capitolo 1: biografia artistica di paolo...
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Capitolo 1: Biografia artistica di Paolo Poli
Gli esordi1
La passione di Poli per la recitazione pare che esista da quando esiste Poli stesso:
in un’intervista rilasciata a Idolina Landolfi egli stesso racconta le sue
precocissime velleità:
Partecipavo alle recitine: quando veniva la principessa di Piemonte le recitavo
“Vergine madre, figlia del tuo figlio...”. Frequentavo la terza elementare ed avevo
già i miei pezzi forti: quello e “la bocca sollevò dal fiero pasto” se arrivava il
segretario del Fascio [...]. Ho sempre fatto le recite per gioco, con le mie sorelle,
1 Tutte le informazioni riguardanti l’attività artistica di Poli dai suoi esordi fino allo spettacolo Bus (stagione 1981/82) sono tratte da R. Di Giammarco, Paolo Poli, Roma, Gremese, 1985
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con le cugine, usando i vestiti smessi della zia [...]. Professionalmente ho iniziato
subito dopo lo sviluppo, quando la voce é cambiata, contemporaneamente al liceo.
La figlia del nostro preside amava recitare, e il preside ci concesse uno aggspazio,
dove noi costruivamo le scene con la carta da parati.[...]
La carriera professionale vera e propria di Poli risale al 1949 quando, ventenne,
partecipava già ad alcune trasmissioni di Rai Firenze con macchiette, favole,
canzoni e prosa: nello stesso anno egli si iscrive alla Facoltà di Lettere, riuscendo,
tra uno spettacolo e l’altro a dare gli esami nell’arco di un decennio.
Nello stesso periodo, cioè grossomodo dal ‘49 al ‘50, Poli si esercita anche a
prestare voce a streghe, cavalieri e principesse senza fili, eroi buffi di cui é
affollato il carro di Trespi del burattinaio Stac.
La compagnia L’Alberello2
All’impegno con le voci dei burattini si aggiungono le serate con la Compagnia
dell’Alberello, allora appena agli inizi, patrocinata da una nobildonna, Flavia
Farina Cini.
2 Mentre per gli spettacoli prodotti come Compagnia Paolo Poli ho dedicato ad ogni stagione un breve paragrafo, per i lavori prodotti all’interno di altre compagnie ho preferito raggruppare le informazioni in paragrafi intitolati alle compagnie stesse (L’Alberello, La borsa di Arlecchino).
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Con lui lavorano Ferruccio Soleri, Ilaria Occhini, Alfredo Bianchini, Beppe
Menegatti e, come regista, il futuro critico Paolo Emilio Poesio.
Negli anni successivi cominciano a comparire sui fogli della stampa recensioni
positive sugli spettacoli della compagnia, e segnalazioni particolari per Poli e per
Soleri.
Nel ‘54, a dimostrazione della fama ottenuta, la Compagnia dell’Alberello
inaugura il teatro Goldoni, riaperto dopo 29 anni, con La Calandria del Bibbiena,
con la regia di Sergio Gazzarrini.
Ma per Poli é giunto il momento di provare a farsi strada a Roma: qui arriva con
alcune foto che gli aveva scattato l’amico fiorentino Franco Zeffirelli, e, per un
colpo di fortuna, ottiene la parte dell’arrotino zoppo in Le due orfanelle, parte che
doveva essere di Mario Girotti (futuro Terence Hill), ammalato.
Nel frattempo però cerca di non perdere i contatti con Soleri e la Occhini, che si
sono iscritti all’Accademia d’Arte Drammatica e con loro ha modo di ascoltare le
lezioni Orazio Costa, Sergio Tofano, Wanda Capodaglio.
L’approccio al mondo del cinema non mette in luce le doti migliori del giovane
Poli, fatto per le tavole del palcoscenico: così, un po’ in sordina, rientra in teatro
con La cantata dei pastori, nel Chiostro nuovo di padre Balducci, e con Le beffe
del Decamerone, con Alfredo Bianchini.
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Visto che lo spettacolo non dava sicurezze, Poli inoltra domanda di supplenza, e
finisce ad insegnare letteratura francese nel liceo Leonardo da Vinci (anno ‘57/58).
Negli stessi anni cede alla lusinga della popolarità e posa per alcuni fotoromanzi.
La Compagnia La borsa di Arlecchino
È nel ‘58 che avviene il grande salto: in quell’anno infatti Poli si trasferisce a
Genova dove incontra Aldo Trionfo, animatore, impresario e regista di un piccolo
locale, La borsa di Arlecchino.
Cosi Poli ricorda il suo arrivo a Genova:
Ad essere convocato a Genova era stato in realtà Bianchini. Non che io non
conoscessi Trionfo. L’avevo già incrociato quando era “aiuto” di Visconti mentre
si girava Senso [...] Quanto alla trasferta a Genova le cose andarono cosi: venni
interpellato dallo stesso Bianchini che mi suggerì di andare al posto suo. Trionfo
doveva rinforzare la sua squadra di attori. Accettai. Convenni che avrei provato
un po’ e se il rapporto non si fosse stabilito a sufficienza, sarei tornato a Firenze.
Invece rimasi. Diventai anzi uno dei più stretti collaboratori di Trionfo.
Durante la stagione ‘58/59, Poli interpreta Finale di partita, di Backett con
Vincenzo Fierro e, in chiusura, un breve entr’acte intitolato Semplici ariette e
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canzoncine povere, insieme al chitarrista Silverio Pisu e alla danzatrice/mimo
Claudia Lawrence, collaboratrice di Poli anche per le coreografie de La leggenda
di San Gregorio. Durante la stessa stagione egli si impegna anche in una serie di
spettacoli tratti da Feydeau, nei cui intermezzi di nuovo introduce una serie di
canzoni del primo novecento, messe a confronto con gli autori francesi del
momento, come Brassen.
Quindi é il turno di Sorveglianza speciale di Genet, dove Poli interpreta Jules;
protagonista invisibile, insieme a Poli, Lele Luzzati, nascente genio scenografico.
L’infantilismo fa da motivo conduttore a Mamma voglio il cerchio, rivista per
adulti che va in scena nel giugno del ‘60 al Girolamo di Milano, dove Poli colpisce
soprattutto nel racconto di Cappuccetto rosso. ormai ha raggiunto una certa
notorietà, e la televisione e la radio gli aprono le porte: con lo stesso Cappuccetto
Rosso appare a Controcanale, spettacolo di varietà con Abbe Lane, partecipa alla
trasmissione per bambini Chi sa chi lo sa? e, via via, partecipa alle scritture di
alcune operette per la televisione: Al cavallino bianco, Madama di Tebe, Vedova
allegra.
1960/61 - Il Novellino
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È proprio nel ‘60, sull’onda della popolarità datagli dalla comparsa sul video, che
Poli si convince a dare un’altra svolta alla sua carriera: si congeda da “La borsa di
Arlecchino” e decide di provare a contare solo sulle proprie forze.
Grazie ad un accordo con il direttore del teatro Gerolamo, Poli mette in scena a
Milano il primo spettacolo tutto suo: si tratta del Novellino, spettacolo in cui egli
compie un excursus poetico e musicale della tradizione orale toscana partendo da
laudi medievali3 fino a giungere alle canzoni popolari del periodo Fascista ed in
generale del primo novecento.
Questo spettacolo gli vale un lungo articolo con grandi fotografie, firmato da
Camilla Cederna, intitolato “il professorino che canta”4: la fama di Paolo Poli
riceve la prima grande consacrazione.
1961/62
Nell’estate del ‘61 Poli compie un’altra incursione nel mondo del cinema:
interpreta, a fianco di Adriana Asti, Cronache del ‘22 di Guidarino Guidi.
Nello stesso anno viene ingaggiato per una grande avventura televisiva: si tratta di
Canzonissima (‘61/62) che gli procura un diffusissimo lancio pubblicitario presso
3Nel Novellino compare per la prima volta in uno spettacolo di Poli una Lauda medievale appartenente ad un Codice Cortonese che ha per argomento la morte e che compare anche all’interno de “La Leggenda di San Gregorio” (Atto II, Scena III) 4 C. Cederna, Il professorino che canta, in L’Espresso n50, Roma, 11 Dicembre 1960
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il pubblico televisivo di ogni ceto ed età: Ha accanto Sandra Mondaini con la quale
battezza un filone di tiritera fra due bambini cresciuti e inclini alle bizze, lui nei
panni di Filiberto , l’amichetto buono e sfortunato della pestifera Arabella.
1962/63 - Il Diavolo
Nella stagione 62/63 mette in cantiere Il Diavolo: si tratta di nuovo di uno
zibaldone di testi tratti dai codici di Rosvita, dai Laudari Cortonesi5, da poesie di
Machiavelli e dell’Aretino, e via via procedendo nel tempo, testi della
controriforma, raccolte di norme sui delitti e sulle pene dell’inquisizione in
Spagna: quindi De Sade, mescolato con Voltaire e Diderot, quindi l’ottocento, con
l’involontario umorismo del Monti, fino ad un quadro rievocante il fascismo.
Questo stesso spettacolo verrà ripreso nella stagione ‘64/65 nel cui cast figurerà
anche Maria Monti, divenuta parte integrante della compagnia per un’altra
produzione dello stesso anno, Il Candelaio.
Tornando al ‘62, Poli si trova in difficoltà economiche perché il suo Il Diavolo
suscita pessime reazioni nella Roma papalina e nella capitale il suo programma
non trova spazio; tira avanti grazie alla televisione: il cantafiaba, commedie con
Molinari e con Fenoglio.
5 Gli stessi Laudari da cui Poli ha tratto parte delle musiche e delle canzoni de La Leggenda di San Gregorio
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1963/64 - Paolo Paoli e Il mondo d’acqua
Durante le prove di La colonna infame di Buzzati, con la regia di Fenoglio
appunto, conosce Adolfo Moriconi, “aiuto” del regista, il quale gli parla di un testo
che egli stesso ha appena tradotto dal francese: si tratta di Paolo Paoli, di Artur
Adamov. Colpito dalla quasi omonimia, Poli decide di mettere in scena il testo, e
parte per Parigi per avere la benedizione dell’autore. Ottenutala é costretto a
risolvere un’altra grana: dato che il repertorio era straniero rischiava di perdere la
denominazione di compagnia italiana; Si ingegna cosi a preparare a tempo record
un altro spettacolo, da alternare a Paolo Paoli, uno spettacolo italiano: si tratta di
Un mondo d’acqua.
Mentre Un mondo d’acqua, storia delle frustrazioni di un giovinetto sognatore,
amante delle profondità marine che alla fine si trasforma in pesce, suscita critiche
tiepide, Paolo Paoli, spettacolo di punta, ritratto del mondo borghese
immediatamente prima della Grande Guerra, tratteggiato grazie alle vicende di
sette personaggi e ai loro commerci di farfalle di piume e di bottoni, riscuote un
buon successo, sia di pubblico che di critica.
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1964/65 - Il Candelaio
Nel ‘64 Poli fa ditta insieme al Maria Monti, con la quale mette in scena Il
Candelaio di Giordano Bruno e una seconda edizione de Il Diavolo. Nello stesso
anno, ed in occasione proprio della messa in scena de Il Candelaio nasce un
sodalizio che sarà ben più duraturo, tanto é che continua ancora oggi: comincia
infatti con questo spettacolo la collaborazione drammaturgica con Ida Omboni.
Insieme alla Omboni, Poli riesuma un testo che giaceva da secoli nel dimenticatoio
della letteratura teatrale italiana: e, come sempre, egli aggiunge agli intrighi
napoletani di Bruno una quantità di canzoni riducendolo, sono le sue stesse parole,
“quasi ad un operetta”, affollandolo di suore, preti, mostri, maschere, draghi da
ossessione notturna, vecchine, puttane.
Lo spettacolo ottiene in generale ottime critiche, anche se solleva qualche voce
contraria l’uso “leggero” del testo: in un articolo apparso su “Il Dramma”6 si
legge, riguardo al Candelaio di Poli e ad una concomitante Mandragola di
Peppino de Filippo: “Non si tratta di pochade: lo diciamo subito ad evitare che altri
siano presi dallo stesso uzzolo e si impadroniscano dei capolavori della nostra
letteratura drammatica per uso personale, diffamando il teatro.”
6 Dicembre 1964
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In realtà sullo sfondo di questa critica sta una concezione, dopo tutto comune, del
teatro musicale come sottoprodotto, nonostante alcuni nostri grandi attori, a
cominciare da Petrolini o da De Sica, abbiano fatto largo uso del genere musicale.
1965/66 - Un Milione
Nell’estate del 1965 Poli stringe i contatti con l’anziano attore Sergio Tofano,
creatore delle strisce del Signor Bonaventura, firmate con lo pseudonimo di Sto;
ne nasce uno spettacolo da bambini fatto per gli adulti, dal titolo Un Milione. Lo
spettacolo non é stato un trionfo, per stessa ammissione di Poli, soffrendo forse di
un pregiudizio nei confronti di tematiche infantili.
Poli, alla figura del Signor Bonaventura, privilegia quella del “Bellissimo Cecé”
alle prese con le caricature del bene e del male, ovvero Bonaventura e Barbariccia.
Poli mantiene la stilizzazione del fumetto, la stessa atmosfera retró, la stessa
dinoccolatura, ma anche gli stessi abiti, gli stessi colori, e in più elabora un
linguaggio fatto di combinazioni di parole, modi di dire, barzellette, cantilene,
scioglilingua e innumerevoli frasi fatte tagliate, aggiustate e fuse con una cascata
di battute dei più diversi autori, fino a comporre in un discorso una raffinata e
divertente raffigurazione dell’assurdo e dell’insensato.
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1966/67 - Rita da Cascia
Malgrado i favori della critica, Poli non é contraccambiato dal botteghino, i debiti,
contratti fin dal ‘62, diventano quasi insostenibili (per un totale di 15 milioni,
somma, per il tempo, considerevole): per la stagione successiva é costretto a
sospendere l’attività capocomicale. Nell’estate del ‘66 recita in una Turandot con
la regia di Beppe Menegatti, con la Fracci e Ottavia Piccolo, facendo dei siparietti
mentre cambiavano le scene. Nel febbraio del ‘67 accetta di fare da lettore ne
L’histoire du soldat di Stravinskij al Teatro Comunale di Modena.
Nella Primavera dello stesso anno va a rinforzare la compagnia che, al Teatro
Stabile di Torino mette in scena un testo minore del ‘700, una commedia in
dialetto dal titolo Il cunt Piolet, con cui partecipa anche al festival di Nancy.
Sempre nel ‘67 partecipa ad un’edizione siciliana della Sagra del Signore della
Nave, di Pirandello, con la regia di Scaparro.
Intanto, tra il ‘66 e il ‘67 Poli riesce a mettere insieme abbastanza soldi per pagare
i debiti, e può ricominciare a pensare ad una produzione tutta sua.
L’idea che lo attira é quella di imbastire uno spettacolo come quelli che si usava
fare in oratorio, in cui le compagnie, tutte maschili, adattavano i testi in modo da
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far apparire solo gli uomini, o almeno in cui un uomo che fa una parte da donna
non fa scalpore.
Così Poli stesso racconta la nascita del nuovo spettacolo, che sarà poi la
contestatissima Rita da Cascia:
Pensai: qui chiacchiero io. I piccoli personaggi li affido ad attori amici, anche un
po’ improvvisati. Scene dipinte dal sottoscritto, e costumi rigenerati. Una suora?
Basta una tovaglia bianca e una pazienza nera. Il vestito da contadinella si
improvvisa con un grembiule. Le parrucche ce l’ho già. si debutta nella medesima
stanza, sotto il piano del bar, dove ormai sono di casa: al Cab “64”. Un locale
che contiene massimo sessanta, settanta persone, munito di una pedana di due
metri per uno. Per lo spettacolo creo un fondalino, dipingo un albero, un
campanile. Un cuscino a terra e un pezzo di lenzuolo costituiscono il letto di morte
della Santa. In più, una scala a compasso da librerie, con nuvolette appese su tre
pioli, di fronte a cui ci si inginocchia come davanti al paradiso7.
Lo spettacolo parte in sordina a Milano, ed esplode a Roma dove, al Delle Muse,
ottiene un grande successo.
7 Da un’intervista a R. Di Gimmarco in R. Di Giammarco, Paolo Poli, Roma, Gremese, 1985
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Una sera però tra gli spettatori é presente l’On. Tozzi Condivi il quale, la mattina
dopo promuove in parlamento un’interrogazione sulla liceità di consentire la
rappresentazione di uno spettacolo tanto irriverente. Seguì una telefonata che
preannunciava una bomba in teatro, e la Questura è costretta a presidiare la sala
ogni sera. Tutto questo clamore si traduce, come é naturale, in grande pubblicità e
afflusso di pubblico. Le lungaggini burocratiche consentono a Poli di finire le
repliche a Roma e di tornare per una sola sera a Milano: poi arriva l’ingiunzione e
lo spettacolo é sospeso.
Poli affida la difesa all’Avvocato Moscon, ma la faccenda finisce nel nulla:
comunque sia, dovrà aspettare fino al ‘77 prima di poter ripresentare al pubblico
questo spettacolo.
Lo spettacolo racconta, con i modi ingenui della recita parrocchiale, il matrimonio,
la vita monacale e la santità di Rita da Cascia.
Si tratta, come si é detto di uno spettacolo “monosessuale”, in cui la figura di Poli
emerge prepotentemente sia in scena che fuori, come organizzatore, ideatore e
costruttore dell’intero impianto spettacolare che risulta nel complesso volutamente
scarno e semplice, composto di pochi elementi significanti: questo tipo di struttura
permane tuttora nel lavoro di Poli.
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1967/68 - Il suggeritore nudo
L’interruzione della Rita da Cascia lascia un vuoto nella stagione di Poli. Egli
parte per Parigi dove recita un estemporaneo Metastasio, L’isola disabitata, di
fronte niente meno che a Pompidou. Al suo ritorno viene contattato da Di Bosio
che sta preparando, presso il Teatro Stabile di Torino, uno spettacolo sul
futurismo: in seguito ad una burrasca politico-economica, Di Bosio decide di
dimettersi e lo Stabile propone la regia a Poli stesso. si tratta de Il suggeritore
nudo di Marinetti.
Ottenuto il permesso dalla figlia di Marinetti, Vittoria, di rimaneggiare il testo a
suo piacimento, Poli inserisce nel tessuto dello spettacolo ampi brani del
“Manifesto del teatro di varietà” e anche alcune “facezie” di Petrolini facendone
una sorta di satira del teatro stesso: in scena vi sono infatti personaggi dai nomi
emblematici, come il regista Mario applausi, il quale non fa nulla, entra in scena e
presenta, e basta; accanto a lui rappresentanti dei ruoli canonici del vecchio Teatro,
il caratterista, il brillante, l’ingenua con nomi come Birignao e Carrettella8.
8 Birignao : cantilenare affettato di ceto teatro di maniera con attori che si danno arie di sofisticati elitari Carrettella: é l’espediente ad effetto che permette all’attore di far partire l’applauso o semplicemente la risata. Si ottiene caricando l’intenzione finale della battuta o dell’azione mimica, ammiccando o producendo una espressione stupita o, ancora, esplodendo in una risata compiaciuta. D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1987, p327/p330
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1968/69 - La Nemica e Tito Andronico
Avuta dall’impresario del Delle Muse la sala per tutto il mese di maggio (‘68),
Poli comincia a lavorare ad un nuovo spettacolo: La Nemica di Niccodemi.
Insieme con la Omboni, sfoltisce il testo, riduce a sei i personaggi e trasferisce
l’ambientazione dalla Francia all’Italia. Prova per non più di una settimana, quindi
va in scena.
Il pubblico la accoglie così bene che avrebbe potuto restare anche tutto giugno se
Poli non fosse stato impegnato nelle repliche de Il suggeritore Nudo. Durante la
stagione ‘68/’69 replica sia l’uno che l’altro testo.
La Nemica, che con il passare del tempo arriverà a vantare la bellezza di circa
1000 repliche, segna la definitiva consacrazione dell’attore.
Già nel ‘68 gli frutta una partecipazione nel film di Roberto Faenza H2 S dove Poli
é chiamato ad impersonare una vecchia centenaria, simbolo della società decrepita,
che abita in un castello entro le cui mura di mangiano i ragazzi contestatori.
Si va diffondendo, dopo l’exploit di La Nemica, una fisionomia di Poli incline
all’eterno femminino, con sfumature di androginia, travestimento, gay-glamour: in
questo spettacolo infatti, per la prima volta Poli riveste per l’intero spettacolo abiti
femminili.
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Nel gennaio del 1969, Poli gioca una carta imprevedibile: propone un Tito
Andronico di Shakespeare con soli uomini, così come, probabilmente, era
all’origine. Ovviamente si tratta di uno Shakespeare riscritto insieme alla Omboni,
ridotto da 5 Atti a due tempi, scegliendo ciò che più si presta alla parodia:
olocausti efferati delitti, cannibalismo, sadismo. La recitazione degli attori é
esasperata, talvolta fino alla buffoneria, mentre quella di Poli é graziosamente
estraniata, le battute più atroci e drammatiche pronunciate con aria distratta.
La scena é popolata, oltre che di attori di fantocci in cartapesta, e di una selva di
teste mozzate che spuntano da ogni parte: e tra tanti orrori Poli parodia il teatrino
filodrammatico con il gusto per il particolare raccapricciante, e di tanto in tanto
inserisce un intermezzo “a solo”, come al solito riservato alle canzoni.
1969/70 - Rappresentazione di Giovanni e Paolo e Carolina Invernizio
Dopo la parentesi Shakespeariana, Poli ritorna, nella stagione ‘69/70, ad un genere
che aveva già affrontato in precedenza, quello agiografico; propone infatti una
sacra rappresentazione, opera di Lorenzo de Medici: La Rappresentazione di
Giovanni e Paolo.
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Il testo é una sorta di ibrido, di modulo di passaggio tra stilemi medievali ormai
alla fine e linguaggi rinascimentali, all’interno del quale Poli, come sempre, mette
molto di suo, interpretando un diavoletto, con tanto di corna e coda, che intrattiene
il pubblico su argomenti più o meno edificanti, tra i quali rientra anche un
excursus sulle canzoni pseudo-erotiche con le quali il fascismo accompagnò la
conquista dell’Etiopia.
Dopo le esperienze di compagnia monosessuale della Rita da Cascia e di La
Nemica, Poli torna a far compagnia con un gruppo di attrici, tra cui Fiammetta
Baralla, Iole Silvani, Angiolina Quinterno.
Durante la stessa stagione Poli imbastisce un altro spettacolo da alternare a La
Rappresentazione di Giovanni e Paolo. E dal Magnifico passa ad attingere ad un
altro classico di tutt’altro genere, ovvero i romanzetti d’appendice scritti da
Carolina Invernizio, narratrice che ha prodotto, nella seconda metà del secolo
scorso, decine di romanzi pieni di tombe, cattive madri, tradimenti, cadaveri,
danzatrici-serpenti, sorellastre cattivissime, malattie incurabili, finali truculenti.
Poli attinge a piene mani da questo vasto e allettante repertorio, costruendo uno
spettacolo in cui accade di tutto, morti, resurrezioni, incesti, ritrovamenti,
avvelenamenti ed al centro a tutta questa girandola di atrocità per signorine c’è lui,
Poli, in un continuo avvicendarsi di travestimenti, che lo vedono interpretare dal
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medico alla giovinetta innocente, dal ragazzetto inesperto alla danzatrice
giavanese, portatrice di scompiglio nella vita di un serio avvocato (interpretato da
un’attrice).
1970/71 - La Vispa Teresa
Nell’ottobre del ‘69, assiste Claudia Lawrence nella regia di Il Brasile di Wilcock.
nel novembre ‘69 firma la regia di un’opera minore di Doninzetti, Rita o le mari
battu.
Nell’aprile del ‘70 da voce come lettore, per la seconda volta nella sua carriera,
all’ Histoire du soldat, di cui é anche regista.
Nell’estate del ‘70 registra le quattro puntate della trasmissione televisiva Babau,
summa del suo repertorio (angelo/diavolo) con digressioni dal vampiro al
marziano.
Nel frattempo la ditta Poli si fa più solida, acquista un camion per le trasferte,
rinnova i bauli, compra i riflettori.
Sempre insieme alla Omboni, torna ad un vecchio amore, la letteratura per
bambini, e produce La vispa Teresa, excursus sulla letteratura infantile
dell’ottocento. Pochi giorni prima del debutto però un incendio al Delle Muse di
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Roma distrugge la sala e gran parte del materiale di scena, ma, a dispetto della
sfortuna, lo spettacolo riesce ad andare in scena ugualmente.
Poli, nelle vesti di una bambinona dl secolo scorso, con una vestina bianca a volant
e una parruccona piena di boccoli biondi, inanella filastrocche, dalla vispa Teresa,
a Pierino il Porcospino a tutta una letteratura per bambini dagli aspetti repressivi
ed un tantino sadici. Uno spettacolo dunque che, anche se occhieggia al pubblico
infantile, é fatto soprattutto per gli adulti.
1971 - Soirée Satie
A Roma, nella primavera del ‘71, Poli registra fiabe televisive scritte da Tommaso
Chiaretti e qualche mese più tardi, nel settembre ‘71, la Biennale Musica di
Venezia lo invita ed egli produce Soirée Satie, spettacolo su commissione ma di un
umorismo e di un miniaturismo che si addicono perfettamente a Poli.
Per presentare al pubblico questo musicista conosciuto per lo più dagli addetti ai
lavori, Poli ha alternato parti pianistiche di Antonio Balista con danze di Milena
Vukotich (nell’edizione del ‘71), di Graziella Porta (nel ‘72) e di Carmen
Ragghianti (nell’ 81), con parti recitate e cantate da lui, affidandosi anche ad un
apparato scenico fatto di pupazzi, figurine che sembravano uscite dai manifesti di
Toulouse Lautrec. Tra i testi recitati c’é La trappola di Medusa, scena tipica della
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domanda di matrimonio della commedia ottocentesca e una serie di canzoni che
Satie scriveva per serate simili a quelle che in Italia si tenevano nei Salotti
futuristi.
All’interno dello spettacolo Poli ha inserito la proiezione del cortometraggio
Entr’acte di Rene Clair con musiche, appunto di Satie, e una serie di quadri
sportivi (“Sport e divertissements”).
1971/72 - L’uomo Nero
Nell’estate del ‘71 Poli scrive insieme alla Omboni L’uomo nero, spettacolo nato
dalla convinzione che gli anni non anno scalfito l’eredità delle camicie nere, il
buon senso, la suscettibilità, il “decoro intollerante” di certa borghesia che fa
maggioranza.
L’uomo nero é la saga di tre fratelli: uno reduce, e mutilato, dalla prima guerra,
l’altro che fa il “cattivo socialista” e l’ultimo che rappresenta il “fascista
buonissimo”. Tra costoro si mettono donne, vizi, virtù, soubrette fatali e boy-scout.
Il tutto negli anni della nascita del fascismo, alle porte della marcia su Roma
(l’ultima battuta dello spettacolo recita: Avanti! Andiamo e cominciamo a menare
le mani. Penseranno poi i filosofi a dimostrare che era giusto!”).
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La molla comica dello spettacolo consiste in una glorificazione esasperata e
caricaturale della società e dei valori che portarono all’avvento del fascismo: per
l’argomento trattato é stato paragonato a Novecento, di Bertolucci, anche se,
ovviamente ne L’uomo nero di Poli prevale l’ironia.
1972/73 - Giallo!!!
Nella stagione successiva Poli esordisce al Teatro Parioli di Roma con uno
spettacolo attinto da una ambito per lui del tutto nuovo, quello della letteratura
poliziesca.
Lo spettacolo si intitola Giallo!!! ed é uno “specimen” di tutte le caratteristiche del
genere, colpi di scena, mistero, inevitabile Deus ex machina. Poli interpreta ben
sette personaggi, anch’essi disegnati sulle caratteristiche tipiche dei protagonisti
dei gialli alla Agatha Christie: Ruby (misteriosa straniera), il dottor Sheldon,
Priscilla (giovinetta intellettuale), sir Reginald (squire del paese), il campanaro
Jonatan, il colonnello Dobson, il nuovo Pastore. Le scenografie sono di Danda
Ortona: una casina che gira su se stessa mostrando quattro lati, l’interno del piano
di sopra, l’interno del pianterreno, le scale, il patio.
Sullo sfondo un’Inghilterra di provincia, vittoriana, nella quale si consumano, tra
una tazza di the e una partita a tennis, i più efferati delitti.
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Anche qui la forza comica dello spettacolo coincide con la capacità di Poli di
mettere in scena le vicende più scontate, addirittura fissate nella rigidità del canone
in modo che sembrino imprevedibili, illogiche o addirittura pazzesche: a
cominciare dall’incredibile numero di delitti e di morti accidentali che si
susseguono senza interruzione.
1973/74 - Apocalisse
Nel ‘73 Poli costruisce uno spettacolo basato sul tema dell’ecologia: Si intitola
Apocalisse, e con lui, in una compagnia di tutti uomini, recita per la prima volta la
sua sorella più piccola, Lucia.
Apocalisse si strutturava in quattro parti: Utopia di Lucia Poli, Arcadia e Milizia
forestale di Paolo Poli, Storia Naturale di Edoardo Sanguineti.
Le prime due parti sono un insieme di testi medievali e rinascimentali, nel terzo
Poli ha inserito un brano scritto da Arnaldo Mussolini sull’ecologia.
