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PRASSI ANALITICA E CRISI DELLA CONTEMPORANEITA' San Servolo - Seminario Residenziale CIPA 16 -17 -18 Novembre 2012

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CIPA Atti S Servolo

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PRASSI ANALITICA E CRISI DELLA CONTEMPORANEITA'

San Servolo - Seminario Residenziale CIPA 16 -17 -18 Novembre 2012

 

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INTRODUZIONE 

Enrico Ferrari 

  I  Seminari  Residenziali  del  CIPA  costituiscono  un'occasione  unica  per  promuovere  la 

riflessione e coltivare l'appartenenza. 

Nel preparare il presente Seminario, l'Istituto di Milano ha espresso il desiderio che la nostra 

appartenenza  al  CIPA  venga  coltivata  nel  continuo  domandarci  in  quale modo poter  essere 

significativi per coloro che con coi condividono la stanza d'analisi: i pazienti. E in un continuo 

sforzo  di  comprendere  il mondo  in  cui  essi,  assieme  a  noi,  abitano.  Da  qui  il  titolo:  “Prassi 

analitica  e  crisi  della  contemporaneità”,  con  il  quale  diamo  per  assodato  che  la 

contemporaneità  sia  attraversata  dalla  dimensione  della  crisi,  e  che  la  prassi  analitica  non 

possa non farsi interpellare da essa. 

Nuovi  pazienti,  nuovi  setting,  nuovi  interrogativi  sulla  psicologia  analitica,  nuove  forme  di 

precarietà del  vivere, nuove  sollecitazioni  provenienti  dalla  tecnologia  e dai  suoi  nuovi  stili 

comunicazionali, specie nell'ambito dell'adolescenza: sono queste le declinazioni del rapporto 

tra prassi analitica e mondo contemporaneo che abbiamo scelto di sviluppare, convinti di non 

poter svolgere il nostro lavoro senza saper leggere il tempo presente e abitare la crisi che gli 

uomini  e  le  d'onne  d'oggi  vivono,  a  motivo  dell'incertezza  degli  scenari  culturali  e  delle 

limitatezze  degli  scenari  economici.  Conoscendo  già  le  difficoltà  di  dare  risposte  sicure  e 

anticipando l'inquietudine del dover comunque rimanere nella domanda. 

Del  resto,  saper  stare  nella  domanda,  saper  formulare  delle  domande  più  che  avere  delle 

risposte, sembra oggi il requisito irrinunciabile per chi voglia essere analista. In special modo 

per  chi  voglia  essere  analista  junghiano.  Perché  se  c'è  un  elemento  che  indubitabilmente 

connota la psicologia junghiana, questo è il suo carattere dialettico, di apertura al nuovo e di 

accoglimento delle istanze della storia, al di là di ogni pretesa dogmatica e di ogni edificazione 

teorica di una fissità naturalisticamente data. 

E abbiamo scelto di svolgere tutto questo nostro lavoro proprio a Venezia: sede di bellezza, di 

storia e di cultura; ma anche sede di commercio, quindi di capacità di incontro, di scambio e di 

dialogo, fin anche di contaminazione con le diverse culture. E, a Venezia, abbiamo scelto l'Isola 

di san Servolo, segnata all'inizio del secondo millennio dall'essere stata luogo di preghiera e di 

contemplazione,  non  disgiunte  dall'operosità,  in  quella  mirabile  sintesi  che  è  propria  del 

movimento  benedettino.  E  poi,  negli  ultimi  due  secoli,  l'Isola  di  san  Servolo  è  diventata 

ospedale militare  per malati  di mente,  fino  ad  essere  vero  e  proprio  ospedale  psichiatrico: 

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luogo  di  cura  dell'esperienza  della  follia,  con  tutte  le  ombre  e  le  contraddizioni  che  la 

psichiatria manicomiale ha comportato. Il manicomio è durato fino al 1978, quando la Legge 

180, la famosa “legge Basaglia” (il famoso psichiatra è nato proprio a Venezia), ha chiuso con 

l'esperienza dei recinti della psichiatria e ha aperto la possibilità di nuove donazioni di senso 

all'esperienza della sofferenza psichica ed alla sua cura.  

Fino  ad  arrivare,  all'inizio  degli  anni  90  del  secolo  scorso,  ad  essere  restituito  alla  cultura 

come Centro Studi.  

Ed eccoci allora qui, a cercare di congiungere bellezza, dialogo, cura. Sono questi i tre luoghi 

umani,  di  emozione  e  di  pensiero,  che  cercheremo  di  visitare  e  di  conoscere  in  questi  tre 

giorni. 

 

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RELAZIONE D'APERTURA 

 

PRASSI ANALITICA E CRISI DELLA CONTEMPORANEITA' 

Marco Goglio   

 

“Sifilitici,  dissoluti,  dissipatori,  omosessuali,  bestemmiatori, alchimisti,  libertini:  tutta una popolazione variopinta si  trova d’un tratto, nella seconda metà del XVII° secolo, rigettata al di là  di  una  linea  di  separazione,  e  rinchiusa  in  asili  che  erano destinati  a  diventare,  dopo  un  secolo  o  due,  i  campi  chiusi della follia.”1 

 

Premessa 

Siamo  ospiti  sull’isola  di  San  Servolo  a  Venezia,  dove  nacque  Basaglia,  regista  della  crisi 

dell’Istituzione manicomio che ha proiettato la psichiatria nel tempo della contemporaneità.  

Nel 1725 il Consiglio dei Dieci emette il primo documento dell’Istituto di San Servolo ed invia 

sull’isola “L’Illustrissimo Signor Lorenzo Stefani […] come pazzo”.  

Nei  locali  del  museo  si  trovano  anche  alcune  apparecchiature  per  l’elettroshock  la  cui 

paternità  è italiana; l’inventore fu il neuropsichiatra romano Ugo Cerletti, che la utilizzò per la 

prima volta nel 1938. Ma San Servolo  fu,  in precedenza, anche scenario di cambiamenti con 

l’applicazione  di  una  terapia  innovativa:  la musicoterapia.  Suo  promotore  fu  Cesare  Vigna, 

Vice  Direttore  del  manicomio  nella  seconda metà  dell’Ottocento,  nonché  grande  amico  del 

compositore  Giuseppe Verdi  (in  esposizione,  il  pianoforte  utilizzato  all’epoca  per  le  terapie 

nella “sala della musica”).  

Questo  luogo  ha  visto  la  storia  della  psichiatria  a  partire  dal  contraddittorio  “trattamento 

morale” (di Pinel2 ed Esquirol) che alternava il momento del silenzio dove, critica Foucault, il 

malato “liberato dalle catene, si trova ora incatenato, dalla virtù del silenzio, alla colpa e alla 

vergogna”3, al momento del riconoscimento nello specchio, dove lo sguardo del folle agirà solo 

all’interno  dello  spazio  della  follia(“Essa  vedrà  se  stessa  e  sarà  vista  da  se  stessa”4)  per 

1            Rodotà S., Foucault e le nuove forme del potere, La biblioteca di Repubblica, Roma, 2011 2 Pinel Ph., Traité médico-philosophiche sur l’aliénation mentale, Paris, 1809 3 Foucault M., Storia della follia nell’età classica, Rizzoli, Milano, 1973 4 ibidem

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concludere  nel  momento  del  giudizio  perpetuo  dove  la  follia  sarà  chiamata  a  giudicare  se 

stessa.  Se  questo  approccio  delle  sintesi morali  profila  il  manicomio  come  un  microcosmo  

giudiziario, dall’altro scrive Esquirol nel 1805, che l’alienista, per “guarire” i soggetti internati, 

deve  riuscire a  “mettersi  in armonia”  con  l’  “idea‐madre” da cui derivano  i  loro  “pensieri”,  i 

loro “ragionamenti”, i loro deliri. 

L’osservazione, la sintonia, l’esser‐ci nel “qui ed ora” tra medico e paziente aprirà a Basaglia la 

possibilità di tornare nel mondo, lui con i suoi malati. 

Heidegger scrive che la dimensione in cui l’esser­ci quotidiano si esprime naturalmente è nel 

mondo­ambiente  (la  mondità)5,  la  cura  diviene  tale  quando  il  terapeuta  come  il  malato  si 

pongono come essere avanti a sé in un mondo in quanto entrambi facente parti del mondo. 

L’organismo umano non può essere considerato alla stregua di un semplice oggetto di natura 

(e quindi di studio) ma gli elementi della forza dell’essere derivano dalla possibilità di esser‐ci 

nel tutto in sé (mente e corpo), come essere‐nel‐mondo ed essere‐oltre‐il‐mondo (koinonia)6. 

Proprio queste basi portano Basaglia all’incontro con l’altro dove lo psicolologo ed il medico 

dovranno  supplire  all’incapacità  di  aprirsi  del  malato  e  dovranno  essi  stessi  provocare 

l’incontro7. 

L’incontro nasce da una  investigazione atropo‐fenomenologica  come  “rapporto  intuitivo nel 

quale  si  fonde  l’unità  del  medico  e  del  malato  formandone  una  unica  che  precede  le  due 

singole entità.”8  

1 ‐ Contemporaneità tra globalizzazione e nuove emergenze.  

Anche oggi siamo immersi nel cambiamento continuo dell’individuo in una società in crisi. 

Per osservare queste dinamiche complesse nello scenario della contemporaneità dobbiamo 

mettere  a  fuoco  i  confini  dei  territori  che  si  confrontano,  vedere  i  limiti,  vedere  il  nostro 

territorio  e  accorgerci  che  oltre  il  confine  c’è  un  altro  territorio,  …  che  limita  la  nostra 

comprensione. 

 

5 Heidegger, Essere e tempo, Longanesi, Milano, 2005 6 Bisnwanger L., L’importanza dell’analitica esistenziale di Martin Heidegger per l’autocomprensione della

psichiatria, Astrolabio, Roma, 1973 7 Molaro A., Civita A., Binswanger e Freud, Cortina, Milano,2012 8 Basaglia F., Su alcuni aspetti della moderna psicoterapia: analisi fenomenologia dell’incontro, Einaudi, Torino,

1981

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Nel corso di questo mia sollecitazione proporrò alcune riflessioni e non certo soluzioni ad 

un  tema  così  complesso, alternandole a domande  che  vogliono  rappresentare  spunti per 

una vostra elaborazione (anche onirica vista l’ora serale). 

Ognuno  di  noi  appartiene  a  diversi  ambiti  di  vita,  comprende  esperienze  interiori 

differenti,  a  volte  integrate  a  volte  frammentarie,  ognuno  di  noi  ha  l’esperienza  di 

frequentare varie parti di sé. Nel mondo in cui viviamo ci capita di passare varie esperienze in 

cui  il nostro  io attraversa mondi e  tempi diversi,  siamo sottoposti a molteplici  relazioni ma 

anche sollecitati da informazioni variegate e complesse.  

Una  lettura  rigida  e  precostituita  di  questo  scenario  limiterebbe  la  ricchezza  delle 

informazioni ricevute; un analogo scenario capita quando l’uomo rappresenta in modo rigido 

le varie  facce del proprio mondo  interiore,  rischierebbe di disperdere  il proprio  io  in molte 

maschere vuote.9 

 

Una prima domanda (o alcuni dubbi …) 

1) L’individuo moderno prosegue  la  lotta prometeica contro  la parte oscura di sé (ombra) 

impedendo  l’integrazione  di  polarità  opposte  e  l’affermarsi  di  un’espressione 

originale e libera del sé? 

 

Tra rigidità e opposizione rimane aperta una possibilità di gioco solo se nella sincronia del 

nostro  presente  le  varie  parti  mantengono  una  disponibilità  reciproca  che  permette  il 

passaggio  tra  una  e  l’altra.  Questa  fluidità  che  connette  le  diverse  polarità  in  tensione 

reciproca (e spesso in contrasto) ci permette di convivere con le percezioni, le emozioni ed i 

pensieri  che  compongono  il  nostro  mondo  interno  e  ben  rispecchiano  le  complessità  del 

mondo contemporaneo in cui viviamo. 

Ognuno  di  noi  deve  fare  i  conti  col  tempo  presente ma  allo  stesso  tempo  col  proprio 

tempo interno che contempla le visioni che abbiamo avuto nel passato, i nostri cambiamenti, 

i cambi di lavoro e quelli affettivi che hanno complicato le nostre scelte.  

Oggi che i passaggi rituali sono meno connotati rispetto alle culture arcaiche (o religiose), la 

soglia  del  diventare  adulti  ci  viene  proposta  come  un  passaggio  a  forme  di  vita  diverse,  di 

adattamento a nuove relazioni e condizioni, di apprendimento di nuovi ruoli e responsabilità. 

Adultità diviene la capacità di lasciare alle spalle quello che eravamo per accogliere il nuovo 

che siamo. 

9 A. Melucci, Passaggi d’epoca, Idee Feltrinelli, Milano, 1994

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 Gehlen ha  stabilito  uno degli  assunti  dell’antropologia  filosofica  più  famoso  e  più  largamente  accettato  (e  che 

contribuisce  a  renderlo  il  filosofo  più  rilevante  in  questo  campo):  l’uomo  è  caratterizzato  da  una  carenza 

istintuale, da una “nudità” originaria che è segnalata tanto da una costituzionale precocità di nascita quanto da 

debolezza  anatomica  associata  a  una  scarsa  specializzazione  degli  organi.  Tutto  ciò  rende  l’essere  umano 

l'animale più adattabile ma anche un animale la cui esistenza dipende strettamente dalla tecnica e dal capitale 

culturale e istituzionale della società in cui si trova a vivere.10  

Lo  scenario  della  contemporaneità  (che  chiamiamo  oramai  globale)  ci  sottopone  ad 

adattamenti nuovi: culture differenti per storia e contenuti, visioni del tempo e dei modi di 

vivere completamente diversi tra loro. Anche le migrazioni trasformano i più sedentari di 

noi  ad  essere  viaggiatori  non  solo  nel mondo ma  anche  nel  tempo:  in  piazza  del  Duomo,  a 

Milano, ti  imbatti  in gruppi di molteplici etnie Sudamericane o Orientali, al semaforo trovi  il 

lava  vetri  albanese o  il mutilato bosniaco,  nella  via  abbandonata dietro  a  casa,  la  domenica 

trovi  il mercatino delle cose usate che a me riporta a quando accompagnavo mio padre alla 

fiera di Senigallia dove si vendevano anticaglie o oggetti usati, pezzi di bombe esplose nella 

guerra, elmetti tedeschi. 

 

2) Se tutto muta come l’individuo può mantenere una unità di lettura del mondo e una 

continuità con la propria storia personale?

3) Quali novità culturali conseguono all’immigrazione continua da altre culture? 

 

L’individuo  si  trova  esposto  a  sollecitazioni  contrastanti:  più  un  sistema  vive  al  confine  di 

culture diverse e più  l’individuo deve  imparare  linguaggi diversi e apprendere mediazioni 

nuove. 

La  società  globale  e massificante  vive  una  grossa  ambivalenza:  c’è  un  grande  dispendio  di 

energie  per  spingere  la  persona  all’individualità  e  al  contempo  si  annullano  le  scelte 

individuali attraverso i Mass Media che direzionano i nostri bisogni 

 

 

4) Come  può  l’individuo  integrare  una  forte  spinta  verso  l’autonomia  personale  che 

contrasta con la massificazione dei bisogni, dell’informazione, del consumismo? 

10 Arnold Gehlen, L’idealismo e la dottrina dell’agire umano, con una nota di Alberto Gualandi

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Zygmunt Bauman osserva che nella  fase attuale, della "modernità  liquida", non possiamo 

più permetterci  la vita edonistica e consumistica con cui abbiamo vissuto finora dalla 

seconda metà del Novecento a oggi11.  

Ci troviamo a vivere grandi cambiamenti negativi che vanno dall'emergenza ecologica (il 

problema mondiale dell'inquinamento, l'allargamento del buco dell'ozono, lo scioglimento dei 

ghiaicciai  al  Polo  Nord,  l'allarme  provocato  dall'insicurezza  delle  centrali  nucleari,  dopo  la 

catastrofe di  Chernobyl  è  toccato  alle  centrali  giapponesi  di  Fukushima nel marzo 2011) ai 

problemi economici. Sembra  quasi  che  le élites  finanziarie mondiali  abbiano  decretato, 

anche  a  livello  politico,  la  debolezza  o  la  fine  dello  "Stato  sociale"  nei  vari  Stati  nazionali 

occidentali,  indebolendo  anche  lo  status  delle  democrazie,  diventate  così  sempre  più  dei 

contenitori vuoti, dunque meno sostanziali. 

 

 

5) E’  sostenibile  un’educazione  politica  e  sociale  che  guardi  al  rispetto  delle  persone  e 

della natura, piuttosto che a continuare ad abusare sia delle une che dell'altra? 

 

 

2 ­ Funzioni sociali e funzioni psichiche: dati i limiti quali le possibilità? 

 

Occorre un nuovo modo di pensare collettivo che, come direbbe Franco Fornari (1921‐1985), 

sia basato sulla "vita mea vita tua", ossia quella possibilità di sentire e pensare in termini di 

responsabilità riparativa che caratterizza  l'amore reciproco  tra gli  esseri umani, piuttosto 

che sulla "mors tua vita mea", cioè la responsabilità biologica, che è "la forma più elementare 

di responsabilità", o sulla "mors mea vita  tua", ossia "la necessità di sacrificio" propria della 

nostra  specie  e  che  Fornari  chiama  responsabilità  etica12  (v.  Fornari,  1970,  p.  145),  come 

occorre  educare  a  praticare  i  "giochi  a  somma  diversa  da  zero"13,  quelli  basati  sul 

compromesso  favorevole  tra  i  soggetti,  dunque  anche  questi  basati  sulla  'salvezza 

reciproca',  l'amore  reciproco,  piuttosto  che  i  "giochi  a  somma  zero"  e  che  caratterizzano  i 

conflitti distruttivi, l'uccisione dell'altro, la guerra (v. Watzlawick, 1986, tr. it. 1987), e che lo 

stesso  Franco  Fornari  considera,  in  senso  psicoanalitico,  come  "elaborazione  paranoica  del  11 Bauman, con Rovirosa-Madrazo, 2010, tr. it. 2011 12 Fornari, 1970, p. 28 13 M. Goglio (a cura), Quando 1+1 fa 3. La psichiatria nella logica del fareassieme raccontata da operatori, utenti, familiari e volontari, EricksonLive, Trento 2012

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lutto", cioè come "esportazione sul nemico di una violenza originariamente rivolta agli oggetti 

d'amore del proprio gruppo". 

Sembra chiaro che un’integrazione possibile tra queste spinte conflittuali debba risultare dal 

grado di apertura, di elasticità e di equità a livello personale e sociale, tale da rappresentare 

la  complessualità  del  mondo  globale.  In  fondo  proprio  queste  funzioni  intrapsichiche  di 

integrare,  di  contenere,  di  vivere  nel  conflitto,  possono  minare  le  parzialità  dei  pensieri 

fondamentalisti e le inflazioni di tanti nostri pazienti.   

In clinica vediamo sempre più spesso forme di caratteropatia in persone incapaci di integrare 

l’abbandono traumatico con le prestazioni complesse che la società chiede oggi più che prima. 

Un paziente, con diagnosi di disturbo del carattere, seguito da un CPS ha perso  il  lavoro, ha 

iniziato ad esprimere condotte antisociali gravi, ha ricevuto denunce per atti osceni e tentativi 

di abuso sessuale; al giudice inquirente ha dichiarato: “La vita sociale mi diventa sempre più 

complicata; da quando ho perso il padre etilista ed ho dovuto seguire mia madre demente mi 

son sentito solo (ma solo lo era sempre stato). La società mi deve indennizzare del lavoro e del 

sesso che non riesco più a pagare!” 

 

 

6) Cosa può dire la nostra scuola, esperta di complessità, all’interno della stanza d’analisi e 

all’esterno, nel mondo sociale e culturale? 

 

La maschera  che  difende  la  persona  diviene  sempre  più  fragile  e  anche  le  personalità  più 

integrate vivono uno scarto tra il ruolo che mettono in gioco nel mondo e l’esperienza che l’io 

sta vivendo. 

Questa zona d’ombra, fatta di ritiri, di silenzi, di depressione esistenziale ci mette in contatto 

col limite e può divenire una risorsa per la nuova identità dell’oggi.  

Il limite diviene lo snodo cruciale; difficile confrontarsi con esso! 

Molti  giovani,  e  non  pochi  adulti,  che  arrivano  in  terapia  tendono  a  dimenticarlo:  tutto  è 

possibile,  io posso  fare tutto! Assistiamo spesso ad un’ipertrofia dell’io  che mal si adatta 

alla complessualità  e rischia di spingere la persona verso chine di dipendenza (alcool, droghe, 

gioco d’azzardo). 

Statistiche  recenti  ci  parlano  di  1.400.000  individui,  nelle  fasce  d’età  11/25  anni,  che 

manifestano “modalità rischiose” verso alchol ; se prendiamo un campione di persone sotto i 

16 anni il rischio alchol­correlato è del  18,5% nei ragazzi e del 15,5% nelle ragazze (circa 

475  mila  minori).  Preoccupa  la  situazione  del  le  donne  con  un  incremento  delle 

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consumatrici, nella fascia 25‐44 anni, con un incremento di consumo alcholico del 45,2% negli 

ultimi dieci anni. 14 

 

“Il bruco ed Alice si guardarono in silenzio per qualche tempo. Da ultimo il bruco si tolse di bocca  il narghilé  e  l’apostrofò  con  voce  languida, assonnata:  ‘Ma  chi  sei?’ disse  il bruco. ‘Ehm… veramente non saprei, signore, almeno, per ora… cioè, stamattina quando mi sono alzata lo sapevo, ma da allora credo di essere cambiata diverse volte’.  ‘ Che vorresti dire,’ disse il bruco, secco, ‘spiegato meglio’. ‘Temo  di  non  potermi  spiegare,  signore’,  disse Alice,  ‘perché  non  sono  io’.  ‘Non  capisco’, disse il bruco. ‘Temo di non potere essere più chiara di così. Perché purtroppo sono la prima a non capirci nulla …’”15 

Nella dispersione di unità attuale assistiamo ad una pluralizzazione del senso: la famiglia, il 

gruppo  di  appartenenza,  la  scuola  o  l’ambito  di  lavoro,  l’origine  geografica  ed  etnica  che 

portano ad agire in modi e secondo valori che l’altro non comprende. 

La  moltiplicazione  delle  appartenenze  complica  ulteriormente  la  nostra  cultura  e 

l’individuo che si trova ad appartenere a gruppi ed a sistemi diversi tra loro. 

Analoghi conflitti li incontravano i viaggiatori del Medio Evo16, che oltrepassavano il “limite” 

del conosciuto, tendevano ad ingigantire ciò che appariva piccolo o a sminuire ciò che in 

Occidente appariva grande; chi oltrepassa  il  limite dà all’immaginazione  la  libertà di 

fluidificare  il  tempo,  lo  spazio  e  le  forze.  E’  così  che  le  popolazioni  a  sud  dell’equatore 

vivono  capovolte  rispetto  a  noi;  agli  Antipodi  le  stirpi  hanno  i  piedi  sopra  alla  testa 

(scialopodi) ed ogni valore trapassa nel suo opposto. 

La  lettera del Prete Gianni17, misterioso  testo del XII°  secolo spinge a credere che esistano 

realtà che superano  le  fantasie anatomiche grottesche.  Il  corpo  ibrido dei mostri unisce 

specie diverse e rivela una permeabilità reciproca di tutte le forme del caos primordiale. 

L’evanescenza delle  forme ed  il  loro  trapasso  l’una nell’altra  viene a  colmare quel  vuoto 

insito nella natura umana e spinge alla creatività di immaginare nuovi mondi, come a ristoro 

dalla dura realtà quotidiana. 

Nella  lettera mitologica  del  Prete  Gianni,  troviamo  gli uomini  con  la  testa  al posto della 

pancia e, nell’interpretazione che possiamo intuire, siamo invitati a vedere oltre il confine 

con gli occhi del ventre.  

14 X° Alchol Prevention Day, Roma, 7 aprile 2011, Istituto Superiore di Sanità 15 Lewis Carroll, Alice nel paese delle meraviglie 16 Colombo, Mandeville, Polo 17 La lettera del Prete Gianni, trad. it. A cura di G. Zaganelli, Pratiche, Parma, 1990 Dall’inizio del XII° secolo si era diffusa, in Occidente, l’immagine di un potente sovrano e sacerdote

orientale (secondo alcune tradizioni africano), che scrive all’imperatore di Bisanzio Manuele I° Comneno (1143-1180).

Page 11: CIPA Atti S Servolo

 

“Abbiamo bestie assai strane… Là vi sono pigmei che combattono con le gru; da quelle parti i più alti di loro misurano un piede e mezzo. Abbiamo leoni dai corpi immensi, alcuni bianchi, altri rossi … Là dimorano i grifoni E anche i Sagittari: sono un popolo sempre selvatico e hanno corna per tutto il viso; hanno con sé archi e frecce, mai mancheranno il bersaglio cui mirano. In quella regione vi sono i giganti Oltremodo orribili e grandi; misurano – lo sappiamo per vero – quaranta cubiti di lunghezza. Là si trovano i Ciclopi Ma un cristiano ne vide di più brutti, sono un popolo orribile e nero e invero non hanno che un occhio. Ma questo sta in cima al loro corpo Come uno specchio in mezzo alla fronte. Dalle nostre parti c’è l’uccello fenice Che è molto bello e splendente; la sua natura è strana, non ve né altri al mondo. Non c’è nessun tipo di animale Per quanto strano e feroce Creato sotto il cielo, che non si trovi presso di noi”18  

“Ciò  che  talvolta  definiamo  ‘individualizzazione  delle  credenze’  somiglia  piuttosto  ad  una 

interiorizzazione dei dubbi e delle paure. Le antiche cosmogonie, che circondavano la miseria 

umana di un alone di  senso,  erano proiezioni di  società  che  si definivano attraverso  la  loro 

iscrizione  nello  spazio  e  nel  tempo.  Ora,  mentre  sulla  terra  compaiono  nuove  mobilità,  si 

diffonde  agli  occhi  di  molti  l’immagine  più  o  meno  confusa  di  un  universo materiale  dalle 

dimensioni  infinite  ed  in  perenne  espansione  che,  incontestabilmente  eccede  le  nostre 

capacità di immaginazione.”19 

18 La lettera del Prete Gianni, versione anglo-normanna, op. cit. p.99 19 Marc Augè, Futuro, Bollati Boringhieri, Torino, 2012

Page 12: CIPA Atti S Servolo

In  questo  “meticciato”  complesso  l’unità dei  valori  e  degli  scopi  deve  essere  ricercata  e 

continuamente condivisa; lo scopo è arrivare a delle scelte, condivise, per ridurre l’incertezza 

tra le opzioni che l’individuo ha di fronte. 

Il “meticciato” culturale tende a condividere le differenze: è questo lo scenario attuale in 

un mondo che non è pìù così integrato e omogeneo come nei secoli passati. 

Condividere  significa  creare  connessioni  ed  organizzare  soluzioni  che  mettano  in  contatto 

processi culturali differenti, senza cadere nella semplificazione dell’unità! 

 

 

7) Perchè la differenza ci allarma? Perchè il confine che differenzia diviene barriera? Perchè 

il contatto con la complessitá non sopporta il diverso? 

 

Il negoziato diviene  la pratica  centrale delle nuove organizzazioni politiche e  sociali, 

ma anche il lavoro personale di individuazione. 

 

Negli ultimi decenni abbiamo assistito ad enormi cambiamenti culturali: 

1) Maschile  e  femminile  non  coincidono  più  col  sesso  in  senso  biologico  e  diventano 

modelli culturali a cui tutti sono esposti. 

2) Nazionalismo ed etnicità mettono in gioco  incontri e scontri, su base difensiva,  fino 

ad  arrivare  ad  estremi  reazionari  in  continuo  fermento  nel  mondo  intero.  (Identità 

etnica e territorio) 

3) Borghesia  e  proletariato  sono  termini  superati  dall’intensificazione  degli  scambi 

sociali, dalla circolazione delle  idee e delle  informazioni, dalla diffusione degli  stili di 

vita. 

4) Sinistra e destra non sono più rappresentative di provenienze sociali e culturali ben 

definite:  oggi  la  Russia  è  di  destra  o  di  sinistra?  Nello  scenario  politico  italiano  chi 

rappresenta la sinistra? Obama è il nuovo modello culturale di sinistra che propone il 

mondo occidentale? 

5) Accanimento  terapeutico,  cure  palliative,  qualità  della  vita  sono  questioni  che  ci 

interrogano quotidianamente 

 

 

8)    Il  concetto  di  dolore  e  di  vita  rimane  invariato  nella  società  contemporanea  o  apre 

dibattiti sulle cure palliative, sull’accanimento delle cure e sull’eutanasia? 

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Salvatore Natoli ci  incita a ricercare “… la giusta riserva di coscienza per distinguere ciò che 

davvero ci serve da ciò che ci asserve. E’ una pausa della concitazione del fare, un coraggioso 

scrollarsi di dosso l’inerzia del non fare, per divenire appieno padroni di noi stessi e del nostro 

agire … il nostro tempo offre all’uomo la possibilità e l’opportunità che non ha mai avuto nella 

sua storia, con tutti i rischi connessi … Ciò impone a maggior ragione di saper fare un buon 

uso del mondo.”20 

Le  grandi  questioni  spesso  ci  separano  in  arroccamenti  ideologici mentre  la  conoscenza  di 

come siamo  fatti  ci può  istruire  su quello che è possibile  fare per noi. L’uomo è apertura al 

possibile,  anticipa  il  futuro  ed  entro  certi  limiti  lo  crea  nella  direzione  di  dell’educarci  a 

scegliere passando oltre la costrizione. 

 

 

3 ­ Responsabilità nel conflitto. 

 

Educare  alla  responsabilità  può  essere  la  dimensione  alle  domande  della  società  globale: 

responsabilità di scegliere, di accettare il limite, di contenere le differenze tra i confini 

conflittuali. 

Gli scenari sociali sono complessi a causa di tre processi fondamentali: la differenziazione, la 

variabilità, l’eccedenza delle possibilità. 

Gli ambiti delle esperienze si sono differenziati;  la  famiglia  ha  delegato  la  scuola  per  le 

funzioni  educative  come  per  l’impresa  aziendale  che  si  trasforma  in  impresa 

economica. Il piccolo villaggio rurale dove la tradizione uniformava le vite e gli individui 

viene  sostituito  dalla  periferia  delle  città  che  differenzia  i  costumi,  i  linguaggi,  i 

sistemi di riferimento. 

La  complessità  fa  riferimento  anche  ad  un  concetto  temporale  di  variabilità  per  il 

mutamento  continuo a  cui  le  culture  sono  sottoposte;  se nel passato  esistevano  culture 

millenarie con caratteristiche sostanzialmente  immutate, oggi  le variazioni sono sotto 

l’occhio di tutti noi. Nelle nostre vite la tecnica ha modificato le condizioni sociali: da un 

mondo TV in bianco e nero, al cervello elettronico/computer, al cellulare, a internet, alee 

chat e forum. 

20 Salvatore Natoli, Il buon uso del mondo, Mondadori, Milano, 2010

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Altra caratteristica della complessità riguarda  l’eccedenza culturale. Le possibilità che oggi 

abbiamo  di  fronte  sorpassano  di  gran  lunga  la  nostra  possibilità  di  frequentarle 

tutte:  i  programmi  al  computer  mostrano  continue  offerte  di  miglioramento,  e  così  le 

opportunità di studio, di vacanza, di viaggio, di attività sportiva, di hobby. 

 

 

9)  Come  può  oggi,  un  giovane,  riuscire  a  scegliere  invece  di  rimanere  in  una  sorta  di 

sospensione, come se si potesse vivere per prova, rimandando tempi e tappe della vita 

personale (lavoro che non c’è, matrimonio e abitazioni costose)? 

 

In un mondo dove tutti siamo interdipendenti diventa responsabile scegliere di non essere 

separati;  è  un  percorso  che  richiede un’apertura  spirituale  che  vada  oltre  l’egoismo  ed  il 

particolarismo. Per esprimere questa scelta elevata (che chiamerei sacra) possiamo utilizzare 

linguaggi della tradizione religiosa o riferirci a valori laici di solidarietà e di pace. 

Marco Garzonio citando il Cardinale Calo Maria Martini, in un recente articolo,  scrive: “Tutti, 

politica  e  chiesa,  abbiamo  davanti  un  compito  culturale  urgente,  cioè,  innescare  un 

movimento  di  restituzione  di  stima  sociale  e  di  prestigio  al  comportamento  onesto  e 

altruistico, anche se austero e povero”. 

 

Onestà  e  solidarietà  che  colmano  le  distanze  tra  me  e  l’altro  tra  la  nostra  cultura  e  la 

cultura “altra”; solidarietà e curiosità come ponte che mi avvicinano alla diversità dell’altro: 

all’escluso,  all’etnia  che  ci  invade,  alle  povertà  del  Sud  del  mondo21  e  alle  nostre  nuove 

povertà. 

 

Nei precari e decadenti scenari della politica fatta dai partiti si va rinforzando sempre più una 

modalità sociale nata negli anni Sessanta: il movimento. 

Movimenti giovanili, movimenti di donne, di pacifisti, di ambientalisti. 

Movimenti politici che sostituiscono le deludenti risposte dei partiti: dai verdi ai grillini. 

 

 

21 Richard Sennett, “Insieme: rituali, piaceri, politiche della collaborazione”, Feltrinelli, Milano, 2012

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10) Il  ritorno dei    “movimenti” deriva da una  scelta di mediare  la dove  i partiti vivono 

oramai    di  conflitti  e  non  vedono  più  il  conflitto,  non  riescono  più  a  scegliere  ed 

interpretare il bisogno del cittadino?  

