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Cesit Centro Studi sistemi di trasporto collettivo “Carlo Mario Guerci” Piazza Bovio 14 80133 Napoli
Working paper series n. 20 2011
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I CRITICAL MANAGEMENT STUDIES: APPLICABILITA’ ALLA P.A. ITALIANA
Paola Adinolfi
Premessa A fronte dei ponderosi provvedimenti legislativi che hanno riformato in senso manageriale la
Pubblica Amministrazione (PA) italiana, il giudizio sulle prestazioni delle nostre organizzazioni
pubbliche non sembra significativamente migliorato. Il susseguirsi continuo di riforme e
controriforme tradisce l’insoddisfazione sui risultati ottenuti e pone sul tappeto il problema
dell’efficacia riformatoria. Tale constatazione fa emergere la necessità di interrogarsi sul potenziale
contributo al rinnovamento della PA italiana che può venire da nuovi approcci teorici – quale la
prospettiva dei Critical Management Studies (CMS) – totalmente antitetici rispetto ai modelli
manageriali dominanti.
La maggior parte dei contributi di matrice aziendalistica si sofferma su ciò che le teorie e gli
strumenti organizzativo-gestionali avrebbero potuto fare per riformare la PA o sui modi in cui
potrebbero ancora essere utilizzati per rendere le organizzazioni pubbliche più efficaci ed efficienti.
Tali istanze di natura eminentemente normativa e prescrittiva, a parere di chi scrive, potevano avere
rilevanza nella fase iniziale delle riforme (collocabile nella metà degli anni ’90), perché offrivano
l’occasione di studiare se e come le culture organizzative del privato fossero adattabili al pubblico.
Ma questo lavoro di adattamento si è ormai realizzato ed abbiamo oggi a disposizione una massa di
esperienze concrete dalle quali si può evincere il reale grado di influenza dei saperi manageriali
sulla riforma della PA, e gli esiti concreti degli interventi attuati.
Il presente paper riporta i risultati di una meta-analisi sugli studi aziendalistici italiani degli
ultimi trent’anni, volta ad individuare gli orientamenti che hanno ispirato il processo di
managerializzazione del settore pubblico italiano - sia a livello dei provvedimenti concretamente
attuati che a livello degli studi teorici - al fine di verificare se l’approccio dei CMS può fornire un
utile contributo concettuale per interpretare e orientare i processi di riforma della nostra PA.
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1. Metodologia di indagine
Il lavoro si caratterizza per un’analisi di secondo livello della produzione scientifica sull’azienda
pubblica degli ultimi trent’anni. L’universo di riferimento è rappresentato dagli studi di matrice
economico-aziendale, ovverossia focalizzati sulle logiche di funzionamento delle aziende e sulle
condizioni che ne consentono l’equilibrio duraturo nel tempo. Viene accolto nell’analisi un concetto
ampio di azienda pubblica, che comprende, oltre agli istituti pubblici territoriali e agli istituti ad
essa collegati, tutte le forme di attività economica, dotate di autonomia patrimoniale o finanziaria,
che rientrano nell’ambito dell’intervento pubblico, nonché le organizzazioni non orientate al
profitto. Per comodità espositiva tale variegato insieme di istituti viene indicato sinteticamente col
termine PA.
Sono presi in esame sia le opere monografiche degli ultimi 30 anni, sia gli articoli apparsi negli
ultimi 6 anni sulle principali riviste di matrice aziendalistica (appendice 1).
Per quanto riguarda l’identificazione del campione di riviste, si sono selezionate tre delle otto
riviste risultate più lette secondo un’indagine della Società Italiana per l’Economia di Impresa1,
Economia&Management, Sinergie, Sviluppo&Organizzazione, oltre alla Rivista Italiana di
Ragioneria e di Economia Aziendale, e alla rivista specializzata Azienda Pubblica.
I contributi di operatori del settore pubblico, consulenti o ricercatori presso istituzioni non
accademiche sono stati presi in considerazione solo se inseriti nel dibattito accademico (per il fatto
che in Italia, analogamente ad altri Paesi, lo sviluppo di una cultura di amministrazione pubblica
autonoma e originale è di matrice accademica). Si sono inoltre presi in considerazione gli
accademici di altre aree disciplinari che hanno comunque apportato un contributo in chiave
aziendalistica allo studio della PA.
Nel complesso l’universo analizzato (riportato in appendice) è costituito da 770 unità, di cui 527
opere monografiche e 243 articoli.
Per quanto riguarda l’analisi dei contributi empirici, si è proceduto non già ad una disamina delle
scelte tecniche e delle soluzioni operative concretamente adottate dal riformatore pubblico, ma ad
un’analisi critica degli orientamenti di fondo, come emergono dalla meta-analisi. Il materiale
empirico disponibile è, per la verità, piuttosto esiguo, non perché non siano state numerose - a
dispetto dell’idea diffusa di un sostanziale immobilismo e di una chiusura all’innovazione della
nostra PA - le iniziative di modernizzazione del settore pubblico, ma perché sono pochi gli studi sul
campo, e, in taluni casi, basati su descrizioni di progetti e programmi, piuttosto che su rigorose 1 Lazzeretti L., 2001. “Metodologie statistiche e management research: una content analysis comparativa su alcune riviste manageriali”. Sinergie, Vol. 19, n.55.
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valutazioni delle modalità attuative e dei risultati delle riforme. Si sono dunque utilizzate come base
per la ricognizione non soltanto le indagini empiriche, ma qualsiasi contributo, tra quelli esaminati
nella meta-analisi, contenente un riferimento al dato empirico.