Il testo di Sanguineti, scritto per uno spettacolo di Ronconi e poi mai utilizzato, é il
ritratto non si sa bene se di un ospedale o di una casa di tolleranza in cui gli uomini
sono tutti pieni di formiche e muoiono, non si sa come. Anche in questo spettacolo
Poli veste panni disparati, da un San Giovanni con largo saio di canapa a ballerina
caraibica con turbante in testa e gonna a volant stretta sui fianchi.
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1975/76 - Femminilità
Nell’estate del ‘74, Poli cura la regia di un’operetta, La Contessa Marzia al Teatro
Giuseppe Verdi di Trieste, nel cui cast appare anche Leopoldo Mastelloni.
Nella primavera del ‘75 nasce Femminilità, spettacolo dedicato alle idiozie e ai
luoghi comuni legati alla figura della donna durante il trentennio fascista.
Lo spettacolo ha inizio nel 1925, epoca dei telefoni bianchi e delle camicie nere,
l’epoca del muto, e per l’appunto ci troviamo, nella prima scena, in uno studio
cinematografico: compaiono curiose figure di commendatori, dive, sciocche
portinaie, servitori cinesi, che gravitano intorno ai due protagonisti che dopo una
serie di peripezie si ritrovano immersi in piena epopea coloniale, La giovinetta
protagonista, finita nelle trame del commendatore é incinta, ma, per uno spavento
abortisce. La vicenda finisce bene: il commendatore diventa padre missionario, la
diva diventa suora, la vecchia zia torna al paese natio e i due protagonisti possono
coronare il loro sogno d’amore. Lo spettacolo, dalla trama labile ispirata ai
romanzi rosa del periodo fascista, si gioca tutto nella girandola di travestimenti di
Paolo e Lucia Poli, più fregoliani che mai (Lucia Poli cambia, in tutto lo
spettacolo, più di venti abiti) e nelle canzoni, nei balletti, nelle scene ispirate al
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 64
teatro di rivista con boa di struzzo, boys in cilindro di raso e balletti con gambe in
simmetria.
Nell’autunno dello stesso anno, Poli registra I tre moschettieri, dall’opera di
Dumas padre riscritta a sei mani da Poli stesso, da Sandro Sequi (anche regista) e
Giuseppe Bertolucci; quindici puntate per la televisione che andarono in onda per
Natale dell’anno dopo.
Solo quattro attori per 12 personaggi: Paolo Poli, la sorella Lucia, Milena
Vukotich e Marco Messeri. Il gioco funzionava in modo che ogni attore
interpretasse uno dei moschettieri e la sua amata; Poli aveva tenuto per se il
personaggio di Athos e quello della Miledy da lui corteggiata, oltre a tutte le parti
da cattivo, compreso il cardinale Richelieu.
Sempre in ambito televisivo, nell’estate del 76 vanno finalmente in onda le quattro
puntate di Babau, dopo sei anni di “parcheggio televisivo”, con un titolo che ne
sottolinea l’invecchiamento: Babau 70.
1976/77 - Rosmunda
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 65
Nel 1976 Poli affronta di nuovo un testo classico; si tratta della Rosmunda di
Alfieri, che, a suo dire, lo interessa un po’ perché del tutto desueta, un testo
classico ma marginale, un po’ per la faccenda di Rosmunda che beve nel teschi del
padre, che la rende, al contrario, familiare.
Al fianco di Poli, che veste, naturalmente, i panni stessi di Rosmunda, c’è Marco
Messeri, come Romilda: Paolo Poli lavora di forbici sul testo, ma senza intaccare
la forma generale alfieriana, pur inserendo brani da Mozart e in generale dal
melodramma settecentesco.
Come era già accaduto per gli spettacoli tratti da autori “sacri” della nostra
letteratura, le critiche allo spettacolo sono state contraddittorie: qualche giudizio
scandalizzato per la libera interpretazione del testo e qualche entusiasta della
correttezza di fondo allo spirito alfieriano dell’opera.
1977/78 - Rita da Cascia
Nella stagione successiva Poli riprende lo spettacolo della Rita da Cascia, che
tanto scandalo aveva provocato nel ‘67, con diversi attori ma stesso impianto,
provocando di nuovo una discreta ondata di curiosità.
La censura però non é ancora caduta del tutto, e Poli é costretto ad evitare sia il
Veneto che tutta l’Italia del sud.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 66
1978/79 - Mezzacoda
Nel novembre del 78 Poli inaugura la stagione del restaurato Teatro Niccolini di
Firenze con un nuovo spettacolo, Mezzacoda.
Lo spettacolo ha un impianto all’apparenza completamente diverso da quello degli
spettacoli precedenti: niente boa di struzzo, niente abiti femminili, nessun altro
attore, nessuna trama, nemmeno pretestuosa. Sul palco ci sono soltanto Poli (in
frac nero nella prima parte, bianco nella seconda) e il pianoforte a cui fa
riferimento il titolo, alla cui tastiera siede Jaqueline Perrotin.
In realtà Mezzacoda é quasi un riassunto dell’attività precedente di Poli: l’uomo
solo sul palco, la sua voce e la sua capacità evocativa per interpretare lo
sciocchezzario del nostro secolo dai primi anno fino agli anni sessanta con puntate
indietro nel tempo, come per la composizione di tale Gaspare Murtola, nemico
giurato del Marini, il quale si ingegnò a rimediare una lista completa dei doppi
sensi sull’archibugio. Ma, per la maggior parte, si tratta del repertorio di sempre,
una parte dedicata al mito della “Belle dame sans merci”, il mito salottiero della
donna fatale, ma anche I canarini delle Canarie (che sono “bestiole proletarie”) e
così via, a completare il monumento alla stupidità del nostro secolo.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 67
Tra il maggio e il giugno del ‘79, Poli porta in scena al Niccolini , e soltanto lì,
L’Morino, una commedia in dialetto fiorentino scritta negli anni ‘20 da Bruno
Carbocci. Poli (che interpreta la nonna buona) rinverdisce la storia di Pel di carota,
e ci mette dentro le canzoni di Spadaro: con lui un gruppo di otto attori tra cui
Marco Messeri, Carlo Monni, Donato Sannini, Paolo Pieri.
1979/80 - Mistica
Nel frattempo Poli progetta, per la stagione ‘79/80, uno spettacolo in cui fare tutto
completamente da solo, rinunciando perfino al pianoforte. Per l’occasione tira
fuori dal cassetto un testo di Fogazzaro, Nadejde, ne cambia il titolo in Mistica e
riduce l’impianto scenico all’essenziale: due bauli di abiti, sei tecnici che lo
aiutino a cambiarsi nel giro di 30 secondi.
In Mistica Poli interpreta sette personaggi, e precisamente: Tatiana (fulgida
principessa), Gerard principe De La Roche Plessy (suo marito, un reprobo
galante), Nadejde (piccola anima diafana, loro figlia), Cadorini (segretario, poeta e
cultore dell’Ideale), Fraulein Paula (istitutrice di bellicose virtù), Granduca Ivan
(seduttore di sangue reale), Lucia (vezzosa servetta dal cuore gentile). Poli, unico
interprete, monologa davanti ad un fondale dipinto, rivolto al pubblico, oppure con
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 68
sagome di cartone delle altre facce di se stesso: e ad ognuno dei suoi interventi dà
la consistenza di un numero da music-hall, da chiudere con una canzoncina.
Unanimemente elogiative le critiche per questo spettacolo che forse più di ogni
altro ha esaltato le qualità di Poli.
1981 - Paradosso
Nella primavera dell’81 Maurizio Scaparro invita Poli a partecipare, nell’ambito
della Biennale Teatro, al carnevale del ‘700, della ragione: e per Poli, uomo che
ama ribaltare il senso comune, l’unica stravaganza che pare opportuna é il rigore,
la norma: Sceglie dunque per questa occasione un testo di Diderot, il celeberrimo
Paradoxe sur le comédien; da qui il titolo, Paradosso.
Sul palco con lui c’é di nuovo la sorella Lucia.
Nella prima parte dello spettacolo i due attori, disposti su lettini gemelli, prima in
pigiamino bianco, poi in costume da doccia e in accappatoio, citano a turno brani
del testo diderottiano.
La parte più riuscita però pare essere la seconda dove, abbandonati i toni
settecenteschi, i due tornano ai temi a loro più cari, ossia alla canzone e soprattutto
alla poesia del primo ‘900, Gozzano e Palazzeschi.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 69
Nella stagione successiva infatti Poli riprende lo spettacolo, sfrondandolo però
della parte più strettamente legata a Diderot, e ampliando invece la parte dedicata a
Palazzeschi e a Gozzano.
1982/83 - Bus
Nella primavera dell’82 Poli é a Roma per replicare Soirée Satie. Alla Sala
Umberto vanno a trovarlo Mario Cadalora e Egisto Marcucci, rispettivamente
presidente e direttore artistico dell’ATER, con la proposta di mettere in scena
Esercizi di stile di Raymond Queineau, un singolarissimo libro del ‘46, che
enumera 99 stili differenti per esporre lo stesso soggetto, in questo caso la
banalissima perdita di un bottone sull’autobus.
Poli accetta e contatta Umberto Eco, che stava traducendo l’originale francese per
la Einaudi; con il testo alla mano, lo taglia, lo smonta e lo ricompone come in
un’operazione dadaista.
Mentre l’autore ha giocato sulle dissonanze, sull’accostamento di brani popolari o
dotti, brevi o lunghi, Poli ha lavorato per assonanze di epoca o di argomento,
legando ad esempio tra loro gli stili con giochi di parole. In più bisognava
inventare un luogo unitario d’azione, e Poli sceglie di rappresentare l’esterno di un
autobus: Lo spettacolo infatti ha come titolo Bus.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 70
Anche qui Poli impersona una quantità di personaggi diversi, estratti da ogni epoca
e stile.
1983/85 - Magnificat9
Dopo uno spettacolo tratto da un testo contemporaneo, nelle stagioni successive
Poli ritorna a fare riferimento a testi del passato con uno spettacolo intitolato
Magnificat: egli satireggia questa volta il periodo della controriforma, intriso di
Timor Dei e di Cristi sanguinolenti, ma contrassegnato anche dal passaggio dal
sistema tolemaico a quello Copernicano e dalle grandi scoperte scientifiche.
Nei panni di un abate, Poli impartisce lezioni di pederastia a quattro chierichetti
intenti a dire i dubbi amorosi dell’Aretino, poi, sempre nei panni di un monaco,
fronteggia un quartetto di vecchi cardinali, discutendo di sesso con i trattati di
Bembo, Petrarca e di alcuni autori vicini a Marino.
Tra gli altri autori che Poli saccheggia per il suo Magnificat c’è Ferrante
Pallavicino (divorzio celeste ed elogio della pederastia) e vari testi di gesuiti, ma
anche scritti minori di autori come Rabelais, Galileo ed il già citato Aretino. Le
scenografie sono di Umberto Bertacca, i costumi di Santuzza Calì.
9 Patalogo 8, 1985, p.57
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1985/86 - Cane e gatto10
Per la stagione 85/86, Poli torna a far compagnia con la sorella Lucia, con la quale
costruisce uno spettacolo che è un viaggio attraverso il novecento i cui
protagonisti, invece che uomini sono animali: da qui il titolo, Cane e gatto,
appunto.
Il testo dello spettacolo, che per la scrittura si avvale come sempre dell’aiuto della
Omboni, si compone di brani di autori novecenteschi, a partire dall’amato
Palazzeschi, già usato per Paradosso, per proseguire con Il mare delle blatte di
Tommaso Pandolfi, con Riccardo Bacchelli di lo sa il tonno e Storie della
preistoria di Moravia. I due attori sono intervenuti con discrezione sui testi, non
manipolando ma soltanto analizzando attentamente la struttura letteraria e il senso
delle parole, secondo un’ottica teatrale.
Durante lo spettacolo si intrecciano dunque la palazzeschiana battaglia tra le
farfalle, frivole e gaudenti, e le laboriose formiche, e l’amore sbagliato della
gallina Pompona per il promettente gallo Zarù, proditoriamente accapponato; e
ancora la tenera vicenda d’amore di due giovani tonni inesperti finiti nella
mattanza e l’orrido mondo descritto da Landolfi, l’assurda crociera in un mare
coperto di scarafaggi.
10 Il Tirreno, Giovedì 21 novembre 1985
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 72
Una parte fondamentale è quella affidata alle canzoni, scelte da Jacqueline
Perrotin, che costituiscono un osservatorio impietoso del costume nazionale del
nostro secolo: si passa dai classici Ferriera, Miniera, Sotto l’ombrellino, ai
contemporanei Celentano, Gaber, Al Bano e Romina, Rettore, riproposti
ovviamente in stile Poli. I due fratelli attori recitano circondati da bambole,
burattini e pupazzi creati da Santuzza Calì, ambientati nella scena vagamente
leonardesca di Lorenzo Tornabuoni.
Nella stagione successiva, Poli riprende questo stesso spettacolo e quello della
stagione ancora precedente, Magnificat.
1986/88 - Farfalle11
Per lo spettacolo prodotto nella stagione 1986/87, Poli si ispira di nuovo ad un
autore italiano del primo novecento: si tratta questa volta di Guido Gozzano,
nostalgico delle “buone cose di pessimo gusto”, ma anche di cocottine. Attraverso
le poesie di Gozzano, Poli traccia l’ennesimo ritratto dell’Italia di inizio secolo in
cui, tra sentieri, biciclette e sensibilità campestri popolate di farfalle (da cui il
titolo dello spettacolo, farfalle, appunto) spunta il Gozzano più gaudente e
morboso.
11 Patalogo 10, 1987, p.103
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Che sia nei panni di un pipistrello tutto d’oro o della matrigna di Biancaneve, che
sia Nefertiti o Cleopatra, odalisca o dea Kalì, Poli canta negli sgargianti abiti
disegnati da Umberto Bertacca, adattando appena le canzoni d’epoca che scoprono
con innocenza il loro lato turpe, sia quando mostrano il lato porcellone di una
borghesia che si voleva serissima ed austera, sia quando ne svelano la sua tendenza
irresistibilmente guerrafondaia e sfruttatrice; esercito, guerra, famiglia, famiglia
reale, progresso e demagogia, gerarchie e illusioni coloniali, Poli tritura tutto per
restituirlo al pubblico con una leggerezza piena di ironia.
Nella stagione 1987/88 riprende Mistica, lo spettacolo prodotto nella stagione
1979/80 ispirato alla Nadeide di Fogazzaro12
1988/90 - I legami pericolosi13
Il 1988 è l’anno de I legami Pericolosi, testo sacro del libertinaggio settecentesco:
è la terza volta che il romanzo epistolare do Choderlos de Lactos diviene in Italia
spettacolo teatrale14.
Nella versione prodotta da Poli, oltre all’attore, vi è nei panni dell’altra autrice
delle lettere Milena Vucotic; tutti e due armati dall’inizio alla fine di uno scrittoio
12 Vedi p.67 13 Patalogo 12, 1989, p.99 14 Durante la stessa stagione gira per i teatri italiani una versione dello stesso romanzo interpretata da Umberto Orsini e Pamela Villoresi.
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portatile “a gamba”, cambiando parrucca e costumi dal celeste cenere al rosa
cipria, il loro settecento postale diventa, senza tradire l’originale e la temperie da
cui nasce, un repertorio di desideri e frustrazioni dell’eros universale. I due attori
sono attorniati sul palco da quattro mimi intenti a fare tableaux vivants di
orientalerie da figurina, a ballare minuetti forestali oppure a mimare parabole
edificanti di cervi circondati da lupi e destinati a perire sotto i dardi di Diana
cacciatrice. Questa è una delle uscite della Marchesa Vucotic-Merteuil, che ogni
tanto abbandona la penna per gustosi travestimenti dal vivo.
E il finale, per restare in tema di libertinaggio, assume i toni del Don Giovanni
mozartiano, dato che lo spettacolo intero poggia sulle musiche colte e maliziose
scelte come sempre da Jacqueline Perrotin.
1990/92 - Il coturno e la ciabatta15
Con Il coturno e la ciabatta Poli inaugura una formula che rimarrà intatta per tutti
gli spettacoli seguenti, a partire proprio da La leggenda di San Gregorio, prodotto
nella stagione ‘92/’93 e replicato in quella successiva, per proseguire con L’asino
d’oro (stagione ‘95/96 e ‘96/97) fino anche all’ultimissima produzione, I viaggi di
Gulliver. Innanzi tutto questo spettacolo segna l’inizio di una stabile
15 Patalogo 14, 1991, p.101
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collaborazione con un amico di vecchia data, conosciuto ai tempi de La borsa di
Arlecchino: Lele Luzzati. Anche la formula rimane sostanzialmente immutata in
tutti e quattro gli spettacoli: identico l’impianto scenografico (fondali dipinti da
Luzzati, la stessa pedana), identica anche la struttura stessa dello spettacolo con
quadri monologati che si alternano a quadri mimati e muti16.
Lo spettacolo è tratto da Narrate uomini la vostra storia, di Alberto Savinio, da cui
Poli ha estrapolato cinque “busti al Pincio”, scolpiti da Savinio con l’elegante e
appuntito cesello della prosa d’arte: si tratta dei ritratti di Felice Cavallotti, Isadora
Duncan, Giuseppe Verdi, Paracelso, Vincenzo Gemito a cui Poli ha anche
aggiunto l’introduzione a Capitan Ulisse e ad Amore e Psiche.
Per una volta Poli non ha scelto un autore da sbeffeggiare ma uno verso il quale
sente di avere delle profonde affinità, in uno stile leggero che sprofonda in
citazioni colte e in quel gusto dell’ibrido che unisce gli opposti in un’atmosfera di
quotidianità surreale, come nei quadri di Savinio, in cui si vede gente che fa il
bagno in un parquet di legno pieno di onde, o un babbo che somiglia ad una
poltrona (il poltrobabbo), o scollature da cui emerge una testa di struzzo.
Nella stagione successiva Poli produrrà e reciterà La leggenda di San Gregorio.
16 In I viaggi di Gulliver questa struttura subisce delle piccole variazioni grazie alla persenza di un altro giovane attore comico, coprotagonista di Poli, nelle vesti di Gulliver: Pino Strabioli.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 76
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo
Notizie relative allo spettacolo
La sera del 5 Novembre 1992 Paolo Poli rappresenta per la prima volta a
Pistoia, al teatro Manzoni, La Leggenda di San Gregorio.
Si tratta di uno spettacolo in due tempi tratto da un poemetto medievale
composto dal monaco tedesco Hartmann von Aue intorno al 1200 che aveva già
ispirato Thomas Mann, che di Gregorio fece, alla metà di questo secolo, il
protagonista di uno dei suoi ultimi romanzi: L’Eletto. Per l’autore tedesco uscito
dagli orrori della guerra e del Nazismo, rappresenta “l’insicurezza di fronte ai
limiti che nella vita degli uomini dividono l’idea del bene da quella del male e le
forme in cui essi credono di saperli riconoscere” 17.
L’adattamento è stato prodotto a quattro mani con Ida Omboni18.
17 L. Ritter Santini, Introduzione a L’Eletto, di Thomas Mann, Milano, Mondadori, 1979, p.8 18 La collaborazione di Poli con Ida Omboni risale al 1962, quando Poli mette in scena la contestatissima Rita da Cascia, testo scritto dalla Omboni e continua ancora oggi senza aver subito alcuna interruzione.
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Per la realizzazione delle scene Poli si è affidato, come spesso aveva fatto anche
in precedenza19, ad uno dei maggiori scenografi italiani, Emanuele Luzzati, che
ha ideato e dipinto 14 fondali. I costumi sono di Santuzza Calí , le maschere di
Gabriella Saladino, entrambe legate al gruppo di lavoro di E. Luzzati, le musiche
curate da Jaqueline Perrotin, le coreografie di Claudia Lowrence, tutti sono negli
ultimi anni collaboratori abituali di Poli.
Sul palco affiancano il protagonista quattro giovani mimi: Marco Magno, Luca
Pietrantoni, Rosario Spadola e Daniele Vitali.
Dalla tabella delle piazze, compilata dalla Essevuteatro, l’agenzia di
coordinamento e programmazione teatrale di cui la compagnia Poli si è avvalsa
per l’organizzazione della stagione, risulta che nell’arco della stagione 1992/93
lo spettacolo è stato rappresentato, oltre che nella città di Pistoia, dove
tradizionalmente Poli rappresenta la prima dei suoi nuovi lavori, a Firenze
(Teatro Niccolini dal 10/11 al 20/12), Imola (Teatro Comunale, dal 21/12 al
27/12), Torino (Teatro Carignano, dal 28/12 al 10/1), Bologna (Teatro Testoni,
dal 14/1 al 24/1), Ferrara (Teatro Comunale, dal 26/1 al 31/1), Reggio Emilia
(Teatro Ariosto, dal 2/2 al 7/2) , Budrio (il 9 e il 10/2), Lucca (Teatro del Giglio,
19 In particolare per Il coturno e la ciabatta, e successivamente per L’asino d’oro e I viaggi di Gulliver
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dal 11/2 al 14/2), Roma (Teatro Valle, dal 16/2 al 7/3), Modena (Teatro Storchi,
dal 9/3 al 14/3), Cesena ( Teatro Bonci, dal 16/3 al 21/3), Piacenza ( Teatro
Municipale, dal 23/3 al 25/3), Parma (Teatro Regio, dal 26/3 al 28/3), Venezia
(Teatro del Lidotto, dall’ 1/4 al 25/4).
Una breve presentazione nel programma di sala serve in parte a chiarire la scelta
di un testo che a prima vista può risultare estraneo al repertorio classico di Poli,
ispirato soprattutto a testi dell’ottocento e del primo novecento.
Ai tempi dei tempi, ed erano bei tempi, la televisione non c’era. Non c’erano
neanche gli altri massmedia per la buona ragione che non erano stati inventati.
Per divagarsi la gente, salvo pochi privilegiati, aveva solo qualche leggenda,
molte favole e soprattutto le storie dei Santi.
Il grande intrattenimento era la predica domenicale. Ma nessuno si annoiava
perché la fantasia, che allora non era “off limits”, portava istintivamente a
mescolare , creando una infinità di variazioni: dall’horror all’erotico, dal
feerico all’avventuroso.
E i religiosi, anche i più dotti e severi, non si scandalizzavano affatto di queste
contaminazioni, anzi ne approfittavano allegramente, quando addirittura non le
inventavano per divulgare le loro tesi mistiche, teologiche e ovviamente
moralissime.
Come fece fra i tanti il pio monaco tedesco Hartmann von Aue che intorno al
1200 raccontò in versi serafici e naifs, la vita di San Gregorio Papa creando,
con la disinvoltura di un regista hollywoodiano, la prima saga religiosa alla
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paprika. Beninteso per dimostrare che Dio ama in modo speciale i peccatori,
perché faticano tanto più dei buoni a fare il bene.
La sua è una vicenda variegata e bizzarra che si snoda tra teneri amori e truci
malvagità, fra incesti, guerre e pargoletti abbandonati.
Ed è ricco non solo di poesia, ma di acuti risvolti attuali che confinano
largamente con la visione psicoanalitica.
Questo perché il buon fraticello, per dar vita ai suoi personaggi, ha scavato a
fondo nella natura dell’uomo che, nelle sue luci e nelle sue ombre, è sempre
nuovissima e sempre uguale a se stessa.
Da questo affascinante spunto è nata una favola teatrale incantata e giocosa, un
divertito e divertente cocktail di malizia, meditazione e comicità, dove il clima e
l’ambientazione sono affidati a balletti e canzoni d’epoca.
Uno spettacolo come sempre a doppia lettura: scherzoso per chi cerca
distensione, e ricco di intriganti allusioni culturali per chi non sdegna di
pensare.
Rivelandosi ricco di intrighi e di passioni, di nefandezze e pentimenti La
Leggenda di San Gregorio non è poi molto diversa da Carolina Invernizio20 e
dimostra che la “natura dell’uomo (...) è sempre nuovissima e sempre uguale a se
stessa”21.
Affiora con evidenza il carattere favolistico che Poli ha inteso dare al suo lavoro.
20Ida Omboni e Paolo Poli, Carolina Invernizio!, Milano, Milano Libri Edizioni, 1970 21dal programma di sala de La Leggenda di San Gregorio, stagione 1992/93, copia consultata presso la Biblioteca del Burcardo, Roma.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 80
Le favole hanno una morale, palese o nascosta, che affonda le sue radici nelle
miserie e negli splendori dell’uomo. Quella di Hartmann von Aue è che “Dio
ama in modo speciale i peccatori, perché faticano tanto più dei buoni a fare il
bene”. Poli si ripromette invece di far riflettere lo spettatore sull’ipocrisia di
certa bontà.
L’impianto scenografico dell’intero spettacolo, del tutto simile, come struttura, a
quello dello spettacolo precedente di Poli, Il coturno e la ciabatta, e a quello
degli spettacoli delle stagioni successive, L’asino d’oro e I viaggi di Gulliver, è
costituito soprattutto da grandi fondali e da quinte dipinte da Emanuele Luzzati,
che vengono issati, proprio come le vele delle navi, tramite un congegno di funi
e carrucole. Si aprono tre uscite per ogni lato: una a ridosso del fondale, una a
metà e una verso il proscenio. L’unico altro elemento scenografico presente è
costituito da un praticabile di colore azzurro, alto circa 50 cm che corre lungo
tutta la parete di fondo del palco e che degrada in due lunghi scalini verso il
pubblico; ai lati, più alte ( in tutto circa 1 metro) ma comunque unite al
praticabile, due scale con 5 scalini, sempre azzurre. Tale struttura permane per
tutta la durata dello spettacolo, dove il piano rialzato, otticamente quasi
inglobato dalle prospettive dipinte dei fondali, distingue di volta in volta i vari
spazi.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 81
ATTO I
Scena Prima “il cortile del palazzo”
Quadro unico “I duchi non possono avere figli”
All’apertura del sipario sulle lunghe scale frontali del praticabile stanno seduti
due personaggi: Il Duca e la Duchessa.
Entrambi sono vestiti con ampi abiti, di tonalità rosso scuro quello della donna,
verde scuro quello dell’uomo, con un grande mantello rosso: non è possibile
riscontrare una somiglianza con abiti e acconciature di epoca definita, se non
estremamente vaga. L’epoca richiamata alla memoria, per quanto lievemente
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 82
ispirata al medioevo, è quella che nelle favole segue spesso il “c’era una volta”,
ossia un non meglio definito “tanto tempo fa”, un tempo indefinibile e irreale.
Come gran parte dei personaggi dello spettacolo, il duca e la duchessa hanno il
volto coperto da una maschera. La maschera della duchessa, di colore naturale,
in cui spiccano soprattutto le macchie nere degli occhi, non è particolarmente
caratterizzata; quella del duca essendo fornita di barba, baffi e sopracciglia
bianchi, è tale da caratterizzare soprattutto il fattore età.
I due personaggi sono facilmente individuabili come nobili sia grazie alle
maschere, senza espressione particolare, sia dagli abiti, sontuosi e ricchi, dotati
di copricapi e ampi mantelli.
Poli ha fatto di questo spettacolo una sorta di paradigma di varie tecniche
spettacolari e recitative, includendo non solo scene dialogate o monologate, ma
anche una quantità di scene mute, per le quali le tecniche naturali sono il mimo e
la pantomima: due tecniche che nel corso del ‘900 hanno dato vita ad un intenso
dibattito che ha coinvolto, grazie ad Artaud22, l’essenza stessa del teatro
occidentale, un dibattito teso a confrontare e spesso ad opporre un teatro fondato
sulla parola ad uno basato invece sull’azione e sul gesto.
22A.Artaud, La messa in scena e la metafisica, in Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1972. pp 151-164
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 83
Di questo dibattito e di come la pantomima degli attori del La Leggenda di San
Gregorio vi si inserisca, avrò modo di parlare più pertinentemente nell’analisi
della Scena III23; in questa prima scena la regia ha propeso per un mimo molto
lineare e assolutamente non realistico che, come nella più recente tradizione,
rinuncia alla mimica facciale, del tutto pietrificata dietro maschere inespressive,
ma privilegia il rapporto con il linguaggio verbale, assente in questa scena, ma
vero referente diretto di ogni azione, costituita da pochi gesti ampi e puliti, il cui
significato arriva diretto al pubblico senza rischiare di essere nascosto o confuso
dietro altri segnali minori.
Il movimento scenico è talvolta guidato dal ritmo musicale al punto di creare
momenti al limite tra mimo e danza.
Questa scena è un vero e proprio prologo, per mezzo del quale il pubblico viene
introdotto con pochi gesti nell’ambito della storia.
Come ogni prologo deve essere breve, contratto nel tempo e estremamente
chiaro.
Le informazioni di cui il pubblico ha bisogno per entrare poi nel vivo della
vicenda sono, in fondo, poche ma fondamentali: ogni gesto di questo prologo
coincide perfettamente, e senza sbavature o informazioni aggiuntive, con una
informazione.
23 vedi p.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. Errore. Il segnalibro non è definito.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 84
All’apertura del sipario, il vecchio Duca accarezza per due volte sulla guancia la
sua sposa: sono carezze dal gesto ampissimo, esasperato, che ci raccontano di
un uomo ed una donna tra cui esiste un rapporto di affetto.
Se il primo gesto chiarisce il rapporto che intercorre tra i due personaggi sulla
scena, l’azione successiva si colloca per un attimo al di fuori del racconto e
delinea un rapporto diverso, ma dal punto di vista registico, fondamentale .
I due personaggi si alzano e per mano avanzano verso il proscenio, quindi si
inchinano di fronte al pubblico.