 

I  militanti  tradizionali  non  escono  dal  classico  partitismo  e  si  chiudono  in  correnti 

identitarie  frenando  il  cambiamento.  I  vecchi  paradigmi  della  politica  sono  andati  in 

frantumi,  emerge una  situazione di crisi  della  visione  soggettiva  che  corrisponde  alla  crisi 

dell’Occidente. 

All’interno di questa crisi si rinforzano i movimenti per la loro caratteristica di ricerca e di 

nuova energia. 

In  Europa  le  persone  sono  immerse  nelle  logiche  dell’immediato,  nella  vita  individuale: 

disoccupazione,  debiti,  ma  la  vita  politica  è  distante  da  queste  emergenze.  Gli  slogan  e  le 

parole d’ordine della politica di ieri non valgono più e quelle del domani non sono ancora 

state dette. 

Nel movimento nascono nuovi linguaggi e nuove parole d’ordine.22 

 

 

11) Nel conflitto tra  individualizzazione e globalizzazione il superamento potrebbe venire da 

una  visione  globale  nelle  situazioni  locali?  (Il  rischio  è  di  contrapporre 

l’individualismo  dell’Occidente  alla  identificazione  comunitaria  spinta:  clanica,  etnica, 

integralista kamikaze). 

 

Anche la visione del potere appare diversa: i nuovi movimenti internazionali (“sem terra” 

brasiliani23, piqueteros argentini24 e boliviani, i ribelli algerini, i no global europei) non hanno 

come  obiettivo  principale  la  presa  del  potere  ma  appaiono  come  masse  fluide 

attraversate da venti  fluttuanti  e  contrari. Gli  obiettivi delle  rivoluzioni,  della  lotta di  classe 

per  la  conquista  del  potere  sono  sostituiti  da  movimenti  di  idee,  di  ribellione  con  fini  più 

visibili e legati all’oggi. 

 

22 Florence Aubenas e Miguel Benasayag, Resistere è creare, MC Editrice sas, Milano 2004 23 Il MST è un movimento contadino nato nel 1984, dalle occupazioni di terra nel sud del Brasile. È oggi presente in 24 stati del

paese e coinvolge un milione e mezzo di persone. Grazie alle sue lotte, 350.000 famiglie hanno conquistato la terra, mentre 150.000 stanno lottando negli accampamenti.

24 Nuove forme di organizzazione politica e di azione collettiva, che si caratterizzano prevalentemente per l'azione diretta, l'autonomia organizzativa e un'importante dinamica assembleare.

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Nel corso della marcia zapatista del marzo 2001 Marcos spiega25:  

“Noi non vogliamo che la gente voti per noi, né che ci dia un assegno, uno stipendio, nulla. Noi 

vogliamo che si risolva e che sia riconosciuta una questione storica, nel senso  in cui essa  fa 

parte della storia di ciascuno di noi. … Perché è facile dire: anch’io condivido la tua lotta e poi 

tornarsene  a  casa. Abbiamo  cercato  di  resistere  a  questa  tentazione  e  di  dire  alla  gente: 

riconosciamo che il tuo grido è giusto, ma per il momento non è questo lo scopo.” 

 

Oggi  parte  del  mondo  pare  consapevole  che un  altro mondo non  sorgerà  più.  Il  mondo 

diviene  il  “qui  ed  ora”  dei  due  barboni  di  Samuel  Beckett  che  aspettano Godot  “Qui e ora, 

l’umanità  siamo  tu ed  io”.  Navighiamo  in  una  sorta  di  nebbia  che  suscita  spinte  opposte: 

abbandonare o investire? credere o rinunciare? 

Le  votazioni  politiche  dei  paesi  Occidentali  segnalano  sempre  più  questa  opposizione  tra 

votanti e non votanti, tra partiti ed estremismi nazionalisti. In modi diversi il mondo vorrebbe 

più giustizia ed ognuno manifesta in modo individuale questa esigenza: siamo insieme ma da 

soli! 

In molti nasce la fiducia di una nuova umanità che non segue più le linee tradizionali della 

politica ma riesca ad aggregare su idee etiche e largamente condivise. 

 

 

4 ­ Psicologia analitica e contemporaneità. 

 

Un dibattito contemporaneo aperto tra gli psicologi riguarda la lontananza della comunità 

degli psicologi dalla sensibilità al tema dell’accessibilità e della sostenibilità dei servizi 

da  loro  offerti  .  “Nei  servizi  si  starebbe    sviluppando  una  “nuova  utenza”  che  non 

propone problemi di disturbi o malattie da curare, bensì problemi di fallimento della usuale 

processualità di  collusione  con  il  proprio  contesto,  o  se  si  vuole problemi d convivenza.  Si 

tratta  di  un’utenza  alla  quale  gli  psicologi  potrebbero  proporre  la  loro  competenza 

psicologica, competenza a trattare i problemi della relazione individuo‐contesto.”26   

25 Intervista rilasciata dal subcomandante Marcos al settimanale messicano “proceso”, 11 marzo 2001 26 Carlotta Longhi, La Professione di Psicologo di Fronte alla Sfida della Sostenibilità Sociale, dalla rivista Plexsus, n° 7, novembre 2011

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L’attività  psicologico  clinica  si  configura  in questo  senso quale  “funzione  integrativa”  e non 

sostitutiva all’attività “produttiva” del cliente stesso”27.  

Anche  l’esperienza  dei  Servizi  che  si  occupano  di  salute  mentale  rileva  un  importante 

aumento delle emergenze attuali dove ansia e depressione sono spesso scatenate da precarie 

situazioni economiche e  lavorative: disoccupazione,  cassa  integrazione, assenza di una casa. 

La  Psichiatria  di  Comunità  ha  sempre  perseguito  la  ricerca  del  porre  al  centro,  del  proprio 

interesse, il paziente con i suoi limiti ma anche con le sue risorse; il movimento anglosassone, 

soprattutto, ha spinto verso i temi dell’empowerment e della ricovery proprio per restituire al 

paziente una propria partecipazione attiva alla cura.28 

12) Se  l’utenza  diviene  l’ancoraggio  fondamentale  dell’azione  professionale,  si  pone  la 

necessità  di  verificare  la  professione  in  base  alla  sua  utilità  sociale,  alla  capacità  di 

affrontare  e  risolvere  problemi  di  interesse  collettivo.  La  questione  centrale  è:  la 

psicologia si interroga su di un mandato sociale? 

13) Costi  e  durata  della  psicoterapia  come  si  conciliano  con  gli  scenari  attuali?  Il  settore 

privato  è  in  crisi  e quello pubblico abbraccia  solo approcci  cognitivo­comportamentali 

(più attenti alle questioni della durata e validati per motivi assicurativi) 

 

“L’importante è che impariate a pensare, a inquietarvi” 

Carlo Maria Martini 

 

E’  proprio  della  sensibilità  junghiana  verso  gli  scenari  culturali,  antropologici  e  sacrali  ma 

anche epistemologici e scientifici l’atteggiamento di inquietudine curiosa, di osservazione 

critica e di apertura al mondo ‘altro’ (ciò che è oltre il confine, la modulazione tra distanza e 

vicinanza ad Altro). 

Questa  identità  forte,  non  priva  di  derive  conflittuali  e  critiche  all’interno  dei  nostri  stessi 

Istituti, spinge lo psicologo analista ad essere aperto e lontano da ogni dogmatismo. 

Lo scopo della pratica della psicoterapia non consiste nella scoperta o nella conferma di una 

specifica teoria, ma nel favorire un pensiero dinamico tra conflitti. Lo psicologo utilizza la 

27 Succhiarelli, 2001 28 Empowerment: «Competenza individuale in politica sanitaria», termine che descrive il percorso nel quale l’utente si riprende una propria autonomia e un potere relazionale nel percorso con i curanti. Recovery: percorso di guarigione.

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propria presenza davanti  alla presenza di un paziente; entrambi  stanno vivendo una nuova 

esperienza  frutto  delle  immagini,  dei  sogni  e  delle  emozioni  di  altre  esperienze  che  ora 

diventano racconto di un io, di un noi di un Sé. 

E’  una modalità  di  cura  sfaccettata  che  alimenta  il  pensiero  emozionale  e  richiede,  ad  ogni 

analista e ad ogni analizzando, di ricercare una congruità tra la propria esperienza di vita 

e i propri pensieri, tra la propria sensibilità e il proprio linguaggio, tra la propria coscienza 

etica e  le proprie azioni, avvalendosi della capacità di  tacere ove non si possa più parlare, 

ma continuando comunque sempre a mettersi in ascolto. 

In  questo  contesto  di  ricerca  Ileana  Marozza  sottolinea    l’importanza  del  confronto  tra 

psicologia e neuroscienze,  tra natura e  cultura,  tra oggettività e  soggettività del  sogno; gli 

schemi affettivi alla base della motivazione onirica sottolineano come “il sogno sia un modo 

per  cercare  un  significato  ad  un  affetto,  cosa  che  consente  di  modularlo,  di  elaborarlo  ed 

integrarlo nella vita psichica.” 29  

Questo  ‘gioco’  elaborativo  diviene  una  domanda  aperta  nello  sfondo  dell’alientità  che  ci 

costituisce e ci interroga. 

La nostra attenzione, che diviene anche un nostro valore, è quello di “adottare un linguaggio 

che vari con lo spirito del tempo"30 superando le rigide certezze dei modelli formalizzati per 

abbracciare “metamorfosi infinite”. 

 

 

14) Quali  innovazioni  e  stimoli  nascono  dall’incontro  tra  psicologia  e  nuroscienze?  Quali 

modificazioni induce la psicoterapia che siano visibili con brain imaging?  

 

Un’ultima  considerazione  riguarda  l’importanza  che,  nello  scenario  attuale,  va  riservata    al 

confronto, allo scambio di esperienze, alla formazione. Aggiornarsi e stare al passo coi tempi 

è  indispensabile  ma  ogni  aggiornamento  deve  prevedere  la  disponibilità  di  accogliere  e  di 

modificare nuove concezioni; ne  sono un esempio  le nuove acquisizioni della neurobiologia 

con  il  concetto  che  Fonagy  ha  definito  schemi  emozionali,  per molti  versi  sovrapponibile  a 

quello junghiano di complesso. 

Ogni disciplina scientifica è destinata a divenire obsoleta in un arco variabile di anni.  

In uno dibattito‐sondaggio (Delphi Poll),  tre psicologi americani31, sostengono che “l’emivita 

complessiva  delle  conoscenze  richieste  dalla  professione  di  psicologo  passerà,  nei  prossimi 

29 M. Ileana Marozza, Jung dopo Jung, Moretti & Vitali, Bergamo, 2012 30 C.G. Jung, La psicologia della traslazione, Opere Volume XVI, pag. 206

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dieci anni, dagli attuali 9 anni a circa 7 anni, … L’emivita della psicofarmacologia, attualmente 

attorno ai 4,8  anni,  scenderà a 3,6  anni; … quella dell’assesement della personalità,  da 10,4 

anni  scenderà  a  9,4  anni.  L’emivita  della  psicologia  psicoanalitica,  invece,  passerà  dai  15,6 

anni di oggi ai 17 anni.” 

A parte questo ultimo dato che si allunga e può dipendere sia da rischi di stagnazione che da 

verità  senza  tempo,  è  indubbia  la  necessità  che  ogni  professionista  aumenti  le  proprie 

conoscenze ed il proprio rapporto col mondo, in relazione ai cambiamenti: 

 

Per  concludere  una  citazione  che mi  sembra  in  tema  con  le  domande  di  oggi  ma  anche  ci 

avvicina a chi negli ultimi mesi ha sofferto per il terremoto emiliano. 

 

 

TERREMOTO32 

Quando viene il tempo del buio 

bisogna rincantucciarsi, 

avvolgersi su se stessi, 

stare in silenzio ed aspettare, 

senza muovere un muscolo. 

Bisogna solo aspettare che passi, 

perchè non dipende da noi 

e non ci possiamo fare nulla. 

Bisogna mantenere intatte  

tutte le energie e la voglia di vivere 

e coltivare la certezza che 

verranno tempi migliori. 

Perchè la vita è troppo grande 

per essere sempre indirizzata 

secondo i nostri desideri. 

A volte ci si riesce,  

altre volte no: 

queste sono le regole 

31 Da un articolo di Vittorio Lingiardi, Il Sole 24, Domenica 15 luglio 2012. Greg Neimeyer, Jennifer Taylor, Ronald

Rozensky, “Professional Psychology: research and Practice”, 2012 32 Dal blog di Giorgio Giorgi: www.lapoesiadellapsiche.blogspot.it

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ed è bene ricordarle sempre, 

per non esagerare mai, 

nè con la disperazione 

nè con l'arroganza. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 WORKSHOP N. 1

ATMOSFERE TRAUMATICHE E MUTAMENTI NEL SETTING  

 

 

Chairperson:      Francesco La Rosa 

  Relatori:        Anna Benvenuti 

                             Corrado Guglieri  

                             Francesca Picone 

                          Wilma Scategni 

 

 

Page 21: CIPA Atti S Servolo

 

 

 

Page 22: CIPA Atti S Servolo

  

IL TRAUMA E' IL MASSIMO DI TENSIONE CHE  UN SISTEMA PSICHICO PUO' SOPPORTARE 

 Anna Benvenuti 

 

 

 Il  trauma  è  il  massimo  di  tensione  che  un  sistema  psichico  può  sopportare  senza 

autodistruggersi. Questo stato di tensione è sempre lì, inscritto nella memoria del corpo, nella 

memoria implicita, come un eterno presente, e ha come correlato cognitivo non la paura, ma il 

terrore.  In  questo  eterno  presente  ci  si  trova  come  ne  “Il  Deserto  dei  Tartari”  di  Buzzati, 

sempre  in  attesa  del  nemico.  Solo  che  qui  può  arrivare  davvero.  Semplicemente  perché  il 

terribile è già accaduto e può riproporsi di nuovo. 

  Da qui il rischio del suicidio, pensiamo a Betthelheim o a Primo Levi che morirono suicidi a 

distanza  di  anni  dalla  loro  prigionia  nel  campo  di  concentramento.  Ma  forse  solo    perché 

avevano un compito da portare a termine, che era soprattutto perché non si dimenticasse. 

Trauma viene dal  termine greco “trauma” che vuol dire “ferita” – dalla radice tro—che vuol 

dire forare, cioè una ferita con perforazione. Traumatizzato, sempre in greco, può assumere il 

significato di “ucciso”.  

 

La non rappresentabilità dell’evento , a volte come assenza del ricordo, a volte come assenza 

del vissuto ci dice che un simbolo si è rotto e che “limiti della simbolizzazione e impossibilità 

della  rappresentazione  coincidono”.  Qualora  i  fatti  vengano  ricordati  sono  privi  delle 

emozioni  che  li  hanno  accompagnati  e  ancora  più  spesso  le  emozioni  che  li  hanno 

accompagnati vengono del tutto rovesciate nel loro contrario. 

Tempo fa in un reportage televisivo sullo Tsunami che aveva colpito Haiti, prima di mandarlo 

in  onda,  si  avvertirono  gli  spettatori  che,  poiché  sarebbero  comparse  immagini  terribili  dei 

corpi  che venivano  scaricati nella  fossa  comune,  si  poteva  scegliere  se  guardare oppure no.  

Dove c’è stato un trauma non c’è stata possibilità di scelta. Davanti all’immagine intollerabile 

di un incubo noi ci svegliamo, spontaneamente. Ovvero ci dissociamo. 

“Il genere umano non può sopportare troppa realtà” scriveva T.S. Eliot. 

 

La  scissione  rappresenta    quindi  lo  scudo  protettivo  davanti  all’intollerabile,  ed  è    ciò  che 

permette alle persone di funzionare in modo relativamente adattivo nonostante l’esperienza 

Page 23: CIPA Atti S Servolo

dell’angoscia o della depressione che caratterizzano alcuni stati del Sé, ed è ciò che permette 

di entrare in contatto con altri stati del Sé temporaneamente isolati dalle associazioni con le 

molteplici esperienze di sé (Bromberg). 

La  dissociazione  permette  la  sopravvivenza  e  se  sopravvivo  posso  avere  la  possibilità  di 

riprendere  a  vivere.  Possiamo  usare  la  metafora  dell’embrione  congelato  per  indicare  le 

potenzialità vitali che possono ancora svilupparsi. 

 

 

Anche se questa sopravvivenza comporta una ipersensibilità nei confronti di tutto ciò che si 

accosta al complesso isolato.  

“Non  è  possibile  che  se  uno  ti  pesta  un  piede  per  sbaglio  tu  reagisci  sparando  con  la 

mitragliatrice”, diceva spesso un suo amico a un mio paziente. 

E  rende chiara  l’esistenza psichica di un  tempo passato eternamente presente, di un  tempo 

che non è mai diventato passato,di una ferita che non è mai diventata cicatrice.  

 Si può tentare di curare quella  ferita, di  trasformarla  in una cicatrice? La cicatrice resterà a 

testimonianza della  ferita, e a volte, quando cambia  il  tempo può ancora  far male, ma non è 

più una ferita aperta. 

Ricordo  che  alla  base  del  vivere  umano  sta  la  relazione  Io‐Mondo,  e  che  l’essere  umano  si 

struttura  nell’incontro  dell’uomo  con  il  mondo,  e  che  con  questo  mondo  si  stabilisce  una 

relazione affettiva e significativa ed è solo laddove esiste una relazione affettiva significativa 

che un evento o una situazione può avere un effetto traumatico. 

E’ ovvia quindi l’importanza della relazione primaria Io‐Madre, (le teorie dell’attaccamento ne 

hanno  discusso  a  lungo),  ma  le  relazioni  Io‐Mondo  possono  essere  molteplici:  un  evento 

catastrofico,  una  strage,  una  dis‐umanizzazione  dei  rapporti  con  il  prossimo,  una  cultura 

repressiva,  una  violenza  distruttiva  di  qualunque  significato  relazionale  ,  come  durante  il 

Nazismo, e tutto ciò che esula dall’istinto fondamentale della comunità  crea un dolore senza 

né  ragioni,  né  spiegazioni,  un  dolore  che  non  può  tollerare  l’assurdo  dell’esistenza  di  un 

mondo dove le relazioni sono soltanto di violenza distruttiva. 

( Nel momento in cui sto radunando questi appunti c’è appena stata un’ennesima strage degli 

innocenti, questa volta in America). 

L’affetto legato alla scena traumatica si chiude in una  “zona rossa”, come la chiamava un mio 

paziente, zona alla quale non ci si doveva accostare. 

Page 24: CIPA Atti S Servolo

Una porta che non doveva mai essere aperta, perché sarebbe partito  il  sistema di allarme a 

denunciarne  l’intrusione.  E  in  quella  stanza,  o  fortezza,  o  comunque  la  si  voglia  chiamare 

l’altro è solo con il suo carceriere. 

In questo caso  l’affetto  legato alla scena  traumatica nasceva dall’improvvisa scoperta che “il 

mondo magico” nel quale era cresciuto non faceva parte della realtà del mondo che aveva poi 

incontrato. La sua stanza psichica era entrata in un dis‐ordine incontenibile. 

 

 

Scrive Devereaux: “ L’inconscio etnico di un individuo è quella parte del suo inconscio totale 

che egli ha  in comune con la maggioranza dei membri della sua cultura. Esso è composto di 

tutto  ciò  che  ,  in  conformità  alle  esigenze    fondamentali  della  sua  cultura  ogni  generazione 

impara a rimuovere e che a sua volta costringe  la generazione successiva a rimuovere. Tale 

segmento  cambia  con  il  cambiare  della  cultura  e  si  trasmette  come  si  trasmette  la  cultura 

mediante una sorta di insegnamento e non biologicamente…. Ogni cultura permette a talune 

fantasie,  pulsioni  e  altre  manifestazioni  dello  psichismo  di  accedere  al  livello  conscio  e  di 

rimanervi, mentre esige che altre siano rimosse: Ecco perché tutti i membri di una medesima 

cultura hanno in comune un certo numero di conflitti inconsci.” 

Un  esempio  può  essere  oggi  il  problema  dell’omosessualità,  che  di  sicuro  non  fa  parte 

dell’ideale etnico del gruppo, anche se apparentemente accettata. Persino fra gli omosessuali 

c’è  ancora  a  livello  inconscio  una  difficoltà  a  legittimarsi  nella  loro  differenza,  che  non  è 

differenza di  identità di genere, ma di orientamento sessuale.  (Nel  lavoro analitico questo è 

spesso un tema da analizzare profondamente) 

 

 

Ad esempio  la psicoanalisi si  incontra fin dagli  inizi con un modello culturale repressivo del 

femminile, per cui la donna può inizialmente parlare solo con la voce della follia, anche quella 

del corpo, finchè non riuscirà ad avere accesso alla parola. 

 

Ma questo comincia molto  indietro nel  tempo, possiamo andare addirittura ai racconti della 

Bibbia per vedere come l’istinto di conoscenza e la disobbedienza alle regole  vennero puniti 

con la cacciata dal paradiso. 

 

Page 25: CIPA Atti S Servolo

Sappiamo  che  un  bambino  piccolo,  data  la  sua  situazione  di  dipendenza,  salva  sempre  la 

madre e pensa di essere lui il cattivo. Nonostante abbia visto, o forse proprio perché ha visto 

la verità. 

E il bambino, come ci suggerisce ancora Devereaux, “… viene direttamente in contatto non con 

i materiali o  i  tratti  culturali, ma soltanto con  l’ETHOS, cioè soltanto con  il modello culturale 

rispetto  al  quale  diventano  mediatori,  nei  suoi  confronti,  i  genitori,  i  fratelli  e  le  sorelle 

maggiori attraverso le loro emozioni, i loro atteggiamenti, i loro gesti.” 

 

Da junghiani conosciamo bene l’influenza del collettivo sull’individuo e il lavoro che richiede 

distinguere  l’uno  dall’altro,  tant’è  che  Jung  arriva  a  dire  che molte  persone  sono malate  di 

troppo  adattamento,  ovvero  si  “adattano”  ai  modelli  culturali  negando  così  la  propria 

individualità.   

 

Il mutamento nel setting è inevitabile nel momento in cui il problema di fondo è  riuscire ad 

entrare in contatto con l’affetto legato al momento traumatico, di qualunque genere esso sia. 

Tutto il lavoro psicoanalitico è strettamente legato alla relazione che si riesce a costruire tra 

paziente  e  analista,  relazione  che  implica  certamente  la  massima  neutralità,  ma  nel  senso 

dell’assenza  di  giudizio  della  posizione  dell’altro,  e  la  massima  capacità  di  ascolto  della 

situazione dell’altro, il che non vuol dire compiacenza o differenza, ma vuol dire costruire una 

relazione anche nella differenza, che è ciò che è mancato in particolare laddove c’è stata una 

situazione traumatica. 

La ricostruzione di una relazione “buona” diventa fondamentale in quanto offre la possibilità 

di far stare insieme il “non‐me” e l’io.  

Sono questi i casi in cui vengono in mente le parole di Gaetano Benedetti: 

“…Nei  casi  in  cui esiste una  “simbiosi  terapeutica”ho  la precisa  sensazione,  illogica,ma  sicura, 

che  nessuna  richiesta  del  paziente  sarebbe  superiore  alle  mie  capacità”  (G.Benedetti:” 

Alienazione e personazione nella psicoterapia della malattia mentale”, Einaudi, 1980, p. 277) 

                         

Scriveva Hillman nel suo  libro “Il  suicidio e  l’anima” che “ nel momento  in cui si entra nella 

posizione  dell’altro,  l’altro  non  è  più  solo”.  E  se  non  sei  più  solo  può  darsi  che  qualcosa  ti 

trattenga in questo mondo. 

E questa è una grande sfida in analisi. 

 

 

Page 26: CIPA Atti S Servolo

 

NUOVI VECCHI PAZIENTI  

Corrado Guglieri            

  Ringrazio la proposta stimolo, chiunque l’abbia compilata perché mi permette di confrontarmi 

con i colleghi, su un tema che mi suscita una certa irritazione e sul quale ho molte idee. 

Sono  trentacinque  anni  che  faccio  questo  lavoro  a  tempo pieno  e  non mi  pare  che  vi  siano 

grandi  mutamenti  nei  nostri  pazienti.  Situazioni  traumatiche  in  relazione  a  “eccessiva 

presenza o assenza dell’altro” sono sempre esistite e così anche i cosiddetti nuovi pazienti. 

Detesto le mode e ancora di più le nuove nominazioni se non portano alcun vantaggio utile o 

peggio. 

   Pazienti di questo tipo esistono da decenni: è cambiato il tempo, il mondo ma soprattutto la 

situazione di mercato. La psicoanalisi vive un momento assai poco  felice ed  il mercato della 

psicoterapia  è  inflazionato,  come  sappiamo.  Per  cui  i  pazienti  pro‐capite  sono  nettamente 

diminuiti  e  parimenti  gli  allievi:  questo  è  cambiato.  Il  paziente  “da  analisi  junghiana”  non 

esiste quasi più: intendo quello che buono buono si confrontava col proprio inconscio tramite 

i sogni idealizzando la figura dell’analista. 

Quindi, se si vuol campare e non si è ricchi di famiglia, bisogna adattarsi a patologie che prima 

non erano prese in considerazione, relegate sotto l’etichetta di “pazienti da CPS” o comunque 

“non da analisi”. Vogliamo chiamare costoro col nome di nuovi pazienti?  Io penso che sotto 

questa nominazione  si trovino in realtà tutte quelle patologie con un fondo o nucleo psicotico 

che prima erano evitate, almeno in campo junghiano. 

Erano considerate “da psichiatria istituzionale” data l’abbondanza di pazienti più gratificanti, 

semplici e duttili.  

Questi pazienti richiedono modifiche di setting? 

Certamente,  di  setting  e  di  tecnica  e  i  freudiani  sono più  chiari  in  proposito. Del  resto  loro 

possono attuare modifiche alla tecnica di base. 

Ma  noi,  che  per  posizione  caratteristica  abbiamo  l’assenza  di  una  tecnica  codificata  cosa 

dobbiamo modificare?  Se  junghianamente  lo  strumento  è  l’analista,  è  l’analista  che  si  deve 

modificare? 

Certamente, ma in concreto che cosa significa? 

Page 27: CIPA Atti S Servolo

La mia idea personale che getto sul piatto è che bisogna risolvere un annoso problema degli 

junghiani (e non di Jung!): a mio avviso c’è uno scollamento (si vede nelle produzioni scritte) 

tra teoria e pratica, salvo poche lodevoli eccezioni. 

Da una parte opere teoriche raffinatissime, dotte, con citazioni appropriate e frequentissime, 

accompagnate, quando presenti da brevissimi scampoli clinici. Dall’altra vignette o narrazioni 

che mal sopportano qualche citazione teorica spesso non propriamente junghiana: resoconti 

clinici che sono racconti e si rifanno al tutto o al nulla. 

Ma se lo strumento della terapia siamo noi e siamo obbligati a un corpo a corpo con le parti 

psicotiche del paziente, se vogliamo parlarne e quindi progredire, saremo obbligati a parlare 

di  noi  e  o  a  confrontarci  quanto meno  sulla  nostra  teoria  incarnata!  E  qui  iniziano  le  vere 

difficoltà! ….. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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SETTING, TRAUMA E PSICOPATOLOGIA:  

L'ESPERIENZA DELL'ANALISTA   

Francesca Picone  

L’esperienza  clinica  più  recente  impone  una  riflessione  aggiornata  sul  ruolo  delle 

esperienze  traumatiche  nello  sviluppo  della  psicopatologia  e  sull’importanza  di  una 

riflessione teorica sui mutamenti del setting che ciò comporta. 

Jonathan Safran Foer, nel suo romanzo,   Molto  forte,  incredibilmente vicino (Extremely 

Loud and  Incredibly Close,  2005),  narra di una  storia  tra  le  tante di uno dei più drammatici 

eventi dei tempi moderni. In un giorno qualunque, a New York, un ragazzino riceve dal padre 

un messaggio rassicurante sul cellulare: "C'è qualche problema qui nelle Torri Gemelle, ma è 

tutto  sotto  controllo".  E'    l'11  settembre  2001.  Inizia  così  per  il  ragazzo  una  ricerca 

drammatica tra cose e rapporti del padre, girando anche tutta la metropoli, per riallacciare il 

rapporto  troncato  e  per  compensare  un  vuoto  affettivo  che  neppure  la  madre  riesce  a 

colmare.  Alla  fine,  l'incontro  col  nonno  riuscirà  a  fargli  ritrovare  un  mondo  di  affetti  e  a 

riaprirlo alla vita. La vicenda di Oskar e l’imponente entità del trauma da lui vissuto sembrano 

condurci  dentro  meccanismi  psichici,  che  hanno  connotazioni  particolarmente  dolorose  e 

drammatiche.  

Infatti, è come se l’effetto del trauma non riconosciuto si costituisse nella mente come una 

paura sorda, sempre presente, come una palla al piede, che se non la si guarda, magari si crede 

che non ci sia, ma si sente che limita. Il trauma non visto e soprattutto non detto, non smette 

di agire sul presente e non permetterà mai di sentirsi bene, perché si sentirà sempre di poter 

esprimere un potenziale maggiore, di poter essere più liberi, più se stessi. Insomma, è come se 

di fronte al trauma si fosse costretti a erigere uno scudo protettivo che ottunde la percezione, 

nel  quale  l’Io  cade  come  in  letargo, messo  in  scacco  da  componenti  troppo  spaventate  per 

affrontare la vita, attivando nella migliore delle ipotesi, strategie altre, come nel caso di Oskar. 

Si  può pensare,  infatti,  anche  che  il  trauma  sia parte del  processo  evolutivo  individuale, 

partendo  dalla  considerazione  che  fare  i  conti  con  gli  eventi  traumatici  che  la  vita  impone, 

possa  rappresentare,  dando  spazio  ad  una  peculiare  resilienza,  anche  una  straordinaria 

opportunità individuativa. 

E’  vero,  infatti,  che,  parafrasando  Valleur  (2003),  che  così  si  esprime  a  proposito 

dell’addiction, il trauma presenta sempre due facce: 

Page 29: CIPA Atti S Servolo

   una di desoggettivazione, di negazione di senso, di trasgressione; 

   l’altra, invece, di ricerca di senso.   

   E’  condivisibile  il  fatto che  il nostro  tempo si presti bene ad  identificare più  la  faccia 

della  desoggettivazione,  della  negazione  di  senso,  del  ‘senza  senso’,  in  epoche  nichiliste,  di 

cultura liquida.  

Il passo è breve per potere poi correlare il trauma alla psicopatologia, partendo dal fatto 

che esperienze negative nell’infanzia hanno gravi ripercussioni sulla psiche adulta.  

Innanzitutto,  come  afferma  R.J.  McNally  (2003)  nella  definizione  di  trauma  si  possono 

includere  eventi  qualitativamente  assai  diversi  tra  loro;  in  particolare,  però,  è  noto  che 

bambini  che  non  riscontrano  il  proprio  essere  intenzionale  nella  mente  del  caregiver 

subiscono  uno  scarso  sviluppo  del  processo  di  mentalizzazione  (Fonagy,  Target,  1991), 

danneggiando le capacità riflessive e il suo senso del Sé.  

E’ il cosiddetto “trauma relazionale precoce” (Schore, 2003) quello al quale principalmente 

ci  riferiamo  qui,  quel  tipo  di  interazione,  per  cui,  anche  quando  un  genitore  non  è 

esplicitamente  maltrattante,  si  può  giungere  a  quella  condizione  di  “terrore  senza  sbocco 

(Main  e  Hesse,  1990),  che  non  ammette  alcuna  strategia  per  il  bambino  che  possa 

interrompere  il  circolo  vizioso  di  paura  crescente  e  di  meccanismi  contraddittori,  in  cui  è 

intrappolato. 

In caso di esperienze negative (trascuratezza, abuso, maltrattamento), infatti, si struttura 

la  dinamica  del  triangolo  drammatico  (Karpman,  1968),  in  base  alla  quale  il  genitore  è 

persecutore  e  salvatore  nello  stesso  tempo,  e  lascia  il  bambino,  vittima,  a  vivere  la 

dissociazione  emotiva,  in  presenza  di  rappresentazioni  non  integrate  di  sé  e  della  figura 

genitoriale, caratterizzate da ostilità,                   impotenza e oblatività coatta. 

Pertanto,  non  è  l’esperienza  traumatica  in  sé,  ma  la  rappresentazione  della  figura 

genitoriale e di sé, secondo la modalità dissociata del triangolo drammatico, che, nel produrre 

un deficit nella capacità di riflettere sull’esperienza e quindi nella capacità di mentalizzazione, 

probabilmente  ostacola  l’elaborazione  di  eventi  traumatici  e  quindi  facilita  lo  sviluppo  di 

disturbi dissociativi, disturbi borderline e di disturbi post  traumatici da stress  in seguito ad 

eventi traumatici. (Liotti, 2001) 

E’  possibile  quindi  pensare  che  tra  trauma  e  dissociazione  ci  sia  una  forte  interazione 

reciproca,  sebbene  i  processi  dissociativi  siano  innanzitutto  una  difesa mentale,  dentro  cui 

collocare  stati  affettivi  non  integrati  in  strutture  di  significato  non  unitarie  che  possano 

sopravvivere o  in  stati  somatici  o  in  stati  psichici,  avvicinandosi  ad una  sorta di  complesso 

junghiano. 

Page 30: CIPA Atti S Servolo

Il  pensiero  junghiano,  infatti,  a    partire  dalla  costitutiva  scindibilità  della  psiche, 

fisiologicamente  struttura  attorno  al  centrale  complesso  dell’Io  la  coesistenza  degli  altri 

complessi.  

