei dati socio-culturali che emerge dalle ricerche “sul campo”.
Potrebbero inoltre ricordare, gli storici, come la considerazione del fascismo come reazione di ceti medi alla paura bolscevica riprende interpretazioni già in passato avanzate e recentemente ripresentate, ad esempio
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dalla storiografia tedesca, che tendevano ad enfatizzare il ruolo della piccola borghesia nell’ascesa dei regimi fascisti, sulle quali si è sviluppata un’ampia discussione che dovrebbe forse indurre ad una maggiore prudenza nel presentare interpretazioni globali eccessivamente unilaterali di fenomeni complessi come quelli in questione.
Ma credo che questo non sia il terreno più adatto per giudicare il libro di Sylos Labini, il cui limite, l’eccessiva genericità e dispersione degli argomenti, rappresenta anche, da un altro punto di vista, l’aspetto forse più stimolante: nel senso che l’autore si sforza di discutere, con tono piano e didascalico (non attribuisco al termine alcun connotato negativo) i grandi problemi che stanno davanti all’uomo contemporaneo: sviluppo e sottosviluppo, democrazia ed eguaglianza, libertà e dittatura (fino ad accennare, in alcuni spunti, alla prospettiva dell’estinzione delPumanità per un conflitto nucleare), cercando di dar loro una risposta nella quale sono rintracciabili contemporaneamente il buon senso dello studioso esperto e la fede dell’economista in un socialismo riformista che sappia resistere contemporaneamente alle velleità dell’ideologia marxista (la cui condanna non potrebbe essere più netta) ed alle facili conversioni ad una deregulation selvaggia che, in nome di un’astratta superiorità del mercato sullo Stato, smantelli le conquiste dello Stato sociale.
Se si cerchi un collegamento tra il Saggio ed il libro attuale, lo possiamo forse individuare proprio nella passione civile che attraversa entrambi i libri: là l’onesto riformista, come lui stesso si definiva, discuteva di una tematica che aveva grande rilevanza anche sulle prospettive strategiche dei partiti di sinistra (la consistenza, la natura, la collocazione politica dei ceti medi), qui l’economista di razza si impegna in una difesa di quei principi di armonizzazione tra intervento statale e sviluppo del mercato che rappresentano la natura stessa del socialismo rifor
mista (e il rifiuto, netto e motivato allo stesso tempo, di uno smantellamento dello Stato sociale rappresenta una lezione di serietà e coerenza rispetto a tante improvvise, quanto vacue, “scoperte del mercato” che caratterizzano il mondo politico italiano), senza preoccuparsi di proclamare che l’obiettivo finale di un socialismo riformista “consiste nella tendenziale realizzazione del binomio essenziale proclamato dalla rivoluzione francese, ossia nella progressiva eliminazione — salvaguardando la libertà — degli ostacoli legali, sociali ed economici alla tendenza all’eguaglianza” (p. 147), un’affermazione coraggiosa in periodi di riflusso e di esaltazione del pensiero debole.
È proprio su questo terreno che, fra l’altro, si collocano gli spunti più interessanti del libro, non a caso quelli dove maggiormente traspare lo spessore delle specifiche competenze economiche dell’autore: ricorderò così l’analisi dei processi di innovazione tecnologica, che hanno indebolito le tendenze alla concentrazione in atto nell’economia mondiale, allentando in qualche misura il legame tra innovazione tecnologica, accentramento produttivo, economie di scala. Secondo Sylos Labini la rivoluzione elettronica amplia gli spazi delle “economie della differenziazione e della specializzazione... non più applicabili alla condizione di ampliare la produzione di ciascuna unità” (p. 107), il che, fra l’altro, rende il processo di innovazione scarsamente controllabile dal centro, rendendolo sempre più incompatibile con strutture rigidamente pianificate come quella sovietica.
Come ho già accennato, Sylos Labini non crede che questo processo richieda un semplice ritorno alla libertà del mercato: pur prendendo atto della crisi di quelle politiche di intervento statale collegate alla teoria key- nesiana (si veda la nota 8), molto opportunamente egli rileva come l’appoggio dello Stato allo sviluppo del mercato (sia diretta- mente, sia attraverso il finanziamento alla
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ricerca ed il sostegno al processo di innovazione tecnologica) sia sempre stato una costante delle politiche economiche del dopoguerra. In questo senso la stessa politica economica dell’amministrazione reaganiana non può dirsi liberistica, sia per il ricorso al deficit pubblico (che ha avuto l’effetto key- nesiano di espandere la domanda e sostenere lo sviluppo produttivo), sia_per il sostegno pubblico alle innovazioni (tramite agenzie pubbliche come la Nasa o commesse a istituti di ricerca privati), sia infine per l’appoggio dato a spinte protezionistiche.
Sylos Labini ritiene che, davanti alla crisi delle politiche di stampo keynesiano e alla improponibilità di un ritorno al liberismo, vada praticata la “linea della ricerca sistematica del consenso consistente] nell’incessante tentativo di raggiungere, fra Stato è mercato, una combinazione ottimale, che non è fissa nel tempo né eguale fra tutti i paesi e che si fonda sul riconoscimento del potere economico che oggi hanno i tre grandi attori della vita sociale” (p. 171). Quello che l’autore propone è un patto sociale a tre (governo, imprenditori, sindacati dei lavoratori) per il quale rifiuta la definizione di neocorporativismo, in quanto la proposta di politica economica concertata si colloca in sistemi che garantiscono le libertà sindacali e perché, mentre di corporativismo si parla per indicare la forza di gruppi di interessi limitati, “la politica concertata di cui si è detto riguarda lo Stato e le due grandi parti sociali, che se mai tendono a comporre nel proprio ambito gli interessi e le spinte di gruppi molto diversi fra loro” (p. 185).
Come si vede la proposta di Sylos si inserisce nel più scottante ed attuale dibattito politico, investendo problemi sui quali si è molto discusso e offrendo soluzioni opinabili, come è ovvio in simili dibattiti. Caso mai lo storico rileverà che quando si passi da una politica di collaborazione attuata pragmati- camente (come Sylos sottolinea avvenire negli Usa) a proposte di codificazione istitu
zionale della rappresentanza degli interessi, si rievoca un quadro di esperienze passate che forniscono alla riflessione esempi tutt’al- tro che incoraggianti e giustificano ampiamente le riserve che da molte parti vengono avanzate a simili proposte. Personalmente vorrei aggiungere che trovo di difficile soluzione (e a tutt’oggi non ancora risolto, se non altro su un piano teorico) il problema di definire i criteri della rappresentanza: in altre parole, in base a quali considerazioni determinate organizzazioni si vedrebbero affidata la rappresentanza di interessi di carattere generale, vuoi dei lavoratori, vuoi degli imprenditori? Usciamo da un periodo in cui le tre grandi confederazioni sindacali hanno preteso di rappresentare in qualche modo interessi di carattere generale: senza entrare nel merito di tale pretesa, mi chiedo se veramente le tendenze evolutive delle società capitalistiche avanzate possano giustificare una sua riproposizione, ed addirittura una sua codificazione istituzionale. È lo stesso Sylos Labini a ricordarci che le prospettive generali delle società capitalistiche vanno in quattro direzioni: progressiva riduzione del divario stipendi-salari, accelerazione della crescita di piccole imprese, riduzione dell’orario di lavoro, comparsa di varie forme di partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa (cap. 16). Sono tutte le tendenze che portano alla frantumazione delle vecchie classi sociali, alla comparsa di figure sociali di tipo nuovo, scarsamente definibili secondo quegli schemi bipolaristici sui quali si è sviluppata la forza delle tre confederazioni sindacali (classe operaia-padronato, operai-impiegati, lavoratori autonomi-lavoratori dipendenti, ecc.) E non è un caso che proprio tra quei ceti medi di cui tanto efficacemente Sylos Labini ci ha descritto l’emergere, il peso e l’influenza delle confederazioni sindacali siano molto scarsi: né mi sentirei di garantire che quelle imprese di dimensioni medio-piccole, tecnologicamente all’avanguardia e pronte ad occupare gli spazi connettivi della produzione
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industriale sempre più ampi a seguito della rivoluzione elettronica, siano adeguatamente rappresentate dalla Confindustria.
In altre parole mi sembra che l’evoluzione stessa della società contemporanea renda sempre meno proponibile uno schema tutto sommato semplificato come quello trinitario (governo, rappresentanti degli imprenditori, sindacati dei lavoratori) proposto da Sylos Labini. Trovo sorprendente, poi, il silenzio dell’autore sul ruolo dei partiti politici nel processo di ricomposizione degli interessi particolari in un quadro generale di progresso e di democratizzazione: ad essi nel libro si accenna solo di sfuggita e per deplorare, giustamente, il crescere spropositato dei loro apparati tramite l’appropriazione, diretta od indiretta, di denaro pubblico. Posso concordare che la loro azione abbia presentato parecchie zone d’ombra (anche se ritengo, poi, che esse siano in parte conseguenza di caratteristiche strutturali della società italiana); mi pare tuttavia che un’analisi delle prospettive della società contemporanea dovrebbe dedicare un
qualche spazio alla loro funzione e collocazione (se non altro per negarne qualsiasi utilità).
Come si vede, il libro di Sylos Labini porta necessariamente a trattare di tematiche attuali, sulle quali tutte le proposte, così come le considerazioni di chi stende questa nota, sono discutibili, ma questo mi sembra l’aspetto più stimolante di un saggio, che come dice l’autore nell’Introduzione, si propone di “presentare non analisi sistematiche, ma soltanto temi di riflessione, fonda(ti), oltre che su letture, su osservazioni... compiute durante i viaggi e su conversazioni con economisti e sociologi del nostro e di altri paesi” . E il tono, spesso così perentorio e un po’ provocatorio, con cui Sylos Labini avanza le sue proposte mi sembra finalizzato proprio all’intento lodevole di invitare ad una discussione franca ed aperta: invito che mi è sembrato giusto non lasciar cadere nemmeno in una recensione per una rivista di storia, quale è “Italia Contemporanea” .
Paolo Pezzino
Il fascismo tra storia e ideologiadi Pietro Albonetti
“La foresta è alle nostre spalle, ora” . Con queste parole Zunino inizia la Conclusione (p. 369) del suo lavoro sull’ideologia del fascismo (Pier Giorgio Zunino, L ’ideologia del fascismo. Miti, credenze e valori nella stabilizzazione del regime, Bologna, Il Mulino, 1985, pp. 430, lire 30.000): una fatica insolita anche per lo stile, aspetto non secondario nella resa dell’opera. L’impostazione è ambiziosa e si muove verso una sorta di straripamento storiografico, che il tono della scrittura asseconda. Il lavoro è di qualità, nuovo, forse una tappa negli studi del fa
scismo, ma è anche così soggettivo che il recensore preferisce tenere le distanze più che lasciarsi affascinare. La lettura non mi è parsa facile; i riferimenti teorici sono densi, affollati, eterogenei: non sono da escludere fraintendimenti da parte mia. Occorrerebbe raffreddare questo lavoro con parole semplici e disadorne. Neanche questo sarà facile e anch’io finirò per spiegarmi come posso.
Zunino sostiene: 1) che nel fascismo circolano idee povere, ma che penetrano nelle fibre della società e, in qualche modo, riescono a toccare le masse popolari (p. 11); 2) che
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solo la valorizzazione del ruolo dell’ideologia risolve le incoerenze di interpretazione del fascismo (p. 12).
Pregiudizialmente non c’è nulla da eccepire a queste due tesi.
Una volta che il corpo dell’ideologia, riesumato dalle ricerche, imponga il suo peso storico e abbia somiglianza con la mentalità di fondo degli italiani la tesi 1) sarebbe perfetta e sarebbe lecito attaccare le posizioni di quelli che nella spiegazione del fascismo hanno minimizzato la presa ideologica. Non solo, ma a quel punto nuovi interrogativi di fondo potrebbero essere posti alla storia italiana, e non solo italiana, contemporanea. Mi sembra questo il programma complessivo di Zunino. Ma quando il programma si tramuta in ipotesi generale, la cui verifica viene assegnata a giornali e libri stampati al- l’incirca tra il 1925 e il 1935 in Italia, la cosa prende un’altra piega: diventa un tributo a qualcosa che resta indimostrato. Lo scompenso tra l’ipotesi maggiore e il limite della ricerca è inevitabile. Volere mantenere ad ogni costo attivo il circuito richiede una carica di soggettività impressionante, che produce alterazioni anche dove occorreva rigore. Questa vibrazione continua tra brevi citazioni e incalzante interpretazione diventa ossessiva.
L’altra possibilità era quella di spostarsi sulla ricerca, decisamente, con tutta la noia e il peso che questo comporta.Un lavoro sistematico su quelle fonti non si limitava soltanto ad una scelta di conferme, ma doveva impostarsi come una produzione di prove almeno sulla linea della frase di Marc Bloch (scelta da Zunino come insegna) che le parole non sono mai del tutto separabili dalle cose. Fare riferimento alla parte più propriamente nuova (sei capitoli e una nota bibliografica) attraverso la quale dovremmo afferrare l’ideologia del fascismo, come in una grande battuta di caccia, è un po’ come sentirsi sperduti e storditi; si è costretti a credere ad un’infinità di “mezzi di trasporto” re
torici, su cui sale un viaggiatore surrealista, mentre noi restiamo sempre a terra in attesa che arrivi una qualche critica più posata sui materiali e sulla loro lettura. Restiamo estranei e allucinati. All’inizio siamo avvertiti che comincia l’immersione nel mare dell’ideologia fascista: la speranza è di tornare a galla con “un uso sapiente di categorie analitiche estremamente flessibili” (p. 66). Invece si vedono via via comporsi i quadri ideologici come in sogno o in ogni altro stato emotivo, tranne quello della quieta dimostrazione.
Il lettore può chiedersi se l’ideologia è una parte della storia o se è un abile montaggio ed è suo diritto anche chiedere in che rapporto l’una o l’altro stanno con l’imprint fascista degli italiani.
Gran parte delle difficoltà verte su questo: vi è più costruzione di scene che ricostruzione di storia. Se è così che valore ha il pezzo del domino che Zunino cercava, per avere finalmente la disposizione esatta dei pezzi della storia d’Italia? Mantengo anche riserve verso la mia lettura, perché Zunino ha troppe risorse e non vorrei che mi sfuggisse il vero senso dell’operazione: a me sembra che tra quelle carte Zunino abbia fatto più collage che esplorazione, abbia cercato punti di appoggio, più che una salda scoperta. In quella massa di giornali e libri si trovano certo oracoli del fascismo, ma a scoprire il santuario dell’ideologia e il rapporto coi fedeli ci corre ancora. Questo tentativo di mettere ordine nel caos è costato non pochi sforzi all’autore. Starei per dire che la vera serie costante (in lavori come questi nel futuro una parte la farà il computer) è proprio quella che l’autore fornisce per accostare ciò che non sta insieme, come nel caso dell’idea di futuro nel fascismo quando scrive: “ ... ciò non vuol dire che gli orizzonti sconfinatamente aperti del futuro fascista apparissero come linee troppo distanti, incapaci di catturare gli animi degli italiani. A ben vedere si dovrà affermare il contrario perché quella sensazione di vuoto si dovette risolve
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re in un impulso a precipitarsi nel futuro piuttosto che a distogliere da esso lo sguardo” (p. 122). Chi vorrà salvare la parte nuova entro questo saggismo funambolico esaminerà pagina per pagina e solo allora vedrà che cosa resta in ordine a vecchie e nuove regole della ricerca storica. Questo dico con pieno rispetto del lavoro di Zunino, perché in effetti più di una volta leggendolo mi sono chiesto se non ci fosse, in questo volo di Icaro, una specie di rabbia civile contro i pedanti. Pagine come queste si scrivono in una speciale estasi guardando in una sfera magica: lo sguardo è penetrante e la memoria conosce molte formule, ma è magia o realtà? E per di più, Zunino potrebbe indicare tutte le ragioni del suo lavoro ricordandomi che aveva scritto proprio: “Non ci dobbiamo [...] nascondere che il profilo ideologico del fascismo che si andrà componendo sotto i nostri occhi si situerà nei cieli delle formulazioni originarie. In questo senso, l’ideologia del fascismo che abbiamo è un’astrazione che rappresenta un modello, ossia il tipo ideale dell 'homo ideologicus fascista” (p. 7). Tentare un’indagine che produca un’astrazione è infatti l’altro scopo del lavoro, di cui finora non ho parlato. In questo modo Zunino si libera di tutte le nostre osservazioni? Forse in parte: una complessa strategia può contenere anche falsi scopi. Ma se è dominante quest’ultimo fine, fino a che punto Zunino può far agire il tipo ideale costruito, dove deve fermarsi questo strumento euristico ed espositivo? Fino a che punto la fantasia, orientata e disciplinata in vista della realtà, può aiutare il giudizio storico? Lungi da me l’idea di mettere le cose su piani complicati, ma Zunino ha introdotto sì tanta riflessione storico-sociale che non gli sembrerà invadente il mio dubbio. Trovare il tipo ideale tra la retorica fascista e la vita della masse, mediante l’accentuazione di determinati elementi è un proposito eccellente, ma messo a posto lo strumento vuol anche dire che la spiegazione è trovata, o non piuttosto
comincia da quel momento la verifica? Non sono domande retoriche. Anche perché non sono riuscito a capire del tutto se Zunino cercava un pezzo di fascismo non studiato o una leva per spiegarlo. Questa ambivalenza tra storia del fascismo e astrazione ideologica non è chiarita, l’incertezza tra ricerca concreta e forma dell’ideologia non è mai superata. Questa mediazione tra lo stato e la società civile, tra la violenza e il consenso, che si presenta con aspetti “pluralistici” (antidemocratici, ma pur demagogicamente carezzevoli) è un pezzo di teoria o di realtà storica e quali avvertenze dobbiamo avere per l’uso?
E, tuttavia Zunino provoca, stimola e rinnova domande: la purezza ideologica dello sport, il mito della giovinezza al di sopra delle classi, il senso di partecipazione al comune destino richiamano lo studio di fenomeni che s’ingigantirono nella società del fascismo. Da una parte le scene del teatro ideologico, dall’altra il resto della storia. Nelle pagine sul razzismo, sulla demografia, sull’eugenica la corsa per acciuffare gli elementi ideologici è piena di energia conoscitiva ed anche l’avventura verbale in alcuni tratti è più riuscita: “Vagando per questi anfratti dell’eugenica c’è da aspettarsi di mettere il piede, da un momento all’altro, su qualche precoce virgulto razzista” (p. 280). Le parti più convincenti quindi sono quelle che aprono indicazioni di lavoro. L’indicazione fondamentale resta la trasfusione endemica (epidemica?) dell’ideologia. Non ho taciuto il dissenso, forse ho trascurato molti meriti: a mio parere, più evidenti dove la fusione del pensare e del cercare ha alleggerito la tensione. La tensione più schematica ritorna nell’ultimo capitolo, Il problema mondiale, Zunino riprende il suo fardello. Egli stesso annuncia che sta portando a compimento il periplo intorno all’ideologia del regime e si chiede di “quali forme si nutrisse l’immaginazione dell 'italiano fascista quando alzava gli occhi a contemplare il mondo”
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(p. 311). Siamo ormai al tema dei temi: più forte ancora la tentazione di collegare l’ideologia alla storia che è seguita. “Ci vorrebbe l’ascetica freddezza dello stilista” (p. 311) confessa Zunino che vuole resistere.
Sembra che si possa dire che tutta la zavorra ideologica precedentemente esaminata non avrebbe portato la barca del fascismo sugli scogli della guerra se non ci fosse stato, fin dalla partenza, un motore che finì per dare accelerazione e produrre lo schianto. Negli anni venti questo motore era più silenzioso.
Fa venire in mente la nave di Fellini in Amarcord: con la differenza che, un po’ alla volta, i crocieristi si trasformano in pirati aggressivi.
Ma in questo capitolo c’è ancora qualche colpo di scena. Non del tutto inatteso, perché era annunciato nella polemica contro la storiografia sul fascismo. Zunino produce il suo sforzo di revisione storica chiamando per un attimo in causa Alan J. Percival Taylor, lo storico controverso delle origini della seconda guerra mondiale {Le origini della seconda guerra mondiale, Laterza, 1961). Questa fulminea apparizione serve a stabilire punti fermi nella visione storica di Zunino. Ma è meglio che il lettore legga diretta- mente, perché questo finale è ancora più rapido e sincopato del solito e in più allarga immensamente il territorio. Certe pagine destano innegabilmente attenzione: l’Urss e l’America viste dall’Italia negli anni venti e i conti che l'italiano sogna di fare col mondo. Quello che manca (e non si sa con che cosa sostituirlo) è il tratto temporale 1935-1945. Zunino impianta su questo tempo non esaminato giudizi troppo impegnativi. Il limite a cui fermarsi poteva essere quella frase: “Via via l’aspirazione all’impero giungeva ad assumere cadenze kiplinghiane” (p. 359). Ma le pagine dedicate alla scomparsa della distinzione diritto-dovere negli affari internazionali sono quasi inerti e la conclusione stiracchiata: “Il punto di arrivo non poteva
che essere un compatto e inestricabile aggregato di immagini destinato ad occupare un settore non secondario dell’orizzonte mentale degli italiani” (p. 360).
Come il protagonista della favola disseminò il terreno di sassolini per ritornare dal bosco, Zunino ha lasciato lungo il percorso non pochi dubbi. Ma in fine è uscito fuori dall’altra parte. Se si potesse cercare il punto medio in uno studio così pieno di intenzioni penso che si troverebbe piuttosto in alto.
Se l’autore non apriva le ostilità con tutti quelli che, secondo lui, invece di esaminare la foresta, avevano piantato sul limite la bandiera dell’antifascismo avrebbe avuto maggiore coordinazione. Invece ha voluto contestare liberaldemocratici, marxisti e la storiografia della continuità', colpevole que- st’ultima di avere sospinto ai margini l’ideologia, così da far convivere quelle due cose, vale a dire “le tenebre della continuità e i fulgori della resistenza” (pp. 24-25). Il teorema finale di Zunino è invece questo: tra le folle oceaniche fasciste e i cenacoli sparuti degli antifascisti, tertium datur: i vincitori della seconda guerra mondiale; punctum diabolicum: il basso continuo dagli otto milioni di baionette ai tredici milioni di voti De.
Per la relazione con fatti duri e severi l’opera di Zunino ci sembra più letteraria di quanto lo sia una riflessione di Robert Mu- sil che, dopo la lettura di questo libro, pongo al principio, idealmente: “Nello splendido tempo imperiale le strade sono piene di gente, la vita continua. Sebbene ogni giorno centinaia di persone vengano ammazzate, incarcerate, picchiate, ... Questa non è sventatezza ma piuttosto da paragonare all’impotenza di un gregge che viene lentamente spinto in avanti mentre i primi cadono in braccio alla morte. Esso fiuta, intuisce, diventa inquieto, ma la sua psicologia non conosce reazioni, semplicemente non sa difendersi da questa situazione. Così
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anche qui si vede quanto siano determinanti i modelli indotti di comportamento sociale, il tipo di controllo” (Musil, Diari, 1899- 1947, vol. II, Torino, Einaudi, 1980, p. 1069). Zunino aveva in mente di descrivere
“l’arte di dirigere l’immaginazione” . Forse si è fatto prendere la mano da elementi esterni fino a sprecare talento.
Pietro Albonetti
Il filantropismo socialista al femminiledi Stefano Pivato
Ancora oggi, a quasi trenta anni di distanza dalla approvazione della legge Merlin, non sembra avere trovato una equa collocazione politico-culturale la motivazione di fondo di quel provvedimento. Le polemiche fra detrattori e sostenitori di quella legge hanno lasciato piuttosto in ombra i moventi ideali — condivisibili o meno — di quella legge.