Questo inchino è importante soprattutto per il suo valore linguistico: si tratta di
una vera e propria interpellazione che rende evidente l’esistenza di un
destinatario del racconto ( quello che la narratologia moderna definisce con il
termine narratario), il pubblico, a cui gli attori, già dalla prima scena si
rivolgono direttamente; questa scelta mette Poli in contrasto con una delle regole
fondamentali del teatro borghese24, teatro che ha dominato le scene italiane per
tutto l’ottocento e, salvo alcune eccezioni, per gran parte del novecento, e che, in
una certa misura resiste ancora oggi.
24 Per le caratteristiche principali del teatro moderno o borghese vedi P.Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1972, pp.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 85
Per il teatro borghese una delle caratteristiche fondamentali è l’assolutezza25: lo
spettacolo è concepito come qualcosa a se stante che accade hic et nunc e che
prescinde totalmente sia dal proprio autore, che dagli attori che ne incarnano i
personaggi, che dal pubblico, ridotto al ruolo di semplice voyeur dall’esistenza di
una immaginaria quarta parete che chiude il dramma in se stesso oltre gli
spettatori.
Questo semplice gesto dei due personaggi del San Gregorio, questo inchino al
pubblico, rompe la quarta parete ( o meglio ne sottolinea la non esistenza) e
chiarisce ed evidenzia il carattere non di verità ma di finzione di ciò che accade
sulla scena.
Il teatro borghese ha abituato il pubblico a dimenticare la propria presenza come
destinatario, e quindi come soggetto fondamentale (e pensante, quindi in un certo
qual modo attivo) del dialogo teatrale.
Intendo per dialogo teatrale non quello tra i personaggi in azione sulla scena, ma
quello fondamentale tra autore e pubblico.
Rendere al pubblico la propria dignità di soggetto, partecipe della dinamica
spettacolare, non solo fa di ogni spettatore un soggetto attivo e critico, cosa che,
come si renderà più evidente nelle scene successive, è comunque fatto di
fondamentale importanza, ma ha l’effetto di rendere evidente anche l’altro
25P.Szondi, op. cit., p.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 86
soggetto del dialogo, colui che parla, che racconta, cioè il regista, in questo caso
vero autore totale dello spettacolo, di cui è anche adattatore (insieme alla
Omboni) e protagonista, quindi referente e interlocutore visibile e diretto per il
pubblico.
Molte altre scelte registiche dello spettacolo (la cui analisi rimando a scene più
significative) vanno nella direzione di un teatro che, ben lontano dal puntare alla
mimesi e all’immedesimazione dello spettatore, cerca tramite tecniche
spettacolari (a partire dalle maschere stesse, dal rivolgersi direttamente al
pubblico, alla canzone e alla danza) un effetto di straniamento26.
Nel terzo frammento narrativo della prima scena i due personaggi, dopo aver
accennato un gesto di dolore, tornano verso il fondo del palco, salgono i gradini
della pedana e da dietro le paretine rialzate ai lati della pedana stessa prendono
ognuno un cavolo, quindi a turno lo alzano e scuotono il capo.
Per la prima volta l’azione scenica racconta una parte sostanziale della vicenda
(i primi due movimenti avevano presentato i personaggi e chiarito il loro
rapporto con il pubblico) : i due duchi non riescono ad avere figli.
26B.Brecht, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1962, p.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 87
In una scenografia che non comprende nessun tipo di oggetto decorativo o di
suppellettile, gli oggetti che compaiono in questo frammento scenico assumono
un valore linguistico particolare, del tutto simile a quello che assumono i gesti.
Trattandosi di elementi fondamentali per la comprensione da parte del pubblico
del significato della scena, il loro significato deve essere pulito e chiaro; gli
oggetti vengono tenuti nascosti, quindi mostrati al momento in cui servono per
comunicare il concetto ( il desiderio e l’impossibilità di avere figli per i cavoli,
ma stesso discorso si può fare per la cicogna che compare nel frammento
successivo e per i due bambolotti vestiti di rosa e celeste del finale della scena) e
poi di nuovo occultati alla vista, perché non confondano con il loro significato,
ormai comunicato e acquisito, il resto della scena ( ad esempio i due cavoli
vengono mostrati, accompagnando il gesto con un eloquente scuotere di capo,
quindi riportati in quinta).
Poli si serve dunque degli oggetti come di frasi di un linguaggio visivo, facendo
caso a rendere questo linguaggio il più chiaro e comprensibile possibile, per
facilitare al pubblico la lettura di una scena, muta e recitata da attori cui la
maschera impedisce la comunicazione per mimica facciale.
È ancora per una volontà di chiarezza che Poli sceglie di usare oggetti che sono
saldamente nell’immaginario collettivo e il cui significato risulta
immediatamente chiaro a chiunque.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 88
Dopo aver riportato i cavoli dietro le quinte, i due duchi tornano alle scalette
della pedana e, inginocchiati spalle al pubblico, pregano, rivolti alla chiesetta
rosa dipinta sul fondale.
Pochi istanti dopo, dalla quinta di destra compare uno dei mimi in maschera di
cicogna con nel becco un fagottino da cui spuntano due testine rosse.
In tutto il resto della scena il movimento da semplice mimo diviene quasi danza,
al ritmo marcato della musica.
La cicogna attraversa tutto il palco, passando alle spalle dei due Duchi in
preghiera, sale sulla pedana dalle scalette di sinistra per passare quindi davanti ai
due che si lanciano in una animata mimica di gioia e sorpresa; la cicogna
continua a danzare sbattendo le ali a ritmo della musica: l’ingresso della nutrice
dalla quinta di destra imprime un moto diverso alla danza: la cicogna fugge
inseguita dalla nutrice, seguita a sua volta dalla duchessa e dal duca, in una sorta
di girotondo che si interrompe solo con l’uscita della cicogna e della nutrice
dalla quinta di sinistra.
La nutrice è il primo personaggio popolare che si incontra all’interno dello
spettacolo: veste un abito panna, non troppo lontano dall’immagine della nutrice
primo novecento, non molto ampio e con una giacchettina avvitata giusto sotto il
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 89
seno e una cuffia, quella si ampia (anche perché abbastanza caratteristica della
figura della balia).
La maschera, a differenza da quella dei due personaggi nobili, è caratterizzata da
tratti somatici forti, un’ampia fronte scoperta, un grosso naso, ma soprattutto un
evidente doppiomento e un neo molto marcato.
Rimasti soli i due Duchi si abbracciano, e rivolgono ancora gesti di gioia alla
volta del pubblico; la nutrice rientra con in braccio due bambolottini, infagottati
rispettivamente in fasce di colore rosa e celeste, che consegna nelle braccia dei
genitori.
Anche in questa parte la scena mantiene i ritmi della danza, con coreografie
estremamente semplici ma precise: i due Duchi tendono verso il cielo i bambini,
e compiono numerose giravolte su loro stessi, facendo roteare gli ampi abiti,
mentre la nutrice rimane ferma al centro, un po’ più arretrata, macchia bianca tra
le due macchie di colore forte degli abiti degli altri personaggi.
Dopo aver cullato, sempre a ritmo di musica, i due bambini, tutti escono dalla
quinta di sinistra.
Questa prima scena dovrebbe corrispondere ai versi 178-184 del poemetto del
monaco tedesco Von Aue27:
27H.Von Aue, Gregorio e Il povero Enrico, Testo a fronte, traduzione italiana a cura di L.Mancinelli, Torino, Einaudi, 1989, p11.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 90
Giace in Francia una regione
che chiamata è Aquitania,
né dal mare essa è lontana.
Il signor di quella terra
generò dalla sua sposa
due fanciulli che d’aspetto
eran belli quanto mai,
un maschietto e una bambina.
Confrontando i versi che hanno ispirato questa prima scena dello spettacolo e la
scena stessa si evidenzia quanto importante sia stato l’intervento di Poli e della
Omboni sul testo nella direzione della favola: nel testo di Von Aue, infatti, non
vi è alcun accenno alla difficoltà dei due Duchi ( da Von Aue definiti soltanto
signori ) ad avere figli, difficoltà su cui invece è incentrata tutta la scena che fa
da prologo allo spettacolo.
Anche ne l’Eletto, di Mann, si trova questa stessa aggiunta al testo del poema: a
pagina 31 si legge:
Una sola cosa [...]mancava per render perfetta la loro felicità: i figli. E quante
volte non si vedevano i due coniugi inginocchiarsi l’uno accanto all’altro sui
cuscini di velluto e levate le mani al cielo, invocando la grazia sempre
rifiutata!28
28 T. Mann, L’Eletto, Milano, Mondadori, 1979, p.31
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 91
Risalendo ancora più indietro, credo che la fonte di questa piccola aggiunta si
può ritrovare facilmente nella tradizione favolistica, ricchissima di coppie di re
che ottengono la loro prole solo dopo anni di sofferenze e di preghiere29.
Un altro particolare di cui tenere conto in vista dell’analisi delle scene seguenti è
la prima comparsa sulla scena dei due bambini, il Duca e la Duchessina, che
assumeranno un ruolo da protagonisti nelle due scene successive; li si vede
prima come due testoline che sporgono dal fagotto portato in bocca dalla
cicogna, poi come due bambolotti in fasce e gale, affidati dalla nutrice al Duca e
alla Duchessa.
Il tratto che li contraddistingue, e che continuerà ad essere un fattore distintivo
forte per tutto lo spettacolo, è una nota di colore: i capelli di un rosso acceso, una
sorta di marchio di famiglia che non solo caratterizza i due fratelli, ma che i due
passeranno anche al figlio Gregorio.
29Cito, soltanto a titolo di esempio una delle molte favole che prendono spunto da questo tema: Una volta c’era un Re e una Regina, e non avevano figli; e per ciò la Corte era come in lutto, tutti disperati. La Regina pregava notte e giorno, ma non sapeva più a che Santo votarsi, perchè tutti i Santi facevano i sordi, e finalmente un giorno pregò così:- Madonna mia, fammi avere una figlia anche se fosse per farmela morire a quindici anni per essersi punta col fuso! Ed ecco che si mise ad aspettare e le nacque una bambina che era una bellezza. [...] La bella addormentata e i suoi figli in A.A.V.V., Fiabe italiane, vol.II, a cura di I.Calvino, Torino, Einaudi, 1956. p.562
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 92
Scena Seconda “l’unicorno”
Quadro unico “Monologo del racconto”
Nella seconda scena si attua per la prima volta una alternanza tipica dell’intero
spettacolo, quella tra scene mute e mimate e scene in cui invece la parola, in
questo caso il racconto, ha un ruolo predominante.
Paolo Poli , solo sul palco per tutta la scena, riveste il ruolo di narratore e lo fa
nei panni di un monaco.
La figura del Frate Narratore, che caratterizza molte scene all’interno dello
spettacolo, deriva probabilmente dalla fusione di due figure di frate: la prima è
certamente quella di Hartmann Von Aue, chierico tedesco di cui si conosce ben
poco, autore del poemetto da cui lo spettacolo è tratto. L’altro, figura ben più
interessante dal punto di vista narrativo, creata dalla penna di T.Mann, è
Clemente d’Irlanda “ordinis divi benedicti”, narratore, o meglio “incarnazione
dello spirito della narrazione” ne L’Eletto.
Il romanzo di Mann esordisce con il risuonare delle campane a Roma, all’arrivo
di Gregorio, Papa voluto dal cielo. Per la tradizione il suonare di tutte le
campane di Roma senza che mano di campanaro toccasse le funi nei campanili
fu il segno della benevolenza di Dio nei confronti del nuovo Pontefice. Per
Thomas Mann l’unica mano che suona contemporaneamente tutte le campane
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 93
non è quella di Dio, ma quella dello spirito della narrazione, che con il solo dire
“le campane suonano” diviene colui che le suona.
Credo che sia interessante riportare l’intero brano:
Chi dunque suona le campane di Roma? - lo spirito della narrazione - può
dunque egli essere dappertutto, hic et ubique, può, per esempio, essere nello
stesso tempo sulla torre di San Giorgio in Velabro e lassù a Santa Sabina, che
conserva ancora le colonne dell’esecrabile tempio di Diana? Può suonare nello
stesso tempo in cento luoghi sacri? - certo, lo può. È aereo, incorporeo,
onnipresente, non legato allo spazio, non soggetto alle differenze del Qui e Là.
È lui che dice: “Tutte le campane suonano” e di conseguenza è lui che le suona.
Così spirituale è questo spirito e così astratto che di lui, grammaticalmente, si
può parlare solo nella terza persona e si può dire solo: “Egli è”. Ma questo
“Egli” può anche raccogliersi in una persona, e cioè nella prima, e
impersonarsi in qualcuno che in essa parla e dice: “Sono io. Io sono lo spirito
della narrazione che, seduto là dove ora mi trovo, e precisamente nella
biblioteca del chiostro di San Gallo, in terra alemanna, dove una volta sedeva
Notkero il balbuziente, racconto questa storia per divertimento e straordinaria
edificazione e comincio dalla sua fine gloriosamente santa e suono le campane
di Roma, id est, racconto che in quel giorno dell’ingresso tutte le campane
cominciarono a suonar da se stesse”30.
Vestendo i panni del frate, Poli porta sulla scena quindi non due soli personaggi,
ma tre: Von Aue, Clemente d’Irlanda e soprattutto lo Spirito della narrazione,
30 T. Mann, L’eletto, Milano, Mondadori, 1979, p. 24
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 94
che da lontano, con ironia e divertimento, e raccontando fa suonare le campane
di Roma, muove gli uomini come pupazzi lungo il loro destino.
L’abito che Poli indossa richiama facilmente alla memoria un saio da frate,
anche se non contiene alcun segno distintivo che lo associ ad un particolare abito
talare o ordine religioso: si tratta di una tunica bianco-panna su cui poggia una
lunga stola dello stesso colore ma fortemente sfrangiata e fornita di un grande
cappuccio adagiato sulle spalle.
Poli non indossa una vera e propria maschera, ma a caratterizzare il suo
personaggio basta una calotta di capelli grigiastri a richiamare la tonsura
fratesca.
Significativamente, le prime parole di questo spettacolo sono “C’era una volta”,
a confermare una volta di più che Poli ha inteso trattare la storia raccontata da
Von Aue come una favola.
Le parole che seguono sono un racconto fedele e puntuale della scena
precedente, Poli narra di nuovo il non poter avere figli dei due Duchi, il loro
dolore e le loro preghiere, infine l’arrivo di due gemelli: un bambino e una
bambina; prosegue poi con la morte della Duchessa di parto e con l’infanzia dei
due fanciulli, cresciuti nel reciproco affetto, fino al giorno in cui il padre li
chiama a se sul letto di morte.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 95
Fino a questo punto la narrazione è stata breve e lineare, semplicemente verbale,
un mero elenco di informazioni.
Nel frammento successivo Poli utilizza uno stratagemma scenico per
visualizzare la conversazione tra i due giovani Duchi e il padre morente.
Da un cubo azzurro, collocato nella posizione della buca del suggeritore, l’attore
estrae due burattini a guanto, con testa e mani rigide fissati su un supporto di
stoffa ed inseriti in due piccole scatole decorate come dei teatrini in miniatura.
Questi due burattini incarnano i due giovani, riconoscibili per i capelli rossi: la
conversazione si svolge tra i due burattini ( che parlano, è ovvio, con la voce di
Poli) e il volto di Poli, al centro, come padre morente.
Questa scena corrisponde alla vicenda narrata nel Gregorio nei versi dal 185 al
269, in cui il padre, sul letto di morte, si congeda dai nobili del suo regno e dai
due fanciulli, affidando al giovinetto la cura del regno e la tutela della sorella.
La scelta di Poli di servirsi di attori meccanici, ossia di burattini, in questo caso,
di marionette nel frammento scenico immediatamente successivo, è molto
significativa, sia dal punto di vista narrativo che da quello registico.
All’interno del tessuto narrativo, il fatto che i due personaggi che saranno il
motore delle scene successive e le cui azioni determineranno il nodo drammatico
di tutto lo spettacolo (l’incesto da cui nasce Gregorio e da cui parte la sua
vicenda) siano rappresentati non da attori ma da oggetti mossi da altre mani ( il
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 96
perché siano proprio le mani di Poli sarà argomento di riflessione nello studio
nella scena successiva), suggerisce allo spettatore che le loro azioni non siano
frutto di un libero arbitrio, ma che decise da altri, siano in qualche modo
necessarie.
Nel poemetto del monaco Von Aue è la volontà di Dio o l’opera del Diavolo a
decidere le vicende dei due giovani prima e di Gregorio poi; nello spettacolo del
laico Poli piuttosto la volontà di altri uomini, che si confronta con la cronica
ingenuità dei protagonisti, o la natura stessa dell’uomo che si scontra con i rigidi
dettami della morale e della società.
In questo caso i due giovani Duchi sono ancora troppo giovani e troppo
sottomessi alla volontà paterna per mostrare anche un solo barlume di volontà
propria: anche le vaghe proteste nei confronti del matrimonio, che il padre
prospetta come prossimo ad entrambi (argomento del tutto assente nei versi del
Gregorio, ma funzionale per Poli al frammento scenico successivo) non sono
che un pretesto per un paio di battute sul legame matrimoniale (“...se una moglie
fosse cosa buona, anche Dio ne avrebbe una!”).
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 97
Nel frammento scenico successivo i due giovani duchi sono di nuovo interpretati
da quelli che ho definito attori meccanici, in questo caso da marionette articolate
a livello delle spalle e del bacino.
Si tratta del momento che corrisponde ( in modo assai vago) ai versi dal 273 al
404 del Gregorio di von Aue, ossia la cruciale vicenda del concepimento di
Gregorio dall’incesto tra i due fratelli.
Quello che nel poemetto medievale avviene dopo il crescere per anni uno
accanto all’altro dei fratelli, dopo un desiderio covato al lungo dal giovane duca
e con un atto di forza di lui sulla sorella ( complice il diavolo ), nello spettacolo
di Poli avviene con naturalezza, quasi per caso, la sera stessa del funerale del
vecchio padre: dopo una schermaglia sulla possibilità di ognuno dei due di
andare a nozze con qualche nobile del regno, schermaglia in cui risaltano i toni
tipici della gelosia tra innamorati, i due prendono pian piano coscienza
dell’attrazione che li lega, basata soprattutto sul loro essere pressoché identici
(anche visivamente, le due marionette nude che rappresentano i due giovani
sono sostanzialmente identiche, fatta eccezione per i capelli di lui, un po’ più
corti, e il seno di lei, un po’ più evidente), tanto da concludere che “è
l’uguaglianza che appaga il cuore”: l’unione di due esseri identici in uno appare,
dalle loro parole come un evento ineluttabile.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 98
La differenza fondamentale tra il modo in cui trattano questa vicenda Poli e il
monaco tedesco, è che per Poli c’è l’intrigo ma non c’è il peccato, o meglio, il
peccato non ha dimensione morale ma soprattutto sociale: con una frase
chiarificatrice il Connestabile di corte avrà a dire che “è più di un peccato
mortale, è un errore mondano!”.
Nel frammento scenico precedente i due burattini non solo erano vestiti (o
meglio erano i vestiti, oggetti quasi privi di una loro fisicitá) ma erano anche
quasi completamente nascosti dalla loro scatola/teatro, il che sottolinea ancora di
più la loro irrealtà e la loro dipendenza da altri: come personaggi dalla figura
centrale del padre, come attori meccanici dalle mani che li muovono
dall’interno.
Le marionette nude del terzo frammento della scena hanno guadagnato una certa
libertà a diversi livelli: come attori meccanici una libertà che misura i trenta
centimetri di filo che le separano dalle mani di Poli; come personaggi un
affrancamento dal potere paterno che consente loro di essere nudi subito dopo il
suo funerale, una nudità che è libertà di essere e di fare ciò che non la società ma
la natura suggerisce loro una volta liberatisi dai vincoli dell’ipocrisia della vita di
corte.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 99
Dal punto di vista registico, la scelta degli attori meccanici va ancora una volta
nella direzione di un interpretazione favolistica del testo; la rigidità e la
schematicitá del burattino richiamano l’unidimensionalitá del personaggio delle
favole che manca di sfaccettature e di caratteri propri che non siano funzionali al
racconto: così come i personaggi delle favole, i burattini e le marionette
appartengono ad una realtà altra, che lo spettatore osserva, ma dalla quale si
sente distante, in cui non si identifica.
Anche una scena come questa che, rappresentata in modo realistico, avrebbe
potuto risultare coinvolgente e anche commovente per il pubblico, risulta invece
quasi comica grazie all’effetto straniante dato dall’uso di attori meccanici.
A proposito dello straniamento Brecht scrive:31
Il comportamento dei personaggi all’interno della vicenda non è alcunché di
tipicamente umano e invariabile, presenta invece certe particolarità, elementi
superati o superabili nel corso della storia, ed è soggetto a critica per che si
ponga dal punto di vista dell’epoca immediatamente successiva. [...] E questa
presa di distanza che lo storico compie verso avvenimenti e modi di vivere del
passato, l’attore deve compierla verso gli avvenimenti e modi di vivere del
presente: deve cioè straniare ai nostri occhi quei fatti e quelle persone.
Fatti e persone della vita di ogni giorno, del nostro ambiente più immediato
hanno per noi qualcosa di naturale, appunto perché usuale: lo straniarli serve a
renderli inusitati.
31B. Brecht, Scritti Teatrali, Torino, Einaudi, 1962, p.77
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 100
Lo straniamento di Poli si serve delle marionette per allontanare dal pubblico i
fatti che la scena rappresenta e per renderli inusuali in modo che il pubblico non
possa identificarsi con quei personaggi, ma piuttosto guardarli e giudicare le loro
azioni da lontano.
L’uso dei burattini e delle marionette sembra essere quasi una estremizzazione
delle teorie brechtiane.
La tecnica dello straniamento dovrebbe far si che l’attore non si identifichi con il
personaggio ma che lo mostri al pubblico perché questo possa osservarlo e
giudicarlo: in questa scena l’attore non si limita a portare il suo personaggio e a
mostrarlo come se fosse una burattino, qui il personaggio è un burattino.
Nell’ultima parte della scena Poli propone per la prima volta un modello che
riprenderà, a cadenze più o meno regolari , per tutto l’arco dello spettacolo32: si
tratta di scene monologate, rivolte direttamente al pubblico, che, prendendo a
pretesto gli argomenti o i fatti toccati dalla narrazione in quel particolare
momento, proseguono con divagazioni su argomenti vari.
Nelle scene monologate in cui Poli veste i panni del Frate Narratore, quindi di un
personaggio esterno alla struttura narrativa, prevale, su quello fisico gestuale, il 32 Nel primo atto, oltre a questa ultima parte della scena II, il modello si ripropone nella scena IV e nel primo quadro della scena VII; nel secondo atto si ritrova nelle scene I, IV, VII.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 101
registro comico linguistico grazie ad un vero e proprio fuoco di fila di battute e
aforismi spesso quasi del tutto svincolati dalla trama della scena. Tra questi motti
di spirito è possibile distinguere tra alcuni che basano la loro comicità sui
contenuti ed altri che invece provocano il riso attraverso meccanismi formali.33
In questo finale di scena gli argomenti delle riflessioni umoristiche di Poli sono
l’innocenza dei due ragazzi e il fatto che sia stata la natura la guida del loro agire,
l’ignoranza dell’ amore da parte del frate e alcuni commenti comici sulla natura
della donna.
Scena Terza “l’interno del palazzo”
Questa scena è molto lunga e comprende molte tecniche attoriali diverse che
vanno dalla recitazione alla canzone per quanto riguarda Poli, dal mimo-danza
alla pantomima per gli altri attori.
Nell’arco della scena si possono individuare sei quadri:
1. Il duca e la Duchessina si dibattono tra amore e peccato
2. La Duchessina annuncia al fratello di essere incinta
33 Per una trattazione più completa del linguaggio comico di Poli ne “La leggenda di San Gregorio” vedi Cap.4, pp.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 102
3. L’intervento del Gran Vassallo a consigliare i giovani
4. La canzone del gran vassallo sull’amore
5. Nascita e abbandono del bambino
6. L’indignazione della Duchessina
7. Il dolore della Duchessina
Per quanto riguarda le tecniche attoriali, la scena ha una struttura simmetrica: nel
primo e nell’ultimo quadro la tecnica adottata è quella del mimo/danza, nel
secondo e nel sesto è la pantomima (con voce registrata), nel terzo e nel quinto è
ancora la pantomima a cui si aggiunge la presenza di Poli; il quadro centrale è
occupato dalla canzone di Poli sull’amore.
Quadro I “Fratello e sorella tra amore e peccato”
Per la prima volta i due giovani duchi sono attori in carne e ossa, per quanto con
il volto coperto da una maschera.
Per rimarcare ancora che “è l’ uguaglianza che appaga il cuore”34 i costumi dei
due fratelli-amanti sono perfettamente identici, tranne che per la lunghezza
(quello di lei arriva fino a terra, mentre quello di lui copre appena il ginocchio),
sono entrambi di velluto verde, cangiante verso il bronzo, ampi e svasati, stretti 34 Dal testo dello spettacolo, Atto I Scena II
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 103
sotto il petto da una fascia bianca a righe verdi e oro, uguale al collo e alle
maniche, corte e aperte in verticale. Sulle spalle una mantellina dello stesso
colore del vestito.
Sul capo un cappello a calotta, verde, con un risvolto bianco riccamente decorato
di verde e oro.
Entrambi hanno i capelli rossi, che, come già si è visto, sono una sorta di tratto
distintivo, quelli di lui sono corti sulle spalle, quelli di lei raccolti in lunghe
trecce.
Quasi in penombra raccontano al pubblico il loro amore ma anche il rimorso, la
preoccupazione, il dolore, e lo raccontano non con le parole ma con un mimo
che si avvicina molto alla danza, con ritmi lenti e cadenzati i loro gesti di
tenerezza e di preoccupazione, e i gesti di consolazione del giovane Duca nei
confronti della sorella si mescolano con passi di danza rinascimentale.
Quadro II “Il triste annuncio”
Nel II Quadro, finita la musica, la giovane duchessa comunica al fratello/amante
di essere incinta: i due giovani, tra la sorpresa, il disonore, che ӏ tanto maggiore
quanto più alto è il rango”35, e il terrore di aver peccato, non sanno risolversi sul
35 Dal testo dello spettacolo, Atto I Scena III
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 104
da farsi; il giovane decide di affidarsi alla saggezza del Gran Vassallo, vecchio
servitore del padre e conosciuto per la sua prudenza.
La Duchessina non sembra approvare ed esprime il suo dissenso con un
linguaggio non certo da adolescente ingenua, ma piuttosto come una signora
della buona società, avvezza ad affrontare questi problemi nei salotti,
combattendo, come al solito, a colpi di aforismi; ma infine accetta di buon grado
di fronte alla necessità.
Per la prima volta dall’inizio dello spettacolo, i personaggi non si muovono più,
muti, al ritmo della musica, ma parlano: quella che il pubblico sente, però, non è
la loro voce, bensì quella di Poli, modificata in tonalità e cadenze a seconda del
personaggio, registrata.
Anche la tecnica recitativa è cambiata rispetto alle scene mute ( ad esempio la
scena I); dal mimo si è passati ad una pantomima i cui gesti rimarcano in modo
fedele le parole: ad esempio, la Duchessina annuncia “sono incinta!”
accompagnando le parole con un eloquente gesto che, iniziato da sotto il seno,
disegna, con entrambe le mani, una grossa pancia.
Quadro III “Il consigliere”
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 105
Nel quadro III, alla presenza dei due giovani, si aggiunge quella del Gran
Vassallo, servitore ed amico del vecchio duca da cui i giovani si aspettano un
consiglio risolutivo per la loro situazione.
Il personaggio del Gran Vassallo è interpretato da Poli, vestito da un ampio
abito nero tipo mantella, lungo fino ai piedi dietro e corto davanti, da cui si
intravedono le gambe coperte da una calzamaglia bianca, dalle maniche,
anch’esse molto larghe, , sbucano le braccia con sottomaniche bianche.
Sulle spalle una mantellina nera, molto lavorata, sul capo una cuffia bianca
con lunghi lacci e un cappello ( che tiene quasi sempre in mano e che serve
per ampliare i gesti, già molto ampi) nero, simile ad un turbante, arricchito da
lunghe piume scure.
Poli porta sul viso una mezza maschera che comprende un lungo naso
aquilino, quasi un becco, fornito di lunghi baffi rigidi e dritti, di colore grigio,
e di sopracciglia altrettanto lunghe e diritte; questa maschera contribuisce a
dare all’attore l’aspetto di un grosso corvo, e rende acuto anche fisicamente
un personaggio che lo è soprattutto come spirito.
L’abito e il ruolo del personaggio lo avvicinano in parte ad una delle
maschere classiche della commedia dell’arte, quella del Dottore: sue
caratteristiche sono infatti l’abito nero con un ampio mantello e il cappello a
falda larga, il grosso naso con i baffi (anche se quello di Poli è molto più
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 106
adunco) e suo caratteristico è anche il ruolo di saggio consigliere, di
accademico infallibile.
L’aspetto, però, somiglia, più che a quello del grasso e tronfio dottore, a
Pantalone, anche lui vestito di nero, dal corpo magro e curvo e dalla
camminata a passi piccoli e saltellanti; in comune con Pantalone, la figura del
Gran Vassallo ha il tentativo di matrimonio, nel quadro V, con la giovane
duchessa, assolutamente assente dal testo di Von Aue, ma che riporta ad una
lunga tradizione della commedia dell’arte di vecchi, come Pantalone appunto,
che fanno la corte a giovinette venendone regolarmente rifiutati.
