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1 Introduzione Anna Maria Chiavacci Leonardi, già docente presso l’Università di Siena, si è spesa negli ultimi anni per il commento completo della Divina Commedia (fra i più usati nel mondo scolastico ed universitario, pubblicato prima per Zanichelli, ora Oscar Mondadori). Fra le sue più importanti pubblicazioni accademiche è bene ricordare “La guerra della pietate”; per il pubblico ha mandato alle stampe l’introduzione alla Commedia “Dante Alighieri” per le edizioni San Paolo. Incalcolabile il numero di interventi critici sul sommo Poeta.

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Introduzione

Anna Maria Chiavacci Leonardi, già docente presso l’Università di Siena, si è spesa negli ultimi anni per il commento completo della Divina Commedia (fra i più usati nel mondo scolastico ed universitario, pubblicato prima per Zanichelli, ora Oscar Mondadori). Fra le sue più importanti pubblicazioni accademiche è bene ricordare “La guerra della pietate”; per il pubblico ha mandato alle stampe l’introduzione alla Commedia “Dante Alighieri” per le edizioni San Paolo. Incalcolabile il numero di interventi critici sul sommo Poeta.

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PERCHÉ LEGGERE DANTE

Anna Maria Chiavacci Leonardi

Il tema proposto quest'anno per l'inserto monotematico della rivista ha acquistato, nella nuova prospettiva storica che gli eventi degli ultimi mesi hanno creato sulla scena internazionale, una particolare rilevanza. L'autore, o meglio il libro di cui si intende parlare, ha infatti un posto del tutto singolare nell'ambito dell'universo culturale dell'intero pianeta, luogo dove ormai soltanto un discorso critico come quello che qui si vuol proporre può essere fatto.

La Divina Commedia, il poema che il fiorentino Dante Alighieri scrisse sette secoli fa, in un tempo che ci appare tanto diverso dal nostro, è infatti oggi tra i libri più diffusi nel mondo dopo la Bibbia, tradotto in tutte le lingue dei paesi che abbiano una struttura culturale, anche di popoli lontanissimi da noi per tradizione e cultura - come il coreano, o il vietnamita - e appassionatamente studiato nelle università, in quelle del mondo orientale (come accade in Giappone) non diversamente che in quelle del mondo occidentale. E subito ci si pone la domanda di quale sia il segreto di questo testo, che non è letto come un «antico», quale per esempio Omero, ma affrontato e discusso come ci si affronta con un contemporaneo, che pone i nostri stessi problemi, che vive le nostre stesse passioni.

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Una identità culturale

La risposta a questa domanda credo si possa trovare in una considerazione che in certo modo risponde anche alla domanda che il nostro titolo pone. Il poema di Dante, nato sulla fine dell'età medievale, è di fatto la più alta e compiuta espressione - in forma di grande poesia - di quella identità culturale che nel medioevo appunto si costruì e che costituisce quella che è detta la civiltà occidentale; civiltà nata dall'incontro e dalla fusione delle due grandi tradizioni culturali mediterranee, la greco-romana e l'ebraico-cristiana.

Di quella concezione dell'universo e dell'uomo, nella quale ancora affonda le sue radici il nostro mondo, si fece voce il grande poema dantesco che ci è quindi, pur nella diversità delle condizioni storiche, in qualche modo contemporaneo. Esso ci offre infatti l'idea (o meglio si direbbe l'immagine) di un universo intelligibile, retto da leggi finalizzate, fatto a misura della nostra stessa ragione; e in esso quella di un tempo storico - il tempo di quello spazio - che si muove diretto a un fine, e nel quale agisce un essere dotato di ragione e libertà (superiore quindi alla natura) con un destino che oltrepassa gli stessi limiti temporali.

Il razionale ordine del mondo, specchio della mente di un unico fattore, è la grande eredità della filosofia greca, che già riconosce anche la libertà morale e l'immortalità dell'uomo, unica tra le creature terrestri a cui fu concesso dagli dei di non soggiacere alla caducità propria della natura. Ma il valore primario e intangibile della persona, uguale in ogni uomo, in quanto dovuto alla immagine di Dio che essa porta in sé, e al suo destino divino ed eterno (al quale è correlata la finalità della storia) è il segno proprio del cristianesimo.

Queste due realtà sono ancora oggi alla base di ogni aspetto del vivere civile - dalla scienza all'etica alla politica - anche se la coscienza comune non ne è in genere consapevole. E ciò coinvolge anche i popoli che non appartengono alla civiltà dell'Occidente, in quanto il mondo è ormai di fatto per molti aspetti un'unica realtà sociale. Sulla intelligibilità dell'universo si fonda infatti tutto lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico del nostro tempo, mentre solo nel

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valore assoluto della persona trova giustificazione quella dichiarazione dei «diritti umani» che è accettata oggi come base di convivenza da quasi tutti i paesi del mondo.

Ma queste due certezze, fino al nostro tempo radicate nella coscienza stessa dei popoli dell'Occidente, non sono oggi più così sicure: il mondo sembra dilatarsi e sfuggire alla mente dell'uomo, proprio mentre ne è conquistato, e la dignità della persona umana è calpestata nei modi più efferati, proprio mentre è ufficialmente proclamata. Le giovani generazioni si sentono come sospese sull'orlo di questo discrimine, avvertono di non aver più quella sicurezza che sosteneva i loro padri.

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II soggetto del poema

Ora il poema di Dante presenta, in una costruzione in sé perfetta, sia la singolare bellezza dell'ordine dell'universo - racchiuso in un'armonia che determina l'esatta inclinazione dell'orbita degli astri come il momento del dischiudersi di un fiore - sia la straordinaria qualità della persona umana, quell'unico essere libero nella necessità che regola ogni moto del cosmo. L'uomo, in quanto libero e padrone del suo destino, è infatti l'oggetto primario del poema, come l'autore stesso dichiara nell'epistola dedicatoria del Paradiso a Can Grande della Scala (Ep. XIII 25).

E tutti i lettori conoscono la varietà e la viva realtà dei tanti, uomini e donne, umili e potenti, che popolano la Commedia, il poema che per primo mise in scena non solo eroi e principi, non personaggi della leggenda e del mito (come nei poemi classici), ma uomini oscuri, ignoti alle cronache, in tutto uguali agli altri - i grandi e famosi - per dignità e destino. Tale uguaglianza non esiste in realtà in nessuna cultura fuori del cristianesimo (anche il grande Aristotele considerava il libero e lo schiavo come due diverse specie di uomini, e ancora oggi in ogni civiltà sono stabilite caste e differenze). Essa nacque quando furono scritte le celebri parole della Epistola di san Paolo ai Calati: «non c'è più né ebreo né greco, né uomo né donna, né schiavo né libero», perché tutti sono ugualmente figli di Dio. Ed è oggi il cardine delle strutture civili del mondo occidentale.

La lettura di Dante è dunque, per l'uomo dell'Occidente, la lettura, cioè la presa di coscienza, della propria identità, coscienza che sola permette di intendere quella altrui. E ciò è tanto più vero in Italia, paese che ha al suo centro civile e culturale la città di Roma, l'erede storica della tradizione greca come di quella cristiana, e il centro politico che ne diffuse i valori in tutto il mondo occidentale. Guardandosi intorno, dai monumenti dell'antica civiltà greco-romana, alle grandi chiese medievali, ai palazzi rinascimentali, all'immenso patrimonio di arte figurativa che secoli di tradizione hanno espresso, ogni italiano vede scritta la propria storia, ed è quella storia che il libro di Dante racconta e fa comprendere dall'interno, attraverso il solo linguaggio, quello della

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poesia, che ha questo potere, potere che nessun trattato né libro di storia possiede.

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Un realismo umanissimo

E in particolare la poesia dantesca appare dotata di una singolare capacità di penetrazione. La sua grande forza, il segreto della sua «leggibilità» da parte di ogni cultura, sta nel suo oggetto primario, che è, come si è detto, la persona umana: l'uomo di Dante vive nel tempo storico, nella realtà concreta e quotidiana, non ha nessuna connotazione speciale, nessun alone che lo distanzi dal lettore; e pur essendo esattamente collocato nel tempo e nello spazio geografico, anzi proprio per questa sua condizione, che è quella di tutti gli esseri umani, è in tutto simile ad ogni altro uomo, di ogni luogo e tempo. La profonda, partecipe conoscenza che Dante ebbe dell'uomo, di cui egli sa e ridice ogni moto del cuore e ogni atto, sguardo, sorriso - dal gesto del lattante che svegliato in ritardo cerca il seno materno, al sospiro dell'epilettico che riprende coscienza, al pianto del morente - dà alla sua poesia quel singolare fascino che conquista ogni lettore.

Ma al fondo di tale attento, diremmo amoroso realismo, sta la concezione dell'uomo per cui la vita nel tempo ha il suo compimento nell'eternità. Di qui discende infatti l'estremo valore che acquista ogni gesto - fisico o morale - compiuto nella storia: una parola, una lacrima, un moto del cuore. È quel fine ultratemporale che dà alla Commedia di Dante il suo carattere singolare e forse unico. Essa racconta le vite umane da quella riva oltre il tempo, dove esse trovano il loro senso. Quel mondo ultraterreno è infatti paradossalmente il solo che dia significato alle storie della terra. Tutti gli uomini di Dante vedono la propria vita all'indietro, ricordando i gesti compiuti nel tempo, quei gesti, talvolta uno solo, e brevissimo, che decisero della loro sorte. Di quei gesti è intessuto tutto il poema, nel quale ogni lettore riconosce il suo, e ne misura il valore.

Ricordiamo, nel primo regno, il bacio che perdette Paolo e Francesca - di cui vediamo l'impallidire del volto, l'incontrarsi degli sguardi, il tremito di tutta la persona - e l'alzarsi dei remi della nave di Ulisse nel varcare lo stretto di Gibilterra (il limite posto dagli dei alla conoscenza dei mortali). Così nel secondo

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regno, quello dei salvati, troviamo la figura emblematica del grande principe Manfredi di Svevia, scomunicato dal papa e carico, come egli stesso dice, di «orribili» peccati, che ferito a morte si rivolge piangendo a Dio, e viene accolto tra le sue braccia misericordiose:

«Orribil furon li peccati miei;ma la bontà infinita ha sì gran braccia,che prende ciò che si rivolge a lei» (Purg. III, 121-123).

E come lui Buonconte da Montefeltro, ugualmente ucciso in battaglia, per una sola parola - il nome di Maria - e una sola lacrima di pentimento, viene strappato al demonio e portato in cielo da un angelo all'ultimo istante (Purg. V, 94-108). Non diverse situazioni Dante ci presenta nel regno dell'eterna felicità, tra i beati del paradiso, dove si trovano anzi dei casi di salvezza che si possono chiamare estremi. Qui incontriamo addirittura un pagano, l'imperatore Traiano, salvato per un atto insieme di umiltà e pietà: egli fermò infatti l'esercito in partenza per la guerra, cedendo alle preghiere di una povera vedova che lo supplicava di fargli giustizia per la morte del figlio («la vedovella consolò del figlio»: Par. XX, 45; cfr. Purg. X, 73-93). E - altro caso limite - vediamo risplendere di straordinaria luce una celebre figura biblica, la prostituta Raab, che a Gerico accolse nella sua casa e pietosamente salvò da morte i messi di Giosuè, favorendo così la vittoria del popolo eletto (Par. IX, 112-126).

Dal limite varcato da Francesca e da Ulisse, al pianto salvifico di Manfredi e Buonconte, agli atti misericordiosi di Traiano e Raab, la storia umana si rivela così nel poema portatrice di valori eterni, preziosa in ogni suo irripetibile momento. Essa non si ripete ciclicamente, non svanisce nel nulla, non è affidata al caso, ma ha una sua durata, un principio e una fine, dove ogni singolo gesto trova il suo compimento.

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Lo spirito e la lettera

In questo breve campionario dei molteplici casi della vita storica presenti nella Commedia dove è sottolineato il valore prezioso insito nel tempo, è possibile riconoscere un altro aspetto del poema dantesco, forse il più significativo che segni la sua singolare «modernità», sopravanzando in qualche modo lo stesso tempo che chiamiamo moderno. Intendiamo il primato dato sempre, e in modo ben evidente, allo spirito sulla lettera, alla coscienza del singolo sulle istituzioni e la legge. Così Manfredi, colpito dalla scomunica papale «con anatema», la più grave, per cui era da tutti considerato dannato, si salva per un solo moto del cuore pentito. E inversamente Guido da Montefeltro, che da un papa è stato assolto, si perde per la mancanza appunto del pentimento. Così accanto a Traiano un altro infedele, il virgiliano Rifeo, è salvo senza il battesimo sacramentale per un dono gratuito di Dio alla sua fedele osservanza della giustizia. E la biblica prostituta Raab, come la nobile Cunizza da Romano, sono accolte in Paradiso nonostante i loro gravi peccati per i loro gesti di pietà.

Cose queste, dice Dante stesso, che parrebbero forse difficili ad accettare alla gente del mondo (Par. IX 34-36 e XX 67-69). Difficili allora, come, crediamo, ancora oggi per molti.

Ma tale è la profonda convinzione di Dante, che fin dal Convivio scriveva non esser necessario farsi frati o monaci per essere religiosi, ma si può esserlo anche «in matrimonio stando», perché «Dio non volse religioso di noi se non lo cuore». (Conv. IV XXVIII 9).

Come tutti sanno, tale convinzione, che ha le sue radici nel Nuovo Testamento (cfr. Rom. 2, 28-29, passo da Dante espressamente ricordato nel luogo citato sopra), non è propria nemmeno nel mondo di oggi delle varie culture e religioni, e nella stessa Chiesa cattolica - che pure la professa nella sua dottrina - è spesso ignorata o contestata dai cosiddetti «benpensanti».

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Il motore dell'universo dantesco

Ma dietro a questo atteggiamento morale - che è poi la molla che sola può unificare, a nostro parere, l'umanità nelle sue molteplici realtà culturali e istituzionali - sta l'elemento primario che muove tutto l'universo dantesco, e cioè l'amore, grazie al quale appunto ogni regola, ogni legge può essere superata (come i casi di Manfredi e Raab insegnano). L'amore è infatti, nella Commedia, come la luce che tutto illumina, la sorgente da cui ogni sua parte si alimenta. La stessa parola amore è tra le più ripetute lungo i suoi quindicimila versi, e da essa muove, e in essa termina, il cammino del poeta protagonista.

L'uomo smarrito che troviamo in apertura del poema è soccorso per un gratuito gesto di pietà che dal cielo interviene a suo favore (Inf. II 94-96), e la donna che scende a procurargli la salvezza è colei che fu l'amore della sua giovinezza, e che così dichiara la ragione per cui ha lasciato il luogo della beatitudine: «amor mi mosse, che mi fa parlare». Così alla fine, quando quello stesso uomo giunge a contemplare la realtà divina, il compimento di ogni suo desiderio si realizza nell'identificarsi della sua libera volontà con l'amore che regge tutto l'universo: «l'amor che muove il sole e l'altre stelle».

Lo stesso atto creatore è di fatto più volte definito, nella Commedia, come atto di amore. Così nel primo canto del poema è ricordato il momento - l'inizio della creazione - in

cui vennero creati gli astri: «,.. quando l'amor divino / mosse di prima quelle cose belle» (Inf. 139-40). E così alla fine del Paradiso si descrive la creazione degli angeli:

«,.. in sua etternità di tempo fore, /fuor d'ogne altro comprender, come i piacque, / s'aperse in nuovi amor 1'etterno amore» (Par. XXIX 16-18).

Questo onnipresente amore è quello stesso che raccolse il morente Manfredi, pur maledetto dalla scomunica papale, nell'ultimo barlume di vita, e di speranza:

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«Per lor maladizion sì non si perde, /che non possa tornar, l'etterno amore, / mentre che la speranza ha fior del verde» (Purg. III, 133-135).

In un tale universo, dove ogni minimo gesto di amore è raccolto, e ogni uomo - povero o potente - è ugualmente prezioso e destinato a un glorioso destino, forse i giovani del nostro tragico tempo possono trovare una risposta alla loro domanda di significato. Forse il poeta fiorentino del Duecento può ancora offrire, con la sua alta parola così vicina all'uomo e così immersa nel divino, una indicazione di speranza.

Anna Maria Chiavacci Leonardi - Università di Siena

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Meeting 2001

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Il poema di Dante: la storia nell’eternità

Venerdì 24, ore 18.30

Relatrice:Anna Maria Chiavacci Leonardi,Professore ordinario di Filologia e Critica Dantesca all’Università degli Studi

di Siena

Moderatore:Davide Rondoni

Rondoni: Questo incontro ha per tema Dante, la sua opera. Sono molto contento che ci sia questo incontro e credo che lo sarete anche voi, avendo la pazienza di ascoltare, perché la persona che oggi ci parlerà di Dante è sicuramente una delle voci più autorevoli della critica dantesca; per questo quarto d’ora che siamo stati insieme, anche una delle voci più simpatiche della critica dantesca. La professoressa Chiavacci Leonardi che insegna all’università di Siena, è autrice di molti studi su Dante; il primo e il più importante ha convinto molto come titolo: La guerra della pietate, saggio per un’interpretazione del Paradiso, del 1979. Dal 1991 è l’autrice del commento a La Divina Commedia de I Meridiani di Mondatori, la collana italiana più prestigiosa. Questo suo lavoro ha fatto in modo che la sua opera sia oggi uno dei riferimenti più importanti sia per gli studiosi, sia per tutti coloro che si avvicinano all’opera di Dante.

Sono molto contento anche perché, come potrete rendervene conto personalmente, il modo di guardare e il modo di leggere l’opera di Dante della professoressa ha una particolare assonanza con il tema del Meeting, con quello che ci siamo detti in questi giorni. Quando si pensa alla Divina Commedia, si pensa ad un’opera in cui il tempo e l’eterno sono messi sotto il fuoco dello sguardo di un uomo come Dante, che era un cristiano che amava l’avventura, e

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che, per questo, guardava il tempo nel suo incardinarsi nell’eterno, guardava il tempo così profondamente, così appassionatamente che non poteva che vederne l’immagine eterna. Questo ha a che fare con questi giorni, perché è lo specifico, l’originale dell’opera di Dante, perché è lo specifico e l’originale dell’avvenimento cristiano, che permette di guardare la storia nei suoi dettagli, avrebbe detto Pasternak, nei suoi particolari in questo modo. Sono molto contento, quindi, perché c’è una sintonia nello sguardo che la professoressa ha portato dell’opera di Dante da cui noi possiamo solo imparare. Ascoltiamo quindi la sua relazione, poi se ci sarà tempo e modo potremo anche discutere un po’.

Chiavacci Leonardi: Grazie di questa introduzione così lusinghiera, e forse anche un po’ caricata nell’insieme, però la ringrazio molto. Vorrei cominciare da questa considerazione: questo poema scritto da un fiorentino ormai circa sette secoli fa, in un tempo che appare molto lontano dal nostro, è oggi uno dei libri più diffusi nel mondo dopo la Bibbia. Non è sostenuto dalla lingua, che non è certamente una delle più note nel mondo, né dalla nazione, che non è tra le più potenti; tuttavia è tradotto in tutte le lingue, quasi tutte, nei paesi che abbiano una qualche struttura culturale, anche di popoli molto lontani per tradizione e cultura, come può essere il vietnamita e il coreano, dove si intraprendono traduzioni della Commedia. Studiata nelle università con grande passione anche in quelle orientali, come in Giappone, dove ci sono specialisti di Dante, come in quelle occidentali. Ecco, c’è quindi da chiedersi il segreto di questo testo, che non è letto come può essere un antico come Omero, ma viene affrontato e discusso come si affronta un contemporaneo, che ha i nostri stessi problemi e vive le nostre passioni. La risposta a questa domanda forse si può trovare in una considerazione che comunemente non viene fatta: questo poema, nato alla fine dell’età medievale, è di fatto la più alta, la più compiuta espressione, in forma di grande poesia, di quell’identità culturale che nel medioevo si costruì, e che costituisce quella che è detta la civiltà occidentale, civiltà nata dall’incontro e dalla fusione delle due grandi tradizioni: la greco-romana e l’ebraico-cristiana. Di quella concezione dell’universo e dell’uomo, nella quale affonda le sue radici il

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nostro mondo moderno, si fece voce il grande poema dantesco. Questo poema offre da una parte l’idea, o meglio, trattandosi di una poesia, l’immagine di un universo intelligibile, armonioso, regolato da leggi finalizzate, fatto a misura della nostra stessa mente; dall’altra parte offre l’immagine di un tempo storico, il tempo di quello spazio, che si muove diretto ad un fine, secondo un suo interno ordine. Questo fine come si vedrà e si dirà più avanti, oltrepassa insieme il tempo e lo spazio e li racchiude entrambi. Ora, quel razionale ordine del mondo che è specchio della mente del suo Fattore, che regge infine tutta la struttura del poema, dal principio alla fine, è la grande eredità della filosofia greca, ma in quel tempo storico, che entro l’universo si svolge, si muove un essere libero e immortale, quella persona umana il cui valore primario e intangibile, dovuto all’immagine di Dio che esso porta con sé, è il segno proprio del Cristianesimo. Queste due realtà sono ancora oggi alla base di ogni aspetto del vivere civile, della scienza come dell’etica e della politica, anche se la coscienza comune in genere non ne è consapevole. Ciò coinvolge anche popoli che non appartengono alla civiltà dell’Occidente, in quanto il mondo è ormai, di fatto, un’unica realtà; infatti, sull’intelligibilità dell’universo si fonda tutto lo straordinario sviluppo scientifico e tecnologico del nostro, e solo nel valore assoluto della persona trova giustificazione quella dichiarazione dei diritti umani, che è accettata oggi come base della convivenza civile da quasi tutti i paesi del mondo.

Queste due certezze, fino a questo tempo radicate nella coscienza stessa dei popoli dell’Occidente, non sono più, oggi, così sicure; il mondo sembra dilatarsi e sfuggire alla mente dell’uomo proprio mentre ne è conquistato, e la dignità della persona umana è calpestata nei modi più efferati, proprio mentre ufficialmente è proclamata nei diritti umani. Le giovani generazioni si sentono come sospese sull’orlo di questo discrimine, avvertono di non avere più quella sicurezza che sosteneva i loro padri. Il poema di Dante ci presenta, in una costruzione in sé perfetta, sia la singolare bellezza dell’ordine razionale dell’universo, sia la straordinaria qualità della persona e dell’uomo, unico essere libero nella determinazione che regola ogni moto del cosmo. Ed è presente in una forma in cui il suo carattere primario è quello di una totale certezza: il metro stesso, la

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terzina incatenata, la sintassi sempre perfettamente conclusa, la cadenza stessa del ritmo ternario, racchiudono dal primo all’ultimo verso nella loro solidità, quasi di un cristallo, un mondo sicuro, dove la nostra mutevole vita, pur vivamente presente come un direttore della commedia sa, in ogni sua sfumatura fino alla più drammatica, trova il suo senso e il suo valore. È quel fine posto al di là del tempo che dà alla narrazione della commedia il suo carattere singolare e unico. Essa racconta, infatti, le vite umane dalla riva oltre la storia; tutti gli uomini di Dante, come i lettori sanno, vedono la loro vita all’indietro, ricordando i gesti compiuti nel tempo, quei gesti, talvolta uno solo e brevissimo, che decisero della loro sorte; di quei gesti è intessuto tutto il poema, nel quale ogni lettore riconosce il suo e ne misura il valore.

Il tempo storico dove tutto si decide, ma che non è fine a se stesso, è l’argomento proprio del poema di Dante, l’uomo della Firenze del ’300, immerso nella drammatica storia civile della sua città (come sapete è momento della lotta tra guelfi Bianchi e Neri), quella storia civile da lui appassionatamente vissuta. Dante fu cacciato in esilio, in certo modo posto come fuori dalla storia, e della storia ricerca e ritrova il senso profondo con quello sguardo interiore che gli fu dato in sorte e che la fede sostenne; ne ritrova il senso che oltrepassa l’effimero e l’apparente per cogliere la realtà del vivere umano. La Commedia si presenta, all’apertura del libro, come un testo pieno di storia, intessuto di storia come nessun altro poema epico; non il mito e la leggenda proprio dell’ethos antico, non i semidei, gli eroi e i re, che sono i protagonisti dell’ephos antico. Nel poema sono indicate date precise, nomi di uomini sia antichi che contemporanei, illustri ma anche oscuri, tutti esattamente collocati nel tempo e determinati geograficamente. Si pensi all’inizio: in un paesaggio ideale, la selva oscura, che è poi naturalmente simbolica, appare un’ombra, quella di Virgilio; quest’ombra, appena parla, fornisce date e luoghi: «Non omo; omo già fui,/ e li parenti miei furon Lombardi,/ Mantovani per patria ambedui./ Nacqui sub Julio, ancor che fosse tardi/ e vissi a Roma sotto il buon Augusto,/ al tempo degli Dei falsi e bugiardi» (Inf. I, 67-72). Virgilio indica la data e il luogo di nascita, parla dei genitori, precisando che furono ambedue mantovani per patria. Data e luogo

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irrompono in questo paesaggio che sembra simbolico. Proseguendo, le determinazioni sono continue; di tutti i personaggi sappiamo esattamente dove e quando sono nati, in quali epoche e guerre si sono trovati. Spesso le determinazioni geografiche sono date dai fiumi, come ad esempio per Francesca da Rimini: «Siede la terra, dove nata fui,/ su la marina dove il Po discende/ per aver pace co’ seguaci sui» (Inf. V, 97-99), o come per Francesco d’Assisi: «Intra Tupino e l’acqua che discende/ del colle eletto del beato Ubaldo» (Par. XI, 43-44); lo stesso vale per Canizza da Romano: «In quella parte della terra prava/ italica che siede tra Rialto/ e le fontane di Branta e di Piava» (Par. IX, 25-27). Insieme a precise indicazioni geografiche, vengono date quelle storiche e relative alle famiglie di appartenenza: «Io fui di Montefeltro, io son Bonconte» (Pg. V, 88). Alcuni nomi, alcune determinazioni sono, a noi moderni, completamente ignote, occorre cercarle nei libri di storia, negli archivi; più sono determinate e più attraggono il lettore. Questo è in genere tutto il tessuto del poema.

Nei poemi antichi e anche medievali, come nel ciclo di Re Artù e della Tavola Rotonda, era sempre necessario che il protagonista fosse un eroe; l’uomo di Dante non ha bisogno, per acquisire dignità, di un blasone terreno; ogni uomo, infatti, ha una dignità suprema. Solo in questo poema gli oscuri e i grandi (perché ci sono anche papi, re e imperatori) hanno la stessa identica dignità, sono tutti uguali. Questa è una grande rivoluzione nella storia della cultura umana, tuttora riconoscibile, che distingue il Cristianesimo e la civiltà che da esso è nata. Questo compare nella Lettera ai Galati di San Paolo: non c’è più né Ebreo, né Greco, né uomo né donna, né schiavo né libero; queste erano le distinzioni fondamentali della cultura di allora. Gli Ebrei e i Greci erano due popoli completamente diversi l’uno dall’altro; Aristotele pensava che l’uomo libero e lo schiavo fossero quasi due diverse specie di uomini. Paolo, con queste parole, introduce nella storia umana questa singolare rivoluzione. Così sono gli uomini del poema dantesco.

C’è poi un’altra fondamentale diversità che contrassegna il poema di Dante. Dopo i fatti di Galilea, la stessa concezione culturale del mondo è cambiata: la differenza consiste nel fine. La struttura della narrativa del poema è quella di un

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viaggio, elemento tipico dell’ephos mediterraneo, sia cristiano, che ebraico, e classico. Potremmo riportare molti esempi: Abramo, che parte confidando nella parola di Dio, senza sapere neppure dove andrà, per fondare un nuovo regno di pace e di felicità; anche Enea parte perché crede nella parola degli dei, per fondare a Roma, sulle coste italiche un nuovo regno di felicità; Mosè porta il suo popolo fuori dall’Egitto, fuori dalla schiavitù per andare nel paese promesso, in un luogo di libertà; Ulisse ritorna a casa dopo un lungo viaggio. C’è una doppia configurazione in questi viaggi, di chi va verso un luogo ignoto e chi ritorna verso la propria casa. Ogni popolo ha, inoltre, la propria determinazione e configurazione geografica: i Greci vanno per mare, gli Ebrei per terra. Il fine, inteso come luogo fisico, della Commedia non è raggiungibile né con i carri né con le navi, ma è posto oltre lo spazio; è un luogo irraggiungibile, è nell’eternità. Anche il poema di Dante, infatti, è un viaggio che l’autore compie, un viaggio che inizia nella selva oscura e finisce nell’empireo, nel luogo eterno. Questa novità dipende da quel cambiamento culturale di cui si diceva, perché, cadute le figure, resta la realtà; quei luoghi dell’epica antica, i luoghi d’arrivo storici, non sono che figure del luogo che la commedia ci offre; sono le figure della vita dolorosa dell’uomo che cerca di arrivare ad un luogo di felicità e di pace; invece, il luogo offerto dalla Commedia è la realtà. Paradossalmente, quindi, luoghi storici, concreti, toccabili sono figure; il luogo, invece, che non si vede è la realtà. Tutto l’universo è diretto ad un fine, un fine che lo trascende, come dice il primo canto del Paradiso, con tono assertivo e sicuro: «Le cose, tutte quante/ hann’ordine tra loro; /questo è forma che l’universo a Dio fa simigliante» (Par. I, 103-105).

In quest’ordine stabilito in ogni dettaglio, Dante fa un’osservazione curiosa sul movimento degli astri: se un astro si muovesse diversamente e modificasse l’inclinazione della sua orbita di un decimo di grado, tutto precipiterebbe. C’è, quindi, una regola assoluta, un ordine nel quale si muove una creatura dotata di libertà: «così da questo corso si diparte/ talor la creatura, ch’ha podere/ di piegar, così pinta, in altra parte» (Par. I, 130-131): che ha il potere di piegare, pur così sospinta, in un’altra direzione. Questo è naturalmente la descrizione dell’uomo,

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che vive nella storia, il cui gesto compiuto liberamente può condurlo ad esiti diversi. Per questo il gesto storico di ogni personaggio è così prezioso. Dante conosce la realtà dell’uomo nei suoi minimi dettagli, ed è quello che affascina sempre il lettore; tutti gesti che Dante conosce e rappresenta in maniera perfetta e riempiono il poema, e questi gesti spesso decidono la vita dei suoi personaggi. Alcuni esempi: il bacio tra Paolo e Francesca, che accade durante la famosa lettura del libro: «ma solo un punto fu quel che ci vinse» (Inf. V, 132); il varco di Ulisse alle colonne d’Ercole: «de’ remi facemmo ali al folle volo» (Inf. XXVI, 125); Bonconte da Montefeltro arriva, ferito a morte, sulla riva del fiume, e con una sola lacrima salva tutta la sua vita di peccatore; arrivano l’angelo e il diavolo a contendersi l’anima; l’angelo porta la sua anima in cielo e il diavolo replica “O tu del ciel perché mi privi?/ Tu te ne porti di costui l’etterno/ per una lacrimetta che ’l mi toglie» (Pg. V, 105-107). Sono gesti minimi, ma ogni gesto nella storia ha questa risonanza e valore nell’eternità.

Questo valore della storia è come un germe che deve fiorire, quasi germogliare nell’eterno, come sarà detto nella preghiera alla Vergine, nell’ultimo canto; Dante, rivolgendosi nella preghiera a Maria, dice: «Nel ventre tuo si raccese l’amore/ per lo cui caldo nell’eterna pace/ così è germinato questo fiore» (Par. XXXIII, 7-9). È la fioritura nell’eterno di tutta questa storia umana grazie all’amore divino dell’Incarnazione. Accade per questo valore di eternità posto nella storia, che i due piani nel poema sembrano distinti, ma vicini tra di loro; la morte, se si pensa agli incontri di Dante nel poema, sembra quasi non abbia posto come quella barriera che noi avvertiamo. Dante si aggira nel mondo dei morti, ma essi appaiono non diversi dai vivi; li riconosce e parla con loro con tutta naturalezza. Ad esempio quando incontra l’amico Forese Donati: «Forese, da quel dì/ nel qual mutasti mondo a miglior vita,/ cinqu’anni non son vòlti infino a qui» (Pg. XXIII, 76-78); c’è questo tono di amicizia, come quando parla con Belacqua, o con Brunetto Latini nella grave condizione dell’inferno, dove, dopo il primo stupore: «siete voi qui ser Brunetto», dopo il drammatico scambio di battute, loro due si mettono a camminare tranquilli e l’uno chiede notizie all’altro. C’è, quindi, una barriera infranta, invisibile, tra morti e vivi. Questo

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mondo di morti nell’aldilà è un mondo di vivi, un mondo di corpi. Questi corpi sono fittizi, perché devono attendere il giorno del giudizio universale, tuttavia hanno una realtà straordinaria e noi li vediamo come veri. Si pensi ai gesti con cui si muovono i personaggi dell’Inferno, come ad esempio Farinata che «s’ergea col petto e con la fronte» (Inf. X, 35). Questa loro realtà, questa loro consistenza, per cui sono indistinguibili dai vivi, viene dal dogma cristiano della resurrezione dei corpi, perché tutte le anime dell’aldilà aspettano il corpo che un giorno rivestiranno; questo è essenziale per comprendere il poema di Dante; in tutto il poema, fin dai primi canti, viene ricordato quel corpo sepolto nella terra. Nel sesto canto dell’Inferno Virgilio spiega a Dante che: «Ciascun rivederà la trista tomba,/ ripiglierà sua carne e sua figura» (Inf. VI, 97-98). Pier delle Vigne, il suicida, dice: «Come l’altre verrem per nostre spoglie, ma non però ch’alcuna sen rivesta;/ ché non è giusto aver ciò ch’om si toglie» (Inf. XIII, 103-104). Ricordate l’incontro con Catone, quando Virgilio, sulla riva del Purgatorio, gli ricorda quella splendida veste che Catone lasciò appunto suicidandosi in Utica: «Tu ’l sai, ché non ti fu per lei [la libertà] amara/ in Utica la morte, ove lasciasti/ la vesta ch’al gran dì sarà sì chiara» (Purg. I, 73-74). Quella veste lasciata sulla terra apparirà nello splendore dell’ultimo giorno, «che al gran dì sarà sì chiara», cioè luminosa, splendente.

I corpi sepolti sono una traccia ricorrente durante tutto il poema, fino nel Paradiso, dove è singolare l’incontro con san Giovanni Evangelista. A proposito della morte di San Giovanni Evangelista, c’erano differenti opinioni; secondo la credenza popolare, si pensava che fosse stato assunto in cielo con il corpo, come Maria. Dante, quando vede la luce, la fiamma di Giovanni, perché in Paradiso le anime appaiono come fiamme e non come fuochi, si sforza di vederne il corpo; Dante autore finge, mettendosi nei panni del Dante personaggio, di rappresentare il comune fedele, il cristiano comune, popolare, il semplice; sforza la vista pensando di vedere il corpo. San Giovanni gli dice: «Perché t’abbagli/ per veder cosa che qui non ha loco?/ In terra è ’l mio corpo, e saragli/ tanto con gli altri, che il numero nostro/ con l’eterno proposito s’agguagli» (Par. XXV, 122-126): sarà lì e vi resterà fino a che verrà il giorno della risurrezione. Fino

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nell’alto Paradiso, quindi, torna il ricordo del corpo sepolto nella terra. Su questo tema è incentrato un grande canto, tra i più belli del Paradiso, il XIV, nel quale si affronta il discorso teologico della resurrezione; in questo canto si dice che lo splendore del corpo risorto sarà tale da oltrepassare addirittura lo splendore interno dell’anima: «Ma sì come carbon che fiamma rende,/ e per vivo candor quella soverchia,/ sì che la sua parvenza si difende;/ così questo fulgore che già ne cerchia/ fia vinto in apparenza dalla carne/ che tutto dì la terra ricoperchia» (Par. XIV, 52-58).

È un tema prediletto da Dante, perché sostiene tutto il suo grande poema, come vedremo alla fine. Si potrebbe dire che la barriera che gli antichi hanno posto nel cielo della luna è qui infranta; infatti, gli antichi credevano che la materia di cui erano fatti i cieli fosse immortale, eterna; si legge, infatti, in un’opera di Cicerone: «al di sotto della luna tutto è caduco, al di sopra tutto è eterno». Al di sotto della luna tutto è caduco, ma con un’eccezione: le anime degli uomini date per un singolare dono degli dei; l’anima era considerata, già da Platone, immortale, ma non il corpo; era comprensibile che l’anima salisse alle stelle, ma inammissibile considerare immortale il corpo. Nel primo canto del Paradiso, invece, il corpo di Dante sale, insieme a Beatrice, e viene portato in alto, verso l’Empireo. Quel corpo oltrepassa i cieli tolemaici, i cieli storici, i cieli della fisica di allora; giunge all’Empireo dove appare la vera realtà della storia umana. Arrivando all’Empireo, nella conclusione del poema, nella grande immagine della Candida Rosa, Dante porta il significato, il senso di tutta la storia che noi abbiamo visto, nelle sue molteplici sfumature, lungo il racconto. Con grande ardimento, direi teologico, Dante sostituisce l’immagine biblica della città: non c’è una città circondata da mura e con porte preziose, ma solo un fiore, una rosa, la cosa più delicata della terra. Dante ha scelto una rosa per rappresentare questa realtà che è corporea, ma spirituale insieme. Questa grande rosa raccoglie tutta l’umanità. Infatti lo dice: «In forma dunque di candida rosa/ mi si mostrava la milizia santa/ che nel suo sangue Cristo fece sposa» (Par. XXXI,1-3). Quando si entra nell’Empireo, è il famoso fine di cui parlavo in principio, si esce dal tempo e dallo spazio; Beatrice lo dice con chiarezza: «Noi

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siamo usciti fòre/ del maggior corpo al ciel che è pura luce» (Par. XXX, 38-39); per evitare equivoci specifica che non è una luce fisica; infatti, continua dicendo: «luce intellettual piena d’amore;/ amor di vero ben, pien di letizia;/ letizia che trascende ogni dolzore» (Par. XXX, 40-42), cioè ogni dolcezza conosciuta dall’uomo sulla terra. Quindi questa luce, questo cielo è un cielo spirituale. Ebbene qui troviamo i veri corpi del poema, i corpi storici appunto.