Chi era Lina Merlin? Da quali esperienze proveniva? A questi interrogativi cercheremmo invano una risposta nel Dizionario biografico di Franco Andreucci e Tommaso Detti (Il movimento operaio italiano. Dizionario biografico 1853-1943, Roma, Editori Riuniti, 1975-1979) nel quale la parlamentare socialista non compare. L’oblio che regna attorno alla figura della Merlin è, in parte, lo stesso che circonda una delle opzioni politico-culturali più rappresentative nel movimento operaio italiano: quella del cosiddetto filantropismo socialista. In effetti su questo originale e ancor poco studiato filone della cultura del movimento operaio hanno a lungo pesato i liquidatori giudizi di Antonio Gramsci. O, più recentemente, alcune rivisitazioni compiute attorno ad uno dei suoi campioni più rappresentativi, Edmondo De Amicis (in particolare, Sebastiano Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del “primo maggio”, Verona, Berta- ni, 1983) volte ad interpretare la pedagogia popolare dello scrittore ligure in chiave di
ortodossia marxista, snaturandolo da quello che verosimilmente appare il contesto di cui fu uno dei più significativi testimoni. E del filantropismo socialista, considerato in una ipotesi di lungo periodo, la legge Merlin deve verosimilmente considerarsi una eredità postuma, e più specificatamente di quella battaglia contro la “tratta delle bianche” che costituì uno dei momenti di maggior impegno del femminismo laico d’inizio Novecento.
Un volume che consente di riflettere su questi temi e di dare una identità meno vaga alle applicazioni pratiche del filantropismo socialista nella sua versione al femminile, è quello di Annarita Buttafuoco (Le Mariucci- ne. Storia di un’istituzione laica: l’Asilo Mariuccia 1902-1932, Milano, Angeli, 1985, pp. 491, lire 28.000). L’indagine analizza, spingendosi fino alla vigilia della seconda guerra mondiale, le sorti di una delle più originali istituzioni varate da quel “femminismo pratico” d’inizio secolo nell’ambiente milanese. L’Asilo Mariuccia venne fondato nel 1902 a Milano in aperto contrasto col cosiddetto “filantropismo assistenziale” e col pietismo di stampo confessionale. Animatrice del progetto fu Ersilia Majno Bronzini, coadiuvata nell’opera da alcune militanti dell’Unione femminile.
Moglie di Luigi Majno, deputato del Psi e difensore degli operaisti al processo del
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1887, Ersilia Majno era stata, nel 1899, fra le promotrici dell’Unione femminile di cui sarebbe stata anche presidentessa. La Majno, assieme a Linda Malnati e Carlotta Clerici, apparteneva a quella cerchia del militantisme socialista milanese, assai attiva non solo nella organizzazione del proletariato femminile ma anche nel propugnare un col- legamento di questo con gli strati più illuminati del ceto progressista. In stretto contatto con Antonietta Giocomelli (“l’amazzone del cattolicesimo”), la Majno vantava anche una vasta cerchia di amicizie nell’ambiente del femminismo internazionale. Secondo Buttafoco, anzi, la sociologa scozzese Lucy De Bartlett, conosciuta nell’ambito della commissione reale per lo studio della delinquenza minorile, ebbe non poca influenza sulla fondatrice dell’Asilo Mariuccia. Anzi, proprio quella visione “mistica” , per certi aspetti evangelica, che Buttafuoco attribuisce alla Bartlett, convinta che il trionfo della causa femminile rispondeva ad una missione di natura religiosa, fu, probabilmente, alla base dell’amicizia fra le due donne.
Scopo della istituzione educativa fondata dalla Majno era quello di prevenire la “piaga” della prostituzione considerata come “estrema conseguenza della oppressione subita dalle donne” (p. 29). Dunque, l’Asilo Mariuccia doveva rispondere allo scopo di avviare un esperimento in cui “senza distinzione di religione e di nazionalità potessero essere accolte le giovani esposte al pericolo di venire immesse nel giro della prostituzione, vale a dire le figlie di prostitute o di carcerati, le bambine abbandonate dalle famiglie prive di assistenza o vittime di maltrattamenti, di violenza carnale, di incesto” (p. 122). L’Asilo Mariuccia — tuttora operante — nasceva dunque in quel clima di incipiente industrializzazione allo scopo di prevenire o rimediare ad uno di quei “guasti” — secondo il lessico cattolico del tempo — più evidenti del processo di inurbamento. Ma a differenziarlo dalle analoghe istituzioni che
in Italia — e in particolare a Milano — sorgono con lo scopo di prevenire o curare la “tratta delle bianche” , non era solo il carattere aconfessionale che lo distingueva da analoghe iniziative gestite da religiosi, ma anche uno stile meno burocratico e uno spirito di tolleranza inconsueto. Ma il carattere più originale dell’Asilo Mariuccia, al di là delle etichette istituzionali e culturali, fu il tentativo di farne una esperienza le cui potenzialità non si esaurivano all’interno dell’Asilo ma, più latamente, di farne “un ideale campo di prova, quasi un laboratorio dove sperimentare le possibili combinazioni di una diversa identità sociale delle donne” (p. 50).
Da questa angolazione dunque si può cogliere uno degli aspetti più originali della ricerca della Buttafuoco, se considerata nell’ambito disciplinare della storia della educazione, e più specificamente della storia delle singole istituzioni educative.
In anni più o meno recenti nella storia dei partiti sul piano metodologico si è fatto riferimento all’ormai nota asserzione gramsciana secondo la quale “scrivere la storia di un partito significa niente altro che scrivere la storia generale di un paese da un punto di vista monografico per porne in risalto un aspetto caratteristico”. In modo analogo io credo che oggi fare la storia di una istituzione educativa non significhi solo ripercorrerne lo sviluppo e le vicende secondo linee interne ma, più latamente, comprendere quello sviluppo e quelle vicende in relazione al contesto sociale, umano, politico ed economico che lo circonda.
E questo, per l’appunto, è ciò che emerge dalla ricerca della Buttafuoco, il cui risultato non è dunque un libro su una istituzione educativa femminile ma, più ampiamente, un libro sulla condizione della donna all’inizio del Novecento.
Ma che cosa, al di là di una generica modernità nei metodi educativi, contraddistingueva l’educazione “laica” dell’Asilo Ma
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riuccia rispetto alle esperienze dell’assistenzialismo confessionale? L’interrogativo travalica — a parere di chi scrive — i confini dell’Asilo Mariuccia per chiamare in causa la sostanza stessa del filantropismo socialista, la cui molteplice eredità si coglie anche nelle simpatie — umane e culturali — che le operatrici dell’asilo nutrono. Esemplare, al proposito, l’ammirazione — sia pure con qualche riserva — della Majno per Camillo Prampolini e per la figura del “Gesù socialista” , la cui teorizzazione come modello propagandistico si deve appunto al socialista reggiano.
In effetti, al di là di tutte le sfumature di cui il filantropismo socialista appare permeato, alla base sembra esserci quella sorta di “religiosità laica”in cui gli oggetti di culto e di venerazione sono deprivati della dimensione trascendente e si materializzano in fini e simboli concreti. L’Asilo stesso diviene oggetto di culto e di venerazione e l’opera educativa è essa stessa concepita come una “missione”.
Chi scrive non concorda con chi, ancora recentemente, ha definito la morale socialista come “piuttosto povera” o come un sistema teorico con “non poche incertezze e lacune” (in particolare, Patrizia Audenino, Etica laica e rappresentazione del futuro nella cultura socialista dei primi del Novecento, “Società e storia” , 1982, n. 18, pp. 877- 919). Certo come sistema morale l’educazio- nismo socialista fra Ottocento e Novecento deve ancora essere oggetto di una analisi sistematica; ma è indubbio che quello che Roberto Michels definiva il movente “morale” come la componente più caratteristica del socialismo italiano, abbia in effetti inciso più profondamente di quel che si creda, non solo nella storia del movimento operaio ma nella storia del costume e della mentalità della società italiana (R. Michels, Soziali- smus in Italien, Intellektuelle stròmungen, München, Meyer und lessen, 1925). E il volume della Buttafuoco lo testimonia. Si pen
si, ad esempio, ad alcuni fra i più significativi capitoli come quelli dedicati alla educazione del corpo, per i quali l’autrice utilizza le relazioni delle docenti di igiene. Così, ad esempio, scriveva Amalia Moretti Foggia alla conclusione di un corso sulla fisiologia femminile tenuto alle allieve del Mariuccia: “Ho avuto anche sempre presente di vincere i falsi pudori delle fanciulle: così ho parlato liberamente delle mestruazioni (e dell’igiene necessaria) della gravidanza, del parto e del puerperio, nella convinzione che fosse doppiamente utile e necessario farlo: alle prime parole ho sorpreso qualche sguardo e qualche sorriso malizioso che io ho subito acerbamente rimproverato, facendo osservare come nulla ci sia di ridicolo e di vergognoso nella natura” (p. 267).
Quanta differenza da quella sorta di “negazione del corpo” che le ispettrici ministeriali rilevano quasi ovunque nelle loro ispezioni periodiche presso gli Istituti retti da personale religioso femminile. Laddove, come ci informano alcuni rapporti giacenti presso l’Archivio centrale dello Stato, mancava quasi ovunque la tinozza per il bagno giacché le monache vi annettevano una offesa al pudore.
Certo, all’autrice va riconosciuta una notevole dose di fortuna nell’aver reperito un archivio la cui ricchezza appare, a chi abbia un minimo di frequentazione con i disordinati archivi delle istituzioni scolastiche, con pochi confronti.
Materiali come le lettere che le “mariucci- ne” si scambiavano di nascosto fra i rami delle siepi e sotterrandoli in luoghi convenuti (e dalla Buttafuoco trovati ancora sporchi di terriccio, macchiati di erba e in parte lacerati) ci consentono di spiare, di penetrare nei sentimenti più profondi e segreti delle convittrici e, dunque, in uno spicchio dell’animo femminile del tempo.
E proprio nell’averci restituito questi frammenti dell’animo e della sensibilità femminile del periodo si deve convenire che
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l’autrice ha assolto ad uno dei compiti prioritari che Marc Bloch attribuiva alla ricerca storica. Ossia il “bisogno di cercare, di trovare l’uomo” — ma in questo caso si dovrebbe dire la donna — “là dove esso è (o dove talvolta si nasconde) l’uomo vivente, l’uomo sensibile, l’uomo pieno di passione e di ardore e di temperamento”. (Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico, Torino, Einaudi, 1969, p. 6).
Occorre dunque concludere che se c’è stato in questi ultimi anni un campo della storiografia contemporanea nel quale l’apriorismo ideologico è prevalso sui risultati della ricerca, questo è stato appunto quello della storia delle donne. Una serie di “contributi
per ulteriori ricerche” , discussioni a non finire sulle metodologie e sulle discipline più affini alla storia del sentimento e dell’agire al femminile hanno contraddistinto una storiografia a cui, spesso, ha fatto difetto il documento.
In questa direzione, dunque, il libro della Buttafuoco rende giustizia ad uno dei settori più originali della storiografia contemporanea e va considerato come una sorta di incipit di una storia al femminile troppo sovente attardatasi su “prodotti stranieri dal fascino avvolgente eppure, alla resa dei conti, alquanto poco solidi” (p. 21).
Stefano Pivato
Paesaggio e vita rurale nelle Marchedi Guido Crainz
L’Associazione bancaria italiana ha in corso un censimento quantitativo dei volumi di storia, economia ed arte pubblicati da tutti gli istituti di credito, e il lavoro si presenta improbo: i volumi editi dalle Casse di Risparmio, ad esempio, superano da soli il migliaio e iniziano a comparire nei primi anni del Novecento. Ancor meno facile è selezionare all’interno di questa immane produzione, sviluppatasi spesso all’insegna del superfluo e deH’inutilmente costoso, le opere significative, le pubblicazioni meritorie: certo però ve ne sono, e iniziano ora ad acquistare spessore e peso relativo maggiori che in passato (altrettanto positivamente, del resto, va giudicata la crescente collaborazione fra banche e case editrici, che permette a una parte almeno di questi volumi di avere un pubblico più ampio di quello costituito dai più facoltosi clienti o dai più prestigiosi interlocutori delle banche stesse).
Esempio di notevolissimo interesse di scelte più mature che affiorano all’interno della politica editoriale di taluni enti è un volume curato da Sergio Anseimi, Insediamenti rurali, case coloniche, economia del podere nella storia dell’agricoltura marchigiana, pubblicato dalla Cassa di Risparmio di Jesi nel 1985 e posto anche in commercio — tramite il “Consorzio Librai Marchigiani” — al prezzo di lire 60.000, di ben 420 pagine. È qui praticamente rovesciata (o meglio: radicalmente rifiutata) la caratteristica che spesso contraddistingue certi libri-strenna, l’oc- casionalità: il volume in esame raccoglie i risultati di un lungo lavoro di confronto e di ricerca che ha avuto in questi anni i suoi riferimenti principali nelle Università di Urbino e di Macerata e nella rivista “Proposte e Ricerche” ma che ha coinvolto anche studiosi di diversa collocazione.
Di qui lo spessore, la problematicità, la
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ricca articolazione di un approccio che considera la vicenda mezzadrile nell’arco lungo del suo dipanarsi e nella globalità delle sue conseguenze nei modi di lavorare e di vivere. Il nesso fra tipi di abitazione rurale ed economia del podere è l’asse centrale del discorso che si snoda attraverso i diversi saggi, e strettamente funzionale alla definizione di esso è l’accurata parte iconografica: l’inserto centrale — Itinerario a colori attraverso la casa rurale marchigiana, con fotografie di Gianluigi Mazzufferi e testi di Renzo Paci — potrebbe costituire un libro a sé, ed è poi completato e integrato dalle immagini specifiche che accompagnano in modo ragionato i vari saggi.
I diversi contributi si misurano diretta- mente sia con la corposa presenza della vicenda mezzadrile nella regione (le oltre100.000 case coloniche, parzialmente investite ora da processi di deterioramento, sono il simbolo fisico di una realtà “invisibile” ancora più diffusa) sia con alcune questioni generali cui quella vicenda rimanda.
Nel concludere il suo denso saggio introduttivo, che esamina l’itinerario della mezzadria a partire dal 1400-1500 sino alla metà del Novecento, Anseimi si chiede: “Che cosa ha permesso alla mezzadria marchigiana di vivere l’incredibile lunga ‘transizione dal feudalesimo al capitalismo’? Che cosa ha consentito alle fragili colline d’argilla di reggere per secoli alla intensa coltura cerealicola...?” . Non sono possibili risposte facili, osserva Anseimi, ma soprattutto le domande rischiano di essere mal poste: “Nell’ambito della modellistica economica la mezzadria può anche essere considerata una transizione, e se si vuole una anomalia logica che contrasta con la lucidità dei processi teorici, ma gli uomini vivono senza tener conto di essi, hanno l’abitudine di badare ai propri interessi e san comparare” . Da questo punto di vista, continua Anseimi, la mezzadria marchigiana ha patito meno dell’agricoltura di altre zone lo squilibrarsi progressivo del
rapporto fra uomini, modelli di vita, risorse: per cogliere ciò che ha reso “forte” la somma di oltre centomila sistemi poderali incentrati sulla presenza continua del colono è necessario non trascurare l’assetto geomorfologico dei terreni, le difficoltà che esso poneva all’introduzione di innovazioni analoghe a quelle che trovano applicazione in altre zone (in Lombardia per certi versi, nell’area tosco-emiliana per altri).
In questo quadro prevale dunque la sotto- lineatura che “l’organizzazione poderale, nel suo progressivo e coerente definirsi tra XV secolo e Novecento inoltrato, nell’area collinare è quella che meglio ha consentito di produrre derrate agricole su piccole unità fondiarie e ha salvaguardato il territorio, ponendo in essere una miriade di ecosistemi economici perfettamente integrati tra loro, non solo attraverso la varietà delle colture nel promiscuo del seminativo-vitato-olivato, con relativa rotazione delle foraggere, ma mediante un ingegnoso sistema idrico di utilizzazione delle acque piovane e con l’armatura di difese “naturali” costruita con siepi e presenza non casuale di alberi da legna, da frutto, da foglia. La casa colonica, con le appendici di capanne, stie e ripari, in buona posizione sul podere, contribuisce a far sì che il predio si configuri anche quale entità riassuntiva dell’ambiente nel quale è inserito...” .
Questo abbandono dell’ottica dei “ritardi” e dei “residui” può forse sembrare brusco: esso però trova validi argomenti polemici (“non sarebbe umoristico — annota di sfuggita Anseimi — pensare ad un medioevo marchigiano del Novecento?”) e soprattutto permette un’analisi dell’economia del podere estremamente attenta alla funzionalità e alle ragioni specifiche dei diversi elementi. Sono qui ripresi e “irrobustiti” , del resto, ragionamenti e riflessioni già proposti — come s’è detto — da Anseimi e da altri in più di un’occasione: basti citare su questo punto il dibattito che si sviluppò al convegno orga
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nizzato ad Urbino nel 1979 dall’Istituto Alcide Cervi su Ribellismo, protesta sociale, resistenza nell’Italia mezzadrile fra XVIII e X X secolo (Bologna, Il Mulino, 1980, Annali 2/1980), e le messe a punto che in quell’occasione si ebbero. Per citare solo la più ovvia: non viene negato per questa via il carattere sostanzialmente subordinato del rapporto di lavoro che la mezzadria instaura né il fatto che essa riflette l’egemonia delle città sulle campagne, ma vengono però indicati i limiti di un discorso che a ciò si arresti senza indagare più a fondo la specificità di rapporti complessi, collocati nella loro dimensione reale.
Non v’è dubbio che questa griglia problematica permetta più di altre l’approfondimento dell’indagine su molteplici versanti, e da questo punto di vista un altro saggio centrale del volume è quello di Renzo Paci, La casa rurali: premesse e questioni di metodo. È qui riaffermata — e tradotta in analisi e osservazioni puntuali — la necessità di superare appieno ogni visione del mondo rurale come immobile e di collegare gli studi sugli insediamenti e le abitazioni rurali a quelli “sui rapporti di produzione, sulla distribuzione della proprietà terriera, sulla struttura produttiva e sulla stessa evoluzione demografica” . Per questa via è possibile operare proficue saldature fra “elementi apparentemente divergenti, ma che di fatto afferisco- no allo stesso tema, quali, ancora una volta, gli interventi del potere e del capitale cittadino, le innovazioni e le permanenze delle tecniche e dei modelli costruttivi anche in relazione al substrato delle tradizioni rurali locali, l’influenza delle diverse forme assunte nel tempo dal controllo della città sul territorio, nonché le scelte fatte dai ceti domi
nanti per organizzare il prelievo dei prodotti agricoli e la loro mercantilizzazione, agendo sulla distribuzione delle colture o sui rapporti di produzione”.
Ecco allora che lo studio della casa rurale diventa lo studio non solo del suo adeguarsi agli sviluppi della policoltura poderale ma anche delle condizioni di quegli sviluppi. Ed ecco anche che esso si allarga all’analisi degli andamenti demografici e delle strutture familiari — questioni qui puntualizzate preliminarmente da Carlo Vernelli — e tenta di cogliere quei processi che portano progressivamente, nel nostro secolo, alla perdita di ruolo e funzioni dell’unità colonica (anche se si ha talora l’impressione di una forse insufficiente attenzione alle prime “intrusioni” nelle zone mezzadrili dei processi di modernizzazione e al rapporto fra essi e tensioni sociali diffuse e sotterranee che in qualche modo precedono i momenti più espliciti di conflittualità).
Attorno a questo impianto problematico si articolano i circa trenta saggi che completano il volume: essi prendono generalmente avvio da tipologie abitative particolari e utilizzano un’ampia messe di fonti. Non è possibile in una breve nota ripercorrerli adeguatamente, né misurarsi appieno con i problemi che il volume solleva e con le risposte che propone: le stesse osservazioni critiche (pur possibili, come s’è in parte accennato) devono più distesamente tradursi nell’individuazione di percorsi ulteriori di ricerca, nella consapevolezza che un volume di questo tipo è destinato ad essere un punto di riferimento, un “interlocutore” rilevante per molto tempo.
Guido Crainz
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Le tappe della “soluzione finale”di Liliana Picciotto Fargion
Alla fine del 1944, l’avanzare degli eserciti alleati a est come ad ovest dell’Europa, portò i tedeschi alla necessità di abbandonare territori dove avevano precedentemente impiantato centinaia di luoghi di detenzione e di campi di concentramento. Nella loro ottica, le possibilità di risolvere il problema delle migliaia di detenuti erano tre: a) lasciare che i prigionieri e i deportati cadessero in mano degli alleati e, in definitiva, secondo il loro modo di vedere, contribuire al rafforzamento economico e militare del nemico; b) ucciderli tutti sul posto; c) evacuarli verso territori fuori pericolo, nell’entroterra del Reich. Benché sia difficile orizzontarsi nelle intenzioni naziste dell’ultima ora che, nel crollo generale di tutto il sistema sembravano, prive di ogni logica, in generale pare prevalere la terza opzione: l’evacuazione, ad eccezione dei malati e degli intrasportabili. Per questi ultimi, a seconda della situazione, poteva sopravvenire la seconda ipotesi, cioè il massacro sul posto, come avvenne nel campo di Gross Rosen nel gennaio del 1945, oppure l’abbandono più totale, come avvenne per lo più nel campo di Auschwitz.
Analizzando il modo in cui si svolsero le varie evacuazioni almeno due elementi appaiono costanti e ricorrenti nella scelta nazista: la tendenza a mimetizzare o cancellare le tracce dei delitti commessi, la tendenza a conservare i prigionieri come forza-lavoro a disposizione dell’economia tedesca. Il problema ancora aperto rimane invece quello di capire se il trattamento dei prigionieri, evacuati o abbandonati, fosse o meno uguale per tutti i campi; se vi fossero direttive specifiche per la scelta degli intrasportabili, per il trattamento di quelli che rimanevano indietro durante le marce perché indeboliti o di quelli che tentavano la fuga: se vi fosse in
ultima analisi una “politica delle evacuazioni” . Questi e altri problemi vengono affrontati nel bel lavoro di Andrej Strzelecki dal titolo Evakuacja, liqwuidacja i wyzwolenie KL Auschwitz (Evacuazione, liquidazione e liberazione del KL di Auschwitz, Auschwitz, Museo di Stato di Auschwitz, 1982, pp. 365, sip).
Il libro costituisce il primo tentativo di dar forma organica e documentata a un problema che è stato completamente sottaciuto dalla storiografia concentrazionaria. Si tratta di una questione di non poca rilevanza dal momento che riguarda più di 200.000 persone che, alla fine della guerra, furono costrette con disastrosi trasporti in treno e con massacranti marce forzate, a spostarsi da un campo all’altro. Erano colonne di prigionieri stanchi, affamati, terrorizzati, congelati, sballottati da un punto all’altro della carta geografica, tormentati da guardiani Ss, che pur nella caduta rovinosa del Terzo Reich e nel conseguente disordine gerarchico, continuavano ad infierire su di essi. L’autore prende particolarmente in esame la situazione del campo di concentramento di Auschwitz.
Con l’avanzare delle linee sovietiche, i tedeschi furono costretti ad evacuare in gran fretta il campo verso occidente e, mancando i treni per i più, costrinsero i prigionieri a marce forzate nella neve. Secondo quanto è emerso dal processo contro Rudolf Hòss, comandante di Auschwitz (Cracovia, 1947), l’ordine di evacuazione generale dal campo fu impartito dal Capo supremo delle Ss e della polizia di Breslavia Ss Obergruppen- fùhrer Schamausser a metà gennaio del 1945. In seguito a questo ordine, furono fatti uscire tra il 17 e i 21 gennaio dal campo di Auschwitz I, da Birckenau e dai sottocampi,
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circa 56.000 detenuti ed avviati, incolonnati a piedi, in direzione ovest. Altri 2.200 prigionieri dei sottocampi furono evacuati il 23 gennaio verso ovest con i treni. Furono lasciati indietro, perché intrasportabili, circa 8500 prigionieri, più qualche altro che nella confusione era riuscito a rintanarsi.
A Glewitz e a Wodziglow le colonne appiedate venivano caricate su treni merci che prendevano la direzione di Mauthausen, Ra- vensbrück e Buchenwald, posti al centro del- l’entroterra nazista. Le condizioni dei trasporti erano, se possibile, ancora peggiori di quelle delle marce. Così racconta nel volume di Strzelecki, Josef Tabaczynski: "... sui vagoni di circa 20 mq. venivano caricati 100 prigionieri, c’erano cioè 5 prigionieri per ogni metro, non ci si poteva muovere, il treno andava molto lentamente, i prigionieri non erano in alcun modo protetti dal gelo e cadevano in deliquio, scene dantesche, ognuno combatteva per il posto che occupava...” . Da Glewitz, improvvisato campo di concentramento temporaneo, venne effettuata una parziale evacuazione verso Ble- chammer posto poco a nord-ovest che fu tra le più tragiche: poiché le truppe sovietiche avanzavano a semicerchio, Blechammer era destinata ad essere raggiunta ancora prima di Auschwitz (il 21 gennaio 1945); le Ss in ritirata incendiarono e fecero saltare con granate le baracche piene di prigionieri, sparando all’impazzata anche con le mitragliatrici.