Il  meccanismo  dissociativo,  secondo  Jung,  è  la  risultante  dell’impossibilità  dell’Io  di 

entrare  in  contatto  con  gli  altri  complessi,  con  la  conseguente  tendenza  del  complesso  a 

prendere  il  sopravvento  sulla  personalità  in  toto,  determinando  una  organizzazione 

psicopatologica di un certo tipo piuttosto che un’altra organizzazione. 

La dissociazione, che è una funzione normale della mente, quando è volta ad escludere dal 

campo  della  coscienza  emozioni  e  sensazioni  caratterizzate  da  forte  sofferenza  interna  ed 

esterna,  si  costituisce  quindi  come  un  vero  e  proprio  meccanismo  di  sbarramento  che 

metterebbe al riparo la coscienza ordinaria dall’inondazione di un eccesso di stimoli dolorosi, 

traducendosi,  dal  punto  di  vista  psicopatologico,  in  un  comportamento  dipendente, 

compulsivo e reiterante. Scrive Bromberg (1998/2001), ma sembrano qui riecheggiare tanti 

scritti  di  Jung  su  questo  tema,  “il  meccanismo  dissociativo  può  essere  considerato  un 

organizzatore fondamentale della personalità normale e patologica, con una funzione adattiva 

e  vitale  in  tutti  quei  casi  in  cui  il  soggetto  si  trova  a  dover  fare  i  conti  con  esperienze 

particolarmente intense e dolorose”, proteggendo spesso così la fragilità dell’Io in tutte le sue 

varie  fasi  evolutive  e  costruendo  una  realtà  parallela  più  favorevole  (pensiamo  a  tutte  le 

forme di abuso/dipendenza nel virtuale),  nella quale trovare un agevole riparo.  

“Alcuni  complessi  nascono  da  esperienze  dolorose  o  penose della  vita  individuale.  Sono 

esperienze vissute di tipo fortemente affettivo, che si lasciano dietro visioni psichiche di lunga 

durata. Una brutta esperienza per esempio può reprimere qualità preziose di un individuo. Di 

qui  l’insorgere  di  complessi  di  natura  personale…  Parte  dei  complessi  autonomi  nasce  da 

esperienze personali di questo genere. Un’altra parte proviene da una  fonte completamente 

diversa…l’inconscio collettivo…Si tratta in fondo di contenuti irrazionali, di cui in precedenza 

l’individuo  non  aveva mai  avuto  coscienza… Per  quanto  posso  giudicare,  queste  esperienze 

interiori  intervengono…  quando…  un’esperienza  esterna  ha  provocato  nell’individuo  una 

scossa così forte che la visione della vita che l’ha accompagnato fino allora crolla…” (Jung C.G., 

1928) 

Sempre  più  spesso  i  pazienti  oggi  ci  portano  forme  di  malessere  legate  a  questo  di 

meccanismi psichici  e in questo noi analisti dobbiamo saperci muovere, in un diverso modo 

di concepire la relazione analista‐paziente, e di concepire la cura, la terapia, tra ars medica e 

amore,  se  è  vero  che  therapeia  indica  rispetto,  cura,  servizio,  nel  senso di  sollecitudine per 

qualcuno e solo secondariamente indica anche il trattamento. 

Page 31: CIPA Atti S Servolo

Seguendo Hillman, l’oggetto del servizio è la psiche, che diventa terapia nella relazione tra 

psiche e psiche, nella relazione tra me e il paziente. E’ la complessità del paziente, con la sua 

storia e i suoi vissuti traumatici, ma anche la mia complessità e quella della nostra relazione, 

una  relazione  a  tutti  gli  effetti,  a  causa  della  quale  l’attenzione  a  diversi  parametri  diventa 

inevitabile. 

Come afferma G. Polizzi (2010), è l’attenzione a come mi pongo quando accolgo il paziente, 

come  gli  stringo  e  come mi  stringe  la mano,  lo  sguardo  che  attenziona  l’anima,  l’ascolto,  il 

parlare  all’altro,  e  non  solo  con  l’altro,  la  prossemica,  la  filotecnia  (visto  che  curare  è 

comunque  un’arte),  la  filantropia,  l’attenzione  al  setting,  al  luogo  di  cura  (dove  etica  ed 

estetica si congiungono), ad eventuali manipolazioni, collusioni, alla dimensione transferale e 

alla  sua  conseguente  temperatura  emotiva:  tutto  ciò  è  necessario,  fa  parte  del  setting  ed  è 

intrinseco alla relazione. 

L’altro,  infatti,   oggi ci porta sempre più spesso i misteri  indecifrabili della dissociazione, 

così come descritti nei 5 sintomi fondamentali di M. Steinberg e M. Schnall (2001), ci parla di 

amnesia, declinabile, ad esempio, in buchi della memoria, o come tempo perduto, di fenomeni 

di depersonalizzazione, come sensazione di distacco da se stessi o di un guardare a se stessi 

come  farebbe  una  persona  esterna,  o  ancora  di  fenomeni  di  derealizzazione  dall’ambiente, 

percepito  come  ambiente  irreale  o  strano,  e  infine,  ancora  in  termini  di  confusione 

dell’identità, come sensazione di incertezza, perplessità o conflitto su chi si è, in una continua 

lotta per potere definire  se  stessi,  o di  alterazione dell’identità, di  cambiamento nel  ruolo o 

nell’identità  della  persona,  magari  anche  accompagnato  da  cambiamenti  comportamentali 

osservabili  dagli  altri,  come  parlare  con  una  voce  diversa  o  usare  nomi  diversi.  Per  inciso, 

sembra  proprio  che  questi  ultimi  due  siano  proprio  quelli  che  descrivono  meglio  come  il 

trauma influenzi negativamente il proprio senso di sé. 

E  allora  è  necessario  forse  pensare  che  nell’impatto  con  tutto  ciò,  il  setting  subisca  dei 

mutamenti,  sia  costretto  a modificarsi  e noi  analisti  assistere  e  garantire  a  ciò.  S Argentieri 

afferma  che  è  possibile  considerare  la  psicoanalisi  stessa,  nella  sua  fattualità  terapeutica 

quotidiana, come uno specialissimo rituale dei nostri giorni. 

E se il rito, come sostiene E. De Martino, ha la funzione di venire in soccorso a quelle che 

chiamava  “crisi  della  presenza”,  momenti  nei  quali  l’individuo,  nello  scontro  con  eventi 

traumatici naturali o relazionali, precipuamente con l’evento della morte, si sente minacciato 

nella sua  integrità psicofisica, nel suo essere al mondo, allora  il  rito aiuta a sopportare ed a 

superare la difficoltà, fornendo stereotipi e modelli di comportamento oggettivi e rassicuranti, 

garantiti dalla tradizione collettiva. 

Page 32: CIPA Atti S Servolo

In  tal  modo,  il  rituale,  concretamente  “inutile”,  esplica  invece  paradossalmente  la  sua 

precipua  utilità,  restituendo  il  singolo  alla  dimensione  sociale  (si  pensi  alle  complicate 

pratiche  del  lutto).  Il  termine  “rito”,  avendo  lo  stesso  prefisso  di  restituire,  rinforzare, 

rinnovare,  ricostituire,  come  il  termine  psicoanalitico,  riparazione,  sembra  rinviare  al 

significato di restauro di qualcosa che un tempo esisteva e poi era stato deteriorato. 

Il  rito,  collegato con  le  tecniche di accostamento al  sacro,  continua  la Argentieri,  serve a 

rendere  praticabile,  ripetibile  l’esperienza  religiosa,  sottraendola  alla  unicità  del  vissuto 

mistico,  e  non  è  da  confondersi  con  l’esteriorità  del  cerimoniale,  guscio  vuoto  anaffettivo  e 

inerte. 

Il  senso  profondo  del  rito,  come  quello  del  setting,  è  quindi  quello  della  difesa  dalle 

intemperie emozionali e di sostegno nei momenti di difficoltà dei rapporti e del vivere, tanto 

più efficace e prezioso, di fronte alla necessità di confrontarsi con l’elaborazione di un proprio 

trauma infantile. 

Una  sorta,  quindi  di  inestimabile  funzione  protettiva,  in  fondo,  quella  svolta  dal  setting, 

dentro  cui  in  fondo  garantire  quel  processo,  di  cui  noi  analisti  siamo  parti  integranti  e 

testimoni, per il quale, in ultima analisi, la notevole sapienza della psiche possa assicurare la 

sopravvivenza  dello  “spirito  personale  imperituro”,  dell'”essenza  della  persona”  (Kalsched, 

2001).  

Voglio  chiudere  queste  brevissime  riflessioni  con  un  brano  tratto  dal  romanzo  citato 

all’inizio:  “E  il  cuore mi  va  in  pezzi,  certo,  in  ogni momento  di  ogni  giorno,  in  più  pezzi  di 

quanti  compongano  il mio  cuore,  non mi  ero mai  considerato  di  poche  parole,  tanto meno 

taciturno, anzi non avevo proprio mai pensato a  tante cose, ed è cambiato  tutto,  la distanza 

che si è  incuneata fra me e  la mia felicità non era il mondo, non erano le bombe e  le case in 

fiamme, ero io, il mio pensiero, il cancro di non lasciare mai la presa, l'ignoranza è forse una 

benedizione, non lo so, ma a pensare si soffre tanto, e ditemi, a cosa mi è servito pensare, in 

che grandioso luogo mi ha condotto il pensiero? Io penso, penso, penso, pensando sono uscito 

dalla felicità un milione di volte, e mai una volta che vi sia entrato. (p. 30)”  

 

 

 

 

 

 

Page 33: CIPA Atti S Servolo

Bibliografia 

8) Argentieri Bondi  S.  “Un  rito di oggi:  il  setting psicoanalitico  tra  creatività e  coazione” http://www.istitutoricci.it/docs/Argentieri_Setting.pdf 

9) Bromberg P.M (1998/2001), Standing in the Spaces, Essays on Clinical Process, Trauma and Dissociation. The Analytic Press, Trauma and Dissociation. The Analytic Press, New York. Tr. It. Clinica del trauma e dissociazione . Raffaello Cortina Editore, Milano, 2007. 

10) De Martino  E.  “Morte  e  pianto  rituale  nel mondo  antico”. Bollati  Boringhieri,  Torino, 2008. 

11) Fonagy,  P.,  Target, M.  (1996).  “Giocare  con  la  realtà 1) Teoria della mente  e  sviluppo normale  della  realtà  psichica.  In:  Fonagy,  P.,  Target,  M.:  Attaccamento  e  funzione riflessiva. Cortina, Milano, 2001. 

12) Kalsched D. Il mondo interiore del trauma. Moretti e Vitali, Genova, 2001. 13) Karpman S. Fairy tales and script drama analysis. Tranactional Analysis Bulletin, 7, 39‐

43,1968. 14) Jung C.G., (1928), L’Io e l’inconscio,  Opere,  vol. 7°, Bollati Boringhieri, Torino, 1983. 15) Jung  C.  G.  (1934).  Considerazioni  generali  sulla  teoria  dei  complessi.  Opere,  vol.  8°, 

Bollati Boringhieri, Torino, 1976. 16) Hillman J. Il mito dell’analisi. Adelphi, Milano, 1972. 17) Liotti  G.  Le  opere  della  coscienza:  Psicopatologia  e  psicoterapia  nella  prospettiva 

cognitivo­evoluzionista. Raffaello Cortina, Milano, 2001. 18) Main  M.,  Hesse  E.  Parents’  unresolved  traumatic  experiences  are  related  to  infant 

disorganized attachment status:  is  frightened and/or  frightening parental bevahior  the linking mechanism?  In MT Greenberg, D. Cicchetti Em Cummings  (Eds),  Attachment  in the preschool years. Chicago: Chicago University Press, p 161.182. 

19) Mc  Nally  R.J.  Progress  and  controversy  in  the  studyof  post­traumatic  stress  disorder. Annual Review of Psychology, 54:229‐252,2003 

20) Polizzi G. Il “sutram” rosso tra l’ars medica e l’amore. Riflessioni analitiche sul rapporto medico­paziente. Palermo, Palazzo Jung, Ottobre 2010.  

21) Safran  Foer  J.  (2005)“Molto  forte,  incredibilmente  vicino”.  Guanda,  Brezzo  di  Vedero (VA), 2011. 

22) Schore A.N.Affect dysregulation and the repair of the Self. Norton, New York, 2003. 23) Steimberg  M.,  Schnall  M.  La  dissociazione.  I  cinque  sintomi  fondamentali.  Raffaello 

Cortina, Milano, 2006. 24) Valleur  M.  Le  condotte  di  addiction,  in  Nizzoli  U,  Pissacroia  M.  (a  cura  di)  ‘Trattato 

Completo degli abusi e delle dipendenze’, Piccin, Padova, 2003.  

 

 

 

 

 

 

 

Page 34: CIPA Atti S Servolo

 

LA PSICOLOGIA ANALITICA IN TEMPI DI GLOBALIZZAZIONE. CONTESTI, INTERROGATIVI, STRUMENTI 

 Wilma Scategni   

   

 Venezia tavelogue Omaggio al Genius Loci 

“Venezia è un pesce. Guardala sulla carta geografica,assomiglia ad una sogliola colossale distesa 

sul fondo…..E’ dalla notte dei tempi che naviga…ha toccato tutti i porti, ha strusciato addosso a 

tutte  le  rive,  le  banchine,  gli  approdi….sulle  squame  le  sono  rimaste  attaccate  madreperle 

medioorientali,sabbia  fenicia  trasparente,alghe  bizantine….”,  (Tiziano  Scarpa­  “Venezia  è  un 

pesce”) 

 

Ho aderito subito con entusiasmo all’idea di un incontro CIPA residenziale a San Servolo. Un 

isola nella laguna mi sembrava rappresentare il contesto giusto per una riflessione su quella 

“individuazione di gruppo della nostra Associazione” che permette di riflettere sul processo e 

sulle  trasformazioni  del    nostro  “essere    Junghiani  nel  XXI  secolo  all’interno  del  CIPA”,  tra 

“aperture”  verso  il  mondo  contemporaneo  e  “raccoglimento”  all’interno  di  un  gruppo  di 

lavoro‐istituzione  

Anche  l’impostazione  stessa  sotto  forma  di  seminari  e  gruppi  di  lavoro  è  una  formula  che 

trovo congeniale rispetto alla mia identità “di frontiera” tra Psicologia Analitica ed Analisi di 

Gruppo, da oltre 25 anni al centro della mia esperienza personale, professionale e di ricerca.  

Inoltre  il mio  impegno    sottoforma  di  partecipazione  attiva  nel  board  di  Confederazioni  di 

gruppo Europee (FEPTO e IAGP), di conduzione di  seminari residenziali in giro per l’Europa e 

di  incontri  “Umbrella” mi  rende difficile  partecipare di persona alle  interessanti  attività del  

CIPA  con  continuità,  se  non  per  i   momenti  di  incontro  a  livello  nazionale.  San  Servolo  ha 

rappresentato quindi per me una ottima opportunità di incontro con colleghi che stimo e con 

cui condivido da anni progetti ed esperienze, anche se non sempre in forma diretta   

Nel  recente  convegno  CIPA  AIPA  anche  Stefano  Carta    ha  parlato  di  “Individuazione  di 

gruppo”, accanto al più noto “Processo di individuazione che riguarda i singoli….”,  indicando 

come  tale  quel  processo  che  coniuga  l’individuazione  dei  singoli  in  relazione  al  gruppo  in 

questione e la memoria “storica” del gruppo stesso attraverso la ri‐narrazione dell’esperienza 

condivisa  e  le  riflessioni  sul  processo.  Si  tratta  del    tema  su  cui  da  anni  si  focalizza  la mia 

Page 35: CIPA Atti S Servolo

ricerca  attraverso  i  gruppi  analitici,  le  matrici  di  Social  Dreaminge,  lavori  in  contesti 

internazionali ecc     Tratta   quell’intensa sperimentazione di alternanze  tra appartenenza ed 

estraneità, con  i  connessi disagi…nel sentirsi  sempre e comunque un po’  “fuori posto”… che 

ogni conduttore di gruppi analitici conosce molto bene…..e che  in  fondo è altrettanto noto a 

chi è abituato, per scelta o necessità, a viaggiare in solitudine ….. 

Ogni  incontro  col  “nuovo”è  però  un’opportunità  per  gettare  lo  sguardo  al  di  là  del  disagio, 

ritrovando  gli  elementi  che  riconducono  ad  una  qualche  forma  di  familiarità: 

immagini,suggestioni,  dettagli  in  grado  di  captare  l’attenzione,  tracce  di    ricordi  condivisi 

…..qualche sogno …. 

Venezia è la sua laguna rappresentano il luogo ideale …..L’acqua presente ovunque suggerisce 

l’  immersione  in  un  tempo  lento  …contemplativo  …  in  uno  spazio  ideale  al  riemergere  di 

memorie sopite da tempo …. 

Venezia  rimanda nello stesso tempo alla curiosità,al desiderio di esplorazione ed avventura, 

dei   navigatori   e dei politici veneziani …    spesso  .capaci di adattarsi e  ricavare  il meglio da 

ogni situazione … più  inclini ed abili nell’ esercizio della mediazione e nell’evitare  i  conflitti 

piuttosto che scatenarli …..(non è una dote da poco ….) …Senz’altro collegata a queste doti è 

l’arte  della  narrazione,  esercitata  da Marco  Polo  sotto  forma  di  diari  di  viaggio …Da  questi 

hanno preso forma le incantate fantasticherie di Italo Calvino nelle “città  invisibili” ….. 

 

Kubla Kan  “Non  so quando hai avuto  il  tempo di visitare  tutti  i paesi  che mi descrivi …a me 

sembra  che  tu  non  ti  sia  mai  mosso  da  questo  giardino,….nè  sono  sicuro  di  essere  qui,  a 

passeggiare tra le fontane di porfido, ascoltando l’eco degli zampillie non a cavalcare,incrostato 

di sudore e di sangue alla testa del mio esercito… 

Marco Polo;”Ogni cosa che vedo e faccio prende senso da uno spazio della mente dove regna la 

stessa calma di qui,la stessa penombra, lo stesso silenzio percorso da fruscii di foglie… 

… forse questo giardino esiste solo all’ombra delle nostre palpebre abbassate … e mai abbiamo 

interrotto,  tu di  sollevare polvere  sui  campi di battagli  ed  io di  contrattare  sacchi di pepe  in 

lontani mercati ….” 

 

Intorno, gli  antri ed  i vicoli  segreti descritti da Corto Maltese,  si    anfrattano   nei  labirinti di 

Venezia …Ci  camminano o    trovano  rifugi nascosti  il  prof Aschenbach, Casanova  fuggito dai 

piombi,  Don  Giovanni,  Leporello  e  il  convitato  di  pietra  in mezzo  a mille  altre maschere  e 

fantasmi…  .Sotto  il  ponte  di  Rialto  ,in  mezzo  a  fuochi  d’artificio    emerge  la  gigantesca 

maschera del carnevale creata da Fellini….. 

Page 36: CIPA Atti S Servolo

Il  pensiero  junghiano  e  S  Servolo­Ricordi  frammentari  di  una  ex  psichiatra 

manicomiale in tempi basagliani 

S Servolo è un’isola, di fronte a quella  degli conosciuta come “degli Armeni”…(Quest’ultima è 

emblema del salvataggio dall’estinzione di una cultura e di sacri testi, sfuggiti alla distruzione 

delle persecuzioni… appunto la testimonianza del processo individuativo di un gruppo ….) 

San  Servolo  è  sede  di  un  ex  Ospedale  Psichiatrico  e  prima  ancora  di  un  monastero 

benedettino…. 

Nello  sbarcare  sull’isola  e  nell’osservare  la  struttura  che mi  trovavo di  fronte,  al  di  là  della 

conformazione  armoniosa  dei  giardini  ben  curati ….e  della  piacevolezza  del  luogo …la mi  a 

memoria  è  tornata  alle  “notti  di  turno”  nell’Ospedale  Psichiatrico,  ed  alle  serate  in  cui 

raccoglievo al tramonto le foglie autunnali nel parco, per rendere più accoglienti le stanze del 

medico  di  guardia  e  dei  reparti,  creando  composizioni  in  compagnia  dei  degenti,  ….  in 

un’atmosfera  surreale,  pregna di  contrasti  :…..reclusione,  sofferenza,  tristezza, disperazione, 

ma anche raccoglimento, introversione, spiritualità ….… Quest’ultimo elemento era rimandato 

soprattutto dal frequente incontro con la morte di pazienti, spesso molto anziani, scandita dal 

verso  delle  civette  sui  pini,  dal  trillo  del  telefono  nella  notte  ….dal  nodo  in  gola  che  mi 

accompagnava nel percorrere i sentieri bui tra gli alberi secolari del parco …. 

Mi e  tornata alla mente   anche qualche  immagine serena:…. passeggiate nel parco  in mezzo 

alla  natura    con pazienti  silenziosi  ,  la  stanza del  cucito,  gruppi….gruppi…ancora  gruppi…di 

equipe, di lavoro, di formazione degli operatori….  di terapia… qualche sorriso, qualche passo 

di danza, sporadici miglioramenti….speranze…delusioni cocenti….ancora speranze…. 

E  poi  i  pazienti…...la  candida  e  folta  testa  ricciuta  di  una  anzianissima ospite,  che  ogni  sera 

usciva  seguita  da  una  incredibile  moltitudine  di  gatti  a  cui  elargiva  gli  avanzi  della 

cucina….Trascorreva  le  giornate  da  sola,  immersa  nel  ricamo  di  fiorellini  colorati  su 

grembiulini e camicette vezzose, memorie di un  passato lontano che nella sua degenza aveva 

tutto  il  tempo  di  ricordare  …ma  su  cui  serbava  il  più  assoluto  segreto  …  …..e  di  una  vita 

all’esterno  che  non  rimpiangeva  per  nulla  ….In  tempi  di  dimissioni  e  possibile  chiusura 

affermava  con  caparbietà  che  avrebbe  lasciato  il manicomio  solo  quando  la  Provincia  (che 

allora  gestiva  la Psichiatria)  le  avesse  fornito una  villa  con un parco  altrettanto  vasto …  ed 

abitato da altrettanto numerosi ed amichevoli gatti ……. 

Una anzianissima ex lady anglosassone finita chissà come e da quanto tempo a Torino, amava 

conversare  nella  sua  lingua  madre  ….Una  premurosa  autonominata“assistente  al  caffè  dei 

medici di guardia”,….” non mancava mai di accudire con soffocanti attenzioni … i colleghi che 

non riuscivano a salvare la loro privacy stabilendo limiti ….Un minorato mentale gravissimo e 

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del  tutto cieco era protetto ed accudito amorevolmente da un paziente più anziano …(i  loro 

atteggiamenti  non  mancavano  mai  di  commuovermi  …).Un’  infaticabile  tutt’altro  che 

avvenente’adescatrice  di  uomini    spariva  continuamente  nei  sotterranei  ….Le  effusioni 

pubbliche di una passione scoppiata tra le mura del manicomio creavano non pochi problemi 

con  i parenti  in visita….e con  il personale…Un altro degente  ingoiava continuamente sassi o 

quant’altro,  con  una  predilezione  speciale  per  crocifissi … Una  ragazzina minorata mentale 

gravissima,  in  primavera  brucava  l’erba  dei  prati……..Mille  altri  personaggi  tragici  o  comici, 

patetici o ridicoli, tristissimi o esuberanti …   per molti anni sono tornati e tornano ogni tanto 

tutt’ora  nei  miei  sogni  …  Per  fortuna  non  c’erano  più  elettro  schok    o  altri  strumenti  di  

infausta memoria, …ma.solo racconti sussurrati nei corridoi ……e difficoltà …dubbi…problemi 

continui in attesa di soluzioni sempre e comunque inadeguate: …. tolleranza o limiti…farmaci 

o  rischio…silenzio  o  divulgazione….libertà  o  repressione ….protezione  o  reclusione…muri  o 

spazi aperti….?  

Purtroppo    ricordo molto  bene,  che  quando  l’ospedale  ha  buttato  giù  con  esultanza  i muri, 

simbolo della reclusione …non sono stati i pazienti a minacciare gli “esterni”, ma esterni senza 

scrupoli  che  sono  entrati  a  violentare  le  pazienti,  o  ad  approfittare  in  tutti  i  modi 

dell’ingenuità  degli  ospiti    Luci  ed  ombre…  ma  soprattutto  ….  continuamente  dubbi, 

impotenza,  doloroso  senso  del  limite  che  continuamente  si  scontravano  con  l’onnipotenza 

delle ideologie ….. ma anche nuove consapevolezze, soddisfazioni, entusiasmi ….. 

L’ospedale Psichiatrico era al tempo stesso luogo di sofferenza e reclusione quanto giardino di 

ricomposizione di memoria,  raccoglimento,  spiritualità ……..quale più  evidente  esperienza  e 

tentativo di ricomposizione di opposti laceranti? 

I  ricordi  dell’Ospedale  Psichiatrico  di  Collegno‐  Grugliasco‐Savonera  (dove molti  anni  dopo 

Faenza  ha  girato  “Prendimi  l’anima”  per  rappresentare  il  Burgozli  di  Zurigo  )  erano  il 

contorno  in quegli anni, delle mie  letture  junghiane sul ramo….ed  i pazienti …l’incarnazione 

concreta delle riflessioni sui riferimenti teorici … 

Un sicero grazie, a San Servolo,ed a chi ha scelto questo luogo per il convegno,  per avermene 

ravvivato la memoria… 

 

L’opera di Jung e il mondo 

Leggere le pagine di Jung è attraversare il globo fluttuando liberamente in quel tempo senza 

tempo  proprio  dei  sogni,  attraverso  l’esplorazione  di  miti,  ipotesi  sull’origine  del  mondo, 

modalità  di  affrontare  la  morte  e  il  mistero  dell’esistenza  ….  in  una  dimensione  che 

continuamente sposta il suo focus ed i punti di vista mantenendo ed alimentando la curiosità e 

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lo  stupore  propri  dei  fanciulli  ….E’  però  nello  stesso  tempo  esame  ed  analisi  di  una  realtà 

concreta fatta di piccoli eventi quotidiani,  in cui quel pensiero “mitologico”che si esprime in 

linguaggio immaginale e poetico …. trova, anche se con fatica, parole che si arricchiscono via 

via  di  nuove  sfumature  …..Il  magmatico  materiale  psichico  che  abita  la  nostra  mente  si 

“incarna”  nella  contingenza  dei  fatti  quotidiani,  ….  in  ciò  che  avviene  nel  microcosmo 

relazionale di ognuno, declinato nel contesto abituale. Riunire frammenti, riconoscere le mille 

sfumature  dei  colori  emotivi  ed  i  loro  rapidi  cambiamenti,  dare  “corpo”  alle  immagini  …. 

cercandone i nessi,  le “teste di ponte”che lascino intravedere ipotesi di senso attraverso una 

narrazione che via via prende forma è compito dell’analisi. Si tratta di esprimere in parole, (o 

per lo meno tentarci) la sequenza delle immagini che  continuamente affiorano alla coscienza 

attraverso formulazioni ambigue ed indistinte …. lasciare emergere ed evidenziare quel “ filo 

rosso”che permette di identificare le possibili sequenza che si aggregano in tracce narrative … 

E’  l’esplorazione  di  questi  labirinti    il  compito  intrigante,  fertile  e  ricco  di  fascino,  proprio 

dell’analisi…in cui la narrazione apre ad una dimensione relazionale sempre del tutto unica ed 

irripetibile …. 

Il racconto della medesima sequenza di eventi assume forme diverse in relazione alla persona 

che ascolta, la cui sola presenza fisica, materializzata dalla postura, dall’espressione del volto, 

dal contesto, è  in grado di evocare ricordi diversi, mettere a  fuoco dettagli che si credevano 

scomparsi  o  che  erano  stati  a  suo  tempo del  tutto  ignorati ….  colorare o  sbiadire  immagini 

collegate a sequenza di eventi a cui si attribuivano valori differenti, modificandone i toni e le 

sfumature…. A tratti ripercorrere quei medesimi labirinti è fonte di un  processo laborioso e 

spesso  inconcludente  e  frustrante,  che  è  tuttavia  pronto  a  cambiamenti  repentini,  nuove 

consapevolezze  e sorprese del tutto inaspettate…. 

 

Qualche riflessione tra analisi e gruppo in atmosfera junghiana 

Nei  gruppi  analitici  o  terapeutici  le  medesime  forme  caleidoscopiche,  riflesse  in  una 

moltitudine di relazioni concrete, permettono, attraverso continui rispecchiamenti, la visione 

e  la  presa  di  coscienza  di  sempre  nuove  consapevolezze,  accompagnate  da  altrettante 

imprevedibili sorprese ….   

…  Del  resto,tornando  a  Jung  ogni  sua  frase  non  è  un  ‘asserzione,  ma  un’  ipotesi  aperta 

nell’attesa  di  echi  a  più  voci  ….  È  attesa:….senza  la  fretta  di  attribuire  significati  fittizi  o  ri 

sistematizzare  in  teorie  ipotesi  di  pensiero.  Ogni  formulazione  ed  anche  ogni  pensiero,  o 

abbozzo di pensiero …. resta aperto al dubbio,… 

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La relazione con l’altro o con gli altri, sia sotto forme di persona fisica che gli sta di fronte nella 

relazione analitica,  che di  gruppo con cui viene a  contatto  in un esperienza o  in un viaggio,  

mantiene la forma di un’esplorazione continua, una fonte inesauribile di nuove scoperte, rese 

possibili  da  un  atteggiamento  recettivo  …..una  perenne  attesa  di  echi  a  più  voci,  di 

metamorfosi e contaminazioni con le ipotesi iniziali … 

 

“Non so cosa mi sta dicendo l’Africa, ma so che parla….” 

Jung scrive alla moglie in una lettera dall’Africa ….Ed è proprio la capacità di stare in ascolto di 

quel  balbettio  spesso  incomprensibile  in  atteggiamento  di  recettiva  apertura  e  attesa, 

restando  nel  dubbio,  nell’indecisione  della  terra  di  confine,  che  permette  al  pensiero 

junghiano di non lasciare dietro di sé un retrogusto di “colonialismo culturale”  , ma si rivela 

una sensibilizzazione all’ ascolto, alla visione …un ampliamento alle porte della percezione…. 

Per questo il suo pensiero o meglio le “tracce” che ci  indica nei suoi scritti …. favoriscono in 

chi  gli  si  accosta  ….  l’apertura  verso  mondi  “altri”  e  lo  rendono  più  che  mai  adeguato  ad 

accostarsi  alle  nuove  forme  di  culture,  spiritualità  ed  espressione,  proprie  del  mondo 

globalizzato   Certamente  forse si  tratta di quel mio personale modo di “leggere  Jung” che  fa 

parte di quei “mille modi” di leggerlo, di cui alcuni laboratori del CIPA si sono occupati negli 

ultimi anni… 

 Io credo sia importante, accostandosi alla lettura di Jung, entrare nello spirito di chi  non ha 

fretta  di  “fissare  sotto  il  vetro  farfalle  con  uno  spillone”  per  esaminarle  ormai  morte  ed 

immobili, ma nell’atteggiamento di chi ne segue, con attenzione e rispetto, il volo, la direzione, 

l’impercettibile  frullare  di  ali  ….  con  lo  zelo  dell’appassionato  naturalista  …..attento  ai  più 

minuti dettagli, ma senza alcun   desiderio di  immobilizzare con  la  formalina ciò che abita  il 

campo che osserva … In quest’ottica è indispensabile però accettare continuamente il rischio 

che  gli  elementi  di  quella  stessa  volatilità,  propria  del  movimento,  sfuggano  al  controllo, 

inabissandosi  nuovamente  nel magma  dell’indistinto ….Non  resta  che  rimanere  in  attesa  di  

successive possibili opportunità … .aperte alla  ricchezza del dubbio  

Riattraversare  “con  gli  occhi  dell’altro”  il  tema  del    destino,  delle  origini,  del  tempo  … 

.attraverso  gli  innumerevoli  occhi  dei migranti  e  del mondo multietnico  che  incontriamo  ai 

nostri giorni è una possibilità. Abbiamo il supporto dei miti, delle immagini ….e delle metafore 

che abbondano negli  scritti  Junghiani e sono  in grado di penetrare  la polisemia dei  simboli: 

alludono piuttosto  che  spiegare,  aprono nuove porte piuttosto  che  imprigionare pensieri  in 

cornici  prive  di  mobilità  …  .Gli  scritti  di  Jung,  ma  soprattutto  il  suo  atteggiamento,  

continuamente  in  grado  di  spostarsi  rapidamente  …  da  una  visione  del  mondo  all’altra, 

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superando   ogni barriera spazio  temporale  sono di non poco aiuto ….Forse  indicano  l’unico 

atteggiamento  possibile  di  fronte  ad  una  realtà  sconcertante,  enigmatica,  in  un  costante  e 

frenetico cambiamento di cui continuamente sfuggono direzione e confini …. 

Parallelamente    Jacob    Levi  Moreno  invita  ad  uno  “scambio  di  occhi”,  attraverso  la 

drammatizzazione  e  lo  scambio    di  ruolo  nel  gioco  psicodrammatico  ….,che  permetta  di 

“sperimentare  concretamente”  la  visione  del mondo”  dal  punto  di  vista  dell’altro  da  sé…(o 

almeno tentarci….) 

Il  pensiero  Junghiano  e  Moreniano  possono  così  potenziarsi  a  vicenda  in  una 

complementarietà singolare, …. suggerendo una metodologia di lavoro, che si è rivelata molto 

fruttuosa nel lavoro in gruppi internazionali ….e che nel corso degli anni si è rivelata per me 

un aiuto molto significativo in nei contesti più variegati … anche del tutto in antitesi  …….Ma 

anche  questo  ….  non  è  detto  che  funzioni:    permette  di  tentare  una  ricerca  di  strade  con 

qualche riferimento in più….….…. 