Ma, al di là delle somiglianze con maschere precise, rimane fuor di dubbio
che questo personaggio sia una vera e propria maschera, tanto è caratterizzato
sia esteriormente che interiormente.
In realtà in nessuno dei suoi personaggi Poli cerca una profondità psicologica,
sono tutti totalmente privi di sfaccettature che diano loro anche solo una
parvenza di umanità, più che personaggi i suoi sono caratteri, maschere
appunto, che fanno di un solo aspetto della loro personalità l’unico motore
delle loro azioni: nel caso del Gran Vassallo l’aspetto fondamentale è quello
di un marcato cinismo che mette i valori della mondanità e dell’esteriorità
davanti a quelli religiosi ed umani (senza lasciare dubbi dichiara che ciò che i
due fratelli hanno commesso “è più di un peccato mortale, è un errore
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 107
mondano”, ma che “c’è un rimedio per ogni colpa, nasconderla!” e
soprattutto che “l’onore con il tempo ricresce, come i capelli”).
In particolare in questa scena, più che in altre, si notano somiglianze con i tipi
della Commedia dell’arte, ossia gli Innamorati e il Vecchio:
Nella tradizione dei comici dell’arte quella degli innamorati è una parte seria,
e la loro caratteristica principale è la giovinezza:
Gl’innamorati devono scegliersi giovani e non vecchi, essendo trito presso i
comici il detto “Zanni vecchi e innamorati giovani”, poiché la vecchiaia
disdice ad Amore, e chi è innamorato in vecchiaia è degno di riso e scherno36.
Il tipo del vecchio invece, sia che si tratti di Pantalone che del Dottore, che di
uno qualsiasi degli altri presenti nella Commedia dell’arte, è sempre un tipo
comico, una maschera vera e propria, con caratteri specifici:
le parti de’vecchi sogliono essere per lo più ridicole, per essere innamorati
[...], come anche per essere avari, tenaci, sospetti e viziosi, quindi è ch’a’
diversi linguaggi si sono attribuite le parti di padri, come al veneziano la
parte di Pantalone, figurando un mercatante avaro [...]. Al bolognese se gli
dà la parte del dottore detto Graziano, che sarà dotto, ma cicalone.
36 A.Petrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso (1699), a cura di A.G.Bragaglia, Firenze, Sansoni, 1961, p. 163
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 108
Come si è detto, la figura del Gran Vassallo non corrisponde precisamente a
nessuna di queste maschere, ma il frutto della stratificazione di tutte queste
maschere di vecchi, legate insieme dal personale spirito, sagace e cinico, di
Poli.
Dopo aver bisbigliato all’orecchio del Gran Vassallo la scabrosa situazione, il
Giovane Duca e la sorella ascoltano i consigli del vecchio saggio: i due
dovranno separarsi, per evitare di tradirsi di fronte al mondo, lui crociato in
Terra Santa, lei, ricevuti dal fratello i pieni poteri di governo, a partorire in
segreto.
Tutto questo quadro è giocato sul contrasto tra chi, come dirà Poli nelle vesti
del frate Narratore nella scena successiva, “si è macchiato la coscienza per
ingenuità e chi l’ha mantenuta netta per malizia”.
Il testo di questo quadro richiama il concetto di diversione37, ossia della
creazione di un effetto comico spostando il senso del discorso da un piano
comune ad uno contrapposto: in questo caso tutto il monologo, come struttura
generale, funziona secondo questo meccanismo: da una parte sta il senso
comune, dall’altra la cinica interpretazione che ne fa il Poli.
37 vedi p.106
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 109
Il Gran Vassallo è un personaggio che fa del contrasto tra una esteriorità
rispettabile (e falsa) e una interiorità immorale e maliziosa, la caratteristica
della propria personalità. La cosa più importante è sempre e soltanto salvare le
apparenze e visto che quello che hanno commesso i due ragazzi “ è più di un
peccato mortale, è un errore mondano”, i consigli che egli dispensa loro sono
tutti improntati a nascondere la loro colpa, più che a espiarla.
Altro tratto fondamentale del personaggio è il suo disprezzo per l’amore,
sentimento che abbisogna di troppo altruismo e fiducia nel prossimo perché il
vecchio possa abbandonarvisi.
Nella parte finale del quadro infatti, egli dimostra la propria insofferenza nei
confronti della passione amorosa facendo una divertente controscena ai due
fratelli/amanti che si separano con gran dolore38: Mentre i due innamorati
dialogano sulla pedana, in fondo al palco, Poli in proscenio, camminando
avanti e indietro si prende gioco di loro e del loro dolore, ripetendo frasi come
“amore amore, pizzicore!!”
Quadro IV “Considerazioni sull’amore”
L’ARGOMENTO DELLA CANZONE CHE DELIMITA IL QUARTO QUADRO È PROPRIO LA
SFIDUCIA DEL GRAN VASSALLO NELL’AMORE. 38 Il dialogo tra i due avviene con le stesse modalità del quadro precedente, ossia pantomima con voce registrata.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 110
USCITI DI SCENA I DUE GIOVANI DUCHI, ENTRANO DUE GUARDIE, ALTISSIME
GRAZIE ALL’USO DI TRAMPOLI, VESTITE DI UNA LUNGA TUNICA VIOLA COPERTA DA
UNA SOTTANINA E DA UN CORPETTO, NERI; SUL CAPO HANNO UN BERRETTO NERO
A FORMA DI CONO ROVESCIATO E IN MANO TENGONO UN LUNGO BASTONE ORNATO
DI NASTRI.
ANCHE QUESTI DUE PERSONAGGI SONO FORNITI DI MEZZE MASCHERE CON UN
GROSSO NASO BIANCO E LUNGHI BAFFI ALL’INSÙ. PER LA RIGIDITÀ DEI MOVIMENTI
E PER L’ASPETTO TENDONO A SOMIGLIARE MOLTO A DELLE MARIONETTE, ED IN
PARTICOLARE A DEI PUPI SICILIANI.
LA CANZONE, SCANDITA DA UN RITMO CADENZATO E REGOLARE, È GIOCATA SUL
CONTRASTO TRA LE DUE GUARDIE, CHE LODANO E GLORIFICANO STROFA PER
STROFA, QUALITÀ E PIACERI DELL’AMORE, OPPOSTE A POLI, NELLA VESTE DEL
GRAN VASSALLO, CHE CON ARGUZIA E CINISMO DI VOLTA IN VOLTA NE MOSTRA GLI
ASPETTI NEGATIVI.
LA COREOGRAFIA RENDE QUESTO CONTRASTO DI OPINIONI GRAZIE AD UNA
SEMPLICE OPPOSIZIONE SPAZIALE DEI CONTENDENTI RISPETTO AL CENTRO DEL
PALCO.
SUL FINALE LE DUE POSIZIONI SI CONCILIANO, ANCHE VISIVAMENTE ( TUTTI E TRE
IN FILA, AL CENTRO), GRAZIE ALLA CONFESSIONE DEL VECCHIO DI AVERE ANCHE
LUI UN AMORE, A CUI SI MANTIENE FEDELE E DI CUI SI FIDA: SE STESSO.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 111
L’INSERIMENTO DI BRANI CANTATI, SIA CHE ABBIANO UNA RELAZIONE, PER
QUANTO DEBOLE (COME IN QUESTO CASO) CON LA SCENA, SIA CHE SI TRATTI
ESPLICITAMENTE DI INTERMEZZI (COME QUELLI CHE CHIUDONO IL PRIMO E IL
SECONDO ATTO), LEGANO ANCORA UNA VOLTA IL TEATRO DI POLI AL TEATRO DI
VARIETÀ, AL TEATRO POPOLARE. IN PARTICOLARE QUESTA CANZONE39 CONCILIA I
CARATTERI TIPICI DEL CONTRASTO E DELLA MACCHIETTA.
Del contrasto ha ovviamente la struttura dialogata, a botta e risposta, che ha
alle spalle una lunga tradizione che va dai contrasti medievali40 a La
Cammesella, cavallo di battaglia di molte coppie di attori di Verità nei primi
anni di questo secolo.
Della Macchietta ha invece lo sbilanciamento della canzone più sul testo che
sulla musica e la capacità di disegnare con pochi tratti la personalità, o meglio
ancora il personaggio, la maschera, di chi la canta.
Nicola Maldacea, da molti considerato l’inventore della macchietta, così
descrive i caratteri fondamentali di questo genere:
Invece di Cantare, invece di accentuare il motivo, consideravo la musica un
accompagnamento alle parole, un commento; e mi preoccupavo di dire, di
colorire, rendendo il tipo meglio che potessi. Non a caso ho adoperato la
parola “colorire”. Come il pittore, come il disegnatore, come un artista
39 La stessa analisi vale anche per la canzone di frate Gregorio, nel Quadro III della Scena V 40 Cito come esempio soltanto il più famoso, Rosa fresca aulentissima, composto da Cielo D’Alcamo.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 112
figurativo, mi ripromettevo di dare al mio pubblico una impressione
immediata, schizzando il tipo, segnandolo rapidamente, rendendone i tratti
salienti. Da ciò l’origine della parola “macchietta”, che è proprio dell’arte
figurativa [...]. Con la macchietta satirica volli io portare sulle scene del
teatro di varietà una specie di impressionismo artistico, che aveva avuto
origine tra le quinte del teatro di prosa41.
Quadro V “Il frutto del peccato”
Dopo l’intermezzo cantato, la struttura torna ad essere quella del quadro III.
Rientra in scena la Duchessa, vestita di una lunga tunica bianca e larga,
probabilmente una camicia da notte, che, felice, porta in braccio il suo
bambino.
Anche in questo caso, come nella prima scena, alla nascita dei due gemelli, il
bambino è un bambolottino, vestito con un completino azzurro e con in testa
una cuffietta bianca: quando il Gran Vassallo la toglierà, spiccherà una testina
coperta di capelli rossi, tratto distintivo della famiglia.
Un vagito del bambino attira l’attenzione del Gran Vassallo, che informa il
pubblico che la giovinetta ha felicemente partorito e allattato suo figlio, ma,
sempre nell’ordine di idee di eliminare la colpa nascondendola agli occhi del
41A.A.V.V., Follie del Varietà, Milano, Feltrinelli, 1980
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 113
mondo, propone di affidarlo nelle mani di Dio, lasciando al caso la sua vita o
la sua morte.
Tolto il bimbo dalle braccia della madre, il Gran Vassallo gli toglie la
cuffietta, che getta sulla pedana dietro di sé, e lancia il bambino ad una delle
guardie, che nel frattempo si sono disposte ai lati della scena.
Mentre il vecchio spiega come sia meglio lasciare a Dio la responsabilità della
salvezza del bimbo, le due guardie si palleggiano il bambolotto, sotto lo
sguardo disperato della Duchessina.
Per aiutare un po’ la fortuna, il Gran Vassallo decide che il bambino verrà
posto in una botticella che lo ripari dalle intemperie, insieme ad una borsa
piena di denaro (“che saranno la salsa che fa ingollare il pesce stantio”42),
alcune stoffe preziose ed una tavoletta d’avorio su cui si rivelano la sua
nobiltà e le sue origini sventurate; il vecchio affida il tutto alle guardie che
escono.
In quel mentre entra dalla quinta di sinistra la nutrice (con lo stesso abito e
maschera della prima scena), portando in mano un paio di guanti bianchi, gli
stessi che il giovane Duca aveva indossato nel quadro III, al momento di
partire.
42 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 114
La donna bisbiglia qualcosa all’orecchio del Gran Vassallo, che prorompe in
una espressione di gioia: quindi spiega, portando al massimo il concetto di
diversione rispetto al senso comune, che la Duchessina dovrebbe essere felice
e orgogliosa perché il fratello, per il dolore del distacco, è morto ancora prima
di arrivare in Terra Santa.
Già sconvolta dalla perdita del figlio, la ragazza si dispera, ma il vecchio
insiste nel tentare di convincerla che ciò che è accaduto è per lei positivo,
visto che adesso potrà andare a “giuste e onorevoli nozze”43recuperando così
completamente l’onore e la rispettabilità perduti; per dimostrarle che non le
sarà certo difficile trovare un marito, tenta l’ultimo gradino della sua scalata
sociale, proponendosi lui stesso come pretendente.
Come si è visto44 questo tentativo di matrimonio, del tutto assente nel testo del
monaco tedesco Von Aue, fa probabilmente parte dell’eredità che portano con
sé le maschere dei vecchi della Commedia dell’Arte, anche se l’amore, che è
ciò che rende ridicolo Pantalone quando si propone in sposo a qualche
fanciulla, non è certo il motivo che spinge il Gran Vassallo a fare alla
Duchessina la sua proposta: si tratta, evidentemente, piuttosto di arrivismo e
avidità: i suoi mezzi di seduzione sono una rosa rossa, che egli estrae da sotto
il mantello, ed una sorta di spot pubblicitario di se stesso, in cui suggerisce
43 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III. 44 Vedi p.106
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 115
doti alternative a quelle che a lui mancano, ossia bellezza, giovinezza e
onestà, sostituite dall’arguzia, dai titoli e dal pregio di “non avere tutte le
virtù”45; l’argomento risolutivo dovrebbe essere il fatto che anche se tra loro
mancasse del tutto la simpatia, “meglio, il rapporto non potrebbe che
migliorare!”46
La Duchessina, comunque, esacerbata dal dolore, lo rifiuta malamente,
gettando a terra, lontano, la rosa che lui le ha offerto, e pronunciando un
sonoro “no”, decisa a non commettere un adulterio, per quanto postumo.
A questo punto il Gran Vassallo, stizzito, esce di scena.
Quadro VI “La rabbia della Duchessa”
RIMASTA SOLA CON LA NUTRICE, LA GIOVINETTA SFOGA TUTTO IL SUO DOLORE E
IL SUO ASTIO NEI CONFRONTI DEL GRAN VASSALLO, DELLA SUA AVIDITÀ E DEL SUO
CINISMO.
RISPETTANDO LO SCHEMA SIMMETRICO DELLA SCENA, CI TROVIAMO DI NUOVO DI
FRONTE AD UN QUADRO COSTITUITO DA PANTOMIMA CON VOCE REGISTRATA47.
45 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III 46 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III 47 come nel Quadro II, vedi p.103
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 116
COME NEI QUADRI PRECEDENTI, IL LINGUAGGIO È COSTITUITO DA UNA SERIE DI
BATTUTE BREVI48, POCO LEGATE LE UNE ALLE ALTRE SE NON PER UN VAGO FILO
CONDUTTORE, QUELLO APPUNTO DEL DISPREZZO VERSO IL VECCHIO.
Quadro VII “Il dolore della Duchessa”
NELL’ ULTIMO QUADRO, COME NEL PRIMO, LA TECNICA ADOTTATA È QUELLA DEL
MIMO-DANZA, MUTO E CON MUSICA DI SOTTOFONDO.
IN QUESTA PARTE FINALE DELLA SCENA, LA GIOVANE DUCHESSA SOPRAFFATTA
DAL DOLORE, RIPERCORRE LA STORIA DELLE SUE DISGRAZIE TRAMITE GLI OGGETTI
SIMBOLO CHE SONO DISSEMINATI SULLA SCENA: RITROVATI I GUANTI DEL
FRATELLO-AMANTE CHE LA NUTRICE AVEVA APPOGGIATO SULLA PEDANA,
RICORDA IL DOLORE PER LA PERDITA DEL SUO COMPAGNO; RACCOLTA LA
CUFFIETTA BIANCA CHE IL GRAN VASSALLO AVEVA TOLTO AL BAMBINO PRIMA DI
AFFIDARLO ALLE GUARDIE, PIANGE LA PERDITA DEL FIGLIO; GRAZIE ALLA ROSA
ROSSA CHE LE AVEVA DONATO IL VECCHIO, AL MOMENTO DI CHIEDERLA IN SPOSA,
RINNOVA IL DOLORE E LO SDEGNO NEI CONFRONTI DELL’UOMO.
ALLA FINE, SOPRAFFATTA, SVIENE E LA NUTRICE, DOPO AVER TENTATO DI
RIANIMARLA, SE LA CARICA SULLE SPALLE E LA PORTA FUORI SCENA.
48 in particolare similitudini, come ad esempio, riferito al Gran Vassallo: “come l’edera si aggrappa a tutto pur di salire, ma come la scimmia, quando è in cima mostra le sue parti peggiori”.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 117
L’USO DEGLI OGGETTI IN QUESTO QUADRO, È IN PARTE DIVERSO RISPETTO A
QUELLO ANALIZZATO NELLA PRIMA SCENA49: IL LORO SIGNIFICATO NON È PIÙ
LEGATO ALL’IMMAGINARIO COMUNE ( COME NEL CASO DEI CAVOLI DELLA PRIMA
SCENA), MA ASSUMONO SIGNIFICATO SIMBOLICO GRAZIE ALL’USO CHE SE NE È
FATTO NELLE PARTI PRECEDENTI DELLA SCENA; SULLA SCENA COMPAIONO SOLO
TRE OGGETTI, OGNUNO DEI QUALI LEGATO AD UN FATTO IMPORTANTE, IN MODO
NON DA SFRUTTARE UNA CORRISPONDENZA TRA OGGETTO E AVVENIMENTO GIÀ
PRESENTE NELL’IMMAGINARIO DEL PUBBLICO, MA DA CREARLA NEL CORSO DEGLI
AVVENIMENTI.
Scena Quarta “il bosco”
Quadro Unico “Monologo del peccato”
Come nella seconda scena50, siamo in presenza di un monologo di Poli, nelle
vesti del frate narratore; l’abito è lo stesso della seconda scena, ma Poli ha sul
braccio un Gufo alto circa 30 centimetri, con il corpo rigido e la testa articolata,
che si muove a seconda dei gesti dell’attore, quasi annuisse alle sue affermazioni.
49 vedi p. 87 50 vedi p. 92
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 118
Il gufo,51 anticamente simbolo di Atena, ha assunto nei secoli due valenze
simboliche opposte; da una parte è stato considerato simbolo della saggezza e
della scienza, dall’altra portatore di sventure e simbolo di colui che perde la retta
via.
Credo che Poli, nello sceglierlo come silenzioso compagno per questa scena in
cui disserta del peccato e dell’innocenza, abbia tenuto conto di entrambi gli
aspetti, profondamente radicati, l’uno e l’altro, nell’immaginario collettivo.
Il monologo prende spunto dal contrasto tra la il peccato ingenuo della duchessa
e la virtù maliziosa del Gran Vassallo e tutto per sostenere che "spesso le nostre
buone azioni sono più losche dei nostri peccati".
E così come sostiene anche il monaco Von Aue nei primi versi del suo Gregorio,
Dio ha un debole per i peccatori, perché faticano tanto di più degli altri a fare il
bene, ma spesso ci riescono meglio.
Segue una serie di arguzie sull'ipocrisia di certa bontà, spesso provocata più da
pigrizia e da malizia che da buona volontà.
Ma l'uomo è poco umano, è "una farfalla che con il tempo diventa un verme", e
questa ipocrisia non risparmia neanche i religiosi, che non chiedono a Dio di
aiutarli a fare la sua volontà, ma gli chiedono di approvare la loro.
51 H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991, p.75
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 119
La struttura comica della scena identica in tutte le sue modalità a quella del primo
quadro della seconda scena, e fa perno su di una comicità tutta incentrata sulla
parola.52
52 vedi p. 100
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 120
Scena Quinta “la scogliera”
Quadro I “ Le sirene”
Dalla quinta destra entra un pescatore su una piccola barchetta sballottata dalle
onde; l’uomo indossa una camicia bianca con le maniche rimboccate, sopra un
gilet a righe colorate, pantaloni scuri fermati al ginocchio e cappello scuro a
cupola. Sul viso porta una maschera con la fronte sfuggente, da cui sporge un
lungo naso, e con occhi in fuori, grandi e scuri. Tra i lunghi capelli neri escono
due grosse orecchie a sventola. Sul mento una leggera barba.
Nonostante si tratti di un personaggio di bassa estrazione sociale, non si connota
affatto come personaggio comico.
Il pescatore rema a fatica lottando contro gli elementi, si ferma, volta la barca e
getta le reti per poi ritirarle, vuote. Scuote la testa, sconsolato e si prepara a
rientrare a mani vuote.
Entrano due Sirene, muovendo gambe e braccia, a ritmo della musica, come se
nuotassero: hanno lunghi capelli azzurri, venati d’argento, un corpetto bianco
attillato da cui sporgono i seni (naturalmente finti, visto che gli attori sono tutto
uomini), lunghi pantaloni, allargati sul fondo a simulare la coda di pesce,
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 121
ricoperti di grandi scaglie argentate. La maschera è di colore azzurrino con
grandi occhi altrettanto azzurri un po' a mandorla. Il naso e la bocca sono piccoli
e stretti. Diverse catenelle pendono tra un orecchio e l'altro, sotto la gola.
Come le sirene raffigurate nei rilievi altomedievali, hanno non una coda di pesce,
ma due. La figura della sirena è molto antica e da sempre ha tra le sue simbologie
quella della forza ambigua del mare, della sua benevolenza ma anche della sua
insidia: in questo caso le sirene rivestono il ruolo di chi amministra e regola la
smisurata forza e la casualità del mare. Alla luce della successiva presenza della
piovra, di chiaro significato negativo53, la figura delle sirene assume per
contrasto una connotazione nettamente positiva, ma la loro ambiguità
tradizionale permane nella sinuosità e nella sensualità dei movimenti e nei seni
scoperti, per quanto falsi.
Dopo aver girato un po' intorno al pescatore, una delle due sirene prende dalla
quinta di sinistra la botticella con il bambino e gliela consegna; quindi sempre
ballando/nuotando escono entrambe di scena, salutate con la mano dal pescatore.
Di nuovo, come nella prima scena, la religiosità del racconto proposto dal
monaco si fonde con la favola, con un sovrannaturale che ha più a vedere con la
53 La piovra non ha una simbologia molto marcata, ma comunque sempre connotata negativamente: colpiva soprattutto per la simmetria e veniva spesso rappresentata come un cerchio con i tentacoli arrotolati a spirale e due grandi occhi al centro. H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991, p.178
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 122
leggenda che con la divinità; ciò che era stato affidato a Dio, infatti54, ossia la
botticella con dentro il piccolo, è restituito appunto dalle sirene.
C’è da dire, però, che la mitologia cristiana popolare ha sempre teso a mescolare
esseri e divinità della tradizione classica pagana con la nuova religiosità, non
stupiva dunque la presenza delle sirene stesse nelle raffigurazioni dei portali o dei
capitelli delle chiese.
Mentre il pescatore si accinge a tornare verso la quinta di sinistra irrompe in
scena una Piovra, impersonata da uno degli attori che indossa una grande testa
color bronzo da cui pendono numerosi, lunghi tentacoli tra i quali si muove il
corpo dell'uomo inguainato da una tuta ugualmente bronzata, agitando i tentacoli.
Questo enorme animale è simbolo della furia degli elementi contro la quale il
povero pescatore è costretto a lottare per tornare verso riva, e giustifica il timore
espresso dal frate Gregorio nella scena successiva, il quale si pente di aver
mandato il pescatore in mare con quel tempaccio.
La lotta tra l’uomo e l’animale è puramente simbolica, priva di violenza e fatta di
gesti ritmici (i due si contendono il remo della barca).
Infine la Piovra ha la peggio, rinuncia ed esce; subito dopo, remando, esce anche
il pescatore.
54 vedi p. 113
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 123
Quadro II “ Frate Gregorio”
Poli veste in questa scena i panni di un piccolo e grasso frate: indossa un saio
marrone da francescano munito di un cordone che arriva fino ai piedi.
Sulla testa porta una folta parrucca di capelli bianchi scarmigliati e la maschera e'
costituita da un naso tondo con sopra piccoli occhiali, anch'essi tondi.
Anche in questo caso, così come si era visto per il Gran Vassallo, più che di un
personaggio si tratta di una maschera, con tratti molto marcati che lo
caratterizzano sia fisicamente che fonicamente.
Per dare una tipizzazione forte al suo personaggio nella direzione del comico,
Poli ha stravolto le proprie caratteristiche fisiche riuscendo, lui alto e
magrissimo, ad impersonare un fraticello basso e grasso indossando abiti
imbottiti sul davanti in modo da simulare una grossa pancia e soprattutto
camminando in ginocchio. Per arrotondare anche i tratti del viso ha usato un naso
di forma marcatamente rotonda, ancor più accentuata dalla rotondità dei piccoli
occhiali.
Fonicamente Poli usa per il suo frate una voce alta e stridula, dai toni cantilenanti
e strascicati: tutte queste caratteristiche contribuiscono a fare di questo
personaggio la caricatura di un fraticello, con la sua bontà ingenua e un po’
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 124
paesana, che lo connota immediatamente, forse più che ogni altro personaggio
dello spettacolo, di una carica comica.
Il frate entra in scena rammaricandosi di aver mandato in mare il pescatore del
convento con quel tempaccio, ma all’arrivo del pescatore, il frate si rallegra. Tra
le mani del pescatore, riluttante a mostrarla, scorge la botticella e la prende, visto
che tutto può tornar buono per la casa del Signore ma, mentre sta per andarsene si
sente piangere il bambino.
Frate Gregorio apre affannosamente la botticella e compare la testina rossa del
piccolo. Frugando nella botte, il frate trova anche le stoffe, la tavoletta d'avorio
da cui viene a conoscenza delle origini e della storia del bambino, e le monete
d'oro.
Decide quindi di affidare il piccolo al pescatore ( che ha già due figli ) in cambio
di tre monete d'oro, a patto che non riveli mai a nessuno che non è figlio suo.
Il pescatore prende la botticella ed esce.
Tutta la parte che coinvolge il pescatore, dall’uscita in mare ad ora corrisponde,
come sempre in modo vago, ai versi 939/1092
È da notare però che nel poema tedesco la situazione è più complessa: Von Aue
si preoccupa di rendere verosimile l’adozione del piccolo da parte del pescatore,
ed introduce, fin dall’inizio la presenza di un altro personaggio, il fratello del
pescatore, che si trova con il primo sulla barca, che con lui condivide il
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 125
ritrovamento della botticella (inutile dire che il poeta tedesco non fa menzione di
alcuna sirena) e di cui si viene a sapere che è più ricco dell’altro e abita dalla
parte opposta dell’isola, lontano dal convento.
Tutto questo consente a Frate Gregorio di suggerire al pescatore più povero di
adottare il piccolo dicendo che si tratta del bambino di una delle figlie dell’altro
pescatore. Il fatto che costui abiti lontano rende quasi impossibile il controllo e la
smentita, e la sua ricchezza rende plausibili le maggiori disponibilità che il
pescatore, presi i soldi dal frate per allevare il bambino, dimostrerà di avere.
Ne La leggenda di San Gregorio Poli ignora questa situazione: mostra il
l’adozione del bambino come momento semplicemente narrativo e funzionale al
seguito della storia. Il centro dell’attenzione è la figura caricaturale del frate, la
cui comicità è del tutto slegata dallo svolgersi della vicenda.
Frate Gregorio, rimasto solo, riflette sulla disgraziata provenienza del piccolo e
fa progetti per la sua educazione.
Il primo problema da affrontare è come far fruttare il denaro che il bimbo ha con
sé e dargli da grande un patrimonio sicuro. Il sistema c'è anche se vietato ai
religiosi ossia quello di prestare ad interesse. Meglio dunque affidare il denaro ad
un "onesto" usuraio, che a questo peccato ha già fatto il callo. Di nuovo si
intravede un tema già trattato da Poli nel monologo della Scena IV, quello
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 126
dell’ipocrisia di chi non disdegna il peccato in sé, ma riesce a mantenere la
propria coscienza limpida per malizia, scaricando su altri il peso dei vizi: a questa
condizione non si sottrae nemmeno il simpatico fraticello, all’apparenza così
candido.
Quadro III “Il nome del bambino”
Di nuovo, come nel quarto quadro della terza scena, Poli introduce nel tessuto
dello spettacolo una parte cantata, che prende a pretesto la difficile scelta di un
nome da dare al piccolo naufrago. Anche questa volta si tratta di un contrasto.
Come interlocutori compaiono, dalle due porte ad arco delle quinte, due
boccolosi angioletti. Si tratta di bambolottoni riccamente vestiti di bianco e
lunghi capelli biondi a boccoli, con ali e aureola, che vengono sporti fuori dalle
quinte con lunghi bastoni; sembrano quindi fluttuare a mezz’aria.
Il Frate elenca nell'ordine la vita ed i miracoli dei santi Pietro, Battista e
Bartolomeo, tutti santi di grande virtù ma che hanno subìto martiri atroci. Il loro
nome, a causa delle tragiche morti è un presagio troppo sfortunato per il
bambino, secondo gli angioletti.
La struttura della canzone è similissima a quella della scena III, costruita per tesi
ed antitesi. Anche se in questo caso le due parti, quella cantata da Poli e quella
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 127
degli angeli, sono diverse come musica e come ritmo, più monotona quella del
frate, più concitata quella degli angioletti.
Rispetto all’altra canzone, poi, le parti sono invertite, questa volta tocca al
personaggio interpretato da Poli ad esporre un’opinione e ad essere contraddetto.
Infine Frate Gregorio decide che il piccolo si chiamerà Gregorio, proprio come
lui. Chissà se non finirà col succedergli alla guida del convento?
Quadro IV “La scoperta delle origini”
Tra il quadro precedente e questo, esiste un salto temporale di circa quindici anni,
Gregorio è cresciuto, è oramai un giovanotto riconoscibile grazie ad una parrucca
del solito rosso acceso.