Anche per quanto riguarda l’analisi dei contributi teorici, si è proceduto non già ad una rassegna
sintetica dei contenuti e delle conclusioni cui queste addivengono, ma all’individuazione delle idee
di fondo sul processo di rinnovamento gestionale e organizzativo della PA.
Come procedura per la rilevazione dei dati, si è fatto ricorso all’analisi del contenuto come
inchiesta2, che si avvale, per registrare le unità di classificazione, di una scheda di analisi semi-
strutturata, simile ad un questionario con domande chiuse o aperte. L’identificazione dei criteri di
classificazione è stata effettuata a seguito di un primo esame esplorativo del materiale oggetto di
esame, e ha consentito di individuare due poli che catalizzano le diverse categorie concettuali: uno
vicino alla tradizione più ortodossa del New Public Management (NPM), ed uno vicino al
paradigma emergente della New Public Governance (NPG).3 La compilazione delle schede di
analisi è stata effettuata in maniera indipendente da due ricercatrici, appositamente formate allo
scopo: le divergenze emerse nelle classificazioni proposte (relative al 14% dell’universo esaminato)
sono state appianate nel corso di riunioni tenute con l’Autrice.
Per esigenze di spazio, non si espongono in questa sede i risultati complessivi dell’analisi (in
corso di pubblicazione)4; ci si limita ad illustrare gli orientamenti seguiti nelle riforme della PA
italiana, individuando tre coppie di coordinate culturali strettamente connesse
(tecnicismo/universalismo; razionalismo/individualismo; autoritarismo/legalismo), per poi
sintetizzare nella discussione finale gli orientamenti teorici più recenti negli studi sull’azienda
pubblica, rispetto ai quali si valuta il possibile apporto dei CMS.
2.1. Riduzionismo tecnicistico e universalismo
Gli interventi di riforma in senso aziendale del settore pubblico sono stati tipicamente intesi
come applicazione meramente tecnica del paradigma dell’impresa. Piuttosto che valorizzare le
peculiarità delle aziende pubbliche, molti provvedimenti hanno generato un’attenzione sbilanciata
verso le variabili economico-finanziarie. Parecchie aziende pubbliche hanno finito per assumere
connotati di organizzazioni dedite alla ricerca del pareggio di bilancio come fine istituzionale, con
riflessi profondi sugli assetti organizzativi nei quali hanno prevalso, quale tensore di orientamento
2 Lazzeretti, 2001, cit. 3 Lo schema tipo delle schede di rilevazione è pubblicato su Adinolfi (2005). 4 Adinolfi P., 2010. Idee, percorsi, scenari per una New Health Governance. McGraw Hill, Milano.
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delle scelte aziendali, le matrici tecnico-contabili (sede privilegiata della conoscenza delle regole
del gioco economico-finanziario).
Alla base dell’impostazione paneconomicistica vi è l’assunto di scientificità e neutralità della
gestione aziendale, assurto a principio guida del New Public Management (NPM) (ma già presente
nell’impalcatura weberiana alla base della Public Administration classica). Tale visione sembra aver
trovato nel nostro Paese un milieau particolarmente favorevole in relazione alla forte reazione
antipartitocratica innescatasi nel sistema amministrativo, che ha prodotto un terreno fertile (a livello
ideologico) per un’aziendalizzazione intesa in senso strettamente tecnicistico.
In questo senso va letta l’introduzione di nuovi modelli organizzativi improntati alla separazione
tra le responsabilità di indirizzo e controllo (attribuite alla sfera politica) e le responsabilità
gestionali (di competenza dell’amministrazione). Tale separazione, peraltro, è rimasta circoscritta al
livello funzionale, non venendo rafforzata da misure incidenti sul livello organizzativo-strutturale,
ad esempio mediante l’attribuzione ad organismi terzi del potere di nomina, revoca e valutazione
dei dirigenti. Il potere di nomina è, invece, stato attribuito agli organi di direzione politica, ai quali
si è così assicurata, grazie al rapporto fiduciario tra politici e amministratori, la guida effettiva
dell’amministrazione.
Da un lato, dunque, l’ispirazione tecnicistica delle linee di riforma introdotte ha generato una
focalizzazione eccessiva sulle variabili economico-finanziarie; dall’altro lato, questa, dissolvendosi
di fronte ad un contesto di incentivi a conformarsi a modelli politici di tipo tradizionale5, è stata
ampiamente tradita nella prassi, dando luogo ad una “pratica stracciona e confusa di spoil system,
capace di combinare fedeltà labili e deficit di competenze professionali”6, finendo per pregiudicare
il fine dell’autonomia e della neutralità manageriale.
In linea con l’assunto di scientificità dell’attività amministrativa, il nostro riformatore pubblico
sembra essersi ispirato ad una visione universalistica e ottimizzante della modernizzazione delle
organizzazioni pubbliche, anch’essa di matrice weberiana. Ciò si evince dall’ampio ricorso a
provvedimenti globali e omogeneizzanti, come le leggi quadro, che si propongono di ridefinire un
intero settore o di produrre cambiamenti generalizzati, simultanei, uniformi. Le esperienze attuate
dimostrano come, in realtà, le norme di carattere generale e indifferenziato non sono state in grado
di attivare sempre le singole organizzazioni e i singoli dirigenti, dando luogo a patterns a macchia
di leopardo7.
5 Illustrati in Adinolfi (2005). 6 Sgroi, 2007, p.21. 7 Costa G., 1997. Economia e direzione delle risorse umane. Utet, Torino, p. 529.