Dall’inizio del 1945 tutto l’intero universo concentrazionario si mise in movimento: furono effettuate evacuazioni da Stutthof a Sachsenhausen, da Flossemburg a Bergen Belsen, da Buchenwald a Terezin tutte svoltesi nelle medesime condizioni. Quanto ai deportati di Auschwitz lasciati nel campo, ricordo che il nostro Primo Levi nel capitolo Storia di dieci giorni del suo libro Se questo è un uomo (Torino, Einaudi, 1958), dà una mirabile descrizione del loro stato: attanagliati dalla fame, dal freddo, dal terrore dei
gruppi sparsi di Ss, che presi dal panico della fuga sparavano su qualsiasi cosa si muovesse. I deportati vissero abbandonati dagli aguzzini e dal mondo, agonizzanti per nove interminabili giorni, prima che le avanguardie russe li trovassero in mezzo ai cadaveri. Con le colonne di evacuazione avevano lasciato il campo non solo le persone valide ma anche quei malati che avevano creduto così di sfuggire al massacro che temevano le Ss avrebbero compiuto al momento dell’abbandono del campo. Come sempre sotto il regime nazista, niente era sicuro: scelte casuali decidevano della vita e della morte.
Come si sa, tutta la ricerca “concentrazio- naria” risente di mancanza di documentazione ufficiale nazista, sistematicamente e deliberatamente distrutta alla fine della guerra. Anche per Strzelecki non è stato facile ricostruire la storia degli ultimi mesi di Auschwitz sulla base della documentazione frammentaria e scarsamente omogenea raccolta: qualche documento tedesco, gli elenchi nominativi dei trasferiti nei campi posti nell’entroterra del Reich, i protocolli delle esumazioni dei corpi dei prigionieri massacrati durante le marce e, non ultime, le te- stionianze, le relazioni, i ricordi raccolti dal Museo di Auschwitz e da altri istituti polacchi.
Piani generali tedeschi per le evacuazioni, malgrado le molte ricerche, non si sono trovati, anzi la storica francese Olga Worm- ser-Migot dubita fortemente che siano stati impostati: sarebbe stata, dice, una ammissione implicita da parte degli organismi responsabili, della disfatta incombente e ciò non era in alcun modo contemplato nelle alte gerarchie fino alla fine di dicembre del 1944. Quanto al trattamento dei prigionieri evacuati, non è rimasto nulla, si è ritrovata però l’istruzione per il campo di Stutthof del 22 (o 24) gennaio 1945 che, per estensione, può ritenersi valida anche per Auschwitz. Viene raccomandato esplicitamente alle Ss
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di scorta l’uso di armi da fuoco contro prigionieri che tentavano la fuga. Ma come mai, si chiede l’autore, le Ss massacravano anche i prigionieri che non tentavano di fuggire, ma che si fermavano perché troppo debilitati per continuare? Essi agivano di propria iniziativa o su ordini superiori? Un massacro così generalizzato e delle dimensioni come si ebbe (la metà circa degli evacuati soltanto arrivò a destinazione) non potè essere soltanto un’iniziativa proveniente dalle basse forze Ss ma anche dagli ufficiali che capeggiavano le colonne di marcia.
Del resto, da quando furono istituiti i campi di concentramento, le guarnigioni erano state sistematicamente abituate a trattare i prigionieri come nemici dello stato e a non tenere in alcun conto la loro vita. Le difficoltà che rappresentavano i prigionieri inabili alla marcia, venivano risolte semplicemente con la loro soppressione. Formalmente, coloro che erano stati messi in strada erano considerati gli abili; quelli che rompevano la fila durante il cammino, perché esausti, impedivano l’ordinato svolgimento della marcia e la soluzione più facile per le Ss era appunto trattarli come fuggiaschi o ribelli. I prigionieri, per parte loro, erano concentrati sullo sforzo essenziale di sopravvivere e durare. Esauriti e spauriti non badavano a quanto capitava agli altri. Questa è la ragione per la quale oggi mancano testimonianze documentate: i prigionieri più deboli si trascinavano di solito in coda alle colonne e quando cadevano a terra erano uccisi dalle Ss. I più forti, che si trovavano davanti, avevano limitata possibilità di osservare che cosa accadeva in coda. Udivano spari e vedevano corpi di prigionieri delle colonne precedenti perché le strade erano disseminate di cadaveri. Le relazioni e i ricordi raccolti dall’Archivio del Museo di Auschwitz si limitano quindi a asserzioni generali ove si dice che le Ss sparavano e molti morivano; non vi è però nessuna descrizione di come andarono le cose.
Sulla data esatta dell’elaborazione dei piani di evacuazione da Auschwitz non vi sono annotazioni precise: fin dal settembre del 1944 si era iniziata l’evacuazione dei magazzini e nell’agosto-settembre, a piccoli gruppi, prigionieri, che costituivano eccedenza di manodopera, venivano trasferiti, senza però che si parlasse ancora di evacuazione generale. Al contrario, nella primavera-estate del 1944, i nazisti pensavano ancora che il bacino industriale dell’Alta Slesia fosse sicuro e costituisse un importante retroterra per l’evacuazione dei campi posti più a est: vi fu infatti il trasferimento dei prigionieri dal campo di sterminio di Majdanek verso Auschwitz. Nell’ultimissima tavola riassuntiva, posta alla fine del volume l’autore elenca tutti i trasferimenti di prigionieri avvenuti prima dell’evacuazione generale dal campo. Si spiega così come mai, benché gli ebrei d’Europa fossero destinati quasi esclusiva- mente ad Auschwitz, alla liberazione, se ne trovassero disseminati in tutti i campi del Grande Reich. Dal libro di Strzelecki apprendiamo che i trasferimenti del mese di agosto furono sette per un totale di 6.000 prigionieri verso Flossemburg, Buchenwald, Natzweiler, Neuengamme, Ravensbruck; nel mese di settembre furono sedici per un totale di 14.000 prigionieri verso Flossemburg, Buchenwald, Ravensbruck, Mauthausen, Dachau e Stoccarda; in ottobre furono ben cinquanta per un totale di 26.000 prigionieri anche verso Gross Rosen, Stutthof, Sach- senhausen e Bergen Belsen; in novembre furono quarantatre per un totale di 14.000 prigionieri; nel mese di dicembre furono dodici per un totale di 2.800 prigionieri; nel mese di gennaio del 1944 furono nove per un totale di 1.800 uomini. Prima ancora dell’evacuazione generale di fine gennaio avevano dunque già lasciato Auschwitz circa cinquantamila detenuti. Degli altri circa cinquantamila deportati evacuati dopo il 17 gennaio, oggetto dello studio di Strzelecki, arrivarono a destinazione solo circa trentasettemila, spar
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pagliati agli inizi di febbraio per lo più tra Buchenwald, Mauthausen e Ravensbruck. Questo vuol dire che circa il quaranta per cento di essi morì per strada: si consumò
così l’ultimo atto dello sterminio compiuto dal sistema dell’oppressione nazista.
Liliana Picciotto Fargion
Letteratura e ideologia nella cultura russadi Pier Paolo Poggio
Il libro di Vittorio Strada (Urss-Russia, Rizzoli, Milano 1985, pp. 453, lire 30.000), che raccoglie una serie di saggi e numerosi articoli apparsi sul Corriere della Sera, si apre sulla constatazione dell’incapacità della cultura europea contemporanea di rinnovare la sua riflessione sulla Russia, e ciò proprio a partire dal momento in cui questa entrava in una grande mutazione storica. Di fronte al nodo della continuità-discontinuità tra Russia e Urss la cultura europea del XX secolo non si dimostra all’altezza di questo tema decisivo (e la cosa non è senza rapporti con la decadenza del vecchio continente).
Il grande ciclo della riflessione europea sulla Russia (così ben analizzato da Dieter Groh in La Russia e l’autocoscienza d ’Europa. Saggio sulla storia intellettuale d ’Europa, Torino, Einaudi, 1980) si isteriliva nell’adesione acritica al modello sovietico e, successivamente, nella superficialità della “sovietologia” . Anche di qui deriva il carattere enigmatico dell’Urss, che il tempo non ha diluito ma accresciuto, così che oggi ci pare di avere un’informazione sufficiente sull’età di Lenin e Stalin ma non riusciamo a capire che cosa è diventata l’Unione Sovietica e dove si sta dirigendo. Negli scritti di Strada non c’è una prognosi sul futuro russo-sovietico, anche se in vari punti egli sembra propendere per la diagnosi “nichilisti- co-scientifica” di Zinov’ev, ma uno sforzo costante di andare alle radici dell’enigma.
In questo lavoro utilizza due principali chiavi di lettura, due strumenti euristici per scoprire una verità ostica e inaccettabile, ben avviluppata da strati sovrapposti di ideologia: l’analisi della letteratura russa e sovietica, l’analisi del marxismo prima russo e poi sovietico. E tanto è elegante, raffinata, ariosa la sua esegesi della cultura letteraria russa (di ieri e di oggi), altrettanto è duro, perentorio, intransigente il suo attacco al marxismo, “macchina ideologica” e “strumento di asservimento mentale” .
In entrambi i casi, al di là di ogni possibile dissenso bisogna dire che il procedimento di Strada è legittimo e fondato: per motivi diversi e per l’impressionante rafforzamento degli stessi motivi, la letteratura russa è ancora oggi la via maestra per la comprensione del pianeta Russia (e la forma attraverso cui la Russia esprime la sua autocomprensione); non uno storico o un filosofo ma Solzenicyn ha fatto conoscere al mondo la verità dell’“arcipelago gulag” . E, d’altro canto, non è possibile evitare il nodo del rapporto marxismo-rivoluzione russa; per la storia e il destino della Russia così come del marxismo questo è il passaggio cruciale.
Tutto ciò si inquadra nel tentativo di spiegare il nesso Russia-Urss (e per questa via di riflettere sul rapporto tra Russia e Europa, tra Oriente ed Occidente) senza cadere nel “mito della Russia come essenza dell’Urss o, viceversa, dell’Urss come essenza della Rus
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sia” . Si tratta, ancora una volta, di affrontare il tema della continuità e/o della discontinuità della storia russo-sovietica, collocando all’interno di queste prospettive divergenti l’evento epocale della rivoluzione del 1917.
Rispetto alle soluzioni più correnti e scontate, Strada cerca un approccio originale, attivando una pluralità di percorsi, senza fare dell’ideologia marxista o, viceversa, della tradizionale autocrazia russa le cause uniche e fondamentali del sistema totalitario sovietico. (La prima tesi, come è noto ha attualmente il suo principale portavoce in Aleksandr Solzenicyn, la seconda è tipica della storiografia accademica occidentale, e ha il suo esponente di maggior spicco nell’ameri- cano Richard Pipes). A parte ogni contingenza storica, questo nasce piuttosto dalla fusione, operata da Lenin, tra ideologia marxista e specifico russo, rappresentato in modo emblematico dal populismo.
Secondo Strada l’eredità politico-intellettuale populista agì come componente decisiva nel marxismo russo (bolscevico) lo spinse a quel fatale esperimento di autorealizzazione che fu la presa del potere dell’ottobre 1917. La “logica populista” dello sviluppo accelerato è indispensabile per cogliere le coordinate teoriche leniniane e pur nella sua straordinaria novità ed originalità anche la concezione del partito bolscevica deve molto al populismo rivoluzionario. Sono temi che Strada ha sviluppato in altri suoi lavori e che tornano immutati in questi scritti più recenti, invariata è anche una lettura a mio avviso unilaterale del populismo, una lettura strumentale come quella che, da opposti punti di vista, ne avevano dato Dostoevskij e Lenin che sono un po’ i due estremi tra i quali si muove l’articolata indagine del nostro. L’anticapitalismo populista era sostanziato da una prospettiva comunitaria e da una critica radicale dello sviluppo industriale che lo apparentano molto più a Gandhi che non a Lenin e Stalin. (Su questi temi mi permetto
di rimandare a P.P. Poggio, Comune contadina e rivoluzione in Russia. L ’obsëina, Ja- ca Book, 1978, nonché a Franco Battistrada, Marxismo e populismo 1861-1921, id., 1982).
Così l’interesse dell’ultimo Marx per il populismo segna uno scarto esplicito rispetto all’impianto ideologico del marxismo (incluso il nascente marxismo russo di Plecha- nov), per cui anche se Strada ha ragione nel sostenere che nell’incontro paradossale tra Marx e la Russia “sta il centro della storia del nostro tempo, la sua questione veramente fatale” , ha poi torto nell’appiattire Marx sul marxismo (contraddicendo il suo programma di un “ritorno” ad un Marx deideologizzato, “un pensatore tra gli altri...”). Proprio le posizioni di Marx sulla Russia, sia prima che dopo il suo incontro con il populismo, rendono impossibile la costruzione di una continuità Marx-Lenin-Stalin, non a caso i marxisti russi erano costretti a “censurare” Marx e lo stesso faranno i custodi sovietici dell’ideologia. Può darsi che il socialismo reale sia anche l’unico socialismo possibile ma è certo che il Marx dell’ideologia marxista non è il Marx reale. E questa non è solo una questione filologica. (Sull’ultimo Marx e la Russia si veda: Late Marx and the Russian Road, ed by. T. Shanin, Routledge & Kegan Paul, London 1984).
Bisogna aggiungere che gli scritti di questo volume coprono un arco di tempo piuttosto ampio (del 1974 al 1984) e non è difficile individuare un percorso e un mutamento nella posizione ideologica dell’autore: partendo da un’adesione critica al marxismo (si veda il saggio su Plechanov) egli arriva ad una critica radicale del marxismo, ad una vera e propria battaglia contro il marxismo (perché “oggi il mondo è dominato dal marxismo”, p. 401). Strada dice che il “caso Solzenicyn”, cioè il silenzio che da noi è calato attorno allo scrittore russo, è un aspetto della “questione morale” in Italia; non pare azzardato cogliere in questo passaggio il mo
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mento di un congedo definitivo e l’approdo ad un post-marxismo che, in questi scritti, si concretizza in una critica “eccessiva” del marxismo.
Secondo Strada l’Urss costituisce la verità provata del marxismo e tutto il marxismo è riducibile al “marxismo reale” (cioè sovietico), d’altro canto “con la rivoluzione bolscevica il marxismo è diventato l’elemento centrale dell’attuale fase della storia umana” . Sono due tesi, a mio avviso, storicamente infondate. Il “marxismo reale” è precisamente una macchina ideologica oppressiva e solo i marxisti che ad essa hanno saputo sottrarsi hanno espresso qualcosa di significativo; inoltre, ed è più importante, né il totalitarismo sovietico né la sua ideologia rituale sono al centro del mondo contemporaneo. La loro forza atomica è del tutto inefficace per arginare una débàcle ideale di cui il libro di Strada è una significativa testimonianza.
In ogni caso gli scritti raccolti in Urss- Russia sollecitano approfondimenti in svariate direzioni, ma due mi sembrano fonda- mentali. Da un lato Io studio rinnovato de
la rivoluzione russa, su cui scontiamo un ritardo certo di per sé rivelatore ma ormai inaccettabile; dall’altro il rapporto tra movimento operaio internazionale e Urss. E se sul primo punto vi sono ostacoli concreti quasi insormontabili sul piano dell’accesso alle fonti storiche, per il secondo molto potrebbe essere fatto, anche in Italia ma ben poco concretamente si sta facendo. Dalla centralità monolitica si è passati ad una totale indifferenza, che evidentemente contagia anche gli storici i quali volgono i loro sguardi altrove.
Forse l’Urss-Russia non è al centro del mondo, come pensa Strada, ma lo è stata per molto tempo, oggettivamente per effetto del massimo evento epocale del nostro secolo, soggettivamente come mito a cui si ispirarono il movimento operaio organizzato e intere collettività umane. È quindi auspicabile che la contemporaneistica italiana, specie di sinistra, sappia raccogliere le stimolazioni e provocazioni contenute nel lavoro di Strada inaugurando una stagione meno asfittica di studi sull’Urss e la Russia.
Pier P aolo P oggio
Movimenti e partiti politici
M a r i a G r a z i a M e r i g g i , Il Partito Operaio Italiano. Attività rivendicativa, formazione e cultura dei militanti in Lombardia 1880-1890, Milano, Angeli, 1985, pp. 295, lire 20.000.
Quando, nel congresso di Genova del 1892, nacque il Partito dei Lavoratori Italiani, si poteva già parlare di una storia del socialismo nostrano. Una storia fatta di idee, di programmi, di giornali, ma anche di movimenti organizzati, di tentativi insur
rezionali, di lotte di fabbrica, di scioperi, di battaglie elettorali. Sul terreno ideologico nel bel mezzo del Risorgimento abbiamo già il socialismo proto-anarchico e libertario di Pisacane, ma è ben noto che fu soprattutto il grande evento della Comune parigina a spostare dal repubblicanesimo interclassista di matrice mazziniana al socialismo quote crescenti di giovani democratici sino ad allora devoti al “grande esule” oppure legati al mito garibaldino. Fu la stagione dell’anarchismo bakunista, la prima vera fase della storia del
socialismo e del movimento operaio, certo caratterizzata da ingenuità e da velleitarismo, com’era del resto inevitabile che fosse in un paese ancora non investito in pieno dalla rivoluzione industriale. E tuttavia momento importante, perché di lì cominciò il distacco dalla frazione democratica della borghesia post-risorgimentale; fu l’anarchismo il primo elemento catalizzatore di energie “rivoluzionarie” i cui obiettivi non coincidevano più con le mete politiche e ideali di Mazzini. Poi, da allora, soprattutto nell’area geografi
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ca della Val Padana e in particolare in Lombardia, in concomitanza con la sempre più marcata ed estesa affermazione del sistema di produzione capitalistico, fu un susseguirsi incalzante di nuove forme associative, di nuovi metodi di lotta, di nuovi programmi. Dalla Romagna, dalla Toscana, dal Sud contadino e precapitalistico, il centro di gravità del movimento operaio si' spostò a Milano, dove la strada della progressiva differenziazione ideologica e organizzativa del proletariato dalla borghesia, anche quella più radicale, conobbe le tappe più importanti, ivi compresa la fondazione di un nuovo partito. E questo fu il Partito Operaio Italiano, sul quale da tempo noti storici, si pensi a Manacorda, Merli, Briguglio, hanno dedicato molte e dense pagine. Eppure, a tuttoggi mancava una vera ricerca sistematica, una monografia capace di fare piena luce sui tratti distintivi di questa breve ma fondamentale esperienza. Lacuna che ora è stata almeno parzialmente colmata da Maria Grazia Meriggi con un volume teso a far emergere la fisionomia peculiare — culturale e ideologica — del Poi. Partito operaista non solo nel nome, cioè organizzato e diretto in buona parte da operai autodidatti, erede del giornale comu- nalista “La Plebe”, filiazione del Circolo Operaio di Milano, questo piccolo partito con ambizioni nazionali, di fatto eminentemente lombardo, confinò di proposito la propria azione al solo settore delle rivendicazioni economiche, rifiutando da un lato l’intervento mediatore dello Stato, dall’altro l’allargamento della propria azione alla sfera politica. Fatti noti, tanto noti
che è ormai quasi un luogo comune storiografico parlare del Poi in termini di operaismo, economicismo, pansindacali- smo, o magari di settarismo operaistico e via elencando. Sicché, in una visione della storia di stampo più evoluzionista che storicista, per cui al buono succede il meglio e al meno il più, si è soliti indicare nella nascita del Partito Socialista il salto di qualità che permise di superare sia l’infantilismo rivoluzionario degli anarchici sia il settarismo apolitico o economicista del Partito Operaio.
È chiaro che in questo schema c’è molto di vero, ma ci pare che porsi l’interrogativo se per caso il superamento dell’operaismo non abbia anche comportato qualche perdita, non abbia un poco contribuito ad appannare l’alterità, almeno potenziale, della classe operaia organizzata in partito, sia non solo legittimo ma utile. E la Meriggi con la sua paziente ricerca, pur non ponendosi il quesito in modo così esplicito, ha aiutato a capire meglio le ragioni di una scelta che anche soggettivamente, cioè dai capi e dai militanti del partito, era proprio vissuta in funzione dell’ostinata volontà di riuscire ad essere protagonisti dalla rivoluzione industriale pur rimanendo diversi e opposti tanto al padrone quanto allo Stato monarchico e alla sua classe dirigente. Portare la lotta nelle fabbriche, organizzare scioperi e Leghe di resistenza, fondare un giornale, “Il Fascio Operaio”, il cui prevalente interesse si concentrava sul mondo del lavoro, volle dire al tempo stesso uscire dal rivoluzionarismo verbale e sottolineare concretamente, nello scontro di classe che
quotidianamente si registrava nelle città e in provincia, la difformità delle condizioni materiali di vita e quindi degli obiettivi del nascente proletariato nei confronti dell’ala sinistra della borghesia. E proprio la scelta dell ’economico rispetto al politico fu un modo per sottrarsi alla egemonia di quest’ultima, la quale non poteva infatti condividere, degli operaisti strumenti, metodi e finalità di lotta che contrastavano con il suo dichiarato solidarismo sociale. Questa consapevolezza, questa tensione etica verso la costruzione di “una controsocietà con suoi valori e comportamenti”, per usare le parole della stessa autrice, è ben lumeggiata nel libro della Meriggi.
Certo, rimanere ancorati alla sola dimensione economica delle lotte avrebbe voluto dire restare subalterni sul piano politico, e ben lo comprese Turati allorché dette vita al Partito Socialista.Ma resta appunto da chiedersi se la fase della maturità rispetto a quella dell’infanzia del periodo della “Plebe” e del “Fascio Operaio” non sia stata, dal punto di vista dei valori e di una cultura autonomi, anche un parziale riallineamento sugli standard della borghesia democratica. In ogni caso, in attesa che si approfondisca questa tematica, è già importante che si disponga oggi di un testo che riconosca agli operaisti se non proprio un disegno culturale coerente (parlare poi di “strategia” come fa la Meriggi ci pare francamente eccessivo), almeno un coraggio e una volontà di autoaffermazione che non si può riduttivamente confinare nella categoria dell 'economicismo.
Claudio Giovannini
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M a u r i z i o D e g l ’I n n o c e n t i , Geografia e istituzioni del socialismo italiano, Napoli, Guida, 1984, pp. 254, lire 22.000.
Nell’ambito degli studi d’insieme sul Partito socialista italiano è stato fino ad oggi privilegiato un taglio metodologico di tipo etico-politico, volto a ricostruire le biografie degli esponenti di primo piano, le posizioni del partito nei confronti dei più importanti avvenimenti interni e internazionali, le vicende della lotta di corrente esaminate attraverso i dibattiti di vertice. Principale merito del volume di Degl’Innocenti è di avere adottato un taglio metodologico nuovo nell’analizzare le vicende del Psi dalle origini alla prima guerra mondiale, spostando l’attenzione su campi di ricerca poco studiati, quali quelli relativi ai caratteri originari del partito, alla geografia elettorale, alle strutture organizzative, alla base e alla composizione sociale.
Il progressivo radicamento del Psi all’interno di un movimento operaio così vasto e complesso come quello italiano viene in tal modo seguito attraverso l’avvio e l’evoluzione di una propaganda di massa, le iniziative editoriali, la promozione del tessuto associativo e cooperativo, la acquisizione delle sedi materiali, la costituzione delle strutture sindacali e territoriali.