Nel poema di Hartmann Von Aue si narra anche tutta la storia dell’infanzia e
della giovinezza di Gregorio (versi 1137/1284), i suoi progressi nello studio, le
sue eccellenti qualità come grammatico, teologo e giureconsulto e soprattutto le
sue straordinarie doti morali e fisiche; Poli non fa accenno a questa parte,
interessante per l’agiografo tedesco, ma del tutto irrilevante ai fini della
narrazione, impostata in modo laico e favolistico.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 128
Entrano correndo i due figli del pescatore e il giovane Gregorio; i primi due
malmenano e strattonano il terzo. Riesce a liberarsi dalle grinfie dei due e corre a
chiedere aiuto al frate. In quel mentre entra la moglie del pescatore difendendo i
suoi figli e accusando Gregorio di gingillarsi con i libri e di fare il signorino
mentre gli altri due lavorano come bestie.
Il giovane Gregorio indossa un abito corto, stretto in vita, di colore giallo chiaro
leggermente iridescente con mantellina dello stesso colore e una calzamaglia
grigia lucida. I capelli sono dello stesso rosso che aveva caratterizzato le
capigliature dei due duchi e dello stesso Gregorio neonato. La maschera è, con
ogni probabilità, la stessa indossata dal duca suo padre.
I due figli del pescatore invece si connotano subito come personaggi di bassa
estrazione sociale: vestono abiti corti, larghi e scuri e anche questi leggermente
cangianti e iridescenti, indossano anche calzamaglie grigie e copricapo bianco;
portano sul viso maschere dai tratti molto marcati, con grandi nasi, occhi scuri,
mento sfuggente e lunghi capelli scuri, caratteri somatici simili alla maschera del
pescatore.
La moglie del pescatore è vestita di un abito lungo, rosso scuro, con sopra una
specie di grembiule grigio, ampie maniche rosse/grigie. Sciarpa avvolta intorno
al collo e al capo. Anche la maschera della donna ha tratti molto marcati, capelli
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 129
neri raccolti nel copricapo, grandi occhi scuri, naso largo e bocca aperta con le
labbra in fuori.
La donna esterna la sua rabbia con gesti aggressivi e soprattutto con gradazioni di
voce che da toni striduli si abbassa a toni più gravi con un calare ostentatamente
drammatico.
Costei decide dunque di vendicare il presunto torto subito dai figli svelando a
tutti (Gregorio compreso, il quale era del tutto ignaro della sua vera provenienza),
che quello non è figlio suo, ma un bastardo, un rifiuto del mare raccolto per
carità.
La madre e i due figli escono dopo la scenata, lasciando nella disperazione
Gregorio e in grande imbarazzo il frate.
Gregorio, appurato che quello che ha detto la donna è la verità, decide di lasciare
il villaggio e di diventare cavaliere, girare il mondo e riscattare le proprie origini.
Il frate tenta di dissuaderlo, minimizza l’accaduto e gli consiglia di restare, di
diventare un religioso e di vivere al convento; tantopiù che per fare il cavaliere
servono abiti, soldi o quantomeno conoscere la propria ascendenza.
Ma, di fronte alla disperazione del ragazzo, frate Gregorio cede, accetta il
progetto del giovane, gli consegna le stoffe preziose che aveva trovato nella
botticella, i soldi più che raddoppiati e la tavoletta d’avorio (pregandolo però di
avere pietà dei suoi poveri genitori).
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 130
Sapendo quindi di essere di nobili origini, rifornito di stoffe e di denaro, Gregorio
si congeda dal vecchio frate
e parte con l’intenzione di armare una nave e partire alla ventura affidandosi al
mare e alle correnti.
Scena Sesta “Città sulla riva del mare”
Quadro I “La navigazione”
Entra una nave, costruita di un materiale rigido ma flessibile, con due alberi
muniti di grandi vele bianche, entro la quale viaggia Gregorio, vestito di un ricco
abito di velluto azzurro, con ampie maniche e intarsi argentati sul petto che
raffigurano una rosa dei venti, un’ancora e una stella, tre simboli della
navigazione. Sul capo un grande turbante altrettanto azzurro. L’azzurro dell’abito
e i simboli ricamati su di esso sono fortemente legati a quello che Poli, nella
scena successiva, chiamerà il destino d’acqua di Gregorio, e al suo stesso
definirsi Cavalier del mare.
Di fronte e alle spalle di Gregorio vi sono altri due attori inguainati in tute
aderenti grigie, in modo che si confondano con gli alberi delle vele e con le vele
stesse: il loro compito è quello di muovere sincronicamente gli alberi della nave.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 131
Questo quadro mantiene la stessa dinamica del primo quadro della scena V: La
nave procede ondeggiando leggermente le vele, mentre Gregorio, al centro scruta
l’orizzonte con il gesto tipico di tenere la mano destra sopra gli occhi per parare
il sole. Entra Nettuno danzando; mima di fomentare con il tridente la tempesta
contro la nave di Gregorio, poi alza la mano come a calmare i venti: il destino si
compie, Gregorio, che aveva lasciato al caso la sua rotta, approda ad una terra
(che si scoprirà essere la sua terra natale).
L’intervento di Nettuno è ovviamente paragonabile a quello delle sirene, e anche
la sua funzione simbolica è simile: quale signore del mare, egli rappresenta il
destino che muove la nave di Gregorio fino alla terra di Bretannia, dove il
giovane finirà con lo sposare la propria madre.
Il costume di Nettuno è giocato su sfumature tra il grigio chiaro e l’azzurro, un
corpetto bianco e un grande mantello azzurro. Sul capo porta una grande corona
argentea e in mano il tridente. La maschera è bianchissima con profilo greco,
occhi leggermente a mandorla completamente neri; i lunghi capelli e la barba
sono grigi.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 132
Quadro II “Arrivo alla Bretannia assediata”
Di fronte ad una delle porte che si aprono nelle mura fortificate della città dipinta
sul fondale si trova un gruppo si quattro persone che, timorosa, grida a Gregorio
di andarsene. Il gruppo è realizzato attraverso un costume particolare che
consente ad un solo attore di interpretare la parte di un intero capannello di
popolani, infatti si tratta di un grande costume/macchina ovvero un costume che
non è semplicemente un abito, ma che , grazie ad una struttura più complessa,
riesce a variare la natura di chi lo indossa: in questo caso per consentire ad un
solo attore di interpretare quattro personaggi, nella Scena II del Secondo Atto,
per mettere in scena i due nobili a cavallo. La struttura è costruita in modo che
sulle spalle dell’attore, vestito di un ampio mantello grigio, siano fissate altre due
teste a tutto tondo, mentre più in basso una maschera cucita sul vestito simula il
quarto personaggio, una donna dal volto pallido e emaciato con piccoli occhi
scuri.
La voce dei quattro personaggi in uno è, come sempre, quella di Poli, registrata:
grazie ai movimenti delle braccia è facile distinguere se sia uno dei due
personaggi laterali a parlare, il personaggio centrale (ossia l’attore) lo si
individua dal movimento della testa e della bocca, lasciata libera dalla maschera,
mentre la donna è resa riconoscibile dalla tonalità più alta della voce.
Nell’insieme rende l’idea di un popolo povero e stremato.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 133
Quando il giovane si qualifica come “Cavalier del mare” e dice di venire con
buone intenzioni, costoro lo mettono al corrente della drammatica situazione
della città: la loro duchessa, che ha deciso di rimanere vergine, rifiuta da anni
tutti i pretendenti; l’unico che non ha accettato il suo volere è il malvagio duca
Margravio di Lotaringia che ormai da anni assedia la città: Margravio ha battuto
ed ucciso tutti i paladini della città e ridotto il popolo alla fame.
Gregorio, che non aspettava altro che una palestra d’arme, si offre come
difensore della città e mette a disposizione della popolazione povera ed affamata
il grano di cui è carica la sua nave e l’oro di cui è pieno il suo forziere. Il popolo,
rincuorato, esce inneggiando al “cavalier del mare”.
Esce anche Gregorio.
Scena Settima “Lo Zodiaco”
Quadro I “Monologo del destino”
Per l’ultima volta nel primo atto, Poli veste i panni del frate narratore.
Entra tenendo in mano una grande scacchiera con un supporto sotto, in modo che
appoggiata rimanga inclinata verso il pubblico, con i pezzi (fissati o calamitati
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 134
sopra) rosa e azzurro chiaro, e, come le mosse del gioco, ripercorre lo “strano
destino d’acqua” di Gregorio: abbandonato al mare in una botticella è approdato
prima all’isola del convento di Frate Gregorio, ora, sempre per caso o per
destino, il mare lo ha portato sulle rive di Bretannia, dove regna, a sua insaputa,
la sua madre/zia.
La scacchiera ed in generale il gioco degli scacchi ha acquisito nei secoli una
simbologia che lo lega agli strani disegni del destino55, ma suggerisce anche
l’idea di un “grande manovratore” che dall’alto muovendo i pezzi, proprio come
in scena Poli sposta le pedine nelle case della scacchiera, decide della sorte degli
uomini.
Poli, rimarca con questo gesto il suo controllo sulla vicenda, come narratore e
come regista, e nel frattempo ridimensiona la tragedia che incombe su Gregorio,
ricordando che non si tratta che di finzione, di un semplice gioco.
Per quanto riguarda invece quello che Poli definisce il “destino d’acqua”, è bene
ricordare che Gregorio è l’erede medievale di una lunga serie di illustri
personaggi abbandonati sull’acqua e grazie ad essa giunti al proprio destino56: a
questa tradizione si aggiunge la simbologia dell’acqua come morte e rinascita,
come eterno fluire della vita e delle cose.
55 Sono infatti numerosissimi nella mitologia medievale ed in quella più recente, i personaggi che decidono il proprio destino giocando a scacchi con la morte. 56 In particolare nella mitologia classica Perseo e i due figlioletti di Rea Silvia, Romolo e Remo, in quella ebraica e cristiana Mosè e soprattutto Giuseppe, protagonista, come Gregorio, di un Romanzo di Thomas Mann
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 135
Il destino d’acqua di Gregorio, però, non finisce qui, giunto a dover scontare i
suoi peccati involontari, andrà pellegrino fino al Mare del Nord; qui verrà
incatenato ad uno scoglio da cui sarà liberato, solo molti anni più tardi, grazie
alla chiave trovata nel ventre di un pesce.
La narrazione delle peripezie di Gregorio è lo spunto per una dissertazione
comica sull’esistenza di Dio e sul suo non essere mai disponibile quando se ne
sente il bisogno.
Il monologo del frate prende di mira, questa volta, un certo antropomorfismo
ingenuo che caratterizza la rappresentazione delle divinità, positive e negative: ne
esce il ritratto di un Diavolo che in fondo si comporta da “buon diavolo”, ed un
Dio che “se esiste non ha nessuna fretta di dimostrarlo”, ma che sembra
dimostrare almeno qualche peccatuccio molto umano, come “la civetteria di
creare il mondo in soli 6 giorni”.
Nel mezzo, poi, c’è l’uomo, con le sue incertezze (“anche il pastorale del
vescovo è fatto a punto interrogativo!”) e le sue presunzioni (“Armoniosa è la
scala ascendente degli esseri viventi, dall’insetto su fino al filosofo; almeno
questo è il parere del filosofo, che l’insetto non si è pronunciato”).
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 136
Quadro II “Le stelle”
Per chiudere il primo atto, Poli ha scelto di inserire una scena cantata e ballata,
con abiti luccicanti d’oro e d’argento, come era d’uso nel teatro di Varietà e di
Rivista (ve ne sarà uno del tutto simile alla fine dello spettacolo).
La canzone si riallaccia al tema del destino del quadro precedente, ma un destino
non più deciso dagli scacchi o dall’acqua, ma dalle stelle e dai pianeti;
diversamente dagli altri brani danzati, questo ha la precisa connotazione di
intermezzo, del tutto staccato narrativamente dalla storia.
La coreografia è estremamente semplice e geometrica, basata sulla creazione di
figure tramite le maschere e i corpi stessi degli attori.
I brani cantati ( con la voce di Poli) coincidono con la presenza dei soli 4
ballerini/attori in scena: le entrate di Poli determinano un brusco cambiamento di
ritmo ( più veloce, con grande presenza di percussioni), e di struttura (che diventa
contrappositiva) nella coreografia.
I ballerini indossano calzamaglie grigie su cui sono applicati alle spalle teli
azzurri e celesti, una gorgiera azzurra e un corpetto azzurro e argento. Sul capo,
alla cintola e in ogni mano grandi maschere oro e argento che raffigurano gli astri
( il sole, la luna, saturno, una stella). Poli ha ancora la stessa tunica della scena
precedente, con sopra una striscia che copre la tunica dal collo ai piedi, sia
davanti che dietro, con disegni geometrici azzurro, argento e oro e sul capo una
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 137
grande stella dorata. Nelle mani due grandi cerchi con dentro raffigurati segni
zodiacali (Gemelli e Bilancia nella prima uscita, Scorpione e Pesci nella
seconda).
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 138
ATTO II
Scena Prima “La miniatura della morte”
Quadro I “Il maiale”
Come all’inizio del primo atto, in questo quadro si inscena un piccolo prologo
alla seconda parte della vicenda che coincide con la seconda vita di Gregorio, il
suo secondo peccato (per quanto il primo fosse soltanto ereditario) e la sua
seconda espiazione.
Si tratta di una scena muta e mimata, mirata a raccontare le terribili condizioni di
indigenza e di tirannia in cui versano i sudditi della duchessa, depredati dai
soldati del perfido Margravio di Lotaringia, pretendente della donna, accampati
in assedio sotto le mura della città.
Due contadini si apprestano a fare festa con un grosso maiale che portano sulle
spalle, legato ad una pertica per tutte e quattro le zampe. Entrano due soldati con
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 139
passo marziale ed evidenti intenzioni di privare i due popolani del prezioso
maiale. Tra i quattro si svolge una breve ed impari lotta. Uno dei due contadini
esce fuggendo, seguito da uno dei soldati; l’altro tenta ancora di resistere ma
finisce col rimanere solo e piangente a guardare il suo maiale che se ne va via
sulle spalle del soldato. Il passaggio dall’atmosfera gioiosa della festa a quella
oppressiva creata dall’arrivo dei due armati è sottolineato in modo molto netto
dall’improvviso cambiare della musica da un motivo allegro e popolare alle
cadenze e i toni gravi di una marcia militare. Forse più che in altre scene mimate,
il mimo sconfina qui nella danza, soprattutto nella parte iniziale, fortemente
ritmica, ed in quella finale quando uno dei popolani, rimasto solo si dispera
battendo un piede per terra, trasformando un gesto naturale di stizza in un vero e
proprio passo di danza.
Ovviamente questo conteso maiale è emblema delle ricchezze depredate e della
situazione di povertà e di arbitrio nel ducato di Bretagna.
I due contadini non portano, come di solito, maschere, ma soltanto dei grandi
nasi posticci che contribuiscono a rendere il loro aspetto più basso e popolare, e
indossano, sopra la calzamaglia grigia, che fa da base a tutti i costumi, una
tunichetta corta, con spacchi laterali, l’uno più chiaro e l’altra più scura, entrambi
sulle tonalità del marrone. Tutti e due indossano anche un cappellone chiaro a
falde molto larghe, piegato sul davanti.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 140
I due soldati portano invece, sempre sulla stessa base grigia, una cotta dalle
sfumature metalliche con grandi maniche rigide e borchie; sulla testa hanno elmi
scuri con grandi cimieri neri (si avverte già in questa scena la contrapposizione
bianco-nero come buono-cattivo che diverrà più evidente nella scena successiva),
che coprono le orecchie e il collo, ma lasciano libero il viso. In mano tengono
uno scudo rotondo con sopra un mascherone argenteo, identico a quello del loro
signore Margravio.
Quadro II “Gli Sbandieratori”
Si tratta di una breve scena di intermezzo in cui prima soltanto due, poi tutti e
quattro gli attori si esibiscono in semplici figure da sbandieratori.
I quattro paggi hanno gonnellini corti ad ampie pieghe e maniche a sbuffo: il
motivo è a righe molto larghe la cui base è per tutti l’azzurro, con variazioni tra il
viola e il rosso. Indossano una mezza maschera che mette in risalto il naso
bianco, fine, e una fronte particolarmente spaziosa da cui partono i capelli, lisci e
a caschetto. La bandiera con cui compiono le semplici evoluzioni è per tutti
uguale, fatta di due campi distinti, longitudinali, uno rosso e l’altro bianco.
Questo quadro si inserisce nel tessuto della narrazione come cerimonia d’apertura
del duello che si terrà nella scena successiva, dopo un quadro monologato di Poli,
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 141
tra Gregorio e Margravio di Lotaringia; assolve però, a mio parere, anche la
funzione di reintrodurre il pubblico nell’atmosfera cavalleresca della vicenda.
Quadro III “Monologo della guerra”
È il primo monologo di Poli nelle vesti di frate narratore nel secondo atto.
Se il bersaglio dei monologhi comici del primo atto era Dio e con lui il peccato e
il rapporto che gli uomini intrattengono con Dio e con il Diavolo, il secondo atto
si incentra maggiormente su aspetti puramente umani, come il desiderio di potere
e di ricchezza. Qui l’argomento è l’insensatezza della guerra, in questo caso
provocata da una donna, ma ancora di più dal bisogno degli uomini mediocri di
nascondersi dietro l’eroismo, non avendo il coraggio di essere vigliacchi. La
guerra, come la santità, non è che una scusa, il “modo migliore e più rapido per
diventare famosi senza avere talento”; con un vessillo è facile trascinare la gente
dove si vuole, perché l’uomo “è sempre pronto a morire per un’idea purché non
l’abbia del tutto chiara”. La conclusione è che l’uomo ha reso il mondo un
inferno, tanto che il Diavolo dovrà lavorare giorno e notte per rendere il suo
inferno peggiore della terra. In più non risultano nella storia guerre ingiuste,
perché ci pensano gli storici dei vincitori a giustificarle.
Insomma, la guerra non è che un gioco, come dimostrano i quattro cavallini di
legno, bianchi e con tanto di bardatura, che Poli-frate si trascina dietro legati ad
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 142
una cordicella; un gioco stupido e pericoloso con il quale gli uomini si baloccano
per farsi belli di fronte ai loro simili e per nascondere le proprie debolezze, come
in questo caso in cui il pretendente della duchessa, il conte di Lotaringia,
distrugge e depreda tutti i beni della donna che dice di amare, mettendone a
rischio perfino la vita. Un chiaro esempio di egoismo e di una presunzione di
invincibilità che non ha tenuto conto dell’arrivo di Gregorio.
Manca del tutto, nello spettacolo, una parte del racconto che occupa i versi dal
1877 fino al 2116 nel poema e più di un capitolo nel romanzo di Mann, ovvero
la storia del periodo in cui Gregorio, approfittando della pausa invernale dei
combattimenti, si allena nell’equitazione e nell’uso delle armi, e fa la prima
conoscenza con la duchessa sua madre, cominciando a provare per lei i primi
sentimenti di affetto e di amore. In effetti quello che nello spettacolo appare
come un gesto dettato soltanto dalla voglia di “menar le mani”, sia nel poema che
nel romanzo assume significati più profondi, soprattutto per quanto riguarda i
primi incontri di Gregorio con la madre. In entrambi i testi che hanno fatto da
traccia a Poli nella scrittura di questo spettacolo, Gregorio vive quasi un anno nel
regno della madre, senza venire a sapere, ovviamente, della loro parentela: egli la
incontra, la conosce e se ne innamora, e solo in seguito a questo nascente
sentimento decide di dar battaglia a Margravio; egli approfitta di un giorno in cui
il malvagio duca sfida a duello chiunque se la senta di difendere la città e la sua
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 143
duchessa, combatte e vince per amore. In quest’ottica sia il duello che il
successivo matrimonio assumono un senso più umano, meno meccanico di
quanto invece possano apparire dallo spettacolo: mentre per Von Aue e Mann è
sì volere del Cielo (o del destino) che Gregorio sia approdato nel ducato dove
regna la madre, ma è sentimento ed errore degli uomini ciò che accade dopo, ne
La leggenda di San Gregorio anche il combattimento e il successivo matrimonio
sono destinati, voluti da qualcun’altro, sia esso Dio o (più facilmente) quello
spirito della narrazione che solo poche scene prima muoveva, con gli scacchi il
destino di Gregorio.
Scena Seconda “ Il Duello”
Quadro I “Il Duello”
I due contendenti entrano dalle quinte opposte e, prima di iniziare a combattere,
si inchinano alle dame raffigurate sul fondale; quindi inizia il duello68 che vede
fasi alterne fra i due contendenti, pari per forza e per valore. Il duca di Lotaringia
sembra a tratti prevalere, inseguendo Gregorio in una sorta di girotondo e
68 Come tutti i combattimenti, anche questo è didascalicamente simulato.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 144
colpendo la parte posteriore del cavallo. Anche in questo caso il combattimento
tra i due è didascalicamente simulato, i gesti sono contenuti e dimostrativi, i colpi
senza nessuna volontà di forza: come le altre scene mimate, anche questa è
costruita grazie a movimenti coreografici vicini a quelli della danza, soprattutto
nella simmetria, nella quasi assoluta specularità dei gesti dei due contendenti.
La base dell’abito di Gregorio è la stessa della scena della nave, azzurra e blu con
ricami in argento, arricchita da un cappello azzurro con cimiero bianco, e da una
spada e uno scudo chiaro e molto lavorato. Il cavallo è bianco, riccamente
addobbato con paramenti bianchi lavorati in azzurro che lo coprono fino a terra.
Il cattivissimo Margravio indossa invece un costume più attillato di quello di
Gregorio, completamente nero, tranne che per tarsie bianche sulle gambe e sulle
braccia e per il cimiero, bianco. Ovviamente anche il conte aggressore ha la
spada e lo scudo, nero con il mascherone argentato. La maschera del conte è su
tonalità scure, con il naso lungo e schiacciato, occhi piccoli e scuri, e capelli neri,
la bocca è leggermente contratta in un ghigno irrisorio e altezzoso. Il cavallo è
nero con paramenti neri.
Poli utilizza qui una simbologia del bianco e del nero come buono e cattivo,
tipica della figurazione popolare, sempre sulla linea dell’uso di simboli
saldamente nell’immaginario collettivo, come si era già visto per i cavoli e la
cicogna della prima scena del primo atto.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 145
La paratura dei cavalli e i cavalli stessi rientrano tra quelli che ho definito
costumi macchina. Si tratta di una struttura rigida ma molto leggera, fissata alla
vita degli attori, che simula il corpo del cavallo coperto fino a terra dalla
bardatura. Fissate al dorso del cavallo due gambe di stoffa imbottita rendono
l’idea della posizione seduta del cavaliere; grazie all’omogeneità cromatica con
l’abito e all’ampiezza dei gonnellini, si fondono facilmente con il resto della
figura, dando l’illusione di un uomo seduto a cavallo.
Quadro II “Vittoria di Gregorio”
In questa seconda parte del duello la lotta, che era soltanto fisica e muta, si
trasforma in schermaglia verbale, una sorta di gara di insulti in cui, a turno,
ognuno dei due contendenti si presta da spalla per le comiche arguzie dell’altro.
Nel frattempo entrano due dei paggi della prima scena con in mano due stendardi
e si fermano ai lati del proscenio. Prosegue il combattimento, che intanto si è
spostato dal palco alla pedana che serve questa volta a distinguere non due spazi
ma due modi diversi di intendere il combattimento: quello fisico prima, quello
verbale adesso.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 146
La vittoria arride a Gregorio, che però lascia in vita il conte a patto che risarcisca
i danni inflitti al ducato. La sconfitta, però, non ha inspirato alcuna modestia in
Margravio, il quale, con fare sprezzante, decuplica la cifra richiesta da Gregorio
come risarcimento, per dimostrare quanto poco si curi della sconfitta e del debito
con una donna, che egli considera “merce vilissima”.
Sia nel poema tedesco che nell’Eletto la vittoria di Gregorio è dovuta, più che
alla forza fisica o all’abilità con le armi, all’astuzia: il giovane riesce ad afferrare
le redini del cavallo del conte e a trascinarlo fin dentro le porte della città,
facendolo così prigioniero.
Nello spettacolo questo episodio manca, ma l’idea che Gregorio superi
l’avversario più per le sue doti intellettuali che per quelle fisiche rimane nel fatto
che la vittoria sia sua durante un duello verbale, dove vale più l’arguzia delle
armi.
Quadro III “Gratitudine della Duchessa”
Dopo l’uscita di scena dei contendenti appare Poli nei panni della duchessa che
esulta per la pace riconquistata esordendo, rivolto al pubblico, con la frase
“Esultate, gente di Bretagna”: questo incipit sembra confermare che Poli abbia
voluto creare l’idea del palcoscenico come una piccola arena in cui i due
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 147
contendenti hanno combattuto sotto gli occhi attenti dell’intero popolo di
Bretannia, costituito dalle dame oltre i merli variopinti del fondale e delle quinte
di Luzzati, ma soprattutto dal pubblico nella platea e nei palchi. Nell’analisi
della prima scene, e poi dei monologhi di Poli come frate narratore, si era visto
come Poli rimarca l’inesistenza della quarta parete con continue interpellazioni;
in questi casi però egli ricorda al pubblico la propria funzione di osservatore e di
giudice, mai, come in questo caso, di protagonista.
Nei panni della Duchessa Poli indossa un ricchissimo abito rosso scuro, lungo,
stretto sotto il seno, con maniche attillate lungo il braccio e sopra lunghe maniche
aperte a mantello, di broccato rosso e argento, con un alto collo rovesciato, e un
copricapo molto ricco e complesso, tipo turbante arricchito sul davanti e sui lati
di catenine pendenti di gemme; sul dietro da due piccoli corni pendono lunghi
drappi rossi.
Per la prima e unica volta all’interno di questo spettacolo, Poli interpreta una
parte femminile57: la sua capacità di essere credibile anche (e soprattutto ) in parti
travestì fa di Poli uno degli attori più interessanti del genere nel nostro paese, che
ha visto poche altre esperienze di questo tipo, a parte la compagnia dei Legnanesi
e l’attore napoletano Leopoldo Mastelloni.58
57 Altre volte, come ad esempio in La Nemica, ha vestito per l’intero spettacolo abiti muliebri. 58 Per una breve storia del teatro di travestimento e la collocazione di Poli all’interno di esso, vedi Cap.4, pp
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 148
Eccolo dunque nei panni della duchessa che, nonostante abbia consacrato la
propria persona a Dio e alla memoria del fratello-amante scomparso.
Questo breve quadro riassume il momento in cui la duchessa esprime la sua
gratitudine a Gregorio e quello in cui annuncia ai notabili la decisione di rompere
il suo voto di solitudine e sposare Gregorio. Le due parti sono ben distinte sia nel
poema che nel romanzo dove la duchessa cede a lunghe pressioni da parte dei
nobili affinché si decida ad prendere accanto a se un consorte che difenda lei
stessa e il ducato: seguono giorni di dubbi e preghiera in cui la donna tenta di
conciliare il voto fatto, l’ormai appassionato amore per il giovane Gregorio e un
sottile presentimento del peccato che sta per commettere.
Anche la Duchessa interpretata da Poli sembra presagire in un angolo del suo
cuore, la sventura che incombe su di lei: confessa infatti di sentirsi attratta da
questo giovane, che per età è poco più di un fanciullo e a cui lei potrebbe quasi
essere madre, per un qualcosa di lui che le è familiare, vicino.
A sancire la loro unione, la donna tende la mano a Gregorio, suo figlio e sposo,
ed egli la stringe: questo gesto è significativo nel confronto con l’altro, del tutto
simile ma di segno opposto, che conclude il Quadro II della scena successiva.
Scena Terza “La camera della duchessa”
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 149
Quadro I “La felicità della duchessa”
Si tratta della quarta canzone dello spettacolo. Questa volta le voci non sono due
ma tre: Quella della duchessa, quella di Gregorio, e quella di tre servette che
fungono da coro.
Il tema della canzone è l’amore che la duchessa afferma di provare per Gregorio,
e per il quale cerca conferme da parte di lui; il coro delle tre servitrici
contribuisce a rasserenarla.
Le servette indossano ampie tuniche fermate in vita, bianche, con maniche
lunghe; sotto la gonna della tunica, aperta a petalo, una sottogonna azzurra.
Sul capo una cuffietta bianca con una balza increspata ad incoronare tutto il viso
coperto da maschere dai tratti molto semplici e fini; sono a tinta unica di un
celeste intenso e lucido, con grandi occhi anch’essi azzurri e sulla fronte hanno
una corona di fiori azzurri.
Quadro II “La scoperta della verità”
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 150
Alla fine della canzone, Gregorio esce per andare a svagarsi alla caccia; rimasta
sola con le proprie ancelle, la duchessa si vanta del proprio sposo e della felicità
che entrambi stanno vivendo.
Ma una delle servette, con tono astioso, le rivela che Gregorio spesso si rinchiude
nella sua stanza e piange guardando una tavoletta.
Nel romanzo di Mann questa parte copre diversi capitoli ed un periodo piuttosto
lungo della vita familiare e di corte. Dal momento del matrimonio fino a quello
della rivelazione trascorrono tre anni che vedono anche la nascita di una bambina
e il concepimento di un’altra (la situazione di complica ancora, le bambine sono
nipoti della loro madre e sorelle del loro padre!); in oltre Mann descrive nei
particolari la vicenda della servetta curiosa e pettegola, di nome Jesciuta, che per
settimane segue Gregorio e lo spia mentre egli si rinchiude nella propria camera a
piangere e pregare davanti alla tavoletta che testimonia le sue peccaminose
origini. Nello spettacolo invece all’individuo Jesiuta si sostituisce una figura che
in nulla si distingue dalle altre due servette, che non ha niente di personale e
neanche di umano: si tratta soltanto della mano impersonale del destino.