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Connesso alla concezione universalistica è il cosiddetto “istituzionalismo normativo”,
impostazione derivante dal razionalismo neoilluminista, che assume l’esistenza di una relazione
causale deterministica tra assetti istituzionali e comportamenti reali. Sotto l’influsso di tale
concezione, assai radicata nella cultura giuridica, il campo dell’innovazione gestionale è stato
limitato a quanto è incorporabile in atti formali.
Un esempio è costituito dagli interventi in materia di trasparenza amministrativa: il
procedimento amministrativo è rimasto un concetto giuridico, piuttosto che organizzativo, che
individua soltanto una parte dell’attività degli uffici e “il cui esito non coincide con lo svolgimento
di un servizio al pubblico”8. Tutto ciò ha favorito l’innescarsi di comportamenti orientati
all’adempimento piuttosto che alla funzionalità.
Si è rimasti all’interno del paradigma burocratico anche quando si sono introdotti concetti e
strumenti che avrebbero dovuto sancirne l’oblio, come illustra Panozzo9 con riferimento al controllo
di gestione. La cornice giuridica entro cui tale innovazione è stata calata ha costituito una
condizione fortemente ostativa di una sua efficace implementazione, inibendone un’espressione
integrale come sistemi tecnici coerenti e autonomi per il governo delle organizzazioni complesse: lo
strumento gestionale, definito attraverso norme di legge, e, dunque, rimosso dal dominio flessibile e
contingente della conoscenza manageriale per essere riportato al rigore universalistico tipico delle
categorie giuridiche, è diventato un adempimento burocratico.
2.2. Ossessione per la performance e individualismo organizzativo
Numerose sono le innovazioni introdotte basate sulla scelta di imperniare il funzionamento delle
amministrazioni su sistemi di programmazione e controllo formalizzati: dalle norme che
introducono il controllo di gestione negli Enti Locali e nelle aziende sanitarie, a quelle che
regolamentano le Carte dei Servizi; da quelle che istituiscono i nuclei di valutazione, a quelle che
collegano parte delle retribuzioni alla valutazione dei risultati prodotti, introducendo logiche di
management-by-objectives. Alla base risiede una visione semplificatoria e riduzionistica dei
processi decisionali, tipica dei modelli taylorista e weberiano, che assume l’identificabilità a priori,
in maniera aproblematica e consensuale, degli obiettivi e la disponibilità di risorse (strumentali e di
conoscenza) adeguate a raggiungerli; ipotizza inoltre la prevedibilità dell’ambiente e la possibilità
per un singolo attore, o gruppo di attori, di indirizzare l’organizzazione verso gli obiettivi
perseguiti. 8 Rebora G., 1995. Organizzazione e politica del personale nelle amministrazioni pubbliche, Guerini, Milano. 9 Panozzo F., 2000. “Management by decree. Paradoxes in the reform of the Italian public sector”. In Gherardi S., Jacobsson B. “Managerialese as the Latin of our Times: Reforming Italian Public Sector Organizations”. Scandinavian Journal of Management. Special issue. 16(4).
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Tale orientamento non ha prodotto, secondo la maggior parte delle analisi empiriche, “un
significativo miglioramento della gestione, della sua capacità di adeguarsi all’evoluzione
dell’ambiente, del grado di successo nel raggiungere gli obiettivi. […] [I sistemi di misurazione]
sono diventati una sovrastruttura che, invece di aiutare la gestione, ha introdotto ulteriori elementi
di rigidità”10. Non sorprende dunque che nella realtà dei fatti la PA abbia continuato ad operare e “si
sia sviluppata nell’ambito di logiche molto lontane dalla direzione per obiettivi e utilizzando
strumenti di gestione ben diversi dai sistemi di programmazione e controllo”11.
Questo è attribuibile sia alla difficoltà degli organi di vertice ad individuare obiettivi e
programmi su cui valutare i dirigenti, sia alla resistenza da parte dei dirigenti stessi ad assoggettarsi
a processi valutativi che comportano l’affidamento ad altri di un giudizio su se stessi suscettibile di
una ricaduta sulla sfera giuridica ed economica. In sede contrattuale si è quindi intrapreso un
percorso volto ad allontanare i rischi derivanti dall’attivazione di un processo valutativo, agendo
sulla procedimentalizzazione dello stesso e sugli effetti del giudizio finale. Come risultato, sono
venute a mancare molte delle peculiarità di cui la norma ha dotato le figure dirigenziali rispetto al
resto del personale pubblico12, impedendo loro una reale assunzione di responsabilità manageriali.
L’orientamento alla performance si è accompagnato ad uno spiccato individualismo
organizzativo: le misurazioni di performance, infatti, sono generalmente circoscritte a singole
organizzazioni e singoli uffici; ben pochi sono i progetti di valutazione relativi a più ampi sistemi di
aziende pubbliche.
L’orientamento ai risultati connesso al rilancio della natura aziendale ha portato le
organizzazioni pubbliche a richiudersi su se stesse e sulla propria performance, concentrandosi sul
rafforzamento delle interdipendenze e dell’integrazione “interna” a discapito di quella “esterna”.
Piuttosto che contribuire alla funzionalità complessiva dei sistemi territoriali, le innovazioni
gestionali si sono focalizzate sul funzionamento delle singole organizzazioni e dei servizi da queste
erogati; i problemi di integrazione e coordinamento che queste hanno puntato a risolvere sono
rimasti circoscritti in ambiti intra-organizzativi piuttosto che inter-istituzionali e difficilmente hanno
previsto un ruolo significativo per i soggetti esterni (utenti, altre organizzazioni collegate ecc.).