Per  questi  caratteri  insieme  a  numerosissimi  altri,  ma  soprattutto  per  l’assenza  nel  suo 

pensiero  di  ogni  dogmaticità,  il  pensiero  di  Jung  si  rivela,  più  di  ogni  altro  in  grado  di 

fronteggiare scivolamenti verso la temuta perdita di identità nell’incontro‐scontro con l’ “altro 

da sé” o anche semplicemente nell’affacciarsi a mondi altri ed a culture estranee. Allo stesso 

modo  può  frenare  (o  almeno  tentarci….)  lo  slittamento  verso  quelle  derive  integraliste  in 

grado di suggerire sicurezze fittizie attraverso  un’identità rigida…. 

 

La negazione della spiritualità e la rinascita dogmatica ed integralista 

Più di una volta nelle mie interminabile soste negli scali aereoportuali ho notato con curiosità 

(purtroppo finora non in Italia) tra le numerose indicazioni delle porte  di imbarco, degli uffici 

informazioni,,  delle  compagnie  aree,  delle  toilette  e  dei  punti  di  ristoro,  l’indicazione  delle 

“stanze di meditazione”,  talvolta  in  coesistenza  o  talvolta  in  sostituzione delle  nostrane più 

abituali “cappelle di preghiera”….Su queste indicazioni più “laiche”i  simboli religiosi delle più 

diffuse religioni del mondo compaiono affiancati ….Si accede in  stanze spoglie, ma silenziose, 

per chi nello strepito dei chiassosi labirinti dei “non luoghi” aeroportuali sente la necessità di 

uno  spazio  protetto  e  silenzioso,  adatto  al  raccoglimento,  alla  riflessione  o  alla  preghiera 

quanto  alla  meditazione  ….Le  medesime  coesistenze  si  affacciano  nei  cimiteri,  negli  spazi 

“laici” delle Società di Cremazione, quanto, da non molto  tempo,  in alcuni ospedali  cittadini 

italiani ….. 

Esposti in vendita per poche rupie, avevo trovato, sulle strade di Bombay, all’inizio degli anni 

’70,  coloratissimi  fumetti  che  illustravano  il  Mahabarata,  le  gesta  di  differenti  divinità  del 

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pantheon  induista: Ganesha, Krishna e Shiva a profusione… ma anche  le  imprese del Budda 

(considerato  da  alcune  correnti  induiste  un  incarnazione  di  Visnù),  del  Guru  Nanack 

(fondatore della religione Sick come tentativo di sintesi tra il mondo Indù e Mussulmano) di 

altri “Baba”…. e persino di un “Lord Crist” insolitamente sorridente in posizione del loto…, Mi 

aveva favorevolmente colpita questa coesistenza di immagini sui marciapiedi….e per qualche 

tempo aveva nutrito in me, ancora piuttosto giovane,  l’  ingenua speranza di una coesistenza 

pacifica tra religioni in India… 

Solo pochi mesi dopo i giornali occidentali riportavano la notizia che quegli stessi marmi su 

cui  avevo  passeggiato  in  Punjab,  nel  “Tempio‐D’oro”  di  Amritsar,  osservando  con  curiosità 

sacerdoti barbuti che recitavano in edicole circondate da piccoli assembramenti di fedeli,   “il 

libro  sacro  “di  una  religione  il  cui  anelito  era  la  conciliazione  del  mondo  indù  e 

mussulmano…nascondevano  armi.  Poco  dopo  sarebbero  state  usate  in  sanguinose 

rivolte…Avevo  sottovalutato  anche  le  vistose  spade,  che  accanto  ai  turbanti  ed  alle  barbe 

arrotolate  e  raccolte  in  crocchie  alla  sommità  del  capo,    distinguevano  i  Sick,  un  popolo 

storicamente guerriero…. 

Tornando a noi uno degli aspetti più inquietanti nel mondo contemporaneo è proprio come la 

coesistenza più o meno forzata di religioni differenti porti più facilmente ad una attenuazione, 

se non del tutto alla perdita, di ogni manifestazione di spiritualità legata o meno ad aspetti di 

culto, se non sotto forma di integralismo politico‐religioso …. 

Così sterili  lotte su “crocifisso sì‐ crocifisso no” o sul nascondere o abolire  le suggestioni del 

presepe rischiano di riempire un vuoto lasciato dal totale disinteresse alla divulgazione ed alla 

riflessione  sulla  Storia  delle  religioni”.  Sono  così  ignorati  i  loro  possibili  intrecci  o  punti  di 

incontro    .nel  rispetto  dell’altro  e  del  mondo  circostante  quanto  la  ricerca  di  molteplici 

possibilità presenti in ogni forma di contatto col “sacro”….Il rischio di alimentare le fiamme al 

rogo di Giordano Bruno in Campo dei fiori resta comunque una minaccia onnipresente su cui è 

bene  riflettere  ….Una  collega  mussulmana  mi  raccontava  sorridendo  come  le  immagini  di 

alcuni nostri santi e dei crociati  siano talvolta usate come minaccia per spaventare i bambini 

…. 

Jung  attraverso  lo  studio  delle  religioni,  attraverso  il  suo  spaziare  attraverso  i  miti  di 

creazione,  il  folklore  e  le  innumerevoli  manifestazioni  dell’inconscio  collettivo,  in  grado  di 

superare  agevolmente  barriere  spazio‐temporali….ha  indicato  da  sempre  teste  di  ponte  al 

mondo della Psicologia…che speriamo non crollino per il disuso … 

Mi  sembra  che  all’inizio degli  anni  ;70  alcuni  testi  di  Jung  “Psicologia  e Alchimia”…”Simboli 

della  trasformazione”…  erano  gli  unici  libri  di  Psicologia  che  inframmezzavano  al  testo 

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illustrazioni  tratte dalla simbologia di culti diversi,  sottolineando  l’importanza del  ““ mondo 

immaginale”come ponte aperto verso il linguaggio dell’ “anima”… 

Lui  stesso  aveva  invitato  Olga  Froebe”,  creatrice  ed  animatrice  degli  incontri  di  Eranos  dal 

1933 ad andare in Oriente e nel mondo alla ricerca di immagini sacre, in grado di esprimere 

una spiritualità oltre le  barriere spazio temporali…Ad Eranos, crocevia di Teologi, Psicologi , 

Orientalisti e studiosi di Storia delle religioni, ai momenti di’incontro delle relazioni teoriche 

si accompagnava l’intensità dell’esperienza condivisa. in un contesto ricco di suggestioni. Qui 

la  spiritualità era ed è  tuttora evocata dalla natura, dalle acque del  lago, e dalla  storia delle 

ricerche utopiche che hanno abitato quell’angolo di mondo nel contiguo “Monte Verità”.….  

Diverse  di  quelle  immagini  sono  esposte  ad Ascona  nella  sala  conferenze  di  “Casa  Eranos”, 

insieme ad una scultura del viso di Jung…                          Forse proprio in queste immagini e negli 

scritti‐ di  Jung su Psicologia e Religione, possiamo trovare  indicazioni   per riscoprire quelle 

“teste di ponte”  tra Oriente e Occidente che sarebbe così  importante riprendere nella realtà 

contemporanea,  ….anche  se  forse  molte  tra  quelle  folle  di  migranti  che  incontriamo  nelle 

nostre  strade  non  conoscono  gli  scritti  originali  delle  loro  fedi  ….nè  tantomeno  le  loro 

interpretazioni  attraverso  i  nostri  linguaggi……Può  darsi  però  che  rispondano  con 

immediatezza alla suggestioni ed al potere evocativo delle immagini… 

 

Le carrette del mare …L’africa sbarca sulle coste 

Ora quella medesima Africa, di cui Jung parlava nei diari di viaggio delle già citate lettere alla 

moglie, sbarca direttamente sulle nostre coste….  

Attraverso  l’incontro  con  folle  di migranti,  che  affiorano  sempre più numerose nella  sanità, 

nelle  scuole,  nelle  strutture  psichiatriche,  nelle  comunità  e  nei  servizi  socio‐assistenziali  ed 

educativi, i giovani psicologi si trovano sempre più frequentemente a confrontarsi con nuovi 

interrogativi  ed  incognite  profondamente  inquietanti.  Le  voci  dei  migranti  sussurrano  in 

idiomi  spesso  incomprensibili  storie  impresse  sui  loro  corpi  e  sui  loro  volti  …  parlano  di 

miseria,  di  stupri,  di  fame,  precarietà,  sottosviluppo,  sfruttamento,  guerre, massacri,  pulizie 

etniche, rappresaglie... 

I  “balbetti dell’Africa” di  cui  Jung parlava nella  lettera alla moglie  ricordata da Papadopulos 

nel recente convegno AIPA CIPA dello scorso anno,… sono ora qui ,… sulla porta di casa nostra 

e mostrano “piaghe sconcertanti”, che aprono a tragici interrogativi senza risposta. ….Dove e 

di chi  le responsabilità? Un colonialismo nei nostri cuori?…. una delega di responsabilità mal 

gestite … dal patrimonio economico alle risorse del pianeta.? 

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Certo fame, miseria, guerre, stupri, crudeltà e carestie non sono  mai mancate nella storia, ma 

ora  la  rapidità  delle  comunicazioni  ci  sbatte  in  faccia  in  tempo  reale  bombe  al  fosforo  che 

tracciando il cielo come fuochi di artificio devastano case e villaggi, massacrando popolazioni 

inermi … ed è più difficile stare a guardare ….Ma intervenire significa dove, come, a favore di 

chi? 

L’aiuto  o  l’intervento  in  cosa  si  materializza?....,  Sostegno  armato,  istruzione  a  tecniche  di 

guerra  ….?  A  Favore  di  chi?  L’idea  di  rifornimenti  di  armi  ….  può  essere  un’  ingannevole 

metafora  per  celare  interessi  commerciali  privi  di  scrupoli  …  e  si  lascia  uno  sgradevole 

retrogusto di colonizzazione e sfruttamento ….  

 Nello stesso tempo   folle di migranti … in viaggio da paesi anche lontanissimi …. approdano 

sulle nostre coste, ammassate su sempre più malandate carrette del mare, gommoni, mezzi di 

fortuna attratte dal miraggio di un occidente  la cui ricchezza ha sempre più  l’aspetto di uno 

sberluccicante    rivestimento  di  carte  stagnola  incollato  su  gusci  vuoti  di  disoccupazione, 

miseria,  inquietudine verso  il  futuro,  .sempre più  inquietanti baratri di vuoto … Arrivano da 

quelle stesse   martoriate sponde del mediterraneo, che da sempre sono state culla di civiltà, 

scambi, commerci ponti culturali non meno di rivalità, lotte sanguinose, massacri. 

  

Qualche  sguardo  nella  realtà  nostrana …all’interno  delle  case…gravate  da mutui  da 

pagare e abitate da speranze disilluse…. e negli studi degli analisti 

Nello stesso tempo la fantasticata “terra promessa” non è più “terra di ricchezza” neanche per 

chi ci vive e gli  stessi Psicologi di ultima generazione si confrontano nella  loro quotidianità, 

anche  se  certo  in  condizioni  migliori,  con  lavori  precari,  frequentemente  sottopagati  e 

scarsamente riconosciuti …. con la difficoltà concreta di mantenere le spese di una formazione 

lunga e costosa, non sempre  in grado di garantire o aprire le porte agli sbocchi sperati … 

Inoltre la precarietà del lavoro, l’allargarsi della forbice sociale, la competitività esasperata e 

compulsiva  legata al mercato,  rischiano di  compromettere dolorosamente  in ogni  ambito  la 

solidarietà  sociale,   mettendo  sempre  più  a  dura  prova  lo  sviluppo  e  la  salvaguardia  di  un 

senso  etico.  Difficile  dire  come  affrontiamo  questi  temi  nella  nostra  professione,  se  non 

attraverso  l’apertura  alla  continua  riflessione  ed  attraverso  la  coesistenza  col  dubbio  ….Di 

certo è aumentata, per me anche in rapporto all’età, la richiesta di professionisti già affermati 

piuttosto che di giovani psicologi in formazione.  Per questi ultimi, si tratta di accompagnare  

percorsi  ed  aspettative  diverse  nei  confronti  della  professione,….  tempi  più  lunghi, 

adattamento  a  professionalità  meno  riconosciute  senza  rinunciare  ad  orientarsi  verso  un 

progressivo miglioramento. 

Page 44: CIPA Atti S Servolo

Sono  aumentate  le  richieste  di  una  seduta  settimanale  piuttosto  che  due,…  aumentate  le 

supervisioni  ogni  due  settimane  o  a  cadenza mensile …  da  parte  di  psicologi  che  lavorano 

individualmente o con i gruppi . Spesso trovo utile progettare con i pazienti“trance di terapia” 

programmate per ottimizzare  i  tempi … Nel  complesso utilizzo una  flessibilità,  che come ex 

Psichiatra nei Servizi pubblici ho sempre utilizzato, adattandomi di volta in volta a differenti 

richieste relativamente ai contenuti ed alle cadenze temporali ….     Da tempo non  lavoro più 

con  pazienti  gravi  come  Medico  Psichiatra,  ma,  come  da  sempre,  nella  formazione  di 

professionisti e di operatori dei servizi. In ambito internazionale, e nazionale lavoro molto con 

gruppi  e  seminari  di  formazione  alla  conduzione  di  gruppi  ….  La  formazione  è  rivolta 

soprattutto ad operatori impegnati in prima linea nell’ interfaccia con reatà più “critiche….”e 

complesse.  

 

I gruppi, alla ricerca di  strumenti e di tracce metodologiche 

Certamente  il  lavoro  analitico  con  i  gruppi  può,  soprattutto  in  questi  tempi,  offrire    nuove 

prospettive  e  nuove  aperture,  attraverso  un’  approfondita  riflessione  sul  metodo,  sui 

linguaggi, sulla ricerca di riferimenti teorici.  L’analisi di gruppo,  affiancata o meno da incontri 

individuali,  può  agevolmente    non  solo  ridurre  i  costi  in  contesti  pubblici  e/o  privati,  ma 

anche  e  soprattutto    aprire  a  nuove  modalità  relazionali  più  flessibili,  facilitando  la 

ricostruzione di reti familiari e sociali sempre più frammentate nel mondo contemporaneo … 

La  formazione  nella  conduzione  di  gruppo  può  inoltre    essere  di  notevole  aiuto    nella  la 

gestione  dei  conflitti,  al  fine  di  arginarne  derive  distruttive  (o  per  lo meno  tentarci),  nelle 

equipe  di  lavoro,  nei  contesti  di  reti  relazionali,  familiari  e  sociali  non  meno  che  nelle 

istituzioni. 

 

Ma  quali  gli  strumenti?  E  come  nei  contesti  transculturali  del  mondo 

contemporaneo?L’uso dei midium come mezzi di comunicazione 

Torniamo  ancora  ad  Italo    Calvino,  alle  sue  “città  invisibili  ed  ai  colloqui  tra Marco  Polo  e 

Kubla Kan… 

“……Nuovo arrivato e affatto ignaro delle lingue del levante, Marco Polo non poteva esprimersi 

altrimenti  che  estraendo  oggetti    dalle  sue  valigie:tamburi,  pesci  salati,  collane  di  denti  di 

facocero, e indicandoli con gesti, salti,grida di meraviglia o d’orrore, o imitando il latrato dello 

sciacallo o  il chiurlio del barbagianni. Non sempre  le connessioni  tra un elemento e  l’altro del 

racconto risultavano  evidenti … gli oggetti potevano voler dire cose diverse … 

Page 45: CIPA Atti S Servolo

..col passare del tempo nei racconti di Marco, le parole andarono sostituendosi agli oggetti e ai 

gesti: dapprima  esclamazioni, nomi  isolati,  secchi  verbi, poi  giri di  frase, discorsi  ramificati  e 

frondosi, metafore e  traslati ……. 

 

Senza  dubbio  i  linguaggi  artistici,  poetici  e  creativi,  espressi  in  ogni  forma  di  arte,  proprio 

perché più morbidi e flessibili, possono più facilmente creare ponti e connessioni attraverso la 

creazione  di  nuovi  linguaggi  in  grado  di  far  nascere  comunicazioni  di  anime  prima  che  di 

intelletti  …  Laddove  la  ragione  si  intoppa,  non  trovando  parole  con  cui  poter  mediare,  i 

linguaggi  per immagini e metafore,che non hanno la pretesa di comprendere e controllare in 

modo unicamente  razionale  la  relazione, ma  solo  il  desiderio di  facilitare ponti …. hanno  la 

possibilità  di  offrire  moltissimo  ….Possono  essere  preziosi  veicoli  per  introdurre  ad  un 

linguaggio che può o meno seguire ed approfondirsi sotto altre forme …“ inventano” spazi di 

espressione e comunicazioni possibili  che facilitano dapprima, la curiosità  e successivamente 

l’incontro …. In questo modo sono in grado di   creare “ponti” o per lo meno “teste di ponte” 

per una possibile relazione Su queste basi è più facile che la relazione prenda forma trovando 

parole che diventano comprensibili anche attraverso la differenza di linguaggi. 

Il lavoro, con maschere e  burattini, lo Psicodramma, la comunicazione col corpo attraverso il 

mimo, il movimento, la danza, la Sand Play, la musica,l’espressione artistica, il Social Dreaming 

… ecc….offrono altrettanti spazi vitali aperti all’ esperienza creativa condivisa … Questa  trova 

espressione attraverso continui dialoghi tra conscio‐inconscio, io‐ altro, individuo‐ gruppo … 

che  continuamente  si  intrecciano  …  Ne  nasce  e  prende  forma  lo  spazio  per  l’emergere  di 

un’identità  non  rigida,  che  continuamente  si  plasma  nel  contesto  …  La  stessa  identità  .nel 

gruppo  può  offrire  appartenenze  temporanee    altrettanto  flessibili,  che  di  volta  in  volta  si 

trasformano  in  relazione  alla  scansione  ed  alla  ritualità  della  cornice    “spazio‐temporale” 

condivisa. 

Certamente    la Psicologia Analitica,  radicata  sul  concetto  di  poliedricità  della psiche  e della 

coesistenza  di  opposti  talvolta  laceranti,  può  aiutare  anche  su  queste  basi  e  con  questi 

linguaggi, nella ricostruzione di  trame narrative. Queste possono a  loro volta   permettere di 

intravedere nuove identità più flessibili individuali e di gruppo, in grado di adattarsi a realtà e 

situazioni nuove senza perdere identità e speranze nel futuro….Su questa fiducia si basa, per 

me , la proposta di ogni lavoro di gruppo . 

 

 

 

Page 46: CIPA Atti S Servolo

Corpi d’acqua­ Omaggio a James Hillman 

Nel  viaggio  di  ritorno,  la  linea  del  primo  traghetto  che  porta  in  stazione  segue  un  altro 

percorso più insolito: un canale più ampio, tra l’isola della Giudecca e il quartiere “Dorsoduro”. 

La strada è più lunga, ma più “veneziana”  ... si  lascia alle spalle i palazzi sontuosi,  il Ponte di 

Rialto ed i fasti della Venezia turistica ….Attraversa luoghi più insoliti, più modesti e dimessi, 

ma  certo  più  autentici.      E’ mattina:  le  persone  che  si  imbarcano  agli  attracchi  si  recano  al 

lavoro,e,  sebbene  in  un  contesto  di  lavoratori  multietnici  parlano  a  gruppi,quasi 

esclusivamente  il  dialetto….Si  inoltrano  nelle  strutture  turistiche,  nei  cantieri  navali….             

Al  porto….navi  di  tutte  e  dimensioni  sonnecchiano  nei  docks,  in  attesa  di,  riparazioni, 

partenze,….le  più  malandate  di  demolizione  ….Un  gruppo  di  gondolieri  esibiscono 

vistosamente striscioni di protesta contro la tumultuosa attuazione di piani e progetti turistici 

che  sembrano  poco  o  nulla  rispettosi  dell’ambiente,  del  contesto  ecologico,  delle  loro 

necessità ed esigenze ….A Venezia anche i negozi di souvenir sembrano non essere più gestiti 

dai veneziani…Una mia ricerca di murrine sfuse non ha dato alcun esito: solo oggetti e gioielli 

pre  confezionati….Forse  è  questo  anche  un  rischio  onnipresente  nella  terapia  e 

dell’analisi…scivolare  impercettibilmente  verso  l’offerta  di  impostazioni  teoriche  irrigidite, 

cornici preconfezionate che possono impoverire o addirittura soffocare la creatività, e limitare 

lo spazio per l’espressione del linguaggio poetico con cui la psiche si esprime ….. 

Tornerò per cercarle direttamente dagli artigiani di Murano …sperando che esistano ancora 

….e non siano stati ancora fagocitati da una multi nazionale… 

 

 “Venezia che muore…Venezia appoggiata sul mare….la dolce ossessione degli ultimi suoi giorni 

tristi  Venezia  la  vende  ai  turisti…  che  cercano  in mezzo  alla  gente  l’Europa  o  l’Oriente,  che 

guardano alzarsi alla sera …il fumo o la rabbia di Porto Marghera…(Francesco Guccini: Venezia) 

 

Intorno acqua…acqua ancora acqua….stormire di gabbiani e leggeri  scrosci d’acqua spostata 

dal procedere del traghetto…. 

 

“Entrare nelle acque  fa allentare  la presa sulle cose, ci consente di mollare  là dove ci si teneva 

aggrappati. 

Nei  sogni di acqua,  l’emozione è generalmente  situata nell’arida  “anima  io”, nell’atto  in  cui  si 

scioglie, e non nelle acque, che spesso sono semplicemente lì, fredde,impassibili, accoglienti. 

Page 47: CIPA Atti S Servolo

Il piacere dell’”anima  immagine”  è dunque  il  terrore dell’    “anima  io”. Nei  sogni quest’ultima 

teme di affogare in un torrente, in un vortice,in un ‘onda, cosa che ancora una volta gli interpreti 

traducono come il rischio di essere  travolti  da una psicosi emozionale… 

Eraclito, come  la Psicologia alchemica, vede  la morte nell’acqua come  la via attraverso cui un 

tipo di terra si dissolve mentre un altro viene ad essere … 

…..L’acqua e  l’elemento specifico del  fantasticare,l’elemento delle  immagini riflessive e del  loro 

incessante ed inaccessibile fluire. (James Hillman da I sogni e il mondo infero”). 

 

  

    

 

 

Page 48: CIPA Atti S Servolo

WORKSHOP N. 2

VOLATILITA', DESTABILIZZAZIONE CRONICA E NUOVE ISTANZE TERAPEUTICHE 

 

 

 

Chairperson:  Angiola Iapoce 

Relatori:       Luigi Aversa 

                            Franco Bellotti 

                                                                                Mara Forghieri, Mia Wuehl, Laura Bottari,                                                                                         Paolo Gallotti, Umberto Visentin  

                         Paola Terrile

Page 49: CIPA Atti S Servolo

 L'ESPERIENZA PSICHICA COME RICERCA DI SENSO 

Luigi Aversa 

 

 

Sarà opportuno considerare l’enorme differenza che vige tra i modelli teorici che stanno alla 

base  delle  varie  psicoterapie,  cognitiviste,  comportamentali,  relazionali,  ecc.  e  invece 

l’esperienza psicoanalitica che, a partire da S. Freud e,  in modo più significativo, con Jung si 

basa sul concetto d’inconscio. 

Tale  differenza  si  esprime  e  particolarmente  si  evidenzia  soprattutto  nella  “necessità”  che 

colui che intende “prendersi cura” dell’altro debba prima “prendersi cura di sé”, ovvero fare la 

stessa esperienza, essere a sua volta paziente, cioè fare esperienza del “patire”. 

Ma di cosa ci prendiamo cura e cosa “patiamo”?  

Cosa sopportiamo? 

Evidentemente  c’è qualcosa  che  “eccede”,  è  “un di più”, qualcosa  che va  “oltre”  la  coscienza 

dell’io. 

Questo qualcosa è ciò che, a partire da S. Freud nominiamo con la parola”inconscio”. 

L’inconscio,  sia  esso  interpretato,  come  voleva  Freud,  come  “rimosso”  oppure  visto  anche, 

secondo l’ottica junghiana, nella sua valenza teleologica ‐ progettuale comunque rappresenta 

un “qualcosa” che eccede e che la coscienza sopporta. Si può non sopportare tutto il peso del 

passato  oppure  la  tensione,  anche  essa  eccessiva  data  dall’inseguire  il  “non  ancora”  del 

desiderio e del progetto futuro. 

E’ proprio questa dimensione specifica, particolare, che segna la differenza determinante tra 

la  theoria  psicoanalitica  che,  a  partire  da  Freud  si  sviluppa  e  che  in modo  più  completo  e 

radicale  si  esprime  in  Jung,  e  le  altre  psicologie  che,  non  contemplando  l’esperienza 

dell’inconscio,  rimangono  inevitabilmente  appiattite  e  chiuse  nell’unico  registro 

dell’adattamento e non si aprono a quel polo di riferimento che Jung ha, in modo appropriato, 

definito “individuazione”. 

Tale  differenza  comporta  alcune  conseguenze:  una  è  di  tipo  epistemologico:  ovvero  se 

l’inconscio ci “eccede” e ci costringe a patire non possiamo organizzarlo e “controllarlo” con 

un modello ma piuttosto acquisire la consapevolezza di essere all’interno di una “theoria”, nel 

senso  greco,  ospiti  cioè  di  una  visione  che  ci  vede  contemporaneamente  autori  ma  anche 

Page 50: CIPA Atti S Servolo

personaggi, dobbiamo quindi, pur non rinunciando alla teoria, avere una visione del mondo, 

una Weltanschauung. 

La  seconda  conseguenza  è  di  tipo  esperienziale:  l’esperienza  dell’inconscio,  in  quanto 

“eccedenza”  ci  costringe  a  vivere  continuamente  sul  “filo  della  metafora”,  in  una  continua 

ricerca cioè di ciò che”ci porta fuori”, come direbbe Jung di “trascendere” ciò che acquisiamo e 

questo ci induce a concepire l’esperienza psichica come continua ricerca di ciò che può avere 

un senso. 

Il senso infatti non è mai qualcosa di acquisito in modo definitivo, non è infatti un significato 

ma,  come direbbe B.Pascal,  contiene  sempre  in  sé  l’inquietudine del  varco  sul non‐ definito 

che continuamente ci pro‐ voca.  

E’ proprio questa pro‐vocazione,  il  senso di questa domanda che diviene  il  filo d’Arianna su 

cui si snoda il discorso e l’esperienza psicoanalitica che, come ben dice J.Lacan, è soprattutto 

tematizzazione e senso della domanda. La terapia psicoanalitica è soprattutto comprensione 

dell’esperienza  del  domandare,  diversa  quindi  da  quelle  modalità  terapeutiche  soprattutto 

preoccupate di fornire risposte. 

La domanda infatti pone il problema di chi sia il soggetto del domandare che è proprio quello 

che ci caratterizza nella nostra specifica e unica soggettività. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Page 51: CIPA Atti S Servolo

 

IL TEMPO DELLA VITA COME UN ADEMPIMENTO  

Franco Bellotti     Interrogarsi  su  come  è  cambiata,  nella  attuale  fase  storica,  la  nostra  relazione  nei 

confronti  della  temporalizzazione,  può  forse  darci  un  aiuto  a  capire  anche  come  si  è 

modificata la domanda terapeutica.  

L’essenza della temporalità che caratterizza i nostri tempi, diversamente da quella del secolo 

scorso,  legata  alle  idee  di  progresso  e  di  sviluppo,  è,  o  sembra  essere,  quella  di  un  tempo 

transitorio  ed  effimero.  Un  tempo  privo  di  tradizione,  in  cui  il  passato  si  volatilizza  in  un 

presente  dato  da  un  continuum  senza  soluzione  di  continuità;  un  tempo  che  mortifica 

soprattutto  la  temporalità  discontinua  dell’esperienza  individuale,  consegnandola  così  alla 

sola dimensione del contingente.  

Un  presente  contingente  che  non  lascia  spazio  alla  necessaria  dialettica  fra  la  figura  della 

Persona  e  la  propria  individualità,  dialettica  nella  quale  Jung  inscriveva  quel  processo  che 

dura tutta la vita e attraverso il quale costruiamo un senso immanente al nostro vivere.  

L’individualità  sembra,  perciò,  essere  rinchiusa  solo  in un presente  in  cui  l’unica  figura  che 

viene  riconosciuta  è  quella  sociale.  Una  figura  sempre  più  chiusa  in  un  vissuto  temporale 

anonimo e meccanico, calcolante e ripetitivo, omogeneo e vuoto. Una figura legata, dunque, ad 

una temporalità opposta al movimento dialettico fra la propria unicità scandita da un tempo 

discontinuo e il tempo cronologico.  

L’analisi  junghiana,  a  fronte  di  un  simile  temporalizzazione  in  cui  sembra  racchiusa  la  vita 

presente,  può  proporre,  diversamente  forse  dalle  altre  psicoterapie,  il  pensiero  che  gli  è 

proprio, un pensiero polare  così  come ce  l’ha proposto  Jung. Un pensiero  che non  tende ad 

una  sintesi,  come  richiede  il  tempo  omogeneo, ma  un modo  di  guardare  alla  vita  in  cui  gli 

estremi persistono in una tensione tale per cui ciò che è originario viene sempre riattualizzato 

dialetticamente nel divenire.  

Un  pensiero  che,  diversamente  da  quello  obiettivante,  che  riduce  la  vita  psichica  a  un  già 

previsto, o che crede di rappresentare la realtà specularmente, si nutre invece delle disattese, 

delle  interruzioni,  della  discontinuità  attraverso  cui  prende  forma,  appunto,  la  vita.  In  altre 

parole,  un  pensiero  che  non  cerca  conferme  in  un  già  dato,  quanto  piuttosto  è  attento  alle 

smentite che la realtà e gli altri possono offrire; smentite che rompono la continuità del tempo 

omogeneo e la linearità in cui si pretende inscrivere il corso della vita.  

Page 52: CIPA Atti S Servolo

La  destabilizzazione,  se  così  possiamo  dire,  che  vivono  i  nostri  pazienti  dipende 

probabilmente  proprio  dalla  mancanza  dello  scambio  dialettico  fra  ciò  che  di  loro  è  più 

proprio  con  ciò  che  è  collettivo,  con  la  conseguenza  di  identificarsi  in  quest’ultimo 

mortificando il primo.  

Intendere  la  vita  come  un  “adempimento”  significa  perciò  rompere  il  continuum  del  tempo 

omogeneo  che  inchioda  l’individualità  a  un  destino,  attraverso  un  processo  che  fa  della 

discontinuità  della  vita  il  suo  punto  di  partenza.  Liberare  l’individuo  da  un  destino  in  cui 

l’originario si presenta più come una condanna che come una risorsa, un destino che obbliga 

l’espressione della sola dimensione psichica, quella della Persona, che il palcoscenico sociale 

gli permette.  

Considerare la vita come un adempimento vuol dire, perciò, riattualizzare nel tempo presente 

l’originario  sincronicamente  al  tempo  futuro,  in  modo  da  aprire  a  dimensioni  psichiche 

altrimenti chiuse alla sola dimensione collettiva.  

“L’origine è la meta”, scriveva non a caso Karl Kraus agli inizi del novecento, proprio perché 

alla  crisi  del  sistema  classico  e  contro  un’ideologia  borghese  appiattita  sul  presente,  si 

cercavano  anche  allora  risposte  fondative  per  un  futuro  che  non  perdesse  il  legame  con  la 

tradizione. 

E’ stato Walter Benjamin, anche lui, non a caso, all’inizio del secolo scorso, a mostrarci come 

l’originario  che  non  si  redime  in  un  futuro  si  presenta  come  arcaismo  complementare  al 

tempo  continuo  del  progresso.  Arcaismi  complementari  a  un  pensiero  unilateralmente 

appiattito  solo  su quello  rappresentativo‐produttivo,  tanto da  lasciare  sempre più  spazio  al 

loro emergere in molteplici aspetti della vita. Jung avrebbe detto parti d’ombra compensatorie 

al pensiero indirizzato.  

Una dimensione, quella arcaica, che emerge tanto più viene meno il rapporto con la tradizione, 

dove  il  vissuto  presente  è  senza  un  passato  e  senza  un  futuro,  dove  gli  individui  vivono 

nell’interesse privato più angusto e contemporaneamente sempre più determinati e aderenti 

ad un istinto di massa.  

Una  tradizione  da  recuperare,  dunque, ma  non  nel modo  che  ci  ha  proposto Hegel  e  i  vari 

pensieri  storicistici,  i  quali  la  inscrivono  in  un  tempo  progressivo  dello  spirito,  o  peggio 

ancora,  come  chi  la  propone  come  restaurazione  di  un  tempo  passato  da  trasmettere  alle 

generazioni  future;  questa  tradizione  guarda  al  passato  per  la  sua  conservazione, 

proiettandolo in una dimensione solo collettiva.  

La tradizione di cui parla Benjamin non va recuperata attraverso la restaurazione di qualcosa 

che è  già  stato,  essa  emerge nella discontinuità della vita presente,  come un  sintomo,  come 

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disconferma  delle  attese  del  tempo  omogeneo.  Una  tradizione,  perciò,  che  non  è  legata  ai 

ricordi, quanto a un riconoscere nell’estraneità di ciò che emerge, ciò che invece è familiare.  

Una  tradizione  che  per  essere  riconosciuta  richiede  un’attenzione  del  tutto  particolare, 

un’attenzione  passiva  e  non  diretta  intenzionalmente  ad  uno  scopo,  un’attenzione  legata, 

dunque, ad un sentire che viene da fuori e richiama un interno. Un’attenzione di competenza 

della corporeità e delle sue sinestesie e non di una rappresentazione mentale; William James 

la chiamava “attenzione passiva involontaria”.  