Il XXXII canto del Paradiso non è molto amato dalla critica, ma se lo si togliesse, svanirebbe tutto il poema. Nel canto, infatti, c’è una descrizione precisa della divisione di questa rosa, la collocazione e la distribuzione storica dei personaggi; questo canto porta, nella rosa, la storia. Maria e il Battista sono ai due estremi della rosa e segnano la divisione tra l’Antico e il Nuovo Testamento. Dante non scende nel dettaglio, cita pochi nomi perché questi corpi restano qualche cosa di «trasumanato», come dice Dante, nel primo canto, con un verbo di suo conio: sono corpi spirituali. Dante cita alcuni nomi di santi cristiani, Francesco, Benedetto, Agostino, i grandi fondatori di ordini, le grandi donne ebree Sara, Rebecca, Giuditta; pochi nomi, ma quanto basta per dare questa configurazione storica alla grande Rosa dell’Empireo. Dante dà ad uno dei personaggi citati il suo carattere umano, attraverso una determinazione di affetto terreno: è sant’Anna che guarda la figlia Maria. Dice san Bernardo a Dante: «Di contro a Pietro vedi seder Anna/ tanto contenta di mirar sua figlia,/ che non move occhio per cantare Osanna» (Par. XXXII, 133-135): pur cantando Osanna con tutti gli altri, non distoglie lo sguardo dalla figlia, che finalmente vede. I beati del Paradiso di Dante sospirano i corpi, perché, come osserva Benvenuto da Imola, forse il più acuto commentatore dal punto di vista della poesia, «desiderano vedere in carne coloro che amarono in carne». Quindi Anna, lassù, esprime questo sentimento tra i più teneri e più forti che ci siano nell’umanità, quello della madre per il proprio figlio. Attraverso questo semplice gesto di Anna, Dante afferma che nulla di quel che è umano è perduto, nulla di quel che è buono sulla terra, di quello che noi amiamo, di ogni nostra giornata quotidiana, è perduto.

Questa, però, non è l’ultima immagine, c’è ancora un passo. Nel XXXIII

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canto Dante rimane solo davanti alla visione di Dio e gli sono mostrati tre grandi misteri:

– Il mistero dell’unità nei molteplici, nel Creato, rappresentato con l’immagine del libro, un volume, un’unità che raccoglie tanti fogli.

– Il mistero della Trinità rappresentata da tre cerchi luminosi della stessa dimensione, riflessi l’uno dall’altro; è un’immagine effabile, ma impossibile da rappresentare.

– Il terzo mistero conclude il poema; Dante vede, crede di vedere, nel secondo cerchio della Trinità la Seconda Persona, il Verbo, l’immagine dell’Uomo: «mi parve pinta della nostra effige;/ per che il mio viso in lei tutto era messo» (Par. XXXIII, 131-132). «Mi parve…»: è una visione un po’ vaga. Dante immerge tutto il suo viso, cioè il suo sguardo, nella contemplazione di questa apparizione, cercando di capire questo mistero incomprensibile all’uomo. Dante usa un paragone per spiegare il tentativo di immergersi in questo mistero; dice, infatti: «Quel è il geomètra che tutto s’affige/ per misurar lo cerchio, e non ritrova,/ pensando quel principio ond’elli indige» (Par. XXXIII, 133-135). La “quadratura del cerchio” è un antico problema della geometria che permane. Se si procede attraverso un calcolo matematico è impossibile trovare questo numero che, infatti, è chiamato “trascendente”. Questo, per i geometri, è il problema dei problemi. Alano da Lilla, in un suo «Ritmo della Incarnazione», scrive una quartina sull’Incarnazione, che ricorda il paragone che fa Dante: «Suae artis in mensura geometra fallitur dum immensus sub mensura terrenorum sistitur in directum curvatura circoli convertitur»: nel giudizio proprio della sua arte il geometra si trova perduto, quando l’Immenso, l’Immensurabile, cioè Dio, si pone sotto la misura della cose terrene; «in directum curvatura circuli convertitur»: la curva del cerchio si cambia in linea retta; è la quadratura del cerchio. Alla fine, un fulgore illumina Dante facendogli comprendere il mistero, ma Dante non ne dà spiagazione. A questo punto la fantasia non può venir in aiuto di Dante; dice, infatti: «All’alta fantasia qui mancò possa» (Par. XXXIII, 142), perché non c’è immagine a cui riferirsi. L’ultimo Mistero è la visione dell’Uomo, cioè il tempo storico, di cui il corpo dell’uomo è il segno. Questo corpo caduco, destinato a

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morire, questo tempo storico abita all’interno dell’eternità.

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Domande

Rondoni: La ringrazio perché il suo non è l’atteggiamento di un accademico, cioè di uno che cerca di tenere la distanza dalla materia di cui parla; per questo ho avuto l’impressione di ascoltare qualcosa di familiare e semplice.

Vorrei fare per primo una domanda. Con alcune persone abbiamo completato da poco un’edizione della Divina Commedia, che uscirà nella collana dei libri dello Spirito Cristiano. Abbiamo fatto un lavoro insieme, ci siamo divisi i commenti. Il tema che lei ha messo al centro dei suoi studi, e che oggi ci ha riproposto in versione familiare, buona e semplice anche da digerire, è la questione per cui il fulcro dell’opera è il mistero dell’Incarnazione e della Resurrezione; per cui il «proprio cristiano», il corpo, ciò che è più storico, che è più dettagliatamente e fragilmente storico, c’entra con l’eternità. Questo è il punto che, nei commenti di molti critici, di molti grandi lettori della Commedia, eccetto alcuni grandi come Eliot, Auerbach, Singleton, generalmente viene saltato, o comunque non affrontato direttamente, come se lo specifico non venisse colto. Allora io le vorrei chiedere: che cosa occorre tenere presente, portarsi dietro quando si comincia a leggere La Divina Commedia, oltre a questo elemento che lei ha colto e ha messo in luce giustamente? Perché è innegabile che La Divina Commedia sia stata allontanata dalla scuola, sempre più allontanata dall’attenzione, con un tentativo a volte anche becero di farla passare come una cosa secondaria. Che cosa occorre, allora, portare con sé nel momento in cui ci si avvicina ad un’opera così grande e così potente e però anche così lontana, o comunque che ci è stata così allontanata? Cosa è stato importante per lei, che cosa ha seguito lei nel leggere La Divina Commedia?

Chiavacci Leonardi: Intanto bisogna conoscere Dante a fondo; poi conoscere il Medioevo latino che è ciò che manca in genere al lettore, al critico, al ragazzo, al giovane, perché quello che principalmente si conosce della nostra tradizione scolastica è l’antichità classica, Virgilio e Aristotele che Dante stesso indica come suoi maestri. Quello che non si conosce, invece, è la tradizione cristiana. Non

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dico che si debba conoscere san Tommaso, sebbene sia augurabile; ciò che occorre, in primo luogo, è la conoscenza del Vangelo e di san Paolo. Il Vangelo, le lettere di Paolo e l’Antico Testamento, soprattutto i Salmi e i Profeti, sono tra i testi che Dante meglio conosce. I salmi sono gli stessi che si recitavano in chiesa, tutti i giorni, alle ore canoniche e che, quindi, il popolo cristiano conosceva bene. Quello che quasi mai ho trovato nelle interpretazioni date a La Divina Commedia è il riferimento evangelico. In Dante è presente, in maniera straordinaria, uno dei tratti caratteristici del Vangelo: la prevalenza dello Spirito sulla lettera, che è in contrasto con gli ebrei, dove tutto si fa secondo la lettera. Il Vangelo oltrepassa la lettera per lo Spirito: tutta La Divina Commedia è costruita su questo; le istituzioni sono sempre in seconda linea, la scomunica papale non basta a dannare Manfredi, perché gli basta un gesto (che ricorda il figliol prodigo; Luca è sempre ben noto a Dante), gli basta un pianto per essere salvato. «Le prostitute», dice Gesù nel Vangelo, «vi precederanno nel Regno dei Cieli»; noi troviamo in Paradiso una prostituta, Raab. Volevo solo dare un cenno di questo carattere evangelico del testo dantesco che spesso è sconosciuto.

Domanda: Uno dei grandi temi affrontati al Meeting di quest’anno è stato il realismo, a cui sono dedicate diverse mostre. Mi piacerebbe se lei potesse spiegare cosa vuol dire “realismo” nella Commedia dantesca. Grazie.

Chiavacci Leonardi: Le raffigurazioni, come quelle dell’ephos antico che ci fanno vedere luoghi concreti come Gerusalemme, Cana, Roma, il Lazio, sono figure di quello che è la realtà, cioè la vita eterna. C’è, inoltre, un altro aspetto relativo al realismo, in senso letterale, relativo, quindi, alla rappresentazione di ciò che si vede del reale che conosciamo. Questa capacità, in Dante, è straordinaria. Il realismo con cui lui rappresenta tutta la natura, i fiori, i rami, gli uccelli. Si prenda, ad esempio, all’episodio di Pier delle Vigne, quando il tronco parla: «Come d’un stizzo verde, ch’arso sia/ dall’un de’capi, che dall’altro geme/ e cigola per vento che va via/ sì dalla scheggia rotta usciva insieme/ parole e sangue» (Inf. XIII, 40-44); è una rappresentazione perfetta. Ogni espressione,

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ogni realtà dell’universo è guardata con un’attenzione e una precisione straordinarie. Si potrebbe dire che questo grande realismo dipende anche dalla consapevolezza della preziosità del reale del quale nulla va trascurato. La caducità del reale è abolita nella Commedia come nel cristianesimo. Potrei fare un esempio; nel terzo canto dell’Inferno c’è una grande similitudine, che risale ad Omero; Virgilio paragona l’umanità a delle foglie che cadono: «Come, d’autunno, si levano le foglie/ l’una appresso dell’altra infin che il ramo/ rende alla terra tutte le sue spoglie,/ similmente il mal seme d’Adamo/ gittansi di quel lito ad una ad una,/ per cenni, come augel per suo richiamo» (Inf. III, 112-117). Questo è il cadere dell’uomo secondo gli antichi; ma, un aspetto che non si osserva è che la similitudine di Dante è riferita all’umanità che è condannata all’Inferno. L’altra immagine “vegetale” che Dante usa sono i petali della rosa dell’Empireo; in lei è riposto il germe dell’eterno.

Rondoni: Io vi auguro che vi succeda, quello che mi accade quando leggo La Divina Commedia: non riesco a stare fermo. La Divina Commedia è, infatti, la relazione, il partecipare ad un grande movimento. Dante aveva una concezione di sé che si muoveva dentro tutto il movimento della storia; la scenografia dentro cui l’uomo Dante sente di muoversi, sa di muoversi, ha dentro tutto: la storia, le stelle, l’universo. L’uomo che è dentro al grande movimento della storia, che non accetta che in questo grande movimento nulla vada perduto, scrive La Divina Commedia perché vuole rivedere Beatrice, perché quello che lo ha colpito e che gli ha fatto vedere la realtà come buona non sia perso per sempre; vuole scrivere per lei qualcosa che nessuno ha mai scritto per nessuno. Dante fa questo nel modo che appunto ci è stato indicato: alla ricerca di qualcosa che permetta che tutto questo movimento non sia perso, non sia vano; per lui che amava la vita, che amava la storia era inaccettabile, che qualcosa di questa storia si perdesse. È questo il viaggio di Dante, questo non poter star fermo, il vivere la propria vita come un viaggio, un’esperienza, vedendo tutto, anche il particolare, dentro la luce dell’eterno. La poesia è il modo con cui Dante ci ha raccontato queste cose; non lo fa attraverso la filosofia ma, come diceva Eliot, attraverso una filosofia

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percepita. E lo fa perché la nostra vita venga presa da questo movimento, perché andiamo a trovare qualcosa per cui tutto non sia perduto. La poesia, l’arte produce questo movimento nella vita.

Se la vita chiede l’eternità non significa che chieda l’immortalità della vita; ciò che chiede è la resurrezione, o meglio, l’entrata dell’eterno nella storia in un punto, come l’incarnazione. Questo è il motivo per cui sentiamo, come diceva Paolo VI in un suo documento, che Dante è uno dei nostri, perché ha vissuto la vita in questo modo, in un modo che a noi interessa.

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Meeting 2002

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“CHIAMAVI IL CIELO E INTORNO VI SI GIRA, MOSTRANDOVI LE SUE BELLEZZE ETTERNE, E L’OCCHIO VOSTRO PUR A TERRA MIRA”.

LA BELLEZZA NELL’OPERA DI DANTE

Domenica, 18 agosto 2002, ore 15.30

Relatori:Anna Maria Chiavacci, professore Ordinario di Filologia e Critica Dantesca

all’Università degli Studi di Siena; Giuseppe Mazzotta, docente di Lingua e Letteratura Italiana presso l’Università di Yale.

Moderatore: Roberto Vignali

Giuseppe Mazzotta: Nel Corpus critico della Divina Commedia manca un’investigazione esistenziale di ciò che chiasmo Theologia ludens. La ragione di questa lacuna è da ritrovare nella comune percezione di Dante come austero moralista, come poeta di umori severi che subordina i piaceri che il gioco comporta alla maestà dei valori morali. Tale percezione s’intende, non è erronea. La condanna dei falsificatori di persone e di parole, dei mimi ed attori nell’Inferno rassomiglia all’attacco sferrato da apologeti cristiani come Cipriano, Tertulliano e Giovanni di Salisbury, o anche quello di sant’Agostino contro i ludi circenses dove la morte diventa spettacolo.

Il rigorismo degli apologeti viene, però, temperato da una tradizione che parte dai Vittorini e giunge a San Tommaso. Le arti dello spettacolo, dirà Ugo di San Vittore – che riassumono testi, ludi agonici, esercizi atletici, corse podistiche, canti, processioni civili, musica e danza – possiedono una loro dignità morale. San Tommaso da parte sua – sulla traccia dell’Etica di Aristotele – conferisce al gioco e all’ eutrapelia (termine che comprende piaceri di conversazioni e disposizione giocosa) una funzione terapeutica, necessario interludio o provvisorio diletto che dia sollievo alle tensioni spirituali. Nella Divina

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Commedia si trova l’intera gamma di queste posizioni classiche qui accennate, e, in effetti, Dante si ispira ad esse ma va al di là. Egli rivaluta le intuizioni di gioco espresse dai giullari, dai poeti giocosi con i loro temi goliardici della taverna. Ma non è da supporre che al pensiero del gioco segua una fuga nel frivolo. Al contrario, la fruizione dantesca del mondo sub specie ludi scaturisce dalla convinzione che il gioco è sovrana attività che meglio disocculta l’essenza profonda della divinità. Le metafore e il lessico del gioco appaiono con alta frequenza in tutto il testo dantesco, viva traccia dell’eutrapelia e dei suoi limiti morali si ritrova, per esempio, nel Limbo che è il locus della sapienza classica, dove Dante si imbatte nella “bella scola” dei poeti pagani. Con calcolata simmetria – nei canti XV e XVI delle tre cantiche - sono intessute le metafore ludiche, dalla scena in cui incontra Brunetto Latini.

L’attività ludica di Dio emerge esplicitamente nel sedicesimo canto del Purgatorio dove Marco Lombardo spiega - contro ogni teoria deterministica- prima di tutto le ragioni della libertà umana e l’origine del male che non va attribuita all’influenza degli astri. Al momento della creazione, Marco dice, l’anima esce dalla mano di Dio come una fanciulla che è poi fuorviata da falsi piaceri:

esce di mano a lui che la vagheggia prima che sia, a guisa di fanciulla che piangendo e ridendo pargoleggia, l’anima semplicetta che sa nulla salvo che, mossa da lieto fattore volentieri torna a ciò che la trastulla (Purg. XVI, 85-90)

Questo quadro idillico della creazione dell’anima, più precisamente l’armoniosa innocenza che lega creatore e creatura rappresenta in miniatura la theologia ludens – l’idea di Dio come ludimagister che attende, ed è il senso autentico della redenzione, che l’anima torni a casa, come una fanciulla nel fare della sera, per giocare con Dio. Il ritorno dell’anima a Dio allude al platonico reditus animae, ma il pensiero del gioco come elemento vitale della divinità implica alcune questioni storiche e teologiche su cui brevemente mi soffermerò.

In termini storici, la metafora ludica ha origini mitiche e platoniche, mentre le componenti bibliche sono meno evidenti ma non meno importanti. Il mito della festa degli dei è un filone della teologia del gioco. E benché la festa sia

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un’esperienza radicalmente cristiana c’è poco gioco e quasi niente riso nella Bibbia. Veniva spesso ripetuto nel Medioevo l’aneddoto di un teologo, Petrus Cantor, che ruminava se Cristo avesse mai riso. Ma non mancano nella normativa biblica resoconti di occasionali danze, canti e feste di popolo. E almeno due brani biblici sono il terreno su cui germoglia l’idea cristiana della Theologia ludens. Il primo si ritrova nei Proverbi (8, 27-31) “Quando egli creò i cieli, io ero con lui.... Quando egli segnò i confini della terra, io gli ero a fianco come un bambino, ed ero quotidianamente il suo diletto, godendo sempre di fronte a lui”.

Il secondo, che ispirerà a Dante degli esempi umiltà nel decimo canto del Purgatorio, si ritrova, invece, nel secondo Libro dei re (6,5) dove si racconta di Davide davanti all’arca.

Questi due brani ripresi dai Padri della Chiesa, greci e latini, per giustificare la loro visione – che Dante abbraccia – della creazione come costruzione estetica, con la sapienza che gioca e danza. Tertulliano, che pur sente ripugnanza per gli spettacoli umani, proclama il principio

dei giochi di Dio; Gregorio Nazianzeno cristallizza le sue speculazioni estetico-teologiche allorché scrive che “il logos in alto gioca, movendo l’universo intero avanti e indietro a suo piacimento”.

Un mistico di Clairvaux raffigura Gesù come un arlecchino o signore della danza.

In termini teologici la metafora ludica adombra la convinzione che la creazione non è un atto di necessità, ma affermazione di libertà. L’idea del deus ludens implica anche che il gioco è fondazione e finalità della vita. Si sa che Platone definisce l’uomo un giocattolo nelle mani di Dio. La definizione segnala che la nobiltà dell’uomo si evidenzia allorché l’uomo gioca. Ma questo non vuol dire che gli uomini siano delle marionette. Per Dante l’uomo non è semplicemente spettatore né giocattolo del divino gioco del Logos. L’attività ludica coinvolge il fare estetico degli uomini e le attività degli angeli e dei demoni.

Il luogo dove la gioia del gioco divino si esprime compiutamente è il Paradiso

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che è organizzato da metafore ludico-estetiche.Qui si sente la musica delle sfere; la città di Dio è un giardino di delizie e a

forma di anfiteatro; i beati cantano e danzano; l’universo ride; le stelle si corteggiano amorevolmente; i cieli ruotano ritmicamente attorno al creatore. Queste attività giocose comunicano la beatitudine delle anime. Esse marcano anche le dimensioni della bellezza estetica, che è il principio della rappresentazione dantesca del Paradiso – della sua forma e del suo ordine – due termini traducibili come bellezza.

Poiché nel medioevo non si trovano discussioni teoriche sull’autonomia della bellezza è stato spesso ripetuto che questo periodo storico non ha prodotto una genuina trattazione estetica. Ma è chiaro ormai che in nessuna epoca storica il pensiero teologico è stato maggiormente permeato dall’estetica quanto il medioevo.

L’universo è una costruzione estetica eseguita con rigore matematico; la sua simmetria ed armoniosa relazione sono celebrate dal versetto del libro della Sapienza: ”Omnia in mensura, in pondere, in numero fecisti”

Il pensiero politico di Dante rivendica la preminenza dell’aisthesis nel momento in cui rende visibile nello spazio della rappresentazione l’incantesimo della bellezza nell’Inferno e la bontà della bellezza – la kalokagathia – nel Paradiso. Ma se c’è un’etica della bellezza, l’estetica allora diventa suprema teoria dei valori. Poiché è la facoltà che trasforma le essenze in immagini, l’estetica è la concezione preliminare per ogni percezione del reale. Qui risiede in effetti l’origine della radicale sovversione che la bellezza ha il potere di operare. Come per effetto magico la bellezza trasforma le apparenze in abbaglianti apparizioni. Ai lettori della Vita Nuova non è il caso di ricordare il potere che ha l’immagine della bellissima Beatrice: può disorientare l’amante e dissolvere la solidità del reale.

Nella Divina Commedia Dante riaffronta questi corollari della bellezza. Nei canti XXI e XXII dell’Inferno, la commedia dei diavoli – o “nuovoludo” trasmette il loro comico giocare come grottesca mescolanza di orrore, riso e gioco, scandita dallo stile triviale dei carmina potatoria (Ah fiera compagnia! Ma

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ne la chiesa /coi santi, e in taverna coi bricconi”)Dante rifiuta la profanità – e l’implicita abiezione morale – del sermo yocosus

di cui i poeti Folgore, Cecco, e Dante stesso si erano serviti. Ma Dante intuisce anche che la metafora del gioco è legata all’esperienza dell’arte e delle manipolazioni dell’apparenza. Nel canto degli alchimisti e falsificatori (Inf. XXIX) incontra Griffolino che “parlando a gioco” promette di consegnare a Albero da Siena l’arte del volare, di essere Dedalo. Griffolino è un ludimagister e il suo gioco incarna l’illusione-duplicazione e contraffazione dell’essere. Al pari degli attori sulla scena e degli ipocriti essi violano il principio di identità e la loro arte è artificio di sterile simulazione.

Nel canto XXIX del Paradiso – in simmetrica antitesi alla scena infernale – Dante affronta il potere delle apparenze nel derealizzare la consistenza del male. Dopo la interpretazione del modo di esistenza angelica, in cui Dante parla di “angelici ludi”, di “triunfo che lude” e degli angeli come “esistenze gioconde” che si dilettano nella danza attorno a Dio, “arte de circuire”, Beatrice sferra un attacco contro i falsi filosofi che amano le apparenze e i simulacri ma trascurano la verità che sta dietro ad essi.

In un certo senso, i peccatori fraudolenti percorrono lo stesso sentiero dei mistici (e i diavoli quello degli angeli), benché si muovano in direzioni contrarie. I mistici sono convinti che le immagini sono irreali e essi cercano, perciò, di perforare le immagini onde aver accesso alla visione immediata di Dio, che vuol dire che finiscono con l’ essere accecati dalla luce. I peccatori fraudolenti, egualmente convinti che le immagini sono illusorie e che, in aggiunta, non c’è niente dietro di esse, si sprofondano in esse, le manipolano a volontà, e nei falsi bagliori delta loro notte, attraverso le loro alchemiche simulazioni, essi svelano l’illusorietà della materia, solo per scoprire la resistenza della materia. Una cosa è certa: allorché i fraudolenti tentano di svuotare la solida costruzione del mondo, essi effettivamente intendono dissolvere le sostanze nel nulla. In breve, questi contraffattori sono la versione trecentesca degli esteti, le cui vaporose simulazioni distruggono l’ordine naturale del lavoro e della natura.

Come spesso succede in ogni discussione sulla Divina Connmedia,

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cominciando a parlare di un problema si approda a quello opposto: la riflessione sulla problematica storica conduce alla pastorale (e viceversa), l’utopia all’esilio, l’etica all’ estetica, il gioco al lavoro. Nei capovolgimenti metaforici dal gioco alla moralità del lavoro e della natura, sembra che il problema si sia perduto per via. Più precisamente: ho argomentato che l’estetica – la libertà, il diletto, il gioco – è l’attività di Dio; che è la fondazione dell’etica e della conoscenza; e che, paradossalmente, è nello sciogliersi del poema l’estetica è subordinata all’etica. Si è costretti, pare, all’inevitabile conclusione che laddove Dio gioca, l’uomo deve lavorare, e che una tragica lacerazione esiste tra Dio e l’uomo.

L’aporia che tale formulazione implica non blocca il discorso, perché Dante esplora possibili continuità tra i giochi di Dio e quelli degli uomini. Nel mondo della storia la virtù della cortesia, il cui raggio di significazione – dopo Cicerone, Quintiliano, i poeti Provenzali e Dante stesso – racchiude urbanitas, curialitas, iocunditas, facetiae ecc. è il valore centrale della vita della corte ideale. Nei canti XV e XVI di ciascuna cantica questa categoria politico-morale, che equivale all’ eutrapelia, si è eclissata, ma l’impegno di Dante ai valori etici di Aristotile e San Tommaso resta costante. Affianco a questa virtù sociale-politica, l’esperienza del gioco è accessibile ai cristiani nella liturgia della Chiesa. Nella Divina Commedia è registrata un’altra, più fondamentale versione del gioco. La spiritualità francescana, la pratica dei ioculatores domini, come i francescani vengono chiamati, incarnano la teologia del gioco in atto. Il modello di questa teologia e Gesù stesso sulla via della crocifissione: il suo mantello romano e la corona di spine sono lo scherno alle insegne regali del mondo e del potere. Ma i francescani, i “frati della cornetta” come vuole una lunga tradizione che si snoda da Salimbene in poi sono i veri mimi del Signore della danza. La loro reputazione emana dalla leggenda di San Francesco stesso come giullare di Dio, formula che deriva dal suo modo di intuire e vivere l’essenza festosa di Dio. Nel canto XI del Paradiso Dante coglie pienamente lo spirito di questa poetica, francescana intuizione. La rappresentazione di San Francesco mette in evidenza, attraverso il suo mimare il Cristo, attraverso la parodie delle istituzioni della famiglia, del rito del matrimonio, delle cerimonie sociali, delle pratiche

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dell’amore cortese, dei valori mondani della ricchezza, dei vestiari ecc., la visione comica della letizia francescana. Essa è la visione – militante e profetica – dell’immaginazione religiosa capace di andare oltre i confini dei comuni valori.

La Commedia di Dante, che riassume lavoro e gioco, scaturisce da una visione propriamente esilica e utopica. Mai prima di Dante e mai dopo di lui la poesia ha giocato tale ruolo visionario nel racchiudere in sé le più contraddittorie esperienze della vita degli uomini. La Divina Commedia testimonia il crollo degli umani progetti, degli umani vincoli e dell’umana giustizia. Ma il poeta sa cosa la sua visione comica significa. Egli sa, attraverso le sue meditazioni sui sensi più diversi del gioco, che le umane tragedie non sono reali, non più reali, ad ogni modo, di quanto la notte sia reale per il mistico, che sa sempre che te tenebre non sono tenebre e che la notte non è la notte, ma sono l’ombra fugace della luce. Il gioco per Dante, per concludere, evoca la festa del pensiero attraverso cui gli uomini giocano ed incontrano il grande giocatore.

(La relazione di Anna Maria Chiavacci non è disponibile)

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Meeting 2003

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Il poema dantesco, la felicità oltre la storia

Anna Maria Chiavacci Leonarditratto da: meetingrimini.orgMeeting di Rimini, lunedì, 25 agosto 2003, ore 11.00

Relatori:Anna Maria Chiavacci Leonardi, Professore Ordinario di Filologia e Critica

Dantesca presso l'Università degli Studi di Siena;Andrea Carabelli, attore.Moderatore: Camillo Fornasieri

Camillo Fornasieri:Questo incontro riguarda la grande figura, la grande opera di Dante

Alighieri.Abbiamo tra noi Anna Maria Chiavacci Leonardi, Professore Ordinario di

Filologia e Critica Dantesca presso l'Università degli Studi di Siena, e Andrea Carabelli, attore.

Insieme daranno vita ad una conversazione-lettura attorno al poema dantesco. Noi siamo felici che la professoressa Chiavacci Leonardi sia tra noi ancora, l'abbiamo incontrata lo scorso anno qui al Meeting, e vogliamo oltremodo ringraziarla perché oggi proporrà una originale lettura del poema dantesco proprio alla luce del tema del Meeting. La felicità oltre la storia è il tema di questo incontro.

Dante è proprio quell'uomo che in modo straordinario e stupefacente ha risposto al tema del Meeting, ha risposto attraverso la testimonianza di vita e perciò anche di scrittura. Possiamo dire che Dante è proprio un uomo che ha voluto parlare a sé e agli altri uomini dell'Eterno. Ne è testimonianza il fatto che in questo tempo c'è una grande attenzione attorno alle sue parole e al contenuto della sua esperienza, perché proprio un'esperienza è quella di Dante.

Io do subito la parola alla professoressa Chiavacci Leonardi, che intervallerà

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un commento alla lettura di alcuni brani tratti da tutte e tre le cantiche. A lei la parola.

Anna Maria Chiavacci Leonardi:Il tema della felicità è un tema molto importante, più di quello che si pensi.

Perché porre il problema della felicità, vuol dire porre il problema stesso del senso della vita dell'uomo.

La felicità cos'è? La realizzazione della persona. Ciò che ogni essere umano ricerca con tutta la forza del desiderio. Compiere questo desiderio è la felicità per la quale è nato. La stessa essenza dell'uomo può dirsi desiderio. Se non desidera non vive. L'oggetto stesso del desiderio determina la persona.

Già Dante nel «Convivio» osserva che il bambino comincia subito a cercare dei beni, piccoli beni; l'adulto beni più grandi, via via fino a che si arriva all'ultimo desiderabile, come Dante si esprime, che è il Dio stesso. Del resto, l'idea di felicità dipende dall'idea che l'uomo ha del mondo e di sé.

Presso i popoli antichi, essa dipendeva dagli dei o dal fato. Ma l'uomo stesso non può niente contro il dolore, neppure il fato né gli dei, come sappiamo dall'antica letteratura latina e greca.

Nel mondo moderno, sostituita a Dio la ragione, si è cercata la felicità nel seguire la ragione, sia per il singolo che per il collettivo, per lo Stato. Ma cadute le ideologie, la ragione stessa si è dimostrata oggi insufficiente. Così il concetto stesso di felicità oggi si va vanificando: se non c'è senso alla vita, non c'è felicità. Ora nell'ambito biblico, dove noi ci poniamo e dove è appunto situata l'opera di Dante, la cosa è definita con chiarezza. L'uomo fu creato da Dio per la felicità, posto nel giardino d'eterna primavera, dove aveva tutto ciò che poteva desiderare, ma lo perse per sua scelta. Scelse se stesso facendo dio di se stesso. Satana disse appunto sarete come Dio. Non sopportando alcuna sottomissione o divieto, Dante dice appunto di Eva: "Non sofferse di star sotto alcun velo", cioè non sopportò di dipendere da qualcuno. Così cadde nel luogo del dolore e della morte, e da questo sospira di uscire per tornare alla felicità perduta. Ma il mito dell'Eden non è soltanto biblico; per restare nella nostra civiltà; anche nella

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cultura classica, tutti sanno che canta l'età dell'oro, il regno di saturno perduto per sempre. Tale stato felice prende la figura, nell'immaginario appunto, di un luogo, un luogo dove poter tornare, un luogo dove si realizzerà finalmente un regno di pace e giustizia. Tutto l'epos antico narra un viaggio verso un luogo felice indicato dagli dei, dove gli uomini troveranno la loro condizione felice. Nell'epos classico, tutti sanno che Enea nell'Eneide su indicazione divina, lascia la sua patria in fiamme per fondare un nuovo regno: Roma. Ma non diversamente accade nell'epos biblico; così Mosè porta i suoi fuori dall'Egitto per tornare alla terra dei padri dove si stabilirà il nuovo regno nella città di Gerusalemme. Ma ecco che il Nuovo

Testamento porta una rivoluzione, un cambiamento totale. Dio stesso interviene per salvare l'uomo e per rifare pace con Lui, e gli dà qualcosa di più di quello che aveva prima.

«Felix culpa», scrisse appunto Sant'Agostino. Non più la felicità naturale dell'Eden, ma quella soprannaturale, la stessa vita divina. La grande decisione, come scrive Dante immaginosamente nel «Convivio», fu presa nel concistoro della Santissima Trinità. Così appunto Dante si esprime sempre creando cose concrete di questi suoi pensieri: "Volendo la smisurabile Bontà divina l'umana creatura a se riconformare, eletto fu nell'altissimo consultorio divino della Trinità che il Figliolo di Dio in terra discendesse a fare questa concordia". Lo immagina come un concistoro della Trinità dove viene decisa questa operazione. Questa salvezza però comporta un alto prezzo: il sacrificio di Dio che si fa uomo e accetta la morte dell'uomo, perché l'uomo possa divenire come Lui. Tutto ora cambia.

Nell'Antico Testamento dove vige ancora l'economia della felicità naturale, Dio promette al giusto prosperità, figli, lunga discendenza, potenza. Gli ebrei aspettano un nuovo re terreno che governi con pace in terra, come ben appare chiaramente quando viene Gesù sulla terra. Ma Gesù cambia le cose, Egli non si fa re, i beni mondani non saziano più l'uomo, ed Egli dice: "Che giova all'uomo possedere tutta la terra se poi perde la sua anima?". L'uomo è creatura ormai spirituale non più carnale. La sua felicità è solo nell'unione con Dio, suo Padre e

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sua Patria. Ciò è dato già nella vita del tempo, soltanto in forma interiore nel rapporto mistico con Dio e con il suo Amore. E' ciò che dichiarano le beatitudini come ora si vedrà. Ma la felicità trova la sua pienezza solo oltre il tempo, oltre la storia come dicevo nel titolo, dopo la morte, nella visione diretta di Dio e nell'unione con Lui.

Questa grande storia è quella appunto narrata nella Divina Commedia, che esprime l'idea contenuta nel Nuovo Testamento. Scritta con l'intento preciso da Dante dichiarato di removere viventes in acqua vitae cioè di togliere i viventi dal loro stato di infelicità, e condurli ad uno stato di felicità. Così è scritto con precisione nell'Epistola dedicatoria a Cangrande nel Paradiso.

Ma il viaggio che narra la Divina Commedia seguendo lo schema dell'Eneide, in qualche modo, e della stessa Bibbia, è un viaggio che finisce oltre il tempo, nell'eternità: il primo poema epico che ha questo nuovo termine, non più Gerusalemme, né Roma: si va in un'altra dimensione dove carri e navi non possono arrivare. Questo viaggio parte nel primo canto, il solo canto che si svolge in una scena allegorica che appunto presenta questa idea di ritorno alla patria. Parte dall'oscurità, la selva oscura, figura dell'assenza di Dio, verso il colle illuminato dal sole. figura di Dio.

Inferno Canto 1 (v. 1-30)Nel mezzo del cammin di nostra vitami ritrovai per una selva oscura,ché la diritta via era smarrita.Ahi quanto a dir qual era è cosa duraesta selva selvaggia e aspra e forteche nel pensier rinova la paura!Tant' è amara che poco è più morte;ma per trattar del ben ch'i' vi trovai,dirò de l'altre cose ch'i' v'ho scorte.Io non so ben ridir com' i' v'intrai,tant' era pien di sonno a quel puntoche la verace via abbandonai.

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Ma poi ch'i' fui al piè d'un colle giunto,là dove terminava quella valleche m'avea di paura il cor compunto, guardai in alto e vidi le sue spallevestite già de' raggi del pianetache mena dritto altrui per ogne calle. Allor fu la paura un poco queta,che nel lago del cor m'era duratala notte ch'i' passai con tanta pieta.E come quei che con lena affannata, uscito fuor del pelago a la riva,si volge a l'acqua perigliosa e guata,così l'animo mio, ch'ancor fuggiva,si volse a retro a rimirar lo passoche non lasciò già mai persona viva.Poi ch'èi posato un poco il corpo lasso, ripresi via per la piaggia diserta,sì che 'l piè fermo sempre era 'l più basso.Ecco, già in questo voltarsi indietro a guardare l'acqua pericolosa da cui è

appena uscito ("si volse indietro a rimirar lo passo"), alcuni critici hanno visto un accenno, un ricordo della situazione dell'esodo quando gli ebrei, varcato il Mar Rosso si voltano a guardare le acque tremende che hanno superato per grazia di Dio. Ma il tema dell'esodo, ritorno alla patria, è poi citato espressamente all'apertura del Purgatorio, quando arriva l'Angelo, molti lo ricorderanno, con la nave dei salvati che intonano il Salmo 113 "In exitu Isräel de Aegypto", l'esodo di Israele dall'Egitto. Salmo che Dante stesso spiega in due luoghi nel suo valore allegorico, quasi volendo citare il suggerimento per poter seguire poi il poema. E' il tema dell'uscita, del ritorno in patria, questo cantato all'inizio del Purgatorio dove comincia la storia del rientro, che Dante spiega nel suo valore allegorico come l'uscita dal peccato, dal dolore di questa vita e l'arrivo alla felicità eterna. Leggiamo quindi nel Purgatorio questo arrivo dell'Angelo.