Come osserva Borgonovi13 con riferimento alle public utilities, “la concezione istituzionale di
servizio pubblico che ha portato all’affermazione della proprietà da parte dell’ente locale ha ridotto
10 Borgonovi , 2002, p. 304. 11 Rebora, 1995, p. 84. 12 Caporale A., 2007. “Il dirigente pubblico: professionalità, organizzazione, ordinamento normativo”. In Sgroi (2007, p.95). 13 Borgonovi E., 1994. “Soggetti pubblici e soggetti privati nel governo delle attività economiche. Azienda Pubblica, Vol. 7, n.2, p.XII.
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il numero dei soggetti cui è attribuito il potere decisionale reale, ha diffuso una logica
autoreferenziale secondo cui i cittadini sono destinatari delle politiche dei pubblici servizi e non
coloro che sono portatori di istanze da cui partire per poter definire la quantità e la qualità della
risposta, ha favorito la ricerca della specializzazione settoriale, secondo aree di attività, e non la
ricerca di integrazione con tutte le altre aree di intervento del comune”.
Tale impostazione ha avuto l’effetto di accrescere la propensione all’autoreferenzialità tipica
delle nostre PA, in un contesto dove, data la presenza di una pluralità di centri decisionali in
rapporto non gerarchico, l’idea di rete dovrebbe essere connaturata alle politiche (queste per
definizione dovrebbero essere interistituzionali). Si è così inficiata l’attuazione di interventi, che
pure la normativa prevede, volti allo sviluppo di forme di cooperazione interorganizzativa e di
modalità di gestione per processi: ad esempio, l’introduzione, prevista dalla normativa, di
aggregazioni organizzative di notevole ampiezza, come l’area o il dipartimento, è avvenuta
tipicamente mediante l’aggregazione di unità operative preesistenti, anziché attraverso
l’aggregazione di parti di tali unità operative secondo una logica processuale: piuttosto che
“tagliare” trasversalmente l’organizzazione nel rispetto delle modalità di sviluppo dei processi, si è
riprodotto, anche se su una scala più ampia, il modello specialistico-funzionale14.
2.3. Centralismo autoritario e legalismo
Sotto l’influsso dell’istituzionalismo normativo, il problema dell’innovazione gestionale nel
nostro Paese è stato tipicamente considerato come un problema di modificazione top-down degli
assetti normativo-istituzionali, o, a livello micro, degli assetti strutturali-formali.
Mentre i Paesi anglosassoni hanno lasciato che il diritto comune regolasse la vita e i rapporti
della PA, l’Italia ha fatto ricorso ad una normazione particolare - il diritto amministrativo - che,
seppure ispirata al principio di tutelare dalle interferenze politiche la PA, ha finito per conferire a
questa e ai suoi funzionari uno statuto di alterità e di sovra-ordinazione rispetto ai cittadini (oltre a
non raggiungere, come già rilevato, il fine di protezione dalla politica), finendo per essere la
proiezione solipsistica di uno Stato-sovrano assoluto15. Si è venuta così a creare una situazione in
cui “l’individuo è cittadino nell’ambito costituzionalmente garantito, ma rimane suddito nei
confronti dell’amministrazione, che esercita la più ampia discrezionalità nel fare o non fare, e nel
fare oggi o domani”16.
14 Cantarelli, 1999. 15 Sgroi, 2007, p. 29. 16 Cassese S., 1998. “L’alta dirigenza italiana: un mondo cristallizzato. Politica del diritto, 1, p.60.
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L’idea di un governo onnipotente che dall’alto governa in maniera mono-razionale si rinviene
anche a livello di singole organizzazioni, dove il manager è concepito, tolemaicamente, come
l’astro intorno a cui ruota tutto l’universo sociale e istituzionale, un eroe monolitico e distante che
alloca e gestisce infallibilmente e freddamente le risorse (incluse quelle umane). Tale impostazione
verticistica, che trova le sue radici nella genesi autoritaria della tradizione amministrativa italiana,
porta a minimizzare il ruolo dell’ambiente, che si assume prevedibile e controllabile, e dei singoli
individui, oggetti di governo e meri esecutori delle strategie deliberate dall’alto.
Misure che vanno in questa direzione sono costituite dall’introduzione di figure di
coordinamento generale (city manager, direttore generale, capo dipartimento ecc.) e
dall’inserimento di tecnostrutture e livelli intermedi di responsabilità lungo la linea verticale. E’
emblematica la riforma sanitaria del ’92, che opera la scelta, del tutto originale rispetto agli altri
Paesi europei, di strutturare le aziende sanitarie secondo un modello di ipergovernment, dove il
governo è esercitato da un organo monocratico nominato (non delegato) dal soggetto politico
(soggetto peraltro debole e in crisi di legittimazione), e di non prevedere l’equivalente di un CdA né
alcuna forma di dialettica tra la rappresentanza degli interessi e il direttore generale.
L’impostazione gerarchico-autoritaria si rileva anche dalle innovazioni contenute nella
contrattazione integrativa e nella recente riforma Brunetta: i meccanismi di progressione economica
orizzontale, i sistemi premianti introdotti e i parametri individuati per la verifica dei risultati
attribuiscono ampie responsabilità al capo, mentre raramente prevedono il coinvolgimento di altri
attori (utenti, collaboratori, colleghi ecc.); inoltre l’istituto della posizione organizzativa,
consentendo di introdurre la figura del quadro intermedio, contribuisce al rafforzamento della
piramide gerarchica interna.
Si tratta di provvedimenti che favoriscono il tendenziale superamento dell’appiattimento
strutturale tipico del settore pubblico, spingendo verso l’accentramento e il rafforzamento della
gerarchia. Essi, nel complesso, producono una tendenza opposta rispetto al settore privato, dove le
esigenze di flessibilità hanno spinto in direzione di un sempre maggiore decentramento produttivo,
appiattimento della piramide gerarchica e sviluppo di forme organizzative reticolari.