Una attenzione che nell’incontro terapeutico si concretizza in un atteggiamento “attenzionale” 

diverso dalla freudiana attenzione fluttuante, essa non si riferisce ad un’attività mentale, ma 

ad un stato che la precede, un stato “affetto” da un movimento inverso a quello di una mente 

che riflette tutta sola sui propri stati mentali.  

E’ vero che lo psicoanalista utilizza il proprio apparato psichico come strumento conoscitivo, 

ma questo non è riconducibile ad una relazione di tipo epistemico rappresentativo, non può 

essere  tradotto  in  una  rappresentazione  dello  stato  della  coscienza,  tipico  dell’empirismo 

sensualistico,  e  tanto  meno  la  coscienza  di  uno  stato,  che  caratterizza  il  mentalismo.  La 

rappresentazione riguarda, dunque, un’attività della mente, mentre  la psiche si esprime per 

immagini che risvegliano stati emotivi, la cui descrizione è simile a quella di un testimone che 

racconta una situazione in cui è implicato.  

Alle  rappresentazioni  mentali  non  corrispondono  specularmente  eventi,  realtà  interne  o 

dell’altro, come crede il pensiero obiettivante, l’esperienza di uno stato interno è l’esperienza 

della  parola  che  lo  esprime  e  lo  comunica,  ciò  che  viviamo  è  l’esperienza  dell’espressione 

simbolica. 

La  referenza  della  rappresentazione  è  solo  traslata,  non  accede  in  modo  diretto  ai  propri 

sentimenti,  emozioni  e  intenzioni,  assolve  solo  al  compito  di  indicare  una  determinata 

interpretazione  e  non  rimanda  mai  all’osservazione,  questa  sì  diretta,  della  percezione 

sensibile  e  alla  sua  possibilità  di  dare  corpo  a  ciò  che  si  mostra;  “il  visibile  è  ricavato  dal 

tangibile”, scriveva Merleau‐Ponty nella sua ultima opera.  

L’originario è, perciò, temporalmente modulato nei processi psichici che prendono forma nel 

flusso della relazione analitica, nel qui ed ora dello scambio linguistico fra paziente e analista. 

I  sentimenti,  le  emozioni  e  le  idee  vengono  riconosciute  quando  vengono  dette,  quando 

emergono  nel  dialogo  terapeutico  che  si  nutre  di  una  temporalità  in  cui  non  è  possibile 

prevedere  e  sapere  in  anticipo  cosa  si  dirà.  L’esperienza  che  viene  espressa  dal  e  nel 

linguaggio ordinario, attraverso il quale avviene dialogo analitico, proprio perché è la lingua di 

tutti  non  rimanda  solo  a  un  vissuto  personale  e  privato,  ma,  se  pur  in  modo  impreciso  e 

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confuso, sempre alla ricerca della parola giusta, richiama una forma pubblica di condividere 

l’esperienza  umana.  La  sua  referenza  è  la  vita  con  le  sue  passioni  e  le  sue  sofferenze,  essa 

traccia  di  ciò  che  non  è  linguistico, ma  il  cui  senso  si  offre  all’intuizione  nel  presente  della 

relazione.  La  referenza  del  linguaggio  ordinario  si  nutre  di  una  intimità  più  profonda  della 

rappresentazione teorica, perché la vita reale, per quanto scandita da un tempo cronologico, 

non scorre su un piano lineare, ma sulla coappartenenza di un tempo passato e di un tempo 

futuro; il soggetto, nella temporalità, è costantemente altro da sé.  

“Noi  –  scriveva  sempre Merleau‐Ponty  ‐  non  comunichiamo  con  la  logica  delle  parole  o  col 

chiuso  del  nesso  linguistico  fra  significante  e  significato:  comunichiamo  con  quanto  nelle 

parole vi é di gesto, di atto vivo e presente che sventa il sillogismo aristotelico e, solo, 'dice' il 

nostro indicibile tempo". 

La  sensibilità  nella  relazione  analitica  verso  questo  atteggiamento  che  abbiamo  chiamato 

“attenzionale” si propone come nuova istanza terapeutica proprio perché non è riducibile ad 

una  tecnica,  anzi  è  un  modo  di  pensare  opposto  al  pensiero  tecnico‐riproduttivo.  Per 

l’atteggiamento attenzionale conoscere è un “ri‐conoscere” e un “ri‐spondere” alla domanda 

che ci viene dall’altro, nel senso etico ed etimologico che la parola responsabilità significa.  

Il  riconoscere non dipende, perciò, da una  identificazione sul presunto  funzionamento della 

mente dell’altro attraverso una impossibile dissoluzione di ciò che è proprio, né tanto meno è 

riconducibile ad una supposta capacità introspettiva che presuppone la possibilità di riflettere 

specularmente su un vissuto come se fosse un oggetto.  

Queste forme del pensiero, tutte mentali, si precludono di cogliere il modo di darsi dei vissuti, 

compresa l’espressione del modo d’essere di colui a cui appartengono quei vissuti. L’incontro 

con  l’altro,  soprattutto  in  analisi,  non  è  riducibile,  l’abbiamo  già  detto,  ad  una  conoscenza 

epistemica,  quanto  piuttosto  ad  una  conoscenza  che  si  acquisisce,  scrive  Wittgenstein, 

attraverso  la  partecipazione  ad  una  forma  di  vita.  Una  conoscenza  che  non  cerca  certezze 

conoscitive, ma una visione di  ciò  che è apparentemente  invisibile data una  “fondamentale” 

predisposizione “attenzionale” radicata nella propria sensorialità.  

 

 

 

 

 

 

 

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 L'INVIDIA 

  Mara Forghieri, Mia Wuehl, Laura Bottari, Paolo Gallotti, Umberto Visentin 

   Abbiamo pensato fosse un buon contributo‐stimolo trattare l'invidia in questa sede, cioè una 

sede di confronto, e porto due “nodi” dell'invidiare. 

Il 1° nodo  l'abbiamo denominato: l'invidia dell'asino. 

Il 2° nodo: l'invidia del pezzo. 

Questi nodi si integrano. 

Oggi  i  pazienti  che  vengono  a  bussare  alla  nostra  porta,  chiedono  uno  “smaltimento”  dei 

sintomi, per potersi meglio adattare, alle regole della società e  la domanda di cura, spesso è 

legata  alla  necessità  di  guarire  nel  senso  di  sgombrare  la  vita,  da  ciò  che  fa  soffrire,  senza 

passare dalla comprensione e dalla fatica. Sofferenza psichica considerata come un virus, che 

aggredisce.  

Uomini  sempre  più  soli  e  confusi,  che  licenziano  la  parte  più  viva  di  sé,  per  aderire  alla 

coscienza collettiva. 

 

1° nodo. L'invidia dell'asino è riassumibile nel contrario di quello che succede nella favola di 

Pinocchio. 

Pinocchio, per passare dal legno alla carne, per diventare un bambino vero, per non diventare 

un  asino,  deve  lottare,  lavorare,  riflettere,  sacrificare,  piangere,  rinunciare...Solo  così  può 

diventare di carne.  

Ma se un paziente ti chiede di diventare un asino? 

Il paese dei balocchi è la sua meta, il Grillo‐coscienza viene preso a martellate e l'asino non fa 

paura, ma è ammirato e  invidiato. Ha potere,  ricchezza e riconoscimento sociale. Ha ciò che 

conta. 

Se l'invidia è il tormento dell'impotenza, invidiare gli asini, cosa può significare? 

Quale cura possiamo offrire? E non solo, può essere invidiata la capacità di fare del Male? 

Stiamo assistendo ad una ricategorizzazione del Male e dell'Ombra: viene invidiato chi ruba e 

chi la fa franca. 

C'è invidia per la disonestà che crea potere. 

 

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2° nodo. Oggi viviamo nella mostruosa società “del pezzo”! 

Pezzi di corpo mostrati e invidiati, pezzi di vita, oggetti che stanno al posto delle relazioni. 

Ciò che viene ambito può essere veramente di  tutto: oggetti,  titoli di  studio,  soldi,  fidanzati, 

parti del corpo... 

A  volte  assieme  all'ostilità  per  il  soggetto  che  possiede,  coabita  l'ammirazione,  per  ciò  che 

viene posseduto dallo stesso. 

“Provo odio per quel politico, ma sono ammirato dalla sua capacità di truffare”. 

“E' sgradevole quella ragazza ma ammiro il suo look”. 

“Detesto la velina, ma ammiro il suo corpo”. 

Risulta  arduo  il  compito  di  mettere  assieme  sentimenti  malevoli  con  sentimenti  di 

ammirazione? 

Sembrano contrari: disprezzabile, spregevole e il suo contrario apprezzabile, ammirevole. 

Odio lì e ammiro là...come se non facessero parte del tutto. 

Invidio un pezzo, una parte. 

Si configura una frammentazione, dove conformità e individuazione situati agli antipodi, non 

generano ponti possibili. 

 

La soluzione è complessa: intersoggettiva, sociale e perfino politica. 

Noi  come  terapeuti  abbiamo  il  compito  di  stimolare  i  contenuti muti,  una  sorta  di  sfida  al 

vuoto e all'impotenza generati dall'invidia, e far emergere quella possibile energia creativa in 

grado di configurare altre vie possibili, altri modi di vivere. 

E' sempre “il  tormento dell'impotenza” che oggi più che mai, viene superato con la ricerca a 

volte esasperata e patologica, della potenza. Calpestando tutto e tutti e sé stessi. Calpestando il 

vero Sè che abdica al falso Sè. 

Tutto si consuma nella coscienza collettiva, abbracciata allo stereotipo. La necessità è quella di 

andare  fuori  dai  luoghi  comuni  e  dai modelli  precostituiti  della  contemporanea  società  dei 

consumi. 

Se  tu  invidi  la  “velina  rifatta”,  sicuramente  dietro  c'è  una  bambina  piccola  e  impotente  che 

vede in quella potenza, la soluzione ad ogni suo problema. 

Il tentativo è sempre quello di recuperare il potere perso, come la società insegna, attraverso 

un corpo o un pezzo di corpo, rifatto a regola d'arte. 

Aiutare quella bambina sola e impotente a de‐invidiare vorrebbe dire aiutarla a smascherare 

oggetti‐parti‐pezzi... a smascherarsi per far fluire il Sè. 

Questo  è  il  compito  analitico.

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MODELLI RELAZIONALI IN PSICOTERAPIA: LA BELLEZZA

DEL RAGIONARE NELL’ETICA

Paola Terrile

Aprirò  la mia  riflessione  sulla  dimensione  etica  nel  lavoro  terapeutico  con  due  pensieri  di 

Zygmunt Bauman, tratti da un saggio di alcuni anni fa sull’etica nella società postmoderna (“Le 

sfide dell’etica”, Feltrinelli, Milano 2010). Il sociologo vede nel “vagabondo” e nel “turista” due 

metafore  tipizzate  che  ben  rappresentano  l’uomo  postmoderno:  il  primo  è  “un  pellegrino 

senza meta, un nomade senza itinerario”, che viaggia attraverso uno spazio non strutturato e 

che  lui  stesso  struttura  quando  gli  capita  di  occuparlo,ma  sempre  temporaneamente,  e 

distruggendolo  quando  se  ne  va.    “Ciò  che  lo  spinge  a  spostarsi  è  la  disillusione  subìta 

nell’ultimo  luogo  in  cui  ha  sostato  e  la  speranza  sempre  viva  che  il  prossimo,  in  cui  non  è 

ancora  stato,  possa  essere  privo  dei  difetti  che  lo  hanno  respinto  nei  luoghi  già 

visitati”.(p.245)  Il girovago è attratto da una speranza che non si è ancora avverata, spinto da 

una speranza frustrata … 

Il turista sa che non rimarrà a lungo nel luogo in cui è arrivato. Come il vagabondo, egli vive in 

una  dimensione  extraterritoriale,  ma  a  differenza  sua  possiede  una  capacità  estetica,  una 

”curiosità, bisogno di divertimento e l’attitudine a vivere nuove e piacevoli esperienze” che dà 

al turista una” libertà quasi totale di costruire lo spazio del suo mondo di vita”(245).Vive il suo 

essere  extraterritoriale  come  privilegio,  diritto  di  essere  libero  di  scegliere.  Il  girovago  e  il 

turista attraversano spazi in cui vivono altre persone, ma hanno con loro incontri brevissimi e 

superficiali. 

“Una cosa che le vite del vagabondo e del turista non comportano, e sono spesso dispensate 

dal  comportare,  è  l’ingombrante,  paralizzante,  deprimente,  angosciante  fardello  della 

responsabilità morale.”(247)  Infatti,  nella  spersonalizzazione  cui  il  suo  ruolo  lo  spinge,  nel 

fare( vale  soprattutto per  il  turista)  ciò che  tutti  fanno, non c’è  spazio per  la  “prossimità,  la 

responsabilità  e  l’unicità”  che  costituiscono  il  soggetto  morale  (247).  I  tipi  umani  del 

vagabondo  e  del  turista  si muovono  per  il  mondo  non  come  persone marginali,    ma  come 

modelli, come criteri generali di felicità e di successo”. 

In  questo  quadro,  ed  è  questo  il  secondo  dei  pensieri  di  Bauman  dal  quale  mi  sembra 

importante prendere  le mosse, che ne è dell’  io morale? Di “quell’impulso non razionale,non 

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spiegabile, privo di giustificazioni e non calcolabile a protendersi verso  l’altro, accarezzarlo, 

essere per, vivere per,  qualunque cosa  ciò comporti”? 

Secondo  Bauman  la  responsabilità  morale  (“essere  per  l’Altro  prima  di  poter  essere  con 

l’Altro”) è  la prima realtà dell’Io, un punto di partenza che precede ogni coinvolgimento con 

l’altro.  Con  la  sua  ambivalenza  intrinseca,  la  responsabilità morale  precede  qualsiasi  codice 

etico  che  abbia  pretese  di  universalità,  e  rappresenta  “la  più  personale  e  inalienabile  delle 

proprietà umane, e il più prezioso dei diritti umani”. 

Mi sposterò ora nello studio psicoterapeutico, cui approdano oggi molti  girovaghi­ vagabondi 

e    molti  turisti  che  si muovono  veloci  e  leggeri  in  un mondo  pieno  di  promesse  piacevoli, 

finché qualcosa di indefinito li rende pesanti e li costringe dolorosamente a fermarsi.  

Un sogno scelto tra molti rappresenta una limpida metafora della complessità della relazione 

terapeutica nei tempi odierni. Si tratta di un sogno in due tempi, costituito  cioè di due parti, 

sognate  in due notti consecutive.  Il sognatore è un uomo di mezza età,  in analisi da qualche 

anno. 

Parte prima: “Mi trovavo in Val…(una vallata del torinese), decidevo con un amico di recarmi a 

piedi  da  un  paese  all’altro,  lungo  la  strada  statale. Mi  accorgo  dopo  un  po’  che  il  traffico  è 

intenso e che non è una passeggiata piacevole, decido perciò di tornare indietro, recuperare 

l’auto  e  andare a …(un paese di una vallata  contigua,  in  cui  il  sognatore ha  trascorso molte 

estati piacevoli durante la sua infanzia). Si sta facendo sera, per cui accelero il passo. 

Provo  a  fare  autostop,  senza  successo.  Fermo un pullman, ma  sono  lontano dalla  fermata  e 

passa oltre. 

Continuo a camminare velocemente, sempre più deciso a raggiungere la mia meta. Ad un certo 

punto vedo un gabbiotto  che vende biglietti, mi fermo ad acquistarne uno per poter salire sul 

prossimo pullman”. 

Parte seconda: “Sto raccontando questo sogno (quello appena descritto) all’analista: entrambi 

siamo  in  bici  in mezzo  al  traffico  intenso    di  un  corso  cittadino,  c’è molto  rumore,  suoni di 

clacson, odori di gas di scarico. La situazione è pericolosa, non si può pedalare affiancati. Per 

farmi sentire devo parlare a voce molto alta, tanto forti sono i rumori. Continuo, comunque, a 

raccontare il mio sogno. 

Ad un certo punto ci fermiamo ad un semaforo rosso, ora posso affiancare la mia bici a quella 

dell’analista: ma  i  rumori  del  traffico  intenso  continuano  ad  essere  egualmente  disturbanti, 

devo quasi urlare per farmi sentire. Ne sono molto  infastidito”. 

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Proviamo a prendere in considerazione il modello di relazione che ricorre nelle  immagini di 

questo  sogno,  considerandolo  un  racconto:  prendiamo  le  mosse  dalla  parte  seconda  ed 

andiamo a ritroso. 

Il  protagonista  vuole  raccontare  un  suo  sogno  all’analista,  ma  le  circostanze  non  sono 

propizie. Il mondo esterno, nel quale entrambi si muovono pedalando in bicicletta in mezzo al 

traffico veloce delle automobili, disturba e rende faticoso il compito di raccontare il sogno, con 

l’intrusione di rumori, odori sgradevoli, velocità di mezzi a motore che rendono pericoloso il 

muoversi della coppia analizzando‐analista . Eppure il racconto riesce a proseguire, grazie alla 

tenacia del paziente che forza la sua voce per farsi intendere, e dell’analista che lo ascolta. 

Che cosa c’è di  importante nel sogno che  il paziente vuole a  tutti  i  costi condividere? Anche 

nella parte prima c’è un muoversi, c’è il disturbo del traffico, c’è una meta da raggiungere che 

diventa man mano  sempre più  chiara,  e  che  riguarda  il  rapporto  con un passato di  vitale  e 

significativa  importanza, nel quale    il paziente potrebbe ritrovare  il  contatto con un’energia 

vitale  che  a  lungo  gli  è mancata.  Appena  gli  diviene  chiaro  qual  è  la  sua meta,  il  sognatore 

cambia direzione e il suo muoversi diventa progressivamente più mirato. Il sogno termina che 

il  cammino  sembra  avviato,  il  sognatore  sa  dove  vuole  dirigersi  e  sta  cercando  i mezzi  per 

arrivarci.  

Ma  il  rumore  del mondo  è  in  agguato,  e  ritorna  nella  parte  seconda  in  forma  di  invadenza 

pericolosa,  che  costringe  la  coppia  analitica,  che  procede  su  un  mezzo  fragile,  precario  ed 

esposto ai rischi, a muoversi nel rumore e nella fretta, rischiando ad ogni istante la vita e di  

non riuscire ad afferrare la meta, cioè il sogno, la parola simbolica che crea il ponte tra noi e 

noi, che acqueta il dolore e allontana dall’angoscia. Resta però in primo piano fino al termine 

del sogno  una tensione verso il racconto, cioè verso la relazione con la dimensione profonda  

(qui  sorge  la  domanda:  la  tensione  verso  il  raccontare  il  sogno,    cioè  verso  la  relazione 

profonda, contiene  già una valenza morale?). 

 L’immagine  finale  di  questo  sogno  mi  riporta  col  pensiero  a  tante  situazioni  che 

quotidianamente  tornano  nel  lavoro  con  i  pazienti  “figli  del  nostro  tempo  frammentato  ed 

incerto”:  sofferenti, ma al tempo stesso incapaci di dare voce e di entrare in relazione con la 

propria  sofferenza.  Il  rumore  che  impedisce  di  ascoltarsi  e  di  farsi  ascoltare,  e  che  sembra 

davvero difficile da tacitare, è prima di tutto dentro di loro.  

Al tempo stesso, l’impulso che muove il protagonista del sogno sopra citato sembra anch’esso 

difficile  da  tacitare:  la  lotta  contro  il  tempo  per  arrivare  prima  del  buio  al  paese  della  sua 

infanzia  (un  luogo  frequentato  prima  che  l’ansia  e  la  depressione  s’impadronissero 

stabilmente di  lui),  lo  sforzo per  continuare a narrare anche quando  intorno  tutto  congiura 

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contro.  Questa  tenacia  acquisisce  nella  scena  delle  biciclette  una  sua  plasticità:  le  persone 

sono  due,  e  una  delle  due  si  sforza  per  fare    arrivare    la  sua  voce,  una  voce  che  parla  di 

qualcosa di importante, all’altra.  

Ma che cosa rende così arduo, frammentario e dall’esito incerto, il  compito di comunicare con 

un’altra persona, anche quando in apparenza lo  si desidera? 

L’analisi,  nata  come  cura  attraverso  la  parola  e  quindi  attraverso  la  relazione,  si  scontra  al 

giorno    d’oggi  con  l’incapacità  di molti  pazienti  di  entrare  in  relazione  con  sé  stessi  e  con 

l’altro,  in  una  relazione  che  non  sia  di  mero  stampo  utilitaristico.    Frammentati,  passivi,  

questo tipo di pazienti si presenta a noi  in forma di individui persi nella ripetizione di sintomi 

che sembrano difficili da sradicare, in  quanto la loro stessa identità appare fondata su di essi. 

Inoltre, non  immaginano neppure di poter avere un  ruolo nella  riconquista di un equilibrio 

psichico; si presentano al terapeuta seduta dopo seduta, come esseri umani molto sofferenti, 

con  i  quali  nonostante  i  nostri  strumenti  terapeutici  risulta  molto  difficile  raggiungere 

un’autentica comunicazione. 

Spesso  le  sedute  con  i  pazienti  sono  piene  di  mondo  e  vuote  di  soggettività.  Il  mondo  del 

lavoro  li costringe e li schiaccia in relazioni fredde e prive di senso, senza che essi riescano ad 

immaginare un’alternativa;    il mondo di relazioni umane    in cui vivono, costruito su ruoli di 

superficie e su dinamiche utilitaristiche, spesso subìto senza protestare,  ci viene registrato da 

racconti  privi  di  emozione,  sempre  uguali.  Senza  poter  fare  altro,  dato  che  interpretare  è 

impossibile,  il  terapeuta  sta  con  il  paziente  ed  ascolta,  accogliendo  i  racconti  ripetitivi  e  la 

sofferenza apparentemente senza senso né via d’uscita della persona che gli siede di fronte.  

Eppure ciò che prende forma e corpo nel corso di sedute apparentemente tutte uguali è   un 

modo  di  relazionarsi.  Infatti,  poiché  le  teorie  di  riferimento  si  rivelano  parzialmente 

inadeguate a leggere la natura del malessere contemporaneo, poiché ci troviamo di fronte  a 

persone  lontanissime dalla dimensione simbolica, anche  intesa unicamente come riflessione 

cosciente su di sé, accade che il terapeuta si ponga  davanti al paziente semplicemente come 

essere umano,  limitandosi appunto a stare con lui. 

Questo “stare con” ha tuttavia caratteristiche particolari: l’analista accoglie empaticamente le 

parole del paziente,  si mette comunque in relazione con esse, reagisce ad esse, commenta.  

In  tutto  ciò  non  c’è  in  prima  istanza  una  comprensione  del  malessere  del  paziente,  che 

peraltro non ci chiede di aiutarlo a capire perché spesso la comprensione cognitiva ce  l’ha  già 

e sa quanto sia inutile a dare sollievo: c’è però un modello umano antico e nuovissimo per chi 

è nato nell’era del virtuale. E’ il modello dell’esserci in carne ed ossa, uno di fronte all’altro, in 

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modo  gratuito,  e  del  sentirsi  ascoltato  ed  accolto  in  quanto  persona:  potremmo  definire 

questo modello il dono del saper stare. 

Questo  modello  contiene  in  nuce  una  dimensione  etica  in  quanto  l’analista,  con  la  sua 

presenza e la qualità del suo ascolto, propone  concretamente un modello di relazione fondato 

sull’autenticità, sul rispetto per l’ altro, sul cercare  un senso alla sofferenza. 

Inoltre  l’analista,  nell’attingere  alla  propria  esperienza  umana  più  che  alle  teorie  di 

riferimento,  trasmette  al  paziente  mediante  il  legame  analitico  emozioni  connesse  al  suo 

esserci  nel  campo  terapeutico,  come  la  sollecitudine,  la  speranza,  la  curiosità,  il  coraggio,  il 

tendere verso un fine, il sopportare la perdita ed altre ancora. 

Queste  emozioni    costituiscono  un  vero  assetto  valoriale  che  ha  un  effetto maieutico,  aiuta  

cioè  il  paziente  a  recuperare  la  funzione  del  sentimento  come  organizzatrice  della 

trasformazione  profonda  del  proprio  stare  al  mondo  (v.  Sandra  Buechler,  “Valori  clinici, 

Milano, Cortina 2012). 

Quella  che    Carl Gustav  Jung  chiamava  “equazione personale”,  cioè  l’impronta  che  l’analista 

conferisce  al  lavoro  terapeutico,  con  il  proprio  personale  modo  di  condurre  la  terapia  ma 

anche  con  la  propria  personalità,  assume  quindi  un  ruolo  centrale  e  determinante  nella 

relazione, e quindi nel favorire l’emergere della coscienza morale del paziente. 

Un altro importante aspetto della dimensione etica del legame è il prevalere della dimensione 

affettiva  all’interno  del  setting:  l’analista  sente  il  vissuto  del  paziente  e  cerca  di  entrare  in 

dialogo con   esso. In alcuni casi resta a  lungo un dialogo tra sordi, poiché il paziente non ha 

invece alcuna percezione di sè e quindi del proprio sentire.  

Nondimeno,  nell’esperienza  dello  stare  in  due  all’interno  della  stanza  d’analisi,  per  lungo 

tempo,  nella  pesantezza  del  sintomo  e  nell’assenza  di  qualunque  percepibile  dimensione 

simbolica, è già presente un altro aspetto della dimensione etica (vedi il sogno della bici):  

 la  tenacia  di  un  essere  umano  che  lotta  per  stare meglio,  per  trovare  un  senso  al  proprio 

essere al mondo. E che dalla tenacia di un altro essere umano, che sta con lui  lottando a sua 

volta per la sua salvezza, trae esempio e stimolo. 

Nel malessere del paziente, quindi, è già  implicita   una forte tensione verso  l’acquisizione di 

valori, che arriva ad esplicitarsi proprio nel prendere forma di un modo di  relazionarsi in cui 

la domanda: ”Che cosa è un valore per me? Che cosa ha senso?, diventa il cardine intorno al 

quale nasce,  si  sviluppa e  si  organizza  la  coscienza.  Il modello  relazionale  che emerge nella 

relazione terapeutica contiene quindi un’impronta  etica in quanto, attraverso l’esperienza del 

prendersi  cura,  conduce  il  paziente  a  scoprire  il  valore  fondante  della  coscienza  morale 

nell’equilibrio di ogni essere umano. 

Page 62: CIPA Atti S Servolo

(Lo  “stare  con”,  aiutando  l’altro  a  smascherarsi,  costituisce  a  mio  parere  un  modello  di 

relazione  valido  anche  nel  processo  educativo:  lo  stare  con  il  bambino  gli  permette  di  non 

mascherarsi, attraverso la negazione dei propri atti o mediante l’idealizzazione di sé come il 

bambino migliore). 

Il  primo  aspetto  già  presente  all’interno  di  questa  lotta  per  il  proprio  senso,  che  si  scopre 

all’improvviso alla coscienza del paziente,  è la bellezza e l’aspetto dirompente della relazione 

autentica. 

Una vignetta clinica ci aiuterà a comprendere questo passaggio trasformativo. 

Anita viene  in analisi da diversi anni. Quando inizia  l’analisi è una donna che ha superato  la 

trentina,  ma  si  vive  come  più  giovane,  come  un’eterna  ragazza  inadeguata  alla  vita.  Ha  un 

ruolo di responsabilità in una grande azienda, vive  sola, tende a sentirsi diversa ed inferiore 

anche  rispetto  alle  altre  donne;  in  particolare,  pur  non  avendo  difficoltà  nell’intraprendere 

contatti con essi, ha difficoltà a relazionarsi in modo stabile con gli uomini.  

Negli anni l’analisi la aiuta a conquistare maggiore autonomia rispetto ad una famiglia molto 

invasiva, ad assumere maggior iniziativa nell’ambiente di lavoro, e da due anni  è finalmente 

riuscita  ad  intraprendere una  relazione  stabile  con un  coetaneo.  L’analisi  è  però  insidiata  e 

bloccata,  in  un modo ricorrente negli anni e che  sopravvive alle trasformazioni avvenute nel 

modo di  stare  al mondo della paziente,  da uno  schema di  relazione  con gli  altri  e  con  sé  al 

quale  la paziente  appare pervicacemente attaccata; uno  schema che  torna a manifestarsi  in 

maniera  massiccia  ogni  volta  che  Anita  si  trova  in  difficoltà,  di  fronte  ad  un  dubbio,  alla 

necessità  di  fare  una  scelta.  In  queste  occasioni  la  paziente  assume  un  atteggiamento 

vittimistico  e  deresponsabilizzato,  che  pare  inattaccabile  da  qualunque  parola  o 

interpretazione e che si manifesta già nell’espressione del volto allorché  giunge in seduta. Un 

volto immobile ed inespressivo che si muove solo per dar voce a parole di autoaccusa sempre 

uguali  a  sé  stesse,  o  per  fare  sgorgare  lacrime  non  liberatorie,    ma  semplicemente 

corroboranti  l’impotenza  e  un’identità  negativa  che  in  quei  momenti  sembra  alla  paziente 

l’unica possibile per lei. 

Di  fronte  a  quello  che  assomiglia  ad  un  vero  nucleo  scisso,  l’analista  non  ha  scelta  se  non 

operare un contenimento: quando ricompare lo schema della vittima e la paziente se ne lascia 

travolgere,  inondando  l’ora  della  seduta  di  lamentele  che  tolgono  qualsiasi  spazio  alla 

relazione,  l’analista, senza  interpretare ma anche senza nascondere  la propria stanchezza di 

fronte all’ennesimo manifestarsi dello schema, riporta  la paziente al  “qui ed ora”, a volte    in 

modo molto diretto, alla relatività di quel dato malessere ed alla possibilità di alleggerirlo con 

una  scelta  di  campo,  prendendosene  dunque  carico.  Ciò  che  avviene  a  questo  punto  è  un 

Page 63: CIPA Atti S Servolo

veloce riprendersi della paziente, che appare alleggerita e rinfrancata, ritrova la spinta vitale 

ad occuparsi del problema anziché  continuare a subirlo. 

Il senso dell’intervento analitico è dunque quello di riportare la paziente a percepire il proprio 

nucleo autentico (tu esisti ed hai un valore), e questo rimando  apre spazi imprevisti di libertà 

che  alimentano  nella  paziente  emozioni  positive  e    si  concretizzano  nel  suo  riprendere  in 

mano la  responsabilità della propria vita.  

In queste sedute, nel saluto  finale  in cui Anita prende  la mano dell’analista e pronuncia con 

volto sorridente ed aperto la frase commossa ”grazie di tutto”, si legge in lei un’apertura piena 

di  stupore  alla  bellezza  della  scelta  pregna  di  senso.  Riprendere  contatto  con  la  propria 

coscienza,  in  una  parola,  aiuta  l’io morale  ad  emergere  dalle  pastoie  di  identità  vuote  e  lo 

riporta al mondo. Lo stupore di Anita nel ritrovare  la propria energia e la capacità, per quanto 

ancora  fragile  ed  insidiata,  di  dare  un  senso  al  proprio  vivere,  ci  dà  la  misura  esatta 

dell’essenzialità di questo passaggio, oltre a  mettere in evidenza l’aspetto centrale e fondante 

della dimensione etica nel ritrovare un centro identitario. 

La  consolazione  del  prendersi  cura,  inoltre,    riavvicina  al  nucleo  profondo  della    odierna 

condizione umana che tutti  in certo modo ci accomuna.  

Una  condizione   precaria,  incerta,  gettata  in un  tempo  incomprensibile,  senza prospettive  e 

dominato da meccanismi freddi e veloci che fanno sentire inadeguati: in un simile scenario, lo 

scoprire che in quella stanza un altro essere umano “sente” il nostro smarrimento, diventa  un 

mutamento di prospettiva essenziale nella costruzione di un altro modo di vivere, condividere 

e combattere il dolore. 

Il  cercare  la  verità  individuale  come  elemento  centrale  e  pregnante  del  percorso  analitico, 

assumendo la forma di una ricerca  che si compie in due,  contribuisce a pacificare il paziente 

col  proprio  bisogno  dell’altro,  che  viene  vissuto  non    più  come  portatore  di  sofferenza, ma  

come qualcuno con cui sperimentare il dolore e la gioia. 

Percorrendo un modello relazionale come quello fin qui tracciato, ci si trova ad un certo punto 

dell’esperienza analitica a  “ragionare nell’etica”:  in altri  termini,  a  sostare e dialogare   nella 

parola  autentica,  che    è    esperienza  che  stupisce,    bella  e    capace  di  provocare    sentimenti 

condivisi. Anche quando si sta  ancora  in due al buio e nel dolore, l’emergere dell’etica della 

condivisione  e  del  prendersi  cura  è  nondimeno  già  percepibile,  in  silenzio:  si  legge  negli 

sguardi che cambiano, nelle posture, nei saluti.  

Mi  sembra  che  nell’emergere  della  dimensione  simbolica,  forse  anche  come  elemento 

compensatorio rispetto all’anestesia morale  in cui è  immersa  la dimensione collettiva  in cui 

viviamo, l’aspetto etico si situi oggi in modo più evidente che in passato al centro del processo 

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trasformativo,  e  che  il  suo mostrarsi  si  accompagni  ad  immediato  sollievo,  confermando  la 

centralità dell’io morale e del  senso di  responsabilità nella  relazione autentica  con  sé e  con 

l’altro.  La  più  importante  e  complessa  sfida  della  moderna  psicoterapia  è  secondo  la  mia 

esperienza  proprio  quella  di    imparare  a  leggere  la  presenza  dell’autenticità  dell’  essere 

umano  in  tracce  minime,  quasi  invisibili,  frammentate;  le  quali  probabilmente  non 

arriveranno  mai  a  tradursi  in  un  edificio  compiuto,  perché  nella  complessità  dell’era 

contemporanea  tutto  muta  così  velocemente  che  anche  concetti  come  coscienza,    salute,  

malattia, in breve tempo non sono più gli stessi. 