Purgatorio Canto 2 (v. 1-63)Già era il sole all'orizzonte giuntoLo cui meridian cerchio coverchia Gerusalem col suo più alto punto;e la notte, che opposita a lui cerchia, uscìa di Gange fuor con le bilance,

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che la caggion di man quando soverchia; sì che le bianche e le vermiglie guance, là dove io era, della bella Aurora,

per troppa etate divenivan rance.Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino,

che va col cuore e col corpo dimora.Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino,per li grossi vapor Marte rosseggiagiù nel ponente sovra 'l suol marino, cotal m'apparve, s'io ancor lo veggia,un lume per lo mar venir sì ratto,che 'l muover suo nessun volar pareggia. Dal qual com' io un poco ebbi

ritratto l'occhio per domandar lo duca mio, rividil più lucente e maggior fatto.Poi d'ogne lato ad esso m'apparioun non sapeva che bianco, e di sottoa poco a poco un altro a lui uscìo.Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver

ali; allor che ben conobbe il galeotto,gridò: «Fa', fa' che le ginocchia cali.Ecco l'angel di Dio: piega le mani;omai vedrai di sì fatti officiali.Vedi che sdegna li argomenti umani,sì che remo non vuol, né altro veloche l'ali sue, tra liti sì lontani.Vedi come l'ha dritte verso 'l cielo, trattando l'aere con l'etterne penne,che non si mutan come mortal pelo».Poi, come più e più verso noi venne l'uccel divino, più chiaro appariva:per che l'occhio da presso nol sostenne, ma chinail giuso; e quei sen venne a

riva con un vasello snelletto e leggero,tanto che l'acqua nulla ne 'nghiottiva.Da poppa stava il celestial nocchiero,tal che parea beato per iscripto;e più di cento spirti entro sediero.

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'In exitu Isräel de Aegypto'cantavan tutti insieme ad una vocecon quanto di quel salmo è poscia scripto. Poi fece il segno lor di santa croce;ond' ei si gittar tutti in su la piaggia:ed el sen gì, come venne, veloce.La turba che rimase lì, selvaggiaparea del loco, rimirando intornocome colui che nove cose assaggia.Da tutte parti saettava il giornolo sol, ch'avea con le saette contedi mezzo 'l ciel cacciato Capricorno, quando la nova gente alzò la fronte ver'

noi, dicendo a noi: «Se voi sapete, mostratene la via di gire al monte».E Virgilio rispuose: «Voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; ma noi

siam peregrin come voi siete.Questo canto, questo passo, ci dice diverse cose. Prima di tutto questo

richiamo all'esodo che intona tutto il viaggio della commedia. Poi il tema del pellegrino, queste anime si rivolgono per sapere la strada a Virgilio che gli risponde: "Ma noi siam peregrin come voi siete". Tutta la strada per tornare a Dio è come un pellegrinaggio, un pellegrinaggio per tornare nel luogo sacro. I pellegrinaggi nel tempo in cui fu immaginato il viaggio della Commedia nel 1300, si svolgeva il primo grande Giubileo con il primo pellegrinaggio a Roma. Questa Roma non è altro che la figura del Paradiso, e questo pellegrinaggio si svolge nella commedia, quello vero, diciamo così, non quello simbolico. Più volte torna questo tema dei pellegrini. Anche nel primo canto Dante ricorda: "Noi andavam per lo solingo piano com'un che torna alla perduta strada ...". Questo ritorno alla strada della felicità.

Questo cammino che è quello degli uomini che hanno già accettato Dio, rifiutando l'altro principe di questo mondo, è scandito dalle Beatitudini evangeliche. Dante ha avuto questa invenzione, questa intuizione così profondamente teologica, per cui mentre l'Inferno è segnato girone per girone dai vizi e virtù aristoteliche, questo cammino del Purgatorio è scandito dalle

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Beatitudini. Il grande manifesto del cristianesimo per cui felici non sono più gli uomini ricchi, potenti che hanno beni di questo mondo, ma sono appunto gli umili, i poveri, gli amanti di pace, i misericordiosi. Cosa che sembra incredibile, addirittura rivoluziona tutta la cultura antica, che pur nell'etica vede come prima virtù la giustizia e come segno distintivo dell'uomo la magnanimità. Ma nessuno considera il povero ed il piangente. Perché questo? Questa è la sola felicità di questo mondo, perché anche i ricchi e i potenti sono infelici come tutti sappiamo. Nelle case di ognuno c'è la sofferenza, è stato scritto da un grande moderno di cui ora non ricordo il nome.

In quella condizione, essi partecipano interiormente della vita divina e si sono fatti simili a Cristo a come Cristo visse sulla terra, rinunciando al potere, alla ricchezza, ai beni di questo mondo. Questa è una felicità, diciamo così, nascosta e interiore come si diceva. Si potrebbe dire che Dio dà la sua

consolazione a tutti gli uomini che lo accettano, lo riconoscono. Venite a Me voi tutti che siete affaticati e stanchi, è scritto nel Vangelo. C'è questa consolazione per qualunque sofferenza, a cui l'uomo risponde assomigliando a Cristo, nell'amore, nell'umiltà, nella misericordia.

Ci sono molti esempi nel Purgatorio: ad ogni cornice ci sono esempi della beatitudine corrispondente. Io ne ho scelti due particolarmente significativi, tra i più belli. Il primo riguarda la virtù dell'umiltà (beati i poveri di spirito), tra i quali Dante pone quello del grande Imperatore Traiano, un episodio abbastanza noto, che ferma l'esercito in marcia per venire incontro alla richiesta di una povera vedova. Cioè rinuncia alla sua maestà imperiale: ci sono le bandiere al vento, l'esercito sta in partenza, come si fa a fermarlo? Da principio Traiano obietta. Ma alla fine umilmente si lascia vincere. Questa poveretta che vince il grande Imperatore è anche un segno della potenza degli umili sul cuore di Dio.

Purgatorio Canto 10 (v. 70-97)I' mossi i piè del loco dov' io stava,per avvisar da presso un'altra istoria,che di dietro a Micòl mi biancheggiava. Quiv' era storïata l'alta gloriadel roman principato, il cui valore

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mosse Gregorio a la sua gran vittoria;i' dico di Traiano imperadore;e una vedovella li era al freno,di lagrime atteggiata e di dolore.Intorno a lui parea calcato e pienodi cavalieri, e l'aguglie ne l'orosovr' essi in vista al vento si movieno.La miserella intra tutti costoropareva dir: «Segnor, fammi vendettadi mio figliuol ch'è morto, ond' io m'accoro»; ed elli a lei rispondere: «Or

aspettatanto ch'i' torni»; e quella: «Segnor mio», come persona in cui dolor s'affretta,«se tu non torni?»; ed ei: «Chi fia dov' io,la ti farà»; ed ella: «L'altrui benea te che fia, se 'l tuo metti in oblio?»; ond' elli: «Or ti conforta; ch'ei convene

ch'i' solva il mio dovere anzi ch'i' mova: giustizia vuole e pietà mi ritene».Colui che mai non vide cosa nova produsse esto visibile parlare,novello a noi perché qui non si trova.Vedete la forza di questa scena, dove il grande Imperatore cede alla

vedovella. E vedete i diminuitivi che Dante adopera, la "vedovella" e poi la "miserella intra tutti costoro", in tutta questa gente potente, questa miserella che però ottiene ciò che chiede.

Naturalmente Traiano è la figura di Dio, la miserella la figura dell'umile e dell'uomo che chiede. E Dio si lascia commuovere da questa miserella.

L'altra grande scena che vorrei ricordare sempre fra le beatitudini è quella che riguarda i pacifici che non si adirano per l'offesa che ricevono, che perdonano, che sono sempre pronti al perdono, come Cristo sulla Croce. Di questo il più grande esempio è quello di Stefano, del martire Stefano che Dante ci presenta con una potenza di poesia rara anche in lui stesso.

Purgatorio Canto 15 (v. 106-114)Poi vidi genti accese in foco d'ira

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con pietre un giovinetto ancider, forte gridando a sé pur: «Martira, martira!».E lui vedea chinarsi, per la morteche l'aggravava già, inver' la terra,ma de li occhi facea sempre al ciel porte, orando a l'alto Sire, in tanta guerra,che perdonasse a' suoi persecutori,con quello aspetto che pietà diserra.Qui tocchiamo il punto più alto di questi esempi perché, Stefano appare la

figura gemella di Cristo, naturalmente, che perdona nel momento in cui è messo in croce che "orando a l'alto Sire, in tanta guerra", cioè in tanto dolore, in una situazione così tragica, che perdonasse ai suoi persecutori. E'

questa la beatitudine del Vangelo e cioè la felicità promessa in terra all'uomo che segue Dio. E' la conformità a Cristo la vera felicità, quello che poi è dato all'uomo nell'eternità.

Proseguendo nel purgatorio quello che più ci attrae per il nostro tema, noi troviamo una dichiarazione che già anticipa il Paradiso nella cornice degli avari. Nella cornice degli avari che sono stesi proni a terra, si incontra un papa, Adriano V, a cui Dante chiede chi fosse, perché sia così punito. Nella risposta di Adriano noi ritroveremo un eco che sottolineeremo nelle parole di Sant'Agostino. Ma la risposta di Adriano, come sempre nella Divina Commedia, è un fatto che riguarda una persona storica.

Non è enunciata una teoria, soltanto come nei trattati di teologia; sono sempre persone con la loro vita, la loro sofferenza che nella Divina Commedia ci presentano le grandi verità di Dio. Facciamo attenzione alla risposta di questo papa.

Purgatorio Canto 19 (v. 70-114)Com' io nel quinto giro fui dischiuso, vidi gente per esso che piangea,

giacendo a terra tutta volta in giuso. 'Adhaesit pavimento anima mea'sentia dir lor con sì alti sospiri,che la parola a pena s'intendea.«O eletti di Dio, li cui soffririe giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliri».

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«Se voi venite dal giacer sicuri,e volete trovar la via più tosto,le vostre destre sien sempre di fori». Così pregò 'l poeta, e sì rispostopoco dinanzi a noi ne fu; per ch'ionel parlare avvisai l'altro nascosto,e volsi li occhi a li occhi al segnor mio: ond' elli m'assentì con lieto cennociò che chiedea la vista del disio.Poi ch'io potei di me fare a mio senno,trassimi sovra quella creaturale cui parole pria notar mi fenno,dicendo: «Spirto in cui pianger maturaquel sanza 'l quale a Dio tornar non pòssi, sosta un poco per me tua maggior

cura.Chi fosti e perché vòlti avete i dossial sù, mi dì, e se vuo' ch'io t'impetricosa di là ond' io vivendo mossi».Ed elli a me: «Perché i nostri diretririvolga il cielo a sé, saprai; ma primascias quod ego fui successor Petri.Intra Sïestri e Chiaveri s'adimauna fiumana bella, e del suo nomelo titol del mio sangue fa sua cima.Un mese e poco più prova' io comepesa il gran manto a chi dal fango il guarda, che piuma sembran tutte l'altre

some.La mia conversïone, omè!, fu tarda;ma, come fatto fui roman pastore,così scopersi la vita bugiarda.Vidi che lì non s'acquetava il core,né più salir potiesi in quella vita;per che di questa in me s'accese amore. Fino a quel punto misera e partita

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da Dio anima fui, del tutto avara;or, come vedi, qui ne son punita.Questo grande discorso di Adriano anticipa già il Paradiso. Si potrebbe dire

che anticipa le parole di Piccarda che tra poco leggeremo. Vedete che lui arriva dove più in alto non si poteva arrivare, almeno allora il pontificato era il punto più alto del potere terreno. Il papa comandava o per lo meno ci provava, anche all'Imperatore. Ma quando arriva a questo punto, Adriano dichiara: "Vidi che lì non s'acquetava il core", il cuore umano non trovava pace, non si era saziato, nemmeno nella più alta carica della terra. Qui naturalmente, come dicevo prima, c'è un'eco precisa delle confessioni di Agostino che forse tutti conoscono, o forse è troppo sperare che tutti le conoscano, ma in somma in

parte, saranno note. "Fecisti nos ad Te", Tu ci hai fatto per Te, "et inquietum est cor nostrum donec requiescat in Te", ed inquieto è il nostro cuore finché non riposi in Te.

Lo stesso stesso verbo di Dante "Vidi che lì non s'acquetava il core", riprende "inquietum est cor nostrum". C'è un richiamo lessicale, addirittura, sempre fondamentale in questi casi alle parole di Sant'Agostino. Questo è il segno più alto che noi abbiamo nel Purgatorio come di già dichiarazione anticipata dove veramente può arrivare a quietarsi il cuore.

Noi arriveremo sì nel Purgatorio fino all'Eden, fino al giardino di eterna primavera che l'uomo ha lasciato, però lo troveremo vuoto, non c'è più niente, non serve più, è diventato inutile. Matelda che lo abita, è come la figura di quella felicità perduta. Ma Dante non si ferma qui, è un luogo che ormai non serve perché l'uomo cerca qualcosa di più: non più quella felicità di giardino, di profumi, di bellezza, quella che cantano in genere altre visioni dell'aldilà, non quella cristiana. Quella cristiana pretende di più. Entrando nel Paradiso, sparisce il tempo, perché non c'è più un giorno segnato dal sole, non c'è più il sole con la sua luce, la luce sempre uguale degli astri e dei cieli. E la pienezza della felicità raggiunta viene significata da un punto di vista poetico sensibilmente, dalla luce e dalla musica, che raggiungono i due sensi ritenuti più nobili dell'uomo: la vista e l'udito. E' un mondo fatto solo di luce dove l'unica

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visibilità, anche per i beati che si incontrano è la luce, essi sono fiamme con le quali manifestano con il loro splendore, il diverso movimento e luccichio della fiamma, i lori sentimenti.

L'unico volto visibile è quello di Beatrice, che è l'unico sostegno per Dante terreno, che attraversa questa realtà. Oltre alle luci ci sono dolcissime musiche: si tratta molto spesso di musiche polifoniche, che cominciavano allora, al tempo di Dante e di cui Dante godeva in modo particolare.

Ecco, queste sono le due forme in cui viene manifestata quell'altissima realtà in forma sensibile, ma nei vari incontri i dialoghi che si stabiliscono ci rivelano sempre più questa straordinaria realtà. Il primo incontro, quello che definisce in maniera centrale ed essenziale la felicità del Paradiso, è quello con Piccarda, la prima anima beata che si incontra, non a caso una donna, come nell'infermo la prima anima dannata sarà quella di una donna, Francesca; tutt'è due legate dall'amore e tutt'è due parlano di questa loro condizione. Piccarda definisce la condizione caratteristica di tutto il regno celeste; quando Dante chiede se non le dispiaccia di essere posta nel gradino più basso (infatti è nel primo cielo, tra quelli che hanno mancato in parte ai loro voti). Ma ecco, ella risponde con quelle parole che fondano tutta la cantica e sono rimaste impresse in quasi tutti i lettori del poema.

Ond' io a lei: «Ne' mirabili aspetti vostri risplende non so che divino che vi trasmuta da' primi concetti: però non fui a rimembrar festino; ma or m'aiuta ciò che tu mi dici, sì che raffigurar m'è più latino. Ma dimmi: voi che siete qui felici, disiderate voi più alto loco

per più vedere e per più farvi amici?».Con quelle altr' ombre pria sorrise un poco; da indi mi rispuose tanto lieta,ch'arder parea d'amor nel primo foco: «Frate, la nostra volontà quïetavirtù di carità, che fa volernesol quel ch'avemo, e d'altro non ci asseta. Se disïassimo esser più superne,foran discordi li nostri disiridal voler di colui che qui ne cerne;che vedrai non capere in questi giri, s'essere in carità è qui necesse,

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e se la sua natura ben rimiri.Anzi è formale ad esto beato essetenersi dietro a la divina voglia,per ch'una fansi nostre voglie stesse;sì che, come noi sem di soglia in sogliaper questo regno, a tutto il regno piace com' a lo re che 'n suo voler ne

'nvoglia.E 'n la sua volontade è nostra pace:ell' è quel mare al qual tutto si moveciò ch'ella crïa o che natura face».Chiaro mi fu allor come ogne dovein cielo è paradiso, etsi la graziadel sommo ben d'un modo non vi piove.Ecco, avete sentito nella risposta è detto tutto quello che c'era da dire. Lassù,

in questo regno - "essere in carità è qui necesse" - cioè è necessità quando ci si trova in questo regno essere stabiliti nella carità.

"Anzi è formale ad esto beato esse tenersi dentro a la divina voglia" - cioè questa beatitudine, ha come forma, cioè lo definisce in qualche modo, l'Essere dentro la stessa volontà divina. "per ch'una fansi nostre voglie stesse" - sono tutte unite nella volontà di Dio.

"E 'n la sua volontade è nostra pace": - Ecco questo verso sembra quasi rispondere a quello di Adriano: Vidi che lì non s'acquetava il core - Qui il cuore umano trova finalmente la pace, in quel mare, e torna la grande immagine del mare, dove confluisce tutto l'universo in Dio stesso, trovando pace e riposo. Questo testo messo all'inizio con la prima persona che s'incontra serve a illuminare poi tutta la cantica.

Ora, vorrei però passare ad un altro esempio che qui nel Paradiso viene dato della felicità terrena di cui già abbiamo parlato, il più alto che si possa trovare (non per niente appunto è posto nel Paradiso), ed è la vita di Francesco d'Assisi. In questa vita noi troveremo già sulla terra quella grande felicità che è la vera aspirazione dell'uomo. Infatti egli troverà nel distacco totale dai beni di questo

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mondo quella povertà che lui simbolicamente sposa, come forse molti ricordano, la gioia perfetta, la dolcezza, quella che splendendo nel suo volto attirava verso di lui una larga schiera di seguaci. Quel distacco lo rende simile a Cristo nella nudità della croce, nelle piaghe; le stigmate, chiamate da Dante l'ultimo sigillo di Cristo, faranno di lui un re. Quando muore, Dante dice appunto che partendo dalla terra Francesco si muove tornando al suo regno. Paragonato all'inizio ad un sole che riscalda la terra con i suoi raggi, subito sul simbolo prevale nel testo la persona di Francesco, con la sua dignità, la fermezza e la felicità che da lui traspare, ma è meglio leggere il testo.

Non era ancor molto lontan da l'orto, ch'el cominciò a far sentir la terrade la sua gran virtute alcun conforto; ché per tal donna, giovinetto, in guerra

del padre corse, a cui, come a la morte, la porta del piacer nessun diserra;e dinanzi a la sua spirital corte et coram patre le si fece unito;poscia di dì in dì l'amò più forte. Questa, privata del primo marito, millecent'

anni e più dispetta e scura fino a costui si stette sanza invito; né valse udir che la trovò sicura

con Amiclate, al suon de la sua voce, colui ch'a tutto 'l mondo fé paura;né valse esser costante né feroce,sì che, dove Maria rimase giuso,ella con Cristo pianse in su la croce.Ma perch' io non proceda troppo chiuso, Francesco e Povertà per questi

amanti prendi oramai nel mio parlar diffuso.La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo

facieno esser cagion di pensier santi; tanto che 'l venerabile Bernardosi scalzò prima, e dietro a tanta pace corse e, correndo, li parve esser tardo.

Oh ignota ricchezza! oh ben ferace! Scalzasi Egidio, scalzasi Silvestro dietro a lo sposo, sì la sposa piace.

Indi sen va, quel padre e quel maestro, con la sua donna e con quella famiglia che già legava l'umile capestro.

Né li gravò viltà di cor le cigliaPer esser fi' di Pietro Bernardone,

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né per pare dispetto a maraviglia;ma regalmente sua dura intenzionead Innocernzio aperse, e da lui ebbe primo sigillo a sua religione.Poi che la gente poverella crebbedietro a costui, la cui mirabil vita meglio in gloria del ciel si canterebbe,di seconda corona redimitafu per Onorio da l'Etterno Spirola santa voglia d'esto archimandrita.E poi che, per la sete del martiro,ne la presenza del Soldan superba predicò Cristo e li altri che 'l seguiro,e per trovare a conversione acerba troppo la gente e per non stare indarno,

redissi al frutto de l'italica erba,nel crudo sasso intra Tevero e Arnoda Cristo prese l'ultimo sigillo,che le sue membra due anni portarno. Quando a colui ch'a tanto ben sortillo

piacque di trarlo suso a la mercede ch'el meritò nel suo farsi pusillo,a' frati suoi, sì com' a giuste rede, raccomandò la donna sua più cara,e comandò che l'amassero a fede;e del suo grembo l'anima preclara mover si volle, tornando al suo regno, e al

suo corpo non volle altra bara.Vorrei sottolineare quella terzina nella quale si vede la gioia che traluce dal

volto dei due amanti, dei due sposi - "La lor concordia e i lor lieti sembianti, amore e maraviglia e dolce sguardo facieno esser cagion di pensier santi" - Vedete la dolcezza e la felicità di questa scelta. Tutti gli corrono dietro infatti.

"Oh ignota ricchezza! oh ben ferace!" - Ricchezza ignota ai più di questa terra che cercano i beni di questo mondo. Vedete invece la potenza che l'esempio anche di uno solo ha sugli altri, trascina la gente come accadde appunto a Francesco.

Ma procedendo un pò nella cantica, verso i momenti più importanti finali, di questa felicità che è offerta già sulla terra come accadde a Francesco, abbiamo qua invece la pienezza suprema nell'unione con Dio. Qui bisogna sottolineare un

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punto, molto importante ma pochissimo riconosciuto. Si tratta dell'importanza che in tale condizione di felicità è data al corpo. Alla felicità

dei beati prima della fine dei tempi manca qualcosa, manca il loro corpo che dovrà risorgere all'ultimo giorno. Questo tema è svolto da Dante con grande forza in tutto il Paradiso; c'è un passo dedicato alla resurrezione dei corpi nel canto XIV.

La cosa che manca ai beati è il corpo, quello con il quale loro hanno in terra vissuto ed hanno amato i loro cari. Leggiamo questo passo che è un pò difficile, ma tutto sommato ci si rende conto del suo significato principale.

E io udi' ne la luce più diadel minor cerchio una voce modesta, forse qual fu da l'angelo a Maria,- risponder: «Quanto fia lunga la festa di paradiso, tanto il nostro amoresi raggerà dintorno cotal vesta.- La sua chiarezza séguita l'ardore; l'ardor la visïone, e quella è tanta, quant'

ha di grazia sovra suo valore.- Come la carne glorïosa e santafia rivestita, la nostra personapiù grata fia per esser tutta quanta;- per che s'accrescerà ciò che ne dona di gratüito lume il sommo bene,lume ch'a lui veder ne condiziona;- onde la visïon crescer convene, crescer l'ardor che di quella s'accende,

crescer lo raggio che da esso vene.- Ma sì come carbon che fiamma rende, e per vivo candor quella soverchia,sì che la sua parvenza si difende;- così questo folgór che già ne cerchia fia vinto in apparenza da la carneche tutto dì la terra ricoperchia;- né potrà tanta luce affaticarne:ché li organi del corpo saran fortia tutto ciò che potrà dilettarne».- Tanto mi parver sùbiti e accortie l'uno e l'altro coro a dicer «Amme!», che ben mostrar disio d'i corpi morti:

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- forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari

anzi che fosser sempiterne fiamme.Quest'ultima terzina, introdotta da Dante con un forse dubitativo, perché,

come spesso gli accade, si introduce nel grande discorso teologico con una sua supposizione. "Tutti sono felici, quando parla Salomone, che ben mostrar disio d'i corpi morti" - Forse non soltanto per loro stessi, come diceva la teologia, l'uomo sarà perfettamente felice solo quando avrà il corpo parte integrante di lui stesso. Ma Dante aggiunge questo forse, non tanto per loro,

"ma per le mamme,per li padri e per li altri che fuor cari anzi che fosser sempiterne fiamme".Desideravano cioè rivedere nella carne coloro che amarono nella carne.

Vedete com'è potente questo brano; il corpo è da Dante sempre ricordato; quel corpo sepolto in terra; già nell'inferno comincia Ciacco a ricordarlo, poi Pier delle Vigne, che un giorno torneranno a riprendere il loro corpo. Nel Paradiso stesso Dante due volte prova a vedere questo volto: una volta quando incontra Benedetto glielo chiede: se potessi vederti con immagine scoperta; l'altro risponde che non è possibile ora, ma il desiderio sarà accontentato nell'ultima sfera; una seconda volta incontra Giovanni evangelista, che una credenza popolare riteneva assunto in cielo con il corpo; Dante si sforza di vedere attraverso la luce questo volto, ma Giovanni gli risponde: "perché t'abbagli per veder cosa che qui non ha loco?. In terra terra è il mio corpo". Quindi ci sono già due tentativi che significano questo desiderio e servono a preparare la grande scena del finale, quando Dante finalmente si troverà nell'empireo. Lasciati i cieli tolemaici, Dante esce dal tempo e dallo spazio con un ardimento che non si trova in nessun altro testo letterario e non letterario, cioè il tentativo di raffigurare questo luogo oltre il tempo e lo spazio, che è l'empireo divino. Ecco, finalmente appaiono i corpi risorti, e questa visione distingue l'empireo dantesco da ogni diversa descrizione dell'aldilà; e offre la vera realtà della vita a cui un giorno l'uomo potrà partecipare, partecipando dell'essenza divina non come puro spirito, ma con il corpo, quel corpo che assunto dal figlio di Dio porta con sé

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tutta la storia nel Paradiso, cioè oltre la storia, perché Cristo è risorto ed è salito al cielo

con il corpo. (Questo si basa sull'epistola di Paolo ai Corinti al XV capitolo dove si racconta di questo grande evento del corpo che risorgerà). Qui noi abbiamo la scena che conviene leggere di questo spettacolo che gli appare mentre lui si trova finalmente nell'empireo.

- In forma dunque di candida rosami si mostrava la milizia santache nel suo sangue Cristo fece sposa; - ma l'altra, che volando vede e canta la

gloria di colui che la 'nnamorae la bontà che la fece cotanta,- sì come schiera d'ape che s'infiorauna fïata e una si ritornalà dove suo laboro s'insapora,- nel gran fior discendeva che s'addornadi tante foglie, e quindi risalivalà dove 'l süo amor sempre soggiorna.- Le facce tutte avean di fiamma vivae l'ali d'oro, e l'altro tanto bianco,che nulla neve a quel termine arriva.- Quando scendean nel fior, di banco in banco porgevan de la pace e de

l'ardorech'elli acquistavan ventilando il fianco.- Né l'interporsi tra 'l disopra e 'l fioredi tanta plenitudine volanteimpediva la vista e lo splendore:- ché la luce divina è penetranteper l'universo secondo ch'è degno,sì che nulla le puote essere ostante.- Questo sicuro e gaudïoso regno,frequente in gente antica e in novella,

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viso e amore avea tutto ad un segno.- Oh trina luce che 'n unica stellascintillando a lor vista, sì li appaga!guarda qua giuso a la nostra procella!Vedete come Dante non dimentica mai il tempo in cui vive, la dolorosa storia

in cui vive: "guarda qua giuso a la nostra procella!"Ecco, qui si vedono, sia pure in forma spiritualizzata, si vedono e si

riconoscono, in questa rosa con petali bianchi appunto, tutti i nomi della storia cristiana che vengono additati prima,: Giovanni evangelista, Pietro, Francesco, Benedetto, Agostino, vengono ricordati per vedere che nella rosa celeste la storia è presente. Troviamo soprattutto un tratto che diremmo di affettuosa umanità quotidiana; sembra rispondere al canto XIV prima letta ("forse non pur per lor") perché in questa grande rosa di fronte a Pietro si vede sant'Anna, e Dante commenta: "tanto contenta di mirar sua figlia, che non muove occhio per cantare osanna". Non si distrae neppure un momento pur cantanto l'osanna con tutti gli altri, dal guardare la propria figlia nella felicità e gloria del Paradiso. Ciò ci dice appunto che tutto quello che accade in terra di buono non è perduto: amore, amicizia, tutto quello che ci consolò nella vita è presente qua nel grande Paradiso, tratto proprio della poesia dantesca che mai dimentica la realtà quotidiana dell'umana condizione. Compiuta però questa visione, manca l'ultimo atto del compimento dell'umana felicità. Si tratta sempre infatti di un fatto personale; esso riguarda il singolo, e Dante rimane solo nell'ultimo canto. Sparisce quel grande ambiente prima descritto; anche Bernardo che è la sua ultima guida si allontana; egli resta solo, solo di fronte al raggio della luce divina. Qui si compie finalmente il suo desiderio; egli giunge come dirà, al fine di tutti i disii, quello che dicevamo in principio, all'ultimo desiderabile. Questa difficilissima sfida per il poeta viene appunto affrontata nel canto XXXIII con questo incontro, con questo penetrare nel raggio della luce eterna.

Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l'orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati; - indi a l'etterno lume s'addrizzaro, nel qual non si dee creder che s'invii per creatura l'occhio tanto chiaro.

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- E io ch'al fine di tutt' i disii appropinquava, sì com' io dovea, l'ardor del desiderio in me finii.

- Bernardo m'accennava, e sorridea, perch' io guardassi suso; ma io eragià per me stesso tal qual ei volea: - ché la mia vista, venendo sincera, e più e

più intrava per lo raggiode l'alta luce che da sé è vera.- Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che 'l parlar mostra, ch'a tal vista

cede,e cede la memoria a tanto oltraggio.- Qual è colüi che sognando vede,che dopo 'l sogno la passione impressa rimane, e l'altro a la mente non riede,- cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visïone, e ancor mi distillanel core il dolce che nacque da essa. - Così la neve al sol si disigilla;così al vento ne le foglie levisi perdea la sentenza di Sibilla.O somma luce che tanto ti levida' concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi,- e fa la lingua mia tanto possente,ch'una favilla sol de la tua gloriapossa lasciare a la futura gente;- ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi

versi,più si conceperà di tua vittoria.- Io credo, per l'acume ch'io soffersidel vivo raggio, ch'i' sarei smarrito,se li occhi miei da lui fossero aversi.- E' mi ricorda ch'io fui più arditoper questo a sostener, tanto ch'i' giunsi l'aspetto mio col valore infinito.- Oh abbondante grazia ond' io presunsi ficcar lo viso per la luce etterna,tanto che la veduta vi consunsi!Andiamo avanti perché è importante aver toccato questo punto.

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- Oh abbondante grazia ond' io presunsificcar lo viso per la luce etterna,A questa visione si accompagna, come avete sentito, la richiesta di poter

riferire qualcosa, almeno un poco, alla futura gente, ed è quello che lui ha fatto, l'ha lasciato alla futura gente che siamo noi. Grazie.

Camillo Fornasieri:Vorrei ringraziare Anna Maria Chiavacci Leonardi per questo regalo, per

questo percorso e cammino dentro la Divina Commedia stessa, in un tempo di incertezza e scetticismo, e anche di vanificazione dell'io, della vita, bruciato come nell'istante, rischio che tutti i tempi forse corrono, ma che questo nostro tempo in maniera più forte racchiude come possibilità negativa.

Ascoltare Dante così pone il tema della felicità che costituisce la vita della persona e trapassa tutti i popoli, come ha detto nell'introduzione, ha segnato gli antichi, ha segnato i moderni, segna questo nostro tempo. E la presenza di questo desiderio come qualcosa di infinito, che non si può calmare, fermare, soffermare, compiersi nelle cose, come richiamava Agostino, "Il nostro cuore è inquieto finché non trova riposo in te". Concludendo, Dante non dimentica mai il tempo, la quotidianità, l'esistente, l'essere così com'è, la forma, fino a quel "forse" che mi ha colpito moltissimo, delle anime che cercano il corpo, cioè ciò che ha avuto rapporto con tutto, forse non pur per lor, ma per le mamme, per li padri e per li altri che fuor cari prima che fossero in questa condizione eterna.

Dunque ciò che si perde non sia qualcosa dell'aldilà, ma ciò che si può perdere è la felicità, proprio perché il desiderio di infinito indomabile riguarda tutto il tempo, e quindi anche il tempo di quel che è infinito come il desiderio. Io ringrazio la professoressa Chiavacci Leonardi perché è un maestro, perché si pone di fronte a Dante che ha amato fin dall'inizio degli studi universitari e poi per tutta la vita, e insegna in una delle pochissime cattedre di storia e critica dantesca rimaste in Italia, con questa sua passione che non c'è più adesso. Andando in pensione si toglie anche questa caratteristica che era rimasta ancora nell'università di Siena; però è un maestro che noi possiamo rincontrare, un

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maestro è sempre qualcuno che legge in modo autentico le cose giocando la sua esperienza personale di fede come ci ha testimoniato. Grazie ancora.

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La storia nell’eternitàLa Divina Commedia, il canto dell’uomo che torna a Dio

Venerdì, 27 agosto 2004, ore 11.15

Relatore:Anna Maria Chiavacci Leonardi, Docente di Filologia e Critica Dantesca

presso l’Università degli Studi di Siena e Membro Onorario della Dante Society of America.

Moderatore: Davide Rondoni, Poeta e Scrittore.

Moderatore: Buongiorno. Come sapete questo è un appuntamento oramai tradizionale, se così si può dire, nella vita del Meeting ed è anche uno dei momenti di più alto magistero, come direbbero i retori, cioè un momento in cui c’è un approfondimento e una lezione delle più interessanti e profonde.

Volevo solo introdurre dicendo due cose: la prima è una cosa che mi è venuta in mente l’altro giorno la mattina presto, molto presto. Avevo la televisione accesa e c’era la pubblicità del Mulino Bianco, non so se l’avete mai vista, quella con le donne… avete presente? Insomma c’era questa pubblicità: “ah le donne!”, inizia così e c’è questo bambino piccolissimo, poi un po’ più grande e c’è un momento in cui dice: “Le donne all’inizio non ti guardano neanche, insomma quando sei piccolino non sai cosa sono”; poi c’è un momento, un po’ più grande, in cui dice: “Le donne non ti guardano” e si vedono queste bambine che parlano fra di loro in macchina, con un maschietto in mezzo, e non se lo filano; poi c’è un momento, ed è il momento della giovinezza in cui dice: “Le guarderesti sempre”, dice la pubblicità, e si vede il ragazzino che studia e la ragazzina che ha in mano la Divina Commedia. Ecco, la pubblicità dice a volte anche cose intelligenti, non solo strumentali, ed è vero che in qualche modo questo “le guarderesti sempre” è perché un uomo vorrebbe sempre guardare l’eterno nella storia; e la bellezza è

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uno di quei segni in cui qualche cosa di smisurato entra nella misura e non a caso la Divina Commedia è nata per una donna, per guardare sempre una donna. Perché questa è una esigenza che abbiamo tutti e anche la pubblicità se ne accorge.

La seconda cosa che non credo non si possa dire oggi, è che il fatto che la storia c’entri con l’eterno, che l’eterno entri nella storia e che la storia entri nell’eterno è esattamente il problema. È la questione alla quale ci troviamo di fronte quando vediamo, appunto, troncare ingiustamente la vita di qualcuno come è successo per il giornalista italiano, oppure, come molti di noi hanno nel cuore oggi, per la morte di malattia di un ragazzo giovane di Milano, un nostro amico di 21 anni. Ci sono dei momenti, dei punti inevitabili, come dice Eliot in I cori dalla rocca, in cui uno si chiede che cosa vuol dire che l’eterno entri nella storia.

Scusate per le citazioni che sembrano non avere nulla a che fare con Dante, ma Dante serve per capire meglio la vita. Come, per esempio, una notizia sul giornale di oggi di un uomo, Prandelli - conoscete l’allenatore della Roma? - che rinuncia appunto all’incarico di allenare la Roma - potete immaginare cosa significa rinunciare ad un incarico così, cioè l’apice della carriera - perché deve stare accanto alla moglie malata. Questi sono i momenti in cui capisci che l’eterno deve entrare nella storia, perché la storia abbia un sapore, perché la storia non sia solo una vaniloquio di vite e di parole che vanno via. La storia deve entrare nell’eterno e l’eterno deve entrare nella storia. In Dante noi sentiamo un maestro in questo sguardo, in questo problema e sentiamo nella professoressa Chiavacci una guida sicura nel leggerlo e nel capirlo. Per questo la ringrazio di essere ancora con noi e voglio con voi ascoltare le sue parole.

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Ringrazio l’amico Rondoni della presentazione e ringrazio voi dell’affluenza e del generoso applauso. Bisognerebbe aspettare la fine, tuttavia, per vedere se va bene.

Dunque, nella conversazione che si svolse qui al Meeting proprio qualche anno fa, ci fermammo a considerare un aspetto del poema di Dante su cui in

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genere non si parla, non si discute, ma in realtà lo caratterizza in modo rilevante. Il viaggio che esso racconta, viaggio della vita umana, come dice il suo primo verso, è un cammino non affidato al caso, ma diretto ad una meta stabilita.

La vita del singolo, come quella dell’umanità intera ha un inizio e un termine, termine predisposto di pace e felicità. E la strada scelta per questo cammino può dunque essere diritta o sbagliata. La “diritta via era smarrita”, già la prima terzina ci dice che la via può essere diritta o meno, quindi c’è un termine e un termine felice. Ora questa prima idea, che per noi è scontata, di un fine fissato alla vita e alla storia non è ritrovabile invece nelle culture e nelle religioni che appartengono all’oriente. Essa caratterizza in modo specifico l’epos occidentale, sia classico che biblico. Le altre culture vedono la fine della vita come qualcosa di incerto: o si va in forme di vita ciclica, continui ritorni, o si perde nel caos, non c’è questa sicurezza di una meta. Nell’epos occidentale, nei suoi due filoni sia classico che biblico, questo è evidente: ricordiamo brevemente qualcuno di questi grandi personaggi. Mosè, con ispirazione divina, fidando solo sulla parola divina conduce i suoi dalla schiavitù dell’Egitto alla libertà della terra dei padri.