Nel complesso, il centralismo autoritario ha prodotto un deficit democratico, allontanando i
cittadini dalle amministrazioni, e ha alimentato rapporti di sfiducia nei confronti delle
amministrazioni locali e delle popolazioni. Tale mancanza di fiducia, retaggio dello spirito
napoleonico, è alla base della preponderanza della dimensione dei controlli rispetto alle funzioni
immediatamente operative.
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L’approccio centralistico-ispettivo ha spinto l’acceleratore sulla burocratizzazione tramite
l’intensificazione dell’azione regolatrice, anche per effetto di quella spinta alla “giuridicizzazione”
di ogni sfera della vita sociale e morale che costituisce “un tentativo utopistico di riduzione della
crescente complessità nelle società contemporanee”17. In tal senso, possono essere interpretate
alcune dinamiche della modernizzazione amministrativa, che hanno visto una sovrapproduzione
normativa in tutti gli ambiti del settore pubblico.
Le indagini empiriche condotte mostrano come “l’eccesso di regolamentazione e la conseguente
macchinosità dei processi decisionali”, oltre a rafforzare ulteriormente la cultura legalistica, ha
prodotto ingenti oneri (inevitabilmente riflessi sui livelli dei costi e dei servizi), e favorito
l’instaurarsi di fenomeni degenerativi, connessi allo sviluppo di un diritto interstiziale che, invece
di limitare la discrezionalità del decisore amministrativo, ha finito con l’incrementarla e favorire
comportamenti illegali e alegali. La “feticizzazione” delle norme ha reso queste ultime intoccabili,
ma non le ha messe al sicuro dalle “manipolazioni degli sciamani della corruzione, cui è riservato il
diritto di sospenderne la sacralità”18. Seguire le pratiche e disincagliarle è diventato l’obiettivo
innanzitutto “dei parlamentari indotti dagli obblighi verso i propri elettori a percorrere
incessantemente i corridoi ministeriali”. Dunque, lo sviluppo di un burocratismo vessatorio e
inefficiente nel nostro Paese ha alimentato, ed è stata alimentato da, il clientelismo
assistenzialistico.19
3. Discussione
Dall’analisi condotta emerge un quadro generale del processo di managerializzazione del settore
pubblico italiano, in cui gli interventi attuati hanno recepito un approccio positivista connotato da
riduzionismo universalistico, razionalismo individualista e autoritarismo legalista, avvicinandosi
alla tradizione più ortodossa del NPM, e per taluni aspetti sconfinando nel modello weberiano
(secondo quella “oscura tendenza” tipica delle organizzazioni pubbliche a trasformare gli oggetti
del proprio interesse in qualcosa di burocratico e, dunque, comprensibile e gestibile secondo i propri
schemi e modi di operare)20.
Tale approccio è coerente con la storia e la cultura del nostro Paese (con la sua tradizione
centralistica, autoritaria e legalistica), ma appare lontano dalla complessità reale della PA. Di fronte
a provvedimenti astrattamente razionali ma distanti dal contesto di attuazione, gli attori hanno posto
in essere, più o meno consapevolmente, strategie di disapplicazione delle riforme, già nella fase di 17 Sgroi, 2007, p.16. 18 Sgroi, 2007, p.13. 19 Meldolesi, 2007, p.138. 20 Rebora, 1999.
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formulazione, e poi, soprattutto, nella fase di implementazione, dando luogo a un divario crescente
tra formale e informale, un girare a vuoto che spinge verso un impasse il sistema complessivo.
In questo scenario problematico (evidenziato schematicamente nella tabella 1), gli studiosi
aziendalisti hanno iniziato ad allontanarsi dall’approccio ortodosso del NPM, scegliendo tra due
diverse direzioni: un percorso nostalgico di recupero del passato, o un cammino evolutivo di
superamento e innovazione.
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Fonte: Nostra elaborazione
PoliticizzazioneLegalismoStrumenti
Deficit democraticoAutoritarismoFunzioni
Esternalità negativeIndividualismo organizzativoStruttura
Deresponsabilizzazione sostanzialeOrientamento alla performanceFocus
Diffusione a macchia di leopardo delle innovazioni
UniversalismoAttori
PoliticizzazioneTecnicismoDefinizione
Nodi problematiciOrientamenti
Tabella 1. Orientamenti riscontrati nelle riforme della PA italiana e nodi problematici
Sul primo versante, alcuni autori propugnano il recupero di logiche di gestione più tradizionali, o
altri, in una posizione intermedia, combinano l’assunto burocratico della misurabilità, verificabilità
ed oggettività con l’orientamento alla performance e alla consumer choice propri del NPM. Si
asseconda, così, il trend delle recenti riforme legislative, in cui l’enfasi sulla performance e sulla
lotta contro la pigrizia dei lavoratori (ideale indistinto caricato di contenuti morali) ed il costante
richiamo a controlli e standard oggettivi ed universali (espressione di un ipotetico one best way
organizzativo) ri-configurano il discorso sull’organizzazione delle PA in termini molto più
assonanti con il tradizionale approccio burocratico che non con le moderne teorie e prassi di
organizzazione aziendale. Un esempio è il modello del Neo-Weberian State (NWS), che Pollitt e
Bouckaert (2004) propongono per i Paesi dell’Europa continentale (anche per l’Italia),
caratterizzato da una sintesi à la Hegel tra elementi weberiani e neo (tabella 2). Tali formulazioni, a
parere di chi scrive, vanno applicate non senza cautela e problematicità in contesti, come il nostro
Paese, dove di fatto non si è riusciti ad applicare integralmente né i principi weberiani (in primis
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quello della neutralità e imparzialità dell’azione amministrativa) né quelli del NPM (in particolare
l’orientamento al risultato).