L’autore non si limita tuttavia a delineare la mappa del complesso e affascinante “universo socialista” ma esprime anche diverse osservazioni critiche sulla storiografia in merito, che avrebbe forse valso la pena raccogliere in una introduzione e che è utile qui ricordare, anche perché chiariscono meglio il
particolare taglio del volume. A parere dell’autore, ad esempio, il “topos del ritardo” (p. 13), ovvero l’interpretazione della fondazione del partito come un episodio ritardato nel quadro europeo rispetto alla storia della socialdemocrazia tedesca e alla fondazione della Prima Internazionale (1889), ha finito per caratterizzare una chiave interpretativa tesa a sottolineare la natura periferica e provinciale del Psi. Qui al contrario si sostiene come l’assetto politico, programmatico e organizzativo che il Psi consegue tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale sia in consonanza con gli sviluppi della socialdemocrazia europea, nel quadro di un processo sovranazionale che vede la nascita e lo sviluppo della società di massa. Ha pesato inoltre sulla storiografia quella che l’autore definisce la “contrapposizione delle due anime”, la riformista e la rivoluzionaria che, formatesi agli inizi del secolo avrebbero ripercorso tutta la storia del partito “come se questa, per l’appunto, fosse rimasta ferma agli inizi del secolo” (p. 17). Per superare tale interpretazione, frutto dell’uso di categorie metastoriche, diventa fondamentale ricondurre le tendenze all’interno del Psi ad una radice sociale, politica e organizzativa specifiche (come ha fatto per primo Procacci). In altri termini, ci si preclude la comprensione di ciò che è stato, per il periodo preso in considerazione il fenomeno riformista, con le sue luci e le sue ombre, se lo si continua a studiare sotto il profilo politico-ideologico e di vertice, e non per il ruolo concretamente svolto nel processo di sviluppo e di emancipazione socia
le delle classi lavoratrici. Coerentemente con tale premessa, nell’ultimo capitolo del volume le varie fasi di prevalenza riformista, integralista o rivoluzionaria ai vertici del partito vengono considerate come il riflesso delle profonde trasformazioni che investono la struttura economica e sociale del paese.
E ancora, ad una linea interpretativa che ha privilegiato la sottolineatura del carattere moderno e nazionale del partito socialista, il primo nella storia d’Italia, si è contrapposta, da Gramsci in poi, una diversa interpretazione, che individua il tratto specifico del partito nel suo configurarsi come movimento, a carattere decentrato e con scarsa omogeneità. Non si fornisce qui una risposta, ma si fa presente l’esigenza di approfondire tale tematica attraverso lo studio dei gruppi dirigenti e della loro omogeneità, delle strutture organizzative, dell’efficacia della politica di propaganda e dell’integrazione sociale da parte del partito.
Proprio sui temi della propaganda e dell’integrazione sociale, nonché dei reciproci rapporti tra associazioni cooperative, organizzazioni di resistenza e strutture di partito, il volume presenta, nel secondo capitolo, gli spunti più nuovi e interessanti. Rinviando a studi analoghi compiuti per gli altri partiti socialisti europei, vengono così analizzate le forme della propaganda, dal comizio ai simboli iconografici, dall’importanza del canto e dei cori popolari e di protesta, ai variegati titoli dei periodici locali, dalle mutazioni del lessico politico alla possibilità di esistenza di un’“arte sociale” nell’epoca della rivoluzione
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industriale, per constatare come ci si trovi di fronte ad una propaganda “non passiva, che tende a coinvolgere, a richiamare il motivo dell’avanzata classe operaia-popolo cosciente” (p. 38), e che nello stesso tempo riprende diversi motivi provenienti dai movimenti rivoluzionari e socialisti dell’Ottocento e dalla tradizione internazionalista.
Irma Staderini
U g o I n d r i o , Saragat e il socialismo italiano dal 1922 al 1946, Venezia, Marsilio, 1984, pp. 239, lire 24.000.
Il libro segue il filo degli avvenimenti di carattere generale dal 1922 — che segna la disfatta dei partiti democratici di fronte alla reazione fascista — al 1947 — l’anno della scissione socialista — con particolare attenzione alle vicende del Psi e alla riflessione ideologica e politica di Giuseppe Saragat, ricostruita attraverso la bibliografia sul periodo e le testimonianze personalmente rese all’autore. Nell’ottobre 1922 prende la tessera dell’appe- na sorto Partito socialista unitario e collabora attivamente a “La Giustizia”, diretta da Claudio Treves, considerato come un “padre spirituale”. A differenza di altri antifascisti Saragat espatriato, clandestinamente insieme a Treves nel novembre 1926, non si trasferisce a Parigi ma a Vienna, dove entra in contatto con il gruppo di Otto Bauer, che elabora in quegli anni l’“austromarxismo”. L’esperienza austriaca, tra il 1927 e il 1930, è fondamentale per l’evoluzione delle sue posizioni: dopo la fine della antifascista
(1933) e l’avvento del nazismo in Germania diviene un convinto assertore dell’unità tra socialisti e comunisti, che considera non una mossa tattica ma una possibilità di rinnovamento dei limiti ideologici del riformismo e del comuniSmo, nell’ambito di una rinnovata concezione della democrazia, non più patrimonio esclusivo della borghesia ma obiettivo di conquista da parte del proletariato nella convinzione che “è il problema della libertà umana che domina tutto” (p. 103). Saragat, nel corso degli anni trenta, è l’esponente maggiore di una interpretazione di Marx ben lontana dall’accezione leninista: il marxismo è visto non come dittatura del proletariato per instaurare il dominio di una classe sulle altre ma come “sforzo per arrivare alla abolizione delle classi, alla coscienza della libertà, all’umanismo integrale” (p. 125). Nel 1934 accetta quindi l’idea dell’alleanza tra socialisti e comunisti per combattere il nazifascismo, negato- re dei valori autentici della civiltà occidentale in nome dello stato e della razza; ma nel 1939, di fronte al patto Molotov-Rib- bentrop, reagisce violentemente, battendosi nel partito contro la tesi di Nenni, che propone di condannare l’accordo russo-tedesco mantenendo l’unità d’azione con i comunisti. Nonostante questo contrasto, il binomio Nenni-Saragat è strettissimo dal 1930 al 1945. In seguito le divergenze tra i due leader socialisti si acuiscono fino al congresso di Firenze del Psiup nell’aprile 1946, nel corso del quale Saragat si fa sostenitore dell’autonomia socialista contro le correnti fautrici della politica di collaborazione e di unità con i
comunisti. In questo periodo il conflitto tra Saragat e Nenni appare estremamente personalizzato, con conseguenze paralizzanti sul partito; a giudizio dell’autore, ciò è dovuto al fatto che il futuro presidente della Repubblica non si impegna a sufficienza nella vita di partito a causa degli incarichi di governo e istituzionali assunti tra il 1944 e il 1946 (ministro senza portafoglio e ambasciatore a Parigi rispettivamente nel primo e secondo governo Bonomi, presidente della Costituente dal giugno 1946). La regressione del Psiup nelle elezioni del novembre 1946 rispetto alle amministrative della primavera e ai risultati del 2 giugno e la convinzione che presupposto per portare avanti una politica realmente socialista fosse un rapporto polemico — quanto meno sul piano ideologico — con il Pei, sono tra i motivi che conducono Saragat e il suo gruppo alla scissione e alla costituzione, il 12 gennaio 1947, del Partito socialista dei lavoratori italiani.
La tesi di fondo del libro, espressa dall’autore nell’introduzione, è che nel 1946 il Partito socialista perde la terza occasione storica di arrivare in forze al potere, dopo la rinuncia ad andare al governo con Giolitti ai primi del secolo e nel 1919. La frattura tra Nenni e Saragat vanifica il successo elettorale del giugno 1946, quando il Psiup è il primo partito della sinistra: è “la chimera del fronte unico proletario ad ipnotizzare Nenni mettendo il suo partito alla mercè di quello comunista e costringendo Saragat a fronteggiare il prepotere democristiano con scarse forze” (p. 26). Tale giudizio può essere più o meno con-
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divisibile: occorre tuttavia rilevare che, nel corso della narrazione, il punto di vista dell’In- drio sui singoli avvenimenti non risulta altrettanto chiaramente, limitandosi egli spesso a citare ampiamente e confrontare, nel testo, i lavori esistenti sull’argomento (soprattutto Manacorda, ma anche Valiani, Amendola, Nenni e altri).
Irma Staderini
F r a n c e s c a T a d d e i , Il socialismo italiano del dopoguerra. Correnti ideologiche e scelte politiche (1943-1947), Milano, Angeli, 1984, pp. 495, lire 28.000.
Come spesso è accaduto nel caso di periodi storici differenti, anche per la fase resistenza — immediato dopoguerra la ricostruzione, critica e analitica, della vicenda socialista avviene con un certo ritardo, a completare un panorama storiografico dove le analisi relative a altre forze politiche appaiono già da tempo sistematizzate, approfondite e discusse. Va ascritto a merito di Francesca Taddei, dunque, innanzi tutto, proprio l’accurata descrizione e l’ordinato collegamento degli avvenimenti che, all’interno e all’esterno del Psiup, tra il 1943 e il 1947, hanno avuto rilievo per la sua storia.
Per la verità, più che l’affresco del partito nel suo complesso, l’autrice disegna quello del gruppo dirigente, soffermandosi in particolare modo sul dibattito politico e dottrinario che impegna i vari leaders. Questo approccio metodologico, che trova precise motivazioni nella storiografia dei partiti politici, tanto più si giustifica nel caso del partito socialista. Infatti, compren
dere i percorsi delle correnti, stabilire le ragioni dei contrasti o delle intese tra Nenni, Saragat, Pertini, Morandi o Basso, diventa essenziale e, in qualche modo, preliminare per qualsiasi ulteriore riflessione o considerazione che attenga ad aspetti organizzativi del partito.
Taddei ha affrontato un lavoro impegntivo, basato sul paziente confronto di una notevole mole di materiale — la stampa di partito innanzi tutto ma anche documenti d’archivio. Ne è risultata una narrazione dettagliata, che lascia trasparire precisi intendimenti filologici, minuziosa al punto di rendere ardui alla lettura taluni passaggi. Il rischio, del resto, deve essere ben calcolato dall’autrice alla quale stava a cuore, principalmente, fare luce, sulla scorta di inoppugnabili riscontri testuali, su alcuni nodi, troppo sommariamente “tagliati” in sede storiografica, magari sulla base di persistenti e condizionanti giudizi politici.
In effetti, soprattutto per gli anni della resistenza, un’analisi di questo tipo si rendeva necessaria, al fine di verificare l’attendibilità dell’opinione più diffusa, che attribuisce negativamente al Psiup “giacobino” un ruolo destabilizzante dell’unità cielle- nistica, dal Congresso di Bari fino alla liberazione e oltre. Non è da credere, con ciò, che l’autrice sia mossa da intenti agiografici o pedestramente “rivalutativi”. In molti casi, anzi, la Taddei esprime riserve altrettanto severe quanto quelle formulate da Aldo Garosci (La ricomposizione del Psi, “Storia e politica”, 1975), da Paolo Spriano (Storia del Partito comunista italiano, Torino, Einaudi, 1973) o da Al
do Agosti (Rodolfo Morandi, Bari, Laterza, 1971). Anzi le sue critiche appaiono semmai ancor più rafforzate e convalidate proprio dall’esame delle fonti dirette.
Ma, d’altra parte, Taddei perviene nel complesso a valutazioni più articolate di quelle correnti, per alcuni versi più equilibrate e per altri, invece, financo più esplicite. Per esempio quando sottolinea che la generosa, apprezzabile, intenzione del Psiup di coniugare insieme l’indirizzo dell’unità d’azione con i comunisti e la linea autonoma della “alternativa di potere”, non riuscì a concretarsi e si tradusse in sterile velleitarismo, non solo per carenze soggettive ma anche per i condizionanti ostacoli frapposti dall’esterno, in primis del Pei, con i suoi “continui rilanci massimalisti e strumentali” (p. 101) “Strumentale” l’autrice definisce infatti la profferta fusione avanzata, a date ricorrenti, dal Pei nei confronti del Psiup; non può considerarsi casuale, a giudizio di Taddei, che essa venga a coincidere sempre con momenti di particolare tensione e incomprensione tra i dirigenti socialisti.
Un altro tema esaminato con particolare interesse in questo volume — si può dire anzi che ne sia il filo conduttore — è quello dell’unità d’azione, cioè il patto di alleanza che legava i socialisti al Pei dal 1934 e che, dopo la traumatica rottura del 1939, sarà riconfermato ostinatamente, a dispetto delle scissioni e dei pessimi risultati soprattutto elettorali degli anni cinquanta. È cosa nota che tra i dirigenti socialisti, tutti all’inizio concordi, compresi Saragat, Mondolfo e Faravelli, il più
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deciso assertore dell’alleanza sia stato Nenni. Per lui il Patto di unità d’azione rappresentava la chiave di volta dell’intero progetto di trasformazione istituzionale, economica e politica del paese.
L’insegnamento della storia costituisce per Nenni la prima giustificazione del vincolo di classe con il Pei. Ma, all’origine del suo persistente frontismo esistono anche due presupposti e un convincimento, gli uni come l’altro destinati a rivelarsi infondati, e in qualche misura, ingenui e utopistici.
Il primo presupposto: partiti socialisti europei e in particolare il Labour Party (con il quale Nenni aveva intessuto una serie di collegamenti, proprio per controbilanciare il peso e la pressione del patto con il Pei) avrebbe via via radicalizzato le loro posizioni politiche, offrendo un valido supporto internazionale alla linea del Psiup, che puntava alla “rottura della continuità” attraverso un rafforzamento delle sinistre nell’ambito della coalizione governativa ciellenista.
Il secondo presupposto: il sistema del “socialismo realizzato” avrebbero recepito i valori delle esperienze socialiste occidentali e si sarebbe alla fine democratizzato, a condizione che i partiti socialisti avessero incalzato dappresso i partiti comunisti. Infine il convincimento, frutto di una visione fiduciosa e ottimistica che portava a sopravvalutare la forza della tradizione socialista e a enfatizzare le potenzialità organizzative dei vecchi e nuovi militanti: la battaglia, più o meno silenziosa, con i “cugini” per conquistare l’egemonia dello schieramento
progressista e del movimento organizzato dei lavoratori, si sarebbe conclusa con la vittoria del Psiup sul Pei. Una certezza, questa che animava anche Basso (al cui periodo di segreteria vengono dedicate alcune interessanti e recise annotazioni, ad es. a p. 368), ma che, nel suo caso, si colorì di troppe implicazioni ideologiche, sì da confondersi con la più delicata e ambigua tematica del partito unico.
Sancito il fallimento della linea Nenni (per assecondare la formula tripartita, che avrebbe poi avvantaggiato esclusiva- mente la Democrazia cristiana) e, soprattutto dopo la nascita di Cominform, con l’immediato e conseguente irrigidimento del quadro internazionale, per il partito socialista arriva il momento della resa dei conti. Questa sorta di “rimozione” di un dato di fatto sgradevole come è quello del conflitto aperto tra i blocchi (insieme alla paura angosciosa di commettere un atto sacrilego contro la classe lavoratrice, mettendo in dubbio il legame di solidarietà con il Pei) induce i socialisti a affrontare una serie di scelte sempre più compromettenti e alla lunga, anche rischiose per l’autonomia e la sopravvivenza stessa del partito.
Il giudizio con il quale Taddei conclude la sua analisi non suona certo assolutorio. A partire dall’autunno 1947 — osserva — il Psi “imbocca la via degli aggiustamenti surrettizi e progressivi della propria linea politica, fino a farla interamente combaciare con i presupposti e i caposaldi che, da molto tempo, caratterizzavano quella comunista. Così ‘anziché sottoporre a un bilancio critico che, per essere utiliz
zabile in sede politica, deve essere necessariamente serio e aperto, i risultati di una linea che ci si ostina a non volere riconoscere fallita, si preferisce ricorrere a furberie oratorie, assoluta- mente vane nella loro inconsistenza’” (p. 426).
Marina Tesoro
Filippo Turati e il socialismo europeo, a cura di Maurizio Degl’Innocenti, Napoli, Guida, 1985, pp. 428, lire 35.000.
Il volume è composto da una raccolta di interventi tratti dagli atti del seminario storico internazionale su Filippo Turati e il socialismo europeo (Milano, 8- 11 dicembre 1982), organizzato dall’Istituto socialista di studi storici, in collaborazione con la Friedrich Ebert Stiftung, la Fondazione Brodolini, l’Office Universitaire de Recherche Socialiste.
Il seminario, come osserva nella Premessa Degl’Innocenti, rappresenta il coronamento della ripresa di interesse nei confronti del socialismo riformista e della elaborazione turatiana, ripresa di interesse partita una decina di anni fa dall’esigenza di ricostruire l’universo socialista in tutta la sua complessità, da una diminuita influenza dell’ideologismo esasperato e dal superamento parziale dei vecchi canoni dell’indirizzo metodologico etico-politico. L’ampia partecipazione dei relatori, il carattere di rassegna sui risultati conseguiti dalla più recente storiografia europea sul movimento operaio e socialista, la novità stessa dei temi indicati (vengono affrontati il rapporto tra leader
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e masse nell’età della Seconda Internazionale, il senso della storia e i socialisti, la lotta all’arretratezza) dimostrano nello stesso tempo la natura aperta e problematica del convegno, che può quindi segnare l’avvio di una nuova fase di iniziative. Tra i risultati più rilevanti dell’insieme dei saggi — nota ancora Degl’Innocenti — c’è il “definitivo inserimento del socialismo italiano e specialmente del riformismo turatiano nell’ambito del socialismo europeo”, un approccio che permette un ulteriore passo avanti agli studi di settore nell’ottica di una storia comparata.
Dalla lettura dei vari interventi emergono i numerosi caratteri comuni ai leader della socialdemocrazia europea — Adler, Turati, Bebel, Hardie, Jaurès, Kautsky, Vanderveld — nell’epoca in cui si va affermando la “politica delle masse”: la centralità attribuita al Parlamento, l’impegno giornalistico sulla stampa di partito, la capacità oratoria, la ricerca di un rapporto non conflittuale con le centrali sindacali, l’obiettivo dell’alleanza tra intellettuali e proletariato e — più in generale — il passaggio dalla dimensione regionale e locale dell’attività politica per pensare ed agire in termini nazionali e talvolta internazionali. Obiettivo comune è la lotta all’arretratezza e l’impegno a favore del progresso economico e sociale. Diversi, a seconda delle peculiarità nazionali, le strategie e i modi di intervento sulla complessa realtà della società industriale: dalla ricerca di conciliazione tra dimensione economica e dimensione etico-pedagogica che sta alla base delle iniziative del
l’Umanitaria — analizzate nell’interessante saggio di Enrico Deeleva, Socialismo e etica del lavoro: la società Umanitaria — alla “coscienza tecnica” presente nel socialismo rivoluzionario francese che si concretizza tra l’altro, secondo Jaques Julliard (7/ sindacato d ’azione diretta e la produzione), nella lotta per una maggiore concentrazione nell’industria. Marek Walden- berg— in un intervento denso di spunti su: Kautsky e Bernstein: due concezioni della strategìa — sostiene che il marxismo della Seconda Internazionale è nel complesso coerente con il corpo principale della dottrina di Marx. Il giudizio negativo ripetutamente espresso su tale marxismo — visto alternativamente come dogmatico oppure deformato rispetto al pensiero di Marx — è conseguenza delle critiche rivolte ai partiti socialisti della Seconda Internazionale, in particolare per quanto riguarda la loro reazione alla guerra. A parere di Waldenberg si dovrebbe parlare di “crollo della Seconda Internazionale” in modo meno generico: la crisi del socialismo comincia prima della guerra mondiale e dura più a lungo di questa, avendo le sue cause profonde nelle strutture economiche e sociali della società di allora. Si può quindi pensare che nessuna delle due strategie di portata europea emerse dall’inizio del secolo — il revisionismo da un lato e il marxismo ortodosso come “ideologia dell’assoluta opposizione” dall’altro — avrebbero potuto assicurare un successo al movimento operaio negli anni precedenti la prima guerra mondiale.
Nel corso del primo dopoguerra non mancano tuttavia da
parte dei leader socialisti europei riflessioni e proposte incisive che tengono conto delle trasformazioni sociali e politiche legate al conflitto: è il caso di Turati, il cui celebre discorso parlamentare del giugno 1920 viene analizzato nell’intervento di Giovanni Sabbatucci, “Rifare l ’Italia”: Turati tra dopoguerra e fascismo, come il risultato di una elaborazione cominciata nell’ultima fase del conflitto mondiale e di un continuo lavoro di aggiornamento e confronto con le varie esperienze internazionali, in particolare con i tentativi di “economia razionalizzata” della Germania weimariana. Attraverso la lotta al fascismo e al nascente nazionalsocialismo si costituisce a partire dagli anni trenta un nuovo internazionalismo che, come osserva Simona Colarizi nel saggio che chiude il volume Fascismo, crisi delle democrazie, internazionalismo, non rinnega la solidarietà tra la classe lavoratrice mondiale e tuttavia si differenzia dall’internazionalismo della prima guerra mondiale perché la difesa delle libertà democratiche è ora divenuta patrimonio comune del movimento socialista europeo.
Irma Staderini
A n t o n i o P a r i s e l l a (a cura di), Gerardo Bruni e i cristiano-sociali, Roma, Edizioni Lavoro, 1984, pp. 300, lire 25.000.
Ben poco, al di fuori della ristretta cerchia degli studiosi del mondo cattolico si conosceva del Movimento cristiano-sociale a suo tempo efficacemente definito come “una specie di Partito d’azione cattolico”. In gran
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parte affidata alla memorialistica coeva e posteriore la vicenda dei cristiano sociali, che ebbero in Gerardo Bruni la figura di leader e protagonista, risultava in effetti defilata dal pur ricco dibattito storiografico sulla variegata presenza dei cattolici nella storia italiana. Quanto mai opportuno appare dunque questo contributo collettaneo, che raccoglie gli atti del convegno su “Cristiani a sinistra in Italia fra fascismo e repubblica: l’esperienza di Gerardo Bruni e del Movimento cristiano sociale”, organizzato nel 1981 dalla Fondazione Basso con la collaborazione dell’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla Resistenza. Alla luce dei contributi raccolti con passione, meticolosità e rigore da Antonio Parisella, che ormai da anni si occupa del movimento di Bruni, si può dire senz’altro che il volume risponde alle aspettative di chi rivolge l’attenzione alla storia dei movimenti e dei partiti politici non solo allo scopo di misurare il valore etico e culturale di un’esperienza politica in termini di consenso elettorale ma con la sensibilità di analizzare anche la presenza di movimenti e gruppi minoritari fortemente motivati e non conformisti quali indubbiamente furono i cristiano sociali.
Le vicende dei cristiano sociali, occorre precisare, vanno interpretate non solo entro le date in cui il movimento nacque e si disciolse dal 1941 al 1949 ma in un arco di tempo ben più ampio che ha lambito e condizionato anche i recenti travagli della sinistra cattolica italiana. Non a caso — e molto opportunamente — al volume ha contribuito chi di quella esperienza fu te
stimone o protagonista (Enzo Enriquez Agnoletti, Ada Alessandrini, Luciano Merlini, Adriano Ossicini, Ezio Rosini, Paolo Emilio Taviani) chi, più recentemente ne ha ereditato i travagli e le tensioni ideali (Lidia Giancola Traversa, Antonio Zavoli) e chi, da storico, ha analizzato le radici ideali e le complesse filiazioni culturali dei cristiano sociali (Maria Cristina Giuntella, Antonio Parisella, Luigi Urettini, Guido Verucci). Una ricostruzione quindi che interseca con esito felice, storia, memoria e passione militante.
La collocazione del movimento all’interno del mondo cattolico è bene precisata da Antonio Parisella laddove sottolinea che l’esperienza dei cristiano sociali “rappresentava (insieme con altre) un notevole tentativo di smuovere i cattolici, parlando il loro stesso linguaggio, in direzione di una democrazia intesa in senso non restauratore, anzi, fortemente progressivo e, tendenzialmente, socialista” (p. 31).
E tale collocazione trovò un puntuale riscontro nelle alleanze che il movimento di Bruni venne via via stabilendo nel corso della sua breve esistenza. È pur vero che alla base del movimento persisteva un substrato di anticomunismo che, come bene sottolinea ancora Parisella, aveva l’obiettivo — come alle origini di quasi tutte le sinistre del movimento cattolico — di contrastare il comuniSmo sul suo terreno. Tuttavia furono altresì presenti dei concreti atteggiamenti che palesarono i limiti che il movimento riteneva non si dovessero superare per non porsi al servizio della reazione. Significativa, al proposito, l’asprezza con la quale Bruni, nel 1947, denun
ciò l’anticomunismo saragatia- no e la successiva adesione dello stesso leader cristiano-sociale al Fronte democratico popolare. E sotto questo punto di vista — osserva Verucci — l’esperienza di Bruni anticipò per certi versi l’evoluzione dei gruppi della sinistra cattolica fra gli anni Cinquanta e Settanta, “evoluzione che si può schematicamente definire come una progressiva ra- dicalizzazione sul piano politico-religioso, come il passaggio da una prospettiva d’impegno in un’area socialista riformista a quella d’impegno in un’area socialista rivoluzionaria, il passaggio da una fase in cui i punti di riferimento culturale sono ancora quelli della tradizione del pensiero cattolico a una fase in cui se ne vengono assunti altri e diversi, tra cui, fondamentale, il marxismo” (p. 62).