Abramo, anche lui fidando sulla parola di Dio, lascia il suo paese, lascia la sua terra per una destinazione sconosciuta dove troverà prosperità e discendenza, l’abbondanza.

Non diversamente nell’epos classico, Enea lascia Troia in fiamme, fidando nella parola della dea madre per fondare in un luogo ignoto, sulle coste del Lazio, un regno di giustizia e di pace.

Infine ricordiamo Ulisse che, attraversando mille pericoli, perché sono percorsi sempre difficili, come è appunto la vita, torna alla propria casa, il luogo del riposo per eccellenza, configurando così, questa volta il viaggio, come un ritorno. Cosa che del resto accade anche agli ebrei che tornano nella terra dei padri, a Canaan.

Ora però questa terra di arrivo lontana promessa dagli dei e faticosamente raggiungibile è una evidente figura di un luogo di felicità anelato dopo i dolori e i tormenti della vita. Speranza che appare propria dei popoli mediterranei.

Dopo più di un millennio, la Divina Commedia porta in questo modello che

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pure esplicitamente segue, perché si ispira all’Eneide, una novità fondamentale. Il luogo d’arrivo non è più sulla terra, ma oltre il tempo e lo spazio, nell’eternità. Non più Gerusalemme né Roma, ma la dimora stessa di Dio. Tra quei poemi e questo, qualcosa è infatti accaduto. Qualcosa ha cambiato le sorti dell’umanità. Dio stesso è intervenuto nella storia, prendendo la carne umana, nascendo da una donna, morendo sulla terra e risorgendo nella gloria dove ha innalzato la natura mortale dell’uomo. Egli ha posto così nel tempo un seme, potremmo dire un germe di eternità, per cui la meta di ogni uomo e della storia intera è situato ormai nella realtà ultraterrena.

Quei poemi che i poeti cristiani e la stessa Bibbia soltanto prefigurano in città felici della terra, Gerusalemme o Roma, è ora fuori della portata dei carri e delle navi oltre il tempo e lo spazio in una dimensione che ci sovrasta. Tale termine ultraterreno dà significato, come osservammo appunto qualche anno fa, ad ogni atto terreno; visto dall’altra sponda tutti gli uomini della terra vedono la loro vita all’indietro e dal luogo eterno dove sono ne comprendono il senso e ne misurano il valore. Nessun gesto, anche minimo, è perduto e tutto ciò che fu caro e buono resta per l’eternità dove il corpo stesso, il caduco per eccellenza, risplende nella gloria.

Ma qual è la forza che conduce l’uomo a questo suo fine? Su questo vorremmo oggi riflettere ispirandoci anche al tema proposto nel Meeting, sull’elemento traente che presiede a quel cammino e che di fatto governa tutto il poema dantesco.

C’è nell’uomo qualcosa, come un anelito, un sospiro che lo attrae verso quella meta e non si placa fino a che non l’ha raggiunta. Questo interno sospiro del cuore umano, questa aspirazione sempre desta ha nell’opera di Dante un nome che la definisce: questo nome è desiderio. Il desiderio come tensione verso ciò che attrae l’uomo per natura cioè il bene che è definito nel grande discorso sull’amore nel Purgatorio (Canto XVIII): “così l'animo preso entra in disire ch’è moto spiritale, e mai non posa finché la cosa amata il fa gioire”. Questo disire è moto spiritale, moto spirituale quindi, tuttavia è già un movimento di per sé. Il desiderio è movimento. Ed è il movimento di cui vive l’universo per opera di quel

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Dio in cui Dante crede. E così lo definisce infatti: “Io credo in un Iddio solo ed eterno che tutto il cel move, non moto, con amore e con disio”. Questo movimento dell’universo tutto improntato da questo desiderio verso Dio è detto nel I Canto del Paradiso che canta l’ordine del mondo e il fine posto ad ogni creatura.

Quell’ordine appunto che dicevamo in principio. Tutte quante le cose hanno ordine fra loro. C’è una regola, un qualcosa di fissato. Questo porta tutte le creature “per lo gran mar dell’essere”, come si esprime appunto Dante. Tuttavia è diverso il movimento della creatura della natura dalle creature dotate, come dice Dante, “di intelletto e d’amore”. In loro c’è una cosa diversa, diversa la meta, come abbiamo ora detto, diversa la coscienza che ne hanno. Diversa la libertà di perseguirla o meno. Quella libertà che fa la grandezza della natura umana.

Questo desiderio, o disio, è una forza che dominò tutta la vita di Dante. È lui, infatti, il protagonista di quel cammino, del cammino del desiderio che nel poema si compie, come sarà detto, negli ultimi versi, insomma nell’introduzione dell’ultimo canto “E io ch’al fin di tutt’i disii appropinquava, si com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”.

C’è una pagina del Convivio abbastanza nota - sembra quasi scritto in contemporanea con quel I Canto di quel cammino, appunto, iniziato sbagliato - dove si parla di questa situazione dell’uomo. “Il sommo desiderio di ciascuna cosa e prima della natura data è ritornare allo suo principio. E però che Dio è principio delle nostre anime e fattore di quelle simili a sé, quando disse facciamo l’uomo a immagine e somiglianza nostra, essa anima desidera massimamente tornare a quello. E si come peregrino che va per una via ed ogni casa crede che sia quella dove arrivare e poi si sbaglia e prosegue” e così c’è l’immagine dell’uomo che cammina per una strada, “così l’uomo cerca il suo bene”. Comincia da piccoli beni, come i bambini che desiderano un frutto, una caramella, e continua con desideri sempre più grandi. Qui Dante definisce quasi una piramide dei desideri dai piccoli ai grandi e crede sempre di trovarne uno più alto, sembra che l’uno stia dinanzi all’altro per modo quasi piramidale, il minimo

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li copre prima tutti ed è quasi punta dell’ultimo desiderabile che è Dio.Questa ricerca dell’ultimo desiderabile è quella che poi conduce il poema,

quella fine di tutti i disii. Sempre nel Convivio aggiunge: “veramente questo cammino si può perdere per errore come le strade della terra”, appunto come è accaduto a lui nell’inizio dell’Inferno. Quel finale, “io ch’al fin di tutt’i disii appropinquava, si com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii”, ci porta questa parola, ardore, che è caratteristica del desiderio dantesco e sempre molto facilmente si trova nel poema unito al desio, al desiderio. L’ardore, questo desiderio ardente dell’amore e di ogni altra cosa trascina l’uomo. Difatti lo ritroviamo nell’uomo che è nell’Inferno, nella controfigura di Dante stesso, cioè Ulisse. Vi ricordate certamente nella “dolcezza di figlio”, nella “pieta del vecchio padre, pel debito amor lo qual dovea Penelope far lieta, vincer potero dentro di me l’ardor ch’i ebbi a divenir del mondo esperto e de li vizi umani e del valore”.

Questo ardore di conoscenza che affronta l’oceano, l’alto mare aperto, cioè l’infinito, figura dell’infinità divina, presumendo di raggiungere ciò che è proprio di Dio stesso con le sue sole forze, presunzione che perse Ulisse, è lo stesso che porterà alla nave di Dante, affidata ora alla guida divina sul mare del Paradiso: “l’acqua ch’io prendo giammai non si corse”. Però aggiunge: “Minerva ispira e conducimi Apollo”, c’è una conduzione divina. Le parole di questo inizio del II Canto, con quest’ “acqua ch’io prendo…” somigliano in grande parte a quelle usate da Ulisse nel suo breve discorso. C’è questo desiderio, dunque, che arde nel cuore umano, e che lo porta verso la meta ultraterrena posta da Dio alla vita dell’uomo. Per questo niente di ciò che è terreno può saziarlo. Questo è un punto importante della Divina Commedia che, come sempre non si trova in un discorso teologico, ma nella concreta esperienza di una vita.

Questo è in genere il sistema, potremmo dire dantesco, che nei piccoli casi della vita umana nella sua concretezza, si scopre la grandezza, diciamo teologica, di queste idee che governano il mondo cristiano, che è poi il mondo dantesco. Ecco, qui si tratta del Papa Adriano V che si incontra nel Purgatorio nella cornice degli avari. Questo era un Papa della nobile famiglia dei Fieschi che ebbe un pontificato brevissimo ovvero di poco più di un mese, alla fine del

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Duecento, quindi tempi ben noti a Dante; inserito tra gli avari, non per sete di denaro - di cui non c’è notizia nelle cronache né Dante ne parla - ma di potere come appare dalle sue parole. A Dante, infatti, che gli chiede chi fosse e perché fosse così punito, egli risponde con parole brevi ma profonde – dunque lui arriva al pontificato, come abbiamo detto e poi vi rimane per breve tempo – e arriva… “Vidi che lì non si quetava il core, né più salir poteasi in quella vita; onde di questa in me s’accese amore”. Come tutti i lettori hanno riconosciuto, ci sono dietro questi versi, le grandi parole delle Confessioni di Agostino “fecisti nos ad te et inquietum est cor nostrum donec requiescat in te”, traduco per chi non sapesse un po’ di latino, “tu ci facesti per te ed inquieto è il nostro cuore finché non riposi che in te”. L’uso dello stesso verbo, inquietum, è un sicuro rimando al testo, ben noto allora, del Vescovo di Ippona. C’è proprio un incontro, come molto spesso accade nel poema, fra Dante e Agostino, due dei più grandi spiriti dell’Occidente.

Qui interviene un altro tema anch’esso ben noto a tutta la tradizione cristiana: se il luogo dove l’uomo possa trovare riposo non si trova sulla terra, l’uomo su di essa è come ospite e pellegrino. L’uomo appartiene in realtà ad un altro mondo, discende dall’animo stesso, dal cuore stesso di Dio, al quale sospira di ritornare. È questo il grande motivo dell’esilio. Già definito del resto da S. Paolo nella seconda lettera ai Corinti: "dum sumus in corpore peregrinamur a Domino", “finché viviamo nel corpo siamo come esuli di fronte a Dio”. Come disse già Sapia, anche questa volta in una situazione concreta come accade per Adriano, come i più vivi degli incontri purgatoriali, ciascun uomo è cittadino della sola vera città, cioè del cielo. Nella patria terrena egli vive soltanto come pellegrino, cioè come esule, secondo un significato che il termine pellegrino aveva. A Dante, che le chiede se tra gli spiriti della cornice – qui siamo tra gli invidiosi, forse qualcuno ha letto questo episodio di Sapia – vi sia qualche latino, cioè qualche italiano come allora voleva dire latino, la donna senese con una fine correzione, che fa parte del suo carattere sottile e acuto, spiega: “O frate mio, ciascuna è cittadina d’una vera città ma tu vuoi dire che vivesse in Italia peregrina”. Cioè tu quando chiedi se c’è un italiano, non dici una cosa proprio esatta, tu vuoi

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intendere che vivesse in Italia pellegrino, cioè esule perché la sua vera città è una sola. Il viaggio della vita terrena è di fatto un ritorno, un ritorno alla casa, al luogo della propria origine dove il cuore può riposare.

Un’espressione di questo genere c’è nell’Inferno, più precisamente nell’incontro con Brunetto Latini, quando quest’ultimo gli chiede di questo che l’accompagna e lui risponde che gli è apparso nella valle dove si era smarrito “e reducemi a ca’ per questo calle”, mi riconduce a casa. Ecco, è la sola volta che viene detta questa espressione per Dante che torna a casa, quindi in questo suo lungo cammino. Ora, non è certo un caso che il doloroso destino dell’esule sia per l’appunto quello che fu dato a Dante nella storia. Per cui le due voci vengono a sovrapporsi nel poema con lo stesso struggente tono di rimpianto. Non si distinguono a volte l’una dall’altra. Non è un caso che il più grande testo dove si canta il dolente sentimento di chi è lontano dalla propria terra e dai propri cari porti, quasi nel titolo, la parola che definisce nel poema la condizione dell’uomo lontano dal cielo e cioè il disio. Più che desiderio, Dante usa l’accezione di disio nel poema che ha una altissima presenza fino all’ultimo appunto. Tutti ricordano l’attacco dell’VIII del Purgatorio: “era già l’ora che volge il disio ai naviganti e ’ntenerisce il core lo dì c’han detto ai dolci amici, addio”. Ecco, in quel momento, in cui partono e si distaccano dalla propria terra ecco che si volge il loro desiderio, il loro disio verso quella patria. Il momento serale della tristezza, diciamo così, ma esprime il sentimento dell’uomo che è quello poi provato da Dante verso la sua cara Firenze e provato da tutti verso la patria del cielo.

La stessa parola è usata – faccio due o tre esempi tanto per capire un po’ il quadro – per definire la condizione degli abitanti del limbo i quali sono appunto in esilio dal cielo. Loro dicono infatti: “per tai difetti semo perduti e sol di tanto offesi che sanza speme vivemo in disio”. Ecco tornare la stessa parola, anche gli abitanti del limbo vivono in eterno disio della loro patria che non avranno mai; la stessa espressione è usata per Adamo che aspettò per lunghe migliaia di anni la venuta di Cristo; altra situazione di esilio e dice appunto: “per morder quella” – la famosa mela, appunto – “in pena e in disio cinquemilanni e più l’anima prima bramò colui che il morso che in sé punio”, cioè la venuta di Cristo che punì su se

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stesso quel morso.La situazione dell’esule, come vedete, è espressa da questa parola

fondamentale del disio. Su tutto il secondo regno del Purgatorio, è posto su questa condizione, perché è quella simile a quella della terra, cioè gli abitanti del Purgatorio sono in qualche modo nella stessa situazione degli abitanti della terra; anche loro sospirano la liberazione, sono in movimento. È l’unica cantica dove gli abitanti non sono fissati per sempre nella loro condizione come l’Inferno e il Paradiso, dove non si cambia. Nel Purgatorio camminano, progrediscono, devono arrivare fino alla liberazione.

Nel II canto del Purgatorio la nave che porta dei salvati risuona di un canto, tutti cantano dentro questa barca, che è appunto il salmo dell’esodo, in exitu Israhel de Aegypto, il salmo dell’esilio per eccellenza. Dante si ritrova quindi fra di loro proprio come uno di loro. Infatti, quando gli spiriti discesi sulla spiaggia si rivolgono a Virgilio a chiedere la strada, Virglio risponde così: “Voi credete forse che siamo esperti d’esto loco, ma noi siamo peregrin come voi siete”. Noi siamo come voi, nella stessa condizione. E lo stesso, quando Dante dopo l’ultima notte passata nel Purgatorio, si sveglia sulla montagna al mattino e vede le luci dell’alba, queste gli appaiono gradite come all’esule che vede prossima la patria: “E già per li splendori antelucani, che tanto a pellegrin surgon più grati, quanto, tornando albergan men lontani le tenebre fuggian da tutti i lati”. Vedete la situazione opposta dell’inizio del canto VIII: là è la sera, sono appena partiti, c’è questo disio pieno di uno struggente rimpianto, di melanconia; qua stiamo per arrivare, gli splendori dell’alba invece annunciano la terra vicina e danno gioia. Vedete questa doppia situazione inizio/fine di quello che è l’esilio.

Il rapporto fra i due destini d’esilio, quello terreno e quello celeste di Dante tocca il suo culmine nel canto XXV del Paradiso, canto poco letto – a parte che non si legge quasi più niente, non si sa più quali sono quelli letti – ma insomma diciamo nella tradizione poco letto, ma molto bello. È il canto dedicato alla virtù della speranza. Nel celebre attacco che ora ricorderemo, Dante esprime come mai altrove, il desiderio mai sopito nel cuore di poter ritornare nella sua città che crudelmente lo chiude fuori dalle sue mura. E comincia con un “semmai” che già

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ci fa capire che lui stesso sa che non potrà mai accadere: “Semmai continga che il poema sacro al quale ha posto mano e Cielo e Terra, sì che m’ha fatto per più anni macro, vinca la crudeltà che fuor mi serra dal bell’ovile ov’io dormii agnello, nimico ai lupi”. Questo “semmai continga”, semmai possa accadere, già dice che ciò, lui lo sa bene, non accadrà mai. Ma ecco che al centro del canto, gli viene fatta la domanda sulla virtù teologale della speranza - non so se molti di voi sanno che ci sono tre domande, tre interrogazioni, sulla fede fatta da Pietro, sulla speranza fatta da Giacomo, sulla carità fatta da Giovanni, a cui il pellegrino deve rispondere prima di entrare - e gli viene chiesto quale sia l’oggetto specifico di questa virtù, che distingue le anime dei beati del Paradiso. Dante risponde che essi appariranno nella loro patria rivestiti nel corpo ora sepolto nella terra. Lui dice così: “Dice Isaia, che ciascuna vestita ne la sua terra fia di doppia vesta e la sua terra è questa dolce vita”. Isaia parla degli ebrei, quindi di un rientro terreno, in patria, mentre Dante lo prende, come poi gli interpreti cristiani, come la patria vera e propria cioè il cielo. “Che ciascuna sarà rivestita di doppia vesta” che viene interpretato, sempre dagli interpreti cristiani, anima e corpo, che sono le due vesti che ricoprono l’uomo in patria. Ed ecco l’esulo è costretto a salire e scendere le sale dei potenti entrerà rivestito del suo corpo divenuto immortale nella sua vera terra, la città celeste, in quella vita dolce, questa dolce vita, dolce per sempre, che non conosce amarezze. Tuttavia già prima di morire, in questo viaggio raccontato, viaggio sognato, l’esule della storia farà l’esperienza dell’entrare nella patria, nella vera patria, quando entrerà fuori dal tempo nel cielo divino. Infatti finché Dante attraversa i cieli tolemaici rimane su un terreno abbastanza sicuro perché è comunque un terreno storico. Ma qui egli tentò una sfida - per un poeta la massima sfida quando entra nell’empireo - perché in questi quattro canti finali, dal XXX al XXXIII, egli vuole narrare cose di per sé non narrabili, come egli stesso dice nel primo canto: “nel ciel che più della sua luce prende”, cioè nel cielo dell’empireo, “fui io che vidi cose che ridire nè sa, nè può chi di lassù discende”. Ma egli racconterà qualcosa, quel poco che è rimasto nella sua mente, come l’impressione lasciata da un sogno.

Nell’ultimo canto c’è quella grandissima similitudine, “qual è colui che

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sognando vede, che dopo il sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede, cotal son io, che quasi tutta cessa mia visione, ed ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da essa”. Ecco, quello che gli è rimasto è questa impressione di chi si sveglia da un sogno. Ora, nel canto XXXI c’è già un primo saggio di questo conforto: è la gioia del pellegrino arrivato nel tempio del suo voto. Lui si paragona al pellegrino arrivato nella chiesa dove ha fatto voto di andare. Egli guarda con tutta pace, “passeggiando”, come dice, “attraverso la luce che si estende al centro della grande rosa dei beati”, dove vede i volti finalmente visibili di quei beati fin ad ora chiusi nelle loro fiamme. Già si vedono questi corpi, gli unici veri corpi del poema, gli altri sono fittizi come sapete. Questo disteso guardare segna l’arrivo dell’esule in patria dopo tante pene e fatiche; ma questa non è la fine del viaggio, e del poema. L’esperienza suprema dell’uomo è sempre fatta nell’intimo del cuore, l’uomo in questo non può essere che solo. Cor ad cor loquitor, è la bellissima insegna scelta dal cardinale Newman - che voi forse conoscete, comunque io non so se l’ha inventata o l’ha trovata da qualche parte, non sono riuscita a trovare la fonte, comunque me la ricordo spesso. Cor ad cor loquitor, il cuore parla al cuore. L’incontro è sempre fra due persone, il rapporto con Dio passa da persona a persona. Ora Dante, dopo la grande preghiera elevata da Bernardo a Maria, si ritrova solo nell’ultimo canto come solo era nella selva all’inizio del poema. Sparisce la rosa che si contemplava prima, non si vede più niente; è il momento in cui tocca il fine di tutti i disii. E porta al culmine quell’ardor di desiderio che ha consumato la sua vita.

Ma se l’esperienza della realtà divina non può essere che solitaria, ad essa segue, immediata, l’appassionata richiesta per gli altri, per le persone umane. “O somma luce, che tanto ti levi dai concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi, e fa la lingua mia tanto possente, una favilla sol della tua gloria, possa lasciare alla futura gente”. È ciò che di fatto egli ha compiuto, lasciando a noi, la “futura gente”, questo suo grande racconto.

Di ciò che vide in questo estremo incontro ci dà solo brevi e lampeggianti ricordi di tre grandi misteri, tutti raffigurati con rapidissime immagini: il primo è

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l’unità del molteplice nel creato, la figura del libro che era riconosciuta ai suoi tempi, legato con amore in un volume “ciò che nell’Universo si squaderna” - sono fogli tenuti insieme in un volume - così per la Trinità c’è la grande immagine dei tre cerchi uguali e distinti, un’immagine descrivibile a parole, ma non disegnabile, perché sono di “tre colori e una continenza”, e non si possono distinguere, in fondo, l’uno dall’altro. Ora, date queste due brevi pennellate, resta l’ultimo mistero, non rappresentabile né descrivibile: quello dove egli fissa lo sguardo affascinato. Egli scorge, infatti, nel secondo cerchio, cioè nel Figlio, quella che lui chiama la nostra effige: “mi parve pinta della nostra effige”, la nostra immagine umana, cioè il volto dell’uomo da Dante tanto amato e descritto in ogni suo minimo particolare. Egli ne conosce ogni moto e ogni sospiro, si potrebbe dire; dal lattante che si sveglia prima per fame, il piccolino che si sveglia e cerca il latte per la fame, all’epilettico riavuto, ai due amanti di Rimini, a Francesco innamorato della povertà. Dante fissa il mistero, ma non può intenderlo, finché un raggio divino non lo illumina; l’uomo è, dunque, in Dio, l’esule ha raggiunto la patria. Come dice la fine dell’epistola a Cangrande, “Invento principio, seu primo, videlicet Deo, nihil est quod ulterius quaeratur”: “trovato il principio, cioè Dio, non c’è altro che si possa cercare”. Finito. Lasciamo un po’ di posto a qualche eventuale domanda!

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Domande

Moderatore: Sì, perché credo che la sottolineatura del tema del desìo e del suo rapporto con la speranza, siano due sottolineature importanti per comprendere meglio, non tanto di come si possa parlare di Dante, ma di come Dante parla di noi. Perché come già ho avuto occasione di dire in questi giorni l’interesse per un autore come Dante è, come abbiamo avuto occasione di ascoltare adesso, non perché parla di lui, ma perché parla di come siamo fatti. Come la professoressa ha appena spiegato, questo mettere come forza traente del viaggio il desìo, significa parlare della condizione in cui noi viviamo e da cui ci distraiamo, perché normalmente pensiamo che il carburante della vita possa essere altro. Per questo Dante continua ad essere un padre, un grande maestro. C’è tempo ancora un quarto d’ora e se c’è qualcuno di voi che vuole fare una domanda; lì c’è un microfono.

Domanda: Innanzitutto volevo ringraziare di questa lezione per la chiarezza e la profondità con cui lei ci ha introdotto in questo tema. Mi ha colpito molto soprattutto l’ultimo accenno a Dante come conoscitore dell’uomo, che conosce ogni sospiro, ogni moto. Che cosa lo rende così esperto conoscitore dell’uomo?

Anna Maria Chiavacci Leonardi: È una domanda da milioni e milioni, perché come facciamo a sapere che cosa lo rende così? Certamente il suo animo pieno di attenzione e di amore, perché ciò che fa conoscere è l’attenzione: se uno passa accanto a una persona dieci volte e non ne sa nulla, c’è chi passandole accanto una sola volta, la guarda con amore e la capisce. Però la risposta è generica, ma che dentro l’animo di Dante c’era questa amorosa attenzione per l’uomo, per l’essere umano, del resto il poema lo dimostra. Questa è l’unica risposta che si può dare.

Domanda: Volevo chiedere se per Dante già nel desiderio dell’uomo è già presente la grazia di Dio, se la grazia di Dio si manifesta anche nel desiderio

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dell’uomo.

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Certamente. In origine è presente nell’uomo un desiderio della natura senza bisogno della grazia. Occorre distinguere: già nella natura umana è posto questo, è nato con questo fine e c’è in lui il desiderio di tornare alla propria patria, come c’è in tutti. Tuttavia la grazia è importantissima, come noi sappiamo, per lo meno nei cristiani, in quanto la grazia viene sempre incontro, viene data sempre all’uomo, basta che ci sia un minimo, un briciolo di buona volontà. Nell’uomo che ha un minimo di disposizione scende la grazia e talvolta anche gratis, come sappiamo, anche se quello non la vuole, poi tocca a noi accettarla, naturalmente. Quindi credo che questo desìo può essere il semplice desiderio naturale, che può perdersi, può sbagliarsi, come dice lo stesso Convivio “cammino che si perde per errore” – uno crede che quello è il bene e invece non è – e va sempre un po’ vacillante, come la natura; poi c’è il soccorso della grazia, che deve, però, essere accettato. Questo poi è un mistero per ogni animo umano, non possiamo scendere fino in fondo.

Domanda: Io sono un appassionato lettore di Dante. Una cosa che mi colpisce personalmente è che di Dante normalmente è molto più conosciuto, anche a livello popolare, l’Inferno, un po’ meno, diciamo così, il Purgatorio, ma il Paradiso è semisconosciuto. Ora, Dante è apprezzato anche da molti laici, ma perché in Dante vedono l’esaltazione dell’uomo, però di quello che sta all’inferno, un uomo che ha rifiutato, in qualche modo, di alzare lo sguardo verso il cielo? Ho detto bene?

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Ma non si tratta soltanto di posizione “politica” diciamo, largamente, questo accantonare il Paradiso; questo accade un po’ a tutti, per la sua grande difficoltà, perché tutte le cose grandi, come dicevo anche ai miei scolari, richiedono fatica. Anche la grande musica di Bach, se viene ascoltata la prima volta, viene spesso rifiutata, perché si “stufa”. Ci vuole un allenamento, una fatica, uno sforzo per conquistare ciò che è veramente molto

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grande e così avviene per il Paradiso. Il Paradiso, a parte la sua connotazione squisitamente cristiana, ha, però, questa difficoltà intrinseca di lettura, di comprensione del testo stesso, per cui è stato quasi sempre penalizzato, non da tutti, ma quasi: sono pochissimi i grandi estimatori, i rivalutatori del Paradiso, così pochi che forse si contano sulle dita di una mano.

Perché l’immagine dell’Inferno attrae tutti? Perché tutti vi si riconoscono facilmente, siamo tutti un po’ come questi infernali; tuttavia, questa grande attrazione dipende anche dalla grande dignità che Dante ha voluto lasciare all’uomo infernale. È un uomo, infatti, non come si vede tante volte nelle rappresentazioni dell’iconografia antica, quasi bestia, travolto dai diavoli, che non hanno carattere, non hanno dignità. Dante ha lasciato la dignità umana, che del resto fa parte della persona; non si può togliere l’immagine dall’uomo, l’immagine di Dio. Quindi l’uomo infernale di Dante ha una sua dignità, che diminuisce sempre più verso la fine. Nonostante ciò quello che non viene afferrato normalmente, è che l’uomo stesso nella sua dignità riconosce la giustizia della sua pena: questo è in tutti i dannati danteschi, cosa singolare, che fa parte della loro dignità di uomini.

Naturalmente, l’uomo normale somiglia di più a quello infernale, o per meglio dire a quello purgatoriale che a quello del Paradiso e per questo è come più attratto. Ma niente ci vieta di approfondire la nostra stessa vita interiore, le nostre conoscenze e camminare piano piano verso la fine e afferrare e gustare questa, che è una delle più grandi pagine dell’umanità proprio perché parla di quella famosa meta posta all’uomo, quella dove soltanto l’uomo si sazia e difatti, come poesia, come testo poetico, certo, il Paradiso dà una sazietà che altri testi non si sognano nemmeno. Una risposta un po’ così, ma credo d’altra parte che non si possa fare molto di più.

Ho dimenticato di dire una cosa: c’è un po’ di mancanza da parte dei cristiani, di sostenere questo Paradiso, di spiegare, di far capire, di parlarne. Tacciono, in genere; o non sanno, o non vogliono; ma qui ci vuole qualcosa. Qualcosa si sta tentando - vero Davide? - comunque c’è una mancanza nella cultura cristiana, del resto piuttosto debole dappertutto. Perché non mettersi a studiare,

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appassionarsi al Paradiso, cercare di capirlo e farlo capire? Scusate questa aggiunta.

Domanda: Chiedo se Beatrice incarna, in un certo senso, la meta del viaggio dantesco.

Anna Maria Chiavacci Leonardi: No, Beatrice di per sé non può incarnarlo, perché è una creatura. Beatrice è una via, è la controfigura di Maria, si potrebbe dire così. È la via che porta, chiama, attira con la sua bellezza, con la sua dolcezza – che sono caratteristiche della Madre di Dio – è la via che Dante segue. E questo appare chiarissimo alla fine del Paradiso quando Beatrice lo lascia, all’ultimo, alla rosa dei beati, va a sedere al suo posto e lui non la vede più vicino a sé. Quando è arrivato e lei, l’ultima guida lo lascia – Bernardo non è neppure una guida, introduce con la preghiera, ma ormai Dante è arrivato – lui allora le rivolge una preghiera: “O donna in cui la mia speranza vige, che soffristi per la mia salute in Inferno a lasciar le tue vestige …” , si ritrova quasi con le stesse parole che poi verranno usate da San Bernardo per la preghiera alla Vergine, in molte delle espressioni, in modo da far intendere che Beatrice ha anticipato la figura di Maria stessa, che è la vera motrice della stessa salvezza di Dante. Beatrice scende nel limbo, è lei che si muove e viene a chiamare Virgilio. Ma Beatrice è mandata a sua volta e lo dice: “Donna gentil nel ciel che si compiange di questo impedimento, io ti mando”; si compiange a pietà. Da qui parte tutto il poema. Beatrice si muove mandata da colei che ha pietà. Questa donna pietosa è quella che chiude, che farà l’ultimo atto, perché sarà lei che, pregata da Bernardo, indirizza Dante alla vista suprema di Dio. Per rispondere brevemente: Beatrice colei che lo trascina, che serve per chiamare, portare e avviare sulla strada; questa è la sua funzione principale.

Domanda: Sono americano e la stimo molto. Ho letto molte sue cose e la ringrazio per quello che lei ha detto oggi. Volevo chiedere se c’è una differenza fra i due fini dell’uomo, la monarchia l’impero i due soli e come invece Dante

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vede l’uomo e il suo destino nella Commedia. In America si parla tanto del fatto che la Chiesa ha un suo ruolo, cioè portare l’uomo in Paradiso dopo la morte; invece, l’impero, lo Stato, la politica, hanno un altro ruolo, quello di portare l’uomo in questo mondo, al paradiso terrestre. Volevo sapere che cosa ne pensa lei.

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Un argomento molto grosso su cui c’è stato molta discussione. Io modestamente penso che oltre la monarchia stia la Commedia. Non sono lo stesso discorso. Lì c’è questa distinzione fra i due poteri: esiste la distinzione fra i due tipi di legislazione, e per fortuna che c’è distinzione. Questa, fatta da Gregorio VII, per cui in Occidente c’è questa separazione ben chiara, che non c’è in quasi nessun altra religione, dove una cosa è sempre unita all’altra. Però quello che è sbagliato anche dal punto di vista cristiano, è che la giurisdizione ecclesiastica pensi solo a portare anime in Paradiso e non si preoccupino assolutamente di quello che fanno sulla terra. Questo è un errore dal punto di vista teologico: Dante, infatti, nel Paradiso ha oltrepassato quella distinzione.

Mentre alla fine della Monarchia c’è quel “quodammodo” che “in qualche modo l’uno è soggetto all’altro” - sembra quasi una piccola correzione che poi viene sviluppata più avanti nel suo pensiero - ma chiaramente dopo la cosa è cambiata. Segue quella che è la posizione di Tommaso e di tutta la tradizione teologica cristiana, fino ad oggi almeno, cioè che la Chiesa non ha poteri di un esercito e di un regno direttamente sulla società civile; ma il suo compito è quello di guidare gli uomini non solo a pensare al Paradiso, ma ad agire bene sulla terra, quindi in tutte le circostanze terrene in cui l’uomo si trova. Questo è un compito che le perviene, che Dio stesso ha affidato ai suoi; altrimenti avremmo questa chiesa “volante”, che non si occupa di quello che succede, ma sta solo a pregare nei chiostri, nei monasteri; che era il tentativo di fuga dal mondo fatto da tutti i movimenti monastici, che allora aveva le sue ragioni, ne avrebbe molte meno questa che piuttosto prende un carattere di chiamata personale di alcuni. Quindi la chiesa non deve fuggire nei monasteri, deve occuparsi del mondo, ma

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sempre con un occhio rivolto a Dio. Non so se sono stata abbastanza chiara, perché il problema è grosso, ma, insomma, qualcosa ho detto.

Domanda: Sono insegnante e lettore dilettante della Commedia. Se e quanto una fede personale aiuta un’intelligenza profonda della Commedia?

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Credo di sì, credo che sia sicuro che la fede è un aiuto. Per quanto uno possa spogliarsi dei propri convincimenti e mettersi davanti al testo con tutta verginità culturale, certamente parte svantaggiato, rispetto a chi parte già con quel tesoro di pensiero di idee sul mondo e sull’uomo che è proprio del cristiano. Certo, non sono molti quelli che oggi, oltre alla fede, possiedono quell’insieme di dottrina che regge la Commedia. Bisogna rendersi conto che c’è dietro un grande patrimonio teologico, da San Paolo, che Dante conosceva perfettamente, e si vede dalle continue citazioni, ad Agostino, Tommaso, Bonaventura… Sono tutti testi che lui ben conosceva, e che sostanziano tutto il poema, non solo il Paradiso, ma qualunque passo della vita umana. C’è questo grande corpus di pensiero sulla vita umana anche teologicamente svolto, che rende più facile la comprensione e la penetrazione del testo dantesco a chi già lo possiede. Questo non toglie che non si possa acquisire sul piano della cultura, ma non è la stessa cosa che viverlo, e forse per questo è più facile al commentatore che lo vive mettersi in sintonia con il verso di Dante. Singleton disse che bisognava rifarsi, reimmergersi in questa cultura, rifare questo animo cristiano. Di fatto lui è uno di quelli che più è riuscito a commentare e ad avvicinare la comprensione di questo mondo, ma quasi nessuno lo fa.

Domanda: La ringrazio molto perché mi commuove sempre quando la ascolto. Quello che lei ha descritto attraverso Dante è la dimensione, che per me sento molto vera, di essere pellegrina. È una dimensione che uno sente più sua; eppure, parlo per me, quando a uno capita di perdere le persone, il primo sentimento che vive dentro di sé è quello della perdita, non quello del pellegrino

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arrivato alla meta. Non so se è una domanda opportuna, però Dante - così come lei lo ha colto - come vive ed esprime questo sentimento della perdita?

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Ci sono pochissimi casi in cui quando qualcuno muore lo vedono veramente arrivato e ne godono, ma sono eccezioni. Questo non toglie che il sentimento umano non si possa togliere dal cuore, come Gesù stesso pianse quando morì Lazzaro. È un dolore che appartiene alla natura dell’uomo che non si può togliere. Questo cristiano va oltre la nostra natura, certamente. In molte persone di grande fede spesso affiora e riesce a vincere l’altro, ma che non si possa eliminare questo sentimento è una cosa evidente, fa parte di quella natura che non viene mai abolita; viene oltrepassata ma non abolita. Uno che non piangesse o non si rattristasse per la morte di un proprio caro sarebbe un po’ strano, ma ciò non toglie che l’altro sentimento possa convivere con il primo. Cioè la fede che vede la persona partita, arrivata nel luogo della gioia, della pace, della felicità, spesso accompagna il sentimento di perdita: i due aspetti della natura umana e della grazia divina che accompagnano e confortano il fedele. Alcuni riescono a sopportare con tanta serenità e calma dei dolori che per altri sono insopportabili; quella fede serve a lenire il dolore della natura. Credo che sarà capitato a tutti voi di conoscere questo doppio sentimento che addolcisce per quanto sia crudele per l’altro.

Domanda: Una domanda sulla figura di Maria. Perché la figura di Maria è molto cara al Dante pellegrino? Nella cantica del pellegrino, cioè nel Purgatorio, a ogni cornice c’è un esempio della Madonna; è come se Dante ad ogni passo guardasse la Madonna, e volevo capire perché è così importante.