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Fonte: Ns. adattamento da Pollitt C., Bouckaert G., 2004. Public Management Reform: A comparative Analysis
(2nd edn). Oxford: Oxford University Press.
Integrazione del ruolo della democrazia rappresentativa con meccanismi per la consultazione e la
rappresentazione diretta dei cittadini
Ruolo della democrazia rappresentativa come elemento di legittimazione nell'ambito dell'apparato statale
Professionalizzazione in senso manageriale dei dipendenti pubblici
Status distintivo per i dipendenti pubblici
Orientamento al servizio e ai risultati in luogo dell'atto amministrativo
Ruolo centrale dello Stato e del diritto amministrativo
Elementi neoElementi weberiani
Tabella 2. Elementi caratterizzanti il Neo Weberian State
Sull’altro versante degli studi aziendalistici, alla frontiera dell’innovazione, si registra il
progressivo recepimento del paradigma della New Public Governance (NPG), le cui caratteristiche
salienti sono schematizzate nella tabella 3.
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Fonte: Elaborazione da Borgonovi E., 2002. Principi e sistemi aziendali per le amministrazioni pubbliche. Egea, Milano
Creare per i soggetti esterni la convenienza a fare o non fare ottenendo l'adesione convinta e sostanziale agli obiettivi posti dalla p.a.
Obbligatorie (giuridicamente o perché esiste un forte condizionamento), divieti od obblighi ad agire
anche contro la propria convenienza
Conseguenze verso i soggetti esterni
Indicazione di criteri per decidere e per valutare la validità delle decisioniSpecifi e rigidiContenutidecisionali
Consultazione orizzontale, relazioni collaborative e consenso su norme tecnocratiche, contatti estremamente informali ed apertura
Ruolo abilitante (enabling) della p.a.
Autorità gerarchica, relazioni conflittuali e interazioni ostili, contatti informali e segretezza Comando
e controllo, diretta erogazione di servizi
Modalità di interazione
Spesso informali che "creano condizioni favorevoli" all'accettazione di strumenti e atti formali
Prevalentemente formali (leggi, decreti, regolamenti, circolari)
Strumenti
Maggiore consultazione, possibilità di cooperazione tra gli attori nella formulazione e attuazione di politiche settoriali
Scarsa consultazione, nessuna cooperazione nella definizione e attuazione delle politiche
Funzioni
Sistemi aperti, confini funzionali, partecipazione volontaria Reti e partnership
Sistemi chiusi, limiti territoriali alle competenze, partecipazione obbligatoria
Gerarchia
Struttura
Processi, politiche e outcomeStrutture organizzative e istituzioniFocus
Un numero di partecipanti, pubblci e privatiUn numero contenuto di partecipanti, prevalentemente pubblici
Attori
Esercizio dei poteri formali e/o informali con l'obiettivo di "creare consenso" attorno determinate scelte
Esercizio del potere decisionale derivante dal sistema istituzionale formale
Definizione
GovernanceGovernment
Tabella 3. Differenza tra New Public Government e New Public Governance
La NPG si pone come superamento di quei tratti positivisti del NPM che appaiono distanti dalla
complessità delle moderne aziende pubbliche. Il riduzionismo tecnicistico, che tanti danni ha
arrecato alla nostra PA, viene superato nella misura in cui la governance è considerata non solo un
fatto tecnico, ma un’attività complessa ben più ampia della ristretta interpretazione del concetto di
management. Trattandosi del governo di reti complesse - di cui fanno parte numerosi attori diversi,
provenienti da enti territoriali locali e nazionali, raggruppamenti politici e sociali, gruppi di
pressione, di azione e di interesse, istituzioni pubbliche e private, imprese - essa è il risultato delle
interazioni sociali-politico-amministrative, e, dunque, chiama in causa valori diversi da quelli
strettamente economici, quali la legalità, la legittimazione, l’equità ecc.
A dispetto di tale retorica, gli studi italiani sulla NPG, differenziandosi dai lavori dei primi
Maestri aziendalisti (assai attenti a principi e valori), presentano una netta prevalenza di tratti
tecnocratici, e anche laddove dedicano attenzione alle dimensioni extra-economiche, giustificano
tale divagazione in quanto produttiva di un impatto positivo sulla performance. L’analisi della
provenienza culturale degli autori mostra una prevalenza delle matrici tecnico-contabili rispetto a
quelle organizzative o gestionali in generale. Tutto questo indica che l’allargamento del focus
analitico avviene più sul piano della retorica che della sostanza, come conferma anche la scarsa
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apertura multidisciplinare, comprovata dal basso numero di contributi accademici non aziendalisti
all’interno di collane accademiche aziendalistiche o di riviste/testi aziendalistici italiani. Persino
all’interno del proprio settore disciplinare gli studiosi sull’azienda pubblica mostrano una bassa
propensione a fare riferimento ai contributi di studiosi provenienti da diverse scuole accademiche.
Tale isolazionismo stride con la molteplicità degli aspetti, dei problemi e degli interessi compresenti
nella prospettiva della NPG e assume sfumature paradossali in un momento storico in cui numerosi
e tradizionali confini disciplinari tendono a dissolversi.