Il comuniSmo e il marxismo non furono tuttavia gli unici termini di confronto del movimento di Bruni la cui complessità ideale traspare da puntuali contributi sulla ramificazione locale come quello di Maria Cristina Giuntella dedicato all’Umbria. Qui infatti l’autrice analizzando l’evoluzione del leader locale, Francesco Francescaglia, afferma che “forse fu proprio il movimento di Capitini a raccogliere l’eredità dei cristiano sociali perugini” (p. 202).
È pur vero inoltre che l’azione del movimento se testimoniava 1’esistenza dei cattolici impegnati a sinistra e comportava un confronto non privo di riserve col marxismo e il comuniSmo, non rinnegava però le radici di una cultura cattolica che si richiamava ad un ideale storico di matrice tomista. Nasceva così l’esigenza di salvaguardare la fi
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sionomia del movimento sia dalla Democrazia cristiana che dai comunisti; e anche il rifiuto di confluire nella Sinistra cristiana per non confondere le caratteristiche ideali e politiche del movimento nell’opzione comunista e marxista.
Di qui, in definitiva, l’originalità di quella esperienza.
Stefano Pivato
A l e x a n d e r J . D e G r a n d , Angelo Tasca. Un politico scomodo, Milano, Angeli, 1985, pp. 267, lire 24.000.
L’autore, uno studioso americano, che insegna alla Roosevelt University di Chicago e che ha già scritto di storia italiana contemporanea, presenta qui il tormentato itinerario di Angelo Tasca, lungo la storia del movimento operaio dei primi sessantanni di questo secolo. La biografia di Tasca si intreccia strettamente con la storia del Partito socialista e del Partito comunista. Aderisce all’ala rivoluzionaria e massimalista del Psi, dedicandosi in particolar modo alla battaglia culturale per definire l’identità del movimento socialista, influenzato in quegli anni da filosofie spesso molto contraddittorie, in cui confluivano Marx, Engels, Sorel, Croce. Soreliana è certamente l’idea che non vi fosse passaggio automatico dal sistema capitalistico alla proprietà collettiva e che tale transizione richiedesse un atto di volontà e potesse realizzarsi solo con la violenza. Di qui l’importanza sempre annessa da Tasca alla battaglia culturale, per far crescere il soggetto della rottura rivoluzionaria. Già in
questa vigilia di guerra emergono con nettezza i temi e gli scontri che divideranno in seguito il movimento socialista e porteranno alla scissione di Livorno del 1921.
Di questi anni sono i rapporti intensi con Gramsci, Bordiga, Salvemini, Terracini, Togliatti. La guerra mondiale e la rivoluzione bolscevica portano Tasca a fondare con Togliatti e Gramsci “L’Ordine nuovo”. Il tentativo era di capire quale potesse essere il significato del leninismo nel contesto italiano. Tasca entrò in contrasto con Gramsci sul ruolo dei consigli e successivamente con Bordiga e Togliatti.
L’autore dimostra come Tasca fosse tra i primi dirigenti della sinistra italiana a capire la sfida di massa del fascismo e perciò a sostenere la necessità di un vasto fronte sociale e politico di alleanze. Di qui l’opposizione alla teoria del “sociolfascismo” e il suo appoggio a Bucharin, nel dibattito interno al gruppo dirigente sovietico.
Queste posizioni portarono alla sua espulsione dal Partito comunista d’Italia. A partire da questo momento Tasca avvia una revisione sempre più radicale del marxismo, nel quadro di quel movimento revisionista, di cui De Man fu, in Belgio, il principale esponente, i cui caposaldi erano la riduzione alla dimensione etico-psicologica del socialismo, la pianificazione nazionale, oltre l’internazionali- smo, e la critica della democrazia liberale, in termini molto simili alla critica fascista. Nel 1935 si iscrisse al Psi, alleandosi alla destra socialista anticomunista e antiunitaria. L’esito di queste posizioni sarà, nel 1940,
l’adesione al governo di Vichy, per il quale lavorò come funzionario e propagandista anticomunista. Finita la guerra, si trovò, su una sponda opposta, a fare “il combattente della guerra fredda”, ma, ormai, la sua carriera politica era finita. Come scrive De Grand: “Non era né un eroe né un farabutto”; sarebbe un errore leggerne la vita solo a partire dall’ultimo periodo, giacché grande contributo ha dato alla costruzione della sinistra almeno su un punto: quello dell’analisi del fascismo, esposta in un libro del 1938: “La naissance du fascisme”. (Nascita e avvento del fascismo, L ’Italia dal 1918 al 1922, Bari, Laterza, 1965). De Grand fornisce molte date, molti fatti, molte fonti, riuscendo a fare per brevi cenni la storia non solo di un uomo, ma di una generazione e di un movimento. Quanto alle opinioni personali dello storico, fanno capolino con molta discrezione, impedendogli di emanare sentenze e di semplificare le contraddizioni di un uomo e di una generazione.
Giovanni Comincili
A u r o r a C o r s e l l i , L i d i a D e N i
c o l a C u r t o , Indipendentismo e indipendentisti nella Sicilia del dopoguerra (con prefazione diG.C. Marino), Vittorietti, Palermo, pp. 228, lire 20.000.
Il lavoro delle due studiose palermitane vuole essere una radiografia delle forze attive del movimento indipendentista siciliano del dopoguerra, della loro distribuzione territoriale, dell’età e provenienza sociale dei suoi aderenti, attraverso cui poter
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giungere ad un giudizio sulla quantità e qualità del consenso che si creò attorno a tale movimento. La ricerca rientra nel programma di studi e indagini che l’Issico (Istituto Siciliano per la storia dell’Italia contemporanea) va realizzando sul tema “La Sicilia e gli Alleati”, e si fonda sul materiale documentario rinvenuto presso l’archivio privato di Andrea Finocchiaro Aprile che del Mis (Movimento per l’indipendenza della Sicilia) fu promotore e leader indiscusso.
La valutazione di base che le autrici fanno del movimento in questione è che si sia trattato di qualcosa di eterogeneo e composito, attraversato da ideologie diverse e contraddittorie, sulla scorta degli studi sul tema già realizzati da Giuseppe Carlo Marino, Giuseppe Giarrizzo, Francesco Renda e Alfredo Li Vecchi. Secondo quanto si rileva nell’opera, “... nel primissimo periodo di sbandamento seguito allo sbarco alleato” sembrò avere successo “un movimento che trovava nel sentimento di sicilianità il minimo comun denominatore delle diverse ‘anime’ da cui era formato”. Successivamente, “la riorganizzazione dei grandi partiti di massa, l’isolamento in cui fu lasciato il Mis da parte di quelle potenze internazionali che pure, all’inizio, ne avevano favorito lo sviluppo, la contraddittorietà e la sostanziale mancanza di una chiara linea politica...” (p. 12) portarono al rapido esaurirsi del movimento stesso, nonostante il discreto esito elettorale del 1946.
Oltre che l’epistolario tra il Finocchiaro Aprile e i suoi seguaci, per la ricostruzione e
l’analisi sono stati adoperati i materiali elettorali, gli stessi risultati delle consultazioni utilizzati come elementi di confronto rispetto alla rilevazione delle sezioni comunali del Mis e delle leghe giovanili, ed in assenza di regolari elenchi di iscritti si è ricorso al ricordo dei protagonisti, soprattutto per le vicende locali.
Corselli e De Nicola hanno raccolto e considerato un campione di 1366 adepti per ognuno dei quali hanno rilevato i dati anagrafici, professionali e di censo, nonché i titoli di studio; il relativo elenco diviso per province, costituisce la prima Appendice del libro, mentre nella seconda vengono riportati documenti originali impiegati nel testo e nella terza gli scritti “ideologici” del Mis. In particolare, questi ultimi, egualmente provenienti dall’archivio Finocchiaro Aprile, sono espressione del sicilianismo più radicale e del peso che all’interno vi hanno avuto le correnti cattoliche.
Le loro conclusioni riconducono ad un movimento separatista di carattere preminentemente urbano, forte soprattutto nella parte occidentale dell’isola (Palermo, Trapani, Agrigento), favorito dalla mafia e dal notabilato in aree rurali, ed in alcuni casi non privo di slanci ideali autentici di cui erano portatori uomini sinceramente votati alla causa. Scarso, tuttavia, l’apporto popolare (operai, contadini, impiegati) data la netta prevalenza di ceti agrari privilegiati e di borghesia medio-alta: giudizio che non invalida la qualità della partecipazione soggettiva e giovanile in particolare. La generosa partecipazione di giovani come A. Varvaro e A. Canepa
nasceva in effetti dalla scarsa presa dei valori nazionalistici continentali e dalla disponibilità verso gli “anziani” individuati come i tramiti di una continuità culturale tra prefascismo e postfascismo, punto di forza per un risorgimento siciliano.
Laura Capobianco
R o b e r t o V i g h i , Per il socialismo, l ’antifascismo, le autonomie. Scelta di scritti e discorsi dal 1914 al 1970 a cura di Luigi Arbizzani, F. Bonazzi del Pog- getto e Nazario S. Onofri, Bologna, Amministrazione provinciale, 1984, pp. 485, sip.
Tre principalmente furono i centri dell’attenzione di Vighi: il dibattito politico alla testa della sinistra socialista bolognese, l’attività forense esplicatasi soprattutto durante il ventennio fascista, l’impegno nella pubblica amministrazione, alla presidenza della Provincia di Bologna per quasi vent’anni, fino al 1970. Una multiforme attività di cui questa ampia raccolta (vengono riediti 112 dei 359 scritti dell’autore) dà un adeguato contributo di conoscenza. Di particolare interesse documentario la causa, conclusasi nel 1931, durante la quale Vighi difese vittoriosamente i mezzadri bolognesi che vollero continuare l’applicazione del capitolato “rosso” del 1920, rifiutando quelli successivi stipulati dal sindacato fascista (pp. 56-72); ancora nel campo forense è da segnalare la puntuale “contestazione delle accuse” a favore di Mammolo Zamboni e Virginia Tabarroni (24 ottobre 1932), nella quale si rilevavano pun
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tigliosamente tutte le imprecisioni e contraddizioni esistenti all’interno dell’inchiesta giudiziaria successiva all’uccisione di Anteo Zamboni, preteso attentatore di Mussolini nel 1926 (pp. 73-104).
Presidente dell’Amministrazione provinciale di Bologna dal 1951, vedendo in tale ente l’istituto di coordinamento delle “attività e possibilità dei comuni nel quadro della organizzazione politico-amministrativa-finan- ziaria della nazione” (giugno 1951, p. 317), curò particolarmente alcuni interventi tesi a tale scopo, come il Piano territoriale di coordinamento e attività dell’Unione regionale emiliana delle province (1957, pp. 366- 370) e i Piani poliennali di intervento (pp. 400-422).
Le attente e precise annotazioni dei curatori premesse ad ogni testo collocano i singoli interventi nell’adeguato contesto storico-politico e costituiscono una necessaria traccia anche alla ricostruzione della biografia di Roberto Vighi. Particolarmente utile la nota bibliografica di Lidia Testoni (pp. 453-472).
Luciano Casali
A n n a R i t a C a l a b r o e L a u r a
G r a s s o (a cura di), Dal movimento femminista al femminismo diffuso. Ricerca e documentazione nell’area lombarda, Milano, Angeli, 1985, pp. 558, lire 35.000.
Costruire una mappa del movimento femminista è sempre apparso compito arduo sia per le protagoniste, che si sarebbero trovate ad analizzare critica- mente la propria presenza nelle
organizzazioni, sia per studiosi in qualche modo “estranei”, per la difficoltà di ricomporre una realtà multiforme e in fondo nota nelle sue articolazioni più significative solo a chi l’aveva vissuta.
Il taglio scelto dalle autrici del volume non è uniforme: in alcuni saggi prevale il momento descrittivo, mentre ne\V Appendice (“Alcuni gruppi si raccontano”) prevale la forma del racconto diretto delle protagoniste. Anna Rita Calabro (Milano 1965- 1984: fasi del movimento fem minista e tipologia dei gruppi) ricostruisce i percorsi delle principali aggregazioni suddividendole in gruppi, “di riflessione”, che privilegiano come modalità di azione politica e di elaborazione teorica l’autocoscienza e in gruppi “di pratica nel sociale” che sviluppano forme di intervento nelle istituzioni a livello economico, politico e sociale. La descrizione, scandita da tabelle e articolata in punti salienti, è rigidamente costruita secondo schemi sociologici. L'Appendice offre invece una panoramica molto viva, raccontata dalle donne che hanno animato questi gruppi, in interviste anche lunghe ed elaborate e presenta quella che è stata la vita del movimento femminista degli anni settanta (esemplare è la testimonianza di Lia Cigarini sul Gruppo Analisi).
Gli interventi sul movimento femminista in Lombardia (di Rita Gay e Barbara Pezzini per Bergamo; di Emma Scaramuzza per Brescia, di Maria Antonietta Confalonieri e Marta Ghezzi per Pavia, di Anna Maria Battisti per Sondrio) presentano un quadro indubbiamente ricco di informazioni, ma poco elaborato e ridotto ai puri dati.
Più ricca appare la relazione di Scaramuzza che, nel descrivere il movimento a Brescia, ne ricostruisce la storia inquadrandolo nella realtà socio-culturale della città e nella vita politica degli anni settanta.
Dopo la lettura di questo grosso volume, tornano alla mente le considerazioni di Marina D’Amelia su “Memoria” (n. 13, “Dalla differenza alla differenziazione. Le difficili innovazioni dei gruppi”) che analizzando gli interventi sulle associazioni degli anni ottanta presentati nel numero (che si intitola “Donne insieme”) ne sottolinea “una certa opacità” (p. 123) attribuibile anche all’aver messo tra parentesi la testimonianza orale privilegiando il momento della produzione di documentazione.
D’altra parte la stessa trasformazione del movimento femminista in centri culturali, cooperative, centri di documentazione ha comportato una modificazione dei paradigmi interpretativi e degli approcci metodologici, che vanno di conseguenza meditati e discussi ulteriormente. La scelta della forma di comunicazione più consona alla peculiarità dei gruppi femministi non è certo risolvibile in poche battute di critica al lavoro compiuto sinora: solo una non astratta sperimentazione delle forme di comunicazione, non solo storica, potrà rappresentare una tappa di un processo di analisi che è appena iniziato.
Il volume curato da Calabrò e Grasso, con tutti i limiti di un primo approccio, è indubbiamente importante e per la documentazione raccolta e per la griglia interpretativa scelta nell’elaborazione di un materiale
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molto vario soprattutto sotto il profilo del linguaggio.
Paola Pirzio
R u g g e r o G i a c o m i n i , Ipartigiani della pace. Il movimento pacifista in Italia e nel mondo negli anni della prima guerra fredda, Milano, Vangelista, 1984, pp. 322, lire 12.000.
Nato formalmente a Parigi il 20 aprile 1949 il Movimento dei partigiani della pace giocò un ruolo di grande impegno e di particolare valore per gran parte degli anni cinquanta, mobilitando milioni di persone in tutti i continenti. Base dell’azione e dell’attività dei partigiani della pace, impegnati per il disarmo e perché una nuova guerra (questa volta nucleare) non sconvolgesse il mondo appena uscito dalla terribile esperienza del secondo conflitto mondiale, era la mobilitazione continua e generale delle masse e dei popoli. Due capisaldi soprintendevano a tale impegno e a tali mobilitazioni: la “consapevolezza del pericolo grave della guerra” e la convinzione della “possibilità di impedirla” (p. 20). Largamente diffusosi (ma gravi difficoltà ebbe negli Stati Uniti per l’accentuato clima di “caccia alle streghe” e perché accusato di essere influenzato e finanziato dai comunisti), il Movimento ebbe uno dei punti di maggior forza in Italia, almeno fino alla “campagna” contro la bomba atomica nel 1955, quando l’egemonia passò al Giappone.
Particolarmente significative e importanti per la mobilitazione di massa, effettivamente conseguita a livello internazionale,
furono le grandi “campagne” contro la bomba atomica, contro la guerra di Corea (con la raccolta di oltre 270 milioni di firme), per un “patto di pace” (con oltre 600 milioni di firme).
In un’Italia caratterizzata dalla dura repressione scelbiana (mentre nel mondo la guerra fredda sembrava rischiare quotidianamente il salto nella guerra guerreggiata), l’impegno dei partigiani della pace segnò un momento alto di impegno politico e civile che seppe coinvolgere cittadini di ogni condizione sociale anche al di fuori della stretta militanza nei partiti della sinistra cui il Movimento faceva soprattutto riferimento.
Costruito attraverso una documentazione ufficiale ed esclusivamente “interna” al Movimento, il volume, come sottolinea Enzo Santarelli nell’ampia prefazione, fornisce un “resoconto dei fatti nutrito di molti dati e notizie” (p. 14) su un periodo ancora scarsamente affrontato dalla critica storica. Una prima documentazione, quindi, e per ciò stesso di particolare importanza e valore.
Luciano Casali
L u c i a n o M a r r o c u , Il modello laburista. Struttura organizzativa e distribuzione del potere nel partito laburista inglese tra le due guerre, Milano, Angeli, 1985, pp. 224, lire 18.000.
Il partito laburista, sorto agli inizi del 1900 come federazione di associazioni socialiste e sindacali, si trasformò nel primo dopoguerra con l’adozione dell’adesione individuale (individuai membership). Tale inno
vazione, pur avvicinando il socialismo britannico a quello continentale, non modificò radicalmente l’originaria struttura laburista, che continuò a basarsi essenzialmente sull’apporto delle Trade Unions e dei vari gruppi di ispirazione socialista, il più importante dei quali era l’Indi- pendent Labour Party (Ilp). Una struttura organizzativa così atipica rispetto agli altri partiti socialisti europei presentava problemi di delicato equilibrio tra la componente sindacale, preponderante sia dal punto di vista dell’insediamento sociale del Labour Party sia da quello finanziario, quella politicamente più indirizzata in senso socialista ed autonomamente strutturata in gruppi politici e la componente, infine, dei nuovi iscritti a titolo individuale, i quali fornivano con il loro lavoro volontario un contributo importantissimo specialmente durante le campagne elettorali.
L’esame attento e minuzioso della struttura organizzativa laburista mostra però che le difficoltà poterono venire superate e che, nonostante inevitabili tensioni tra le varie componenti del partito nella definizione della linea politica ed anche nella scelta dei candidati alle elezioni, il Labour seppe nel giro di pochi anni trasformarsi in una concreta forza di governo ed assumere nel sistema politico britannico quel ruolo di alternativa ai conservatori, che fino alla prima guerra mondiale era spettato ai liberali.
La stessa “disaffiliazione” dell’Ilp, avvenuta nel 1932, derivò, più che dalle divergenze di carattere politico, dall’impossibilità di far convivere un partito organizzato all’interno di una
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struttura che aveva sempre più chiaramente assunto delle caratteristiche proprie, specificamente laburiste, diverse quindi da quelle delle sue componenti originali. L’autonomia del gruppo parlamentare, e poi del governo laburista nei confronti della struttura di partito era un ulteriore conferma della maturità del Labour Party ed insieme del suo completo inserimento nelle istituzioni politiche britanniche. Alla definizione di una specifica natura laburista nei due decenni tra il primo ed il secondo conflitto mondiale contribuirono, oltre alle strutture organizzative di partito anche quelle culturali. Un ruolo essenziale ebbe la stampa, soprattutto con la trasformazione del “Daily Herald” da stentato organo ufficiale laburista a grande quotidiano d’informazione, mediante un’originale accordo con un gruppo editoriale privato, che ne rilevò il 51 per cento e lo gestì con criteri imprenditoriali che lo resero concorrenziale nei confronti degli altri grandi giornali popolari.
Di grande interesse appare anche l’illustrazione dei canali di formazione essenzialmente tecnica, dei militanti e dei quadri laburisti, cui il Labour Party dedicò una cura ed un’attenzione sconosciute ai partiti socialisti europei più ideologizzati.
L’esperienza delle associazioni di massa legate al partito laburista in campo culturale come in quello ricreativo e sportivo, confermarono d’altra parte che la società britannica, se era restia ad accettare un’ideologia alternativa a quella corrente, era pronta invece ad ascoltare, accanto ai concreti programmi politici di rinnovamento dei labu
risti, anche il loro richiamo ai valori etici della giustizia sociale e dell’ugualianza politica. Pragmatismo e moralismo, mancanza di dogmi ideologici e dedizione dei militanti e dei dirigenti alla causa laburista furono quindi le caratteristiche principali di un “modello” che se non fu in effetti di esempio concreto agli altri partiti socialisti europei, rappresentò per la Gran Bretagna una grande esperienza politica, destinata a non concludersi con la seconda guerra mondiale.
Maurizio Punzo
Italia fascista
F r a n c o F u c c i , Le polizie di Mussolini. La repressione dell ’antifascismo nel “ventennio”, Milano, Mursia, 1985, pp. 414, lire 25.000.
Più che tentare la ricostruzione delle vicende e della organizzazione delle “polizie” che agirono in Italia dal 1922 al 1945, il volume utilizza ampiamente quanto già è stato edito sull’argomento e tende ad una messa a punto fra le contrastanti interpretazioni dei protagonisti. Abbiamo trovato un solo documento inedito (p. 296) e una sola testimonianza inedita, del resto ampiamente utilizzata, quella di Luca Osteria, “agente segreto” dell’Ovra, specializzato in azioni di provocazione nei confronti del Pcd’I e di “Giustizia e Libertà”, collaboratore delle Ss dopo l’8 settembre e fino alla primavera 1944, quando ritenne opportuno aprire un col- legamento anche con le forze della Resistenza.
Se il volume può essere utile per ricostruire nomi, incarichi e biografie dei dirigenti dei servizi di polizia, ci pare che il giudizio cui giunge l’autore su una scarsa efficienza e dell’Ovra e degli altri apparati di repressione contrasti con quanto emerge da una sia pur rapida lettura delle carte d’archivio. Per quanto abbiamo visto nelle carte conservate al- l’Acs, gli “Ispettorati speciali” 1 e 2 dell’Ovra (che “curavano” l’Italia centro-settentrionale fino alla Toscana e alle Marche) ci sono apparsi tutt’altro che “insufficienti” e “inefficienti” e siamo indotti a non sottovalutare le capacità investigative (e repressive) dei commissari Nudi e D’Andrea né a ritenere l’Ovra poco più che un bluff (p. 202).
Forse per l’autore una esplorazione anche superficiale delle carte d’archivio sarebbe stata più utile delle lunghissime citazioni dagli scritti di Guido Leto — si ha l’impressione che i suoi libri siano quasi totalmente trascritti — e di Carmine Senise. Troppe altre opere sono citate solo di seconda mano, provocando errori, sviste e indicazioni contraddittorie. Ad esempio: Pietro Secchia viene arrestato nel 1927 a p. 180 e nel 1931 alle pp. 171 e 254; il libro di Camillo Berneri Lo spionaggio fascista all’estero (Marsiglia, 1928) viene indicato come edito nel 1930 a p. 35 e nel 1935 alle pp. 17 e 48; Gastone Sozzi “muore” il 6 febbraio 1928 a p. 152 e il giorno successivo a p. 160.
Le pagine più felici sono, a nostro avviso, quelle sulla nascita e l’organizzazione dell’Ovra (pp. 120-139) — ma inutilmente “scandalistiche” sono quelle in cui si traccia la biografia di Arturo Bocchini: pp. 86-119 —,
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sulla creazione della fitta rete di “informatori” e “confidenti” (pp. 139-161), sulla attività di Luca Osteria: un personaggio delineato, forse, con tratti eccessivamente “positivi”. Certo fu un “agente” abile ad infiltrarsi fra le fiduciose (e a volte ingenue) schiere comuniste e gielliste ma, leggendo il libro, noi ci sentivamo, contrariamente a quanto faceva l’autore, più propensi a schierarci dalla parte dei “perseguitati” che non da quella del “persecutore”...