Anna Maria Chiavacci Leonardi: È una bella domanda, perché la risposta illumina ampiamente una zona della poesia dantesca non molto celebrata. Questo rapporto con Maria è altissimo, perché in tutta la Commedia – ho scritto un articoletto su questa cosa – Maria è una presenza molto discreta, non è così invadente. Nell’Inferno c’è quella prima terzina, ma è tanto discreta quanto

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potente, come si vede c’è un rapporto molto delicato, lei apre e chiude il poema, è lei che dà il movimento di salvezza: “Donna e gentil nel ciel che si compiange sicché duro giudicio lassù frange”, cioè con la sua pietà è capace di rompere il giudizio divino, cosa da non sottovalutare. Poi alla fine è lei che va a chiudere la storia dopo che San Bernardo la prega con un solo sguardo assente – perché non parla mai – dà con il suo sguardo dolce “li occhi da Dio diletti e venerati” – diletti come di sposa e venerati come di figlio, è stato giustamente commentato – “fissi ne l'orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati, indi l’eterno lume s'addrizzaro”. C’è questo movimento dello sguardo prima verso Bernardo, come ad accogliere la preghiera, poi si rialza verso Dio e crea questo passaggio, lei stessa quasi la strada aperta con lo sguardo; lei quindi apre e chiude. Nell’interno della Commedia c'è solo la grande sequenza purgatoriale che lei ricordava, per cui ad ogni balza il primo esempio della beatitudine che viene celebrata è preso da Maria. Questo indica, ancora una volta, la grande importanza di questa figura nella storia cristiana, nella storia del cristiano. Le beatitudini sono tutte vissute in maniera suprema nella figura di Maria, che per questo è la guida del Purgatorio. A lei bisogna guardare come dice San Bernardo. Non per niente Dante sceglie Bernardo per il finale, non tanto per i suoi scritti, ma per la sua grande devozione a Maria. Del resto Bernardo si presenta così: “Io sono la regina del cielo, ond’io ardo tutta d’amor ne farà ogni grazia. Però ch’io sono il suo fedel Bernardo”. Lui si definisce così, non come mistico, come politico, fondatore di grandi ordini, lui è il fedele Bernardo. Per questo la figura di Maria, pur così discretamente introdotta, è così potente nel poema. Questo lo è chiaramente nell’animo di Dante.

Domanda: Sono stata molto colpita dall’accenno sulla speranza e poi dalla sua osservazione: come anche la chiesa trascuri il bagaglio positivo del Paradiso. Volevo chiederle se l’approfondimento della speranza non può essere la strada per ritrovare tutto l’impegno responsabile di Dante nella vita e nel mondo e quindi per noi. L’accenno alla speranza che lei ha fatto, può essere una strada per rivivere tutto il messaggio di Dante nel Paradiso?

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Anna Maria Chiavacci Leonardi: Non saprei rispondere. Secondo me può essere la speranza, come anche qualunque altro punto. La speranza è una strada maestra, ma ce ne sono altre. Non saprei proprio risponderle, mi dispiace.

Domanda: Ritorno per il secondo anno a sentire parole molto commuoventi ed emozionanti sulla Commedia. Devo dire che se sono qui oggi è per amor di Dante, che mi vince! Nella mia lettura scolastica e ora universitaria della Commedia mi ha sempre profondamente colpito la forte consapevolezza di Dante, del suo ruolo e della sua missione di poeta, come lei stessa citava nell’ultima cantica “fa’ la lingua mia tanto possente sì ch’io possa tramandare alla futura gente” tutto ciò che io ho di fronte a me. Ancora è consapevolezza che già si evince nel colloquio che già nell’Inferno Dante ha con Brunetto Latini, quando gli dice: “Tu sei colui che m’insegnasti in terra com’uom s’etterna” e in questo vediamo la fiducia e la fede in Dante, nella possibilità che la scrittura possa lasciare la memoria ed eternare l’uomo. D’altra parte, però, c’è un Dante più umile, quando vediamo nel Purgatorio, nella cornice dei superbi che dice che la fama non è altro che un “mondan romor, fiato di vento che or vien quinci, or vien quindi, muta nome come muta lato”. Questi due atteggiamenti come si possono conciliare? Da una parte orgoglio nella propria missione di poeta; dall’altra consapevolezza del limite umano.

Anna Maria Chiavacci Leonardi: Non c’è contraddizione fra le due cose. Lei dice che lui ha consapevolezza altissima di questo compito, ed infatti lui si sente profeta, lo dice più volte. Era convinto, e difatti lo è, perché se c’è una voce che gira tutto il mondo portando la fede cristiana, è la Divina Commedia. Del resto lo dice papa Benedetto XV nella sua grande enciclica: il più grande araldo della fede cristiana nel mondo è Dante, che viene letto e tradotto dappertutto. Sapeva, si sentiva profeta, lo dice più volte; poi se fosse o non fosse, di questo si può discutere all’infinito, ma di fatto c’è una realtà dietro al suo pensiero. Ora, l’altro aspetto della superbia – superbia dell’intellettuale che sa che dovrà pagare e

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restare un bel pezzo in quella cornice – non è in contraddizione con questo primo punto; uno può essere superbo o umile nel compito che gli è affidato o di cui è cosciente; ma sono due cose diverse, non sono sullo stesso piano. Lui ha questa coscienza, che può essere vissuta umilmente; nello stesso tempo lui ha coscienza di essere un grande scrittore – cosa fra l’altro vera – ma che giunga alla superbia, è fatto questo del tutto personale, ma che non viene in contraddizione con l’altro. Può dominare o abbandonarsi a questo sentimento pericoloso, che, evidentemente ha già superato, perché se scrive la Divina Commedia…Non vedrei contraddizione così esplicita.

Moderatore: Due note per concludere questa ricchissima occasione che la professoressa ci ha regalato. Questa lettura della Commedia come viaggio, come qualcosa che si muove per il desìo, quindi questa lettura che Dante ci fa e ci fa fare della nostra vita. Il desìo, il desiderio non è una cosa automatica, non è come la corda dello ski-lift o della seggiovia comoda per salire. Non è una cosa che automaticamente conduce. C’è anche una saggezza popolare falsa, “siam qui provvisori” si direbbe in Lombardia, e allora si desidera andare da un’altra parte. Questo desiderio non è una cosa che insorge e può guidare l’uomo in modo automatico, tanto è vero – come è stato detto, meglio e più chiaramente – che Dante conduce questo viaggio continuamente andando con la memoria a ciò che rimette in moto questo desiderio, che lo fa concentrare sul desiderio di felicità, del suo principio. Il suo è un viaggio pericoloso, non è un viaggio automatico, non procede in maniera necessaria, ha continuamente bisogno di qualcuno – Virgilio, certe presenze, persone che gli parlano – che lo richiami a quello che veramente può muovere il viaggio, al desiderio di una felicità compiuta. Come ricordate, egli si ferma di fronte ad una barriera di fuoco, ma gli dicono: “guarda che là c’è il sorriso di Beatrice, e allora va, rischia, perché il desiderio non è automatico, non muove automaticamente”. Per questo, come è stato giustamente notato, Beatrice è il miracolo, cioè è la Madonna, il punto in cui l’incarnazione avviene: “sei, come donna, venuta dal cielo in terra a mostrare un miracolo. Sei un miracolo”. E guardando questo miracolo, facendone memoria che il desiderio

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si ridesta. Non si ridesta automaticamente solo perché siamo provvisori, solo perché sappiamo che qui non c’è qualcosa che ci compie, non basta questo. Occorre un miracolo che continuamente ridesti il desiderio come regola di un cammino. Petrarca, grande invidioso di Dante, nella sua preghiera dice: “la vera Beatrice è la Madonna”, polemizzando dice la verità. Per questo la memoria del miracolo è quello che muove il camminino e lo rende certo, e rende il desiderio non appena qualche cosa di confuso. Il desiderio che ti costituisce non è un feeling che c’è o non c’è, ma è la regola del cammino, e questo carburante del cammino è richiamato dalla memoria del miracolo. Questo è ciò che continuamente ci fa vedere Dante con la sua grande poesia, avendo rischiato in proprio questa questione e avendocela raccontata per nostra fortuna. Grazie e al prossimo appuntamento.

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L’ARDORE DELLA CONOSCENZA

Una lettura dantesca

Proponiamo una lettura del Ventiseiesimo canto dell’Inferno di Dante: il canto in cui, all’interno della Commedia, il poeta incontra l’eroe greco Ulisse.

Ripercorreremo insieme il testo e cercheremo di capirlo, aiutandoci con l’interpretazione che di questa vicenda ha dato la professoressa Anna Maria Chiavacci Leonardi1 in un suo saggio2.

Perché Ulisse e perché la professoressa Chiavacci Leonardi?Innanzitutto ci sembra utile riprendere l’Ulisse dantesco, consumatosi di

amore per la conoscenza, in un ambito come l’università, di fronte a persone impegnate in un cammino di studio appassionato dell’uomo e delle sue forme di espressione culturale. Questo assume ancora più rilievo di fronte alla scoperta che molti di noi hanno fatto nella nuova riforma universitaria. Infatti le grosse mutilazioni che i programmi hanno subito nel sistema dei crediti non hanno risparmiato il poema dantesco; è nato così il desiderio di studiare ed approfondire in maniera personale i contenuti che l’università ci offre. Un lavoro di questo tipo, soprattutto in una facoltà come Lettere e Filosofia, può rendere ancora più fruttuoso il percorso accademico.

Inoltre siamo stati colpiti dalla profondità con cui la professoressa Chiavacci Leonardi legge e interpreta la Commedia; abbiamo quindi desiderato conoscerla personalmente, per poter discutere con lei di alcuni spunti che oggi vi riproporremo.

L’incontro con questa personalità è avvenuto proprio nel periodo in cui alcuni di noi stavano studiando la Commedia per sostenere l’esame di letteratura italiana. In questa circostanza ci siamo accorti che numerosi docenti del nostro ateneo appartengono, continuando a farla vivere, ad una grande tradizione di studi danteschi. I molti spunti e i suggerimenti metodologici che abbiamo colto nelle lezioni universitarie hanno fornito gli strumenti indispensabili per

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cimentarsi in una lectura.L’ardore della conoscenza dunque, ma anche la figura di un maestro da cui

poter imparare: ecco i motivi per cui la presentazione di questo canto, alla luce di una proposta critica, ben ci sostiene nel nostro cammino universitario.

Abbiamo voluto concludere il viaggio nella Commedia con una lettura del trentatreesimo canto del Paradiso, che corona il poema e che a noi sembra concludere bene anche il nostro discorso attorno al viaggio di Ulisse. All’esposizione dell’interpretazione della professoressa, seguirà quindi questo nostro tentativo.

Non resta che far parlare Dante.

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I - L’Ulisse dantesco

Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande, che per mare e per terra batti l’ali,e per lo ‘nferno tuo nome si spande!

Tra li ladron trovai cinque cotali tuoi cittadini onde mi ven vergogna, e tu in grande orranza non ne sali.

Ma se presso al mattin del ver si sogna, tu sentirai di qua da picciol tempodi quel che Prato, non ch’altri, t’agogna.

E se già fosse, non saria per tempo. Così foss’ei, da che pur esser dee!ché più mi graverà, com’più m’attempo.

(If. XXVI, 1-12)

Le prime quattro terzine del canto sono dedicate a Firenze, la terra tanto amata da Dante. Proprio il forte attaccamento del poeta alla sua patria natia spiega il duro richiamo espresso attraverso una tagliente ironia: Firenze ha giusti motivi per vantarsi perché il suo nome è molto famoso nell’Inferno. Dante, infatti, ha appena incontrato cinque fiorentini tra i ladri del canto precedente e questo ha suscitato la sua indignazione che sfocia in questa apostrofe dai toni profetici. Non passerà molto tempo, anche se agli occhi di Dante è fin troppo, che Firenze sperimenterà quei mali che le città avversarie le augurano.

Dopo l’invettiva riprende la narrazione: i due poeti si stanno arrampicando sulle rocce, che prima avevano disceso per meglio vedere i dannati della settima bolgia, proseguendo il loro cammino verso l’ottava.

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Noi ci partimmo, e su per le scalee che n’avea fatto i borni a scender pria, rimontò ‘l duca mio e trasse mee;

e proseguendo la solinga via,tra le schegge e tra ‘ rocchi de lo scoglio lo piè sanza la man non si spedia.

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioquando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;sì che, se stella bona o miglior cosa m’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

(If, XXVI, 13-24)

Dante sospende la narrazione per dichiarare di aver provato dolore di fronte alla visione dei nuovi dannati e di provarne di nuovo ricordando ciò che vide. Insieme a questo ci dice anche di tener a freno l’ingegno, perché questo, che pure è un bene, non proceda da solo, senza la guida della virtù finendo col perdersi. Questa ammonizione, per noi ancora misteriosa precede la descrizione dell’ottava bolgia.

Quante ‘l villan ch’al poggio si riposa, nel tempo che colui che ‘l mondo schiara la faccia sua a noi tien meno ascosa,

come la mosca cede alla zanzara,

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vede lucciole giù per la vallea, forse colà dov’e’ vendemmia e ara:

di tante fiamme tutta risplendea l’ottava bolgia, sì com’io m’accorsi tosto che fui là ‘ve ‘l fondo parea.

E qual colui che si vengiò con li orsi vide ‘l carro d’Elia al dipartire, quando i cavalli al cielo erti levorsi,

che nol potea sì con li occhi seguire, ch’el vedesse altro che la fiamma sola, sì come nuvoletta, in sù salire:

tal si move ciascuna per la goladel fosso, ché nessuna mostra ‘l furto, e ogne fiamma un peccatore invola.

Io stava sovra ‘l ponte a veder surto,sì che s’io non avessi un ronchion preso,caduto sarei giù sanz’esser urto.

(If, XXVI, 25-45)

Dante si trova sul ponte, attaccato ad una roccia per non cadere, e si sporge guardando in basso. Quello che vede è descritto dalle due similitudini. Quante sono le lucciole che il contadino, che si riposa sul poggio all’ora del tramonto, vede giù nella valle in cui lavora, così numerose sono le fiammelle che illuminano l’ottava bolgia; come Eliseo vide il carro di fuoco, al suo decollo dal suolo, che rapì al cielo il profeta Elia, così infuocato e veloce che egli non poteva veder altro

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che la fiamma che saliva in sú, come una piccola nuvola, così si muove ogni fiamma nascondendo al suo interno un peccatore.

Le due immagini insieme danno una potente e singolare apertura al racconto di Ulisse. La prima, presa dal mondo agreste, è pacata, di tono meditativo e di stile alto; la seconda, ardente e violenta, rievocando un episodio biblico eleva improvvisamente il tono del canto. Dante si trova davanti questo spettacolo inatteso che contempla con attenzione.

E ‘l duca che mi vide tanto atteso, disse: «Dentro dai fuochi son li spirti; catun si fascia di quel ch’elli è inceso».

«Maestro mio», rispuos’io, «per udirti son io più certo; ma già m’era avviso che così fosse, e già voleva dirti:

chi è ‘n quel foco che vien sì diviso di sopra, che par surger de la pira dov’Eteòcle col fratel fu miso?».

(If, XXVI, 46-54)

Dante è colpito da una fiamma particolare che arde divisa in due corni come il fuoco prodotto dalla pira che bruciò i corpi di Eteocle e Polinice, i due fratelli figli di Edipo che si diedero la morte a vicenda e anche sul rogo furono divisi dall’odio vissuto in vita. Chi racchiude quella fiamma bipartita?

Rispuose a me: «Là dentro si martira Ulisse e Diomede, e così insiemea la vendetta vanno come a l’ira;

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e dentro da la lor fiamma si geme l’agguato del caval che fé la porta onde uscì de’ Romani il gentil seme.

Piangevisi entro l’arte per che, morta, Deidamìa ancor si duol d’Achille,e del Palladio pena vi si porta».

(If, XXVI, 55-63)

Sono Ulisse e Diomede, due campioni dell’esercito acheo che espugnò la città di Troia cantati da Omero nell’Iliade e nell’Odissea. Sono puniti qui, fra i consiglieri fraudolenti per l’inganno del cavallo di Troia, lo stratagemma per il quale Deidamia si duole ancora, da morta, dell’abbandono di Achille – Teti, infatti, per sottrarre il figlio Achille alla guerra di Troia in cui avrebbe trovato la morte, lo aveva nascosto, in abiti femminili, tra le fanciulle della reggia di Sciro; ma Ulisse con l’astuzia riuscì a scoprire l’inganno e a portare Achille a Troia provocando il dolore di Deidamia, figlia del re di Sciro e innamorata di Achille, che non lo avrebbe più rivisto vivo – e il furto della statua di Pallade Atena, che proteggeva Troia ed era custodita nella rocca della città, operato dai due con l’inganno e la violenza.

«S’ei posson dentro da quelle faville parlar», diss’io, «maestro, assai ten priego e ripriego, che ‘l priego vaglia mille,

che non mi facci de l’attender niego fin che la fiamma cornuta qua vegna; vedi che del disio ver’ lei mi piego!».

(If, XXVI, 64-69)

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Subito Dante chiede con insistenza di poter parlare loro.

Ed elli a me: «La tua preghiera è degna di molta loda, e io però l’accetto;ma fa che la tua lingua si sostegna.

Lascia parlare a me, ch’i’ ho concetto ciò che tu vuoi; ch’ei sarebbero schivi, perch’e’ fuor greci, forse del tuo detto».

Poi che la fiamma fu venuta quivi dove parve al mio duca tempo e loco, in questa forma lui parlare audivi:

«O voi che siete due dentro ad un foco, s’io meritai di voi mentre ch’io vissi, s’io meritai di voi assai o poco

quando nel mondo li alti versi scrissi, non vi movete; ma l’un di voi dica dove, per lui, perduto a morir gissi».

(If, XXVI, 70-84)

Virgilio accetta la richiesta di Dante e chiede lui stesso che uno dei due dica dove per lui, perduto a morir gissi, come è morto e come è finito all’Inferno (entrambi i significati sono contenuti nella parola perduto). Qui inizia il racconto dell’Ulisse dantesco.

Lo maggior corno de la fiamma antica

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cominciò a crollarsi mormorandopur come quella cui vento affatica;

indi la cima qua e là menando, come fosse la lingua che parlasse, gittò voce di fuori, e disse: «Quando

(If, XXVI, 85-90)

Il corno più grande della fiamma inizia ad ondeggiare come mosso dal vento. Con fatica, lentamente inizia a produrre dei suoni, prima dei mormorii e poi finalmente una voce distinta.

gittò voce di fuori e disse: «Quando

Su questo attacco potente sta sospeso il primo periodo del discorso di Ulisse.Per trovare la frase principale dobbiamo scorrere due terzine. La voce stenta

ad arrivare e l’inizio è faticoso, la prima parola rimane quasi sospesa alla fine del verso, ma subito dopo, andando a capo, il viaggio è iniziato e il ritmo si fa incalzante, quasi frenetico. Ulisse parlerà solo, senza interruzioni, per il resto del canto, narrando il suo ultimo viaggio, la corsa precipitosa verso l’abisso.

mi diparti’ da Circe, che sottrasse me più d’un anno là presso a Gaeta, prima che sì Enea la nomasse,

(If, XXVI, 91-93)

Il viaggio inizia con la partenza dall’isola di Circe e Dante immagina che Ulisse non sia più ritornato a casa.

Enea ritorna per la seconda volta in questo canto, dopo l’accenno al gentil

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seme dei Romani, e non sono accenni casuali. Il viaggio di Enea, modello fondamentale per il viaggio di Dante, si compie in contemporanea a quello di Ulisse, le due navi partite da Troia corrono sullo stesso mare mancando per poco l’incontro, ma non si può immaginare per essi destini più diversi: uno fonderà l’Impero Romano, compiendo così il misterioso disegno divino nella storia; l’altro sarà inghiottito dal mare e perduto per sempre all’Inferno.

né dolcezza di figlio, né la pietadel vecchio padre, né ‘l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta,

vincer potero dentro a me l’ardore ch’i’ ebbi a divenir del mondo esperto, e de li vizi umani e del valore;

(If, XXVI, 94-99)

Nessuno dei vincoli più sacri, la dolcezza del figlio, la pietà verso il padre e l’amore dovuto alla moglie fedele, lo ha potuto trattenere, – eppure erano più di dieci anni che mancava da casa – ma tutto ha vinto l’ardore, parola chiave dell’intero episodio, ardore della conoscenza del mondo e dell’uomo, dei suoi vizi e delle sue virtù.

ma misi me per l’alto mare apertosol con un legno e con quella compagna picciola da la qual non fui diserto.

(If, XXVI, 100-102)

Ma misi ma per l’alto mare aperto. In questo verso risuona la potenza della decisione di Ulisse, sottolineata dall’allitterazione e dalla concentrazione di vocali

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di timbro aperto che sembrano dilatare lo spazio all’infinito. Riprendendo un’immagine di Roberto Benigni Ulisse, come un gigante afferra se stesso e si pone nel bel mezzo del mare. Contrasta con tutta questa energia la povertà estrema dei mezzi a disposizione di Ulisse: egli è solo, con una barchetta e quei pochi compagni che non lo abbandoneranno fino alla fine e che sono un tutt’uno con lui.

L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna, fin nel Morrocco, e l’isola d’i Sardi,e l’altre che quel mare intorno bagna.

Io e ‘ compagni eravam vecchi e tardi quando venimmo a quella foce stretta dov’Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l’uom più oltre non si metta: da la man destra mi lasciai Sibilia,da l’altra già m’avea lasciata Setta.

(If, XXVI, 103-111)

La navigazione lo ha portato ai limiti estremi del Mediterraneo, del mondo dell’uomo, e si trova ormai vecchio e con i riflessi appannati in prossimità dello stretto di Gibilterra. A destra la costa spagnola, a sinistra il Marocco e di fronte l’ignoto e il limite posto dagli dei acciò che l’uom più oltre non si metta. È giunto il momento della decisione estrema: questo è il punto di non ritorno. D’ora in avanti, per proseguire, occorrerà abbandonare il cabotaggio, la sicura navigazione lungo la costa, per avventurarsi nell’oceano.

“O frati”, dissi “che per cento milia perigli siete giunti a l’occidente,

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a questa tanto picciola vigilia

d’i nostri sensi ch’è del rimanente, non vogliate negar l’esperienza,di retro al sol, del mondo sanza gente.

Considerate la vostra semenza: fatti non foste a viver come bruti,ma per seguir virtute e canoscenza”.

(If, XXVI, 112-120)

Tre terzine costituiscono la celebre orazion picciola con cui Ulisse convince sé stesso e i compagni a varcare le colonne d’Ercole. E lo fa appellandosi a quanto di più alto c’è nell’uomo: il desiderio di conoscenza.

Li miei compagni fec’io sì aguti,con questa orazion picciola, al cammino, che a pena poscia li avrei ritenuti;

e volta nostra poppa nel mattino,de’ remi facemmo ali al folle volo, sempre acquistando dal lato mancino.

(If, XXVI, 121-126)

L’ultimo viaggio ha inizio. Da questo momento non potranno più tornare indietro ma correranno incontro alla fine.

Tutte le stelle già de l’altro polo vedea la notte e ‘l nostro tanto basso,

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che non surgea fuor del marin suolo.

Cinque volte racceso e tante cassolo lume era di sotto da la luna,poi che ‘ntrati eravam ne l’alto passo,

quando n’apparve una montagna, bruna per la distanza, e parvemi alta tanto quanto veduta non avea alcuna.

(If, XXVI, 127-135)

È la montagna del Purgatorio, a cui Dante giungerà guidato da Virgilio, simbolo della felicità naturale dell’uomo; è la vera meta del viaggio di Ulisse che finalmente, dopo cinque mesi, appare ai naviganti alta e minacciosa in lontananza. Ma la gioia per la meta intravista subito si volge in pianto, perché un vento vorticoso investe l’imbarcazione facendola girare per tre volte su se stessa e infine affondare. Con l’ultimo verso, quasi una lapide, terminano, senza alcun commento, il viaggio e il racconto di Ulisse:

Noi ci allegrammo, e tosto tornò in pianto, ché de la nova terra un turbo nacque,e percosse del legno il primo canto.

Tre volte il fé girar con tutte l’acque;a la quarta levar la poppa in susoe la prora ire in giù, com’altrui piacque,

infin che ‘l mar fu sovra noi richiuso».

(If, XXVI, 136-142)

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II - L’ardore della conoscenza

“Una piramide piantata in mezzo al fango”, con questa definizione il grande Francesco de Sanctis immortalava la figura dell’Ulisse della Commedia. Una “piramide”, cioè un monumento all’uomo che tutti ricorderanno e guarderanno con stupore e ammirazione, ma immersa nel “fango”, che rappresenta la miseria dell’Inferno, luogo dove l’uomo è abbruttito fino a somigliare ad una bestia ed è dannato per l’eternità. Grandezza e miseria: Ulisse racchiude il fascino immortale della sua figura, conserva- tosi fino ad oggi, accanto alla sua tragica fine – si trova infatti in uno dei punti più bassi dell’Inferno vicino a ladri e traditori.

Così commenta la professoressa Chiavacci Leonardi in un suo saggio sull’Inferno dantesco3, che seguiremo nel nostro percorso:

Sempre resta al fondo l’eterno problema della duplice risonanza del testo, che propone quell’umano valore di grandezza – forse il più grande dell’Inferno – ed il suo tragico dissolversi nel nulla4.

Come spiegare entrambi gli elementi? La critica si divide. È possibile, allora, vedere un Ulisse freddo calcolatore e fraudolento, chiudendo gli occhi davanti al senso di grandezza che pure emerge dal testo, o, al contrario, eroe magnanimo e senza colpa alcuna che perde la vita pur di rimanere fedele alla sua dignità umana, dimenticando- ne l’eterna dannazione5.

Ma allora, come può un dannato essere grande?La professoressa Chiavacci Leonardi spiega nel suo saggio questo apparente

ossi- moro superando di un balzo la foresta di contraddizioni in cui la critica si dibatteva da tempo senza trovar via d’uscita. Per far questo ripercorre l’intero passo osservando che:

...è una passione (l’ardore) quella che muove Ulisse, ed è una delle più forti. Una passione che trascina e travolge, per cui si lasciano anche gli affetti più cari [...] Quale essa sia è detto apertamente: la passione di conoscere il mondo, e l’uomo6.

Ed Ulisse parte con mezzi piccoli, inadeguati, come abbiamo già visto. La

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piccola imbarcazione, i pochi compagni: queste figure in fondo vogliono dire che egli è solo. E’ lui solo, che va e tenta l’impossibile.

Ma si giunge alla frontiera del mondo conoscibile – è il Mediterraneo, sono le colonne d’Ercole – e qui c’è un divieto, che Ulisse non ignora, come invece sostengono alcuni critici per “scagionare” l’eroe7, ma dichiara e sottolinea. Sbaglia chi dice che Ulisse non ha colpa alcuna nell’oltrepassare Gibilterra, egli infatti sapeva che all’uomo era vietata quella parte di mondo.

dov’Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l’uom più oltre non si metta

(If, XXVI, 108-109)

E Ulisse oltrepassa questo limite, appellandosi a ciò che di più grande è l’uomo e proprio da questo appello noi siamo affascinati:

Considerate la vostra semenza:fatti non foste a viver come bruti, ma per seguir virtute e conoscenza

(If, XXVI, 118-120)

Il grande appello alla più alta essenza dell’uomo, che lo distingue dal bruto, è in- fatti ciò su cui Ulisse fonda il suo prevaricare e trapassare il segno.

E’ questa la sua follia ed il profondo inganno della ragione umana. L’uomo inganna se stesso quando presume, con la potenza della mente, di conquistare e quindi di dominare, non solo il mondo dell’uomo, ma quello di Dio8.

Questa esigenza di conoscenza è legittima, è quanto di più alto ha l’uomo. Dante ben lo sa, su questo costruisce il suo poema e da questo desiderio è mosso per tutta la sua vita, ma non è così che si trova la risposta.

La strada è legittima ma i mezzi, gli argomenti umani, non sono adeguati: quei remi che si alzano come ali, ma che delle ali non hanno che la parvenza, sono fallaci.

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A questo punto per procedere oltre ci è utile rileggere due terzine che fungono da introduzione all’episodio:

Allor mi dolsi, e ora mi ridoglioquando drizzo la mente a ciò ch’io vidi, e più lo ‘ngegno affreno ch’i’ non soglio,

perché non corra che virtù nol guidi;sì che, se stella bona o miglior cosam’ha dato ‘l ben, ch’io stessi nol m’invidi.

(If, XXVI, 19-24)

Questo è l’unico punto nell’Inferno in cui Dante medita a voce alta l’insegnamento che il suo viaggio gli ha offerto e, facendo questo, lega indissolubilmente a sé la figura di Ulisse. Dante ci dice infatti, in maniera esplicita, che lui stesso è stato molto vicino al peccato che ha dannato l’eroe greco. Allora provai dolore – dice Dante – ed ora provo di nuovo dolore ricordando quanto vidi, e tengo a freno il mio ingegno – che è la ragione, l’intelletto, la parte più nobile dell’uomo – più di quanto sono solito fare, perché non si abbandoni a correre a suo arbitrio senza che la virtù gli sia di guida. – Anche l’intelletto, dunque, deve essere guidato9. Così che se l’influsso benevolo delle stelle o cosa anche più alta, cioè la grazia divina, mi ha dato questo bene10 – la naturale altezza d’ingegno, che Dante era ben consapevole di avere – che io stesso non debba privarmene, non usandolo per il suo fine.

La mancanza del freno in un’inclinazione di per sé buona, il “ben”, è chiaramente indicata come il rischio che qui si corre, che Dante ha corso. Ed il freno è ciò che domina le passioni.

Ulisse non è dannato per il semplice desiderio di conoscenza: se non ci fosse dell’altro lo troveremmo nel limbo insieme a Virgilio e agli spiriti magni che non peccarono ma ebbero come unica colpa quella di non essere stati cristiani. Nella

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vicenda di Ulisse c’è di più; l’umano desiderio di sapere è qui diventato passione rovinosa e inarrestabile che acceca chi lo possiede. Ulisse non vede più le persone care, non vede i limiti posti dagli dei, non vede l’estrema povertà dei mezzi a sua disposizione e tenta con tutte le sue forze, che si riveleranno alla fine insufficienti, di compiere un desiderio legittimo.

Il suo ardore è in qualche modo paragonabile all’amore di Francesca e alla passione politica di Farinata, con l’unica differenza che più grave è la sua colpa, e più grande è Ulisse, perché consiste nell’abuso di quella parte dell’uomo, la mente, che è il punto più alto del suo essere.

Così la professoressa Chiavacci Leonardi spiega la sua colpa:Ulisse sfida Dio; la sua è una passione sulla quale si gioca la vita stessa, di

dominare ciò che Dio ha sottratto all’uomo, perché l’uomo lo abbia non con la forza, ma con l’amore, non per diritto ma per dono, altrimenti ne resterebbe travolto come accade a Ulisse.[...]

Questo è il punto. Questo valore [l’ingegno che fa desiderare all’uomo di conoscere], che fu già espresso da tutto il mondo classico (e che Ulisse impersona) è positivo, anzi il massimo dei valori umani. Ma se preso come termine assoluto e non riferito a Dio, esclude da Dio stesso.

L’uomo è posto, come sempre, di fronte ad una scelta: se stesso, le proprie risorse, la propria grandezza (ed è ciò che resta anche ad Ulisse, nel verso di Dante); o rinunciarvi, rinunciare a ciò, a quell’alto ingegno come mezzo diretto e accettare un’altra strada: quel dono gratuito che nel secondo dell’Inferno fonda una volta per tutte la storia della Commedia11.

La storia di Dante, infatti, illumina quella di Ulisse permettendoci di comprenderne i limiti che hanno portato al finale tragico. Ulisse è in un certo senso Dante, la sua controfigura – abbiamo già visto come egli comprenda la passione di Ulisse dicendoci di aver corso il suo stesso pericolo.

La figura che Dante ha scelto, e modellato a sua misura, è Ulisse, che mai pago delle terre toccate e conosciute, cerca sempre nuovi approdi, ulteriori realtà. [...]

Per questo sulla storia di Ulisse – e sulle parole e immagini che la narrano –

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Dante ha in realtà incardinato il poema, come indicano esplicitamente gli inizi delle tre cantiche12.

Questo è forse il passaggio più interessante del saggio perché l’orizzonte si allarga e la professoressa ci guida all’interno della Commedia per ritrovare la presenza di Ulisse, incominciando dal II canto dell’Inferno. In questo canto, che fa da proemio all’intera opera, Dante interroga Virgilio sul viaggio che lo attende; potrà lui sostenere un simile viaggio compiuto in passato solo da personaggi eccezionali come Enea e San Paolo, lo Vas d’elezione e il fondatore di Roma? È forse alla loro altezza?

Io cominciai «Poeta che mi guidi guarda la mia virtù s’ell’è possente prima ch’a l’alto passo tu mi fidi.

Tu dici che di Silvio il parente, corruttibile ancora, ad immortale secolo andò, e fu sensibilmente.

Però, se l’avversario d’ogne male cortese i fu, pensando l’alto effetto ch’uscir dovea di lui, e ‘l chi e ‘l quale,

non pare indegno ad omo d’intelletto; che fu de l’alma Roma e di suo impero ne l’empireo ciel per padre eletto:

la quale e ‘l quale, a voler dir lo vero, fu stabilita per lo loco santou’ siede il successor del maggior Piero.

Per quest’andata onde li dai tu vanto,

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intese cose che furon cagionedi sua vittoria e del papale ammanto.

Andovvi poi lo Vas d’elezione,per recarne conforto a quella fede ch’è principio alla via di salvazione.

Ma io, perché venirvi? o chi’l concede? Io non Enea, io non Paulo sono;me degno a ciò né io né altri ‘l crede.

Per che, se del venire io m’abbandono, temo che la venuta non sia folle.Se’ savio; intendi me’ ch’io non ragiono».

(If, II, 10-36)

Il viaggio che Dante sta per incominciare è chiaramente lo stesso viaggio che poi ci narrerà Ulisse: entrambi sono diretti alla montagna del Purgatorio, simbolo dell’umana felicità cui l’ardore della conoscenza tende, tant’è che entrambi vengono chiamati alto passo. I due compiono lo stesso cammino, che appare folle se compiuto affidandosi solo all’umana virtù. Così sarà il volo della barca di Ulisse, e così appare a Dante il suo cammino (me degno a ciò né io né altri’l crede). L’uomo non può con le sole sue forze sperare di giungere alla salvezza. Così, all’ansioso timore di Dante centrato tutto sulla propria indegnità, Virgilio non risponde che egli sia in qualche modo degno, ma che qualcuno si è mosso per puro amore a renderlo tale. E’ la Madonna che manda Beatrice e Beatrice che chiede aiuto a Virgilio.

Dante non avanza alcun titolo a quella salvezza che scende fino a lui. Il valore del gratuito, che è proprio del divino, appare quindi primario nell’invenzione stessa della Commedia.

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Dante solamente domanda aiuto: Miserere di me, dice a Virgilio, prima ancora di sapere chi sia l’ombra che gli viene incontro ai piedi del colle. L’unica differenza tra Dante e Ulisse è questa domanda a cui gratuitamente Virgilio e Beatrice rispondono.

Venimmo poi in sul lito diserto,che mai non vide navigar sue acque omo, che di tornar sia poscia esperto.

Quivi mi cinse si com’altrui piacque: oh maraviglia! chè qual elli scelse l’umile pianta, cotal si rinacquesubitamente là onde l’avelse.

(Pg I, 130-136)

Anche in questi versi finali del I canto del Purgatorio non può non tornarci alla me- moria Ulisse: c’è infatti una citazione esplicita, e quell’aggettivo “esperto” che ricorda l’ardore di divenir del mondo esperto e l’esperienza del mondo sanza gente dell’orazion picciola. Dante è giunto a quella montagna bruna, a cui anche Ulisse era arrivato senza però riuscire a tornare indietro, ma vi giunge con mezzi diversi. Questa differenza è sottolineata, in un esplicito paragone con l’episodio dell’eroe greco, all’inizio del canto seguente.

Noi eravam lunghesso mare ancora, come gente che pensa a suo cammino, che va col cuore e col corpo dimora.

Ed ecco, qual, sorpreso dal mattino, per li grossi vapor Marte rosseggia giù nel ponente sovra ‘l suol marino,

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cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia,un lume per lo mar venir sì ratto,che ‘l muover suo nessun volar pareggia.

Dal qual com’io un poco ebbi ritratto l’occhio per domandar o duca mio, rividil più lucente e maggior fatto.

Poi d’ogne lato ad esso m’apparioun non sapeva che bianco, e di sotto a poco a poco un altro a lui uscìo.

Lo mio maestro ancor non facea motto, mentre che i primi bianchi apparver ali; allor che ben conobbe il galeotto,

gridò: «Fa, fa che le ginocchia cali. Ecco l’angel di Dio: piega le mani; omai vedrai di sì fatti officiali.

Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che l’ali sue, tra liti sì lontani.

Vedi come l’ha dritte verso ‘l cielo, trattando l’aere con l’etterne penne, che non si mutan come mortal pelo».

(Pg II, 10-36)

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Dante e Virgilio sono sulla spiaggia del Purgatorio, smarriti e incerti non sanno che direzione prendere, quando vedono un punto luminoso in lontananza correre sulle acque ancora avvolte dai vapori dell’alba. Si tratta della barca dell’angelo nocchiero che trasporta le anime al Purgatorio, che si avvicina a una velocità tale che nessun volo di uccello può eguagliare. Virgilio invita Dante ad assumere un atteggiamento di preghiera e commenta così la scena: “Vedi che rifiuta i mezzi umani, così da non volere remo alcuno, o altra vela oltre alle sue ali, per compiere una così lunga traversata (dalla foce del Tevere all’isola del Purgatorio)”. Un simile viaggio – sembra volerci dire Dante –, tra liti sì lontani, ci fa venire in mente quell’altra navigazione: L’un lito e l’altro vidi infin la Spagna. Questo viaggio non si può compiere con mezzi umani. Dei semplici remi, come quelli di Ulisse che si fingono ali, non sono sufficienti, servono delle vere ali.

All’inizio della terza cantica, puntualmente, il “legno” che naufragò nell’oceano, su cui si richiuse il mare in vista del mondo oltreumano, ricompare con una sicurezza assoluta e trionfante13:

O voi che siete in piccioletta barca, desiderosi d’ascoltar, seguitidietro al mio legno che cantando varca,

tornate a riveder li vostri liti:non vi mettete in pelago, chè forse, perdendo me, rimarreste smarriti.