Gli studi sulla NPG si propongono di superare anche l’impostazione universalistica del NPM,
approfondendo l’analisi delle differenze tra organizzazioni pubbliche e private. Cionondimeno,
l’universalismo riaffiora in molti studi (specie nel filone sulla corporate governance applicato alle
PA) che presentano un taglio generalistico e astratto, limitato alla proposizione di modelli
prescrittivi validi in condizioni ideali (“cosa si dovrebbe fare o come dovrebbe funzionare”), slegati
dai processi realmente in atto, e poco orientato alla produzione e al trasferimento di conoscenza
utilizzabile dagli attori (“come può concretamente funzionare, a quali condizioni, quali le variabili
critiche”).
Mettendo in discussione la fondazione scientifica dei modelli di management tradizionale, il
filone sulla public governance sottopone a critica anche l’illusoria pretesa di poter produrre
conoscenza imparziale ed affidabile, e dunque l’ossessione per la performance che caratterizza il
nostro riformatore pubblico. Cionondimeno, la maggior parte dei contributi aziendalistici ruota
continua ad avere come principale focus analitico i concetti di efficienza, efficacia, economicità
dell’azienda (ai quali sembrano subordinarsi tutte le scelte e decisioni organizzative), e, a dispetto
della montante retorica sui policy network e la governance interorganizzativa, raramente tali
indicatori sono riferiti ad ambiti meta-aziendali, relativi ad un più ampio sistema di aziende
pubbliche.
Infine, per quanto riguarda l’autoritarismo, gli studi aziendalistici sulla governance sembrano
superare il mito managerialista dello Stato centrale che controlla unilateralmente e guida i processi
sociali, così come, a livello micro, del manager autoritario che dall’alto alloca e gestisce le risorse.
Ad un esame attento, tali studi sembrano complementari più che antitetici al NPM quando
propongono, in alternativa al modello di government (dove l’autorità decisionale trae legittimazione
dal sistema istituzionale formale e viene esercitata prevalentemente attraverso poteri formali), un
modello di governance (basato sull’esercizio di poteri formali e/o informali con l’obiettivo di creare
consenso attorno a determinate scelte). Essi, infatti, comunque sottintendono l’esistenza di una regia
decisionale centrale, solo che, anziché ricorrere a poteri sovraordinati che si concretizzano in
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strumenti formali e conseguenze obbligatorie, puntano a creare le condizioni e modificare gli
incentivi affinché gli attori compiano volontariamente determinate scelte. A ben vedere, si tratta di
un affinamento degli strumenti di coinvolgimento degli stakeholder nella definizione ed
implementazione delle politiche pubbliche.
Queste considerazioni pongono una serie di interrogativi: perché la frontiera più innovativa degli
studi sull’azienda pubblica ricade nel positivismo? Perché dall’analisi critica degli orientamenti
seguiti nella riforma della PA italiana non si riesce a porre basi solide per un reale rinnovamento
degli stessi? Non è che questo rinnovamento viene impedito da una certa autoreferenzialità degli
aziendalisti nel mettersi in discussione? Non è che la forza e capacità autoriproduttiva del
paradigma manageriale dominante condiziona anche le critiche allo stesso?
Questi dubbi rendono auspicabile un’apertura a paradigmi radicalmente antitetici rispetto
all’ortodossia, come può esserlo quello dei CMS, e, dunque, ci inducono ad esplorare, in via
ipotetica, gli stimoli al rinnovamento che potrebbero venire da un approccio critical.
I principali nodi problematici che vengono fuori dalla analisi condotta sulla PA italiana -
politicizzazione, modernizzazione a macchia di leopardo, deresponsabilizzazione sostanziale,
esternalità negative di sistema, deficit democratico – sembrano richiedere interventi che insistono su
quelli che sono i temi più cari ai CMS: autonomia, reflexivity, responsabilità, sviluppo sostenibile,
partecipazione.
La prospettiva dei CMS potrebbe condurre a un reale superamento dei tratti positivistici della
managerializzazione, a partire dal riduzionismo tecnicistico. Come si evince dal domain statement
ufficiale, essa si pone in chiara rottura con l’impostazione classica value-free, dove il “concern for
people or for the environment” è apprezzato “in terms of its contribution to profitable growth”21, e
focalizza le analisi sui temi del potere con un taglio interdisciplinare, multidisciplinare e talora
metadisciplinare.
Inoltre, un approccio critical, con il suo rifiuto dell’impostazione totalizzante e imperialistica
delle metanarrazioni, la sua critica agli schemi globali che ordinano e spiegano complessi fenomeni,
potrebbe fornire un impulso forte a studiare i contesti specifici ed entrare nelle operation e nei
processi concreti, andando ad individuare non solo i fatti, ma anche i valori e le assunzioni
implicite, che, in qualche modo, condizionano i risultati della ricerca (reflexivity).
Nel prendere le distanze da quella che chiamano performativity, essa porrebbe in luce la
feticizzazione dei performance target, che naturalizza ossia rende falsamente scontata la filosofia di
21 Adler P.S., Forbes L.C., Willmott H., 2007. “Chapter 3: Critical Management Studies”. The Academy of Management Annals, Vol. 1. Routledge, London, p.4.
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valutazione ispirata ad una razionalità strumentale mezzi-fini22. Tale prospettiva potrebbe condurre
le analisi in una direzione più vicina alle complessità e contraddizioni delle organizzazioni
pubbliche, evidenziando le prospettive dei diversi attori, nonché le esternalità positive e negative
delle decisioni.