Luciano Casali
E d o a r d o B o r r a , Amedeo di Savoia, terzo duca d ’Aosta e viceré d ’Etiopia, Milano, Mursia, 1985, pp. 385,lire 25.000.
Uomo riservato e misurato in vita, Amedeo d’Aosta non ha avuto fortuna da morto, perché le sue vicende sono state romanzate e strumentalizzate, fino a farne l’eroe del colonialismo italiano e la vittima del regime carcerario britannico. Gli rende giustizia questa biografia di Borra, che gli fu vicino come medico e amico nei suoi ultimi anni e ora ne ripercorre con equilibrio la vita pubblica e privata, sottolineandone specialmente le doti umane. Non si tratta di una biografia scientifica e esauriente (le pagine sugli anni in Libia con Graziani e poi in aeronautica sono molto rapide, i rapporti con il re e Mussolini appena abbozzati, i successi ottenuti come viceré d’Etiopia indubbiamente sopravvalutati), ma di un profilo informato e attendibile, che utilizza con discrezione le carte del duca e della famiglia, per mettere a fuoco la ricca personalità dell’uomo, demolendo (si spera per sempre) leg
gende, esagerazioni e pettegolezzi di troppe biografie giornalisti- che nel senso deteriore del termine.
Giorgio Rochat
J e a n - P i e r r e V i a l l e t , La chiesa valdese di fronte allo stato fascista 1922-1945, Torino, Claudiana, pp. 423, lire 26.000.
Si deve sottolineare con Giorgio Rochat, che ha scritto la prefazione per questa ricerca, il rilievo della decisione della Tavola valdese (l’organo amministrativo della Chiesa valdese) di aprire i propri archivi allo studioso dell’Università di Grenoble, Jean-Pierre Viallet.
La ricerca pubblicata dalla Claudiana è appunto la riduzione per il grande pubblico di un lavoro molto più ampio, compiuto quindici anni fa, che ora viene ripreso e rielaborato, nel quadro di una crescente attenzione alle vicende del protestantesimo italiano.
L’autore ricostruisce, nella parte prima, l’ambiente economico e sociale delle Valli valdesi, e l’atteggiamento culturale, tradizionalista, fortemente segnato dal rifiuto del mondo moderno, dal culto della “piccola patria” e dall’indifferenza per i problemi dell’etica collettiva.
Nella seconda parte si analizza la crisi della “civiltà protestante liberale”: sono gli anni “ambigui” (1919-1924) delle simpatie iniziali verso il fascismo, dovute a ostilità molto forte verso il Partito popolare, all’antisocialismo viscerale, all’attrazione del nazionalismo, alla disunione delle forze liberali. Anni ambigui, perché alle simpatie per quanto stava facendo
il fascismo su scala nazionale si contrappone l’ostilità e la condanna per la politica scolastica e religiosa del regime. Nel complesso i Valdesi “furono molto meno sensibili alle manifestazioni ‘politiche’ di quel totalitarismo che non agli atti che minacciavano le libertà intellettuali e spirituali”.
La questione della lingua francese fu uno dei terreni di scontro, essendo i Valdesi storicamente bilingui e utilizzando essi il francese soprattutto nell’insegnamento religioso. E tuttavia sfuggì alla Chiesa ufficiale valdese, preoccupata in primo luogo di salvaguardare i propri spazi, che il fascismo travolgeva le libertà di tutti. Come spiega Viallet, la Chiesa valdese scelse di essere “Chiesa silenziosa” di fronte all’imperversare del fascismo. Sicché, negli anni 1926- 1940, si sviluppò da parte valdese una resistenza alle vessazioni fasciste, che quasi mai raggiunse la chiara coscienza della natura totalitaria del regime e che, viceversa, contrattò i propri sempre più ridotti spazi. In effetti nel 1929 fu varata la legge sui “culti ammessi”, che doveva suscitare ben presto delusioni in sede di applicazione. Il regime esprimeva una politica antiprotestante, cui ci si oppose con il conformismo e con i compromessi, mentre procedeva la fascistizzazione e l’italianizzazione delle valli. C’era, tuttavia, un minoranza di irriducibili, i cui principali esponenti formarono il gruppo dei giovani barthiani, ispirati dalla riflessione teologica e politica di Karl Barth. Essi forniranno in seguito i quadri politici e militari alla resistenza. Giovanni Miegge (1900-1961) sarà il loro leader intellettuale. Nonostante la bat-
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taglia dei barthiani, ancora nel Sinodo del settembre 1943 la Chiesa valdese respinse l’ordine del giorno Sibilia che conteneva l’autocritica per gli anni del conformismo e del silenzio. La Chiesa “prudente” prevalse ancora una volta. Ciò non deve far dimenticare che quando si svilupperà la Resistenza, il contributo di esponenti valdesi sarà politicamente e culturalmente molto alto.
Il Viallet percorre con grande equilibrio il tormentato itinerario che porta fino al 1945, contribuendo in modo decisivo a far conoscere il passato e il presente di una comunità religiosa del nostro Paese, che, pur essendo minoritaria rispetto ai cattolici, ha dato non poco, nel corso degli ultimi vent’anni, al rinnovamento culturale e politico dell’Italia.
Giovanni Comincili
A a . V v . , Tendenze della filosofia italiana nell’età del fascismo, a cura di Ornella Pompeo Faracovi, Livorno, Beiforte, 1983, pp. 327, lire 25.000.
Il volume, che presenta una parte delle relazioni al Convegno della società filosofica italiana tenuto a Livorno nel 1983, offre una panoramica ampia anche se non sempre nuova degli orientamenti e delle correnti della filosofia di fronte e durante il fascismo e delle iniziative culturali promosse da filosofi come Giovanni Gentile, in gran parte in conformità con le finalità del regime fascista.
Come sottolinea Eugenio Garin nel titolo della sua relazione “La filosofia italiana di fronte al fascismo”, il rapporto filoso
fia/fascismo non è semplice anche per le difficoltà di raffrontare due termini non facilmente confrontabili, proprio per il piano di astrazione in cui si muove la filosofia, estraneo al tipo di dimensione “frequentato dai fascisti e dal loro capo” (p. 17). Ma pur mettendo in rilievo il carattere atipico di un simile confronto, Garin pone al centro della sua analisi il rapporto tra fascismo e idealismo, proposto dalla storiografia più tradizionale come rapporto per molti aspetti di coincidenza o perlomeno di contiguità, ma se analizzato alla luce degli studi e del dibattito culturale degli ultimi anni, di contrapposizione spesso polemica. A giudizio di Garin, che si richiama a testimonianze di intellettuali allineati con l’ideologia fascista, come Adriano Tilgher, l’idealismo è stato profondamente estraneo alla mentalità mussoliniana in gran parte ispirata a forme irrazionalistiche. Italo Mancini (“La neoscolastica durante gli anni del fascismo”) analizza gli aspetti della neoscolastica, ad esempio il tema dell’ordine e del recupero della tradizione in antitesi con la filosofia moderna, che più si avvicinano alla “ideologia” fascista. “Il colore del tempo, del tempo fascista” (p. 277) appare evidente in diversi aspetti di questa corrente di pensiero che tenta di porsi come alternativa di filosofia italica rispetto all’attualismo, posto spesso al centro di violente polemiche da parte anche di Agostino Gemelli che in alcuni passi (Il mio contributo alla filosofia neoscolastica, Milano, Vita e Pensiero, 1926) sostiene che la battaglia contro l’idealismo “importato dai paesi nordici”
è sinonimo di amor di patria. Ma gli eventi precipitarono, come dice Mancini; la guerra e la politica razziale fecero fallire sia il sogno egemonico nutrito dalla neoscolastica sia ogni possibilità di accreditamento da parte del regime fascista. Giovanni Invitto (“Spiritualismo, personalismo e tendenze esistenziali nel pensiero cristiano”, propone l’analisi della linea di pensiero, lo “spiritualismo cristiano”, rappresentata da Armando Carlini, Augusto Guzzo e Michele F. Sciacca, che pur frammentata in molti rivoli si distingue dalla neoscolastica e si contrappone all’idealismo richiamandosi soprattutto a posizioni fideistiche.
Antonio Santucci ripercorre le tappe del pensiero di Rensi (“Un irregolare: Giuseppe Rensi”), sinora poco studiato e solo recentemente riproposto al dibattito, e tratteggia il suo progressivo avvicinarsi alla filosofia dell’autorità (Palermo, San- dron, 1920), ove ‘Tirregolare Rensi” assumendo la difesa dei valori nazionali contro la rivoluzione proletaria e proponendo una nozione di ordine che si conciliasse con la libertà, riusciva sospetto sia agli antifacisti per l’attacco alla democrazia sia al regime a causa della difesa di un governo garante dell’equilibrio delle parti.
Ornella Pompeo Faracovi (“Scienza e filosofia nell’Enciclopedia italiana. 1929-1937”) delinea gli orientamenti della Società italiana per il progresso delle scienze fondata nel 1907, della Società filosofica italiana e della “Rivista di scienza” (poi “Scientia”) e delle pubblicazioni dell’editore Formiggini che avviarono un dibattito su di un
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progetto di opera enciclopedica che doveva comprendere la cultura nel suo complesso, progetto di cui si appropriò Gentile volgendolo a finalità anche politiche del tutto estranee. Albertina Vittoria (“Gentile e gli Istituti culturali”) illustra l’attività dell’Istituto nazionale fascista di cultura, dell’Istituto italiano di studi germanici e dell’Istituto italiano per il Medio e l’Estremo oriente, diretti da Gentile, con-' vinto di realizzare quell’unità tra attività teoretica e attività pratica indispensabili al compimento della funzione educativa della cultura. Le relazioni sugli orientamenti della filosofia italiana, pur attingendo ad opere note, si articolano secondo linee storiografiche ben precise e offrono interessanti spunti per il dibattito, mentre gli interventi sulle istituzioni e le iniziative culturali sono espositive e ripercorrono spesso momenti di ricerche, i cui risultati appaiono ormai consolidati.
Paola Pirzio
R e n a t o S i t t i , La Capillare. Rapporto su un’organizzazione fascista di base, Ferrara, Cartografia artigiana, 1983, pp. 140, sip.
Il volumetto raccoglie considerazioni e notizie sul fascismo ferrarese, frutto della lunga e benemerita attività di ricerca e documentazione che Sitti svolge da anni attraverso il Centro etnografico ferrarese da lui creato e animato. In particolare Sitti si sofferma sugli ultimi anni del regime, sul dibattito sul corporativismo (in appendice sono riportati una ventina di interventi sulle riviste ferraresi del 1935- 38) e sul tentativo di inquadrare
strettamente tutta la vita della provincia con uno sviluppo delle organizzazioni fasciste e parafasciste e di una propaganda abile e articolata. Su quest’ultimo tema Sitti fornisce una documentazione nuova e importante, ricca di dati sulla forza e la diffusione delle organizzazioni del regime e di quelle cattoliche parallele. Da segnalare anche la documentazione fotografica assai interessante. Non convince invece il quadro complessivo del potere politico ferrarese: Sitti minimizza a più riprese il ruolo di Balbo (fino a scrivere che dopo il 1924 “si sfalda rapidamente la fortuna di Balbo”, p. 29), ma non si preoccupa di analizzare gli equilibri politici provinciali; e poi assegna agli uomini di Balbo una capacità di iniziativa e dominio persino eccessiva, attribuendo la creazione nel 1935 della “Capillare” che dà il titolo al volumetto, ossia di un piano per il controllo totale e appunto capillare della vita ferrarese presentato implicitamente come una novità, anziché come lo sviluppo della situazione preesistente. Ci sembra più corretto parlare della continuità del potere politico di Balbo e del suo gruppo di fidati e valenti collaboratori e dopo il 1935, quando anche a livello nazionale appaiono le prime crepe nel regime, di un loro maggiore attivismo organizzativo, che non si può però comprendere senza un’analisi delle basi di classe del fascismo ferrarese. Il lavoro di Sitti, in sostanza, è ricco di dati, ma incapace di un’analisi complessiva del fascismo ferrarese, e finisce col porre assai più problemi e stimoli di quanti riesca a risolvere ed inquadrare.
Giorgio Rochat
R o b e r t S . D o m b r o w s k y , L ’esistenza ubbidiente. Letterati italiani sotto il fascismo, Napoli, Guida, 1984, pp. 118, lire11. 000 .
Contrariamente a quanto il titolo lascerebbe supporre, i saggi raccolti in questo volume non si occupano delle vicende degli scrittori italiani in epoca fascista, bensì dei fondamenti ideologici della loro diffusa adesione al fascismo. Il discorso di Dombrowsky si inserisce in quel filone di studi relativamente recenti che, in polemica con il tradizionale “mito consolatorio”, della radicale estraneità tra fascismo e cultura, sono venuti puntigliosamente documentando l’estensione e la profondità dei legami intercorsi tra l’intellettualità italiana e il fascismo in quanto movimento e in quanto regime. Nella fattispecie, gli strali dell’autore sono tutti rivolti contro la ben nota tesi del carattere sostanzialmente esteriore del consenso dato al fascismo da alcune delle più eminenti personalità letterarie del periodo, le quali vi avrebbero appunto aderito per “ingenuità” o per “opportunismo”, senza esserne peraltro coinvolte sul piano della specifica produzione artistica.
Riproponendo una prospettiva critica di ascendenza lukac- siana, “accentrata sui fatti letterari nella loro complessità sociale e prevalentemente ideologica”, Dombrowsky si sforza di mettere in luce, attraverso l’analisi di testi campione particolarmente emblematici, 1’ “ideologia implicita” di scrittori “protofascisti” come Oriani e Soffici, di Marinetti e i futuristi, di Pirandello, di Ungaretti e, in
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fine, di Gadda, per giungere alla conclusione che nelle opere di questi autori, al di là delle marcate diversità di temi e di stili, agisce in misura più o meno dispiegata, e con la parziale eccezione di un Gadda, un “paradigma” comune di interpretazione della realtà. Il nocciolo di tale “paradigma” consisterebbe in una risposta irrazionalistica ad una condizione sociale e psicologica di disintegrazione e disaffezione dal mondo borghese: la ricerca di un nuovo senso dell’esistenza sfocerebbe così in una varietà di mitologie compensative, tutte pervase da una più o meno esplicita vocazione totalitaria. E in questo caratteristico processo di mistificazione andrebbero appunto ravvisate le radici profonde dell’adesione al fascismo di scrittori di indubbia statura artistica quali quelli considerati.
Non mancano, in questi brevi saggi, pagine di penetrante analisi critica. Le conclusioni generali alle quali approdano sono tuttavia più suggestive che veramente persuasive. Che la cosiddetta “distruzione della ragione” abbia costituito un humus straordinariamente fertile per la malapianta fascista è un fatto sin troppo evidente. Si può inoltre facilmente convenire con l’autore sul carattere non meramente occasionale né esteriore della “fede” fascista di un Pi- randello o, più ancora, di un Ungaretti: ma una cosa è sotto- lineare la relativa “conciliabilità” (o “non contraddittorietà”, secondo Asor Rosa) del loro mondo poetico con il multiforme universo culturale fascista, tutt’altra cosa è parlare di una presunta “omologia fondamentale”, “corrispondenza” o “in
terdipendenza tra coscienza artistica e politica”, in quanto derivante “per necessità interna” da un sotteso “modello conoscitivo”.
Qui forse più che altrove sembra opportuno richiamare l’osservazione di Asor Rosa, secondo cui “sempre bisogna tener conto... del carattere particolare della letteratura: altrimenti si mettono in rapporto o, peggio, si sovrappongono fenomeni le cui relazioni sono individuabili solo nell’ambito delle grandi misure, dove però, spesso, perdono ogni significato specifico” (Storia d ’Italia, voi. 4, t. II, Torino, Einaudi, 1975, pp. 1417).
In realtà, che il “paradigma” irrazionalistico individuato da Dombrowsky debba necessariamente risolversi, per propria logica intrinseca, in una scelta politica di natura fascista, rimane tutto da dimostrare (le esperienze delle avanguardie storiche europee sembrerebbero anzi nel complesso smentirlo). Ma quel che più lascia perplessi, sul versante della concreta ricostruzione storica, è che la sua tesi finisce per svalutare più del lecito altri motivi, forse meno profondi ma-'culturalmente più decisivi, che condizionarono da lontano l’assenso di buona parte degli intellettuali italiani al fascismo, a cominciare dal nazionalismo, essenziale cemento ideologico sia del movimento che del regime mussoliniano.
Vittorio De Tassis
F i a m m a N i c o l o d i , Musica e musicisti nel ventennio fascista, Fiesole, Discanto, 1984, pp. 488, lire 48.000.
La domanda cui l’autore vuole rispondere non è semplice- mente relativa all’esistenza o meno di una “musica fascista”, ma, affrontando un tema fino ad ora quasi completamente trascurato, esamina produzione e consumo di musica durante il regime insieme all’apporto dei musicisti alla creazione di una cultura e di un consenso, dissodando “un terreno semi-vergi- ne”e pubblicando materiali che permettono di “arricchire la discussione e disegnare un quadro frastagliato e complesso” della realtà musicale (e culturale) italiana durante il ventennio (p. 14). Ciò che ne risulta è un lavoro estremamente ricco di notizie e di stimoli, ampiamente documentato e attento al dibattito e alle fonti anche provenienti da settori non contigui a quello musicale, come le sollecitazioni tratte da Isnenghi e Turi e dalla documentazione delle carte conservate presso l’Archivio centrale dello stato. È, anzi, da tale fonte che sono tratti gli elementi principali per ricostruire il rapporto fra regime e singoli compositori (pp. 306-472): un quadro che registra una “passerella” di artisti che “per fede e senso di disciplina autentico, semplice autogratificazione, giusto o cinicamente spregiudicato amor di carriera si misero (o finsero di mettersi) al servizio dell’autorità e del regime” (p. 275).
D’altra parte, il fascismo non aveva trascurato di utilizzare la vasta popolarità acquisita da compositori come Mascagni, Puccini e Giordano, riciclando a proprio favore brani già noti (come {’Inno a Roma di Puccini del 1919), o commissionando specifiche musiche ufficiali, come l’Inno degli Avanguardisti
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(Mascagni, 1927) e l’Inno del Decennale” (Giordano, 1932). Attente e acute le “biografie” dei “musicisti popolari” e del loro rapporto con la dittatura^ maggiori, a contatto diretto con Mussolini, spesso vicini a Bottai, sempre in collegamento con il Minculpop che influiva in maniera determinante sulle scélte dei “cartelloni” teatrali: Giacomo Puccini (pp. 35-40), Pietro Mascagni (pp. 40-58), Umberto Giordano (pp. 58-65) e Riccardo Zandonai (pp. 66-71).
Scelte politiche e cultura musicale: fra compositori “appartenenti a paesi sanzionisti”, quelli sottoposti alle conseguenze delle leggi razziali, e altri, nati in paesi “nemici dell’Italia”; imbastire programmi teatrali diveniva, negli anni Trenta, una difficile opera di equilibrismo. Solo gli autori tedeschi riuscivano a trovare qualche spazio, soprattutto Wagner e Mozart (pochissimo eseguito fu Beethoven, pp. 26-30). Ciò che dominava, quindi, era il “prodotto nazionale” e, all’interno di questo, veniva privilegiato il conformismo, la rappresentazione di quanto la tradizione aveva consolidato (soprattutto Giuseppe Verdi, ovunque riproposto, p. 25). Pur con ambiguità, incertezze e contraddizioni, la politica musicale del fascismo sceglieva gli stilemi e le indicazioni “consolidati”, abbandonando completamente, a partire dal 1930, le timide aperture lasciate alle novità e alle ambiguità del futurismo (pp. 72-119): consolidatosi al potere, il fascismo operava scelte conservatrici anche nel campo musicale.
Un discorso a parte, infine, meritano la “politica culturale incolta” (p. 12) del Minculpop
(diffusa attraverso i canali privilegiati del Dopolavoro), operata mediante sovvenzioni che spesso favorivano “dilettanti” ed una “inutile zavorra” di compositori promossi dalle Mostre del Sindacato (pp. 21-22). Il livello delirante della polemica antiebraica partita già nel corso del 1937 finì con l’includere nella “lista nera” razzista (con l’approvazione di Giuseppe Bottai) anche compositori come Stravinsky, Honegger, Ravel e Mar- kevitch, che ebrei non erano (pp. 262-265).
Luciano Casali
A n t o n i o S a r u b b i , Il Mondo di Amendola e Cianca e il crollo delle istituzioni liberali (1922- 1926), Milano, Angeli, 1986, pp. 279, lire 25.000.
“Mio padre aveva un ufficio al giornale II Mondo che si trovava, redazione e tipografia, in via della Mercede. Direttore del giornale era Alberto Cianca, elegante e gioviale, sempre invischiato in faccende amorose”. Così scrive, in Una scelta di vita (Milano, Rizzoli, 1976) Giorgio Amendola a proposito del quotidiano liberale nato nel gennaio del 1922; ed aggiunge che il padre, oltre ad ispirarne la linea politica, ne era il garante nei confronti della proprietà.
L’intensa ma breve vita del giornale — che cessò le pubblicazioni nel 1926, quando si ebbe la soppressione della libertà di stampa — è oggetto del volume di Antonio Sarubbi. Per l’autore — docente di storia delle istituzioni politiche nella Facoltà di scienze politiche dell’Università di Napoli — va riconosciuto a II Mondo il merito di avere “sin
dall’inizio combattuto i supporti della concezione e dell’articolazione dottrinario-giuridica del regime fascista”.
In un brano di una lettera di Turati alla Kuliscioff, riportato nel libro, il deputato socialista parla di un “gruppo Amendola, a base meridionale” in disaccordo con un “gruppo Bonomi, senza base”: “questa povera democrazia — scrive Turati — è proprio ridotta al lumicino... pochi ma divisi”. In realtà, alle elezioni del 1924, era stato Bonomi a non volersi presentare insieme con Amendola; d’altronde, negli ambienti dell’antifascismo democratico non si era dimenticato l’atteggiamento del ministro della guerra del governo Giolitti nei confronti delle squadre fasciste, e si riuscì, in pratica, a bloccarne la candidatura nella capitale. Ma, nel periodo immediatamente successivo alle elezioni, fu Giovanni Amendola che si prodigò per unire, nella lotta al fascismo, le varie componenti dell’opposizione costituzionale. A lui, al filosofo Guido De Ruggiero e al giornalista Emilio Scaglione si deve la redazione di un manifesto indirizzato non solo agl’intellettuali ed ai professionisti, ma anche agl’impiegati, agli artigiani, agli agricoltori, perché — sottraendosi al richiamo sia del fascismo che del comuniSmo — si desse vita ad una terza forza liberal-demo- cratica. Scrive Sarubbi: “L’organizzazione dei nuclei di democratici e liberali che dovevano uscire dalle vecchie associazioni per porsi ‘sotto l’egida della Stella a cinque punte... senza alcuna pregiudiziale delle opinioni politiche professate sino ad ieri, purché nei confini sani dell’idea di patria e col proposito
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immediato di svolgere azioni di propaganda per una seria rinascita meridionale’ aveva il suo centro a Napoli, dove operava Emilio Scaglione” (e dove, alla vigilia del voto,era imperversata contro il candidato Giovanni Amendola, poi comunque eletto, la violenza dei picchiatori di Mussolini, fatti venire anche da altre zone).
Associazioni democratiche sorsero pure in Abruzzo, in Calabria, in Puglia, in Basilicata. Rispetto ad esse, Il Mondo si assunse il compito di svolgere una costante azione di impulso e di guida, sempre “pronto a cogliere con tempestività — sottolinea l’autore — quanto accadeva nel campo liberal-democratico” ed a reagire alle accuse di comuniSmo sovversivo.
Il figlio Giorgio disse di Giovanni Amendola che “era un liberale, legalitario, monarchico, quello che si vuole, ma individualmente era un combattente”, e Sarubbi gli riconosce pienamente questa dote quando ricostruisce la coraggiosa battaglia intrapresa dall’uomo politico di Sarno contro le sopraffazioni del fascismo. L’accenno, nel volume, alle insufficienze, pur riscontrabili accanto ai meriti, si riferisce alla povertà degli esiti di quella battaglia, che non riusci ad “andare al di là di una rivolta e di una rivendicazione morale che potè aver assai scarsa efficacia sugli sviluppi del regime fascista che ormai si appoggiava ad elementi che non si fondavano solo sul puro esercizio della forza”: stava infatti nascendo il nuovo Stato, lo Stato forte la cui necessità avrebbe poi affermato Giovanni Gentile come dovere-diritto del cittadino.