L’acqua ch’io prendo già mai non si corse; Minerva spira, e conducemi Apollo,e nove muse mi dimostran l’Orse.

(Pd II 1-9)

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L’intero passo è costruito con le parole pronunciate da Ulisse nell’Inferno.

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III - La meta del viaggio

Abbiamo deciso di terminare il nostro percorso con il XXXIII canto del Paradiso che rappresenta il momento in cui si compie il viaggio di Dante-Ulisse, dove finalmente l’ardore della conoscenza è saziato.

Non dimentichiamo la memorabile chiusa dell’Epistola a Cangrande, dove l’autore, esposto l’argomento e la fine del suo poema, che termina in Dio, può finalmente acquietarsi, poiché, trovato quel termine (“inventio principio seu primo”), “nihil est quod ulterius queratur” (Ep. XIII, 90)14.

Dante seguendo le sue guide, Virgilio e Beatrice, è giunto dove da solo non sarebbe mai potuto giungere: davanti a Dio.

Il canto si apre con la preghiera alla Vergine Maria fatta da San Bernardo, perché conceda a Dante di vedere Dio e di mantenere puro il suo cuore per tutta la vita.

«Vergine Madre, figlia del tuo figlio, umile e alta più che creatura, termine fisso d’etterno consiglio,

tu se’ colei che l’umana natura nobilitasti sì, che ‘l suo fattore non disdegnò di farsi sua fattura.

Nel ventre tuo si raccese l’amore, per lo cui caldo ne l’etterna pace così è germinato questo fiore.

Qui se’ a noi meridiana facedi caritate, e giuso, intra ‘ mortali,

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se’ di speranza fontana vivace.

Donna, se’ tanto grande e tanto vali, che qual vuol grazia e a te non ricorre sua disianza vuol volar sanz’ali.

La tua benignità non pur soccorre a chi domanda, ma molte fiateliberamente al dimandar precorre.

In te misericordia, in te pietate,in te magnificenza, in te s’aduna quantunque in creatura è di bontate.

Or questi, che da l’infima lacuna de l’universo infin qui ha vedute le vite spiritali ad una ad una,

supplica a te, per grazia, di virtute tanto, che possa con li occhi levarsi più alto verso l’ultima salute.

E io, che mai per mio veder non arsi più ch’i’ fo per lo suo, tutti miei prieghi ti porgo, e priego che non sieno scarsi,

perché tu ogne nube li disleghidi sua mortalità co’ prieghi tuoi,sì che ‘l sommo piacer li si dispieghi.

Ancor ti priego, regina, che puoi

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ciò che tu vuoli, che conservi sani, dopo tanto veder, li affetti suoi.

Vinca tua guardia i movimenti umani: vedi Beatrice con quanti beatiper li miei prieghi ti chiudon le mani!».

(Pd XXXIII, 1-39)

Beatrice e gli altri beati pregano per Dante, e la Vergine, con uno sguardo, mostra a Bernardo di aver accettato la sua richiesta.

Li occhi da Dio diletti e venerati, fissi ne l’orator, ne dimostraro quanto i devoti prieghi le son grati;

indi a l’etterno lume s’addrizzaro, nel qual non si dee creder che s’invii per creatura l’occhio tanto chiaro.

E io ch’al fine di tutt’i disii appropinquava, sì com’io dovea, l’ardor del desiderio in me finii.

(Pd XXXIII, 40-48)

Dante ha capito che vedrà Dio, il fine ultimo di tutti i desideri dell’uomo e fin dal- l’inizio la vera meta del suo viaggio, l’unica possibile risposta all’ardore che lo consumava e che qui è giunto al suo culmine. Quanto la cosa desiderata più appropinqua al desiderante, tanto lo desiderio è maggiore, spiega Dante stesso nel Convivio15.

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Bernardo m’accennava, e sorridea, perch’io guardassi suso; ma io era già per me stesso tal qual ei volea:

ché la mia vista, venendo sincera, e più e più intrava per lo raggio de l’alta luce che da sé è vera.

(Pd XXXIII, 49-54)

Quanto ha visto non può essere espresso a parole, eppure Dante prova ugualmente, rimanendo fedele fino all’ultimo al compito assegnatogli dalla divina provvidenza: raccontare a tutti quello che ha visto. Qui la poesia dantesca tocca picchi insuperati.

Da quinci innanzi il mio veder fu maggio che ‘l parlar mostra, ch’a tal vista cede, e cede la memoria a tanto oltraggio.

Qual è colui che sognando vede,che dopo ‘l sogno la passione impressa rimane, e l’altro a la mente non riede,

cotal son io, ché quasi tutta cessa mia visione, e ancor mi distilla nel core il dolce che nacque da

(Pd XXXIII, 55-66)

Con queste tre similitudini Dante cerca di descriverci la situazione in cui si

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trova: non può raccontarci quello che ha visto ma solamente la sensazione di dolcezza che ancora gli rimane in cuore. Per esprimere questo Dante, con quella acutezza e attenzione per ogni aspetto della vita, anche il più banale, che gli è propria, evoca l’immagine di chi svegliatosi ha perso il ricordo di quanto ha sognato ma reca ancora in cuore l’emozione. Due terzine occupa la prima similitudine, la più estesa, le altre due condensate in un’unica terzina non sono però meno affascinanti. Così la neve si scioglie al sole lasciando solo la traccia umida della sua presenza; e così uguale consistenza aveva la profezia della Sibilla cumana che, scritta su foglie, era perduta da un semplice soffio di vento.

O somma luce che tanto ti levida’ concetti mortali, a la mia mente ripresta un poco di quel che parevi,

e fa la lingua mia tanto possente, ch’una favilla sol de la tua gloria possa lasciare a la futura gente;

ché, per tornare alquanto a mia memoria e per sonare un poco in questi versi,più si conceperà di tua vittoria.

(Pd XXXIII, 67-75)

Un’altra sezione formata da tre terzine: qui dante si rivolge direttamente a Dio, chiedendogli la capacità di comunicare agli uomini almeno una favilla della sua gloria, perché, tornando alla memoria di Dante e risuonando anche confusamente nei suoi versi, sarà chiara testimonianza della grandezza divina. Qui, ancora, Dante sottolinea il compito ricevuto, che è quello di comunicare attraverso la sua poesia la visione avuta.

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Io credo, per l’acume ch’io soffersi del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, se li occhi miei da lui fossero aversi.

E’ mi ricorda ch’io fui più arditoper questo a sostener, tanto ch’i’ giunsi l’aspetto mio col valore infinito.

Oh abbondante grazia ond’io presunsificcar lo viso per la luce etterna, tanto che la veduta vi consunsi!

Nel suo profondo vidi che s’interna legato con amore in un volume, ciò che per l’universo si squaderna:

sustanze e accidenti e lor costume, quasi conflati insieme, per tal modo che ciò ch’i’ dico è un semplice lume.

La forma universal di questo nodo credo ch’i’ vidi, perché più di largo, dicendo questo, mi sento ch’i’ godo.

(Pd XXXIII, 76-93)

Dante, fissato lo sguardo nel vivo raggio della luce divina, inizia finalmente a descriverci quanto visto. Egli ha tre visioni successive e la prima volta vede legato insieme in un unico volume tutta la realtà dell’universo: sostanze e accidenti e il loro modo di essere (il loro rapporto reciproco) fusi in unità in una maniera che non si può esprimere. Dante vede ogni cosa, quello che è stato, che

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è e che sarà, dal più piccolo granello di sabbia all’ultima stella della galassia, il tutto raccolto insieme in un ordine misterioso.

Un punto solo m’è maggior letargoche venticinque secoli a la ‘mpresa, che fé Nettuno ammirar l’ombra d’Argo.

(Pd XXXIII, 94-96)

Ancora un’immagine per sottolineare l’impossibilità a ricordare quanto visto: un unico momento è causa di maggiore oblio dei venticinque secoli passati da quando per la prima volta una imbarcazione – Argo, la nave degli Argonauti guidati da Giasone alla ricerca del vello d’oro –, solcò il mare suscitando lo sguardo stupito di Nettuno, che vedeva dal fondo dell’oceano un’ombra passare sul suo capo.

Così la mente mia, tutta sospesa, mirava fissa, immobile e attenta, e sempre di mirar faceasi accesa.

A quella luce cotal si diventa,che volgersi da lei per altro aspetto è impossibil che mai si consenta;

però che ‘l ben, ch’è del volere obietto, tutto s’accoglie in lei, e fuor di quella è defettivo ciò ch’è lì perfetto.

(Pd XXXIII, 97-105)

Dante fissa immobile la luce divina e intanto cresce sempre più il desiderio di

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guardare. È impossibile distogliere lo sguardo perché in essa è tutto concentrato il bene, oggetto ricercato dalla volontà umana, dalla ragione umana e da Ulisse che lascia la sua casa per soddisfare la sua brama di conoscenza. Qui, in quella luce, è contenuta la risposta ad ogni desiderio dell’uomo, per questo è impossibile guardare altrove, fuori di quella è difettivo, imperfetto, ciò che lì è perfetto.

Omai sarà più corta mia favella,pur a quel ch’io ricordo, che d’un fante che bagni ancor la lingua a la mammella.

(Pd XXXIII, 106-108)

Nuova dichiarazione d’ineffabilità: d’ora in avanti il suo parlare sarà talmente inadeguato rispetto a quanto a visto, da essere superato dal balbettio di un infante che bagni ancora la lingua al seno della madre.

Non perché più ch’un semplice sembiante fosse nel vivo lume ch’io mirava,che tal è sempre qual s’era davante;

ma per la vista che s’avvaloravain me guardando, una sola parvenza, mutandom’io, a me si travagliava.

Ne la profonda e chiara sussistenza de l’alto lume parvermi tre giridi tre colori e d’una contenenza;

e l’un da l’altro come iri da iriparea reflesso, e ‘l terzo parea foco che quinci e quindi igualmente si spiri.

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(Pd XXXIII, 109-120)

Ora davanti agli occhi di Dante appare una nuova visione ed egli spiega: non è che il vivo lume contenga immagini diverse, ma è la sua vista che guardando acquista potenza e capacità di vedere più in profondità. Non è l’oggetto che cambia, dunque, ma il soggetto. Ora Dante vede tre cerchi di tre diversi colori, ma di una stessa dimensione; e uno di essi sembra riflesso da un altro come un secondo arcobaleno si genera dal primo, e il terzo assomiglia ad un fuoco che provenga, in modo uguale, da entrambi. È l’immagine della Trinità: Padre, Figlio e Spirito Santo.

Oh quanto è corto il dire e come fioco al mio concetto! e questo, a quel ch’i’ vidi, è tanto, che non basta a dicer ‘poco’.

O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intellettae intendente te ami e arridi!

Quella circulazion che sì concetta pareva in te come lume reflesso,da li occhi miei alquanto circunspetta,

dentro da sé, del suo colore stesso,mi parve pinta de la nostra effige:per che ‘l mio viso in lei tutto era messo.

(Pd XXXIII, 121-132)

Il cerchio che appare riflesso porta dipinta in sé, del suo stesso colore,

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l’immagine del volto umano. È il volto di Cristo, il mistero più grande, il Verbo che si è fatto carne che rivela lo stretto legame di amore tra il creatore e la sua creatura, che contempla il proprio volto in Dio stesso.

Qual è ‘l geomètra che tutto s’affigeper misurar lo cerchio, e non ritrova, pensando, quel principio ond’elli indige,

tal era io a quella vista nova:veder voleva come si convenne l’imago al cerchio e come vi s’indova;

ma non eran da ciò le proprie penne: se non che la mia mente fu percossa da un fulgore in che sua voglia venne.

(Pd XXXIII, 133-141)

Come il matematico, che si sforza di trovare la misura della circonferenza e vede tutti i suoi tentativi svanire nel nulla di fronte ad un problema destinato a rimanere irrisolto, così è Dante, nella stessa condizione di sforzo mentale e di impossibilità a comprendere, di fronte a quest’ultima visione, il mistero del Dio incarnato. Voleva vedere: Dante non rinuncia a capire, il disio di possedere ogni cosa, che sempre lo guida, non viene meno neppure all’ultimo. Ma l’umana ragione è sconfitta, non c’è soluzione se non l’intervento gratuito di Dio che illumina con un fulgore la mente di Dante facendogli comprendere l’incomprensibile.

Solo ora capiamo fino in fondo la follia di Ulisse che con una semplice barca e dei remi camuffati da ali voleva giungere fin qui per conoscere Dio.

A questo punto non si può dire più niente, la poesia è sconfitta e lascia il posto al silenzio proprio nel momento in cui desiderio e volontà, per Dante,

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finalmente coincidono grazie all’intervento divino.

A l’alta fantasia qui mancò possa; ma già volgeva il mio disio e ‘l velle, sì come rota ch’igualmente è mossa,

l’amor che move il sole e l’altre stelle.

(Pd XXXIII, 142-145)

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Conclusione

Speriamo che quest’incontro vi sia servito per comprendere e amare di più l’Ulisse dantesco, questa pagina di straordinaria poesia che affascina ogni suo lettore perché parla con verità al cuore di ogni uomo.

Vogliamo lasciarvi leggendovi una pagina del romanzo di Primo Levi Se questo è un uomo che ben testimonia quanto detto. L’autore, rinchiuso in un lager nazista, cerca di spiegare ad un compagno il canto di Ulisse, traducendolo stentatamente in francese.

...Forse nonostante la traduzione scialba e il commento pedestre e frettoloso, ha ricevuto il messaggio, ha sentito che lo riguarda, che riguarda tutti gli uomini in travaglio, e noi in specie; e che riguarda noi due, che osiamo di ragionare di queste cose con le stanghe della zuppa sulle spalle. [...] E’ assolutamente necessario e urgente che ascolti, che comprenda questo “come altrui piacque”, prima che sia troppo tardi, domani lui o io possiamo essere morti, o non vederci mai più, devo dirgli, spiegargli del Medioevo, del così umano e necessario e pure inaspettato anacronismo, e altro ancora, qualcosa di gigantesco che io stesso ho visto ora soltanto, nell’intuizione di un attimo, forse il perché del nostro destino, del nostro essere oggi qui...16.

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Come una postfazione

...Ma la montagna di Ulisse è sempre più precisa, davanti al mio sguardo. E grazie a Lui, so che non è “folle volo”. “Volo” sarebbe grottesca pretesa, se non fosse, coscientemente, metafora.“Volo” a colpi, come gallina e tacchino: – ma non importa – importa l’anelito nella direzione esatta.

L. Giussani, Lettere di fede e di amicizia ad Angelo Majo, Milano, 1997, p. 77.

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Lezioni sulla Commedia

Anna Maria Chiavacci Leonardi

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Inferno

Incontri sulla Commedia di Dante con la prof.ssa Anna Maria Chiavacci Leonardi (Università di Pisa)

Inferno - Liceo Parini 25 novembre 2002

Innanzitutto grazie a tutti per queste parole lusinghiere di benvenuto e di presentazione. Fa molto piacere parlare in questo liceo; come sempre parlo volentieri a chi comincia a studiare Dante, perché è un autore sul quale volentieri si passano, poi, gli anni... io ho incominciato così, facendo la mia tesi di laurea su Dante e poi non l’ho più lasciato, e ancora non ho finito di studiarlo, perché si trovano sempre cose nuove.

Oggi si vorrebbe fare un po’ un discorso introduttivo, visto che ci sono soprattutto le prime.

Ci si domanda sempre: questo libro così antico, di secoli così lontani... che oggi sembrano ancora più lontani, vista la velocità con cui corre il tempo in questi ultimi scorci, in questi ultimi vent’anni, diciamo così; prima si andava più lenti, ora sembra che tutto il tempo precipiti, tutte le cose nuove cambiano... per cui sembra più lontana questa età di Dante. Tuttavia è anche vero che questo libro, stranamente, è letto in tutto il mondo, è uno dei più diffusi, forse il più diffuso dopo la Bibbia. Popoli lontani da noi come tradizioni culturali e come storia, lontanissimi direi, lo leggono, lo traducono e lo studiano praticamente in tutte le Università: per esempio, da poco è stato tradotto in Vietnamita, in Coreano, in Pakistano, Turco... qualunque lingua culturale, ormai, traduce Dante. Quindi la lontananza, in qualche modo, è oltrepassata, c’è qualcosa che attira... va bene, si leggono, certo, i grandi poeti di tutti i tempi ― quando sono grandi ―: leggiamo Omero, Virgilio; ma questo è un fenomeno un po’ diverso, perché viene affrontato, discusso come se fosse ancora un contemporaneo: non c’è una frattura di tempo tale da considerarlo un grande antico. Dante è discusso per esempio in Giappone, dove c’è proprio una cattedra e fioriscono gli studi danteschi, dove gli studenti sono appassionatissimi: anche là si discute del

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mondo dantesco con grande entusiasmo e interesse. Un giovane giapponese ― questo è un fatto, così, di cronaca ma è interessante ― è venuto a Firenze con una borsa di studio apposta per studiare Dante, e ho avuto molti colloqui con lui perché veniva a discutere varie cose; mi sono resa conto, parlando con lui (un ragazzo molto intelligente, già laureato in letteratura italiana) di che cosa poi fosse ciò che effettivamente li attraeva in questo mondo di Dante: naturalmente è la gran poesia che, per prima cosa, attrae le persone, leggendo la poesia [Dante] ha un richiamo che nessun altro testo ha; un testo di teologia, di filosofia o di storia non è così attraente, la poesia sì. Ma in questo mondo poetico lui trovava qualcosa... Dunque, questa singolarità del testo e questa attrazione per i Paesi lontani... e infatti è questo: che il poema di Dante rappresenta non solo quello che è eterno nell’uomo, che sempre la poesia rappresenta (i sentimenti dell’uomo, l’amore, il dolore, le sofferenze, le speranze) ma ci offre qualcosa di organico, un universo interamente organizzato, concluso, quasi tutto un mondo, dagli astri fino ai fiori più piccoli, un grande cosmo ordinato, e ci presenta la storia, il destino, in qualche modo, dell’uomo. Le due cose che il giapponese mi diceva, erano: uno, la razionalità dell’universo; ché per noi occidentali, è normale l’idea che il mondo sia intelligibile all’uomo, che ci siano delle leggi razionali che corrispondono alla nostra mente, che la nostra mente può comprendere... per altri popoli no, è una scoperta, l’intelligibilità dell’universo. E l’altro è il valore primario della persona dell’uomo: la sua libertà, la sua dignità. Ora, se noi guardiamo questi due o tre elementi fondamentali che mi diceva il giovane giapponese, nella Commedia viene, di fatto, espressa l’identità della nostra cultura e civiltà occidentale. Noi sappiamo, voi sapete certamente, che due grandi tradizioni sono confluite, poi, nel Medioevo formando quella che oggi è chiamata la civiltà occidentale, europea come nascita naturalmente: la tradizione greco-latina e la tradizione biblica, ebraico-cristiana, che si sono lentamente, nel medioevo poi, fuse, con grande sforzo dei grandi pensatori cristiani tra l’altro; e la Divina Commedia, che nasce proprio, come forse tutti sanno alla fine dell’età medioevale, esprime questa concezione dell’universo e dell’uomo, che ― per questo la sua attualità ― tutt’ora è quella a cui tutto il mondo civile fa

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riferimento... la tavola dei diritti umani ad esempio, che è accettata praticamente da tutti i Paesi del mondo, si fonda su questo valore della persona di cui si diceva. Lo sviluppo tecnico e scientifico si fondano sulla razionalità dell’universo, questo deriva in gran parte dai Greci, che poi naturalmente a loro volta attingevano da precedenti culture, come quella babilonese per l’astronomia, ecc... . Ma quello del valore della persona è invece eredità Cristiana, il valore primario della persona, che non va sottoposto a nessun altro: la sua dignità suprema, la sua inviolabilità e la sua libertà. Questi concetti sono nuovi, ancora oggi sono nuovi, perché l’uguaglianza degli uomini non esiste in nessuna cultura allo stato naturale; voi certamente lo sapete: in ogni cultura ci sono queste caste, divisioni tra specie, caste sociali come in India, divisioni tra uomo e donna, molto forti in alcune culture; l’idea dell’uguaglianza non c’è nemmeno nella grande filosofia greca, che pure ha fatto grandi passi, come tutti sanno, soprattutto con Socrate, Platone, Aristotele... ma anche il grande Aristotele nella Politica scrive che il libero e lo schiavo sono quasi due specie diverse di uomo; non sono uguali il libero e lo schiavo per Aristotele, quindi... intendiamoci: è il culmine del pensiero antico. Nessuna cultura riconoscerà nemmeno la libertà, libertà intendo come quella predicata nel Vangelo cristiano, grande rivoluzione che allora fu l’idea di essere superiori alle leggi: le leggi sono fatte per l’uomo, e non l’uomo per le leggi; come è scritto nel Vangelo, forse voi non lo sapete, non lo so se lo sapete, comunque, non è che l’uomo è fatto per il sabato ― il sabato che nell’ebreo è il giorno, appunto, che bisogna rispettare in tutti i suoi dettagli ― ma il sabato per l’uomo, cioè l’uomo in qualche modo è padrone delle leggi, il che vuole dire il primato dello spirito sulla lettera: anche questo è tuttora rivoluzionario. Voi tutti sapete quante prescrizioni, quante cose bisogna osservare in ogni diversa religione o cultura che sia, gli ebrei ancora stanno attenti a spazzare tutte le bricioline minime sotto i letti nel giorno pasquale, come in altre prescrizioni o Paesi non si può mangiare una certa carne, alcuni cibi sono vietati, e così via... tutto questo insieme di regole, che è fatto appunto per dare una regola alla vita civile, è superato in questa diversa concezione dell’uomo per il quale l’uomo è padrone delle regole, e questo è evidentissimo nella Divina

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Commedia.Ora appunto veniamo al nostro argomento. L’idea della libertà, della grande e

perfetta razionalità dell’universo, dominano tutto il poema di Dante; ora, chi non l’ha ancora cominciato non ha un’idea, ma presto se ne accorgerà! Tutto l’universo appare ordinato: il Paradiso, nel famoso attacco di quel bel discorso che fa nel primo canto Beatrice: “le cose tutte quante, hanno ordine tra loro”, c’è un ordine nell’universo, “e questo è forma che l’universo a Dio fa somigliante...”. Questa è l’idea: che il Creatore, secondo la concezione Cristiana naturalmente, dove Dante si pone, impone nell’universo la sua somiglianza, quindi è tutto simile alla mente creatrice. Questo ordine straordinario nella Commedia regge tutto, ogni movimento degli astri, delle orbite degli astri che Dante tante volte descrive, ogni piccola cosa che accade sulla terra, come tra i fiori e le erbe, su cui tante volte si ferma, tutto è perfettamente ordinato in questo modo supremo di grande armonia, e in questo universo si muove questa persona, questo uomo libero; e, voi ancora non lo avete letto ma qualche cenno si può dare ― è importante ― di questo valore del primato dello spirito sulla lettera; di questo già ci si accorge nell’Inferno e poi più avanti: cioè in Dante ― è fatto apposta ovviamente ― questo mondo dell’aldilà, di cui ora parleremo, racconta le storie dell’aldiquà naturalmente, racconta le storie della terra, però l’aldilà, le racconta vedendole quindi da un punto di vista esterno. Si racconta la storia, ma dal di fuori, non dall’interno. Questo, diciamo, punto di vista dove ci si pone, permette di dare senso e significato e valore alla storia: bisogna essere al di fuori per giudicarla, naturalmente, finché si sta dentro la cosa sfugge di mano. Ora, l’idea di questo vedere dall’aldilà, di tutte le vite che voi incontrerete leggendo nell’Inferno i vari personaggi che si incontrano, sono vite viste all’indietro: ognuno vede la propria vita, diciamo così, voltandosi indietro, e ora ne comprende il senso. E qui, appunto, ci sono alcuni episodi che ci possono definire, determinare meglio quello che si diceva di questa libertà dello spirito; per esempio, si considerava la scomunica, all’epoca di Dante, la scomunica papale, come una cosa gravissima, per la quale uno che morisse scomunicato era certamente dannato agli occhi della gente; Dante invece, nel Purgatorio, salva il

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grande principe Manfredi di Svevia che era morto scomunicato, ma lo salva come e perché? Perché all’ultimo momento Manfredi si rivolge a Dio con un momento solo, con il gesto di un momento, con il cuore pentito, piangendo, e viene accolto e perdonato; tanto la cosa era difficile da digerire da parte della gente, che Dante fa apposta a far dire a Manfredi: ”Vai di là, e dillo a mia figlia che sono salvo!”, perché nessuno avrebbe potuto crederci. “Orribil furon li peccati miei!” dice il principe Manfredi, uno dei personaggi più potenti di quel tempo, “ma la bontà infinita ha sì gran braccia, che prende ciò che si rivolge a lei...”; cosa significa questo: basta un momento in cui c’è un movimento del cuore umano per oltrepassare la regola della grande scomunica papale; è il cuore che conta, infatti Dio parla al cuore. Al rovescio, nell’Inferno ― faccio questo caso limite perché, appunto sono gli opposti ― nell’Inferno, chi lo leggerà lo trova, c’è un personaggio anche questo molto noto in Italia, Guido da Montefeltro, un grande condottiero, che, per salvarsi l’anima come si diceva, ad un certo punto della sua vita, quando l’età comincia ad avanzare, si fa frate, così sperando di salvarsi, però, senza un pentimento vero; quando si arriva all’ultimo momento... ah, il Papa Bonifacio, questo, scusate, non l’ho detto, quando gli chiede il consiglio per vincere in battaglia i Palestrina, i suoi nemici, gli dice: ”Non ti preoccupare se il consiglio è (come lo era), un inganno, tanto io ti perdono fin d’ora, tu vai tranquillo...”; ma, quando si arriva alla fine, arriva il diavolo e arriva anche [San] Francesco per prendersi il suo fraticello, ma il diavolo porta via Guido da Montefeltro, e gli dice: ”Assolver non si può chi non si pente, per la contraddizion che non consente...”. Quindi abbiamo il caso opposto a Manfredi, l’uno e l’altro: questo era stato assolto dal Papa, però viene portato via dal diavolo, e l’altro era stato scomunicato e viene salvato. Per dire, questo è un caso, ma ce ne sono altri; ma, ora, per il momento fermiamoci, se no si va troppo in là con questo argomento... però per dire come, appunto, nella Commedia, molte volte accade, è proclamata questa straordinaria primaria dello spirito sulla lettera. Questo incontro e –praticamente ― vantaggio della concezione cristiana sull’antica, cominciò, si può dire, quando san Paolo andò ad Atene a parlare all’Areopago: parlò, appunto, del suo Dio Cristiano, e lì comincia, si può dire

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simbolicamente si fa cominciare di lì, questa lenta fusione fra le due civiltà. Questo concetto Cristiano, che Dante assume naturalmente, è tutt’ora tante volte non accolto; resta indigesto un po’ a tutti tante volte, vedere salvato un peccatore dell’ultim’ora, questo dà fastidio ancora ai benpensanti, diciamo, di ogni tempo, di allora come di adesso. Dunque, sorvolando adesso un momento su questo aspetto, questo dicevo, che questa singolare potenza con cui la Commedia offre al mondo, a tutti i popoli, insomma, questa idea del mondo e dell’uomo, ancora nuova, si può dire, ancora insolita, perché non è ancora accolta veramente, come si diceva un momento fa, da tutti i popoli, e neppure dai popoli occidentali che pure ne sono eredi e che l’hanno, diciamo così, nel sangue. Voi siete cresciuti in questa civiltà, non ce ne si rende conto, ma per noi è normale; certe cose sono tutte normali, queste cose che invece per altri popoli sono strane: che gli uomini siano uguali come diritti gli uni agli altri, che non ci siano differenze di caste, di nessun tipo: per noi sembra una cosa ovvia perché ci siamo cresciuti, ma non lo è. Ora, dunque, questo grande poema offre così questo al mondo. ―

L’uomo di Dante conquista poi perché naturalmente c’è, da parte di Dante, una tale penetrazione, conoscenza, amore per l‘uomo che il suo uomo, la persona che lui rappresenta, è di una tale vitalità e somiglianza a quello che noi conosciamo, l’uomo di tutti i tempi naturalmente, con tutti i suoi sentimenti, fino ai più delicati, dai più tremendi ai più sottili, delicati e dolci che ci presenta la Commedia, e questo affascina, naturalmente. Quest’uomo, Dante lo considera la sua grande dignità. Lui scrive il suo poema, e lo dice, per indicare all’uomo il suo destino di suprema gloria e toglierlo dalla sua infelicità, e ne fa una specie di viaggio, come voi sapete, questo racconto di viaggio nell’aldilà, cioè dalla selva oscura, dal momento del dolore, della pena che è della vita umana, al momento della gloria e della felicità. Il tema del viaggio è proprio ― per tornare al nostro discorso sulla civiltà ― della civiltà mediterranea; pensiamo ai grandi poemi epici antichi, tutti sono viaggiatori: il grande viaggio di Ulisse, nel più famoso, per lo meno, dei viaggi, dei “nòstoi”, dei ritorni; il viaggio di Enea, che parte da Troia per arrivare ad approdare a un posto dove fondare un nuovo regno di pace e di felicità; ma anche gli Ebrei hanno il viaggio, partono dall’esilio, dalla terra

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dov’erano schiavi in Egitto, per andare in un posto felice seguendo l’ispirazione di Dio; il viaggio, in fondo, di Mosè con i suoi, assomiglia un po’ al viaggio di Enea voi forse un po’ questi li conoscete, il viaggio di Enea certamente ―: si affida agli dei, alla voce della madre, ma non sa nulla, neppure dove andrà; così anche Abramo parte senza sapere dove andrà; partono da un luogo di schiavitù e di pena, come quelli dall’Egitto, per arrivare in un posto di felicità. Quando Dante scrive la Commedia si inserisce in questa tradizione di viaggi, che è propria dell’occidente appunto, però cambia la meta, cioè non è più sulla terra la meta della Commedia, ma è, come sapete, nell’aldilà; c’è un cambio che non è da poco, si esce dalla storia e si trova la meta nell’aldilà; di fatto, se vogliamo, questa meta è quella che le altre terrene, come era Gerusalemme per gli Ebrei o Roma per Enea per esempio, sono mete sulla terra, dove fondare questo nuovo regno di pace e di felicità; ma in fondo quelle mete terrene cos’erano? Non erano altro che un simbolo, una figura della vera felicità che l’uomo cerca, che di certo non troverà e non trovò né a Roma né a Gerusalemme, perché i dolori e le pene del genere umano sono pur continuate. Quando Dante sceglie la meta oltre la storia con questo singolare, come dire, tratto di invenzione, lui sceglie quella che era la realtà, quella realtà che le mete terrene volevano raffigurare, diciamo così; paradossalmente ciò che non si vede, ciò che sembra quasi intoccabile, inafferrabile, questa meta dell’aldilà, è la vera realtà; quelle terrene, sono, in fondo, dei simboli; dunque, questo viaggio sceglie un’altra meta, come già appunto si osservava. A questo punto ogni cosa acquista il suo valore; tutta la storia è presente nella Commedia, è più storica di qualunque altro antico poema epico, nel quale ci sono sempre miti, la storia con le date non entra quasi mai; invece qua, la Commedia è piena di date, di luoghi geografici ben precisi, i fiumi, i monti, sono tutti nominati, ogni personaggio ricorda dov’è nato, c’è questa continua determinazione storica, la storia è presentissima in tutto il poema, in ogni momento, però la storia acquista un valore straordinario: ogni gesto minimo, visto dall’aldilà, diventa prezioso; perché questo gesto è quello che conta. Come abbiamo visto ora, è bastato un gesto del cuore di Manfredi per salvarlo, una lacrima basta a Buonconte; e così ricordiamo il bacio di Francesca,

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ognuno l’avrà presente; il volo di Ulisse quando passa le colonne d’Ercole; è un gesto solo, in fondo, che decide, quindi è prezioso ogni gesto del tempo, è qui il valore di tutta la storia, e diventa una cosa di grande rilievo, tutta la storia ha un suo valore, o un disvalore naturalmente, a seconda di come si svolge. Questo è un po’ l’impianto del poema, il viaggio nell’aldilà. Com’è questo aldilà, come si può inventarlo, come si può raccontarlo? Qui Dante mostra la sua grande capacità costruttiva ed inventiva, perché visioni ce n’erano, sono state pubblicate le visioni dell’altro mondo, raccontate, così, in forma di sogno o di visione, a cui molti hanno creduto. Però questo aldilà è sempre generico: se si vede l’Inferno, si vedono tante pene terribili, tremende, tante volte molto peggiori anche di quelle immaginate da Dante, con figure di personaggi praticamente tutti uguali: sono tutti ammucchiati e quasi bestiali e ridotti proprio alla loro, pura bestialità, e con pene orrende ma tutte uguali; non c’è nessuna distinzione; e così il Purgatorio: è visto sì e no, perché ancora era appena stata definita come dottrina quella del Purgatorio, non si sapeva bene dove fosse e come fosse; molti ci mettono dentro i diavoli: un piccolo inferno più leggero, come ha scritto Le Goff nel suo saggio sul Purgatorio, era immaginato in questo modo, più o meno; il Paradiso poi... non si aveva un’idea, cioè in quelle descrizioni che abbiamo –poche, perché la maggior parte raccontavano dell’Inferno e del Purgatorio ― il Paradiso era un Paradiso terrestre, diciamo così: un bel giardino, magnifici fiori, delizie di ogni genere, ma delizie in genere terrene, quelle che l’uomo, di fatto, conosce, perché non è che sperimenti le delizie spirituali del Paradiso; quindi era un mondo abbastanza informe. Ora Dante, invece ― questa era una delle sue prerogative ― ha inventato effettivamente tutto questo aldilà, l’organizzazione del mondo stesso, fisico, dell’aldilà: voi l’avrete vista ― anche quelli che iniziano, con l’Inferno ― questa invenzione, di questa voragine che si apre, questa specie di imbuto che è l’Inferno, fino al centro della terra; al centro è confitto Lucifero, dall’altra parte, proprio nello stesso asse, geograficamente parlando ― perché Dante dà una latitudine a questi posti, se la inventa proprio la struttura geografica dell’aldilà ― dall’altra parte opposta a Lucifero c’è la montagna del Purgatorio. Inferno e Purgatorio sono sul globo terrestre, uno dentro e uno si innalza; ma è

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un’invenzione di Dante, il quale ha sistemato con precisione rispetto ad una latitudine, quella di Gerusalemme, sia l’uno che l’altro. Per esempio, voi sapete certamente, insomma, molti lo sanno, che nell’episodio di Ulisse, Ulisse con la sua nave arriva fino in vista del Purgatorio, della montagna che vede da lontano, una montagna bruna, così... il che vuole dire che questa è una realtà che poggia sul globo terrestre, una nave può avvistarla; gli ha dato questa disposizione geografica precisa; in più Dante ha immaginato il Paradiso, che non è una cosa da poco, naturalmente, e lo ha immaginato non in forma, appunto, come dire, terrestre, appoggiato su questo globo: il Paradiso è al di là dei cieli, è l’ultimo cielo, ed è un cielo spirituale, che, con uno sforzo supremo della fantasia, Dante ha creato non parlando più di luoghi terreni, ma soltanto di un mondo di luce: che è l’unico corpo, la luce, che lui usa per rappresentare, appunto, l’aldilà, dove ci si muove in un mondo spirituale; con uno sforzo, come potete immaginare, per un poeta, straordinario; si vedranno i modi come lui ha cercato di realizzarlo. Comunque con questa fantasia lui ha creato l’aldilà, che ancora molta gente, così, vede come Dante lo ha immaginato; gente italiana, naturalmente, che conosce la Commedia: quest’idea dei cerchi, dei gironi, delle cornici, ecc... Ma, a parte questo, questa invenzione dei luoghi, la cosa più importante è che lui ha inventato la situazione delle persone che vi stanno, la psicologia: che cosa pensa un dannato dell’Inferno? Quali sono i suoi sentimenti, che cosa possono essere? Quelli del Purgatorio... anche questo nessuno ha mai provato ad immaginarlo. Invece Dante fa proprio questo nel suo Inferno, lui cerca di immaginare, e crea di fatto tutte queste persone nella loro coscienza, nel loro sentimento, nel loro dolore, e questa è la cosa che effettivamente attrae, colpisce e per cui si legge l’Inferno, perché qui sono rimasti uomini in tutta la loro dignità, questa è l’invenzione di Dante notevolissima, a confronto di tutte le altre visioni: l’uomo non perde la sua immagine.

I dannati hanno coscienza etica di quello che hanno commesso, ed hanno anche un senso di dignità, la grandezza umana che avevano in vita gli è rimasta: Dante lascia ad ognuno la sua prerogativa umana di dignità, di grandezza morale anche, coraggiosa, civile come Farinata; però non è bastato; questo “non basta” è

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un’espressione che ritorna nella Divina Commedia: ”Ben far non basta”, non basta per salvarsi, cioè per arrivare alla felicità suprema a cui l’uomo è destinato, non basta, ci vuole qualcosa di diverso che è quel gesto del cuore, appunto, compiuto da Manfredi all’ultimo momento. Ma questi personaggi infernali hanno tutti, come sapete ― almeno qualcuno l’avete già incontrato ― come Francesca la sua gentilezza femminile, Farinata la grandezza e la fierezza dell’uomo politico che vuole salvare Firenze dalla distruzione; Dante lascia, come dire, ad ognuno questa dignità, questa prerogativa; la grande tragedia dell’Inferno è proprio questa: questi uomini di tale livello sono però condannati in questa chiusura, in questo “carcere cieco”, come lo chiamano. Qual è il segreto, appunto, di questo rifiuto e dell’altro che ha la salvezza?