Alla Duchessa incredula, l’ancella mostra la tavoletta d’avorio.
La Duchessa inorridisce e corre a chiedere spiegazioni a Gregorio, appena
rientrato, con l’ansia di sentirsi dire che quella tavoletta non è sua, che lui non è
suo figlio. Invece il triste gioco del caso si svela; la Duchessa si rende conto di
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 151
aver sempre saputo senza mai voler sapere, e ora riconosce il volto, le vesti, ma
troppo tardi.
Ma Dio non perdona i peccati del cuore e adesso la donna è di nuovo nel peccato,
di nuovo in disgrazia, anche se il suo amore per Gregorio perdura.
Con un gesto identico a quello della scena precedente la Duchessa porge la sua
mano al giovane sposo il quale rifiuta con decisione, recidendo il legame che con
l’altra stretta di mano aveva contratto.
Egli consiglia alla madre, se vuole almeno tentare di salvare la sua anima, di
aprire il palazzo ai lebbrosi e di servirli umilmente. Nell’uscire di scena la
duchessa, con un gesto simbolico, apre le pieghe della veste, rivelandone
l’interno nero.
Quanto a Gregorio, egli andrà ramingo per il mondo in cerca dei più duri
castighi.
Nell’interpretare, nei panni della duchessa, la scena più drammatica di tutto lo
spettacolo, Poli esaspera i toni, mettendo in scena la caricatura di una
disperazione che usa tutti i cliché del dolore, dalla mano appoggiata mollemente
sulla tempia, ad una sequela di singhiozzi.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 152
È in questa scena che infine si chiude il cerchio del destino di “innocente
peccatore” di Gregorio: partito in cerca di purificazione dal primo involontario
peccato, la sua origine incestuosa, egli ha finito per macchiarsi di uno ben più
grave e personale, di un secondo incesto che richiede una seconda e più radicale
espiazione.
Per Gregorio si è parlato spesso di un Edipo Cristiano, e in effetti la leggenda
riguardo al giovinezza di questo Papa discende da quella dell’eroe (o antieroe)
greco: la discendenza, però non è diretta, ma passa dalla Grecia classica alla
cultura germanica del 1200 tramite una serie di altre leggende e di altri
personaggi.
Thomas Mann, in una nota del 1951 al romanzo “L’eletto”, traccia una breve ma
interessante storia delle fasi attraversate dalla leggenda edipica fino ad arrivare al
“Gregorio” di von Aue:
Che la storia venga dall’antichità e sia una derivazione della saga di Edipo è
evidente.
Appartiene alla sfera, o meglio alla lunga serie dei miti di Edipo, in cui il motivo
imposto dal destino dell’incesto-orrore con la madre (insieme all’uccisione del
padre) gioca il suo ruolo; ne è un esempio la leggenda di Giuda Escariota,
secondo la quale Giuda, in seguito ad un sogno premonitore di disgrazia, venne,
da bambino, abbandonato ed esposto; ritornato in patria uccise, in occasione di
un furto, suo padre e sposò sua madre.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 153
Quando la confusione e l’errore vennero alla luce si unì, per purificarsi, ai
discepoli di Gesù, cosa che come è noto, non andò a finire proprio a suo
vantaggio. Il tema si ritrova in canti popolari serbi.
In una leggenda bulgara l’infelice eroe si chiama Paolo di Cesarea. Ne è venuta
alla luce una più antica in cui si chiama Andrea e inizia con la predizione, che
inevitabilmente si compirà, di un doppio orrore.
La via dell’evoluzione della saga sembra passare da Edipo attraverso Giuda,
Andrea, Paolo di Cesarea, fino a Gregorio, anche se a volte il motivo
dell’uccisione del padre è sostituito da un secondo - e poi cosciente- peccato di
incesto commesso o tra padre e figlia o tra fratello e sorella. L’uomo che in
stato di annebbiamento sposa la propria madre ed è già figlio del peccato, frutto
di un amore tra fratelli: in questa forma l’Europa Occidentale ha creato la
favola e ha circondato dell’aura di leggenda l’origine di grandi figure di papi. In
Francia, in Inghilterra, in Germania il nome dell’eroe ora è Gregorio. La sua
origine è vergogna, la sua vita peccato e penitenza senza riserve, la sua fine
illuminazione per mezzo della grazia divina.
Un poema in antico francese La vie de Saint Grégoire, da cui deriva anche un
medio antico inglese, è servito allo svevo Hartmann von Aue come idea modello
per un breve poema epico in versi che intitola Gregorio sullo scoglio o
semplicemente Gregorio o La storia del buon peccatore.
Riguardo a questa tradizione mi pare particolarmente interessante la
contrapposizione tra Giuda e Gregorio, personaggi con una storia simile ma con
un finale tanto diverso. Sembra infatti che la cristianità abbia voluto semplificare
l’imbarazzante ambiguità del personaggio classico, positivo e negativo allo
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 154
stesso tempo, sdoppiandolo in due, un Edipo irrimediabilmente dannato ed uno
destinato addirittura alla santità59.
Quadro III “La penitenza di Gregorio”
Sulle note originali del racconto della passione del Laudario di Cortona si svolge
la danza durante la quale Gregorio viene spogliato dalle tre servette dai suoi abiti
nobiliari. Allegoricamente associato al Cristo e seguendo i versi della laude XIII
del Laudario di Cortona, che ripercorre alcuni momenti della passione, Gregorio
viene legato frustato alla colonna e incoronato di spine. Non è questo il solo
momento in cui Gregorio viene associato alla figura del Cristo, anche la scena
della sua consacrazione a Papa60 è accompagnata da una laude che saluta
l’avvento del Cristo come salvatore.
Riporto di seguito il testo della lauda XIII così come è cantata durante lo
spettacolo, segnalando in nota la versione originale dove ci sono state modifiche,
per la maggior parte destinate a rendere maggiormente comprensibile il testo:
61De la crudel morte de Cristo on’hom pianga amaramente
Quando i soldati62Cristo pigliaro 59 Non ho ritenuto opportuno approfondire i legami della leggenda con quelli della vicenda edipica data la vastità dell’argomento, che avrebbe forse meritato una tesi specifica e di altro tenore. 60 Atto II, Scena VI 61 Laudario di Cortona, lauda XXIII, Passione e morte del Cristo.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 155
d’ogne parte lo circundaro
le belle63 mani strette legaro
como ladro, villanamente.
A la colonna fo, spoliato,
per tutto l’corpo flagellato,
d’ogne parte fo ‘nsanguinato
e battuto ferocemente64
Nel suo bel volto65 li sputaro
e di spine lo incoronaro66
facendo beffe l’accusaro67
ke Dio s’è facto, falsamente.
Tutti gridaro ad alta voce
moia l’falso, moia l’veloce1
sbrigatamente sia posto en croce
ke non turbi tutta la gente
Alla lauda XIII segue immediatamente la lauda XIV, durante la quale di fronte a
Gregorio ormai vestito da mendicante eremita, le tre servette, da immagini della
freschezza, della gioventù e della bellezza, divengono simbolo della caducità dei
62 Nel testo originale ‘Iuderi 63Nel testo originale le sue mane 64 Nell’originale commo falso, amaramente 65 Nell’originale Nel süo vulto 66 Nell’originale e la sua barba si la pelaro ; Poli ha eliminato integralmente questo verso sostituendolo con un altro, riguardante l’incoronazione di spine, per consentire un gesto più teatrale e anche simbolicamente più familiare al suo publico. 67Nell’originale l’imputaro
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 156
beni terreni. Strappandosi le vesti sul petto, rivelano busti che richiamano
simbolicamente all’idea della morte del corpo: il primo raffigura un petto pieno
di ferite, il secondo uno sterno pieno di serpenti ed il terzo uno scheletro.
Credo che la fonte di questa sorta di danza macabra sia una leggenda spesso
raffigurata in affreschi e miniature italiane e francesi tra i secoli XI e XII, quella
dei tre vivi e dei tre morti così descritta da Chara Settis Frugoni68:
L’iconografia dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti presenta la
contrapposizione di tre nobili signori con tre trapassati orribili per il sudario
che li avvolge e per la loro scheletrita o putrescente figura.
la lezione di quest’incontro della vita con la morte è evidente: la morte
condiziona il significato della vita. E la lezione risulta tanto più efficace e
perentoria perché la vita è rappresentata nella sua forma più desiderabile di
gioia, potenza, di ricchezza e la morte nella sua forma più ripugnante, oscena,
beffarda deformazione della bellezza.
Per quanto in questo caso il giovane bello, ricco, potente sia uno soltanto,
Gregorio, mi pare che la descrizione e il senso simbolico della leggenda
combacino assai bene con il testo della laude e la trasposizione visiva che se ne
ha nel balletto: l’uomo non deve gloriarsi di beni terreni la cui caducità è
dimostrata grazie al confronto con la potenza distruttrice della morte.
68 C. Settis Frugoni, Il tema dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti nella tradizione medievale italiana, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1967, p.145
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 157
Purtroppo non mi è stato possibile reperire il testo originale della lauda, ma
confido che non sia troppo dissimile da quello riportato qui sotto, nella versione
forse un po’ modernizzata di Poli:
Chi vuole il mondo disprezzare
sempre la morte dee pensare
la morte è fiera e dura e forte
rompe mura e passa porte
Ella è sì comune sorte
che nessun ne può scampare
La morte viene con furore
spoglia l’uom come ladrone
grassi e satolli....
Contro lei non vale ricchezza
sapienza ne bellezza
torri palagi e grandezza
tutti li fa abbandonare
Quindi Gregorio, abbandonati tutti i suoi beni terreni, parte ramingo in cerca di
castigo.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 158
Scena Quarta “L’Europa”
Quadro unico “Monologo dei Papi” Dopo una breve dissertazione sul matrimonio, Poli, di nuovo nei panni del frate
Narratore, racconta le vicende successive di Gregorio, che, nel suo pellegrinare, è
giunto sul mare del nord.
Dopo giorni di cammino Gregorio giunge presso la capanna di un pescatore: si
tratta di “un castrone che crede nell’uguaglianza”69 un uomo avvezzo a lavorare e
con poca simpatia i signorini, specie quelli a caccia di emozioni che giocano a
fare i pellegrini ma che hanno le mani di chi non ha mai lavorato; trattandolo in
malo modo egli rifiuta al pellegrino qualsiasi aiuto. Ma Gregorio è deciso a fare
penitenza, e oltre a ringraziare per le offese (!) domanda all’uomo se conosca un
posto isolato ed inospitale dove egli possa fermarsi ad espiare i propri peccati.
Il pescatore non si fa sfuggire l’occasione di dare una lezione a quello che lui
crede un impostore e conduce Gregorio su uno scoglio nel Mare del Nord e,
perché non abbia a pentirsi della bravata dopo un quarto d’ora, allo scoglio lo
incatena e butta in mare la chiave e se morirà ancora meglio perché “morire è
l’unica cosa che non puoi incaricare la servitù di fare per te. Nella vicenda
69 Testo dello spettacolo, atto II, Scena IV
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 159
raccontata dal Frate narratore manca totalmente una figura di un certo rilievo nel
Poema e di fondamentale importanza nel romanzo di Mann: la moglie del
pescatore. È lei che intercede presso il marito affinché accolga per una notte
Gregorio, lei l’unica che intuisce il destino di Beatitudine del pellegrino, è
sempre lei che rivela ai prelati in arrivo da Roma la presenza di Gregorio sullo
scoglio, ancora prima del miracolo del pesce.
Passano gli anni, Gregorio sopravvive, cibandosi di muschio e dissetandosi col
l’acqua che cola dalle rocce, ma deperisce sempre di più.
Nel romanzo di Man il problema della sopravvivenza di Gregorio sull’isolotto è
risolto in modo interessante: ne L’eletto si racconta che Gregorio si ciba di una
sorta di latte scaturito dalla terra, l’alimento primo di cui si erano nutriti i primi
uomini, i figli stessi della terra; in più egli si riduce di dimensioni non per un
semplice dimagrimento ma per una vera e propria mutazione che lo trasforma in
un animale più resistente al freddo ed in grado di andare in letargo per lunghi
periodi.
In questa scena, così come era accaduto nella seconda scena del primo atto per i
due fratelli, Gregorio ed il pescatore sono rappresentati da due “attori
meccanici”, due bambole di stoffa cucita, che Poli agita nelle sue mani e fa
parlare tra di loro con la sua voce. Simbolicamente il destino che Gregorio aveva
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 160
tentato di guidare personalmente verso la salvezza, con tanto scarsi risultati, torna
nelle mani di Dio, o meglio del grande burattinaio, come era all’inizio; così Poli
ricorda al pubblico la sua funzione di narratore, o meglio di incarnazione dello
“spirito della narrazione”, grazie alla quale muove, sulla scena e fuori, le fila del
racconto.
Il frate poi racconta ciò che nel frattempo avviene nella storia della chiesa, per
quanto riguarda il succedersi dei Papi: dopo anni di Papi, Antipapi e guerre tra
fazioni erano stati eletti due Papi, i quali si combattevano a colpi di scomuniche
ed insulti; ma uno dei due, in un eccesso di furore, morì, e l’altro , inseguito dalla
fazione opposta si gettò nel Tevere, e morì anche lui.
Così la cristianità si trovò a non avere neanche un Papa.
Si decise allora di cercare lontano un uomo al di sopra delle parti che acquietasse
gli animi; vennero inviati due alti prelati in giro per l’Europa, i quali, cammina
cammina, arrivarono al mare del nord.
Scena Quinta “I cinque scogli”
Quadro I “Il viaggio dei prelati”
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 161
Protagonisti di questa scena sono i due Prelati inviati dal vaticano alla ricerca del
nuovo Pontefice.
Entrano in scena su di una carrozza con cavallo: come le due barche che
compaiono nel primo atto, anche questa carrozza è costituita da una intelaiatura
rigida ricoperta di materiale leggero, ed è mossa e gestita interamente dagli attori
che vi sono all’interno: i due religiosi camminano uno di fronte all’altro, dentro
una struttura coperta, con finestrini e ruote.
Sul davanti di questa sorta di carrozzino si trova, appeso per la sella a due
stanghe, un cavallino, probabilmente di cartapesta, bianco, che non tocca terra
con le zampe e quindi ondeggia, come se trottasse, all’avanzare della carrozza.
Percorso il breve tratto tra la quinta sinistra e il centro della scena, si girano
faccia al pubblico, osservano la danza di un leone, comparso alla loro sinistra, e
lo indicano ritmicamente con il dito.
Dall’altro lato entra un aquila, anch’essa danza e anch’essa i prelati indicano con
il dito.
Si instaura una lotta tra i due dalla quale entrambi sembrano, dopo sorti alterne,
uscire sconfitti. Sia il leone che l’aquila sono animali a cui si attribuisce una
simbologia legata alla forza e al potere: il combattimento che si svolge sotto gli
occhi attenti e partecipi dei due Prelati ripercorre le vicende delle lotte di potere
svoltesi a Roma tra i due aspiranti al soglio Papale. Contemporaneamente la
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 162
scena racconta anche il lungo viaggio compiuto dai due uomini di chiesa,
plausibilmente irto di pericoli, fino a giungere al mare del nord.
L’attore che interpreta la parte del Leone indossa, su una tuta base grigia, petto,
coda, testa e zampe di felino; l’altro invece veste una tuta base nera, sulla quale
ha zampe uncinate, testa nera con lungo becco e grandi occhi, e, fissate lungo le
braccia, ali striate di bianco e coda nera
Quadro II “Il Sogno”
I due proseguono il viaggio, quindi si fermano a lato della scena e, aperta la
carrozza ( che diviene simile a due sedili affiancati), raccontano un sogno che
entrambi hanno fatto: un angelo ha detto loro che nel mare del nord, su uno
scoglio bianco tra 5 scogli neri, vive un eremita: e’ lui il prescelto al pontificato.
Il racconto del sogno rivelatore è giocato sulla frammentazione delle frasi
alternate tra i due personaggi; questo sistema narrativo tende ad esaltare l’identità
dei due sogni in una sorta di crescendo quasi agonistico. Non si tratta, comunque,
di un’invenzione di Poli; anche nel romanzo di Mann si trova lo stesso
meccanismo. Sembra essere invece frutto della fantasia di Poli l’identificazione
dello scoglio bianco tra i cinque scogli neri, che non compare né nel poema né
nel romanzo: l’identificazione del bianco come positivo, come rivelatore della
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 163
salvezza è perfettamente coerente con la volontà di portare in scena dei simboli
dalla comprensione immediata.
Quadro III “Il pescatore”
Entra il pescatore, interpretato da Poli: per l’abbigliamento e la maschera è facile
riconoscerlo come lo stesso che aveva incontrato Gregorio molti anni prima ed
interpretato da un attore meccanico (la bambola di stoffa).
Il costume (o sarebbe meglio dire la maschera visto che, come quella del Gran
Vassallo nel primo atto, è fortemente caratterizzata in senso comico) è tutto
giocato su toni dal grezzo al marrone: ha una maglia e pantaloni pieni di toppe,
sul petto una tasca da cui estrae un coltellaccio per spaventare i prelati. Sopra
porta un panciotto lungo e largo di tela grezza e in testa un cappellaccio marrone
a falda larga fermato sul davanti.
Il viso è caratterizzato da un naso tondo e largo e da due folti sopraccigli,
inclinati dall’interno verso i bordi del viso a dargli un’espressione burbera e
astiosa; la parrucca ha capelli lunghi e folti, bianchi e grigi.
I due religiosi gli chiedono notizia degli scogli e dell’eremita, ma il pescatore
nega l’esistenza dell’uno e degli altri.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 164
Dopo una lunga tirata su Dio e sugli uomini di Chiesa dai toni aggressivi e
polemici (tira anche fuori un coltellaccio, ci sputa e lo arrota sulle mani,
guardando i due religiosi che si ritraggono impauriti), propone ai Prelati di
pescare e vendere loro del pesce per cena.
Tira davanti a se (orizzontalmente alla scena) un telone alto circa mezzo metro
fissato ad un bastone di legno, azzurro a onde e si avvia al praticabile, canna alla
mano, per fare il suo lavoro.
Quadro IV “La pesca”
Il quadro consiste in una canzone, la quinta dello spettacolo.
Mentre il pescatore getta l’amo in varie parti del palco, i due Prelati estraggono
da sotto la tonaca una grossa forchetta e, con quella pronta in mano, aspettano,
facendo coro al canto del pescatore e battendo il tempo con la forchetta.
La Il testo della canzone è costituito da un elenco di pesci e molluschi che il
pescatore invoca affinché abbocchino al suo amo: il ritmo è ripetitivo e ricalca il
modello di alcune canzoni, il cui testo è soprattutto un divertimento letterario,
tipiche del primo ‘900, dove l’insistenza senza ripetizione costituisce una sorta di
sfida. Poli stesso ci fornisce un paragone in uno dei bis contenuti nella
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 165
registrazione utilizzata nell’analisi: egli canta infatti una canzoncina simile a
questa, tratta dal repertorio del teatro di Varietà, il cui soggetto sono le industrie
ed i modelli delle auto.
Quadro V “Il Miracolo”
Alla fine della canzone entra dalla quinta destra, tra il telone e la pedana un
enorme pesce: è costruito come una struttura rigida e tridimensionale alta circa
un metro e lunga almeno due (grande abbastanza perché vi possa stare nascosto
l’attore che lo fa muovere, lo spezza ed attacca la chiave all’amo del pescatore) ,
sgargiante nei colori dal rosa acceso all’azzurro e all’argento. L’enormità del
pesce (che nel romanzo di Mann è specificamente un grosso luccio) ed i suoi
colori vivaci provocano già meraviglia, ancora prima che accada il miracolo del
ritrovamento della chiave, e del miracolo in fondo fanno parte integrante; si tratta
di un vero e proprio Deus ex Machina, un intervento divino che risolve una
situazione all’apparenza irrisolvibile.
Giunto alla metà del palco il pesce abbocca all’amo del pescatore, si spezza, e il
Pescatore ritira il suo amo con su attaccata una chiave.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 166
L’uomo, che fino a poco prima aveva negato l’esistenza dello scoglio e del
pellegrino visti in sogno dai due Prelati, grida al miracolo: quella è la chiave che
lui stesso aveva gettato in mare tanti anni prima, la stessa con cui aveva
incatenato Gregorio.
Convinto dal miracolo, confessa di aver mentito e corre a liberare Gregorio
(anche questa volta in forma di bambola di stoffa) estraendolo da dietro lo
scoglio bianco: è molto deperito, ma rifocillandolo si riprenderà bene, anche se
non tornerà bello come prima (“in questi casi neanche Dio può fare miracoli!”70)
I due Prelati, dopo aver a lungo mimato espressioni di stupore e di gioia e aver
baciato la manina di stoffa del pupazzo/Gregorio, si preparano a tornare a Roma,
felici di aver compiuto la loro missione. Il pescatore attacca ad un gancio dietro
la carrozza il bambolotto di Gregorio che parte dunque per il suo viaggio verso
Roma e verso il Papato.
Si chiude in questo modo il “destino d’acqua” di Gregorio, grazie all’intervento
di un pesce, simbolo della salvezza, accostato, nella cristianità delle origini, alla
figura del Cristo.
70 Testo dello spettacolo, Atto II, Scena V
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 167
Scena Sesta “Sala del Vaticano”
Quadro Unico “La cerimonia”
Due Vescovi entrano portando un piccolo Gesù e lo appoggiano sulla buca del
suggeritore, entrano altri due Vescovi.
Tutti indossano un’ampia tunica bianca con sopra grandi mantelli porpora.
La testa, un tutt’uno tra una maschera dai tratti larghi e tondi e un’alta tiara
bianca, identica per tutti e quattro i Vescovi in scena, dà loro un aspetto rigido,
che consentirà di confonderli con i manichini, con gli stessi abiti e la stessa
maschera.
Tutti si inchinano alla figura del pontefice sul fondale:
Escono e rientrano con ostensori, con i quali danzano, facendoli roteare e
oscillare, quindi di nuovo escono e rientrano ognuno tenendo davanti a sé un
altro Vescovo a grandezza naturale, in modo da moltiplicare il numero delle
presenze e da affollare la scena e da creare, nel momento in cui, in fila tutti
escono, l’impressione di una processione.
L’ultimo della fila torna indietro a riprendere il Bambinello lasciato in scena.
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 168
La scena si svolge sulle parole e secondo i ritmi di una laude di nuovo
appartenente al codice dei Laudari di Cortona, e precisamente alla parte dedicata
alla natività: come si e visto per la scena dell’addio di Gregorio ai beni terreni, si
crea un’equivalenza tra la figura del Cristo salvatore dell’umanità e Gregorio
salvatore del papato, equivalenza testimoniata anche dal bambinello deposto in
proscenio all’inizio della scena, quasi che l’incoronazione del nuovo Papa fosse
una nuova natività.
Questa scena precede il racconto delle vicende e dei miracoli che
accompagnarono, secondo la tradizione, l’arrivo di Gregorio a Roma e il suo
Pontificato, e rappresenta la scena della consacrazione di Gregorio.
Scena Settima “Gli agnelli”
Quadro I “ Monologo finale”
Si è giunti all’ultimo monologo di Poli come frate Narratore.
La vicenda della giovinezza peccaminosa di Gregorio è finita, resta da raccontare
l’epilogo: Gregorio, dopo aver a lungo rifiutato credendo che si trattasse di una
tentazione del Diavolo, accetta di divenire Papa, ma si fa chiamare “servo dei
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 169
servi di Dio” e al suo arrivo a Roma tutte le campane cominciano a suonare senza
essere toccate da mano umana; durante il suo pontificato compie molti miracoli,
come l’interruzione della peste a Roma o il richiamare l’Imperatore Traiano, già
morto, in vita per consentirgli di convertirsi e di salvare l’anima , evitandogli così
l’inferno.
Fu un Papa energico ed attivo, che portò modifiche e riforme nella Chiesa.
Tra i molti penitenti che arrivavano da lui, giunge anche una donna nobile e di
bell’aspetto, nonostante una vita di dolore e di privazioni. Costei confessa i suoi
molti peccati e si rivela infine come la Duchessa, Madre/moglie di Gregorio. I
due si riconoscono e gioiscono per la ritrovata grazia del Signore. Poli però non
ha saputo trattenersi dall’insinuare un dubbio all’interno di questo finale di
ritrovata innocenza: infatti, quando Gregorio chiede alla madre “ma davvero non
mi avevate riconosciuto?” lei risponde (e sono le ultime parole dello spettacolo):
“Io? Ma io ti riconosco sempre...”
Gregorio e la Madre sono rappresentati da teste di stoffa piatte, come due guanti,
mosse dalle mani di Poli: Gregorio, riconoscibile come sempre dai capelli rossi,
ha l’abito bianco e oro e la tiara papale, la donna una complessa acconciatura sui
capelli (sempre rossi).
Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 170
Quadro II “La vittoria del bene”
Come alla fine del primo atto, Poli chiude anche questo secondo atto con un
balletto, legato da un sottile filo di senso al resto della vicenda: quattro Angeli in
abito corto, dorato, riccamente decorato al collo e sul petto, con sulle spalle
piccole ali dorate e sul capo una coroncina con aureola, annunciano la vittoria del
Bene cantando la gloria del Signore, ballando e suonando tamburelli e lunghe
trombe dorate. Ricevuto dalle quinte un Diavolo tondo e rosso, con una barbetta
a punta e cornetti sulla fronte, cominciano a palleggiarselo l’uno con l’altro,
tirandolo in aria.
All’entrata di Poli, vestito di un frac bianco con sopra una tunica aperta davanti,
bianca ma molto lavorata in oro, senza maniche ma con un grande collo, cala
dall’alto una grande colomba bianca, simbolo di pace e di salvezza e qui,
generalmente, del bene, le cui zampe arcuate formano un cerchio
Gli angeli palleggiano ancora un po’ il Diavolo/palla, quindi lo mettono “a
canestro “ tra le zampe della colomba.
Lo spettacolo, come il Poema, finisce dunque con un happy-end, con il trionfo
del bene sul male e la sconfitta del demonio.
Bibliografia _ p171
Capitolo 3: La scenografia
Emanuele Luzzati
Emanuele (Lele) Luzzati nasce a Genova il 3 luglio 1921. Nel 1940 si
trasferisce a Losanna dove studia e si diploma all’Ecole des Beaux Arts. Qui
trova gli amici Fersen e Trionfo già conosciuti a Genova e come lui costretti
ad emigrare in Svizzera per motivi razziali. Assiste nel ‘45 alla messa in
scena de l’ Histoire du soldat di Stravinskij nello stesso famoso allestimento
del 1918. Un’esperienza, questa, che sarà decisiva per tutta la sua successiva
attività di scenografo.
Insieme a Fersen e a Trionfo, sempre a Losanna, lavora alla creazione di una
pantomima ispirata alla leggenda di Salomone e della Regina di Saba, per la
quale disegna le sue prime scene. Lo spettacolo verrà ripreso a Genova dopo
la guerra. Nel 1947, finita la guerra, alternandola a quella di illustratore,
decoratore e ceramista, inizia la sua attività di scenografo professionista in
Italia: firma le scene e i costumi della Lea Lebowitz, un dramma ispirato ad
Bibliografia _ p172
un’altra leggenda ebraica, scritto e diretto da Fersen, rappresentato al Teatro
Nuovo di Milano.
Negli anni ‘50, lavorando con Fersen e Giannino Galloni e su testi
prevalentemente classici (Shakespeare, Goldoni, Moliere) é tra i fondatori e
gli animatori del Piccolo Teatro Eleonora Duse, il futuro Stabile di Genova.
Nel 1960 collabora con Aldo Trionfo alla Borsa di Arlecchino, dove conosce
Paolo Poli e con lui Claudia Lawrence, Marco Parodi, Giancarlo Bignardi.
Avviene qui l’incontro di Luzzati con il teatro di Ionesco, Beckett e de
Ghelderode. Del 1960 é anche il suo sodalizio con Giannini e il loro primo
cartone animato, I paladini di Francia. Da allora la sua attività nel campo
dell’animazione si affiancherà costantemente con quella teatrale, fino quasi,
oggi, a prevalere.
Negli stessi anni fonda, insieme con Franco Enriquez, Valeria Moriconi e
Glauco Mauri la Compagnia dei Quattro, per la quale, nel corso di una lunga
collaborazione firmerà numerosissime scenografie. Continuano anche i suoi
molti interventi nel campo della lirica, iniziati nel ‘52 con le scene e i
costumi per La Diavolessa di Galuppi (regia di Pavolini, per la Biennale di
Venezia) e culminati nella messa in scena del Flauto Magico a Glyndebourne
Bibliografia _ p173
nel 1963 per la regia di Enriquez. Del 1963 é anche il suo primo allestimento
brechtiano, Un uomo é un uomo per la regia di Tolusso al Teatro Stabile di
Trieste e nel 1965, tramite De Bosio, l’incontro con Ruzante (L’Anconetana
e Bilora) al Teatro Stabile di Torino.
Sono questi gli anni in cui più Luzzati divide l’attività teatrale con quella di
ceramista, in cui matura il suo rapporto con Giulio Giannini nel cartone
animato e in cui trova tempo e modo di realizzare l’antica vocazione di
illustratore di libri.