Mario Pagano
L a u r a G a s p a r i n i , M a s s i m o
M u s s i n i (a cura di), 10 anni di fascismo a Reggio Emilia nella fotocronaca di Renzo Vaiani, Reggio Emilia, Amministrazione comunale - Biblioteca municipale, 1985, pp. 215, sip.; G i a n
F r a n c o C a s a d i o , V e n e r i o C a -
s a d i o S t r o z z i , La periferia dell ’immagine. Dieci anni di fascismo nel Ravennate (1935-1944), Faenza, Coop. La Loggia, 1985, pp.XXIV-204, lire 20.000.
La retorica fascista di provincia ci viene restituita a tutto campo dalle migliaia di fotogrammi che le Leica di Renzo Vaiani e Alvaro Casadio scattarono a Reggio Emilia e a Ravenna negli stessi anni: dal 1934-35 alla fine della Rsi. Due fotografi tecnicamente preparati, con gusto ed inventiva, hanno lasciato una produzione ricchissima che esprime due modi diversi di approccio all’immagine, ma riproduce anche un identico “sapore periferico” dei “fasti imperiali”, automaticamente ridimensionati (e a volte involontariamente ridicolizzati) dalla piatta imitazione e dalla ripetitività monotona di quanto avveniva a Roma. Un regime “dimesso”, quindi, che riecheggia retoricamente e stancamente, nelle ridotte dimensioni della provincia le “adunate oceaniche”, cui non riescono a dare calore né vivacità le riprese di Vaiani (caratterizzate da forti contrasti di “colore”) né quelle di Casadio (più attento ai personaggi che alla folla, ai mezzi busti che alle panoramiche).
I due volumi, che ripropongono 327 immagini del Ravennate e 244 del Reggiano (ma le ultime otto sono relative alla campagna elettorale del 1948) sono di par
ticolare e vivissimo interesse e meriterebbero ben più di una rapida segnalazione, non tanto per le novità di quanto le fotografie ci propongono (che può avere solo un valore locale), quanto soprattutto per l’atmosfera che ricreano e che fa immediatamente rivivere le realtà provinciali dell ’ “ Italietta” fascista in camicia nera. Proprio da questo punto di vista, probabilmente, Ravenna e Reggio Emilia possono divenire uno specchio fedele di tante altre delle “cento città” d’Italia nel corso degli anni Trenta.
Luciano Casali
D a n i l o V e n e r u s o , Gentile e il primato della tradizione culturale italiana. Il dibattito politico all’interno del fascismo, Roma, Studium, 1984, pp. 271, lire 22.000.
Nell’introduzione al volume l’autore, già noto al pubblico italiano per altri studi sul fascismo e sul movimento cattolico, dichiara di non voler ripercorrere “le articolazioni della cultura fascista”, ma di voler verificare la convergenza entro il progetto politico-sociale del fascismo della tradizione culturale italiana interpretata naziona- listicamente, come fonte di primato italiano nel mondo (p. 10). Si tratta infatti di un libro che presenta il dibattito politico svoltosi in Italia negli anni del fascismo secondo una particolare chiave di lettura, incentrata sul concetto gentiliano di “primato della tradizione culturale italiana”. Intorno a questa linea di pensiero, Gentile sarebbe riuscito a far convergere un
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ampio consenso di intellettuali e uomini politici di vario orientamento, che a partire dalla vigilia della prima guerra mondiale avrebbero rivendicato un “primato” politico dell’Italia nel mondo. Su questa base Gentile potè incontrarsi con nazionalisti come Corradini e con lo stesso Mussolini che, dopo Caporetto, avrebbe “gettato a mare il suo patrimonio positivista e darwiniano” (p. 43) per abbracciare le tesi del filosofo siciliano. Questi, da parte sua, venne sempre più riconoscendosi con il fascismo, poiché esso realizzava “ciò che stava a cuore” a Gentile, cioè “l’ingresso dell’Italia tra le grandi potenze” (p. 82). Si sarebbe venuta così formando una linea mussoliniano-gentiliana, rappresentativa del fascismo più ufficiale ed “esclusivista”.
Nel corso degli anni trenta, tuttavia, la concezione gentilia- na dello Stato, fatta propria da Mussolini, rivelava agli occhi di molti tutta la sua angustia e, soprattutto, la sua inadeguatezza a rispondere ai gravi problemi internazionali che venivano profilandosi e alle pressioni esercitate sul vecchio continente dalle grandi realtà politiche ed economiche rappresentate da Stati Uniti e Unione Sovietica. La stessa concezione gentiliana, a ben vedere, era minata da una profonda ed insanabile contraddizione, poiché ciò che nel pensiero del filosofo doveva essere “il massimo dell’universalità, lo Stato-persona e lo Stato-religione” trovava attuazione nel “massimo della particolarità” (p. 18), cioè lo Stato-nazione. Venne quindi maturando il bisogno di elaborare una cultura che conferisse una rinnovata dimensione politica al fascismo,
secondo una prospettiva europea. Di qui le varie formulazioni di “unione europea”, concepita come unione di civiltà in funzione anticomunista. A partire dal 1925 si sarebbe dunque venuta profilando una progressiva crisi del “nazionalismo” e la formazione di due distinte “fasce” all’interno della cultura politica del fascismo: l’una grigia e ufficiale, rappresentata dal fascismo “esclusivista” di Mussolini, l’altra, “non ufficiale, polivalente e molteplice”, entro cui Veneruso colloca intellettuali e uomini politici di vario orientamento, impegnati in una difficile ricerca di vie nuove, per colmare la “frattura” creatasi “fra ideologia e realtà”. Questi riuscirono in diverse forme ad elaborare ’’nuovi moduli interpretativi della realtà mondiale”, superando di fatto ”il livello cui era giunto il processo di formazione di Mussolini da una parte (azione politica) e di Gentile dall’altra (tradizione culturale)” (p. 269).
L’impostazione del libro e la tesi sostenuta dall’autore suscitano non poche perplessità. In primo luogo per una questione di metodo, in quanto Veneruso tende troppo spesso a spiegare importanti fatti di politica interna e di politica estera negli anni del fascismo partendo da una filosofia, quella gentiliana, che viene così caricata di troppe “responsabilità”, con il risultato di ingigantire il ruolo di Gentile nella storia del fascismo. Il pensiero gentiliano oltrettutto viene presentato secondo una lettura che appare assai riduttiva, fondata essenzialmente su due, tre concetti (il concetto di Stato, il concetto di “primato culturale” e il concetto di rivoluzione dal
l’alto), senza che siano mai operate le necessarie distinzioni fra i diversi piani, quello filosofico e quello politico, della complessa opera gentiliana. La figura di Mussolini viene viceversa appiattita e ingabbiata nella non meglio specificata “linea esclusivista” del fascismo, cosicché, a lettura ultimata, si ha la singolare impressione che il vero fondatore del fascismo non sia stato Mussolini ma Gentile. È evidente chela rivisitazione del dibattito politico del fascismo attraverso una lente tanto fragile dà luogo a non poche forzature interpretative, come il voler collocare all’interno di quella che l’autore chiama la ’’seconda fascia” della cultura politica del fascismo, intellettuali di provenienza e formazione tanto diversi come gli ex-allievi del filosofo siciliano Omodeo, Russo, Codignola, Lombardo-Radice; ex-nazionalisti come Rocco e Federzoni; gli ’’universitari cattolici” e la rivista ”11 Frontespizio”, tutti accomunati da una sorta di ’’europeismo”. In questo e in altri casi per individuare un comune denominatore tra uomini di cultura tanto diversi Veneruso deve ricorrere a categorie e definizioni assai poco rigorose. Tale, ad esempio, ci appare la categoria di “realismo” (che dà il titolo ad un intero paragrafo) e così anche il concetto di “nazionalismo”, usato talvolta per indicare un preciso orientamento, politico, talaltra per designare una generica posizione ideale, cosicché quando l’autore parla di “crisi del nazionalismo”, collocandola intorno al 1925, non si comprende a quale “nazionalismo” egli voglia alludere, né viene adeguatamente giustificata la periodizzazione
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proposta. Ne risulta una ricostruzione del dibattito politico negli anni del fascismo schematica in qualche punto e poco persuasiva.
Angelo Montenegro
M a r i a F r a d d o s i o , Le donne e il fascismo. Ricerche e problemi di interpretazione, “Storia contemporanea”, 1986, n. 1.
L’esiguità degli studi di storia delle donne in epoca fascista e nel contempo la difficoltà di reperire indicazioni bibliografiche esaurienti sottolineano l’importanza di una rassegna ampia e documentata come quella elaborata dalla Fraddosio su questa tematica (cfr. anche Fraddosio, Donne nell’esercito di Salò, “Memoria”, 1982, n. 4). I riferimenti bibliografici sono molto ricchi e presentano un quadro completo della produzione storica sia sul piano delle storie generali (includendo anche opere ispirate ad ideologie antifemminili) sia degli studi specifici. L’analisi si articola su due linee di ricerca che focalizzano e la condizione della donna durante il fascismo e la militanza femminile nelle organizzazioni del regime.
La prima parte decisamente molto ampia e dettagliata, assumendo come griglia di lettura la “condizione della donna”, risulta però disorganica allineando ricostruzioni storiche quali La storia della guerra civile in Italia di Giorgio Pisano (Milano, FPE, 1966), la Storia del fascismo di Pino Rauti e Rutilio Ser- monti (Roma, Cen, 1976-77), a fianco di analisi precise come gli studi di Piero Meldini (Sposa e madre esemplare, Rimini-Firen-
ze, Guaraldi, 1975) e di Maria Antonietta Macciocchi {La donna nera, Milano, Feltrinelli, 1976). Vengono così tratteggiati in ordine cronologico i momenti della storiografia sul fascismo nel suo complesso, che se illustrano aspetti della vita delle donne, muovono da ottiche e finalità così varie da comporre alla fine un panorama non sempre chiaro, come la ricchezza della documentazione avrebbe potuto produrre. La scarsa organicità mi pare derivare da una non ben precisata motivazione della scelta della griglia di lettura, che comprende in sé dimensioni di vita come la famiglia, l’appartenenza ad una classe sociale, il lavoro, le ideologie antifemminili prevalenti, la partecipazione alla vita politica, il controllo delle nascite..., che se risultano sempre tra loro intrecciate, spesso fanno capo a ottiche interpretative differenti, che non è possibile mettere tra parentesi.
La seconda parte della rassegna, pur abbastanza breve, ma proprio in quanto impostata su di una linea molto precisa, è senz’altro molto più omogenea.
Paola Pirzio
Italia liberale
D o r a M a r u c c o , Lavoro e previdenza dall’Unità al fascismo. Il Consiglio della previdenza dal 1869 al 1923, Milano, Angeli, 1984, pp. 128, lire 10.000.
Questo saggio costituisce un importante contributo nel campo della storia delle istituzioni e dell’amministrazione pubblica italiana. Proseguendo nella di
rezione della sua precedente ricerca sul mutualismo nell’Italia liberale, l’autrice ha affrontato lo studio del Consiglio della previdenza e delle assicurazioni sociali, verificando le ipotesi che Alberto Caracciolo, già nel 1960 {Stato e società civile. Problemi dell’unificazione italiana, Torino, Einaudi), aveva formulato sulla proliferazione dei corpi consultivi, sulla loro funzione all’interno di un sistema rappresentativo e sulla loro importanza per definire le misure dell’intervento statale nel periodo liberale. Rispetto agli studi sui consigli amministrativi (dei quali l’unico con taglio storico resta quello di Enzo Balboni, Le origini dell’organizzazione amministrativa del lavoro, Milano, Giuffrè, 1968, dato che l’argomento è campo privilegiato del diritto amministrativo e costituzionale, come attesta meglio la ricca bibliografia sul Consiglio nazionale dell’economia e sui suoi precedenti), il libro della Marucco contiene un’ampia analisi storico-sociologica dei componenti del Consiglio, unitamente ad una discussione approfondita sui risultati della sua ricerca e sulle tesi più rilevanti all’interno del dibattito sul rapporto sistema politico/ammini- strazione e sui mutamenti di quest’ultima avvenuti tra l’Unità e il fascismo. La ricerca attesta infatti sia il progressivo aumento della presenza di interessi settoriali organizzati all’interno della pubblica amministrazione, sia l’aumento del peso della burocrazia anche in questo corpo consultivo. I risultati di questa ricerca confermano i dati relativi alla periodizzazione interna della storia amministrativa italiana, già stabiliti dagli studi
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più accreditati sull’argomento (come quelli di Sabino Cassese) e le peculiarità assunte, nelle varie fasi, dal sistema amministrativo nel suo rapporto con il governo ed il Parlamento. Anche nel Consiglio della previdenza si riscontra così, nel trentennio post-unitario, la medesima fusione tra personale politico e personale amministrativo riscontrabile in tutti i settori della pubblica amministrazione, mentre si delinea, a partire dal primo Novecento, la nuova centralità degli interessi organizzati nel campo del credito e soprattutto della cooperazione, che determinano nuovi criteri di rappresentatività all’interno del Consiglio stesso. Ma la nuova organizzazione degli interessi del lavoro è in grado di imporre la realizzazione effettiva di un’adeguata legislazione sociale? L’autrice segue da vicino i lavori del Consiglio, i risultati ottenuti ed i fallimenti, assieme alle sue difficoltà di funzionamento che si accentuano a partire dagli inizi del secolo, anche in relazione alla mai realizzata fusione con il nuovo, importante organo sorto nel 1902, il Consiglio superiore del lavoro, ed alla mancata ristrutturazione del vecchio Consiglio sul modello del nuovo. L’azione consultiva del Consiglio, limitata alla mutualità e alla previdenza, non corresse le lentezze della legislazione sociale giolittiana. Il passaggio all’assicurazione sociale obbligatoria, come risoluzione complessiva del problema della previdenza sociale avvenne solo durante la guerra. Essa, tuttavia, “non fu l’approdo di un lungo cammino dello Stato liberale per colmare il divario tra paese reale e paese legale, fu
invece un’offerta alle classi popolari in cambio del loro coinvolgimento nell’impresa bellica”. Le conclusioni tratte dalla Marucco nel campo specifico della sua ricerca apportano ulteriori conferme alle tesi di Paolo Farneti (Sistema politico e società civile, Torino, Giappic- chelli, 1971) relative alla mancata democratizzazione del sistema politico italiano nel periodo decisivo della sua espansione economica.
Maria Malatesta
La cassetta degli strumenti, Ideologie e modelli sociali nell ’industrialismo italiano, a cura di Valerio Castronovo, Milano, Angeli, pp. 305, lire 25.000.
Risultato di un’indagine promossa nel 1981 dal Comitato di Scienze economiche e sociologia del Cnr sul tema “L’Italia del Nord: nascita di una società industriale, 1880-1920”, il volume raccoglie otto saggi con l’intento complessivo di delineare un profilo, sia pure parziale, dei risvolti culturali e istituzionali connessi alla prima rivoluzione industriale italiana. Va immediatamente precisato tuttavia come la frammentazione e l’intreccio dei terreni di ricerca — dalle scienze economiche e sociali alle relazioni industriali, dai modelli di comportamento borghesi alla militanza nei partiti, fino al campo delle simbologie e degli stereotipi ideologici — più che costruire “un quadro significativo della nostra iniziazione industriale”, come nelle intenzioni di Castronovo che ha curato la pubblicazione, abbia finito per denotare la mancanza di una pratica unificante di con
fronto tra i giovani studiosi coinvolti nell’iniziativa. Né l’introduzione dello stesso Castronovo fornisce elementi utili all’individuazione di una trama interna capace di legare i contributi — pure ricchi di spunti interessanti se considerati singolarmente — in una coerente proposta interpretativa.
La cifra del volume maggiormente carica di implicazioni sta tutta nella citazione schum- peteriana del titolo: nel riferimento cioè alla cultura economica come “cassetta degli strumenti” elaborati dagli economisti per l’investigazione, la registrazione, la previsione e il governo dei processi che caratterizzano il funzionamento della società industriale. Inserendosi nel dibattito storiografico — iniziato proprio da Castronovo alcuni anni fa — sull’esistenza e le caratteristiche della “cultura industriale” in Italia, alcuni contributi riescono, seppure con intenti soprattutto illustrativi e senza uno Sforzo interpretativo del tutto convincente, a focalizzare i riflessi del procedere dell’industrializzazione sugli statuti metodologici ed epistemologici dell’economia politica e delle scienze sociali in Italia, tra la fine del secolo scorso e i primi decenni del Novecento. Sullo sfondo della parabola della cultura positivista, l’affermazione delle scienze sociali è segnata dalla crescita parallela di una rete di istituzioni: il Laboratorio di economia politica fondato, nella Torino positivista e industriale, da Cognetti De Mardis, “campione dello sperimentalismo applicato all’economia”; ma soprattutto il Politecnico di Milano, espressione del primo positivismo della Destra lom
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barda, convinta sostenitrice della necessità di costituire la tecnica in scienza (la “scienza applicata”). Lungo tali coordinate si consumano alcune delle esperienze fondamentali della cultura industriale dell’età liberale: quella de “La Riforma sociale”, con il suo caratteristico atteggiamento pragmatico ed operativo nei confronti dei processi industriali, analizzati con strumenti originali come le grandi survey della letteratura economica e legislativa, le indagini empiriche e la ricerca statistica (Denis Giva); quella della casa editrice Hoepli, organicamente legata al Politecnico, che con l’opera di divulgazione scientifica operata dalla sua collana di manuali realizzò un programma di formazione di tecnici, periti e burocrati direttamente finalizzato alla costruzione dell’Italia industriale (Laura Barile); quella infine cronologicamente posteriore dell’Ente nazionale italiano per l’organizzazione scientifica del lavoro, in cui la tradizione paternalistica della psico- tecnica italiana (centralità del fattore umano e dell’orientamento professionale contro l’“arida meccanizzazione” degli ingegneri americani) confluirà con le strategie corporative del sindacalismo fascista (Claudio Pogliano).
Da segnalare anche il brillante saggio dedicato da Giuseppe Berta alla visione di Luigi Einaudi delle relazioni industriali. Ripercorrendo le roventi polemiche anticorporative dell’intellettuale piemontese e i suoi ripetuti scontri, a proposito delle funzioni del Consiglio superiore del lavoro, con il personale politico di matrice nittiana sostenitore di un governo istituzionale
del lavoro, Berta sottolinea la “modernità” della figura di Einaudi, conservatore in grado di intuire “come possa essere irta di pericoli la strada di un accoglimento delle forme della cittadinanza industriale e sociale attraverso l’estensione del reticolo istituzionale, in una situazione come quella italiana in cui sono esili le basi dell’autonomia sociale degli attori contrattuali”. Il richiamo ad Einaudi come difensore dell’autonomia della sfera economica contro la “ipostatizzazione delle organizzazioni di rappresentanza degli interessi” e il loro “perverso intreccio” con le funzioni dello Stato fa tutt’uno con le tesi ormai consolidate di Castronovo sul destino minoritario dell’industrialismo in Italia, incapace di raggiungere una piena legittimazione e di condurre ad una “accettazione a pieno titolo della logica conflittuale tra capitale e lavoro”. Ciò che induce a ritenere che in fondo l’introduzione al volume dello stesso Castronovo non sia riducibile ad una pura operazione di sponsorizzazione editoriale.
Stefano Battilossi
A l b e r t o D e B e r n a r d i , Il mal della rosa. Denutrizione e pellagra nelle campagne italiane fra ’800 e ’900, Milano, Angeli, 1984, pp. 267, lire 22.000.
Scrisse Marc Bloch, introducendo il famoso studio su I caratteri originali della storia rurale francese (Torino, Einaudi, 1973) che “vi sono periodi, nello sviluppo di una disciplina, in cui un’opera di sintesi, anche se a primo aspetto prematura, torna più utile di molte ricerche ana
litiche”. Negli ultimi anni si sono succeduti studi, ricerche, tesi di laurea, per lo più di carattere locale sulla storia della malattia; non sempre con esiti ugualmente felici. Spesso l’analisi delle forme endemiche o epidemiche è stata costruita usando partizioni territoriali o scansioni temporali che non hanno tenuto sufficiente conto dei caratteri profondi della morbilità, così come di altri momenti della vita degli uomini, quali natalità, mortalità.
I tempi delle malattie hanno in parte cadenze proprie ed i rigidi nessi causali tra fenomeni economici, condizioni di vita e malattia sono forieri di ambiguità. Un’altra considerazione sollevano talune di quelle ricerche analitiche locali, cui si è fatto cenno, ed il problema venne lapidariamente esposto da Giovanni Berlinguer in apertura del convegno “Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo”, tenutosi a Pavia nel febbraio 1981. Secondo Berlinguer “un medico che si improvvisa storico è pericoloso quanto uno storico che si improvvisasse medico (Salute e classi lavoratrici in Italia dall’Unità al fascismo, a cura di M. Luisa Betri e Ada Gigli Marchetti, Milano, Angeli, 1982, p. 11). Forse, nonostante l’avviso, la trappola è già scattata più volte.
Non è casuale il fatto che la malattia sia stata colta prevalentemente quale dato oggettivo e assai meno nel suo essere stata vissuta, filtrata dalla soggettività di gruppi sociali in certi ambienti e in determinati momenti. La malattia, come la nascita, la morte, l’abbandono e la mortalità dei bambini furono — e sono — realtà non di brevi perio
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di, ma connotarono la quotidianità di intere epoche storiche, sotto latitudini differenti. Una realtà di sempre, si potrebbe quasi dire; ciò che mutava non era solo la forma di tali fenomeni ma anche, e forse soprattutto, il modo in cui gli uomini e le società vissero nel tempo la malattia o la morte. Ciò che potè apparire “normalità” in talune epoche, si fece intollerabile in altre.
Depone a favore del lavoro di De Bernardi l’aver appunto dilatato gli orizzonti, aver cercato di leggere orme magari tenui, apparentemente poco significative che però portavano lontano, alla individuazione di remote radici di una malattia, la pellagra, per lo più colta nei suoi quadri fenomenologici. Le origini del male della rosa sono da ascrivere, secondo l’autore, a fenomeni strutturali di lungo periodo (p. 58) ed egli coglie nel mais qualcosa di più di una mera coltura, ma il perno “attorno al quale ruotarono tutti i processi economici... e che di fatto consentì l’aggressione ai livelli di reddito e la proletarizzazione delle masse contadine: immiserimento dei ceti produttivi delle campagne e diffusione del granoturco procedettero parallela- mente e quanto più elevata si faceva la pressione padronale e imprenditoriale sul reddito e sul salario contadino, tanto maggiore diventava l’estensione della coltura maidica e il suo peso nella ruota agraria” (p. 37). Doppiate le colonne d’Èrcole degli archi temporali troppo asfittici, lo studio, pur con qualche disomogeneità, si muove ed abbraccia ambiti regionali vasti ed è proprio su questo terreno che esso svela taluni risvolti
bifronti. L’insufficienza quantitativa e qualitativa delle ricerche su aree tipicamente mezzadrili, piuttosto che bracciantili e a salariati fissi o a piccola conduzione diretta fa sorgere qualche interrogativo sulla geografia della fame delineata dall’autore e sui nessi causali con l’introduzione di nuovi ordinamenti colturali o con l’evoluzione dei rapporti di proprietà e di produzione nelle campagne già nel corso del Settecento. D’altro canto, proprio perché il lavoro si pone in qualche modo come opera di sintesi, nell’accezione ricordata poc’anzi, esso ha appunto il merito di stimolare ipotesi, domande, di porre nuovi problemi, sollecitando ricerche lungo piste di cui ora è più facile cogliere la direzione ed il senso.