Il segreto Dante lo spiega, a chi vuole capirlo ovviamente, nell’incontro con Cavalcante nell’Inferno. Insieme a Farinata c’è un grande; un po’ meno umanamente, ma comunque ben noto: Cavalcante è il padre del grande poeta amico di Dante, Guido, che forse già tutti conoscono, lo stilnovista Guido Cavalcanti, grande poeta. E quando vede Dante, il padre che invece è lì condannato, dice: ”Come mai con te non c’è anche mio figlio?”... “Se per questo cieco carcere vai per altezza di ingegno, mio figlio ov’è, e perché non è teco?”, questa domanda straziante, per cui: “se quell’altro ci viene per il suo grande valore intellettuale perché non c’è mio figlio, che non è secondo a te?”. Questa idea che Dante potesse aver avuto questo privilegio perché, appunto, aveva l’ingegno è sempre l’idea del valore umano; ma non è questa la ragione per cui Dante va nell’Inferno: non perché fosse tanto bravo, tanto intelligente ― Dante sapeva bene di non essere secondo a nessuno, tra l’altro, come ingegno, e lo dice, appunto, anche qui, e per questo si condanna da sé perché dice che dovrà stare parecchio nella cornice dei superbi, quando sarà in Purgatorio... ― Comunque, dice: “Non per questo vengo qui”, “Da me stesso non vegno”, “Non vengo per le mie qualità, ma vengo accompagnato e guidato” e indica Virgilio. Che cosa vuol dire questo? Vuol dire che, appunto, uno si salva perché rinuncia ad essere il padrone di sé stesso, e riconosce la propria insufficienza di fronte a Dio; questo riconoscimento è ciò che basta, il resto non basta. Questa risposta, diciamo così,

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nascosta in queste brevi battute del canto decimo, che poi si capisce anche in altri luoghi ― ma non posso adesso, qui, citarli tutti ― è quella che Dante dà. L’uomo perché non arriva a questa felicità? Perché vuole arrivare da solo, vuole fare lui, come Ulisse vuole affrontare lui l’oceano infinito con le sue sole forze, e non accetta nessuna sottomissione: questo è il punto che guida la Commedia, l’idea centrale di tutto il poema, per cui si salva chi accetta di non essere sufficiente a sé stesso (è la grande tentazione di Adamo, il peccato dell’Eden che tutti sanno); naturalmente qui siamo dentro alla concezione cristiana dell’uomo, questo è sicuro perché Dante ci si pone deliberatamente; tuttavia questo mondo dà una risposta, un senso alla vita umana, quella risposta che molti cercano affannosamente ma che è difficile da trovare.

Nell’Inferno, cosa che di solito non si riconosce, è presente, oltre a quello che abbiamo già detto, che ogni persona mantiene la propria dignità e così... è presente quello che si può chiamare l’amore di Dio, già è scritto sulla porta: ”Fecemi la divina potestate, la somma sapienza e il primo amore.”

Si stabilisce, vediamo noi, una possibilità di dialogo tra Dante e i dannati: anche questo stesso fatto, che si possa comunicare tra il vivo, ancora salvo, diciamo così, l’“anima viva”, come la chiama Caronte, e i dannati, vuole dire che non c’è un abisso totale tra di loro, tra questi e gli altri; qual è il ponte, l’unica possibilità di comunicazione? E’ portato da un sentimento, fondamentale nell’Inferno, che è quello della pietà. Questo a me preme molto perché, di fatto, regge tutta la possibilità dell’Inferno dantesco: è di fronte a questo sentimento di pietà che i dannati si risvegliano e parlano con lui; è il ponte che si può [concepire] come l’unico immaginabile, che appunto fa parte dell’amore divino: questa pietà che c’è per tutti, per cui si risveglia in ognuno l’uomo che c’è (vi ricordate, Ciacco tira su la testa per parlare con Dante e poi riprecipita, quasi ricadendo, nella sua abiezione). Ma dappertutto, in tutto l’Inferno, fino agli ultimi cerchi, c’è questa presenza di pietà che porta alle lacrime addirittura Dante (“Francesca, i tuoi martiri/a lagrimar mi fanno tristo e pio.”), che piange e si addolora per tutti, fino all’ultimo cerchio, alla ghiaccia dei traditori; e questo si può anche spiegare perché nei traditori della ghiaccia, tutti immobilizzati come

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forse già sapete nel ghiaccio, si perde la stessa persona dell’uomo, perché l’idea del tradimento, che Dante mette come il più grave, l’ultimo dei peccati ― tradire chi si fida ― vuol dire tradire l’amore, perdere in qualche modo la stessa dignità dell’uomo, questo tradire quello che si fida di te, e perdendo l’uomo, si perde anche la possibilità della pietà, proprio all’ultimo scalino infernale. Questa è una cosa che mi premeva dire perché appunto, quando Dante parte per l’Inferno, si preparava alla guerra del cammino e della pietade, la guerra che combatte per tutto l’Inferno è questo sentimento di pietà duro e doloroso per lui, come durezza del cammino, l’asprezza, diciamo, fisica; e per questo, per concludere con l’Inferno, volevo chiudere su questa parola, che è questo senso pietoso, che deriva naturalmente da Dio, che guida poi questo senso di amore in tutto il poema, dalla prima parola all’ultima.

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Domande

Nel secondo canto viene presentato il personaggio di Beatrice; volevo chiedere, in che senso questo personaggio viene definito dai libri come un simbolo?

Dunque il senso in cui viene definito, va beh, viene definito appunto come il simbolo molti dicono della teologia o comunque in vario modo della rivelazione, ecc... questo è senz’altro una cosa accettabile perché è evidente che come Virgilio ha una sua parte specifica, che è la luce della ragione, la luce naturale dell’uomo, così Beatrice vede qualcosa in più, come Virgilio spesso rimanda a Beatrice durante il suo viaggio, “Queste cose te le dirà meglio Beatrice!”, lei vede le cose della fede, con la luce della grazia; però questo non toglie che lei sia una persona vera, viva e concreta, perché questo è il problema: non è solo un simbolo, nessun personaggio di Dante è solo un simbolo; lui usa quella categoria che Laorbak(?), il critico, ha già definito chiaramente, che si chiama figura, cioè, sono persone vere che contemporaneamente, però, rappresentano qualcosa. Virgilio è sempre Virgilio, ha la sua persona precisa, il poeta lo dice: ”Li parenti miei furon lombardi...”, e poi si vede da tante circostanze in cui si ricorda Virgilio come poeta latino, l’incontro con (?), però è anche quello che parla in nome della ragione dell’uomo, cioè dove arriva la ragione umana; lo dice ad un certo punto:”Dove ragion qui vede, dirti poss’io.”, per il resto Dante dovrà aspettare Beatrice che è opera di fede. Quindi lui è evidentemente i segno della ragione, fino all’ultimo, fino alla cima del Purgatorio dove lo lascia perché qui finisce la perfezione, diciamo, naturale dell’uomo nel Paradiso terrestre; c’è questa idea di figura che è un concetto ben noto, del resto, nella critica, negli studi della letteratura, per cui in Dante troviamo queste persone che sono sempre sé stesse, storicamente determinatissime, perché Beatrice non si può allontanare nel limbo dei simboli, quando lo incontra nel Purgatorio lei ricorda con precisione quando si sono conosciuti in terra, che poi lui l’ha abbandonata per la pargoletta, ecc, ecc... quindi c’è una storia precisa di Beatrice, però lei evidentemente è anche la

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luce della grazia; c’è in un libro del Singleton, questo magari per i professori, c’è, quel libro dove sono raccolti tutti i suoi saggi, c’è un capitolo interessante, “Le tre luci”, dove prende un testo senz’altro di Tommaso, dove dice che ci sono tre luci che illuminano l’uomo: la luce della natura, della ragione; la luce della grazia o fede; e finalmente la luce divina che porta addirittura alla conoscenza, all’incontro con Dio in Paradiso. Sono un po’ le tre guide di Dante, è un bel saggio che chiarisce molto questo aspetto.

Io volevo chiederle da quale posizione Dante si permette di collocare nell’Inferno, nel Purgatorio e nel Paradiso i vari personaggi della Commedia, che appaiono nella Commedia.

Non so come rispondere perché questo è un fatto. La posizione in cui si mette è quella del semplice Cristiano, di qualunque Cristiano, a un certo punto, che più che le persone giudica i fatti, perché le persone nessun uomo può giudicarle, come si sa; ma lui crea questo mondo, evidentemente tutto della sua fantasia, non si può mica esser sicuri che siano all’Inferno quelli che ci ha messo lui e così via... ma lui giudica, da un punto di vista Cristiano, i fatti, cioè quello che si può vedere, per il resto non può certo permettersi di giudicare l’intimo dell’uomo, come lui stesso fa capire attraverso tanti episodi dei quali due, appunto, ne ho ora citati; giudica i fatti in modo che questo è il valore, come potremmo dire, pedagogico del poema, che l’uomo vede che questi sono fatti condannabili, questi altri sono da salvare, seguendo l’elementare, diciamo così, insegnamento Cristiano. Questo è il suo atteggiamento, che ha questo valore di pedagogia, di istruzione, diciamo così; certo, non può mica pretendere che siano nell’Inferno quelli che lui ci mette, questo è evidentemente un racconto di fantasia; lui giudica il fatto, cosa che ancora noi possiamo fare, infatti si può sempre condannare il peccato ma non il peccatore, perché il cuore del peccatore lo vede solo Dio, come lui stesso ci insegna, come vi dicevo ora; quindi credo che questa sia la sua posizione.

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C’è almeno un punto nell’Inferno in cui Dante non dimostra pietà, ed è l’incontro con gli ignavi, nei confronti dei quali dice parole molto dure:” Non ragioniam di lor...”. Qual è il valore morale di questa posizione di Dante?

Il valore morale, per un uomo come lui, naturalmente, ma in genere per la posizione Cristiana, è il fatto che l’uomo, creatura, appunto, creata con ragione e libertà, rinuncia a questa sua prerogativa in questo modo. Dotato, come abbiamo visto, e come, appunto, si insegna nel più comune insegnamento di catechesi Cristiana insomma, l’uomo essere dotato di ragione e, soprattutto, di libertà; chi non usa né l’uno né l’altro, in qualche modo rinuncia alla dignità umana; per questo, più che dare condanne, lui dice:”Non ne parliamo”, perché escono in qualche modo dall’orizzonte in cui è posta la persona dell’uomo. Credo sia questa la motivazione, come dire, sono messi fuori gioco.

Io volevo sapere quali sono state le difficoltà maggiori nello stendere una critica di un opera così importante e così criticata soprattutto.

Mah, difficoltà esteriori nessuna, perché io non mi sono preoccupata assolutamente di eventuali, come dire, critiche, di questo a me non interessa... le difficoltà sono inerenti al testo che è pieno di difficoltà di suo, come già si capisce da come è strutturato, dalla mente che l’ha scritto prima di tutto; quello che devo dire è che ho dovuto parecchio studiare, siccome dentro la Commedia c’è non solo, sì, appunto, la storia, che intanto bisogna sapere di che cosa si tratta, ma poi c’è la filosofia, la teologia, l’astronomia, ci sono tante cose e soprattutto, naturalmente, quello che più conta è l’idea, quindi il fondamento teologico, per cui bisogna studiare. Quello che di solito, ecco, gli italianisti non conoscono, di solito chi studia la Commedia è un italianista, è il retroterra di Dante, che non è italiano, ma è Latino. Tutto il retroterra, ogni poeta non nasce come un fungo, il retroterra di Dante non è soltanto la latinità classica, ma tutto il medioevo, che prima di lui è latino; e questo è ignorato da tutti noi studiosi di letteratura italiana; cominciamo con le lodi di San Francesco e poi vengono gli stilnovisti, e

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prima cosa c’è, il deserto? No, non c’è il deserto, c’è anche la poesia medioevale, non solo trattati di vario genere, ma ci sono gli autori, grandi poeti, e anche questo è un campo ignorato da sempre, ma è prezioso conoscerlo; per esempio, c’è Boezio, Dante lo cita con uno dei suoi primi libri di filosofia, con le grandi poesie che introduce nel suo testo, grande poesia quella di Boezio, latina naturalmente, a cui Dante certamente si ispira nel Paradiso, e così altri autori ce ne sono molti nel medioevo, ma anche questa è stata una delle difficoltà, in qualche modo, certo, non potevo sapere tutto il medioevo latino, però un’idea bisogna farsela; come i grandi autori Cristiani sempre presenti, come Sant’Agostino, almeno qualche libro, questo lo consiglio a tutti:”Le confessioni” di Sant’Agostino, uno dei testi base anche questo per Dante. Quindi questo è uno dei punti di carattere pratico, poi di carattere critico ce ne sono tanti, ma quelli è inutile elencarli, insomma, quando uno cerca di impostare un discorso critico lo fa a seconda delle proprie inclinazioni e lì non c’è niente da spiegare.

Lei, nel suo discorso, ha evidenziato in particolare come prerogativa delle anime che Dante incontra, nonostante la loro dannazione, la dignità umana che mantengono. Dunque volevo sapere come mai, in più punti dell’Inferno, essi sono assimilati a figure animalesche, per esempio nel terzo canto, quando scendono dalla barca di Caronte, vengono definiti: “Augel per suo richiamo”; oppure, nel quarto, abbiamo un cesare che benché sia esaltato, è dipinto con occhi grifagni. Quindi volevo sapere il perché di questi paragoni con figure di animali, grazie.

Non sono la cosa migliore che poteva scegliere, perché, in fondo, questi sono usati come paragoni per esempio, quella degli uccelli, così, è una cosa gentile in fondo, ma gli occhi grifagni, va bene, sono occhi da preda; questi sono paragoni che non sono ancora così devastanti, così, diciamo, umilianti, no per dire, mantengono la loro dignità certamente, questi paragoni con gli animali sono, naturalmente, dovuti a certi singoli atteggiamenti, per rappresentare quest’uomo di guerra, questo movimento delle anime, qui non vedo particolare offesa verso

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la persona o la sua dignità, mi pare di capire, in quei paragoni non c’è offesa, c’è certo qualcosa c’è non nei primi cerchi, quando si arriva alle bolge sì, lì vedrei di più, diciamo, questo avvilimento dell’uomo: i barattieri nella pece, o quegli altri, come i ladri che si trasformano in serpi; lì c’è l’avvilimento corporeo della figura dell’uomo, che non accade nei primi degli incontinenti o dei violenti, comincia dopo, con la frode, questo avvilimento del corpo umano, che però non tocca la loro, in qualche modo, umanità perché ancora per tutte le bolgie si vede il loro senso dignitoso che mantengono ancora, sempre più debole, come dicevo prima; però l’avvilimento corporeo sì, e lì vedrei, non nei paragoni che la ragazza citava prima, lì vedrei, in questi barattieri immersi nella pece che vengono su come le lonze con il pescatore, come pure nei serpenti-ladri, ecc... qui, lentamente, Dante indica come l’uomo si avvilisce nel peccato, questo semmai direi.

Vorrei sapere come intendere la pietà di Dante, non so, appunto, se intenderla come commozione verso i personaggi che incontra, appunto, nei gironi infernali, oppure come turbamento causato dalla giustizia divina che, come dire, è implacabile, verso peccati e sentimenti che sono comunque comuni alla natura umana, se è solo commozione oppure è proprio turbamento verso la natura implacabile, appunto, di Dio, non so...

Il turbamento è il famoso discorso che fa il Sapegno, che traduce pietà con perplessità, cosa sbagliatissima perché Dante lo ripete quattro volte nello stesso contesto la parola pietà: ”Poi c’ hai pietà del nostro mal perverso”, qui è chiarissimo di che cosa si tratta; no, pietà è compassione, ma che cosa è questa compassione? Da che nasce? Appunto da quello che dicevo in principio, perché l’uomo, pur così grande, nobile e dignitoso come Dio lo ha creato, si è privato di questa sua dignità, questo è il dolore che prende Dante, perché vede, ed è lì che c’è il grande contrasto che crea poi la bellezza anche di tante pagine infernali, fra questa grandezza dell’uomo, come poteva essere Brunetto Latini, la cara e buona immagine paterna, la grandezza che lui aveva avuto per natura e che gli è rimasta in fondo ancora, è stata, in qualche modo, ridotta, così, perduta, perché

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lui si è privato volontariamente, per propria scelta, del proprio compimento di grandezza che gli era destinato; questo è il dolore di Dante, e la pietà; non è un semplice moto di compassione, così:“Poverino!” perché soffre tanto, se no, non sarebbe neanche giusto; è una compassione per questa sorte destinata all’uomo, che aveva invece per destino datogli da Dio la gloria suprema del Paradiso, ecco, questo, secondo me, è l’interpretazione giusta.

Abbiamo visto che Dante intraprende un viaggio nell’aldilà, però anche Ulisse nel capitolo undicesimo dell’Odissea è andato nell’Ade, e Enea, nel sesto, agli inferi; abbiamo visto tre viaggi, diversi, tre uomini diversi e tre luoghi configurati molto diversamente, dunque possiamo trovare, al contrario, delle analogie tra questi tre personaggi?

No, analogie tra i personaggi non ci sono perché la situazione è troppo diversa, il luogo dell’aldilà certamente Dante ce l’ha ben presente, soprattutto Virgilio e la descrizione che fa Virgilio del suo Ade, ma la diversità è totale, appunto di lì si rivela la qualità dell’oltretomba invece Cristiano pensato da Dante, perché l’Ade degli antichi era un qualche cosa di pallido, sono ombre evanescenti che hanno una vita minore, e non c’è nessuna carica né di tragedia né di gloria. E’ un limbo, quasi, qualche cosa di pallido come lo sono tutte le loro ombre e dolenti quelli incontri che Virgilio fa nell’aldilà suo, nell’Ade; hanno questo senso, per cui un’ombra è effettivamente, un’ombra, qualche cosa che non è più la pienezza della vita; quindi c’è una differenza profonda per cui i due mondi dell’aldilà non hanno a che fare l’uno con l’altro; c’è l’idea, sì, di questa sopravvivenza che era propria di tutta la filosofia greca, del resto; vi ricordate Platone: l’immortalità dell’anima, è in genere degli antichi questa idea della sopravvivenza dopo la morte, però era una sopravvivenza che non aveva sbocco, diciamo così; qua la stessa differenza tra i tre regni, soprattutto tra il primo e gli altri, tra disperazione e gloria, è tutto un altro discorso, perché c’è un destino. Cosa che là non c’era; ora si potrebbe entrare nel discorso del dramma che c’è negli antichi greci e romani, come Virgilio, del problema della morte che riempie

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dolorosamente l’Eneide, tutti i giovani dell’Eneide muoiono, tutti sono destinati a morire, che poi il giovane significa, appunto, questa morte che non è meritata, la morte di Pallante, non se ne salva uno, Eurialo... immeritata è ogni morte umana, in fondo, perché l’uomo è destinato alla vita eterna; ma Virgilio a questi morti non può rispondere, è un dolore che percorre tutta l’Eneide, nonostante la gloria del nuovo regno, dell’imperatore, ecc, ecc... come non possono rispondere i tragici greci, alle loro domande sulla morte; come Omero, l’ho scritto, mi pare, nell’introduzione dell’Inferno, quel dolorosissimo episodio di Achille e di Priamo sotto la tenda, quando Priamo piange ed Achille piange; Priamo piange la morte del figlio e Achille piange perché pensa a suo padre che piangerà anche lui perché sa che è destinato a morire. C’è questo dolore profondo nell’antica poesia greca, che non ha risposta.

Vorrei chiederLe di approfondire il tema delle due dimensioni che in Dante sono così unite, diciamo, di realismo e simbolismo, magari anche dando a noi insegnanti, dei consigli su come fare capire bene questo rapporto che è così complesso.

Non so se sono all’altezza di dare dei consigli a voi insegnanti, questo non credo sia il mio compito, ma io direi che non bisogna esagerare con questa dicotomia tra il simbolismo e il realismo; il discorso di Dante è, sostanzialmente, reale; lui tende alla realtà, e di fatto, tutto il mondo lo legge per questo, perché lui presenta l’uomo così com’è, l’assoluta conoscenza di ogni movimento, di ogni gesto, ogni sospiro; il lattante che si volge verso la madre perché si è svegliato in ritardo; il sospiro dell’epilettico che si riprende; i sorrisi, come dire, di dolcezza di compiacenza, quasi materni... insomma, i mille gesti dell’uomo Dante li coglie, li rappresenta al vivo come pochi poeti; quello che Dante ci dà è soprattutto realtà, “simbolico”, non so nemmeno se è detto giusto “simbolico”, semmai il “valore allegorico” di alcune cose che, eventualmente, possono rappresentarne altre, o , come si diceva prima, le forme figurali di Beatrice, di Virgilio, o di altri... c’è un rimandare che però è proprio del reale, cioè, questo è un po’

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difficile da dire, nella realtà del mondo, che noi conosciamo, che tocchiamo, che vediamo,c’è sempre dietro un’altra cosa, questa non è irreale però, soltanto non è tangibile, non è visibile con gli occhi del corpo, diciamo così, ma c’è una realtà, come potremmo dire, che sovrasta quella toccabile, tante volte più vera della stessa realtà che noi tocchiamo; ma c’è nel mondo presente questa realtà dello spirito, quindi ci sono sempre questi due piani. Parlare di allegoria, tranne in alcuni casi in cui ci sono scene, come la processione del Purgatorio, inserite con valore allegorico; ma l’impianto del poema non è tale: è una realtà che porta con sé la seconda realtà che è quella del mondo dello spirito. E’ difficile il discorso, ma così mi sembra sia per Dante.

A me piacerebbe sapere come mai, a parte alcuni casi che sono, per esempio, Guido da Montefeltro oppure Bocca degli Abati, insomma, i traditori, che non desiderano essere ricordati, cioè come essere scoperti nell’aldiquà finiti all’Inferno, come mai gli altri dannati non hanno pudore per questo, vergogna per questo; in qualche modo questo si connette al discorso di prima, della dignità dell’uomo che in fondo non è ancora persa?

Mah, è un problema, questo, che Dante non affronta direi, questo che loro si sentano, a parte il caso di Bocca, ma qui siamo in un ambiente partigiano, civile, di lotta fra partiti, fra fazioni, dove, appunto, uno si vergogna se l’altra fazione sa quello; si rientra in quello spirito, diciamo così, non è una cosa generale di vergognarsi per questa punizione, quello di Bocca è un atteggiamento tipicamente partigiano, come sarebbe oggi, uno di fronte all’altra fazione non vuole apparire così; per il resto, a loro forse non importa, nel senso che la loro condizione è tale che, diciamo così, basta ed è sufficiente; non c’è più il problema del mondo, per cui raramente emerge, molto raramente(come nel caso di Bocca e di altri), di solito sono concentrati su se stessi e sulla propria realtà, perché l’Inferno, in qualche modo, taglia fuori dal mondo dei vivi, dal mondo della terra; mentre il Purgatorio, come vedremo domani, è un continuo rapporto perché, praticamente, è nello stesso tempo, sotto lo stesso sole, e con la stessa, in fondo,

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speranza, qua c’è un taglio, volere o no, un abisso, per cui loro non possono più partecipare degli stessi sentimenti; questo accade ancora a chi si lega ancora a queste faziosità del tutto piccole, umane, ma è un incidente,diciamo così, un caso, non è la regola; la regola è che loro sono tagliati da questo mondo. Così direi, non so se è giusto.

Volevo chiedere, proprio a questo seguito, è giusta allora l’impressione che si ha, leggendo l’Inferno, di un egocentrismo esasperato dei dannati, e di un’impossibilità di relazione?

Sì, un po’ è giusto questo, cioè, sono come chiusi loro ormai in se stessi, è questo che forse lei voleva dire, mi pare, no? Questa è un’impressione, infatti, che si ha normalmente; vedono la loro condizione cieca, che non vede, come dice Farinata:”Noi non vediamo ormai, siamo chiusi”; per esempio, Cavalcante non sa nemmeno se suo figlio è vivo o morto; sono come tagliati fuori dal mondo dei vivi. Questo mi pare che sia un’osservazione giusta, un “cieco carcere” lo chiamano, domani usciremo da questo carcere.

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Purgatorio

26 novembre 2002

[E’ importante] far capire, far conoscere la diffusione che ha questo testo nel mondo di oggi. Un libro antico, lontano che in genere si pensa che, essendo così lontano nel tempo, sia lontano anche nel pensiero, nelle idee, nei sentimenti: la tradizione è lontana, il medioevo è anche un altro ambiente storico, culturale, ci si domanda se veramente ne valga la pena, dove stia la vicinanza, l’importanza di questo antico testo. Una risposta in parte viene dalla sua diffusione nel mondo: è tra i più diffusi, se non il più diffuso dopo la Bibbia, in tutto il mondo conosciuto e culturale. Ogni popolo che abbia una cultura, un’università, ha una traduzione della Commedia. Oggi si sono tradotte anche in coreano, in vietnamita, in pakistano, turco, qualunque lingua dove c’è una cultura. La cosa veramente sorprende specialmente per quei Paesi che hanno una tradizione molto diversa dalla nostra, per cui ci si domanda cosa trovano in questo testo, che cos’è che li attrae, perché hanno tanto interesse, che non è solo come si può avere per i grandi poeti antichi, lontani da noi, come tutti i grandi poeti, Omero, Virgilio ed altri; ma c’è un interesse vivo, diretto, che discute con Dante come fosse ancora un contemporaneo.

Vedendo questo fenomeno che anch’io ho conosciuto in diverse persone, incontrando alcuni giovani dell’oriente, tra i quali un giapponese, con il quale ho avuto modo di discutere, un giovane appassionatissimo di Dante, ho visto di persona dove stava il punto: è l’interesse per questo mondo che Dante presenta, governato da un’idea dell’uomo e dell’universo coerente, completa, che veramente risponde in qualche modo alla domanda di senso che è propria dell’uomo, dell’uomo di sempre si può dire, ma oggi in modo speciale. Mi sono resa conto che nel nostro tempo, dopo questo secolo ventesimo così tragico, la domanda che l’uomo ha sempre posto a sé stesso, del proprio destino e del senso dell’universo e della propria vita, si fa più acuta, perché sono cadute molte speranze, le ideologie sono tramontate; la speranza di creare qui ― in forma

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utopica, naturalmente ― questo regno di pace, imposto dalle forme politiche (cosa che c’era già in antico: il regno di Augusto cantato da Virgilio, in fondo, cos’era?), una speranza, finalmente, di un grande mondo di pace, si è continuato ad avere questa speranza fino al secolo scorso, come tutti sappiamo. Ma il crollo sia delle ideologie, sia delle stesse strutture politiche che venivano sostenute da questi pensieri, ha posto, forse più fortemente, questa domanda, che si sente salire da tutte le parti del mondo, specialmente nella gioventù, sul senso dell’universo e dell’uomo.

Ora, la Commedia di Dante porta con sé una risposta: l’idea del mondo, appunto, e dell’uomo che si è costruita nell’Occidente, raccogliendo le tradizioni ― sia quella greco-romana, che quella biblica, ebraico-cristiana ― che hanno costituito un luogo di pace e di felicità, dove l’uomo, dopo l’avventura dolorosa della vita, trova finalmente pace: come Enea che, appunto, fugge da Troia seguendo le voci degli dèi che gli indicano un luogo, il Lazio, dove fondare un regno di pace, che poi deve essere l’impero di Augusto, come canta Virgilio. Gli stessi Ebrei viaggiano anche loro: escono dall’Egitto per andare nel posto indicato da Dio che era poi la loro patria, Gerusalemme. Comunque le mete, sia Roma che Gerusalemme, sono mete che stanno sulla nostra terra, che sono dentro la storia. Il poema di Dante, invece, compie un salto di qualità, pone la meta del suo viaggio nell’aldilà, in questo mondo ignoto, ma ove l’uomo trova il compimento del suo destino. È un cammino che lui stesso compie in prima persona, perciò la prima terzina della Commedia porta il verbo nelle due forme :

“Nel mezzo del cammin di nostra vita,mi ritrovai per una selva oscura”.

Il verbo “mi ritrovai” in prima persona, ma di “nostra vita”, cioè della vita nostra di tutti gli uomini perché lui porta con sé nel suo viaggio, in fondo, tutta l’umanità, pur naturalmente essendo lui storicamente sicuramente il Dante fiorentino, con tutti i suoi problemi, cacciato in esilio dalla propria patria, con i suoi affetti e dispetti, intendiamoci: tutto il suo aspetto storico è mantenuto; però,

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come in tutto il poema, c’è dentro o oltre questa determinazione storica qualche cosa di diverso che l’oltrepassa, che lo porta, appunto, come tutti gli altri uomini a seguire questo destino.

Il cammino che Dante fa vedere è un cammino di ritorno alla patria, proprio come facevano gli Ebrei a Gerusalemme: verso la vera patria, che non è, appunto, né Roma, né Gerusalemme, nessuno degli imperi che tutti sono stati poi travolti dalla storia, neppure l’ultimo dei regni, quello appunto che abbiamo visto crollare, l’impero comunista nel secolo scorso, e così altri che verranno, si può pensare. Un luogo che ha una dimensione diversa da quella storica, ma quella che l’uomo, di fatto, interiormente sa che è la sua, cioè un’altra dimensione da quella storica; l’uomo l’ha sempre sospirata e creduta, in fondo: tutti gli antichi pensavano ad un aldilà; in qualche modo tutte le tradizioni antiche, le antiche civiltà hanno pensato a questo: confuso, non determinato in forma logica, razionale, sicura, ma c’è sempre stato questo. Ora questo mondo invece nella Divina Commedia diventa una realtà potente e rappresenta tre tappe, come voi sapete, dei tre regni –Inferno, Purgatorio, Paradiso–; questo aldilà che poi è, naturalmente rappresenta le condizioni dell’uomo come di qua, perché noi conosciamo solo la vita della storia, non possiamo mica immaginarne un’altra; ma è questa vita che viene raffigurata dall’altra sponda, come dicevo anche ieri, cioè vista dall’alta riva acquista un significato e un valore; tutte le cose si possono solo misurare dal di fuori, o pesare, o controllare, o capire, o comprendere: finché ci si è dentro non si intendono. Ecco, da questo aldilà Dante misura ogni persona, ogni personaggio del suo poema vede la propria vita e ne capisce il valore o il disvalore, come nel caso degli abitanti dell’Inferno. E cosa rappresentano queste tre condizioni umane? Sono viste nel loro rapporto con Dio, naturalmente secondo il concetto cristiano, dove Dante si inserisce deliberatamente. L’Inferno rappresenta il rifiuto dell’uomo di Dio, l’uomo che crede di essere sufficiente a se stesso.

Nel Purgatorio, di cui oggi parleremo con un po’ più di calma, l’uomo, invece, si arrende, potremmo usare questo termine che Dante usa, dice “mi rendei”, come dice Manfredi nel Purgatorio. L’uomo si arrende a Dio, cioè riconosce la

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sua insufficienza, di non essere sufficiente a se stesso e si affida a Dio. Questo cambia il suo aspetto: come ora vedremo, il suo stesso atteggiamento, la figura dell’uomo è molto diversa dall’Inferno al Purgatorio, perché naturalmente l’atteggiamento morale, spirituale dell’uomo lo cambia, lo trasforma, lo trasfigura; come tutti noi poi sappiamo, incontrando una persona, ecco, il modo di comportarsi cambia se quello cambia inclinazione o dentro di sé: se cambia lo spirito cambia tutto l’uomo. E il terzo regno, che naturalmente è il più difficile perché non è di questa terra, come Dante giustamente rappresenta, perché Inferno e Purgatorio sono messi sulla Terra, sul globo terrestre, l’Inferno sta dentro, il Purgatorio appoggiato, invece, di fuori, sorge sull’oceano, però sono tutti e due appoggiati ben saldamente al nostro globo. Questi due atteggiamenti sono dunque più noti a noi, fanno parte della nostra esperienza diretta. L’uomo del Paradiso è qualcosa di differente, ma è la condizione dell’uomo che oltrepassando la situazione che dicevamo prima, dell’uomo del Purgatorio, arriva a questo compimento di ogni suo desiderio che è l’unione con Dio. Non è che questo non sia sperimentabile già sulla terra, altrimenti non se ne potrebbe neppure parlare: quest’esperienza è dell’uomo, tante persone hanno lasciato questa testimonianza, anche nel nostro tempo, voi stessi probabilmente ne avete qualche esperienza; le persone non saranno tante, ma sono molte più di quello che si possa sapere, perché ciò avviene nel nascondimento, che hanno questo rapporto di amore diretto con Dio: un barlume perlomeno di quella vita c’è già qui, altrimenti nessuno ne potrebbe nemmeno parlare, e del Paradiso come si può parlare? Senza avere un’esperienza, una qualche esperienza del divino non se ne potrà parlare. Questo atteggiamento dell’uomo viene espresso dalle figure che noi incontriamo, questi tre diversi modi della vita umana, che noi incontriamo nei tre regni; che Dante ha immaginato con grande fantasia, perché nessuno aveva fatto questo sforzo, cioè li aveva saputi descrivere, nessuno sapeva bene come fosse, dove fosse né l’Inferno né il Purgatorio; tutti concordavano su un Inferno sottoterra, questo era comunemente accettato, ma di più non si sapeva. Dante crea, possiamo dire crea perché l’ha inventato tutto lui, la situazione esatta, anche geograficamente, di questi due regni che

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appartengono ancora al nostro mondo: l’Inferno si apre come una voragine sotto Gerusalemme e il Purgatorio, invece, si innalza come montagna al centro dell’oceano, esattamente agli antipodi, dell’Inferno; quindi su uno stesso asse [Dante] pone Purgatorio, Gerusalemme e Inferno che vi si apre, uno da un emisfero, uno da un altro. Secondo l’antica concezione dell’astronomia la parte alta del mondo era quella dove si stendeva l’oceano, la parte bassa del mondo era quella delle terre emerse, al contrario di cosa si potrebbe pensare; ma l’astronomia diceva questo, desumendo dal moto degli astri, dava al mondo una destra, una sinistra, un alto, un basso e il basso era quello delle terre abitate. Come si spiega questo? Si spiega secondo la mitologia, la storia biblica, col Paradiso terrestre, cioè l’Eden, messo appunto nella parte alta del mondo, in mezzo all’Oceano: e Dante quando esce dall’Inferno attraversa quel foro centrale dove è trafitto Lucifero, dove Virgilio e lui si devono faticosamente capovolgere; nessuno ha fatto l’esperienza di attraversare il centro della terra naturalmente, però noi oggi sappiamo benissimo che se uno oggi per caso lo potesse fare dovrebbe mettere la testa dove ha i piedi, cosa che Dante accuratamente descrive, come sempre fa con questa assoluta precisione, di attenzione al reale, e dice che con gran fatica mise la testa dove eran prima le gambe e, arrovesciato, l’uomo sale nell’altro mondo. Ma questo rovesciamento fisico è appunto un segno del rovesciamento morale dell’uomo, che dalla condizione del basso del mondo, cioè la condizione dell’esilio dove eran cacciati Adamo ed Eva dopo la colpa del Paradiso Terrestre, ritorna nel regno del Paradiso Terrestre, cioè nella zona dove Dio l’aveva creato. Dante mette questo Purgatorio ad una latitudine precisa, sono i 42 gradi che è la latitudine di Gerusalemme, perché perfettamente agli antipodi, ed è immaginato un luogo felice in qualche modo, sereno; mentre il Purgatorio veniva descritto allora da questi che raccontavano un po’ le visioni dell’Aldilà ― ce ne sono tante scritte così ―... li descrivevano un po’ vagamente questi mondi, era sempre un po’ cupo il Purgatorio, era quasi un piccolo Inferno, anche lì c’erano le pene, c’erano anche dei diavoli che infliggevano le pene; molti sottoterra lo mettevano: lo stesso San Tommaso, il grande Tommaso d’Aquino pensava che fosse probabilmente sottoterra... queste

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idee un po’ vaghe di un regno che non si sapeva dove fosse. Dante non ha problemi, lui è ben deciso: lo mette su questa montagna meravigliosa che sorge sull’oceano tutta indorata dal sole; questa è un’invenzione sua che naturalmente dà il tono a tutta la cantica, tutto il regno pieno di luce e quindi di speranza. E’ questo mondo dove scorre il tempo, l’unico dei tre ove scorre il tempo, perché come sappiamo Inferno e Paradiso sono definitivi, non c’è tempo che passa: il tempo passa sulla Terra e anche nel Purgatorio, che lo fa quindi quasi uguale alla Terra, è di fatto la stessa condizione di quella degli uomini che vivono sulla Terra; qui c’è il sole che nasce e tramonta, sono descritte spesso le ore del giorno, anzi molto spesso nel Purgatorio si vede questa vicenda del tempo che passa e il sole che illumina, molto spesso è il tramonto (l’ora più citata, abbiamo fatto anche il conto, sulla ventina circa di indicazioni dell’ora, mentre camminano Virgilio dice ora è sera ora...), la grande maggioranza è dedicata all’ora del tramonto. L’ora del tramonto che è l’ora della nostalgia, dei ricordi, delle speranze, quella che forse tutti ricordano nell’attacco del canto ottavo, notissimo attacco,

“Era già l'ora che volge il disioe ai navicanti 'ntenerisce il corelo dì c'han detto ai dolci amici addio”.