Ma nel seguire la traccia flebile dell’umano bisogno di relazione, presente, spesso in modo del 

tutto  inconsapevole  nel  frequentare  i  nostri  studi  da  parte  dei  pazienti;  e  nel  percorrere  i 

modi individuali in cui questo bisogno man mano si declina e si fa man mano più consapevole, 

noi psicoterapeuti, così come tutti gli operatori  di professioni d’aiuto che a vario titolo hanno 

a che fare sempre più spesso con esseri umani smarriti e sofferenti, abbiamo una  opportunità 

fondamentale.   

Quella  di  ritrovare  il  senso  antico  del  nostro  lavoro  cercando,  attraverso  la  relazione  con  i 

nostri pazienti, un nutrimento in un nucleo esperienziale caldo che, anche quando non è del 

tutto compreso e quando non è possibile concettualizzarlo (perché la coscienza del paziente 

non è attrezzata o perché gli strumenti del terapeuta sono insufficienti a cogliere il nuovo), fa 

sentire  i  suoi  effetti  trasformativi mediante  il    contatto  con un’energia psichica  sana,  che  si 

traduce poi in una nuova percezione di sé.  

Un  Sé minimo  (piccolezza, mutevolezza,  lentezza  del  costruirsi  sono  le  sue  caratteristiche), 

ormai privo di pretese di onnipotenza e di comprensione e controllo    razionale della realtà:  

ma  che,  sollevato  dall’abbandono  di  queste  pretese,  e  contemporaneamente  vivificato  dalla 

scoperta   dell’armonia   che  la scoperta della dimensione valoriale porta con sé, si  riconosce 

finalmente in grado di relazionarsi con il mondo. 

Mi  sembra,  in  conclusione, di  avere  evidenziato  come  le professioni d’aiuto,  quando    il  loro 

operato si    fonda sul guidare l’individuo a prendere contatto con l’Io morale e sul portare in 

primo  piano  i  bisogni  legati  alla  dimensione  etica,  liberandoli  da  ogni  banalizzazione  e 

scoprendone  il  valore  fondante  nell’equilibrio  dell’essere  umano,  possano  oggi  dare  un 

fondamentale contributo nel rivitalizzare non soltanto la dimensione individuale, ma anche  

(e forse soprattutto) quella collettiva.

 

 

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 WORKSHOP N. 3

ADOLESCENZA: NUOVI STILI E NUOVI CANALI RELAZIONALI  

 

 

Chairperson:  Susanna Chiesa 

  Relatori:        Caterina Aiassa 

                               Rossella Andreoli 

                              Bianca Gallerano 

                                Elisabetta Trebec 

 

 

 

 

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 TESTE BEN FATTE... 

Caterina Aiassa 

 

 

Quando mi è stato proposto il  tema di oggi, mi è balenato in mente questo pensiero:  ‘Oddio, 

devo spiegare come facciano i miei allievi a copiare i compiti…e non lo so!’ 

   Va bene. A scuola il rapporto con gli strumenti tecnologici ormai è cosa quotidiana. I ragazzi 

sono  bravissimi  nel  loro  utilizzo,  noi  molto  meno,  anzi,  molto  molto  meno.  Io  sono  una 

Gutenberghiana. 

   E’  che  essi  ci  convivono,  non  possono  esistere  senza  la  tecnologia,  dal  cellulare  al  pc.  In 

classe,  sappiamo  che  la  lotta  contro  Iphone  acceso  è  persa  in  partenza.  E’  come  se  essi 

esistessero soltanto in questa dimensione, non più in quella del gruppo dei pari fuori casa, a 

giocare o a svolgere attività insieme: tutto ciò coesiste ma si smorza, mentre trionfa lo stare 

insieme sul web. Così è più facile sembrare ciò che non si è. Miriam ha 16 anni, frequenta la III 

liceo; ha una sorella maggiore diciottenne, sempre fuori casa, i genitori lavorano. Lei trascorre 

i pomeriggi a studiare, ma sempre connessa con gli amici sul web,  ‘per non sentirmi troppo 

sola.’ Quando trattiamo dei suoi rapporti con i ragazzi che le piacciono, afferma: ‘Ci parliamo, 

ma su Facebook, o via sms.'; a scuola no, non si salutano nemmeno, come non si conoscessero; 

le cose  importanti,  intime, vengono comunicate via web, o al cellulare. Mai direttamente. Le 

parole sono scritte, non sono pronunciate, dunque udite, sentite. Lo scarto emotivo è enorme. 

Poi  si  vedono  nei  locali  con  tanta  gente,  come  negli  intervalli  a  scuola,  e  lì  si  scambiano 

sguardi, mezzi discorsi, cenni, niente più.  

   Luca trascorre le notti sul web, poi al mattino, verso le 5, va a dormire. Spesso salta la scuola. 

Perde un anno; l’anno successivo, il padre non sa che fare: solo ad Aprile decide di chiudere il 

collegamento Internet, ma è troppo tardi. La scuola non lo interessa, ha bisogno di qualcosa di 

diverso.  Con  i  compagni  in  classe  ride,  ma  non  segue.  Non  riesce  a  concentrarsi.  Solo  con 

mappe colorate, frasi icastiche che si muovono e si dissolvono sullo schermo, grazie all'aiuto 

dei giochi 'inserisci immagine' di Power Point sta attento.  

   Gli allievi, in generale, ormai, usano fare ricerche esclusivamente sul web. Niente materiale 

cartaceo.  Le  fonti  sono  ritenute  sicure  e  inconfutabili:  Wiki  è  tutto,  su  Wikipedia  c'è 

informazione su tutto, non importa se sia attendibile o no. E'  la nuova Bibbia. Gli  insegnanti 

stessi  ricercano materiale  ed  informazioni,  colloquiano  serenamente  con  i  loro  studenti  via 

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web, inviano compiti, li correggono, un po’ alla maniera raccontata da Al Huxley ne ‘Il mondo 

nuovo’.  Può  capitare  che  in  un  consiglio  di  classe  un’insegnante  riferisca  ai  genitori  ed  ai 

colleghi,  allibiti,  cosa  si  dicono gli  allievi  su Facebook, perché  lei ha  la  loro amicizia. Un bel 

villaggio  globale  virtuale,  dove  ruoli  e  funzioni  si  perdono  via  etere.  E  il  rispetto  per  la 

privacy? Nonostante le leggi. 

   Ma  c’è  un  argomento  che  vorrei  affrontare  in  questa  sede  e  a  questo  riguardo:  sto 

frequentando un Master sui DSA, uno dei problemi (forse uno dei business) più importanti del 

momento, nella scuola. Certe differenze nei processi di apprendimento ci sono sempre state, 

ma  adesso  si  presentano  frequentemente;  in  Italia,  sono  certificati  con  agilità,  secondo  i 

dettami  della  legge  170/2010.    Per  i  dislessici,  disgrafici,  disortografici  e  discalculici,  la 

memoria a breve termine, nonché quella di  lavoro è flebile;     gli automatismi della scrittura, 

l'abitudine all'attenzione ed alla  concentrazione,  l'allenamento alla  creazione,  alla  creazione 

immaginativa appresi a scuola, sono per loro difficili. Qualcuno azzarda che sì, molti risentono 

di  troppa TV, di  troppa  tecnologia,  fin da piccolissimi. Quale  la soluzione prospettata? L'uso 

delle tecnologie: direi una cura 'omeopatica'. Non si riconoscono più differenze tra le capacità 

e le performances fornite grazie all'uso degli strumenti tecnologici. Si impone il tema della fine 

della  processazione  analitico‐sequenziale,  si  impone  il  modello  di  apprendimento  olistico‐

simultaneo, dunque.  

 Forse la paura è nostra, della generazione 'senex' che ha visto nascere queste tecnologie ed ha 

permesso  che  le  sfuggissero  di mano.  Qualcuno  azzarda  una mutazione  antropologica.    Un 

collega mi suggerisce che già Pasolini  lo aveva teorizzato. Anche in questo caso, aveva avuto 

ragione. Ma cosa diversa è pensare a questa trasformazione, altra cosa è viverla, ogni giorno, 

nel  proprio  lavoro,  in  questa  maniera,  in  questa  dimensione:  ogni  giorno  accorgersi  che  il 

pensiero scompare, lasciando il campo all'azione; ogni giorno accorgersi che per loro non c'è 

differenza  tra  ciò  che  è  virtuale  e  reale;  ogni  giorno  accorgersi  che  l'incontro  con  il  reale 

produce  sconcerto,  sorpresa,  ansia  e  voglia  di  fuga;  ogni  giorno  obbedire  alla  logica 

dell'inclusività,  ovvero  dell'accettazione  di  ogni  modalità  espressiva,  di  ogni  modello 

apprenditivo. Molto  saggio, molto bello:  quale  la direzione? Dove, quando,  come, per questi 

ragazzi,  incontrarsi  in un progetto qualitativamente  congruente?  Sul web,  ognuno barricato 

nella  propria  stanza,    protetto  da  emozioni,  terrorizzato  dal  silenzio,  assetato  di  immagini, 

cieco dinanzi alla parola scritta. Quale il contatto con l'altro e, quindi, con se stessi? Perché è 

necessaria tanta distanza dall'altro? Il conflitto è incomprensibile, dunque inaccettabile. 

   Poi: è giusto considerare la nostra tradizione come quella eletta, e/o considerare quella dell’ 

homo videns  come  l’ultima possibile? Mi domando  cos'abbiano pensato,  nel  '400, Valla  e  gli 

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altri,  dinanzi  ad  Aldo  Manuzio.  Sarà  l’homo  videns  il  detentore  del  progresso  processuale 

velocizzato, a scapito della correttezza, o qualcosa resterà dei nostri lenti processi? Eppure la 

velocità non serve, la correttezza sì. 

   Noi  conserviamo  l'abitudine  ad  ascoltare  il  rumore  tumultuoso  del  silenzio  che  ci 

accompagna, una dimensione psichica  forse  travagliata ma sorretta dal quotidiano esercizio 

del  pensiero,    una  conoscenza  del  potere  dell'emozione  e  del  sentimento  cui,  per  fortuna, 

abbiamo potuto ed appreso a dare un nome, a figurarcene la forza:  a colloquiare con loro. Il 

dolore  e  la  gioia  ci  spaventano  di meno,  sappiamo,  chi  più,  chi meno,  che  la  risoluzione  di 

problemi non  si produce con  un clic. Abbiamo delle  expertise a livello metacognitivo, un po' 

conosciamo i nostri limiti, le nostre peculiarità.  Ai ragazzi, invece, manca questa terra ferma; 

essi  poggiano  sul  web.  Siamo  sicuri  di  aver  inculcato  loro  quella  consapevolezza 

metacognitiva  che  potrà  preservarli,  come  alla  nostra  generazione  ancora  succede, 

dall'illusione della facile onnipotenza tecnologica? 

   Oggi, a scuola, con la didattica delle competenze, vorremmo  'plasmare' ''Teste ben fatte, non 

teste ben piene.'' come si augurava  M. de Montaigne. La tecnologia ci sta aiutando in questo 

progetto? 

  

 

 

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

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APPUNTI DA UN CASO 

Rossella Andreoli 

 

 

La luce in strada è accecante. Rumori. Troppi. Da quanto tempo non esco di casa? Non me lo 

ricordo, non lo so. Lo sguardo della gente brucia la pelle. La strada è lunga. Troppo. Alla fine ci 

vado e loro la smetteranno di bussare alla mia porta. Mi lasceranno in pace finalmente. Ci 

vado dalla dottoressa del cazzo. Ci vado da quella là. Ci vado. Ci vado e non ci penso più. 

Coraggio, respira, respira piano, cinque minuti ancora, forse dieci. Un secolo. Non so più 

quando sono partito e  quanto ancora dovrò camminare. Non so cosa mi aspetterà. Là.  

 

Lei apre una piccola porta e mi accompagna nella stanza bianca. E’ una stanza troppo bianca. 

Lei non può sapere quanto terrore c’è in un viaggio di venti minuti in mezzo alla gente che ti 

guarda e ai rumori che non riesci a spegnere. Non sa che sono sfinito. Che non ho parole. Che 

le parole sono finite. Lei che mi invita tranquillamente a dire.    

 

Niente. Non c’è niente da dire. E’ che stamattina era di nuovo mattina. Un’altra mattina. La 

sveglia suonava ma la testa non ne voleva sapere e rimaneva lontana. La dub nelle orecchie 

come un massaggio alla pancia. Forte. La melodia ti prende e poi, quando non te l’aspetti, lo 

strappo. E allora sì che mi lascio andare. Finalmente in pace senza il rumore dei miei pensieri. 

Lo sai dott. che mi calma? Se vuoi, te la faccio sentire.  

 

Niente. E’ che c’era ancora la voce della mamma. C’era ancora la scuola. Non voglio. Forse sì 

voglio. Cazzo…non posso. Il cuore mi buca il petto, la gola si stringe. Vattene. Vattene via 

prima che ti prenda a calci.  La odio. Non la sopporto più con quella vocetta finta. Perché non 

mi lasciano in pace? Anche mio padre, quello stronzo. Figlio di puttana. L’altro giorno c’è 

mancato poco. Avrei proprio voluto fargliela vedere io. Dargliele di santa ragione finché quel 

suo ghigno non spariva dalla sua faccia di merda. Mi sono fermato. La stronza piangeva.  

 

Niente. Non c’è niente da dire. Lasciatemi in pace. Non oggi. Forse domani. Si domani ci vado. 

Sicuro. Domani. 

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Lo schermo mi guarda. E’ un attimo. Ci scivolo senza fatica. Finalmente sicuro. So cosa fare lì 

dentro. Due mosse e li frego tutti. Hackerare meglio ancora di giocare. La musica nelle 

orecchie. Adesso sì. Adesso sì che va.  Dietro la porta ben chiusa. Fuori, tutto come sempre. La 

casa vuota. Il silenzio del lavoro degli altri. Finalmente solo. Solo finalmente. E così per 

l’eternità. Un’ora dopo l’altra. Un giorno dopo l’altro. Non c’è un tempo. Non c’è tempo. Buio 

luce ancora buio ancora luce.  

 

Niente. Non c’è niente da dire. E’ che di nuovo bussano. Di nuovo chiedono.  Di nuovo 

supplicano. La scuola? Domani. Sicuro domani. Musica forte nelle orecchie. Ancora più forte. 

Sono un eroe e nelle vene mi scorre sangue di drago. Come quella volta che ho provato quella 

roba. Forse funziona anche per la scuola.  

 

Niente. Non c’è niente da dire. A chi lo dico poi? Chi ascolta questo niente?  

 

Niente. Non c’è niente da dire. Ho freddo. Ho fame. Ho paura.  

 

Lei lo guardava stupita. Era entrato grande e grosso. Un colosso. Per un attimo aveva anche 

temuto. E poi, l’inverosimile di una metamorfosi sorprendente. Lui, il gigante, era diventato 

piccolo. Piccolo come Pollicino e come Pollicino gettava in qua e in là i suoi sassolini bianchi. 

Ne aveva manciate nelle tasche. Chissà come faceva a camminare con tutto quel peso. E aveva 

camminato tanto per arrivare fin lì, lo si vedeva dalle scarpe consumate. Allora lei si era 

chinata, e, senza farsi troppo notare, a uno a uno aveva cominciato a raccoglierli. Ne era nato 

un gioco. Uno scambio. Una briciola di pane per ogni sassolino ritrovato.  

 

Hai ragione, piccolo. Non c’è niente da dire. Facciamo silenzio. Facciamo silenzio insieme. 

Vuoi? 

 

Questioni (Spunti per pensare)  

“La rete sta creando un ambiente nuovo, uno stato di natura digitale in cui la mente diventa un 

pannello di controllo che funziona a un ritmo vorticoso” (Internazionale, 19/25 ottobre 2012). 

 

La comunicazione virtuale, per le sue caratteristiche e per il suo funzionamento intrinseco, 

contribuisce a creare l’aspettativa che i desideri si realizzino istantaneamente, proprio 

come accade nel mondo virtuale. Ciò avrebbe come esito una pesante compromissione 

Page 71: CIPA Atti S Servolo

della dialettica simbolica, nella struttura triadica che le è propria di soggetto che 

desidera/oggetto del desiderio/oggetto simbolico – simbolo. Tale dialettica, infatti, è 

avviata da una mancanza e si sviluppa in un tempo. La capacità di sostenere un tempo e 

sopportare il dolore della mancanza sono le precondizioni per il formarsi del pensiero e 

sono vitali per la mente. La globalizzazione della comunicazione virtuale, per contro, nella 

sua peculiarità di realizzazione istantanea, finirebbe per sostituire tale processo con  il 

funzionamento bidimensionale dello schema  riflesso stimolo/azione. 

 

I videogiochi sono fondati sulla ripetizione costante di una struttura semplice a livelli sempre 

più rapidi e complessi. Basandosi sulla prontezza dei riflessi, questi  finiscono per 

produrre nel giocatore una vera e propria alterazione della coscienza,  mantenuta grazie 

al feed­back  in virtù del quale l’attenzione viene costantemente sollecitata.  In tal modo i 

videogiocatori si abituerebbero a un livello di eccitazione nervosa più elevato del 

normale, che li porterebbe ad annoiarsi facilmente di fronte a qualunque situazione che 

non esiga la medesima soglia di attenzione‐eccitazione nervosa: deve sempre accadere 

qualcosa.  In queste condizioni diventa  difficile seguire una trama, interessarsi a una 

storia quando l’attenzione richiesta non raggiunge l’ abituale soglia di eccitazione delle 

sinapsi. Gli insegnanti, gli educatori in genere, ma anche tutti gli operatori ψ, si 

troverebbero così costretti a  competere con questo tipo di funzionamento e a cercare i 

modi di comunicare più efficaci per mantenere la medesima soglia di eccitazione 

neuronale cui i soggetti digitalizzati sono abituati quando non dipendenti.  Un tentativo 

certamente destinato a fallire, poiché sappiamo bene che l’ apprendimento, unitamente ai 

processi di pensiero e di esperienze emotive a esso sottesi, non può ridursi a una pura 

azione riflessa.  La “disponibilità ad apprendere”   si realizza attraverso l’imprescindibile 

modulazione di apertura e ricettività tra sé e l’altro da sé, all’interno di un contenitore 

relazionale vivo, stratificato sia in senso orizzontale – la gruppalità dei pari – sia in senso 

verticale – la relazione con l’Autorità e il corpo docente, in un continuo passaggio da 

singolare a plurale, da duale a gruppale.   

 

La globalizzazione della comunicazione virtuale, sollecitando l’illusione di far parte 

continuamente di una comunità allargata e dai confini sempre più estesi, invisibile ma 

percepibile, fisicamente assente eppure massicciamente presente, prevede la 

radicalizzazione di una dimensione solitaria quando non francamente autistica ‐ lo 

scambio è tra il soggetto incarnato e il corpo molteplice ed etereo del web. Tale modalità 

Page 72: CIPA Atti S Servolo

comunicativa favorirebbe inoltre  lo sviluppo massiccio  di una mentalità di gruppo 

funzionante secondo gli assunti di base, a discapito dell’emergenza della soggettività e del 

pensiero personale. I soggetti digitalizzati si sposterebbero sempre più dal 

pensare/elaborare verso l’agire/evacuare. In tal senso, la realtà virtuale finirebbe per 

determinare una relazione completamente diversa con il principio del piacere/dispiacere, 

contribuendo alla costruzione di un’immagine del tutto illusoria del reale e 

compromettendo pesantemente la necessità, vitale per l’animale uomo che è animale di 

senso, di elaborare mentalmente i legami e le trasformazioni che si realizzano 

nell’interscambio osmotico tra il mondo interno e la realtà esterna.  

 

Vaporizzazione dei limiti, della funzione paterna, del pensare.  Più radicalmente, del pensare il 

dolore. In un processo che, come la psicoanalisi da cent’anni ci indica, procede dall’opacità 

del corpo e del bisogno, per le vie impervie del fare la fatica di fare fatica, al mondo 

stupefacente del significato, del senso condiviso. Se tutto questo salta, cosa accadrà? Cosa 

ne sarà delle nuove menti?  

  

E nella stanza di analisi? 

 “Ti interessa capire?” “No.” Risponde Furio. E dunque come muoversi in questa dimensione? 

La domanda ci riguarda tutti, tutti noi che abbiamo a che fare con la crescita e usiamo le 

parole per farlo.  Se la digitalizzazione massiccia spinge i cyborg soggetti a modificare 

progressivamente e irreversibilmente il modo di usare la mente – si tratterà tutt’al più di un 

paio di generazioni, come ha sostenuto la collega francese Guignard in una recente 

comunicazione al Centro bolognese di Psicoanalisi ‐  come possiamo noi attrezzare strumenti 

idonei e meglio adeguati, ma prima e accanto a quelli, uno sguardo nuovo nell’incontrarli?  

Cosa dell’assetto psicoanalitico ‐ che fa della parola la dimensione elettiva dello scambio e 

dell’incontro ‐  e, in particolare dell’approccio junghiano ‐  che vede nel sogno e più in 

generale nel dialogo con le immagini lo strumento trasformativo per eccellenza ‐ cosa  può 

essere conservato e cosa trasformato? In che modo il lavoro con l’inconscio può raggiungere i 

bambini e gli adolescenti tecnologici e orientare le pratiche educative, oltre che quelle 

terapeutiche?  

 

La digitalizzazione della comunicazione determinerebbe sia lo spostamento dei processi  

mentali dalla dimensione rappresentativa alla dimensione percettiva, e in particolare alla 

percezione visiva, che un cambiamento profondo del ruolo della comunicazione e del 

Page 73: CIPA Atti S Servolo

linguaggio nella strutturazione della mente/pensiero.  Se è vero che I cyborg si nutrono di 

immagini e  sono alla ricerca costante di soluzioni semplici e immediate a domande e 

problemi complessi, quelle che essi trovano nel web offerte dall’immediatezza del touch 

screen sono immagini pre‐digerite, pre‐formate, immagini che non scaturiscono dall’ascolto e 

dal dialogo con i propri oggetti interni. Non sono immagini d’Anima.  La realizzazione 

immediata del desiderio, unitamente all’evacuazione facilitata del dolore, produce inoltre 

modificazioni sostanziali nell’assetto difensivo del soggetto.  Dalle difese edipiche più evolute 

si assiste all’emergere sempre più di difese arcaiche, difese del Sé: dalla negazione/rimozione, 

verso la scissione che, qualora diventi dominante, contribuisce alla manifestazione di 

patologie cosiddette di confine, oggi estremamente diffuse. Sono sempre più i soggetti 

borderline, psicosomatici, dipendenti, dalle tecnologie come dalle sostanze, i soggetti vuoti, 

identificati con la solidità del proprio sintomo, e sempre meno i nevrotici di  un tempo a 

frequentare i nostri studi. In queste situazioni è il terapeuta che deve potere attingere alla 

propria risorsa immaginale, alla propria vis poetica, nel tentativo di portare vita a soggetti che  

appaiono deanimati.   

 

In questo quadro ci sembra che la cura non possa limitarsi alla decifrazione simbolica del 

sintomo, o all’analisi del sogno come terreno elettivo dello scambio della coppia analitica, ma 

debba tentare di ripristinare il funzionamento mentale compromesso ,” talvolta ‘costruire’ da 

pochi mattoni rimasti l’edificio di una mente complessa” , come scrive Panizza, in un recente 

libro. E ciò può accadere attraverso quella fondamentale operazione che Bion nomina rêverie, 

e che Ogden descrive come sognare i sogni non sognati. Solo così, grazie a questo modo di 

usare la mente da parte dell’Analista, è possibile che la cronaca del mondo esterno, attraverso 

una indispensabile azione metaforizzante, divenga metafora del mondo interno e la 

conversazione psicoanalitica un’esperienza onirizzante.   Solo così può entrare in scena il terzo 

analitico, quel personaggio virtuale ma effettuale, che non è l’analista, non è il paziente, ma 

una creazione nuova, costituita dalla diade, dagli inconsci dei due partner che interagiscono.  

Uso le parole di Panizza per dirlo. “Come l’acqua emerge dissimile da idrogeno e ossigeno, così 

da ‘genitori psicoanalitici’ diversi – l’analista e il paziente – nasce qualcosa di originale “.  Solo 

così noi psicoanalisti, in un tempo di crisi e di perdita del senso e del valore della relazione, 

solo così possiamo assolvere al nostro compito nella sua dimensione più alta, che io non 

riesco a non sentire scaturire da un’ attitudine vocazionale. Uso una parola un po’ antica, che 

tuttavia sento sempre più viva nella mia pratica. Il compito che è accompagnare i nostri 

pazienti, le persone che i nostri pazienti sono, a incontrare l’Altro.   

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I COSIDDETTI 'NUOVI STILI ANALITICI' E LA TIPICA­SPECIFICA SOFFERENZA PATOLOGICA IN ADOLESCENZA 

Bianca Gallerano  

 

In questo mio contributo    prenderò l’avvio  da    due espressioni che sono presenti nel 

titolo, in particolare nel sottotitolo, della tavola rotonda.  Mi riferisco ai cosiddetti “nuovi 

stili  terapeutici  e  analitici”  che    vengono  correlati  alla  contemporaneità.  Quest’ultima 

sembra    rendere  completamente nuova  la  comunicazione,  quindi  la    relazione umana.  

Gli  adolescenti,  naturalmente  figli  di  questa  epoca,    vengono,  così,  definiti  i  cosiddetti 

‘nativi  digitali’.  Di  fronte  alla  contemporaneità  noi  adulti‐analisti,  sembriamo  degli 

analfabeti  digitali    costretti  a  rincorrere  gli  adolescenti    ed  adeguarci  ai  loro  stili 

comunicativi  per  poter  dialogare  e  stabilire  una  relazione  terapeutica  con  loro.  Le 

riflessioni che seguono prendo spunto proprio da queste considerazioni. L’adolescenza, 

pur contenendo elementi paradigmatici della contemporaneità, non ritengo che   possa 

essere  utilizzata  per  una  comprensione  del  presente,  ne  tanto  meno,  credo  sia 

necessario  attivare,  per  necessità,    nuovi  stili  terapeuti  e  analitici.  L’adolescenza  è 

sempre  stata,  in  tutte  le  epoche  storiche,  momento  di  crisi,  incertezza,  di  rischio  e 

possibilità. Il rischio contiene in sé possibilità di cambiamento non certo. L’adolescenza 

è  tempo  di  attesa  e  di  speranza,    epoca  di  transizione,    luogo  di  indefinitezza  per 

eccellenza, luogo di confine, di passaggio. E’ un periodo  della vita in cui  ci si sente soli‐

isolati.  Per  la  prima  volta,  si  contatta  il  tempo  interiore,  il  pensiero  autoriflessivo, 

l’esplosività  delle  emozioni  e  delle  pulsioni,  con  le  inevitabili  paure  che  tutto  ciò 

comporta.  In  quest’epoca  della  vita,  dalla  paura‐terrore  di  attraversare  la  terra  di 

confine,( cioè la separazione‐morte dell’infanzia  e l’accesso  all’età adulta) ci si difende 

prevalentemente  con    modalità  estreme  ed  opposte:    l’illusoria  autosufficienza, 

l’apparente indifferenza emozionale,  l’inerzia psichica; o  l’onnipotenza e  la grandiosità. 

“Ci sono adolescenze nelle quali, al di fuori di una patologia, ci si confronta con la morte 

temendola e desiderandola, banalizzandola e negandola, sfidandola e giocando con essa 

come ad una roulette russa: sulla scia di una indifferenza emozionale che non può non 

nascondere in sé schegge di angoscia solo apparentemente rimosse.” 33 

33

     Borgna, L’attesa e la speranza, 2005, p. 143.

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Nelle  cosiddette  società  arcaiche  il  passaggio  dall’infanzia  all’adolescenza    avveniva  in 

tempi  brevissimi,  codificati  e  regolamentati    dai    Riti  di  Passaggio.  Nelle  società  più 

complesse,  come  la nostra,  i    riti  non  sono più  istituzionalizzati,  quindi,  non  sono  resi 

possibili dalla presenza dell’adulto che li gestisce in pieno.  Ma, oggi, come sempre dalla 

nascita della civiltà industriale, i riti, per gli adolescenti,  avvengono ugualmente.  Ciò che 

caratterizza  la  nostra  epoca  è,  come  sostiene  Bhauman,  l’incertezza,  la  fluidità,  lo 

smarrimento,  la mancanza di  senso di  appartenenza  e  di  conseguenza  la mancanza di 

solidarietà.    Il malessere che esprime  la società non è, pero,    in modo diretto,  la causa 

dell’inquietudine dell’adolescenza, anche se  la  società   definisce  le modalità attraverso 

cui  si  esprime  il  disagio  psichico.  La  società  fornisce  solo  la  forma  attraverso  cui  si 

manifesta la sofferenza, non ne definisce il contenuto, da ciò ne consegue che ogni epoca 

storica  fornisce  soltanto  i  modi  e  le  forme  attraverso  cui  si  esprime  il  malessere  in 

adolescenza. 

 Se  siamo  indotti  a  pensare  che  la  contemporaneità,  con  le  sue    nuove  tecnologie, 

stravolge  e  snatura  del  tutto    i modi  di  sentire,  di  pensare,  di  agire,  di  comportarsi,  e 

quindi  di  patire,  rischiamo  di  scimmiottare  e  di  banalizzare    le  tesi  che  facevano  da 

sfondo all’Antipsichiatria degli anni  ’70. La sofferenza era   esclusivamente un prodotto 

della società e della sua divisione in classi. Oggi mi sembra di poter dire che il termine 

complessità possa descrivere in maniera più adeguata il rapporto fra patologia e società. 

Ci sono modi e percorsi estremamente complessi per cercare di comprendere, anche se 

sempre solo parzialmente, i  legami causali tra queste due realtà. Queste considerazioni 

vogliono  rappresentare  lo  sfondo  da  cui  nascono  e  si  dipanano  le  mie  riflessioni. 

Considerazioni che, invece, prendono forma  all’interno di un luogo di elezione  che è la 

stanza d’analisi. Sono quindi il frutto dell’incontro della mente dell’analista al lavoro  con 

la sofferenza, nell’adolescenza, declinata in senso patologico.  Le mie valutazioni, quindi, 

non  si  poggiano  su  concetti      normativi‐sociologici  né    psicopatologici.  Piuttosto  sono 

rivolte a descrivere,  in  senso  fenomenico,  le modalità degli  esseri umani   di patire nei 

momenti    di  passaggio  della  vita,  ed  inoltre  sono  rivolte  a  porre  l’attenzione    sulle 

modalità con cui  i singoli     esseri umani reagiscono e si difendono dagli  inevitabili urti 

che  la  vita  pone  di  fronte.  In  questo  senso  opero  una  distinzione    tra  sofferenza 

consustanziale  all’umano  e  sofferenza  declinata  in  senso    patologica.  Seguendo  una 

visione junghiana  possiamo parlare di sofferenza declinata in senso patologico quando 

un nucleo di dolore tende a impossessarsi, cronicamente,  della naturale plasticità della 

psiche,  di  conseguenza  l’assetto  difensivo    tende,  sempre  più,  ad  irrigidirsi  e, 

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iinevitabilmente  la  personalità  si  impoverirsi.    Tutti  i  momenti  di  passaggio,  di 

separazione    (dall’infanzia  sino  al  confronto  con  la  morte)  a  cui  si  è  inevitabilmente  

esposti, in quanto  elementi ineluttabili della vita, sono complessi e difficili da affrontare. 

Poiché  risvegliamo  uno  stato  mentale  ed  effettivo:  la  solitudine‐isolamento,  che 

compenetra e  colora di sé  l’esperienza  della separazione, tema centrale in adolescenza. 

In quanto la separazione   è connaturata alla transizione da una condizione esistenziale 

ad  un’altra.  In  questi  momenti,  critici,  in  modo  particolare  nell’adolescenza,  sembra 

porsi  in  modo  evidente  la  distinzione  tra  sofferenza  consustanziale  all’umano  e 

sofferenza  declinata  in  senso  patologico.  Ovviamente  non  mi  riferisco  alle  patologie 

strutturate sin dall’infanzia.  Nei momenti di passaggio, il confine tra queste due forme di 

patire,  soprattutto  in  adolescenza,  tende  a  divenire  più  labile,  più  incerto,  più  sottile. 