Nascono così e si perfezionano nei diversi mezzi espressivi alcuni temi
tipicamente luzzatiani (Pulcinella, Flauto magico, Paladini) che ricorrono
nella totalità delle sue opere in un continuo trapasso dalla pagina al
fotogramma, dal fotogramma al teatro, dalla parola alla musica.
L’attività di Luzzati, intanto, si estende anche all’estero: al festival di
Glyndebourne, dove viene invitato varie volte, si aggiungono la Chicago
Opera House, il London Festival Ballet, la Staats Oper di Vienna.
Nel 1967 ottiene il premio Bratislava per i suoi libri illustrati e nel 1973 i
cartoni animati La gazza ladra e Pulcinella, realizzati con Giannini,
ottengono la nomination all’Oscar.
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Dagli anni ‘70 ad oggi continua la sua intensissima collaborazione con i
Teatri Stabili (Roma, Torino, Bolzano, Milano, Trieste), gli enti lirici (La
Scala, San Carlo, Teatro Massimo, Maggio Musicale Fiorentino) e le
cooperative teatrali.
Pur nella incredibile molteplicità delle sue produzioni, Luzzati ha mantenuto
costantemente un punto fermo che oggi sembra conservare un ultimo
evidente riferimento nella collaborazione con Tonino Conte e il Teatro della
Tosse (di cui, insieme a Conte, é direttore artistico): é il legame con le sue
radici genovesi, con la città che non ha mai lasciato.
La scenografia di Luzzati non é mai decorativa, ambientale o di arredamento,
é sempre trasfigurazione di una personale immagine poetica, di una idea di
teatro che parte direttamente dal testo e si trascrive in immagini plastiche, in
racconto fantastico.
Per Luzzati il teatro é soprattutto un linguaggio capace di raccontare favole: i
suoi personaggi preferiti sono i re e le regine, al posto delle facce, le
maschere, al posto dei vestiti i costumi. Per questo nei primi anni crede di
non poter rappresentare che i classici. Se la storia e il mito possono venir
Bibliografia _ p175
raccontati come una favola, tutto ciò che é moderno e presente gli sembra
implicare necessariamente il realismo. Ma quando intorno agli anni ‘60 si
conoscono in Italia i primi testi di Ionesco e di Backett, Luzzati scopre
attraverso quel teatro una chiave per rappresentare fuor di realismo anche il
moderno. I procedimenti linguistici del teatro dell’assurdo, gli accostamenti
alogici delle parole, la sostituzione del casuale al causale, gli suggeriscono
altrettante immagini visive basate su simmetrici principi di destrutturazione e
reinvenzione del reale. È la rivelazione di una lingua che in modo fantastico
rappresenta il quotidiano e insieme la scoperta che ogni testo letterario
produce una sua immagine visiva, richiede il suo materiale.
Da quel momento in poi, tra le tecniche creative di Luzzati prevalgono il
collage, l’assemblaggio di materiali e tecniche diversi.
In particolare é sempre un assemblaggio di materiali di recupero, di residui:
residui della vita quotidiana (materiali e oggetti usati, tele, stracci, pizzi,
ferraglie, carte da parati, mobili), e residui del mondo teatrale (maschere,
cartapesta, arredi scenici, sipari, cartelloni) e dei suoi protagonisti (re, regine,
pupi siciliani, paladini, personaggi della commedia dell’arte, burattini). Una
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continua opera di trasposizione dove il ricco e il povero, il vero e il falso si
cambiano continuamente di posto.
A seconda della rappresentazione, i moduli espressivi di Luzzati variano
dagli arabeschi grafici dalle ricche campiture cromatiche (per opere musicali
e balletti) alle strutture volumetriche ricche di anfratti e di spessori (come le
grandi sculture per Ionesco e Ruzante), dalle formule per moduli ripetuti
(come la simbolica sedia per Il Golem) alla semplice struttura a ponteggi e
praticabili (come per il Tito Andronico) oppure al più luzzatiano dei giochi
teatrali, la scatola del prestigiatore, che si anima, si trasforma, si gira, si
modifica, sempre piena di sorprese ( come la scatola di Un uomo é un uomo,
o di La tarantella di Pulcinella).
Le prime scene di Luzzati sono scene dipinte, sullo scenografo sembra
prevalere il pittore; intorno al 1960, in seguito al contatto con il teatro
popolare di Ruzante e al moderno teatro dell’assurdo, la sua attenzione
sembra rivolgersi dalla forma alla materia, e soprattutto alla ricerca di
materiali da riutilizzare, con i quali reinventare una realtà diversa.
Nel 1963, con la messa in scena de Il flauto magico, Luzzati torna alla scena
dipinta dal momento che scopre la sostanziale identità tra fiaba, musica e
Bibliografia _ p177
pittura: la scena dipinta e il colore si adattano particolarmente al balletto e
alla lirica dove l’azione é in secondo piano rispetto alle forme, al colore, al
movimento e alla musica.
In questo tipo di scene non solo il fondale é dipinto, ma anche i costumi e gli
oggetti: sono scene prevalentemente per spettacolo musicali, o, come ne La
donna serpente, spettacoli di teatro totale, dove la scenografie e la musica
giocano un ruolo fondamentale insieme all’attore.
La scenografia de “La Leggenda di San Gregorio”
In un articolo pubblicato su L’Unità, Edoardo Sanguineti si esprime in questi
termini in occasione di una mostra personale di Luzzati:
Ed ecco allora qui in scena, i pupi siciliani mescolati al museo delle cere, le
biciclette dorate e i megafoni a vista, orienti tra i rococó e il semi Salgari.
Ernst impastato con Klimt e Füssli, le bambole meccaniche da collezionista
le bambine di Carrol forografo, il cantastorie da piazza e la vamp da sotto
Holliwood, le scatole a sorpresa con testone dragonesco cartoanimato
Bibliografia _ p178
emergente da sepolcreto e, più dentro ancora, per supersorpresa, la sposa
da torta nunziale, , tutta in bianco peruginesco [...]. Tutto ció che si é già
visto da qualche parte, da tutte le parti, che si é visto e rivisto, ma cosi, a
questo punto, con quel contesto lì, forse no, o forse non ancora, non in grado
tale.71
Ho scelto di riportare questo brano dell’articolo di Sanguineti perché credo
che renda bene l’idea delle somiglianze di fondo che legano il lavoro di Poli
con quello di Luzzati: si tratta innanzi tutto di un gusto del colore e
dell’oggetto appariscente, nella creazione di un ambiente che usa il kitsch
come elemento del surrealismo, della sostanziale negazione del realismo a
teatro. L’altro tratto fondamentale che lega questi due artisti é la “poetica del
riutilizzo”; Luzzati riutilizza materiali, ma in questo caso, nel caso dei
fondali dipinti per Poli negli ultimi anni72, egli riutilizza soprattutto immagini
appartenenti al patrimonio collettivo della memoria, brandelli
dell’immaginario artistico dello spettatore, ne La leggenda di San Gregorio
con citazioni più o meno puntuali di quadri, arazzi, affreschi, miniature, il
71 E. Sanguineti, Pop Settecentesco, in “L’Unità”, Domenica 22 aprile 1979 72 La collaborazione di Luzzati con Poli risale all’inizio degli anni ‘90, con Il coturno e la ciabatta, e continua con La leggenda di San Gregorio, L’asino d’oro, I viaggi di Gulliver.
Bibliografia _ p179
tutto smontato e rimontato in modo da costituire un già visto sotto una
prospettiva del tutto nuova.
Stessa operazione compie Poli da anni con i suoi spettacoli: questo tipo di
approccio era forse più evidente quando la fonte dei suoi testi era
temporalmente più vicina e per gran parte del pubblico più familiare, in
quando estratta dal mondo della canzone e del teatro di Rivista.
Poli non riutilizza soltanto il “che cosa” ma anche e soprattutto il “come”,
imitando ed esasperando i modi di certa recitazione, i gesti e gli accenti delle
dive del cinema muto, le sclerotizzazioni e le ovvietà di certi stili letterari o
di certi modo di dire: pesca a fondo nell’immaginario-abitudinario dello
spettatore, ne accentua volutamente i tratti fino a stravolgerlo, a mostrarne
l’inconsistenza, la futilità.
Luzzati ha spesso usato un dispositivo molto agile e funzionale denominato
“scena costruita”, costituita da una serie di pedane adeguatamente disposte
che possono essere unite da ponteggi o scale73. Questo tipo di scena é adatta
73 Luzzati ha usato questo tipo di scena anche per Titus Andronicus (regia di Aldo Trionfo) e per Le Mosche (regia di Frenco Enriquez)
Bibliografia _ p180
a qualsiasi tipo di spettacolo, non c’é neanche bisogno di porvi sopra oggetti
o mobili, gli attori infatti possono sedersi sui gradini o per terra.
Per gli ultimi quattro spettacoli di Poli, tra cui anche la leggenda di San
Gregorio, il cui impianto scenografico è identico, Luzzati ha usato la stessa
pedana di colore azzurro, alto circa 50 cm che corre lungo tutta la parete di
fondo del palco e che degrada in due lunghi scalini verso il pubblico; ai lati,
più alte (in tutto circa 1 metro) ma comunque unite al praticabile, due scale
con 5 scalini, sempre azzurre74.
La presenza della pedana movimenta l’area del palco senza inserirvi elementi
ambientali e decorativi, mantenendo cosi una neutralità che consente di volta
in volta di farne un utilizzo differente: talvolta assolve la funzione di
distinguere spazi diversi, come ad esempio nella terza scena della prima
parte, quando il giovane Duca si congeda dalla sorella al centro del
praticabile, sul fondo del palco, mentre Poli fa i suoi commenti in
proscenio75; oppure segna differenze di situazione come nella seconda scena
della seconda parte, quando il duello tra Gregorio e Margravio si mantiene
74 Vedi Tavola 1 75 Invertendo, in più, la dinamica abituale di queste scene, ponendo la scena in secondo piano e il controscena in primo piano.
Bibliografia _ p181
sul palco finché é fisico, per poi spostarsi sulla pedana quando diviene
verbale.
Altre volte invece i fondali sono dipinti in modo che la pedana con le scale
risulti quasi una proiezione tridimensionale delle architetture raffigurate, in
modo da sembrare così inglobata nell’ambiente suggerito dal fondale stesso.
L’immagine scenografica dello spettacolo é dunque basata tutta sui
quattordici fondali dipinti da Luzzati che vengono alzati a vista entro
un’intelaiatura metallica grazie ad un sistema di carrucole simile a quello
usato per issare le vele delle navi.
Alcuni di questi fondali raffigurano ambienti, scorci di interni o paesaggi,
altri invece riportano immagini non legate ad un luogo: i primi fanno da
sfondo alle scene mute o a quelle dialogate, i secondi alle scene dei
monologhi di Poli come Frate Narratore. Anche nei fondali che
rappresentano degli ambienti Luzzati non persegue mai un obbiettivo di
mimesi della realtà, mai desidera creare l’illusione di uno spazio reale.
Lo scopo è piuttosto quello di collocare la scena in un ambito spazio-
temporale irreale, falso, letterario: se Luzzati dipinge su un fondale lo
Bibliografia _ p182
spaccato di un interno fa caso a forzarne la prospettiva in modo che non dia
l’impressione di essere vero: egli stesso descrive cosí il suo concetto di realtà
a teatro:
Perfino le scene più realistiche del mondo, quelle alla Visconti, che non
trascurava neanche un particolare e gli oggetti li esigeva originale
dell’epoca, erano meno vere di quanto si pretendeva. È vero che gli attori si
muovevano in una stanza per tre quarti assolutamente reale, ma per un
quarto era del tutto assurda perché continuava in una platea con tante
poltrone dove la gente stava seduta a guardare la loro intimità. In fin dei
conti le scene alla Visconti sono altrettanto trasposte della nostra
automobile fatta con la sedia rovesciata.
Per non parlare del fatto che al finale un gran tendone viene a chiudere la
quarta parete per chiarire meglio che tutto quello che avete visto fino ad ora
è finzione e tutti i personaggi morti, sposati o feriti, vengono arzilli a fare la
riverenza, non tanto per ringraziare il pubblico che li ha applauiti, ma per
ricordare che tutto era finto76.
Il medioevo messo in scena da Luzzati è costituito da brandelli di immagini
familiari allo spettatore, tratte dal suo patrimonio iconografico (tramite
citazioni più o meno puntuali di opere figurative di un periodo che spazia
dalla tarda romanità fino al gotico internazionale) e immaginativo, 76E. Luzzati T. Conte, Facciamo insieme teatro, Torino, Einaudi, 1977, pp. 38,39
Bibliografia _ p183
sollecitando nella mente dello spettatore l’immagine di un medioevo che
sembra vero, ma non lo è.
Ecco una analisi dettagliata dei 14 fondali:
Il cortile del palazzo77
In questa prima scena il fondale rappresenta una chiesetta rosa, circondata da alberi,
ai lati due alti muri altrettanto rosati. Tra gli alberi, ai due lati della chiesa, un enorme
pavone con la coda ben in vista e due cigni.
Per la composizione semplice e per i colori questo fondale ricorda affreschi
trecenteschi, soprattutto di epoca giottesca e post-giottesca.
La sensazione che se ne ha è che si tratti del cortile interno di un castello, mura di
cinta con le pensiline per le vedette e la cappella di famiglia.
77 Vedi tavola 2
Bibliografia _ p184
La presenza dei due animali contribuisce a creare un’atmosfera di nobile
bellezza sia per la loro natura decorativa, sia per quella simbolica: Il cigno è
animale simbolo di grazie e di bellezza, il pavone ha assunto invece, nei
secoli, simbologie talvolta positive, per la sua bellezza ma anche per la
presunta incorruttibilità delle sue carni, che ne hanno fatto un simbolo
cristologico, e talvolta negative, facendone sinonimo di superbia.
L’unicorno78
Sul fondale alle spalle di Poli, nella veste di narratore, giganteggia un
unicorno, animale favoloso della simbologia antica79 che dall’originario
significato fallico, è passato, in epoca cristiana, a simboleggiare purezza e
forza; miniature ed arazzi medievali illustrano che può essere catturato solo
con l’aiuto di una vergine, nel cui grembo esso si rifugia fiduciosamente
dopo di che, imprigionato dai cacciatori, viene messo a morte. A questa
tradizione fa riferimento Mann, al momento di narrare i mormorii che
78 Vedi Tavola 3 79 Nella tradizione antica e medievale, l’unicorno è rappresentato come un cervo bianco artilodattilo, con criniera di cavallo e un corno a spirale sulla fronte. H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991, p.565
Bibliografia _ p185
serpeggiano alla corte dei due fratelli, riguardo al loro rapporto. Scrive
Mann:
Una volta Messer Wittich, ex cavaliere, con una spalla obliqua e una
linguaccia maligna, disse a tavola che il duca Wiligis un giorno si
acquisterebbe certamente gloria con l’impadronirsi dell’alicorno, quando
questo si fosse addormentato nel grembo della sua casta sorella.80
Il valore simbolico di questa raffigurazione è reso più chiaro dalla presenza
accanto all’unicorno, ma molto più piccolo, un agnello, il cui riferimento
religioso, in particolare legato alla figura del Cristo, è evidente, e un animale
dalle lunghe corna, non facile da identificare, ma probabilmente un caprone,
la cui simbologia demoniaca e infernale è altrettanto evidente.
Quindi a circondare l’unicorno, grazie a Mann simbolo dell’incesto
commesso dai due giovani, ci sono da un lato il bene e dall’altro il male.
Tra le montagne e il mare, fortemente stilizzati, si intravede un cane
raggomitolato su se stesso: del tutto assente nel poema medievale, la figura
del cane riveste una fondamentale importanza nella vicenda, per come la
racconta Thomas Mann: nel romanzo infatti i due giovani hanno come fedele
amico un cane, Hanegiff, che dorme sdraiato tra i due letti.
80 T. Mann, L’Eletto, Milano, Mondadori, 1979, p. 49
Bibliografia _ p186
Durante la notte del primo peccato, il cane, quasi ad avvertire
dell’irreparabilità dell’atto che i due giovani stanno per compiere, non la
smette più di latrare, tanto che il duca esce inferocito dal letto della sorella e
con un coltello lo sgozza; poi, sporco di sangue, torna dall’amata e porta a
compimento i suoi propositi.
Il momento dell’uccisione del cane segna, per il giovane duca il passaggio
dalla virtù al peccato, ancor prima che questo si compia con l’incesto, e
marchia con il sangue del povero animale il suo destino di morte.
Nell’insieme il fondale ricorda, per i colori e per la composizione delle
figure, arazzi tardo medievali e rinascimentali, soprattutto di ambiente
nordico e francese.
L’interno del palazzo81
Il fondale e le quinte della terza scena rappresentano uno scorcio prospettico
di un interno dalle cui ampie vetrate si scorge sulla destra una grande
terrazza decorata da una colonnina tortile, al centro una porta di stampo
81 Vedi Tavola 4
Bibliografia _ p187
greco e sulla sinistra una finestrina strombata da cui si intravede il cielo
azzurro e lo scorcio di un’altra stanza, con il soffitto a grandi travi e un
camino tondo.
Sulla quinta di destra un corridoio su cui si apre una porta, su quella di
sinistra una porta aperta; il pavimento dipinto nei fondali è a mattonellone
alternate bianche e nere.
Il dato che colpisce di più in questa rappresentazione di interni è la
prospettiva estremamente forzata che in parte stravolge le forme e che
ricorda di nuovo quella dei dipinti di fine ‘200.
Il bosco82
In questa scena il fondale dipinto da Luzzati rappresenta un bosco di alberi
bassi e frondosi, simile ad una pineta, in un’atmosfera notturna: il bosco ha
una lunga tradizione di simbologie, a partire dalla rappresentazione
celeberrima di Dante, che ne fa il simbolo del peccato, anche in seguito il
bosco è sinonimo di smarrimento della retta via. L’ispirazione di questo
fondale è sicuramente più simbolica che ambientale dato che, al pari del
82 Vedi Tavola 5
Bibliografia _ p188
grande arazzo con l’unicorno della scena II, fa da sfondo ad una scena
monologata del Frate Narratore il cui tema è proprio il peccato.
La scogliera83
È il primo dei tre fondali di ambiente marino di fronte ai quali si svolgono le
tre tappe del “destino d’acqua” di Gregorio: rappresenta sulla sinistra un
mare azzurro, leggermente increspato di bianco, sulla destra una costa
rocciosa sulla quale si trovano le case di un piccolo villaggio e più in alto le
mura bianche e la torre campanaria di un monastero. I tre luoghi raffigurati
rappresentano tre parti distinte ed importanti per la vita di Gregorio: il
villaggio di pescatori in cui vive con coloro che crede essere i suoi genitori e
fratelli, il convento di Frate Gregorio, in cui il giovane riceve la sua
educazione, dove apprende la legge e la teologia, ma dove anche, di nascosto
legge i romanzi cavallereschi che lo porteranno a voler diventare cavaliere, e
la spiaggia , luogo di arrivo e di partenza del destino di Gregorio, in cui,
materialmente la scena si svolge.
83 Vedi Tavola 6
Bibliografia _ p189
Luzzati ha dunque saputo in una sola immagine riassumere i 15-16 anni di
vita che intercorrono tra il ritrovamento della botticella da parte del pescatore
fino alla decisione del giovinetto di ripartire per mare alla ricerca di gloria e
della sua vera identità.
Città sulla riva del mare84
Seconda tappa del “destino d’acqua” di Gregorio: il fondale raffigura a
sinistra una città fortificata le cui mura scorrono lungo una scogliera. Si tratta
di mura fortificate irte di una selva di torri e torrette cilindriche con il tetto a
cono rovesciato, grigio: alcune delle torri fanno parte delle mura, altre dei
palazzi della città, di cui si intravedono i tetti e le finestre. Dalla parte
opposta il mare azzurro, calmo e il cielo altrettanto azzurro.
La raffigurazione della città, di evidente stampo gotico, ricorda quelle dei
dipinti trecenteschi; in particolare, sempre nell’ordine di sfruttare
l’immaginario e la memoria artistica dello spettatore, il riferimento è alla
raffigurazione forse più famosa della città del trecento italiano, quella de Gli
84 Vedi Tavola 7
Bibliografia _ p190
effetti del buon governo nella città e nella campagna85, di Ambrogio
Lorenzetti. Come composizione del fondale ricorda invece molto da vicino
un altro dipinto, sempre di Ambrogio Lorenzetti, appartenente ad una serie di
quattro tavolette con storie di San Nicola86, in cui il Santo accoglie sulla
spiaggia alcune navi, di fronte ad una città fortificata. Da notare che le
architetture, per quanto non particolarmente definite ricordano costruzioni
nordiche, soprattutto per la forma circolare delle torrette, e per il tetto a cono
grigio: questa nota geografica identifica la città come appartenente a quel
regno di Bretannia in cui la storia si svolge.
Lo zodiaco87
Il fondale riproduce parte di un calendario con zodiaco: Due grandi
semicerchi chiari, in cui compaiono le scritte di giorni, mesi e segni
zodiacali, distinguono una semicorona e una lunetta.
Nel semicerchio che divide il calendario dallo zodiaco, spiccano in bronzo e
oro su azzurro, un cancro e un leone.
85 Ambrogio Lorenzetti, Effetti del buon governo nella città e nella campagna, affresco, 1338/1340, Siena, Palazzo Pubblico 86 Ambrogio Lorenzetti, Storie di San Nicola, tavola, 1332, Firenze, Uffizi 87 Vedi Tavola 8
Bibliografia _ p191
Nella lunetta centrale , il carro del sole guidato da un vecchio e trainato da
due cavalli alati, ancora in grigio e oro su campo azzurro.
Al di fuori del semicerchio un grande cielo stellato; sulle quinte laterali è
riproposto lo stesso motivo.
Questo tipo di figurazione richiama evidentemente i calendari medievali e
soprattutto rinascimentali, in particolare mi sembra che si rifaccia
esplicitamente ad un calendario con zodiaco molto famoso, parte integrante
di un libro d’ore miniato dai fratelli de Limbourg88 nel 1416, la cui parte
superiore è praticamente identica come colori e come composizione al
fondale dipinto da Luzzati.
La miniatura della morte89
Il primo fondale del secondo atto raffigura una grande lettera capitale di un
codice miniato: una “G” (forse la “G” di Gregorio o quella di Guerra) dipinta
in oro, nel cui incavo si intravedono nell’oscurità uno scheletro con in mano
una falce, evidentemente la morte, e un demonio cornuto. Sulle quinte
88 Fratelli de Limbourg, dalle “Très riches heures du Duc de Berry” , miniatura su pergamena, 1416, Chantilly, Musèe Condè. 89 Vedi Tavola 9
Bibliografia _ p192
laterali due grandi pagine di antifonario, con note e testo per la messa
cantata.
Di nuovo si tratta di una raffigurazione non ambientale ma simbolica e a due
livelli: da un lato l’immagine della morte e del diavolo all’interno della
grande “G” dorata lascia presentire la situazione di malvagità, di morte e di
prevaricazione in cui la città della Duchessa si trova; dall’altro la
raffigurazione di questa morte e di questa malvagità vengono inserite
all’interno di un codice miniato, a rimarcarne la natura letteraria e non reale.
Sotto le mura della città90
Alla base del fondale e delle quinte laterali scorre una grande striscia rossa, sopra vi è
una composizione geometrica di quadrati e strisce di stoffa di ogni colore e fantasia.
Sopra vi è una folla di dame riccamente vestite, sporte gentilmente in fuori a seguire
il duello, a gruppi di tre o quattro per finestra, appoggiate a davanzali azzurri. Si tratta
forse di una di uno dei fondali più tipici di Luzzati, in cui compaiono volti umani
disegnati con un tratto e una colorazione dallo stile inconfondibile, ma soprattutto in
cui la poetica del collage, fondamentale per l’opera dello scenografo, emerge con
90 Vedi Tavola 10
Bibliografia _ p193
decisione, sia pure nell’unidimensionalità della superficie dipinta, nei molteplici
colori e fantasie che simulano un mosaico di svariate stoffe.
L’aspetto cortese rafforza l’idea che si tratti più di un torneo per divertire le dame del
castello che di una sanguinosa battaglia, in cui Gregorio mette a repentaglio la propria
vita per difendere la duchessa e i suoi sudditi.
La camera della Duchessa91
Il fondale rappresenta uno spaccato dell’interno del palazzo ducale: Si tratta
di una camera da letto camera da letto con un pavimento ornato da lettere
dell’alfabeto gotico, un grande letto rosso con lenzuola bianche, sfatto; dietro
alcuni altri mobili, archetti, scorci di corridoi.
In primissimo piano tre colonnine esili ed alte sorreggono 2 archetti a sesto
bassissimo e sulle quinte laterali ancora archetti e colonnine.
L’Europa92
91 Vedi Tavola 11 92 Vedi Tavola 12
Bibliografia _ p194
Sul fondale e’ dipinta una cartina geografica antica che raffigura l’Europa, in cui
stemmi colorati contrassegnano regni e famiglie; in primo piano è l’Italia, ed al centro
Roma, su cui campeggia lo stemma pontificio.
La raffigurazione dell’Europa segna un passaggio importante nella dimensione della
vicenda, ovvero il passaggio da una dimensione aneddotica e personale ad una
storica: si tratta del primo legame stabilito tra la vicenda leggendaria della giovinezza
di Gregorio e il suo destino di personaggio storico.
Gli scogli93
Il fondale rappresenta di nuovo un paesaggio marino: la terza e ultima tappa
del “destino d’acqua” di Gregorio, quella che vede la sua espiazione; in un
mare aperto e schiumoso spiccano cinque scogli neri e uno bianco. Luzzati
inserisce nella composizione del fondale soltanto gli elementi strettamente
necessari in modo che la funzione simbolica (il bianco come positivo) e la
funzione distintiva dello scoglio bianco risultino immediatamente evidenti.
93 Vedi Tavole 13/14
Bibliografia _ p195
Il questa scena compare l’unico altro elemento scenografico dello spettacolo,
oltre i fondali e la pedana: al momento della canzone della pesca, Poli fa
scorrere dalla quinta destra a quella sinistra un telone azzurro dipinto ad onde,
alto circa un metro, legato lateralmente ad un bastone, che nasconde tutta la
pedana. Dietro a questo telone compare il grosso pesce nel cui interno si trova
la chiave delle catene di Gregorio.
Sala del Vaticano94
Sul fondale è dipinta una sala riccamente addobbata di drappi color porpora. al
centro un altare dorato con drappi azzurri su cui campeggia la figura, in primo
piano, del Pontefice, ai suoi lati vescovi vestiti di rosso (a sinistra) e di azzurro
(a destra).
Gli agnelli95
L’ultimo fondale dello spettacolo, quello della scena della salvezza e del
trionfo del bene, rappresenta un decina di agnelli bianchi su fondo oro disposti
a piramide, sospesi nella luminosità dell’oro, tutti rivolti verso il centro del 94 Vedi Tavola 15 95 Vedi Tavola 16
Bibliografia _ p196
fondale, vuoto, di fronte a cui apparirà la colomba: la fonte di questa
raffigurazione sono certamente alcuni mosaici bizantini, come quelli
Ravennati o che ricoprono l’interno della cattedrale di San Marco a Venezia.
La somiglianza con le opere musive, per quanto non immediata, consiste
soprattutto nella lucentezza abbacinante dell’oro, nel disegno schematico della
figura degli agnelli, e nella composizione, priva di profondità.
Gli oggetti
La scena de La leggenda di San Gregorio è del tutto priva di suppellettili e di
oggetti decorativi: i pochi oggetti che compaiono vengono portati in scena, o
comunque mostrati al pubblico nel momento in cui servono e poi riportati
fuori o di nuovo occultati alla vista.
Gli oggetti svolgono funzioni distinte all’interno dello spettacolo: alcuni sono
prettamente strumentali, altri simbolici, altri ancora, come le marionette o i
pupazzi, vengono usati per interpretare dei personaggi.
Bibliografia _ p197
Tra gli oggetti strumentali rientrano i due cavoli del prologo, i guanti, la
cuffietta e il fiore della scena III, la botticella della Scena IV, la tavoletta
d’avorio che compare sia nella Scena III che nella IV che, poi, nella Scena III
del secondo Atto, la chiave della Scena V del II Atto.
Si tratta di oggetti di tipo strumentale perché la loro presenza è fondamentale
per la comprensione della vicenda o per il suo svolgersi: i due cavoli servono a
comunicare durante il prologo muto l’impossibilità dei due Duchi ad avere
figli, così come i guanti del fratello-amante, la cuffietta del figlio e la rosa
regalatale dal Gran Ciambellano servono a ricordare alla Duchessa (e con lei
anche al pubblico) i suoi motivi di dolore ed a giustificare la sua decisione di
non sposarsi che provocherà l’assalto da parte di Margravio di Lotaringia.
Vere e proprie chiavi di volta del racconto sono invece la botticella che
contiene il piccolo Gregorio e che lo traghetta sano e salvo fino all’isola in cui
viene accolto, la tavoletta che ben due volte rivela a Gregorio il suo destino
incestuoso, e infine la chiave ritrovata per miracolo nel ventre di un pesce e
che consente a Gregorio di avere la certezza del perdono di Dio e alla
cristianità di avere un nuovo Papa.
Bibliografia _ p198
Assumono valore simbolico invece gli oggetti che accompagnano alcune delle
scene monologate di Poli come Frate Narratore e in particolare: il gufo che
Poli porta sul braccio nella Scena IV, simbolo di una saggezza velata di
negatività (in quanto il Gufo riunisce una tradizione che lo lega al peccato con
un’altra che invece lo fa sinonimo di sapienza), simbologia connessa con la
coscienza maliziosamente pulita del Gran Ciambellano da cui partono le
riflessioni del monologo.