Ecco quella è l’ora del vespero che commuove quelli che navigano, quelli che sono in esilio, i pellegrini, infatti dice “lo novo peregrin” cioè chi è appena partito da casa, è l’ora dell’esule, che ritorna per più volte nel Purgatorio. Questa montagna illuminata dal sole è piena di canti, di preghiere dolcemente cantate da queste anime, è abitata anche da angeli, perché qui demoni non se ne vede nemmeno l’ombra, ci sono gli angeli invece che cantano ad ogni cornice una beatitudine, di quelle evangeliche proclamate nel Vangelo da Cristo, quindi l’atmosfera è di serenità, speranza e dolcezza. Questa è un’invenzione del tutto dantesca, ha creato questo mondo di speranza, soffrono ma sperano; infatti quando, che sia Dante o Virgilio, si rivolgono a loro, sempre ricordano che c’è

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questa speranza di arrivare al Paradiso, quando dice

“O eletti di Dio, li cui soffririe giustizia e speranza fa men duri, drizzate noi verso li alti saliri”.

Questi sono meno duri perché hanno la certezza di salvarsi, di arrivare in Paradiso; quindi in tutto il Purgatorio c’è sì la sofferenza, però c’è la speranza che lo sostiene. L’atmosfera generale è la dolcezza, perché forse è il termine che più si addice a questa atmosfera; del resto il primo aggettivo, la prima parola che descrive il Purgatorio ― dopo quella che è la solita introduzione ad ogni poema che c’è sempre all’inizio di ogni cantica ― ecco che comincia il racconto esattamente con il cielo dell’alba, “dolce color d’oriental zaffiro”: questo è il primo verso che racconta il Purgatorio, questo colore dolcissimo del cielo della prima alba apre la cantica, e sul finire quando siamo poi nel Paradiso terrestre dove Dante arriverà, sulla fine di tutta la cantica, sarà accolto da una dolce aria,

“Un'aura dolce, sanza mutamento avere in sé, mi feria per la fronte non di più colpo che soave vento”.

L’aura dolce, il soave vento, come vedete, in chiasmo sono una stessa cosa, quindi tutta la cantica è pervasa da questo; le musiche che si sentono sono tutte dolci, come ad esempio Casella incontrato sulla spiaggia che canta dolcemente tanto che tutti restano incantati e si fermano a sentire questo canto. È questa quella che Dante ha voluto imprimere come atmosfera generale di questo secondo mondo, dove si piange, si soffre, ma con dolcezza del cuore.

Qui, dunque, l’uomo appare cambiato dall’aspetto fisico, gli uomini di questo mondo, rispetto all’Inferno, hanno una figura completamente diversa. L’uomo dell’Inferno si è fatto signore di se stesso e ha quello che voluto, ha se stesso, a lui rimane la grandezza che poteva avere in vita, ma è chiuso in questo “carcere

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cieco”, come dice appunto Cavalcanti nell’Inferno. Sono grandi, ribelli, si ergono, come fa Farinata (“dalla cintola in su tutto il vedrai”): questo è l’uomo dell’Inferno, che in qualche modo si oppone a Dio. Come Vanni Fucci, che addirittura fa il verso blasfemo verso Dio, Capaneo, il grande superbo che si trova tra i bestemmiatori nella “sabbia infuocata”, ma tanti ce ne sono nell’Inferno che hanno questo atteggiamento, l’uomo si erge con prepotenza fisica e morale, in quanto vuole affermare se stesso contro Dio. È opposto l’uomo del Purgatorio, che appare invece mite, dolce, arrendevole, è l’uomo che somiglia al giunco che Dante è invitato a cogliere sulla riva, sulla spiaggia del Purgatorio, il giunco che si piega, perché non resiste con superbia alla tempesta. Uno dei commentatori di Dante, forse il più acuto del Trecento – perché i commenti sono nati immediatamente, morto Dante, due anni dopo già scrivevano i commenti –, Benvenuto da Imola, più acuto anche dal punto di vista di saper cogliere la poesia, commentando questo giunco dice “non era come la quercia che resiste ad ogni intemperie, del resto il nostro poeta era una quercia”; e infatti ha resistito a tutto, ai dolori dell’esilio, ai vari tormenti che la vita gli ha dato: “lui lo era, ma ha voluto farsi pieghevole come un giunco”, che è un’importante osservazione di quest’autore. Dante, infatti, non era da meno dei grandi personaggi infernali, come intelligenza e altre doti umane, ma ha preferito, ha scelto l’altra strada. Questo è l’uomo del Purgatorio, che del resto è raffigurato anche nelle similitudini che Dante adopera per figurarlo: solitamente si ricorda la prima similitudine, quando appare la schiera degli scomunicati, quella dove sta Manfredi,

“Come le pecorelle escon dal chiusoad una a due a tre e l'altre stanno, timidette, atterrando l'occhio e 'l muso”.

Timidette, quindi, queste pecore sono l’immagine dell’atteggiamento dell’uomo; magari l’idea delle pecorelle, contrapposte all’uomo che vuole affermare se stesso, essere bello, forte, potente, può non piacere a voi ragazzi, ed

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effettivamente non piace spesso, ma non sempre quello che piace di più è quello che poi porta più in alto. Queste similitudini si ripetono con i colombi, altra immagine di animale mansueto, le capre mansuete che stanno all’ombra ruminando; a volte tornano queste similitudini che servono a definire l’atteggiamento dell’uomo del Purgatorio.

Questi sono i caratteri generali, e il movimento di questa cantica è il movimento dell’esule che torna.

“Noi andavam per lo solingo piano com'om che torna a la perduta strada, che 'nfino ad essa li pare ire in vano”.

Questo camminare, solitario di solito, di Dante e Virgilio è il cammino di ritorno a casa, è il ritorno del pellegrino. Nel secondo canto, quando arrivano con l’angelo e sbarcano sulla spiaggia, le anime domandano a Dante e Virgilio la strada, ma loro ne sapevano meno di loro e, infatti, Virgilio risponde

“Voi credete forse che siamo esperti d'esto loco; ma noi siam peregrin come voi siete”.

Quest’ultimo verso è importante perché fa vedere la vicinanza della situazione di Dante a quella delle anime del Purgatorio. Lui si affianca a loro, cammina in un certo modo con loro e c’è quest’aura d’esilio, l’esilio di questa gente che però sta tornando alla patria, un ritorno in patria, la vera patria dell’uomo appunto. Quando nel tredicesimo canto si troverà tra gli invidiosi una donna senese, Sapia, Dante domanda, come fa sempre, se c’è qualcuno che sia italiano, che sia latino ― perché latino si diceva allora per italiano ― cercando qualche compatriota della sua terra, e lei risponde:

«O frate mio, ciascuna è cittadina d'una vera città; ma tu vuo' dire che vivesse in Italia peregrina».

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Cioè, non c’è nessuno, veramente, la cui patria sia l’Italia, la patria di ogni uomo è un’altra, ciascuno è cittadino di una sola vera città che è il cielo. Tu vuoi dire, dicendo appunto italiano o latino, che vivesse nell’Italia pellegrina. È curiosa questa precisazione un po’ saccente, di questo carattere di questa Sapia che Dante crea (perché Dante, in genere, con poche parole crea i caratteri), però è precisa: tu vuoi dire, dicendo latino, che vivesse nell’Italia pellegrina. Cioè l’uomo vive sulla terra come pellegrino nel cielo. Questo è del resto San Paolo, che lo dice in maniera molto precisa in una delle sue epistole: “voi siete pellegrini e ospiti sulla terra”. Quest’idea dell’esilio è importantissima, perché Dante stesso sulla terra era un esule. Va sempre tenuta presente questa condizione umana di Dante esule da Firenze, che è in fondo la sua condizione di tutta la vita, di tutto il tempo in cui scrisse il poema fino all’ultimo verso, che è morto poco dopo averlo scritto. Questa condizione pesava in lui più di quanto di solito si pensi. Una sofferenza grave per tutta la sua vita che trapela qualche volta nel poema, ma pochissimi versi qua e là. Questo esilio Dante l’ha avuto nella storia, nella sua carne, la sorte dell’esilio. Quella che spiritualmente è appunto data all’uomo come condizione, l’esilio dalla parte del cielo. E questo contrappunto tra i due esilii, quello storico e quello spirituale o celeste, accompagna tutta la cantica. Più volte viene visto e sottolineato ed è anche uno dei lati belli, che dà dei momenti di grande poesia, questo fatto del Dante esule della storia e degli altri che sono esuli dal cielo. Questo attacco dell’ottavo canto, per esempio, è caratteristico. Nell’ottavo canto c’è la nostalgia dell’esule terreno, dove Dante rivede se stesso, naturalmente, quella dolorosa nostalgia dell’esule. Però accanto c’è l’altro esilio e quando arriveremo al Paradiso, vedremo compiersi le due storie. A Firenze Dante non tornerà mai e questo appare chiaramente nel canto del Paradiso, quando gli verrà detto chiaramente il suo destino, ma in compenso entrerà nell’altra patria, nella terra celeste. Questo è un canto bellissimo, il venticinquesimo del Paradiso, dove si vedono questi due destini che si compiono: l’esclusione da Firenze ma l’entrata in Paradiso. Ora, sorvolando un momento su questo argomento, veniamo a qualche definizione di queste persone che si

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trovano, quali sono le scelte, perché poi quello che conta in Dante è sempre l’uomo, la persona singola. Tutti gli uomini hanno una determinazione ben precisa, storicamente parlando, ed è questo che fa l’attrazione, l’interesse per tutti. Ma allora, sembra strano, cosa poteva interessare ad un cinese di Ciacco fiorentino o di Forese, di questa gente di piccole città italiane del Trecento, come fa ad importare di questo ad un vietnamita, ci si può domandare. Ma riflettendo su questo è proprio questo che conta: più l’uomo è determinato, più è uno di tutti noi. Le persone vaghe del mito non attraggono, quello che attira è l’uomo determinato nella storia, che ha un suo posto, una sua identificazione precisa, che tutti hanno: famiglia, città, parenti, avvenimenti, disgrazie. Questo conta e questo attrae, e questo è la grande forza di Dante che dipende dal suo amore ed interesse supremo per l’uomo.

Ci sono un paio di cose che vorrei ricordare, perché caratterizzano il Purgatorio o meglio l’uomo del Purgatorio. Una è quella che appare sin dal principio, quando incontriamo Manfredi che è la figura simbolo del Purgatorio secondo me, come Farinata si può prendere a modello dell’uomo dell’Inferno. Manfredi è un po’ il modello di quest’uomo del Purgatorio, e per questo viene messo in apertura. Dunque la cosa che mi premeva sottolineare è questa: la salvezza dell’ultima ora, che è una costante del Purgatorio. Sono tanti quelli che si salvano pentendosi all’ultimo momento. E così, tra questi, uno dei più grandi è Manfredi che dopo una vita di peccati, come lui stesso dice ― “orribil furon li peccati miei” ―, con un movimento del suo cuore all’ultimo momento della vita di volge a Dio piangendo ― “io mi rendei, piangendo, a quei che volontier perdona” ― e si salva. Questo sentimento dell’ultimo momento ritorna poi più volte. Uno è Buonconte da Montefeltro, al V canto, che Dante incontra, mettendosi a parlare con lui come due che si sono lasciati da poco ―...questa continuità tra il mondo della Terra e il mondo del Purgatorio ― e gli dice appunto: “Qual forza o qual ventura ti traviò sì fuor di Campaldino”, come uno che incontra un amico, un conoscente sulle nostre strade. E quello risponde che nell’ultimo momento della sua vita, ferito e sanguinante giunge sulle rive dell’Archiano, si rivolge a Dio e con una sola lacrima di pentimento viene

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salvato. Vengono un angelo e un diavolo alla fine a contendersi la sua anima ma, siccome lui morendo ha pronunciato il nome di Maria e ha versato una lacrima di dolore, di pentimento, è salvo. Il diavolo dice: “Tu te ne porti di costui l'etterno (cioè la parte eterna, l’anima) per una lagrimetta che 'l mi toglie”. Questa piccola lacrima è bastata all’ultimo momento. Questa circostanza, che torna più volte nella cantica, è importante perché sottolinea questa suprema gratuità dell’amore di Dio e del perdono, che si riversa su tutti, sui primi e sugli ultimi, come del resto racconta il Vangelo nella parabola dei lavoratori dell’ultima ora, quelli che arrivano nella vigna e lavorano solo un’ora però vengono pagati anche loro come gli altri. Cosa di cui i benpensanti non sono mai convinti. Ma la misura divina è diversa dalla nostra e Dante lo sottolinea più volte come anche il valore della debolezza davanti a Dio. Loro chiedono sempre aiuto dalle preghiere dei vivi, come Manfredi che dice di andare dalla figlia perché preghi per lui, e così fanno tutti. Si nota che sono quasi tutte donne queste a cui si chiedono le preghiere: la moglie, la figlia o la vedova. Perché la donna era l’anello, punto debole della società allora, come lo è stato per secoli, ma questo vuol significare la potenza debole sul cuore di Dio. Così abbiamo la vedovella al freno di Traiano nell’esempio di umiltà rappresentato nella cornice dei superbi, dove il grande imperatore parte per la guerra e c’è una vedovella al freno ― “e una vedovella li era al freno” ―; questo diminuitivo “vedovella” vuol fare ancora più debole, più piccola questa creatura che chiede giustizia per il proprio figlio. L’imperatore ha le bandiere al vento, è pronto per partire e pensa che lo farà qualcun altro per lui; ma la donna insiste e alla fine Traiano si ferma e dice: “giustizia vuole e pietà mi ritene”. Per questo gesto, tra l’altro, Traiano si salverà poi. E questa piccolezza della donna, della vedovella come di tutte le altre, è importante perché significa la potenza che hanno i piccoli, quella potenza particolare che non è la forza che può avere un uomo, magari al massimo della sua grandezza: la forza per Dio è un’altra cosa, è la forza del cuore. Queste due linee è importante ricordarle, perché fanno parte di tutta l’atmosfera del Purgatorio.

Ma come ha ordinato Dante i vari peccati del Purgatorio nelle cornici?

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Mentre nell’Inferno la divisione viene fatta secondo l’etica aristotelica, come cita Virgilio nell’XI dell’Inferno, che va secondo la giustizia, nel Purgatorio la divisione è fatta in modo diverso e ogni angelo proclama ad ogni cornice una delle beatitudini evangeliche e la virtù che si proclama è la virtù che perviene a quella beatitudine, quando si dice appunto: “beati i poveri di spirito, beati i mansueti, beati i pacifici”. Quella è la virtù che viene proclamata. Non c’è né una di virtù aristotelica, tra queste, sono molto di più, vanno oltre la giustizia. Perdonare chi ci uccide, come fa Stefano nella cornice dei pacifici, non è una cosa di giustizia, come potremmo immaginare, è più che pacifico: qui si va ad una misura che oltrepassa di molto il dovuto, la giustizia dà a ciascuno il suo e non si conta più, si va molto al di sopra di questo. E così in tutte le beatitudini che sono come la tavola, il manifesto del cristianesimo nel mondo antico, che rovesciò i cardini stessi di quell’ordine, perché dove si proclamano beati i piangenti, i perseguitati, i miti, i poveri, gli umili si rovescia completamente il concetto del mondo antico dove felice è il potente, il grande, il ricco. Del resto tuttora è così se si guarda alla comune concezione della vita dell’uomo. Ma il Vangelo predica un’altra felicità. E questa, come Dante appunto, e non per niente, fa proclamare ad ogni cornice dall’angelo, è invece l’economia di questo regno del Signore che a questo mira; e infatti su queste beatitudini sono improntate, in fondo, il tono, la misura, la dolcezza, anche la forza di queste scene purgatoriali. Quella del martirio di Stefano, ad esempio, è una delle più belle rappresentate nel Purgatorio.

E su queste beatitudini chiudo il mio intervento.

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Domande

Volevo riprendere il tema del viaggio, chiedendole un parallelo tra il viaggio avventuroso e oltre la realtà che compie Dante con quello che compie Ulisse.

Si può fare il parallelo tra come va Ulisse al Purgatorio, a quella spiaggia dove arriva poi anche Dante, facendo un percorso diverso, ma arrivando alla stessa meta. Ulisse va contando sulle grandi forze proprie dell’uomo, “per seguir virtute e conoscenza”, però con queste, che sono certamente una prerogativa dell’essere umano, indiscutibile, lui tenta l’oceano, il grande oceano, che è il simbolo dell’infinito, violando, coscientemente il decreto divino. E lui lo dice: “dov'Ercule segnò li suoi riguardi, acciò che l'uom più oltre non si metta”. Quindi c’era un limite, che lui sa di violare. Ulisse tenta l’affermazione di se stesso senza riconoscere qualcosa che possa porgli un freno, non accetta un limite. Vuole da sé raggiungere quell’infinito di cui si sente degno. Ma viene travolto. La differenza di Dante si vede ed è scritta, sapendocela leggere, nelle righe dei primi canti del Purgatorio. Perché l’Ulisse dell’Inferno non dà commento, l’acqua lo travolge e non c’è nemmeno un verso di commento, il canto si chiude su questi versi. Nel Purgatorio arriva la nave dell’angelo, che fa lo stesso percorso di Ulisse, perché parte dalle foci del Tevere, dove raccoglie le anime e va direttamente; Ulisse parte da Gaeta, ma siamo sulla stessa rotta. Arriva l’angelo e Virgilio lo indica a Dante e dice

“Vedi che sdegna li argomenti umani, sì che remo non vuol, né altro velo che l'ali sue, tra liti sì lontani”.

Insomma, non usa mezzi umani, né remi, come i remi di Ulisse ―“dei remi facemmo ali al folle volo” ― e quindi questo angelo sdegna il mezzo dell’uomo e arriva. Un accenno ad Ulisse c’è già nel I canto, quando arrivano sulla spiaggia:

“Venimmo poi in sul lito diserto,che mai non vide navicar sue acque omo,

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che di tornar sia poscia esperto”.

Quella spiaggia vide qualcuno, ma nessuno che fosse capace di tornare indietro. Quindi c’è un’allusione esatta, precisa ad Ulisse. Anche la stessa parola esperto – “esperto e de li vizi umani e del valore” – è ripreso ad litteram. Poi la dichiarazione di Virgilio e Dante risponde in un certo modo già qui nel Purgatorio. Ma la risposta decisiva la troviamo nel canto X dell’Inferno, quando Cavalcanti dalla tomba infuocata chiede a Dante perché non è con lui anche suo figlio “se per questo cieco carcere vai per altezza d'ingegno”, perché lui immagina che Dante sia lì perché è tanto bravo, e il figlio Guido Cavalcanti non era da meno. Dante risponde

“Da me stesso non vegno:colui ch'attende là per qui mi mena forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”.

Qui credo che si trovi il centro della risposta: Dante, alto d’ingegno (che non gli mancava e lui ne era consapevole) come Ulisse, sceglie però di farsi guidare, al contrario dell’uomo dell’Inferno che va contando su se stesso, senza accettare limiti. Ma lui accetta la guida, si fa piccolo rimproverato, tante volte è trattato come un bambino da Virgilio. Ma appunto rinunciando a questa altezza, di cui era consapevole, perché è l’unica via per toccare quella sponda.

Volevo ricollegarmi al discorso che ha fatto Lei sulla vicinanza di Dante con le anime del Purgatorio, in particolar modo con la frase che dice Virgilio ― “noi siam peregrin come voi siete” ― e volevo chiederLe se, partendo da questo discorso, si potrebbe definire il Purgatorio come la cantica più vicina a Dante, che Dante sente un po’ più sua delle altre.

Non è molto facile rispondere, perché Dante si immedesima tutte le volte, con l’Inferno, poi con il Purgatorio e con il Paradiso. Altrimenti non si scrive grande

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poesia. Lui quando scrive il Paradiso si sente in qualche modo partecipe di questa realtà. Certamente il Purgatorio è la cantica più vicina all’uomo nella sua condizione terrena, l’uomo soggetto a pene, problemi, difficoltà, che nello stesso tempo nutre la speranza, almeno chi la sa coltivare, di arrivare alla fine ad una meta serena. Nel Paradiso, però, Dante un’esperienza l’ha fatta: un’esperienza di conoscenza, di amore e di unione con il Divino, altrimenti quei versi non si possono scrivere. Non si scrive se non di ciò – parlo dei grandi poeti – di cui si ha esperienza. Quindi un’esperienza del Divino certamente c’è stata. Naturalmente come può esser data su questa terra. Sicché non saprei se si possa dire che il Purgatorio è la cantica più vicina. Fino ad un certo punto sì, fino a quella che è la comune esperienza della vita. Poi c’è l’eccezione, che sono i momenti paradisiaci, che tuttavia sono di Dante anche quelli.

Si può dire che in Dante la cultura greco-latina e la cultura cristiana trovino una sintesi, a livello altissimo, a livello poetico, addirittura che può diventare un valore che va al di là della civiltà occidentale?

Non saprei, perché, di fatto, quella che Dante rappresenta è la civiltà occidentale, quella che si è formata attraverso le due grandi tradizioni che lei ricorda, attraverso la lenta lavorazione medievale – la Commedia, appunto, è la fine del Medioevo – ed esprime questa civiltà, non c’è né un’altra. È quella di oggi, dove ancora la carta dei diritti umani si fonda su questa civiltà, nessun’altra esprime l’uguaglianza dell’uomo. È la civiltà che porta questo grande dono della libertà, dell’uguaglianza, del primato dello spirito sulla lettera, che nessun popolo riconosce, se non i popoli di eredità cristiana (e oggi nemmeno quelli, in gran parte). Quindi non credo che si possa dire che la Commedia oltrepassa questa stessa civiltà, allora ci dovrebbe essere un’altra radice ancora...

Io volevo chiedere se si può dire che il nostro modello, il modello della cultura occidentale, può diventare il punto di riferimento mondiale?

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Sì, certo che si può immaginare e lo è già di fatto; perché altrimenti tutti leggono Dante, anche in Vietnam? Perché è una civiltà che effettivamente attrae le altre. Da un punto di vista politico è certamente quella egemone nel mondo, anche se questo non vuol dire che lo sia ancora da un punto di vista spirituale. Però quest’interesse già è un segnale, è una civiltà che lentamente sta diffondendosi. L’idea di uguaglianza fra gli uomini ci vorrà tempo perché sia universale, ma già è dominante nel mondo. La stessa carta dei diritti non è stata riconosciuta da tutti, non tutti, ma quasi tutti.

Volevo riprendere questo discorso alla luce di quanto lei ci diceva prima. Mi ha molto colpito il fatto che Dante, che era una quercia, avesse voluto farsi giunco. E mi ha molto colpito il fatto che la Commedia, pur trattando di argomenti non facili, argomenti mai codificati prima, in realtà fa trapelare una profonda umanità. Dante riesce a caricarla della propria esperienza umana, a rendercela molto familiare, perché parla di cose molto vicine a noi. Forse la Commedia, non tanto quanto particolare istanza dell’Occidente, che Dante esprime, ma forse per l’umanità, per questa familiarità, è apprezzabile da tutti gli uomini di qualsiasi nazione essi siano, ed è una cosa che forse va oltre il concetto di cultura occidentale, e più una cultura dell’uomo, in cui l’uomo si ritrova e ama ritrovarsi e raccogliersi anche spiritualmente. Volevo pregarla di approfondire questo punto.

Hai detto una cosa molto giusta, soltanto che è necessario fare un rovesciamento in questo senso: è vero che quello che attira la grande poesia è l’uomo, perché è quello il centro cui tutti siamo attirati. Ma da dove nasce quest’umanità di Dante? Questo è un po’ il discorso a rovescio; quest’uomo che noi vediamo, in cui ci riconosciamo, questa ricchezza dell’uomo di Dante, con i suoi dolori, le sue pene, le sue tragedie. Quest’idea nasce dall’idea del mondo e dell’uomo che è questa della nostra civiltà. Questo si potrebbe dire al rovescio. Trovare un simile uomo con il suo pianto, la sua speranza, la sua tragedia è proprio dell’uomo della nostra storia, un uomo cristiano. È l’uomo che vive per

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tutta la Commedia, secondo Dante, con questa grande carica di umanità, per cui l’uomo è così prezioso. Perché è prezioso così? Dante lo scrive, quando nel Convivio cita il Salmo: “Che cosa è l'uomo, che tu, Dio, lo visiti? Tu l'hai fatto poco minore che li angeli, di gloria e d'onore l'hai coronato”. Certo la grande dignità dell’uomo, l’angelo somiglia. Questa grandezza dell’uomo, quest’uomo come Dante lo vede è appunto l’uomo della nostra civiltà.

Ci ha parlato del tema dell’esilio nel Purgatorio, ma non possiamo vedere lo stesso tema nell’Inferno, nella condizione dei dannati?

Sì, i dannati sono degli esuli eterni, però. Dante lo dice anche, è un esilio diverso, perché quello del Purgatorio è un esilio in cammino, le anime del Purgatorio sono esuli che vanno verso la patria, con la speranza, la certezza dell’arrivo. Quegli altri sono esuli fermi, per sempre esclusi dalla loro patria. E così Virgilio, rivolgendosi a Stazio: “Nel beato concilio ti ponga in pace la verace corte che me rilega ne l'etterno essilio”. Quindi anche Dante stesso lo chiama esilio, però è un esilio diverso.

Il Purgatorio è anche la cantica dell’arte, si incontrano vari personaggi, artisti di vario tipo e l’arte è un prodotto tipicamente umano. Quali sono i valori e i limiti dell’arte che Dante manifesta nel corso della cantica? Qual è insomma la funziona dell’arte, prodotto tipicamente umano, nella prospettiva eccentrica di Dante che guarda dall’aldilà?

Dante non affronta direttamente il problema nel Purgatorio. Tuttavia c’è questo accompagnamento degli artisti e degli amici, compagni che incontra di frequente nel Purgatorio, cominciando da Casella che dà quasi il tono –giustamente, essendo musicista ― a questa vicenda. E poi troverà i poeti, che sono i suoi amati poeti, nella cornice dei lussuriosi. Dante non si pronuncia in modo esplicito, ma, si capisce dal I canto, l’arte è un accompagnamento nella vita umana, perché segna il gratuito, l’arte è qualcosa che non si compra, che non si

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paga, che non ha un valore commerciale (a parte quelli che vendono i best-seller; ma non è detto che quella sia vera arte), non ha un valore contabile e quindi è una grande forza data all’uomo, come dono di natura. L’arte, come l’ha vissuta Dante, e come appare nel canto iniziale, è un grande dono. C’è un però ed è rappresentato dal rimprovero di Catone, quando tutti si fermano ad ascoltare Casella: cioè anche l’arte, che è una delle cose più grandi e belle proprie dell’uomo, non dev’essere il fine, come tutte le altre cose belle della vita. Sono date all’uomo per compagnia, conforto, consolazione, come appunto l’amicizia o altro, ma non dev’essere il fine. Quando loro si fermano a sentire Casella vengono rimproverati: “piccolo fallo” dice Dante stesso, però è un fallo, che consiste nel dare a questo dono, che è stato fatto all’uomo, un valore assoluto.

Volevo approfondire la figura di Virgilio. Il suo è solo un ruolo di guida o anche per lui è un viaggio di formazione, un cammino spirituale, visto che dal Limbo visita il Purgatorio (anche se poi si dovrà fermare)?

Virgilio effettivamente ha la funzione di guida, come si vede fino all’ultimo da tutto quello che lui dice e fa. Quando dice a Dante “tratto t'ho qui con ingegno e con arte”, lui spiega di aver dato tutto quello che poteva, nei limiti della ragione umana. E poi lo affida a Beatrice. Che anche Virgilio possa aver avuto un qualcosa di più da questo viaggio in cui è uscito dal suo Limbo e non solo ha percorso l’Inferno, ma anche il regno dei salvati, questa è una cosa che noi possiamo supporre. Molti dicono: perché Dante non ha salvato Virgilio? in fondo poteva farlo. Ma Virgilio rappresentava qualcosa e questo qualcosa era fermo, appunto, al di là del limite: rappresenta questa ragione umana che appartiene a tutti i grandi filosofi che sono nel Limbo. Per questo non poteva. Che poi il Virgilio storico fosse salvato, Dante ne era convinto. E si potrebbe osservare che Dante, non potendo salvare Virgilio, salva il figlio Stazio, che si chiama “figlio dell’altro”, “per te poeta fui, per te cristiano” e quindi c’è una maniera allusiva di indicare la possibile salvezza dell’altro. Che Virgilio, nella Commedia, acquisti, salendo nel Purgatorio, un dono in più rispetto alle anime

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del Limbo è probabile. È una nostra ipotesi, che ci è offerta però dal verso di Dante, ma resta nel campo delle ipotesi.

Si può dire che Stazio, poeta, essendo in cammino, ci rappresenta l’arte piegata al valore più grande? Mi ha sempre colpito questo particolare: Dante, quando arriva alla cornice dei lussuriosi, deve passare il fuoco e proprio non vuole. Gli viene ricordata Beatrice e questo lo fa sussultare, però per passare, per lo meno a me pare, si deve mettere avanti Virgilio e dietro Stazio, e mi sembra che l’arte diventi proprio compagnia. Così era anche l’occasione per chiederle che risvolto ha l’affettività delle anime con Dante qui nel Purgatorio?

Sono due cose diverse. Sulla prima avrei qualche dubbio sul fatto del Virgilio avanti e Stazio dietro, che sia l’arte a far passare la muraglia mi sembra difficile da ipotizzare. Che certamente l’arte accompagni l’uomo, con il suo alto valore spirituale, questo è certo. Non per niente Dante le ha dedicato la vita. Però anche il ricordo che fa Stazio ― “per te poeta fui, per te cristiano” ― indica come l’arte stessa, quella di Virgilio, appunto, spinge Stazio, in fondo, alla salvezza. Quindi c’è questa funzione educatrice dell’arte che gli antichi hanno sempre immaginato. Per loro non esisteva l’arte per l’arte, la poesia per la poesia. La poesia aveva sempre uno scopo, serviva a qualche cosa e, infatti, Dante scrive la Commedia per servire a qualche cosa, per essere di aiuto al popolo, alla gente, agli uomini, perché trovassero la propria strada. Quindi quest’idea dell’arte educatrice è propria sia della sua età, sia di Dante in particolare. In forma precisa, poi, che ci sia quest’idea dell’accompagnamento, francamente non mi era mai venuto in mente, ma non mi sembra che corrisponda alla grande difficoltà di passare il muro di fuoco, perché quel muro, che è l’ultimo muro da valicare, il muro dei lussuriosi, appunto, mi sembra che non si possa valicare ― nell’ottica dantesca ― con le forze dell’arte.

Alla fine del Purgatorio, quando Dante arriva nel Paradiso terreste, si

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confessa, con Beatrice. Anzi, Beatrice lo sgrida e lui si vede costretto a confessare. Però Dante aveva già percorso tutte le sette cornici e le sette P sulla fronte gli erano state cancellate. Cos’è il peccato di cui Dante ancora si confessa? Fa parte solo del simbolismo che vedremo fra poco in tutta la processione finale del Paradiso terreste, o c’è veramente qualcosa che Dante deve ancora confessare? E questo ha a che fare con quello che dicevamo prima di Ulisse e quindi di Dante quercia che si piega per diventare giunco?

Secondo me, Dante deve semplicemente confessare. Gli manca quel passo, le lacrime del pentimento e l’ammettere la propria colpa. È quello che manca. Quello che gli altri fanno lungo la montagna, la lacrima di Bonconte, il pianto dell’uno o dell’altro, di Manfredi, quello manca a Dante, questa è la scena di fronte a Beatrice, quel passo manca a Dante. Nella scena straordinaria fa quello che i suoi personaggi hanno fatto, magari all’ultimo momento della vita. Non è che ci siano altri peccati intorno. È l’unica cosa che manca. E, infatti, lo dice Beatrice stessa, qui si passa il Lete, cioè si va sull’altra sponda del Paradiso terreste, soltanto pagando, come pedaggio, le lacrime del pentimento “sanza alcuno scotto di pentimento che lagrime spanda”. Questo mancava.

Nel Purgatorio si notano molte più figure femminili che nell’Inferno. Come si concilia questa cosa con la concezione medievale della donna sede del peccato?

Quest’idea della donna sede del peccato mi giunge nuova, questa non è la concezione medievale della donna. La donna poteva essere, come Eva, origine del peccato, ma non sede del peccato. Anzi, il cristianesimo è quello che ha rivalutato la donna, la figura femminile, dandole un’importanza straordinaria. Basti pensare a Maria, la Madonna, e tutte le altre sante che si sono sempre state. Quindi può essere questa la ragione. Questo dipende da molte circostanze. Forse da quell’atmosfera del Purgatorio, che delineavo prima, dove si inserisce la figura femminile nella sua dolcezza. Per lo meno così dovrebbe essere la donna,

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poi non si sa bene cosa succeda. Ma questo carattere, tipicamente femminile, di dolcezza, di mitezza, che Dante ha impresso sulla cantica, porta con sé, piuttosto, l’apparire di diverse donne nel Purgatorio.

Qual è il movente che porta Dante da una parte ad essere superbo nella scrittura e dall’altra a purificarsi e a pentirsi?

Non c’è questa differenza. Il Dante autore, il Dante vero, che era superbo, si trasforma, accetta questa cosa, e questo lo porta, appunto, a scrivere il suo poema. Lui scrivendo il poema è già su quella strada. Come farebbe altrimenti a scrivere il canto di Ulisse, quello di Farinata, quando dice a Cavalcanti “Da me stesso non vegno”? È la stessa persona, non c’è differenza. Non è che Dante fosse un gran superbone, che invece nella Commedia si rappresenta come un bravo e umile bambino. È la stessa persona. Altrimenti non si riesce a scrivere quello che ha scritto, perché la scrittura porta il segno della persona, del suo cuore. Non c’è differenza: il Dante superbo, quando scrive la Commedia, ha già fatto il passo decisivo. Certo da perfezionare, perché verso il Paradiso, Dante matura, si perfeziona, ma il primo passo è già fatto.

Catone scaccia via le anime quando Casella ha cominciato a cantare “Amor che ne la mente mi ragiona”, che è una canzone filosofica. Perché Dante mette sulle labbra di Casella proprio questa canzone? Perché gli entrava bene nell’endecasillabo questo verso o c’è qualche motivo più sostanziale?

Tutte le canzoni si aprono con l’endecasillabo, quindi non c’era problema da quel punto di vista. A questo punto c’è qualcosa, perché in quella canzone, che canta appunto dell’amore, Dante si identifica in qualche modo, si identifica nella sua poesia giovanile, questo canto dell’amore, come lui lo vedeva quando scriveva nello Stilnovo. E’ quindi una delle più amate delle sue canzoni. Questo canto d’amore però è quello dal quale non bisogna lasciarsi irretire.

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Probabilmente c’è il superamento delle cose più care e più belle, quelle che l’uomo non può tenere come primo fine: sono sempre il secondo. Quindi sceglie una delle canzoni più importanti e care al suo cuore, come quella dell’amore, filosoficamente intesa per altro, per far vedere come questa incanti tutti ma deve essere lasciata.

1 Anna Maria Chiavacci Leonardi è docente emerita di Filologia Dantesca all’Università di Siena. Ha pubblicato un volume critico sul Paradiso (Lettura del Paradiso dantesco, Firenze 1963) e ha curato l’edizione della Commedia edita nella collana Meridiani Mondadori, Milano 1991. Quest’ultimo commento è stato riproposto anche in versione scolastica da Zanichelli, Bologna 2001.

2 A. M. Chiavacci Leonardi, La guerra de la pietate. Saggio per una interpretazione dell’Inferno di Dante, Liguori, Napoli 1979.

3 A. M. Chiavacci Leonardi, La guerra..., cit. 4 Ibidem, p. 151-152.4 Ibidem, p. 151-152.5 Ritroviamo letture contrastanti già nei primi commentatori. Alle parole iniziali di Ulisse: “l’ardore / ch’i’

ebbi a divenir del mondo esperto”, così chiosava il Buti: “Manifesta qui la colpa sua, imperò che questo amore non era da virtù; ma da superbia: imperò che questa esperienza cercava per sapere di più di tutti gli altri, e per potere meglio ingannare altrui e soprastare gli altri”. Opposta è l’opinione di Benvenuto da Imola: “Quod vir magnanimus, animosus, qualis fuit Ulixes, non parcit vitae, periculo vel labori, ut possit habere experientiam rerum, et potius eligit vivere gloriose per paucum tempus quam diu ignominiose”.

6 A. M. Chiavacci Leonardi, La guerra..., cit., p. 161.7 Così scrive ad esempio il Fubini sotto la voce Ulisse nell’Enciclopedia Dantesca: «I riguardi non sono

divieti (ma avvisi) e tanto meno il segno della volontà divina».8 A. M. Chiavacci Leonardi, La guerra..., cit., p. 162.9 A questo proposito si confrontino le parole di san Tommaso: “Bisogna che l’uomo freni sapientemente

questo desiderio [cioè di conoscere la verità], per non aspirare in modo esagerato alla cognizione delle cose” (S.T. IIa IIae, q.166a. 2).

10 Questi versi sono ben commentati da un passo di Purg. XXX 109-17: “Non pur per ovra de le rote magne, / che drizzan ciascun seme ad alcun fine / secondo che le stelle son compagne, / ma per larghezza di grazie divine, / che sì alti vapori hanno a lor piova, / che nostre viste là non van vicine, / questi fu tal ne la sua vita nova / virtualmente, ch’ogne abito destro / fatto avrebbe in lui mirabil prova”.

11 Ibidem pp. 162-166.12 Ibidem p. 167.13 Ibidem pag. 170.14 Ibidem pag 167.15 Cv. III, 15, 5.16 Primo Levi, Se questo è un uomo, Einaudi, Torino 1971.