Poiché  questa  linea  fragile  e  ineffabile,    sembra  abbandonare  l’essere  umano  proprio 

negli inevitabili momenti di separazione.   L’adolescente può viversi, così,  come fragile, 

esposto, abbandonato, solo, senza speranza o al contrario, e in modo alterno, capace di 

tutto,    di  dominare  se  stesso,  i  propri  comportamenti,  il  proprio  mondo  interno  e, 

soprattutto  la  realtà  esterna.  E’  di  fronte  a  tale  disorientamento,  che,  a  volte,  si  può 

presentare  con  un  risvolto  drammatico,    che    la  figura  dell’analista  acquista  senso  e 

valore.  La  stanza  d’analisi  diviene,  così,  un    luogo  privilegiato  poiché  solo  in    quel 

contesto,  nella  nostra  mente,  nascono  pensieri  vivi,  utili  e  proficui,  o,  al  contrario, 

pensieri  ossificati  e  pietrificati.  Questi  ultimi    spesso  vengono,  inconsapevolmente  , 

affidati, in senso proiettivo, a quel  singolo adolescente, che sta vivendo,  la sua unica e  

specifica   crisi esistenziale  legata al difficile accesso al mondo adulto.  Il compito di noi 

analisti dovrebbe essere quello di prendersi cura, nella stanza d’analisi, della sofferenza 

declinata in senso patologico. Per cui, paradossalmente, possiamo ritenere che nei nostri 

studi non vediamo l’adolescenza, ma piuttosto l’impossibilità di accedere ad essa. Anche 

se  non  è  scontato  rendersi  conto  di  quanto  una    sintomatologia,  espressa  in  forma 

esplosiva  può    ridimensionarsi  e  permettere,  così,  il  normale  fluire  della  vita  o 

rappresentare i prodromi della insorgenza di una patologia strutturata. In ogni modo il 

nostro compito dovrebbe essere quello di aiutare i nostri pazienti,  là dov’è possibile, a 

divenire  adolescenti  e  rientrare  nel  flusso  della  vita  nonostante  i  cosiddetti  legami 

affettivi  danneggiati.    Tutto  questo  non  contiene  in  se  l’idea  radicale  che  la  realtà 

esterna,  non entra nella stanza d’analisi e quindi non ci riguarda. Non sto  proponendo 

una  figura  professionale  distante  dalla  realtà  e  fedele  all’immagine  idealizzata 

dell’analista  supposto‐sapere,  o  all’immagine  dell’analisi  pura  e  sganciata  dal  mondo 

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esterno, visione accompagnata da una venatura di romanticismo e da un atteggiamento 

nostalgico  e  regressivo.    Ritengo,  però,  che  la  realtà  esterna,  la  cosiddetta 

contemporaneità,  fornisce  soltanto  i modi  e  le  forme  attraverso  le  quali  si  esprime  la 

sofferenza, non ne rappresenta la causa. In tal senso sono in disaccordo con le teorie, a 

mio avviso di stampo sociologico, di molti autori che si occupano, oggi, di adolescenza.34 

Sposando una lettura sociologica rischiamo di perdere di vista  il nostro specifico vertice 

d’ascolto  e  rischiamo  di  diventare  stranieri  nel  nostro  luogo  di  elezione,  nella  nostra 

fucina.  La  stanza  d’analisi  è,  invece,  il  luogo  principe  in  cui    può  prendere  avvio  il 

cosiddetto percorso e processo terapeutico. L’analisi è un metodo di cura con la parola. 

Cura  che    si  fonda  su  due  dimensioni  specificatamente  umane:  l’ascolto  e  il  dialogo.  

L’ascolto  autentico  dell’altro  da  sé  rimanda  ad    una  qualità  umana  :  il  sentire    l’altro 

come  un  essere  simile  a  me  che  patisce  e  gioisce  in  modo  specificatamente  umano. 

Trame affettive queste ultime, il gioire e il patire, che tessono una rete di relazione  tra i 

singoli esseri, e permettono  di coltivare il sentimento di appartenenza tra gli individui. 

L’ascolto, però, non è una qualità  stabile,   e acquisita una volta per tutti, poiché richiede 

una  particolare  attitudine    che  è,  come  sostiene  la  De Monticelli,  l’attenzione.  “La  più 

modesta e quotidiana della virtù: eppure  anche la più difficile. L’attenzione è la capacità 

di accogliere veramente la realtà nella sua individualità e nelle sue esigenze. Presuppone 

evidentemente rispetto e umiltà, senso dell’evidenza, capacità di ritirarsi,  fiducia in ciò 

che è offerto, e fedeltà a quanto ciascuna cosa è.”35 Da ciò ne consegue che    il cosiddetto  

dialogo autentico comporta l’inevitabile necessità di riconoscere l’altro nella sua radicale 

specificità, proprio nel senso propostoci da Jung. Il dialogo inoltre pone all’analista una 

questione di natura etica poiché , le  correnti emozionali, che attraversano la sua mente, 

possono invadere la sua  autenticità e contagiare la  pensabilità cosciente. Poiché l’io non 

è l’arbitro delle nostre emozioni , queste ultime possono condizionare sia il modo in cui 

ascoltiamo e di conseguenza la modalità con cui dialoghiamo.    Di fatto noi analisti non 

sappiamo, fino infondo, su cosa fondare l’efficacia delle nostre azioni terapeutiche. Io ho, 

invece,  l’impressione  che,  attualmente,  in  molta  letteratura,  che  si  occupa  della  cura 

della  sofferenza  in  adolescenza,    le  espressione ascolto  rispettoso    e  dialogo  autentico 

vengono  proposte,  in  modo  semplicistico,  gli  adolescenti  non  sono  ascoltati  ma 

interpretati.  Come  sperimentiamo  nella  pratica  clinica,  il  cosiddetto  dialogo    con 

34  di autori come Benasseguet, Pietropolli e Galimberti 35 De Monticelli, R. (2007), Alla presenza delle cose stesse. Saggio sull’attenzione fenomenologia. Atque, 3-4 p.234 -

235

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l’adolescente  non  è  né  semplice  né  scontato  da  realizzare.  Data  la    personalità 

dell’adolescente, ancora non   definita né organizzata  in senso relativamente stabile, gli 

interventi  dell’analista,    possono  trascinarlo  in  uno  stato  d’animo  segnato  dal  timore: 

può sentirsi    indottrinato,  invaso, controllato o, al contrario, sedotto. Reazioni emotive 

che  possono  ingenerare  chiusura,  diffidenza,  e  sfiducia  .  Per  quanto  riguarda    noi 

analisti,  sappiamo  che  è  molto  difficile  mantenere  una  giusta  e  buona  distanza 

relazionale,  in  quanto  inevitabilmente  contagiati  dai  nostri  vissuti  controtrasferali 

rischiamo, spesso, di incarnare il ruolo del genitore ideale o il sostituto di quello reale in 

carne  ed  ossa.  Oppure,  al  contrario,  rischiamo  di  identificarci,  inconsciamente,  con  la 

nostra  adolescenza,  ormai  perduta,  e  incarniamo,  in  tal  modo,  il  ruolo  dell’amico‐

adolescente    complice  nei  confronti  del    mondo  degli  adulti  vissuto  come  estraneo, 

distante e a volte persecutorio. In ogni caso impediamo all’adolescente la possibilità di 

accedere  a  quella  esperienza  dolorosa,  necessaria  e  inevitabile,    che  è  racchiusa 

nell’espressione:  separazione‐individuazione.  Unica  condizione  esistenziale  che  può 

aiutarlo  a  fidarsi  delle  sue  potenzialità  e  cominciare  a  viversi  come  un  individuo 

separato  che  rimane  comunque  in  relazione  con  i  suoi  bisogni  di  dipendenza  e  di 

appartenenza, senza temere che la percezione di tali bisogni non lo ricacci nuovamente 

nel  regno  dell’infanzia.  L’adolescente,  quindi,  non  ha  bisogno  di  essere  sedotto  da  un 

analista compiacente che aderisce ai suoi modo di esprimersi e di comunicare. 

Il dialogo con e insieme  all’adolescente è di per sé perturbante. Come ritiene  Winnicott 

gli adolescenti non vogliono essere capiti e chiunque fa domande deve aspettarsi che gli 

vengono  date  risposte  false.  Non  sta  a  noi  sedurli  con  un  atteggiamento  Puer, 

giovanilista  e  di  falsa  vicinanza.  Il  nostro  compito  dovrebbe  essere  quello  di  aiutarli, 

quando ne hanno la potenzialità, a radicarsi nella vita e nella propria storia. Questo può 

accadere  soltanto  se prima di  tutto  riusciamo noi  analisti  a  radicarci nella nostra vita, 

nella nostra  storia e nella nostra  funzione analitica. Come analisti possiamo  tentare di 

avvicinarci con cautela sia all’ascolto che al dialogo con  l’adolescente tenendo conto di 

una  loro modalità  tipica e specifica di esprimere  la sofferenza. Modalità elettiva che si 

sostanzia  con  l’agire,  con  una messa  in  scena  visibile  al mondo  esterno   ma  non  resa 

mentale  a  se  stessi.    In  questo  periodo  della  vita  la  sofferenza  psichica  si  esprime  in 

modo concreto, tanto più è visibile all’occhio dell’adulto tanto più l’adolescente tende ad 

allontanarlo, a vanificare la relazione, che comporta, inevitabilmente, vicinanza affettiva. 

Chiedono aiuto attraverso il sintomo e al contempo lo rifiutano.  Il nostro arduo compito 

dovrebbe essere quello di aiutarli a tentare di rendere psichici i contenuti del loro agire. 

Page 79: CIPA Atti S Servolo

 Queste  convinzioni  rappresentano  lo  sfondo  dal    quale  nascono  le  riflessioni  sulla 

difficile costituzione e gestione del setting nel lavoro clinico con gli adolescenti, e l’uso, 

all’interno della relazione terapeutica, dei cosiddetti strumenti digitali. Con questa fascia 

d’età  la  funzione del setting è  legata,  in modo particolare, alla costituzione di un  luogo 

fisico,  una  sorta  di  spazio‐transizionale,  che  possa  aiutare  l’adolescente  a  divenire 

consapevole  della  sua  sofferenza,  imparare  a  sentirla  e  governarla,  passando  così  dal 

registro dell’agito al registro della riflessione e quindi del contenimento dei propri stati 

mentali  e  affettivi.  Dovremmo  essere,  paradossalmente,  più  analisti  degli  analisti,  più 

realisti del re.   Questo non vuol dire che dobbiamo far si che l’adolescente si adatti alla 

visione  classica  dell’analisi  o  che debba  rispettare  le    regole  che  sostanziano  il  nostro 

lavoro. Ma nel nostro essere di fronte all’adolescente, nella stanza d’analisi, ogni nostro 

comportamento andrebbe  reso psichico. Tra gli  strumenti che gli adolescenti utilizzano 

per  comunicare,  l’oggetto  di  elezione    è  il  cellulare,  in  particolare  la  comunicazione 

attraverso  i  messaggi,  che  permettono,  a  volte  in  maniera  evacuativa  di  uscire  da 

situazioni conflittuali. Quando si scrive un messaggio non è presente ne il viso ne la voce. 

Quando un adolescente ha il bisogno‐necessità di saltare una seduta tende a comunicare 

con  i  suoi  soliti  strumenti  che  sono  rapidi,    comuni  e  soprattutto  riguardano  la  vita 

concreta, reale e ordinaria. Di fronte ai loro comportamenti, ovviamente, noi analisti non 

possiamo  procrastinare  il  nostro  intervento.  Però  se  noi  ci  adeguiamo  al  loro  stile  

comunicativo  non  li  aiutiamo  a  percepire  il  loro  mondo  interno  ma    rinforziamo  la  

naturale  tendenza  ad  agire  in  modo  impulsivo,  senza  ne  riflettere  ne  sentire.  Queste 

peculiarità umane necessitano di una pausa, unica dimensione che può fare  incontrare 

un conflitto  interno. Nel  lavoro clinico siamo costretti a prendere decisioni  immediate, 

ma, nonostante la scomoda situazione, dovremmo tentare di mantenere viva l’intenzione 

di non colludere con i loro comportamenti manipolativi pena il  rischio di  precipitare in  

uno stallo del processo terapeutico.  E’ profondamente diverso  se l’adolescente sa che in 

terapia  può    sperimenta  un modo  unico  e  completamente  altro  rispetto  al  solito  stile 

comunicativo  che  lo  accompagna  nel  quotidiano.  Dipende,  quindi,  dalla  capacità  della 

mente  dell’  analista  di  non  colludere  con  quella  del  paziente,  e  tentare,  ogni  volta,  di  

rendere materiale psichico un  fatto concreto e non  lasciarlo cadere come   un semplice 

fatto.    Dovremmo,  quindi,  aiutare  l’adolescente  a  poter  sviluppare  la  capacità 

introspettiva  in modo che possa gradualmente svilupparsi  il momento della riflessione 

che permette l’interiorizzazione degli eventi affinché possano essere assorbiti come fatti 

psichici.  In  tal modo  l’adolescente  non  è  più  completamente  agito    dal  fascino  coatto 

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della  sua  condizione  esistenziale.    Tutte  le  forme  nuove      di  comunicazione  che 

riguardano  la  vita  ordinaria  trasportate  nel  contesto  analitico  e  usate  come  strumenti 

per  stabilire  con  l’adolescente  il  cosiddetto  dialogo,  rischiano  di    alimentare,  il  suo 

isolamento, la grandiosità, l’onnipontenza e la mancanza di assunzione di responsabilità 

nei  confronti  della  propria  vita mentale  ed  affettiva.    Il  nostro  compito    specifico,  nel 

lavoro con gli adolescenti, credo consista  nel riuscire ad incarnare  una figura che li aiuti 

a sostare nella terra di nessuno, nel luogo di confine, nel non più e il non ancora, senza che 

l’angoscia  li  travolga.    Dovremmo    rappresentare    un  tramite,  una  possibilità  che 

permetta loro di poter vivere la separazione che, inevitabilmente, li  trascina  nel luogo 

della solitudine. Sta a noi far si   che la loro solitudine non si strutturi come isolamento  

da se stessi e dal mondo esterno, ma piuttosto possa trasformarsi in solitudine interiore,  

viva e creativa nella quale  “…si continua ad essere aperti al mondo delle persone e delle 

cose, e al desiderio di mantenersi  in una relazione significativa con gli altri”36. Aiutarli, 

quindi, ad acquisire, quando è possibile, la capacità di sentirsi vivi trovando il coraggio 

dentro  se  stessi  di  percorrere  la  bellezza  e  pienezza  della  vita  nonostante  i  legami 

danneggiati. Credo che se noi analisti ci appropriamo in modo acritico  dei nuovi canali 

relazionali e dei nuovi stili terapeutici,  rischiamo di snaturale e svilire il nostro sapere, 

che non va negato né tanto meno reso attuale, ritenendo che sia sufficiente  aggiungervi  

un pizzico di neuroscenze, un granello di  cognitivismo e un   buon uso degli  strumenti 

digitali. Tutto questo  per  non sentirci   “ obsoleti non nativi digitali”. 

Volevo  chiudere  il mio  intervento  con un  breve brano di  Jung  che      Borgna,37  nel  suo 

ultimo definisce  di drastica chiarezza e di palpitante attualità.   “… al di là del substrato 

anatomico  v’è  ciò  che  per  noi  è  importante,  vale  a  dire  l’anima,  entità  da  sempre 

indefinibile, e che continua a sfuggire anche ai più abili tentativi di afferrarla” 38. 

        

 

 

  

 

36 Borgna, E.,( 2011) La solitudine dell’anima, Feltrinelli, Milano, p. p.21 37 Borgna, E., (2012) Di armonia risuona e di follia,  Feltrinelli, Milano, p.147 38 C. G: Jung, Psicogenesi delle malattie mentali, Opere, Vol.III, Boringhieri, Torino,1971

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NATIVI DIGITALI 

Elisabetta Trebec 

 

Nativi  digitali  è  il  nome dato  agli  under 18,  ragazzi  nati  e  cresciuti nell’era del  digitale,  che 

sono tra i maggiori fruitori del web e delle nuove tecnologie mobili. 

L’esperienza  coi  nativi  digitali  nasce  dalla  mia  attività  come  terapeuta  e  come  psicologa 

scolastica. Ed è soprattutto  in riferimento al  lavoro svolto  in ambito scolastico che mi piace 

condividere  riflessioni  e  offrire  spunti  di  discussione  non  solo  e  non  tanto  su  nicchie 

patologiche quanto su adolescenti “normali”. 

L’attività digitale inizia molto presto. Nell'Istituto comprensivo (materna, elementari e media)  

dove mi occupo di prevenzione del disagio e dell'abbandono scolastico hanno allestito un'aula 

computer nel ciclo della primaria, a cui hanno accesso  i bambini  fin dalla prima elementare 

per svolgere attività didattiche di vario tipo. A 11 anni tutti sanno già navigare su Internet e la 

maggior  parte  ha  aperto  un  profilo  su  Facebook.(  il  social  network  più  diffuso  nel mondo: 

l'11%  della  popolazione  mondiale  hanno  un  profilo  su  Facebook,  in  Italia  20  milioni  di 

persone hanno aperto un account e quest’anno Facebook ha superato Google come numero di 

visite ). 

Non  ho  dati  statistici  veri  e  propri    ma  ogni  anno  incontro  individualmente  dai  30  ai  40 

ragazzi, dell’età compresa tra gli undici e i tredici anni, oltre ad entrare in contatto con intere 

classi, qualora si rendano necessari interventi di osservazione delle dinamiche di gruppo e di 

facilitazione dell’interazione alunni e docenti. 

Per questi ragazzi il digitale costituisce la lingua naturale. 

E’  il  linguaggio  attraverso  cui  esprimere  se  stessi.  La  connettività  è  al  vertice  dei  loro 

interessi,  ma  non  è  il  primo  interesse.  Il    primo  è  esattamente  quello  che  era  l’interesse 

prioritario delle generazioni precedenti e cioè incontrare gli amici, stare con loro, senza scopi 

precisi, parlare e Facebook costituisce lo strumento attraverso cui mantenere sempre vivo il 

contatto con tutto il gruppo degli amici. 

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Non  il  cellulare,  questo  serve  solo  per  inviare  sms,  “messaggi  di  servizio”,  non  il  telefono, 

usato quasi mai. Il canale privilegiato di contatto è Facebook che, in questo senso, rappresenta 

ciò che era il telefono per le generazioni precedenti. 

Naturalmente con delle differenze: il telefono implica una conversazione a due e consente un 

livello  di  comunicazione  intimo  e  profondo  che  con  Facebook  non  è  possibile.  La 

contemporaneità,  la  simultaneità  e  la  velocità  di  risposta  mantengono  la  comunicazione  a 

livelli superficiali. Del resto Facebook è nato con questo scopo, come luogo virtuale di svago e 

di intrattenimento, per  relazioni   “amicali” percepite come leggere e conviviali. Il  linguaggio 

testuale è breve, abbreviato, sintatticamente povero. Spesso con delle ricadute nella vita reale, 

nella lingua parlata e scritta ( temi pieni di X’ di ti Kiedo, ke cosa ). E’ forse questa la sintassi di 

un nuovo funzionamento mentale? A questo proposito  il dibattito è aperto e nuove ricerche 

(Gary Small) sostengono che non solo l’abuso ma il semplice uso della rete modifica i circuiti 

neuronali ( basterebbero 5 ore di esposizione alla settimana).Anche solo facendo cose molto 

semplici  come  inviare  sms  o  fare  ricerche  in  rete,  il  nostro  cervello  diventa  più  avvezzo  a 

filtrare  informazioni  e  a  prendere  decisioni  istantanee,  in  qualche  modo  si  specializza, 

vengono cioè rafforzati i circuiti ripetutamente attivati a scapito di altri funzionamenti come 

quello affettivo e relazionale.  In altre parole,    Internet starebbe creando uno stato di natura 

digitale.  Una  mutazione,  così  come  in  passato  mutazioni  sono  state  influenzate 

dall’acquisizione della scrittura e poi dall’invenzione della stampa. 

Tornando a Facebook, la sua particolarità è che ci si iscrive col proprio nome e cognome, più 

spesso  gli  adolescenti  si  iscrivono  con  un  nickname ma  si  rendono  sempre  riconoscibili  in 

quanto  il  loro    scopo  è  quello  di  presentarsi  come  se  stessi  e  costruire  un  senso  di 

appartenenza.  

Attraverso  la  condivisione  di  immagini,  di  video,  di  esperienze,  attraverso  lo  scambio  di 

informazioni  tra  amici,  gli  adolescenti  mettono  in  comune  il  proprio  mondo  interiore  e 

qualcosa  di  importante  di  sé.  Facebook  diventa  così  uno  strumento  significativo  nella 

costruzione di un’identità riconosciuta dal gruppo. 

Per questi  adolescenti  lo  scopo non  è  tanto  cercare nuovi  contatti.  Poi  è  vero  che  si  chiede 

l’amicizia  all'amico  dell'amico  e  in  questo modo  si  raggiunge  un  numero  sproporzionato di 

amici  che  nella  vita  reale  difficilmente  si  riuscirebbe  a  gestire,  ma  questo  fa  parte  della 

dinamica del social network dove si è tanto più attraenti quanto più si è richiesti. In realtà lo 

scopo  vero  è  quello  di  mantenere  aperta  la  comunicazione  con  gli  amici  reali,  in  quanto 

Page 83: CIPA Atti S Servolo

necessità psichica; gli amici costituiscono infatti un sostegno emotivo e un confronto sociale 

nel processo di differenziazione dalla famiglia. 

In  questi  termini    Facebook  può  essere  una  vera  e  propria  risorsa  per  quei  ragazzi  che 

soffrono di inibizioni sociali, ragazzi chiusi, con difficoltà di comunicazione e di relazione, a cui 

lo schermo garantisce una protezione che li rassicura e consente loro di esporsi e di entrare in 

contatto con i coetanei, almeno come primo approccio. 

Mi è poi capitato di recente di incontrare genitori che hanno chiesto ai propri figli l'amicizia su 

Facebook. La motivazione è  il  controllo, ma credo anche quella di poterli  conoscere meglio, 

poiché  a  quest'età  si  corre  il    rischio  di  perderli  di  vista,  o  forse  perché mai  visti.  La  cosa 

interessante è che i figli accettano l'amicizia dei genitori, probabilmente per lo stesso motivo 

per cui, in passato, si lasciava in giro il diario segreto, o anche per quella dinamica in base alla 

quale sempre più spesso i genitori abdicano al proprio ruolo e fanno gli amici dei figli. 

L’ altro sito Internet maggiormente cliccato dagli adolescenti è YouTube. 

YouTube  permette  ai  ragazzi  di  rivedere  le  serie  televisive  preferite,  di  vedere    le  puntate 

perse, di ascoltare brani musicali e guardare i video dei cantanti.  

YouTube  consente  dunque  di  coltivare  la  seconda  grande  passione  degli  adolescenti:  la 

musica. La medesima delle generazioni precedenti. 

Un altro fenomeno interessante è quello dei giochi di ruolo, chat  multimediali attraverso cui 

gli adolescenti, in ambientazioni che simulano la realtà, interagiscono tra loro, attraverso dei 

personaggi, gli avatar,  icone rappresentanti  figure umane, animali, oggetti, segni astratti, cui 

viene dato un nome di fantasia. Questo garantisce loro l’anonimato e la possibilità di giocare 

ruoli  diversi,  simulare  identità  diverse.  In  realtà  gli  avatar,  pur mantenendo  l’anonimato  ci 

parlano di chi è in chat, perché metafore di diversi aspetti della personalità del ragazzo, reali o 

desiderati.  

Un  gioco  di  ruolo  che  sta  prendendo  piede  è  il  Palazzo,  la  cui  peculiarità  è  la  convivenza 

stretta  tra  adolescenti  “avatar”  e  adulti  “wizard”,  che  interagiscono  tra  loro,  in  modo 

prolungato  e  intenso.  Gli  avatar  mettono  in  atto  una  serie  di  comportamenti  di  sfida  nei 

confronti dei wizard,  comportamenti aggressivi,  a volte anche molto violenti, provocatori al 

punto  da  scegliere  il  suicidio.  Lo  scopo  è  quello  di  ottenere  risposte  normative,  anche 

repressive, da parte dei wizard. Gli adulti trovandosi nella necessità di mantenere l'ordine e 

Page 84: CIPA Atti S Servolo

difendere  la  sopravvivenza  stessa  della  loro  comunità  sono  costretti  ad  assumersi  il  ruolo 

normativo  in  prima  persona,  offrendo  così  un'opportunità  di  scontro/incontro,  quindi 

un'opportunità di rapporto e crescita più concrete di quelle che gli adolescenti, nella società 

contemporanea, possono trovare in famiglia. 

Sempre  più  spesso,  infatti,  gli  adulti  non  riescono  ad  assumere  un  ruolo  genitoriale 

autorevole,  perché  non  reggono  il  conflitto,  non  reggono  la  tensione  che  deriva  dall’essere 

normativi  di  fronte  a  un  figlio  adolescente,  così  preferiscono  evitare  lo  scontro  e 

accondiscendere  a  tutte    le  richieste  del  figlio  anche  le  più  improbabili,  alimentando  il  suo 

senso di onnipotenza. In questo modo impediscono al figlio lo scontro e dunque l'incontro con 

quella  funzione psichica chiamata padre che è  fondamento del processo di  individuazione e 

che si esprime in forza d’animo e senso di responsabilità. 

Internet diventa allora il terreno di rappresentazione di necessità psichiche inevase. 

Ciò è vero anche nella relazione morbosa con il Web. 

Riporto  il  caso  di  un  ragazzo  tredicenne,  di  terza media,  portato  in  terapia  a  causa  di  una 

importante inibizione sociale che gli aveva fatto abbandonare la scuola: soffriva di un potente 

sentimento di vergogna e di paura del giudizio, degli insegnanti, ma, soprattutto, dei coetanei. 

Si  rifiutava  di  uscire  di  casa,  così  passava  intere  giornate  chiuso  in  camera  sua,  davanti  al 

computer a giocare ai videogiochi. 

Al di sotto del sintomo, c’era una profonda difficoltà individuativa: la paura a separarsi dalla 

propria  infanzia,  alimentata dalla  resistenza della madre alla  sua crescita,  in quanto  il  figlio 

costituiva  per  lei  un  oggetto  sé  e  l'impossibilità  a  confrontarsi  con  un  padre  capace  di 

traghettarlo nella vita adulta. Il padre era un border gravissimo, con un'obesità invalidante la 

vita personale, sociale, lavorativa.  

Ora  il  ragazzo  ha  diciott'anni,  ha  terminato  la  terapia  da  un  mese,  in  concomitanza  dell’ 

iscrizione all'ultimo anno di un istituto tecnico. L’anno prossimo sarà un tecnico informatico. 

In sintesi, il digitale costituisce un linguaggio nuovo attraverso cui gli adolescenti parlano dei 

temi di  sempre.  Internet  è  il  luogo di proiezione di dinamiche  interne, nel bene e nel male, 

espressione di comportamenti tipici e di patologia.  

Potente agente di cambiamento che ha rivoluzionato l'esistenza di tutti noi, agevolando la vita 

pratica,  velocizzando  la  comunicazione  e  il  reperimento  di  informazioni,  il  web  potrebbe 

Page 85: CIPA Atti S Servolo

essere  il volano di comportamenti atipici ma l’esperienza con gli adolescenti mi  insegna che 

all’origine è sempre lo sguardo assente, l’incontro mancato ad impedire di diventare se stessi. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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SINTESI DEI LAVORI ALL'INTERNO DEI WORKSHOP   

     Francesco La Rosa 

Angiola Iapoce  

 Susanna Chiesa 

 

 

 

 

 

 

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WORKSHOP N. 1 

Relazione conclusiva: Franco La Rosa 

  

Non si può certo negare quanto il momento storico che stiamo vivendo porti inevitabilmente a 

dover  fare  i conti con una crisi veramente profonda per quanto attiene alla vita sociale, alla 

realtà  politica,  alle  istituzioni,    al  senso  dell’etica…,  e  per  quanto  ci  riguarda  alla  nostra 

identità di analisti e alle nostre prassi professionali. 

Il nostro lavoro nel pubblico, il nostro lavoro nel privato, la nostra professione di formatori e 

supervisori all’interno delle società scientifiche…! Non c’è area in cui non sia invero necessaria 

una  rivisitazione  delle  nostre  posizioni,  delle  nostre  ideologie,  delle  nostre  modalità  di 

intendere il nostro lavoro – oggi in tempi moderni . 

E’ pur vero che spesso, se ci lasciamo rapire da un certo passatismo, possiamo finire pure per 

indugiare  su  posizioni  magari  “romantiche”…,  quando  l’analista  poteva  vivere  le  sue 

gratificazioni di “curatore d’anima”, di evocatore di mille figure dell’inconscio, di attivatore di 

infinite simbologie nella psiche del paziente, col suo tempo – lungo ‐, col suo setting – protetto 

‐,    col  suo  onorario,  ‐  alto  ‐,  e  al  riparo  da  certe  contaminazioni  esterne  o  da  variabili 

impreviste disturbanti tra snobismi blasé e auto conferme narcisistiche. 

Ma  le  realtà  istituzionali  e  i  tempi  di  crisi  che  viviamo  ci  richiamano  a  ben  altre  realtà:  i 

parametri  ben  noti  di  costo‐beneficio,  di  validazione  degli  interventi,  di  osservanze 

pedisseque di rigide linee‐guida da rispettare senza meno…, per quanto attiene al lavoro nelle 

istituzioni e, ben al riparo da ogni fantasia creativa rispetto a eventuali nuove esperienze da 

poter  tentare  sul  piano  terapeutico  nelle  istituzioni…,  così  come  la  crisi  economica  che  ci 

attanaglia, per quanto riguarda il privato, con le aspettative le più varie dei pazienti rispetto ai 

nostri  interventi,  le sempre meno numerose richieste di analisi del profondo da parte di chi 

vuole  invece  risolvere  subito  il  sintomo,  la  patologia  – quella nosograficamente definita nei 

vari manuali  diagnostici  o  DSM  di matrice  anglosassone …          Ecco,  tutto  questo  ci manda 

davvero in tilt, noi che abbiamo scelto una formazione umanistica mitteleuropea centrata su 

vissuti, emozioni, dinamiche profonde, participation mystique. 

Page 88: CIPA Atti S Servolo

Forse  siamo  superati  o  forse  no…  Beh,  diciamola  tutta.  Certo,  non  si  possono  negare, 

recuperando un certo ottimismo, la nostra vocazione, la nostra estrazione, la nostra mission – 

ovunque operiamo – circa la possibilità di immaginare una psicologia come logos di psiche, di 

logos, cioè, che prende forma da un pensiero d’anima intriso di passione e di immaginazione, 

capace di muovere le infinite figure del teatro dell’anima, in grado di tradursi come intelletto 

d’amore… pronto ad animare – in una parola ‐ “mente‐cuore”, quel disegno interiore più eletto 

e numinoso che fa della terapia, per ognuno di noi, quella reale ars curandi che non potrà mai 

essere imbrigliata in procedure e protocolli da nessuna Azienda Sanitaria, né condizionata da 

esasperate  nosografie  tassonomiche  causalistiche,  asfittiche,  rigide,  “scientificamente” 

derivabili. 

Questa la somma delle riflessioni del nostro gruppo. 

E ancora, non possiamo certo negare il nostro massimo investimento su quella che è e deve 

essere la cura attenta e sempre vigile della nostra equazione personale, della questione etica 

dell’analisi,  della  tensione  costante  alla  dimensione  emozionale  e  affettiva  –  ancorché 

epistemologica e razionale – con chi a noi si affida, con chi da noi si aspetta se non altro un 

accoglimento, un contenimento, un accompagnamento – con i propri strumenti ovviamente – 

nella direzione personale, o verso il proprio progetto individuativo, nel linguaggio di Jung. 

E qui non c’è crisi economica che tenga, né può esserci crisi di identità alcuna, se il terapeuta 

con  la persona sofferente costruirà, per dirla con Anna Benvenuti, una relazione – pur  fuori 

dalle righe – che implicherà quel coinvolgimento profondo capace in ogni caso di esporlo alle 

ferite dell’altro senza troppe difese. 

Quando si è entrati “nella posizione dell’altro” – continua Anna citando Hilmann – “l’altro non 

è  più  solo”…  rimandando  a  Ricoeur  a  proposito  di  empatia  tra  immedesimatezza  e  ipseità, 

rimandando a Giovanni Paolo  II quando, come Lino Ancona sottolinea,  “si nega  la solitudine 

individuale se si attiva una vera cumsolatio” tra gli uomini, come presenza, ascolto, solidarietà. 

E allora sì che il mito dell’analisi potrà perpetuarsi, pure in epoche così incerte e difficili, pur 

tra  le note ambivalenze che certi particolari  tipi di pazienti  ci  attivano, oggi,  che diminuiti  i 

pazienti “a reddito per l’analista”, “pro capite” secondo Corrado Guglieri, si dovrà dare spazio, 

anche  nel  privato  “ormai  più  magro”,  a  soggetti  che  una  volta  erano  magari  delegati  alla 

psichiatria istituzionale. 

Page 89: CIPA Atti S Servolo

“Diminuiscono  i  pazienti  in  analisi,  ma  non  diminuiscono  i  pazienti  da  analisi!  E’  una 

questione di mercato?” Si interroga Corrado, o è anche un problema di “crisi tecnica”…? Come 

dire che è un limite della nostra metodologia di intervento, e/o della mancanza di una vera e 

propria tecnica junghiana! 

E’ forse questa, invece – a volerci ben pensare – la grande originalità del metodo junghiano, si 

è  detto  nel  gruppo;  è  proprio  la  non  sistematicità  di  un  metodo  la  possibilità,  quando 

opportuno,  di  poter  affidare  alla  creatività  dell’intervento,  pur  tra  mille  pericoli  – 

improvvisazioni, misticismi, facili new age – la più bella opportunità di curare facendo anima, 

attraverso gli affetti che orientino la tecnica…, attraverso una particolare poiesis sotto l’egida 

di Euterpe o di Brigit, la santa protettrice dei guerrieri, dei fabbri, degli ulivi, dei poeti. 

Epoca  di  malessere  la  nostra,  epoca  in  cui  un’informazione  massiccia  e  onnivora  ha 

drammaticamente  soppiantato  la  grande  cultura  sapienziale,  epoca  in  cui  un  inconsapevole 

desiderio di sacro si traduce in maniera drammatica ed enantiodromica in conati impropri, in 

rigurgiti d’ombra,  in espressioni patologiche sempre più  incentrate su compulsioni, violenze 

esplosive o sottili, addiction di qualsiasi tipo, crimini di genere che in ogni caso e a certi livelli, 

nella lettura che ne fa Kalsched,  sottointende spesso un trauma.  

E’ quel trauma, dice ancora Anna Benvenuti, che magari può restare in una zona isolata della 

psiche a minare comunque le energie mentali dell’individuo. 