È soprattutto sul tema caldo della partecipazione dei cittadini che la prospettiva dei CMS, con la
sua radicale critica nei confronti dell’autorità prestabilita, potrebbe offrire un forte contributo,
indirizzando la riflessione su come trasformare le organizzazioni in learning organization e
learning community in grado di ricavare ogni giorno le informazioni chiave per far governare i
processi direttamente alla fonte, dalla società civile/utenza23. In questa linea si potrebbe includere la
riflessione sulle ICT di nuova generazione (web 2.0), che enfatizzano la dimensione partecipativa
del web e, con i vari strumenti disponibili (wiki, blog, rating, tagging) potrebbero fornire molti
spunti di ri-organizzazione alla PA, denotando un mondo di interazioni orizzontali, di condivisione
peer-to-peer, con contenuti generati dagli utenti e un approccio user-centred, portali di servizio
progettati a partire dalla user experience, re-engineering del back office secondo logiche
semantiche, collaborative, e basate su modelli innovativi di knowledge management.
4. Conclusioni
Qualche anno fa la rivista Premiere riportava un’inchiesta sul modo in cui i finali famosi di
Hollywood erano stati tradotti nelle diverse lingue. Il finale di Via col vento con il celebre
“Francamente me ne infischio” di Clark Gable a Vivien Leigh era tradotto in giapponese con un
“Mia cara, temo che tra noi vi sia un piccolo malinteso”, in omaggio alla proverbiale cortesia
nipponica.
Con riferimento al New Public Management, nel nostro Paese, sembra si sia effettuata una
operazione anche più forte di traduzione: pur se si è recepita fedelmente la terminologia
managerialista, conservando il più possibile – per la nostra nota esterofilia – i termini in lingua
originale, non vi è dubbio che se ne sono alterati sensibilmente i contenuti, per adeguarli al contesto
specifico. L’Azienda è stata accolta in una concezione positivista e burocratica, poi confinata in uno
spazio virtuale, che è quello della retorica e del simbolismo organizzativo. La realtà è invece fatta di
applicazioni parziali e conseguenze inattese.
I nostri studiosi sulle aziende pubbliche, divisi tra riformulazioni nostalgiche del rassicurante
modello burocratico, come il NeoWeberianState, o versioni italianizzate del paradigma emergente 22 Mangia G., Mercurio R. (a cura di), 2009. Il comportamento organizzativo. Organizzazione aziendale e management. Isedi, Torino. 23 Alvesson M., Bridgman T., Willmott H., 2009. The Oxford Handbook of Critical Management Studies. Oxford University Press, New York.
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della NPG (che in realtà costituiscono un affinamento del, piuttosto che un’alternativa al, NPM)
potrebbero trarre nuova linfa dalla prospettiva dei CMS.
Tale approccio potrebbe contribuire a superare i tratti positivistici della riforma amministrativa
(così come emersi nell’analisi condotta) e dunque a cambiare progressivamente l’agenda della
riforma della PA, consentendo di raggiungere nuovi traguardi in tema di accountability, democrazia
e sviluppo sostenibile. Le analisi tenderebbero a focalizzarsi non sul tema della produttività o
dell’identificazione dei fannulloni, bensì sullo sviluppo di sistemi e processi organizzativi che
mettano in grado le PA ad ogni livello di porsi in una reale condizione di ascolto, per poter
rappresentare adeguatamente una società sempre più plurale, atomica e caratterizzata da autonomia
nelle scelte e nelle aspirazioni individuali. A queste istanze verrebbe in soccorso una filosofia
organizzativa assolutamente non burocratica, propria di una learning organization fondata sui valori
dell’autonomia/responsabilità, sostenibilità, partecipazione, dove il fruitore dei servizi viene messo
nella posizione di intervenire nel processo organizzativo per personalizzare il servizio.
Alla luce di tali considerazioni, non si può affermare che i CMS offrono necessariamente la
cornice teorica ideale per interpretare e orientare l’innovazione nelle organizzazioni pubbliche.
Anche l’impostazione burocratica tradizionale potrebbe esercitare, in determinate circostanze, una
funzione positiva, semplificando la complessità e riportando ordine all’interno delle organizzazioni.
Non si raccomanda dunque il ricorso esclusivo al nuovo paradigma, ma un approfondimento dello
stesso in una logica di confronto e arricchimento. Di fronte ad una realtà variegata e in continua
evoluzione, l’apertura nei confronti di opzioni teoriche opposte e paradigmatiche è un’operazione
concettuale, che consente di ampliare la gamma delle possibilità e di convergere con maggiore
consapevolezza verso combinazioni più ricche e feconde.
E’ possibile, invece, asserire che il settore pubblico è il terreno di studio ideale per i CMS, in
ragione delle caratteristiche che lo contraddistinguono rispetto al settore privato: produzione di non-
market values, oltre che di market values; più stretta interconnessione con il contesto storico-
sociale-politico; maggior numero di stakeholders; utilizzo anche di risorse non economiche; ricorso
a capacità produttive anche esterne all’organizzazione. Molte operazioni concettuali di
denaturalizzazione di categorie manageriali, normalmente date per scontate, troverebbero un ambito
di applicazione elettivo nelle organizzazioni pubbliche, così come molte posizioni radicali -
emancipatorie, ecologiste, anti-autoritaristiche, critiche verso la performativity - incontrerebbero
minori aporie concettuali se applicate alla PA, ed anzi potrebbero da questa trarre spunti e
indicazioni utili da trasferire al settore profit.
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Alla luce di queste considerazioni, la scarsa attenzione rivolta dai CMS al settore pubblico
stupisce non poco; inoltre, se non desta eccessiva meraviglia l’assenza di riferimenti agli studi
critical nella nostra letteratura aziendale sulla PA, potendosi imputare alla sua scarsa apertura
internazionale, certo è sorprendente riscontrare tale lacuna nella più aperta e internazionalizzata
letteratura anglosassone sulle organizzazioni pubbliche.
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