Così — si è visto — poco illuminata è la pellagra nel sentire soggettivo della gente ed in tal senso uno dei tratteggi più sapienti, eppure scarno, lo dobbiamo cercare tutt’ora nelle pagine del II Mulino del Po di Bac- chelli. Come veniva vissuta la pellagra, all’inizio del secolo scorso, quando era accompagnata dall’abbandono di migliaia di bambini nelle ruote dei torni; e come, invece, durante la seconda metà dell’Ottocento e più ancora sul finire del secolo, quando le porte dei manicomi si aprivano di meno per accogliere i pazzi pellagrosi e, viceversa, con intensificata frequenza si spalancavano per inghiottire qualcosa di nuovo, qualcuno che pareva rimpiazzare gli antichi ospiti: coloro che erano affetti da frenosi alcoolica? Seppure per ragioni diametralmente opposte il vino legava in qualche modo pellagra e alcoolismo. Se ciò è vero, allora l’analisi di
De Bernardi, che giustamente punta al cuore del problema fissando l’attenzione sulla maiscoltura, dovrebbe dilatarsi ulteriormente sino a prendere in considerazione tutta la trasformazione del paesaggio agrario, compresa la scomparsa definitiva del bosco in pianura, nel corso di Settecento ed Ottocento e di conseguenza la trasformazione di tutti gli assetti produttivi, sottolineando, con altrettanta dovizia di particolari, i caratteri ed il senso di ciò che stava scomparendo per lasciare il posto a nuove colture.
Allora forse diventerebbe più agevole cogliere nella sua unitarietà l’insieme di quei fenomeni di morbilità che, nei decenni a cavallo dell’Unità e soprattutto dopo la metà del secolo scorso, colpiranno tutte le forme di vita, sia quelle vegetali ed animali, sia gli uomini.
Gianluigi Della Valentina
C l a u d i a B a s s i A n g e l i n i , Gli “accoltellatori” a Ravenna (1865-1875). Un processo costruito, Ravenna, Longo, 1983, pp. 249, lire 16.000.
Tredici accoltellati, colpiti da misteriose pugnalate nei sei anni fra il 1865 e il 1871, hanno fatto della “setta degli accoltellatori” una delle tante leggende che hanno contribuito a creare l’immagine di una Romagna violenta negli anni successivi all’unità nazionale, fino alle origini del fascismo. Una Romagna nella quale l’espressione politica trovava la sua “abituale” espressione nell’estremismo barricadiero e incendiario della Settimana rossa; una Romagna cos
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parsa di vittime nei quotidiani scontri fra internazionalisti, mazziniani e borghesi. A partire dal 1865, vittime illustri (Antonio Monghini, direttore della Banca nazionale; Emilio Ghez- zo, presidente della Camera di commercio; Cesare Cappa, procuratore del re) e cittadini sconosciuti misteriosamente assassinati furono accomunati in un processo monstre, basato su prove indiziarie, testimoni corrotti, spie e “confidenti” accuratamente preparati. Tredici delitti divennero il centro di una “congiura”, l’obiettivo politico dei “sovversivi” riuniti in una società segreta. Quale mezzo migliore per le autorità, quale più perfetto pretesto per costruire e scatenare una repressione su larga scala contro la sinistra ravennate? Soprattutto se tali “delinquenti” facevano parte di quella Società di mutuo soccorso nella quale si stavano “annidando” i primi aderenti all’Internazionale? Anzi. Secondo il Pubblico ministero la Società di mutuo soccorso era proprio nata per precisa volontà di un gruppo di accoltellatori che volevano, attraverso di essa, mascherare e proteggere i propri delitti. E, d’altra parte, era “cosa fuori questione e certissima che malfattori e internazionalisti sono la stessa ed identica cosa” (p. 186). Tutta l’inchiesta, anzi la unificazione di inchieste che collegavano forzatamente tanti omicidi o tentati omicidi, rendeva evidente l’obiettivo preciso del questore Serafini di distruggere il nascente socialismo locale, sia attraverso la condanna dei membri dell’organizzazione, sia accreditando la versione che trattavasi di una associazione a delinquere, di un
gruppo di “infami”. Una regìa sapiente del questore, che seppe mescolare alcuni attentati di chiara natura politica (i cui responsabili erano comunque morti), qualche vendetta della malavita locale, un paio di omicidi avvenuti per vendetta personale: tutti indipendenti gli uni dagli altri. Il tutto accuratamente presentato in un dibattimento in cui ogni cosa era mescolata e non si distinguevano più i delitti “politici” da quelli comuni, ma il tutto appariva frutto della mostruosa crudeltà dei ventitré poveri imputati che, storditi, non seppero né difendersi né, a volte, neppure parlare.
Tutto questo, grazie ad una indagine condotta con singolare pazienza, attraverso una attenta lettura degli atti processuali e di documenti archivistici accuratamente cercati, trovati e intelligentemente usati: tutto ciò, dicevamo, è riuscito a ricostruire l’autore in un libro puntiglioso e preciso. Ci si potrebbe domandare il motivo di una documentazione che a volte appare quasi eccessivamente accurata, se non si sapesse che, ancora a cent’anni da quegli avvenimenti, “storici” e “studiosi” locali continuano a ricostruire le vicende della “setta degli accoltellatori”, perenne riprova della perversità del sovversivismo romagnolo, accettando acriticamente le conclusioni dell’inquisizione ordita dalle autorità di Ps.
Quella che l’autore ha ricostruito è, ora, una pagina esemplare di storia locale, esemplare per l’accuratezza, il metodo, la qualità e l’equilibrio del racconto, il suo attento inserimento all’interno di più ampie vicende storiche; un contributo non solo alla conoscenza della “verità”
relativa alle storie umane e personali dei ventitré imputati, ma un quadro della società nazionale negli anni in cui la paura nei confronti del movimento operaio, alle sue prime fasi organizzative, scatenava ovunque la repressione in risposta a rivendicazioni che a volte potevano anche assumere aspetti e caratteri estremistici.
Luciano Casali
F i o r e n z a T a r i c o n e , B e a t r i
c e P i s a , Operaie, borghesi e contadine nel X IX secolo, Roma, Carucci, 1985, pp. 293, lire 15.000.
Il volume riunisce due saggi che hanno come comune campo di indagine la condizione femminile in Italia tra la seconda metà dell’Ottocento e il primo decennio del secolo successivo, ma che sono radicalmente differenti per l’ottica e impostazione delle due autrici. Mentre Taricone infatti mette a fuoco, attraverso una rilettura dei cataloghi femminili e della letteratura in voga nel periodo, i modelli più diffusi nel mondo intellettuale femminile borghese e altoborghese, Pisa traccia un quadro dei lavori delle operaie e delle contadine, facendo ricorso a chiavi di letteratura mutuate anche dalla sociologia e dalla storia economica.
La distanza tra le diverse tipologie femminili risulta così fortemente accentuata: le borghesi colte, impegnate socialmente, dibattono questioni politiche e relative all’identità femminile; le operaie e le contadine invece appaiono estenuate da lavori faticosi, non dissimili da
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quelli maschili, e dalle continue gravidanze. Paradossalmente però sono le borghesi descritte dalla Taricone a mostrare l’immagine più monolitica e a rivelarsi ripetitive propagandiste dei lavori maschili dominanti e di un modello di donna che pone il sentimento materno al centro non soltanto della vita familiare ma anche dell’attività extradomestica, che assume per lo più le forme della beneficenza, dell’assistenza, dell’insegnamento.
Se è innegabile la complicità femminile nei confronti delle discriminazioni attuate nei confronti del proprio sesso, è però altrettanto innegabile la presenza, taciuta dall’autrice, di donne capaci di pensare e agire per sé e per le altre al di fuori di schemi e ruoli codificati. La sottovalutazione di figure ed iniziative emancipazioniste appare ad esempio evidente nel capitolo dedicato all’Unione femminile nazionale, che non si limitò ad essere, come scrive la Taricone, “la rappresentante più adeguata di una nuova e moderna estrinsecazione della beneficenza femminile” (cit. p. 103), ma fu un’associazione emancipazioni- sta importante e originale nel panorama culturale dei primi decenni del Novecento.
Particolarmente attento alle prospettive d’indagine maturate nell’ambito della storia delle donne in Italia e all’estero è lo studio di Pisa, che analizza l’evoluzione del lavoro femminile alla luce dell’intreccio tra ruoli familiari e sociali, tra produzione e riproduzione nei differenti contesti geografici.
Applicando al caso italiano il metodo utilizzato per la Francia e l’Inghilterra da L.A. Tilly e J. W. Scott (Donne lavoro e fa
miglia, Bari, De Donato, 1981), l’autrice fa giustizia di una serie di luoghi comuni relativi all’impatto dell’industrializzazione sull’occupazione femminile. Dimostra infatti che, contrariamente all’opinione più diffusa, l’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro non si determinò in coincidenza con il decollo industriale, di solito collocato dopo il 1896, ma ne costituì la premessa, attraverso l’accumulo di capitali derivanti dallo sfruttamento, nei decenni precedenti, di una manodopera femminile a basso costo. Lo sviluppo industriale comportò invece la perdita di molte funzioni produttive femminili tipiche dell’economia capitalistica e, a partire dal 1881, un netto calo dell’occupazione femminile.
L’autrice nega quindi il nesso spesso stabilito tra lavoro remunerato ed emancipazione femminile e collega l’emergere della questione femminile agli inizi del Novecento alla formazione di un nuovo gruppo sociale composto da donne di estrazione piccolo borghese, alfabetizzate e nubili, che si assunsero il compito di promuovere associazioni e battaglie emancipazioniste.
Il saggio di Pisa illumina, come si è detto, aspetti poco studiati della condizione femminile tra Ottocento e Novecento ma suscita al contempo ulteriori interrogativi. Si avverte ad esempio l’esigenza di specificare il peso, i tempi, le modalità del contributo della forza lavoro femminile allo sviluppo economico italiano, di approfondire l’analisi delle condizioni di vita e di lavoro delle operaie di fabbrica, delle lavoranti a domicilio, delle domestiche, nei diversi
contesti geografici, di chiarire il fenomeno del forte aumento di donne nubili alla fine dell’Ottocento, ma anche di conoscere le biografie delle leaders emancipazioniste che, a parte qualche eccezione, non sono state ancora scritte e infine di studiare l’attività delle associazioni femminili, i loro rapporti interni e con il contesto economico, sociale e culturale.
Emma Scaramuzza
M a r c o F i n c a r d i , Gli gnocchi e la polenta. La festa popolare nella vita, nella mentalità e nei miti di una cittadina emiliana del secondo Ottocento, Reggio Emilia, Club Turati, 1984, pp. IV-169, lire 12.000.
La “gnoccata” che, saltuariamente ripristinata, ad intervalli di alcuni anni, si celebra a Guastalla è considerata come una tipica espressione della propensione della Padania collettiva a mangiare e fare baldoria collettivamente. Possiamo certamente collocarla, con Fincardi, all’interno di quelle “comunità festive” ormai perdute che vengono recuperate dalla società contemporanea, mitizzante nostalgicamente ma, nello stesso tempo, come ha scritto Mesnil, svuotate, in tale riproposizione, di ogni implicazione sacrale e sociale che ne era stata all’origine. Resta un prodotto, da consumarsi come semplice spettacolo. Così il vagheggiato mondo preindustriale simbolicamente calato nella “gnoccata” trascura le reali origini ottocentesche e “risorgimentaliste” della festa di mezza quaresima, allontana il ricordo della sua forzata coinci
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denza, dopo il 1921, con il Natale di Roma, colloca il tutto in una fantastica età dell’abbondanza e della felicità simboleggiata dalla distribuzione di “gnocchi” nella piazza del paese.
L’attento studio di Fincardi ricostruisce la storia della festa dalle sue origini (1868) e, soprattutto, ricerca sogni, miti, mentalità popolari sottesi alla nascita della “gnoccata” e alla sua “folklorizzazione” avvenuta nel corso della seconda metà del XX secolo: da frutto di una “creatività comunitaria” a ripresa quasi turistica, in cui il “bisogno di festa” ha assunto ben diversi connotati.
Luciano Casali
Rassegna della stampa per il 40° della Repubblica
“Nella cultura nazionale la vena celebrativa finora era stata ricca e feconda. I giornali hanno sempre registrato gli anniversari conimplacabile puntualità..... Ma,allora, perché il 40° anniversario della Repubblica sta suscitando un così scarso interesse? Qualche articolo sui giornali, in alternativa al metanolo, al nucleare e alla eterna quérelle tra Craxi e De Mita”.
Questa constastazione apre un breve intervento di Gianfranco Piazzesi sull’inserto “Tuttolibri” de La Stampa del 31 maggio. Una notazione per molti versi analoga è quella che rileva il lungo articolo di Jacques Nobécourt su Le Monde del 1 /2 giugno — e anche il fatto che un quotidiano francese si occupi del tema in modo più rilevante rispetto a buona parte
della stampa italiana è un aspetto di un certo interesse —. Scrive Nobécourt: “Per l’anniversario di questo 2 giugno in cui fu fondata la loro repubblica, gli Italiani non danzano sulle piazze, i pompieri non sfilano nei villaggi e i ministri dei vari culti non ringraziano il Signore. Tuttavia è la festa nazionale e il presidente della Repubblica riceve nei giardini del Quirinale tutta la classe politica con le sue appendici.... Questa festa dell’oligarchia in nome della democrazia, nel primo torpore dorato della primavera romana, sopporta bene tutte le ombre dei pergolati che contemplano ancora i duraturi simboli dei poteri rivali: la cupola di San Pietro, dall’altro lato della città, il Campidoglio, le rovine del Palatino e cioè: ipreti (in italiano nel testo), i Romani, i fardelli del mitico passato latino”. E conclude, dopo aver passato in rassegna gli avvenimenti che portarono all’avvento della Repubblica, insistendo sul ruolo centrale di De Gasperi e Togliatti; “In effetti, ben prima che Berlinguer lo definisse nel 1974, questi primi mesi del 1946 vedono il “ compromesso storico” pienamente in atto. È all’incontro, alla convergenza di Togliatti e De Gasperi che l’Italia deve la transizione pacifica che non era assicurata in partenza. Il 2 giugno commemora l’avvenimento. Lo merita”.
Una conferma — anche se molto rapida e ovviamente senza alcuna pretesa di essere esauriente — dell’impressione di Piazzesi e Nobécourt si ricava dalla lettura dei quotidiani e dei periodici di maggiore diffusione. Un aspetto comune alla massima parte degli interventi è la netta prevalenza di un taglio
cronachistico e incentrato sulle “memorie” dei testimoni. Sul Corriere della Sera del 1° giugno un articolo di Silvio Bertoldi, “Quarant’anni fa la Repubblica”, commenta lo svolgimento del referendum istituzionale rievocando il ruolo dei protagonisti e i giudizi che essi espressero nell’immediato e in tempi successivi; sulla stessa pagina Piero Melograni in una breve nota chiarisce le ragioni della sconfitta di una monarchia che “non aveva mai messo profonde radici nel paese”. Nel numero del 2 giugno a fianco di un articolo di Gaetano Afeltra, “E Borsa disse: “Viva il re, ma in esilio”, sono pubblicati una serie di “Memorie” (Mario Soldati, Alberto Moravia, Rita Levi Montalcini, Elena Croce, Carlo Bo). L’inserto di Repubblica del 21 maggio comprende un’ampia ricostruzione degli eventi di Gianni Corbi, “Quaranta giorni, quaranta anni” , ricca di notazioni e di aneddoti che rievocano l’atmosfera convulsa di quelle giornate; il 3 giugno un articolo di Paolo Guzzanti, “L’Italietta che scoprì l’America”, è nella stessa chiave, mentre puntati sull’attualità politica sono l’articolo di Mino Fuccillo e il fondo di Stefano Rodotà, rispettivamente del 3 e del 4 giugno sul messaggio del presidente della Repubblica Cossiga al Parlamento, interpretato non come un discorso celebrativo ma di richiamo alla classe politica. Su Repubblica del 4 giugno infine da segnalare il commento di Beniamino Placido alle trasmissioni Rai sul quarantennale, messe a confronto con quelle contemporanee sui mondiali di calcio, che conclude con l’affermazione che già nel 1946 “il
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paese non aveva molta voglia di rinnovarsi”.
Rievocazioni e ritratti dei protagonisti anche sul Giornale del 2 giugno, a cura di Giovanni Cavallotti, “Referendum: mezza Italia esultò, mezza Italia gridava al broglio”, e di Mario Cervi, “I quattro protagonisti del cambiamento: Umberto, De Gasperi, Romita, De Nicola”; sullo stesso quotidiano un particolare aspetto, quello dei rapporti tra la Santa Sede e la monarchia, trattato diffusamente in una serie di articoli successivi (7 e 11 giugno), è oggetto di un esame più particolareggiato, che cita le ricerche dello storico Ennio Di Nolfo sulle carte di Myron Taylor, e riproduce due lettere inedite del 1947 di Pio XII e monsignor Martini a Umberto di Savoia, (le lettere accennano ad articoli di quotidiani dell’epoca sul mancato aiuto prestato dalla Santa Sede alla monarchia).
L’intento documentario cara- terizza l’inserto de La stampa del 1° giugno, che riproduce il dibattito avvenuto sulle colonne dello stesso quotidiano nel 1946 tra il direttore di allora Filippo Burzio, monarchico, e due re- pubblicani, Umberto Calosso e Luigi Salvatorelli, e il resoconto cronachistico del tempo. Qualche giorno prima, il 24 maggio, due interventi — un fondo di Alessandro Galante Garrone, ‘“ Forza dinamica’ disse Calamandrei”, e un’intervista di Roberto Martinelli a Livio Paladin, presidente della Corte costituzionale — avevano dato invece spazio al dibattito attuale sulla necessità o meno di riforme istituzionali, tema che vedremo ripreso anche da altri organi di stampa.
Spunti per un bilancio economico, civile, politico e culturale
sono il filo conduttore dell’articolo di Giuseppe Mammarella sulla Nazione del 30 maggio, “Repubblica: 40 anni e li porta bene”, di tono moderatamente ottimistico. Il 2 giugno il quotidiano fiorentino pubblica un articolo di fondo di prima pagina di Francesco Margiotta Broglio che solleva il tema del Concordato.
Degli inserti celebrativi del quarantennale pubblicati da altri quotidiani ci limitiamo a citare quelli degli organi di stampa dei principali partiti, tutti prevalentemente in chiave politica attuale. L ’Unità del 1° giugno apre con un articolo di Natta, “Nella Costituzione c’è ancora oggi un programma per il futuro”, cui segue nella stessa linea Aldo Tortorella, “Dalla parte del cittadino c’è ancora tanto da fare”; lo storico Rosario Villari riprendendo un dibattito che è tornato attuale rivendica l’importanza dell’intervento di Togliatti, “Fu merito di quella ‘svolta’ se nacque in buona salute”. L ’A vanti del 1° giugno, dopo aver rievocato il clima del 1946 e l’intransigente scelta repubblicana dei socialisti, in un articolo di Sebastiano Vassalli indica nel Presidente della Repubblica e nella Corte costituzionale le due istituzioni che hanno saputo più validamente esprimersi nei quarantanni re- pubblicani. Il Popolo, il 1/2 giugno, caratterizza il suo inserto con interviste ai notabili democristiani: Fanfani, Andreot- ti, Zaccagnini, Scalfaro, Rumor Taviani, Colombo, Sullo.
Tra i settimanali citiamo gli inserti de L ’Espresso e di Panorama, entrambi dell’8 giugno, che non si discostano se non per la maggiore ampiezza da quelli che abbiamo passato in rasse
gna. Il primo si apre con un lungo articolo di costume di Giorgio Bocca “Come eravamo e come siamo”, ben riassunto dal sottotitolo: “Dal 1946 al 1986 sono cambiati il tenore di vita, il modo di lavorare, di divertirsi e di fare politica. Immutati, invece, la fragilità di carattere, l’individualismo, l’arte d’arrangiarsi”; seguono un intervento più storico-giornalistico di Antonio Gambino “Storia di un anno”, che prende tuttavia le mosse dal 25 luglio 1943; un articolo di Luigi Pintor sulla “questione morale” fa la storia degli “scandali” dei quattro decenni trascorsi.
Su Panorama Gian Franco Vené, “Grazie maestà per la sua testardaggine”, rievoca i retroscena del referendum istituzionale e gli errori di Vittorio Emanuele III che furono tra i fattori determinanti della scelta repubblicana; seguono una serie di interventi “politici” a cura di esponenti di vari partiti.
Abbastanza curiosamente il più importante intervento “storico” nel vero senso della parola che abbiamo potuto individuare è apparso su un giornaletto provinciale, quello del Comune di Modena, tutto dedicato al quarantennale della liberazione della città ma che inserisce nella seconda pagina un articolo di Enzo Collotti, “1946: si delineano i primi tratti della nuova democrazia istituzionale”.
C.R.
30 gennaio 1945:il suffragio femminile in Italia
Nel quadro delle celebrazioni, spesso di maniera, del quaran
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tennale della Repubblica II Manifesto del 26 giugno 1986 propone un inserto intitolato significativamente “1946-1986 donne, il voto ingrato”, scegliendo una tematica recentemente (2 giugno 1986) analizzata in una giornata di studio “La memoria storica del voto alle donne” organizzata dall’Istituto romano per la storia d’Italia dal fascismo alla resistenza, ma in genere accantonata dalla storia tradizionale.L’intervento di Rossana Rossanda (“Un diritto tardivo: elettrici ma non elette”) è un bilancio molto lucido, anche se amaro, di una conquista che costò lunghe battaglie, ma che si risolse in una conferma della separatezza femminile. AI di là delle aspettative e dei timori dei partiti nel 1946, i dati più costanti della storia successiva evidenziano la partecipazione attiva e continua delle donne alle elezioni, ma anche la scarsità della rappresentanza femminile in Parlamento. L’esclusione delle donne “non dal fare politica, ma dalle istituzioni della politica” per Rossanda è riconducibile in gran parte ad un inconfessato timore delle potenzialità eversive delle donne proprio rispetto alle istituzioni politiche, ma è anche tema nel suo complesso ancora “insodato”.Gli articoli di Maria Pia Biga- ran, di Annarita Buttafuoco e di
Paola Gaiotti De Biase tracciano una significativa panoramica delle battaglie suffragiste e del rapporto con i partiti dalla fine dell’Ottocento al secondo dopoguerra. Bigaran (“Da Cavour a Mussolini, buone per il Municipio ma non per il Parlamento”) mette in luce nei progetti suffragisti di fine secolo la differenza di valore attribuita al suffragio politico, sempre fermamente negato, e al voto amministrativo, che proprio perché giustificato sulla base della proprietà e del pagamento delle tasse, dava sufficienti garanzie “nei confronti di un sesso altrimenti ritenuto non idoneo all’esercizio del diritto di voto” (cfr. anche di Bigaran, Progetti e dibattiti parlamentari sul suffragio femminile: da Peruzzi a Ciolitti, “Rivista di Storia contemporanea”, 1985, n.I). Buttafuoco nell’articolo “Sebben che siamo donne. I mille rivoli del suffra- gismo italiano”, analizza l’ambiguità dei Comitati pro suffragio (1905) formati da gruppi di donne di diversa formazione, sulla base di una mal definita identità femminile e nati con la funzione puramente tattica di rifondare il movimento. Per Gaiotti De Biase (“Tutta casa e urna. Come nasce la marginalità politica delle donne cattoliche”) il voto femminile introdotto nel 1945 come “un passaggio obbligato”, impone alla
gerarchia ecclesiatica un intervento che influenzerà a lungo la partecipazione alla vita politica delle donne cattoliche determinando una sostanziale ambiguità: nel discorso di Pio XII, molto elaborato, si fondono due linee di tendenza consistenti nella preoccupazione pastorale di allontanare le donne dalla cultura moderna e nel contempo di assicurarsi la possibilità di “metterle in campo” proprio mediante gli strumenti della modernità. Le modalità della memoria e del processo di ricostruzione storica nei momenti fondamentali della storia delle donne e del suffragio femminile, appaiono diverse secondo Paola Di Cori. Nella prima fase la memoria è “comu- lativa e lineare” e si muove in una dimensione temporale in cui i singoli episodi compongono un patrimonio di esperienze organico, nel secondo dopoguerra invece prevale una memoria “dell’intermittenza”, che non è possibile ricomporre in un quadro unitario proprio perché il percorso del femminismo è caratterizzato dalle fratture. Gli interventi, pur nella loro brevità e differenza di prospettive, propongono ad un pubblico spesso estraneo alle tematiche della storia delle donne, alcuni momenti fondamentali di una vicenda storica sinora solo parzialmente scritta.
P.P.