E’ un  trauma più complesso,  che coinvolge  tutta  la sfera psichica e  lo sviluppo del soggetto, 

precisa Francesca Picone, che ispirando il suo pensiero a Fonagy e Target ci avverte quanto il 

maltrattamento danneggi le capacità riflessive del bambino o dell’adulto e il suo senso del Sé. 

Nelle  relazioni  di  attaccamento  traumatico,  sottolinea  ancora  Francesca,  il  soggetto  non 

sperimenta più quel senso di sicurezza definito da Winnicott come fiducia in qualcosa che sia 

buono  e  su  cui  si  possa  contare.  Il  funzionamento  di  modelli  operativi  dissociati  si  situa 

all’interno di un attaccamento traumatico. Si verrebbe così a formare un sistema perverso ove 

i modelli operativi interni danneggerebbero il funzionamento mentale e relazionale. 

Dalle teorie di Jung sul trauma e dalle molte interpretazioni classiche della teoria junghiana – 

questo si è derivato dalle riflessioni del gruppo alle sollecitazioni di Francesca – oggi, non ci si 

può  non  soffermare  sul  mondo  delle  immagini  oniriche  e  delle  fantasie  del  paziente 

traumatizzato, nei cui sogni e nella cui psiche inconscia, si può rintracciare tutto il materiale 

primitivo relativo alla sua difesa. 

Page 90: CIPA Atti S Servolo

Basandosi  su  ciò  che  Fordham definì  le  difese  del  Sé,  c’è  comunque  speranza  –  riferendosi 

Francesca alle sue esperienze cliniche suffragate da quelle portate da Corrado Guglieri e Anna 

Benvenuti  –  che  ci  sia  una  sorta  di  sapienza  intrinseca,  nella  psiche,  ad  assicurare  la 

sopravvivenza di uno spirito personale imperituro, di essenza della persona, di resilienza…, le 

stesse  che  devono  animare  e  soccorrere  quelle  donne,  o  quel  femminile  spesso  oggetto  di 

attacchi, di violenza di ogni genere,  fino alle estreme conseguenze,  in questi  tempi, come ha 

ben  sottolineato  Wilma  Scategni,  intrecciando  di  pathos  il  suo  racconto  tra  suggestioni, 

evocazioni, ricordi. 

Il suo migrare – parliamo di Wilma – i suoi viaggi, i suoi continui spostamenti, hanno aperto a 

riflessioni  sui  metodi,  sui  linguaggi,  sulla  ricerca  di  riferimenti  teorici  per  quella  che  si 

potrebbe  definire  la  etnopsichiatria,  con  quelle  smisurate  messi  di  esperienze  che  hanno 

attivato il suo lavoro massimamente in senso gruppale. Wilma ha certamente coinvolto tutti 

noi per quanto riguarda tematiche inerenti la storia dei soggetti in terapia, le loro voci, i loro 

volti,  le  loro  esperienze  scolpite  nei  “corpi”…,  con  tutto  ciò,  che  soprattutto  in  certi  paesi 

implica    il  complesso culturale  di  cui ha parlato Chiara Sebastiani –,  il welfare,  assistenza,  il 

lavoro, i setting.  

Il  setting,  anche  questo  straordinario  strumento  dell’analisi  è  stato  trattato  dal  gruppo…,  il 

setting come necessità, difesa o luogo sacrale che circoscrive e anima alla stessa maniera quel 

luogo  reale e  simbolico  che  compone e  scompone esigenze, progetti,  confini  e  speranze per 

l’individuo in analisi. 

Il  setting  è  un  rito  della  mente,  dice  Francesca  Picone,  che  in  quell’area  circoscritta  e 

immaginale nello stesso tempo, narra, ricostruisce, ripara il trauma. 

Il  setting, quando adeguato, quando veramente  terapeutico ed etico nel  senso più eletto del 

termine,  elicita  nella  impagabile  figura  dell’analista  che  lo  governa  e  nel  paziente  che  lo 

avverte, quell’esperienza che si potrebbe riferire all’epoca della sua infanzia quando – se gli è 

andata  bene  –  la  presenza  di  figure  di  attaccamento  positivo  sono  state  capaci  di  dargli 

sostegno  emotivo,  contenimento,  “presenza”  di  grande  spessore  con  un  effetto  benefico  sul 

senso di autostima, fiducia, reciprocità, aumentandone le difese e attivando i più sani processi 

di mentalizzazione. 

Solo  riflettendo,  ma  forse  anche  commuovendoci  –  prendo  alla  lettera  una  bellissima 

osservazione di Luigi Aversa sul tema di flerere ­ piangere –  … solo riflettendo, ma in maniera 

Page 91: CIPA Atti S Servolo

critica e costruttiva sul nostro lavoro, sul tempo che viviamo, sui nostri limiti ma anche sulle 

nostre responsabilità di tecnici del cuore e della mente, solo mettendo a disposizione le nostre 

risorse in virtù dei nostri pazienti ma anche del collettivo sofferente, possiamo scongiurare il 

grande pericolo che tutti si corre – e questo è innegabile – e cioè quello di vivere senza gioia, 

senza grazia e senza speranza. 

  

 

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  WORKSHOP N. 2 

 Relazione conclusiva: Angiola Iapoce 

   

Queste  poche  righe  di  sintesi  di  una mattinata  non  vogliono  avere  il  carattere  di  un  saggio 

compiuto,  connesso  e articolato  in  tutti  i  suoi passaggi  concettuali.  Si  tratta di un  “semplice” 

resoconto di un workshop che ha visto la partecipazione di un nutrito numero di colleghi (più di 

una  ventina),  nessuno  dei  quali  ha  assistito  passivamente  alle  relazioni  introduttive  già 

precedentemente  strutturate, al  contrario, ognuno ha attivamente partecipato  con  commenti, 

osservazioni  e  riflessioni. Dare  conto di  tutta  la  ricchezza di una mattinata  è  impossibile, ma 

questo resoconto, pur nella sua colpevole riduttività e nella sua limitatezza e imperfezione, vuole 

comunque testimoniare un incontro, un incontro proficuo che ha ha spostato un po’ più avanti la 

soglia dell’esperienza e della  conoscenza. Molti  sono gli  omissis,  in questo  resoconto, non per 

scelta ma per  limiti mnemonici;  i  lettori potranno notare che non sono presenti nomi e questa, 

contrariamente alle parti non presenti, è stata una mia precisa scelta; ho voluto sottolineare  il 

carattere  “corale”  di  questo  incontro,  piuttosto  che  l’attribuzione  esatta  delle  parole  a  chi  le 

aveva pronunciate. Ho preferito  la dimensione bioniana di  “pensieri  senza pensatore”, perché 

proprio in questa dimensione aperta e “volatile” che ha caratterizzato l’incontro, io ne ho potuto 

scorgere  il  suo  insostituibile valore, un aspetto della nosta vita associativa che  “doveva essere 

così” e pertanto preservato ed espresso come tale. 

La volatilità,  la destabilizzazione e  le nuove  istanze terapeutiche si sono sostanziate,  in questo 

workshop,  in  tre  contenuti:  i  sentimenti  umani,  la  dimensione  temporale  e  la  facoltà 

dell’immaginazione. Si  tratta, a ben vedere di  tre punti  che offrono particolari difficoltà nella 

società di oggi e quindi sono  i punti che più emergono durante  l’analisi; ma si  tratta anche di 

tematiche che  Jung ha ripetutamente affrontato e approfondito nel corso del suo  lungo  lavoro 

teorico, una testimonianza che vi sono sì patologie specifiche, storicamente contestualizzate, ma 

anche che queste vannoquasi sempre a creare contiguità con aspetti generali dell’essere umano, 

presenti da sempre e che riguardano il dato più elementare dell’esistenza. 

 

Page 93: CIPA Atti S Servolo

Il  dibattito  seminariale  ha  preso  le  mosse  da  alcune  considerazioni  intorno  al  sentimento 

dell’invidia, che è stato portato come sentimento particolarmente presente tra i pazienti della 

nostra epoca che accedono alla stanza d’analisi. 

Si  tratta  di  un  sentimento  oggi molto  diffuso  anche  al  livello  sociale  e  ci  si  può  trovare  di 

fronte alla circostanza di invidiare anche ciò che risulta essere moralmente riprovevole. Due 

punti sono stati messi in luce in modo più particolareggiato: innanzitutto si è sottolineato che 

occorre  considerare  il  sentimento  dell’invidia  non  solo  nel  suo  versante  distruttivo,  voler 

togliere all’altro per poter possedere, ma anche nel suo lato “costruttivo”, un sentimento che, 

mettendoci  nelle  condizioni  di  volere  ciò  che  non  si  ha  ma  un  altro  possiede,  ci  spinge  a 

migliorare noi stessi. 

L’altro punto toccato è stato quello dell’invidia del  terapeuta verso il paziente, tematica non 

banale  poiché  consente  di  toccare  il  tema  dell’  “ombra”  del  terapeuta,  la  necessità  di 

considerare la propria ombra e pertanto la necessità di fare i conti con i limiti del terapeuta e 

della  stessa  terapia:  parlare  di  consapevolezza  di  limiti  sposta  l’accento  sull’atteggiamento 

dell’“umiltà” che deve accompagnare il lavoro dell’analista. 

 

Il senso del limite che un sentimento come l’invidia propone sulla scena analitica si riverbera 

anche  sul  vissuto  della  temporalità.  Se  il  senso  di  destabilizzazione,  oggi  particolarmente 

sentito,  si  può  anche  far  derivare  in  una  mancanza  di  scambio  tra  l’individuale,  ciò  che  è 

proprio e il collettivo, risulta evidente che lo stesso senso del limite si va ad intrecciare con il 

vissuto  della  temporalità;  un  tempo  esterno  che  privilegia  una  diacronicità  scandita  e  un 

tempo interno che richiede un respiro che non sembra potersi dare nelle continue e costanti 

interruzioni di un percorso temporale lineare. 

Uno dei mali moderni risiede proprio nell’interruzione del  transito tra  il passato e  il  futuro, 

nell’illusione  che  un  presente  perenne ma  vuoto  possa  sostenere  il  peso  di  ogni  esistente. 

Responsabilità  etica  è  non  bloccare  transiti  e  passaggi,  laddove,  viceversa,  la  possibilità 

terapeutica  si  trova  proprio  nel  riannodare  i  fili  con  un  passato  significativo  afinché  possa 

aprirsi  la  possibilità  di  un  futuro.  I  giovani  oggi  non  hanno  futuro  perché  non  riescono  a 

immaginarlo. 

 

Page 94: CIPA Atti S Servolo

Il  ruolo  fondamentale  giocato  dall’immaginazione  e  il  suo  valore  è  stato  implicitamente 

espresso dal racconto di un sogno di una paziente, racconto che ha permesso di discutere di 

una situazione analitica caratterizzata dalla difficoltà di comunicazione tra analista e paziente, 

ma,  contemporaneamente,  della  necessità  e  del  valore,  da  parte  del  terapeuta,  di  “starci”, 

essere  presente  e  affiancare  silenziosamente,  con  la  sua  semplice  presenza,  i  momenti  di 

blocco  nello  sviluppo  analitico.  Un  atteggiamento  e  un  comportamento  che  richiama  la 

dimensione  etica  della  non‐risposta  che  già  era  stato  messo  in  luce  nella  relazione 

introduttiva del venerdì. 

La  dimensione  etica,  così  fondamentale  per  il  lavoro  dell’analista,  trova  il  suo  respiro  più 

ampio nell’attenzione da dare al linguaggio, sia dell’analista, sia del paziente. Il linguaggio che 

rappresenta la risposta umana a ciò che può essere definito “la tremenda inquietudine delle 

cose”.  In  questo  senso,  il  linguaggio  non  può  essere  considerato  un  possesso  da  parte 

dell’uomo,  ma  poiché  si  innesta  nello  scuotimento  emotivo  del  senso  della  discontinuità 

psichica,  ne  siamo  condizionati,  o  meglio,  lo  ospitiamo.  Se  teoria  è  visione,  secondo 

l’etimologia  originaria,  anche  la  teoria  ci  ospita,  siamo  ospitati  da  una  teoria  che  ci 

sopravanza. 

Cosa differente è il modello, che rappresenta, viceversa, il momento in cui diamo forma a ciò 

che è già conosciuto e noto, sia pure per riorganizzarlo. 

 

Traendo sommariamente e  in modo molto limitato alcune linee conclusive ad una mattinata 

che è stata ricca di sollecitazioni, di domande e di spunti riflessivi, formulo i seguenti punti: 

I  tratti  più patologici di  evanescenza  che gli  analisti  notano nei pazienti  oggi,  che a  loro 

volta rispecchiano una condizione di vita generalizzata e diffusa, invitano ad una prassi 

terapeutica che riscopra quegli elementi già individuati da Jung che sono condensabili 

nel “non avere fretta”, non precipitarsi a dare risposte definitorie: ci si confronta con 

l’evanescenza con un altrettanto di sfumature e di indefinito. 

Sembra essere  fortemente stringente, oltre che un valore da riscoprire, adoperarsi, nella 

pratica clinica, a tenere sempre aperti i passaggi, il transito tra ciò che si è e ciò che non 

si è, tra l’umano e il non‐umano, tra le varie parti della vita psichica, tra il passato e il 

presente, affinché  lo scambio sia continuo e non ci siano blocchi che  immobilizzino e 

arrestino la fluidità di un processo. 

Page 95: CIPA Atti S Servolo

La  prassi  psicoterapeutica  tratta  tutti  quei  vissuti  e  dimensioni  psichiche  che  sono  in 

relazione  con  ciò  che  precede  la  costituzione  dell’Io,  con  le  sfere  della  passività, 

ricordando la medesima radice semantica sia di passivo, sia di patologico. 

Per  offrire  una  cura  alla  sofferenza  dobbiamo  “darci  tempo”,  attendere,  avere 

un’attenzione affettiva e, attraverso ciò, avvicinare i vissuti dolorosi perché scaturiti da 

situazione e contesti di impotenza, qualcosa che si è passivamente subito. 

Sembra, d’altra parte, che tutto ciò che i paziente non sono stati in grado di affrontare 

reattivamente,  o  perché  troppo  piccoli  o  per  situazioni  la  cui  potenza  sopravanzava, 

presenta somiglianze non casuali con il contesto sociale del momento storico che si sta 

vivendo. 

Sembra,  pertanto,  che  oggi  si  può  individuare  il  luogo  della  terapia  proprio 

nell’intreccio tra il personale e il collettivo. 

Infine, non si poteva affrontare il tema della permanente destabilizzazione della psiche che 

riscontriamo maggiormente  in quest’epoca,  senza aprirsi  a uno dei punti  cardine del 

pensiero junghiano: la facoltà e capacità di immaginare, il potere dell’immaginare. 

La crisi della contemporaneità è anche una crisi che esibisce una caduta verticale della 

capacità  immaginativa,  della  leopardiana  capacità  di  “fingere”,  capacità  di  costruire 

nella  propria  psiche  qualcosa  che  definirei  “un  affresco  di  ciò  che  non  c’è”,  la 

composizione dell’assente: i giovani oggi non hanno futuro anche perché non hanno la 

capacità  di  immaginarlo,  e  questa  mancanza  è  da  attribuire  non  esclusivamente  a 

deficit  individuali.  La  terapia  oggi,  ogni  terapia,  a  maggior  ragione,  è  costretta  a 

dirigersi proprio verso  il  recupero della  funzione dell’immaginare, per creare ponti e 

tessiture  tra  ciò  che  è  sotto  i  nostri  occhi  e  ciò  che  non  è  visibile,  tra  la  presenza  e 

l’assenza,  ma  è  comunque  presente  come  inquetudine  e  disagio.

Page 96: CIPA Atti S Servolo

  

 WORKSHOP N. 3 

Relazione conclusiva: Susanna Chiesa 

 

 

Il  workshop  si  apre  con  le  immagini  del  video  di  Bill  Viola  “The  Innocents”  ‐  della  serie 

Transfiguration ‐2007 

 

Due figure dai contorni sfumati affiorano lentamente da uno sfondo grigio e prendono forma: 

un  ragazzo  e  una  ragazza  ‐  i  corpi  ancora  acerbi  –  ci  vengono  incontro  e  s'identificano  nel 

passaggio attraverso una cascata d'acqua. 

L'acqua svela i colori, evidenzia le forme, rivela l'espressione del volto. 

Come in un rito di iniziazione, i due adolescenti nascono al mondo, il loro sguardo ci scopre... 

Adolescenza come nascita, aprirsi al mondo nel faticoso percorso del divenire adulti.  

 

Le  prime  due  relazioni  hanno  affrontato  problematiche  adolescenziali  dal  vertice  di 

osservazione della scuola. 

 

Elisabetta Trebec ha parlato della sua esperienza di responsabile di un servizio di psicologia 

scolastica  in un  istituto comprensivo dell'hinterland milanese  (materna, elementare, media) 

per la prevenzione del disagio minorile e dell'abbandono scolastico. 

Si  tratta di  adolescenti utilizzatori del web  che usano  il  digitale  come  linguaggio  comune:  a 

undici anni sanno navigare in rete, hanno il proprio profilo facebook. 

Lo scopo di questi ragazzi è comunque quello di mantenere sempre la possibilità di accedere 

al gruppo di amici. 

Vogliono rimanere connessi, scambiare musica, informazioni, mostrare immagini.  

La  rete  diventa  il  luogo  di  incontro  virtualmente  sempre  disponibile,  spazio  in  cui  si 

inseriscono anche i genitori – sempre con l' autorizzazione dei figli medesimi ‐ aprendo vie di 

comunicazione trasversali e non sempre chiare. 

L'aggressività nei  rapporti  genitori  figli  si  sposta  e mette  in  scena per  esempio,  in  giochi di 

ruolo tra Avatar che rappresentano i giovani e Wizard ‐ gli adulti.  

Il linguaggio cambia, si contrae,e struttura in forme tronche, come sottolinea Caterina Aiassa, 

oltre che analista, insegnante in una scuola secondaria che partecipa ad un progetto ponte tra 

Page 97: CIPA Atti S Servolo

la  scuola  e  l'Ospedale  “Regina Margherita”    in  cui  sono  seguiti  in parallelo  scuola/ospedale, 

adolescenti con gravi patologie. 

Si  sottolinea  come  la  continua  connessione alla  rete  crei un  contatto diffuso e  continuo che 

spesso arriva ad alterare i parametri spazio/temporali. 

La notte può trascorrere collegati al computer fino alle prime luci dell'alba, e la mattina non 

c'è modo di alzarsi per andare a scuola. 

Nell'ambito di un'apparente diffusa  “orizzontalità”,    anche gli  insegnanti  chiedono  l'amicizia 

su facebook o i ragazzi a loro, come può talvolta accadere anche tra pazienti e terapeuti. 

“Tutti amici” dunque, ma in realtà a queste comunicazioni via web non corrisponde un reale 

incremento  di  contatti  e  amicizie:  persone  che  hanno  “chattato”  tutta  la  notte  –  sottolinea 

Aiassa  ‐    possono  incontrarsi  la mattina  dopo  e  ignorarsi,  con  una  grande  differenza  dalle 

comunicazioni telefoniche degli adolescenti di una volta. 

 

Si  evidenzia  così  la  crescente  diffusione  di  un  virtuale  che  sembra  consentire  un'apparente 

infinita  comunicazione,  a  fronte però di  una  solitudine  generalizzata  e  di  un  aumento delle 

difficoltà di relazione. 

 

Dalla  dimensione più  collettiva  e  generalizzata  della  scuola,  entriamo nella  stanza d'analisi, 

dove  una  musica  ad  altissimo  volume,  dal  ritmo  ossessivo  accompagna  le  parole  scandite 

come  battute  di  un  rapper,  di  Fury  20,  l'interessante  caso  clinico  presentato  da  Rossella 

Andreoli. 

Fury 20, personaggio /Avatar, alter ego violento e inquietante di Furio 15, in realtà pallido ed 

esile  ragazzino  rinchiuso  tra  le  mura  della  sua  stanza  o  dentro  i  circuiti  del  suo  cellulare, 

strumento da cui affiorano inquietanti messaggi e scambi di informazioni sull'uso di sostanze. 

Parliamo  di  una  rivoluzione  tecnologica  senza  precedenti,  con  ricadute  importanti  sul 

funzionamento mentale, come attestano disturbi della memoria e dell'attenzione. 

“Ci dobbiamo chiedere – sottolinea Andreoli – a quali nuovi assetti economici vanno incontro 

alcune  antinomie  centrali  per  il  processo  adolescenziale,  come  rappresentare/percepire, 

pensare/agire,  elaborare/evacuare.  In  che misura  possiamo parlare  di  scacco  del  simbolico 

e/o di nuovi modi del pensare?” 

 

La  mente  non  si  apre  ad  una  tridimensionalità  ma  cortocircuita  in  una  bidimensionalità 

ossessiva,  come  nell'applicazione  di  un  videogioco  ‐  struttura    costituita  da  sequenze 

Page 98: CIPA Atti S Servolo

relativamente semplici  che nella  ripetizione aumenta  la velocità,  con  incrementi progressivi 

della tensione che possono arrivare a scatenare scariche epilettogene.   

Mentre  l'adolescente  rimane  chiuso  nella  sua  stanza,  rinunciando  anche  a  frequentare  la 

scuola,  è  virtualmente  in  contatto  con  tutto  il  mondo,  come  il  fenomeno  degli  Hikikomori 

giapponesi attesta. 

La famiglia resta chiusa fuori dalla porta, davanti a cui pone domande e piatti di cibo, come se 

dentro  soggiornasse  una  belva  o  un  gigantesco  Gregor  Samsa,  scarafaggio  gigante  delle 

metamorfosi di Kafka. 

 

In  un  sistema  dove  è  sempre  più  facile  agire  difese  arcaiche,  con  lo  sviluppo  di  patologie 

borderline,  disturbi  del  carattere,  dipendenze  da  sostanze,  dove  rischiano  di  prevalere 

meccanismi di evacuazione sulla capacità di elaborazione, come può muoversi l'analista? 

Quali strumenti può utilizzare, quale dialogo può aprire con le immagini? 

L'intervento  di  Bianca  Gallerano  riflette  sull'incontro  della  mente  dell'analista  con  la 

sofferenza patologica dell'adolescente, sottolineando come la società fornisca la forma, i modi 

di espressione del disagio, ma non ne sia la causa. 

La  sofferenza  adolescenziale  che  osserviamo  nello  studio  dell'analista  non  si  limita  ad  una 

sofferenza fisiologica, insita nel processo trasformativo adolescenziale, ma rivela la difficoltà 

di accedere all'adolescenza in quanto tale. 

La  posizione  dell'analista  non  può  essere  né  quella  di  un  genitore  ideale,  o  di  un  illusorio 

amico, rischiando di scivolare in derive pedagogiche o seduttive. 

Si tratta per Gallerano, di riconoscere la qualità perturbante dell'incontro con l'adolescente, di 

cercare di identificarlo nella sua specificità per permettergli di ritrovare la sua storia e il suo 

percorso. 

 

Nella ricca discussione seguita agli interventi, viene sottolineato come di fronte alla crescente 

difficoltà di utilizzare il pensiero, di accedere alla possibilità di elaborazione e alla dimensione 

simbolica, la funzione analitica deve ribadire la sua funzione di spazio mentale. 

Il setting si configura come spazio anche fisico di contenimento, rappresentazione e incontro, 

garanzia di accesso ad una possibile verticalità –  io e  te qui,  in uno spazio e  in un  tempo –  a 

fronte della diffusa orizzontalità – tutti sempre connessi, al di là dei limiti di spazio e tempo ­ 

Nella dimensione analitica l'ascolto e il lavoro sul controtransfert diventano, nell'incontro con 

l'adolescente, luogo/spazio privilegiato. 

Page 99: CIPA Atti S Servolo

Da questo vertice emergono proposte differenti che hanno in comune una visione fluida della 

mente dell'analista al  lavoro, mantenendo sempre  la chiarezza del rifiuto di  facili  collusioni, 

con l'attivazione delle nostre parti adolescenziali, o con la proiezione all'esterno del negativo, 

sui genitori o sugli insegnanti, ponendosi nella posizione di genitore ideale o di pedagogo. 

Gli  interventi  sottolineano  anche  l'importanza  del  corpo  nella  relazione  con  il  paziente 

adolescente, un corpo che scompare nella dimensione virtuale ma che deve essere colto nella 

sua realtà e pensato. 

 

Già mentre attende l'ingresso in studio del paziente adolescente, l'analista può sentirsi messo 

alla prova, costretto a confrontarsi con la novità e il limite, una seduta dopo l'altra. 

La terapia dell'adolescente ci pone di  fronte alla nostra capacità di scoprire nuove soluzioni 

per poter incontrare davvero l'altro. 

La fermezza è un assetto mentale, non una rigidità di condotte. 

Si può accettare di usare un nuovo strumento – mail, sms ecc o rifiutarlo, suggerire di giocare 

il tema del video‐gioco come sogno/video “girato” dal paziente. 

Mantenere la curiosità per ciò che il paziente adolescente porta in terapia e cercare insieme di 

aprire spazi di trasformazione a partire da ciò che gli adolescenti amano e usano senza averlo 

mai pensato e soprattutto senza essersi mai posti il problema di una pensabilità. 

Poter  credere  che  gli  stimoli  –  parole,  azioni,  musica,  immagini  –  usati  talvolta 

dall'adolescente  in un eccitamento continuo per non pensare, possano trasformarsi  in aeree 

insature e creative di inquietudine. 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Page 100: CIPA Atti S Servolo

  

CONCLUSIONI 

Vito Marino De Marinis 

 

E per concludere……… 

per concludere   l’esperienza di questi giorni, nella quale si è percepita, credo da parte di 

tutti, una vitalità di pensieri   e di partecipazione attenta e  rispettosa,    vorrei, per prima 

cosa,  ringraziare    i  colleghi  che  con  generosità  hanno  dedicato  il  loro  tempo  e  il  loro 

impegno mentale alla realizzazione di questo incontro. In tal modo hanno resa operativa 

la  dimensione  della  solidarietà,  parola  che  non  ci  interessa  quando  è  solo  formale 

appartenenza  al  politicamente  corretto, ma  è  di  estremo  valore  quando  diviene  azione, 

impegno,  sforzo  condiviso.  Un  ringraziamento,  anche,  a  coloro  che  hanno  portato 

pensieri, riflessioni, che hanno reso comunicabili e  fruibili, per noi, esperienze personali 

trasformate in conoscenza condivisibile. E’ partendo da questi fatti che l’idea di comunità 

diviene esperienza concreta, pratica esistenziale.   

Il nostro  incontro che si  conclude ora ci ha consegnato,  infatti, una densità di  immagini, 

emozioni,  pensieri  e  riflessioni  che non  intendono  concludere,  chiudere  il  discorso,   ma 

essere  fonte,  origine,  chiave di  apertura. Apertura  verso nuovi  Pensieri  e  riflessioni  che 

possono  nascere  nelle  nostre menti,  quando,  una  volta  tornati  a  casa,  nell’incontro  con 

l’altro,  nella  figura  del  paziente,  ci  tornerà  in  mente  quel  plesso  cognitivo,  quella 

comprensione  che un  collega ha  realizzato,  quel modo attraverso  il  quale    ha  risolto  un 

groviglio affettivo. Perché la nostra disciplina non è al servizio di una dimensione estetica 

o    di  una  necessità  narcisistica.  Nel  nostro  contesto  culturale  il  bisogno  di  accogliere  i 

nuovi  pensieri,  nuove  teorie  e  nuove  riflessioni  deve  avere  un  ancoraggio  forte  alla 

dimensione etica. Non pensiamo, scriviamo per realizzare esercizi di stile  o per essere sul 

palco, o per essere nei salotti, o al servizio della new age, che promette pillole di felicità a 

poco prezzo,   ma al servizio della compassione verso la sofferenza e nel tentativo di fare 

di  quest’ultima,  come  scrive  Jung  in  più  parti  ,  occasione  per  la  maturazione 

dell’individuo.  

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Infatti Nel nostro incontro innumerevoli colleghi  con passione e interesse  hanno portato 

il  loro  impegno,  nel  districarsi  fra  concetti,  e  nello      sciogliere  nodi  teorici,  concettuali, 

oppure  sciogliere nodi  affettivi nella  stanza di  analisi.    E’Partendo dalla  loro  esperienza 

che  hanno  cercato  di  portare  avanti  il  pensare  analitico,  un  pensare  che  nasce 

dall’urgenza  di  affrontare,  giorno  dopo  giorno,  le  difficoltà  nell’aiutare  i  pazienti  a 

superare  ,  mitigare  e  sanare  aree  di  sofferenza  ormai  croniche  ,  che  noi  definiamo 

patologia. Partendo quindi da quello che, a mio avviso, è il vero sfondo dal quale il nostro 

pensare origina e trova il suo valore e fondamento. Il resto è  rumore del mondo, esercizio 

di stile nel migliore dei casi.   

Perché  Essere  analisti  significa,  a mio  avviso,  aderire  ad  un’operatività  esistenziale  che 

costringe a rivedere costantemente, come frutto dell’incontro con l’altro, i nostri modi di 

pensare e di organizzare il mondo. Rinunciando, quindi, parzialmente al valore identitario 

delle  teorie  per  entrare  in  un  vero  dialogo  con  il  mondo  che,  oggi,  in  questo  contesto 

assume  la  figura dei  colleghi. E’  il modo nel quale, nel nostro  incontro,  abbiamo cercato  

attivamente , usando le parole di natoli, di “incentivare la prossimità”.  

La prossimità è l’avvicinamento all’altro non per sottometterlo ai nostri bisogni, non per 

cercare  di  renderlo  specchio  narcisisticamente  orientato,  ma  per  attivare  quella 

dimensione  emotiva  che  determina  il  suo  riconoscimento    come  simile,  compagno  di 

viaggio di quell’avventura che è la vita, nel nostro caso specifico, quell’avventura iniziata 

più di cento anni fa con la nascita della psicoanalisi.  

Il considerare l’appartenenza, e il suo fondarsi  nella solidarietà, come valore primario, è 

una  delle  possibile  risposte  alla  diffusa  impressione  di  crisi,  crisi  senza  soluzioni 

definitive  che  sembra  essere metafora  della  condizione  dell’uomo nella  post‐modernità. 

Condizione che si  caratterizza come specifica  relazione con  il  tempo,  come  incapacità di 

pensare  il  futuro,  il  nostro  è  ‘Tempo  senza  promesse’    per  dirlo  con  Levinas.  La 

trascendenza  ha  abbandonato  l’uomo  e  il  mondo  e    il  futuro  diviene  angosciosamente 

incerto:  viviamo  nel  tempo  dell’  incertezza.  Incertezza  che  ci  rende  spaventati  e 

impotenti; ma se la paura non predomina nelle nostre menti, se il senso di impotenza non 

scivola  nell’amarezza,    possiamo  accogliere  la  crisi  come    occasione,  occasione  di 

cambiamento,  di  apertura,  di  possibilità.  Certo  ormai  sappiamo  che  l’azione  è  senza 

garanzie  e  questo  si  riflette  sulle  nostre  convinzioni  teoriche  ma  ancor  più  nel  nostro 

operare  analitico.    Lo  stato  di  incertezza,  l’azione  senza  garanzie  può  produrre  nella 

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mente  angoscia  e  spaesamento  ma  credo  possa  renderla  più  libera  nell’incontrare 

realmente  l’altro  nella  sua  individualita’.  e  in  tal modo  promuovere maggiore  libertà  di 

pensare, di  conoscere, di vivere e  trasformarsi. Certo siamo diventati più vulnerabili ma 

veniamo anche consegnati all’unica possibilità e responsabilità di un incontro individuale 

con la realtà. 

 

  Infine un ultimo pensiero circa   questo    luogo che per molti,  certamente  i più vecchi…., 

attraverso i ricordi, provoca un turbamento  che sembra rimandarci a più di cento anni fa 

, quando ,in un luogo simile a questo, il burgholzli, Carl Gustav Jung iniziava ad ascoltare, 

invece  che  recludere  concretamente  o  recludere  metaforicamente  nella  figura  del  folle 

delle persone, i malati di mente. 

E’ da questo gesto iniziale, credo, sia nata  la psicologia analitica. 

Oggi dopo più un secolo  , possiamo pensare,  che questo  luogo ci  riporta al  senso ultimo 

del  nostro  operare    nel  mondo:  all’etica  dell’ascolto.  un  ascolto,  quindi,  che  non  debba 

‘recludere’  l’altro  all’interno  delle  nostre  teorie  o  dei  nostri  saperi  convenzionali  o 

all’interno  dei  nostri  bisogni  identitari  ,  ma  un  ascolto  attento,  sempre  affettivamente 

aperto  al nuovo che l’altro rappresenta nel suo specifico essere nel mondo. 

Certo  la  follia  nel  corso  della  storia  ha  cambiato  le  sue  maschere.  A  quei  tempi 

predominava  L’isteria,  oggi  le  figure  più  diffuse  sono  le  dipendenze  o  gli  attacchi  di 

panico, ieri la figura del narcisismo.  Piccoli cenni a cassificazioni che si fanno sempre più 

complesse  e  che  tentano  di  afferrare,    di  chidere  ciò  che  inevitabilmente    sfugge:  la 

complessità di esistenze che cercano individualmente di vivere, di sopravvivere al dolore 

estremo.  Perché  la  follia  rimane,  alla  fine,  nella  sua  essenza,  deragliamento,  terrore  e 

dolore  estremo.  Maschera  che  compare,  come  nel  trauma,  quando  una  mente  supera  i 

limiti delle sue possibilità di tollerare il dolore e si frattura, si destruttura o si amputa, un 

volto che si fa deforme.  ed è lì dove il volto si fa smorfia cronica, maschera folle, che per 

noi è necessario ripetere quel gesto  iniziale, riiniziare ad ascoltare  l’altro,  incontrandolo 

dove l’umano sembra apparentemente caduto.