Nell’ultima Scena del Primo Atto Poli illustra le varie fasi del “destino
d’acqua di Gregorio” spostando con una mano i pezzi della grossa scacchiera
che tiene con l’altra mano; il gioco degli scacchi è infatti legato da una lunga
tradizione simbolica al destino degli uomini.
Nel monologo della guerra Poli trascina dietro di se, con una cordicella,
quattro cavallini bianchi, giocattoli di cartapesta che si legano simbolicamente
all’argomento del monologo che è appunto la guerra come gioco.
Nella scena monologata successiva, quella che racconta il viaggio di Gregorio
in cerca di espiazione, il suo incontro con il pescatore e la sua penitenza legato
ad uno scoglio, Poli usa in modo simbolico una Matrioska, bambolina
tradizionale russa che contiene al suo interno altre bamboline identiche
Bibliografia _ p199
progressivamente più piccole, per raccontare il deperimento di Gregorio
costretto a cibarsi d’alghe e a dissetarsi di rugiada.
Simbolico è ovviamente anche il diavolo a forma di palla messo a canestro nel
corso dell’ultima scena entro le zampe di un altrettanto simbolica colomba
bianca.
Il maiale conteso all’apertura del secondo sipario tra i due contadini e i soldati
di Margravio, è sinonimo di un’abbondanza che passa di mano e quindi delle
razzie subite dai bretoni sudditi della Duchessa.
Una terza classe di oggetti è quella costituita da marionette, burattini e pupazzi
che fanno le veci di attori in carne e ossa: alcuni di essi sono veri e propri
oggetti inanimati: il fagottino a due teste portato dalla cicogna, i due
bambolotti che la nutrice consegna al Duca e alla Duchessa e il bambolotto
che rappresenta il neonato Gregorio (usato addirittura come palla dalle due
guardie), la testa di Gregorio bambino che spunta dallo sportellino della
botticella, e lo stesso Gregorio, ormai adulto e macerato dalle sofferenze che il
pescatore estrae da vicino allo scoglio per appenderlo alla carrozza dei due
Prelati, in viaggio verso Roma.
Bibliografia _ p200
Come si è visto nell’analisi della scena II96, altri di questi oggetti, che ho
definito attori meccanici, acquisiscono movimento e voce grazie alle mani di
Poli stesso (nella maggior parte dei casi) o a quelle di qualcuno dietro le quinte
(come i due angeli che cantano con Poli nella Scena V): la loro voce è sempre
quella di Poli, talvolta registrata e talvolta dal vivo. Di questi attori meccanici
fanno parte i due burattini e le due marionette della Scena II, i due angioletti
della Scena V, le due bambole di stoffa raffiguranti Gregorio e il Pescatore
nella Scena IV del secondo Atto e le due teste, sempre di stoffa, di Gregorio
ormai Papa e della Madre, nell’ultimo monologo. Le ragioni del loro utilizzo
sono più complesse e trascendono la funzione del mero oggetto, quindi ritengo
più opportuno rimandare all’analisi dell’uso degli attori meccanici svolta nel
secondo capitolo97.
I costumi-macchina
Per costumi-macchina intendo strutture al limite tra l’oggetto scenografico ed
il costume. Si tratta quasi sempre di oggetti in movimento, mossi grazie agli
attori che li “indossano” e in qualche modo legati al loro costume. 96 vedi Cap II p.* 97 vedi Cap II, p.*
Bibliografia _ p201
Alcuni di questi sono più vicini all’oggetto scenografico non facendo parte
integrante del costume indossato dall’attore: si tratta in particolare delle
barche, sia la prima, piccola, entro cui il pescatore entra in scena per poi
riportare a riva la botticella, la seconda, grande, che trasporta Gregorio fino
alle spiagge della Bretannia, e della carrozza in cui viaggiano i due Prelati.
Tutti e tre questi oggetti si muovono grazie al movimento degli attori: la
barchetta del pescatore, di gommapiuma alta circa 10cm, ha una struttura
abbastanza flessibile da consentire all’attore di muoversi camminando con le
gambe piegate. La grande nave, anch’essa di gommapiuma dipinta, invece
contiene i tre attori in piedi e si sorregge grazie a dei grandi lacci che la
fissano alle spalle dei due mimi, uno davanti e uno dietro a Gregorio; anche gli
alberi con le vele sono gestiti a mano dai due mimi che li muovono a tempo
con la musica o con i gesti di Nettuno, a simulare una tempesta.
La carrozza dei prelati è una struttura più rigida che comprende vari elementi e
funzioni: quando è chiusa è una sorta di gabbia bianca che copre i due attori
fino ai piedi lasciando aperte finestre su ogni lato nella parte più alta; quando è
aperta si trasforma in due seggiolini accoppiati.
Bibliografia _ p202
Più vicini a veri e propri costumi sono invece altri costumi-macchina che
modificano sostanzialmente la natura dell’attore che li indossa: di questo tipo
sono il costume che trasforma un solo attore in quattro personaggi nella scena
dell’arrivo di Gregorio in Bretannia e i due cavalli usati nella scena del duello
tra Gregorio e Margravio.
I costumi e le maschere
Santuzza Calí, curatrice dei costumi, e Gabriella Saladino, creatrice delle
maschere de La Leggenda di San Gregorio, hanno collaborato con Poli per i
suoi spettacoli e fanno parte da anni del laboratorio di Luzzati.
In collaborazione tra di loro e con lo stesso Luzzati, più che disegnare dei
costumi e delle maschere hanno disegnato dei personaggi, o meglio dei
burattini: per Luzzati e per le sue collaboratrici infatti il personaggio non è un
uomo vestito in un costume, ma un soggetto-oggetto teatrale da inventare
globalmente, un tutt’uno di costume, maschera, movimento e voce tale da
non potersi immaginare che in quella forma. Nella maggior parte dei casi
infatti l’insieme di costume e maschera crea la dimensione stessa del
personaggio, ne delinea le caratteristiche, ne modifica i movimenti: in alcuni
Bibliografia _ p203
altri casi addirittura l’attore scompare completamente all’interno del
costume, soprattutto quando la maschera da copertura del solo viso diviene
struttura che copre testa e collo e viene a fare tutt’uno con il costume in
modo da nascondere e disumanizzare completamente l’attore al suo interno.
Anche se lo spettacolo ha argomento medievale, la scelta dei costumi non è
legata alla realtà temporale alto medievale del poemetto di Von Aue. Più che
inspirarsi ad un periodo storico reale la costumista ha ricercato un atmosfera
che richiama un tempo fantastico, quello del “Tanto tempo fa” che segue il
“c’era una volta” delle favole.
Per ritrovare un collegamento iconografico più preciso si deve guardare, più
che al patrimonio pittorico strettamente medievale, a quello del gotico
internazionale e cortese, con la sua passione per i romanzi cavallereschi e per
la vita di corte e per un medioevo ormai quasi morto di cui rimane un ricordo
idealizzato. Mi riferisco in particolare agli abiti più impegnativi e più ricchi,
quelli di velluto e oro dei cavalieri e quelli ricchi di strascichi e di mantelli
delle dame: si veda ad esempio l’abito indossato da Poli nella scena della
gratitudine della Duchessa che ricorda, per la verità più nella struttura
generale che nei particolari, quelli indossati da alcune delle dame in affreschi
Bibliografia _ p204
o tavole del primo ‘400, soprattutto in ambito piemontese e lombardo. C’è da
dire anche che spesso la base dei costumi usati da Poli è riciclata da altri
spettacoli, modificata e arricchita a seconda del caso: in questo caso
particolare credo che si tratti dello stesso abito indossato da Poli in Mistica
per interpretare la principessa Tatiana a cui sono state aggiunte le lunghe
maniche sfrangiate, tipiche appunto dell’iconografia femminile del primo
‘400.
I costumi indossati dal Duca e dalla Duchessa nella prima scena sono ispirati
ai disegni ed ai dipinti di inizio ‘400, anche se resi sovraccarichi da una
quantità di frange e di mantelli.
Dall’iconografia cortese derivano anche i disegni degli abiti dei cavalieri, per
il taglio del corsetto aderente e per il gonnellino corto e largo, ma soprattutto
per i ricchi cappelli simili ad un turbante ed arricchiti da piume o riporti
dorati.
Altri costumi invece, e per costume intendo l’insieme di abito e maschera,
più che avere una funzione decorativa e ambientale, contribuiscono in modo
sostanziale a dare al personaggio dei caratteri fortemente marcati. Primo fra
tutti il costume di Frate Gregorio, la cui struttura modifica perfino la forma
Bibliografia _ p205
fisica dell’attore che cammina in ginocchio e quindi appare molto più basso
di quel che è e con le proporzioni del corpo alterate. Lo stesso discorso vale
per le due guardie che accompagnano la canzone del Gran Vassallo, le quali,
camminando sui trampoli acquisiscono un’altezza innaturale: il camminare
sui trampoli conferisce loro, inoltre, movenze rigide e quasi meccaniche che
le fa assomigliare, anche grazie alla forma del costume e della maschera, a
delle grandi marionette, e più precisamente a dei Pupi, soggetto per di più
assai caro a Luzzati98.
Il costume e la maschera del Gran Ciambellano ricordano quelle dei vecchi
della Commedia dell’arte, una mescolanza tra il personaggio di Pantalone e
Dottore: il personaggio dunque mostra i propri caratteri visivamente, ancor
prima che con i fatti. In più il costume è disegnato in modo tale da dare
all’attore l’aspetto di un grosso uccello nero, aspetto a cui contribuisce in
modo importante la forma acuta a becco del naso della maschera.
A definire un carattere, o meglio una definizione del personaggio,
contribuisce il costume indossato da Gregorio nelle scene dalla sua
investitura a cavaliere fino a quando si spoglia degli abiti nobiliari per vestire
98 In particolare per I Paladini di Francia, cortometraggio animato del 1960
Bibliografia _ p206
quelli del penitente: Egli infatti nomina se stesso Cavalier del Mare, ed il suo
abito azzurro riporta in oro alcune figure legate appunto al mare, come
l’ancora o la croce dei venti.
L’abito che egli indossa, smesso quello nobiliare ha invece, evidentemente
una forte funzione simbolica di abbandono dei beni terreni per fare
penitenza; funzione simbolica rafforzata dalla solennità con cui questo
cambio di costume avviene, in scena.
Altri costumi invece assumono un senso più che per se stessi, nella relazione
con altri: i costumi dei due giovani duchi sono assolutamente identici a
rimarcare il fatto che ciò che li lega è il loro essere gemelli dato che “è
l’uguaglianza che appaga il cuore”99. Se questi costumi assumono valore per
uguaglianza, quelli di Gregorio e dei suoi fratelli adottivi assumono valore
per differenza: ciò che provoca la crisi che porterà la moglie del pescatore a
rivelare le vere origini di Gregorio è infatti la disparità di trattamento
riservata al trovatello, disparità che risulta evidente già visivamente grazie
99 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III
Bibliografia _ p207
alla diversità di abito, scuro e cucito con materiali poveri quello dei fratelli,
chiaro e di velluto quello di Gregorio.
Ho ritenuto più sensato descrivere i costumi dei vari personaggi man mano
che essi comparivano sulla scena100e riportare qui soltanto le considerazioni
attinenti al perché di alcune scelte.
CAPITOLO 4 : CRITICA
Poli ed il teatro del ‘900
Paolo Poli, ormai da quarant’anni sulle scene, é un solido pilastro del teatro
comico italiano. Eppure é difficile, quasi impossibile, inserirlo in una corrente,
100 Cap II
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incanalarlo in uno stile: Paolo Poli é Paolo Poli, e basta. Fa razza a se. Ama
definirsi come un artigiano che possa dire “questa brutta seggiola l’ho fatta io
con le mie mani” o, meno modestamente, ama paragonarsi a Leonardo, che ha
preso da tutti senza imitare nessuno.
Poli è stato per la maggior parte della sua carriera un uomo in controtempo:
negli anni in cui ferveva l’attività delle compagnie/comuni lui sceglieva di
recitare praticamente da solo, mentre gran parte del nostro teatro si affannava
a creare e apprendere metodi, lui preferiva seguire tecniche e, per di più,
quelle tecniche proprie della tradizione teatrale italiana, quelle del Grande
Attore la cui decadenza avveniva proprio negli anni in cui egli iniziava la sua
carriera.
Il teatro di Poli, che è rimasto sostanzialmente immutato negli anni, almeno
nelle sue linee essenziali, è impossibile da affiliare a correnti o stili, sfugge a
tutte le catalogazioni, prescinde dalle definizioni; non è cabaret, non è musical,
non è commedia, non è teatro di travestimento. Forse però sarebbe meglio dire
non è “solo” tutte queste cose, ma è “anche”: nei suoi spettacoli c’è il cabaret,
c’è il musical, c’è la commedia, c’è il teatro di travestimento e c’è ancora
molto altro, c’è il teatro di rivista e di varietà, il mimo, il teatro delle
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marionette, la danza, il tutto riunito a formare una sorta di paradigma del
teatro sul quale domina lui, l’attore, con la sua presenza sulla scena ma anche
con la sua forza decisionale fuori della scena, come regista e come autore.
Con questo non si può dire che Poli non abbia nessun debito con il teatro
precedente o che il suo teatro non faccia riferimento a nessuna teoria, che sia
essa acquisita volontariamente o percepita nell’atmosfera di rivoluzione e di
cambiamento del teatro del ‘900.
L’aspetto che balza agli occhi più facilmente, in questo come in tutti gli altri
spettacoli di Poli, è il marcato antinaturalismo.
La leggenda di San Gregorio contraddice volutamente e sistematicamente
tutte le regole del teatro “borghese”: alla necessità del teatro borghese di
essere assoluto, essenzialmente staccato da tutto ciò che gli è esterno, Poli
contrappone un continuo esplicito rivolgersi al pubblico e per di più insieme
come attore e autore.
Il teatro borghese infatti concepisce soltanto la presenza del personaggio, in
quanto ricerca una illusione di realtà, lo spaccato di vita vera, per cui tutti i
minimi cenni della presenza stessa di un drammaturgo sono accuratamente
occultati. anche la nascita del concetto di “quarta parete” mira a fare del
Bibliografia _ p210
pubblico non più il naturale ed esplicito destinatario dell’evento spettacolare,
ma un voyeur muto di fronte a fatti che si svolgono davanti a lui ma a
prescindere da lui; mai infatti l’attore si rivolgerà al pubblico o farà anche
soltanto accenno di accorgersi della sua presenza.
L’attore stesso è costretto da questa nuova prospettiva a cambiare il proprio
ruolo all’interno della scena: gli si richiede di scomparire all’interno del
personaggio, di non farsi avvertire come entità esterna, mezzo di una
rappresentazione, ma solo e unicamente come personaggio presente hic et
nunc.
Poli invece ha costruito uno spettacolo in cui qualsiasi ipotesi di realismo è
definitivamente negata: gli attori, tutti tranne lo stesso Poli, compaiono in
scena sempre con il viso coperto da una maschera che, se da una parte
chiarifica e rafforza le loro peculiarità come caratteri più che come personaggi,
dall’altra disumanizza l’attore, ne nega la realtà, lo presenta in modo
inequivocabile come mezzo di una rappresentazione. Ad allontanare ancora di
più l’attore de La leggenda di San Gregorio da qualsiasi mimesi di realtà
concorrono le tecniche di recitazione scelte da Poli, che per questi quattro
attori sono essenzialmente la danza, il mimo e la pantomima; prescindendo
Bibliografia _ p211
dalle differenze che indubbiamente esistono tra questi tre linguaggi, è evidente
che tutti si caratterizzino per una forte irrealtà, spesso per una codificazione
linguistica e gestuale, in più la scelta delle voci registrate su nastro, che ha
certamente ragioni più complesse, contribuisce a confermare l’antinaturalismo
di fondo come scelta registica creando nello spettatore la precisa coscienza di
entità esterne alla scena.
Poli è l’unico ad apparire sulla scena privo di maschera, ma questo non
significa che il suo modo di agire sul palco conceda qualcosa al naturalismo;
innanzi tutto la presenza di un attore come Poli sulla scena, è una presenza
forte e soprattutto personale: lo spettatore entra nella sala non per assistere ad
una generica commedia, ma per vedere uno spettacolo il cui punto focale è
Paolo Poli, autore registe e attore, ma anche personaggio con le proprie
peculiarità evidenti, e, da parte del pubblico, attese.
Il volto, la voce, la gestualità di Poli, invece che scomparire all’interno del
personaggio, ne sbucano continuamente fuori, riconoscibilissime, impedendo
allo spettatore di vedere solo il personaggio trascurando la presenza
dell’attore; tutto ciò è ovviamente voluto e cercato, e non certo frutto soltanto
della popolarità dell’attore
Bibliografia _ p212
Poli infatti si ritaglia all’interno del tessuto dello spettacolo ampi spazi di
rapporto diretto con il pubblico. Contrariamente ai dettami del teatro borghese,
egli cerca continuamente il pubblico come referente naturale dei suoi brani
monologati, e ad esso si rivolge spesso anche nelle scene in cui il personaggio
che sta interpretando dialoga con altri personaggi, sottolineando dunque
continuamente l’inesistenza di quella quarta parete che per anni ha relegato la
platea ad un ruolo passivo e sollecitandone invece la continua attenzione e
partecipazione.
Mentre tramite un interpellazione continua Poli rivitalizza e riqualifica un
rapporto attivo e critico con il pubblico, rapporto, come si vedrà, fondamentale
per le tecniche e i bersagli della comicità dello spettacolo, reintroduce in modo
importante la figura dell’autore interpretando il ruolo del Frate narratore, o
sarebbe meglio dire di “spirito della narrazione”, come si autodefinisce
Clemente d’Irlanda, il monaco che trascrive e racconta la vicenda di Gregorio
ne L’eletto, di Thomas Mann, che insieme al Gregorio di Von Aue, ha fatto da
testo base alla scrittura de La leggenda di San Gregorio.
Poli rientra quindi nella categoria degli autori-attori che ha acquisito
particolare spazio nel teatro italiano che è, per vocazione storica, teatro
Bibliografia _ p213
d’attore. Tra i precedenti più vicini nel tempo (senza andare a scomodare avi
illustri come Ruzante) Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini. A detta di
Geron101, Poli si pone tra i discendenti di quest’ultimo:
Una dissacrazione delle situazioni e del linguaggio, un’ empietà libertaria e
una vocazione per l’assurdo, caratteristiche di Petrolini, rimbalzano nelle
proposte di Carmelo Bene e di Paolo Poli, ma anche di Caprioli-Valeri, di
Cobelli, di Censi, di Durano.
In effetti i punti di contatto tra l’attività petroliniana e quella di Poli ci sono, e
piuttosto evidenti, a cominciare da una forte tendenza di entrambi
all’artificiosità, intesa come artifex, come costruzione di sé in quanto attore,
per giungere ad una realtà che non sia quella del quotidiano: un’artificiosità
fatta da una parte di codificazione del gesto, dall’altra da di uno scardinamento
linguistico che spiazza lo spettatore, separa le parole dalle cose e adotta un
principio di inversione dalla norma, rispetto a quello che lo spettatore si può
aspettare.
101 G. Geron, Dove va il teatro italiano, Milano, Pan editrice, 1973, pp105-106
Bibliografia _ p214
In un saggio in cui Mara Fazio confronta il linguaggio comico di Petrolini con
quello di Karl Valentin si legge una definizione che credo meriterebbe di
essere estesa anche a Poli:
Entrambi smascherano il luogo comune, sondano la stupidità, anatomizzano
la puerilità facendo (sono parole di Petrolini) l’apoteosi della scemenza per
arricchire il museo della cretineria102.
Petrolini, come Poli, ha recitato di tutto (anche Moliere), ma tutti quanti i suoi
critici sono concordi sul fatto che egli dia il meglio di se negli spettacoli tutti
suoi, o nei doposerata in cui, dismessi i panni della commedia, delizia il
pubblico con canzoni e lazzi, filastrocche e nonsensi103: egli, come Poli,
finisce con recitare soltanto se stesso per quanto si sdoppi, si moltiplichi è
sempre lui, confuso con i suoi personaggi e i suoi personaggi con lui.
Per la maggior parte degli Autori-attori italiani infatti la necessità di
esprimersi compiutamente in palcoscenico respinge in linea di massima,
l’ipotesi di una regia affidata ad altri. Personaggi come i fratelli De Filippo,
Carmelo Bene, Dario Fo e lo stesso Poli divengono quasi necessariamente 102M. Fazio, Maschera Valentin, maschera Petrolini, in A.A.V.V. , Petrolini, la maschera e la storia, Bari, Laterza, 1984 103 Abitudine che Poli conserva ancora.
Bibliografia _ p215
registi di se stessi, ossia autori nel senso più lato del termine, senza alcuna
mediazione esterna. Secondo Geron:
Ciascun autore-attore tende a costruirsi lo spettacolo a sua immagine e
somiglianza, in una sostanziale riaffermazione della figura del grande attore,
intesa come precisa classificazione ideologica. Con la conseguenza che un
testo di Peppino o di Fo, i Bene o di Poli, è pressoché inimmaginabile senza
l’autore che sta dietro all’attore.104
In realtà spesso questi personaggi, sicuramente Poli, ma anche Fo e Bene,
sono autori, attori registi di se stessi, ma anche cantanti, ballerini, acrobati in
una parola, nel senso più lato, uomini di spettacolo, un’incarnazione, almeno
programmatica dell’ Artista Universale ipotizzato da Taìrov105, un artista in
possesso di un assoluto dominio del proprio corpo e capace di spaziare tra
tutte le diverse tecniche spettacolari.
Non si può certo dire che, da questo punto di vista, Poli si risparmi: egli infatti,
oltre che recitare, balla, canta, impersona diversi personaggi e molti altri ne 104 G. Geron, op. cit., p. 152 105 A. Tairov, Storia e teoria del teatro Kammerny di Mosca, Roma, 1942
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muove sotto forma di marionette in un’altalena continua tra narrazione e
spettacolarizzazione.
Lo stesso Geron106 riconosce in Poli uno degli autori-attori italiani più
interessanti di questa metà secolo, ma, in un confronto con la carica
dissacratoria del teatro proposto da Carmelo Bene, sottovaluta, a mio parere la
portata sociale della sua comicità:
A dispetto di Il diavolo, di Rappresentazione di Giovanni e Paolo e perfino del
fatto che cinque anni fa107sia stata proibita a Milano la sua Rita da Cascia, la
puzza di zolfo che emana da Poli sa di violetta rispetto alla carica sulfurea di
Carmelo Bene. Poli [...] ha il gusto sottile della parodia, non ha la pretesa di
aprire nuove frontiere al teatro.
Sia che faccia il verso a Carolina Invernizio, o che si avvolga nelle sete e nelle
trine della niccodemiana La nemica, o compia una scorribanda
demistificatrice dei vezzi e dei miti di un certo Ottocento, [...] Poli non si
allontana dal gioco fine a se stesso, dal pretesto di divertimento.108
106 G. Geron, op. cit. 107 Il saggio qui citato è del 1972 108 G. Geron, op. cit., pp.124-125
Bibliografia _ p217
Io, personalmente, non credo che quello di Poli fosse allora, e sia adesso, un
gioco fine a se stesso, un semplice gusto della parodia; certo, egli stesso ha
dichiarato più volte che il teatro non fa la rivoluzione, ma credo che possa
almeno, quando è fatto con intelligenza e non è rinchiuso in un’ottusità
borghesuccia e casalinga, mostrare le corde di certi meccanismi sociali ed
umani, sottolineare le note stonate e alimentare un po’ di senso critico.
Nel teatro di Poli al diversivo si mescola, con raffinatezza, l’eversivo,
soprattutto nella costruzione del linguaggio comico.
Il linguaggio comico
La comicità di Poli viaggia su due registri distinti, quello fisico, legato al
gesto, all’espressione del volto, al tono della voce e all’abito, e quello
linguistico, giocato su un fuoco di fila di battute e aforismi che traggono la
loro comicità più dalla loro struttura interna che dal loro legame, spesso quasi
inesistente, con la situazione.
Bibliografia _ p218
Anche tra le frasi comiche è possibile operare un distinguo: vi sono motti di
spirito che devono la loro comicità al loro significato e altri che lo devono
alla loro forma.
Per quanto riguarda quelli la cui comicità risiede nel significato,
corrispondono in parte a ciò che Freud109 definiva motti cinici, ovvero motti
tendenziosi, non astratti ma diretti contro un bersaglio, in cui il bersaglio non
è una sola persona, ma un gruppo, un istituzione, l’intera società. È un modo
velato per esprimere un dissenso, un bisogno o un desiderio contrari ai
dettami della morale sociale vigente.
A questo gruppo appartengono frasi come:
L’uomo è l’unico animale che arrossisca, ma è anche l’unico che ne abbia
bisogno . (Atto I, Scena IV)
L’ Eterno ha creato il mondo dal nulla, ma il nulla traspare ancora. (Atto I,
Scena IV)
109S. Freud, Il motto di spirito, Torino, Boringheri, 1980, p.123
Bibliografia _ p219
L’eroismo, insieme alla santità, è il sistema migliore per diventare famosi
senza avere talento. ( Atto II, Scena I)
L’uomo è sempre pronto a morire per un’idea, purché non l’abbia del tutto
chiara. ( Atto II, Scena I)
La provvidenza ha voluto il matrimonio indissolubile perché gli sposi non
siano cretini due volte. ( Atto II, Scena IV)
I fedeli confessano i peccati vecchi per fare posto ai nuovi (Atto II, Scena
VII)
Altre frasi comiche invece trovano in un meccanismo linguistico al loro
interno la fonte della loro comicità.
I meccanismi sono diversi, e non sono sempre puri, ma spesso tendono a
mescolarsi l’uno con l’altro.
Ho tentato di individuare almeno i più evidenti o i più interessanti:
Gioco di parole, di cui fanno parte il doppio senso e l’opposizione:
Bibliografia _ p220
Il doppio senso è un meccanismo comico classico che si fonda sul doppio
significato di alcune parole, può trattarsi di due significati diversi di una
stessa parola o di un significato letterale e di uno metaforico, spesso frutto
dell’uso comune.
Di questo gruppo fanno parte frasi del tipo:
Osservava le regole dell’onore come si osservano le stelle, da molto lontano.
( Atto I, Scena IV)
In cui la comicità verte sul doppio significato della parola osservare
(rispettare-guardare).
Le pecorelle, che spesso sono pecoroni ( Atto I, Scena IV)
in cui invece la comicità gioca su due parole che hanno radice comune ma
significato profondamente diverso (entrambi metaforici).
L’opposizione invece consiste nel fare in modo che due parole dal
significato opposto si trovino vicine all’interno della frase:
Bibliografia _ p221
Le ragioni del più forte sono sempre le più deboli ( Atto II, Scena I),
dove le parole forte e debole, opposte l’una all’altra ma cosi vicine nella
frase, sortiscono un effetto comico.
Perfino il Diavolo lavora a maggior gloria di Dio ( Atto II, Scena VII),
in cui Diavolo e Dio sono intesi come opposti.
Il Papa è un idolo a cui baciamo i piedi ma leghiamo le mani (Atto II, Scena
VII),
in cui l’opposizione è doppia, da una parte il contrasto piedi-mani, dall’altro
quello tra baciare(gesto di rispetto e adorazione) e legare (gesto di
oppressione).
Contrasto ideale/reale:
meccanismo comico tradizionale, che consiste nell’avvicinare nella stessa
frase un concetto spirituale e uno prettamente materiale:
Bibliografia _ p222
L’amore e le uova è bene che siano freschi (Atto I, Scena II),
in cui si associano due cose tanto differenti come l’amore e le uova, con un
effetto comico derivato appunto dallo sdrammatizzare e ridicolizzare la parte
più spirituale del paragone accostandola ad una tanto quotidiana.
Dio avrebbe l’anima di un rosticciere ( Atto II, Scena VII),
Stesso meccanismo nell’accostamento di Dio alla figura popolare del
rosticciere.
Similitudine:
L’ effetto comico in questo caso viene dal paragonare tra loro due oggetti o
situazioni in modo che uno dei termini di paragone ne risulti ridicolizzato.
Andare continuamente in Chiesa non ne fa un cristiano come andare
continuamente in una scuderia non ne fa una carrozza (Atto I, Scena IV)
Un critico è un po’ come un eunuco in un harem, sa come si fa, lo vede fare
continuamente ma non lo può fare di persona (Atto II, Scena VII)
Bibliografia _ p223
Sillogismo:
In questo caso il comico risulta dallo scardinamento della più rigida delle
strutture logiche, quella del sillogismo, appunto.
Il meccanismo logico continua a funzionare, ma il risultato è assurdo:
Il gufo è mortale, Socrate è mortale, Socrate è un gufo. (Atto I, Scena IV)
Inversione:
Si tratta di uno dei meccanismi comici più interessanti e più tipici di Poli, e
consiste nell’evocare luoghi comuni, frasi o concetti che risultino ovvi ed
immediati alla mente dello spettatore, per poi capovolgerli e stravolgerli. In
questo caso, come nel caso della diversione, Poli utilizza l’immaginario
collettivo del suo pubblico per poi capovolgerlo, creando un effetto tanto più
comico quanto più inaspettato.
Secondo la Bibbia prima era il caos e poi venne la storia, ma leggendo la
storia il caos venne decisamente dopo ( Atto II, Scena I)
Bibliografia _ p224
Più mirabile e armoniosa è la scala degli esseri viventi: Dall’insetto su fino
al filosofo. Questo almeno è il parere del filosofo, perché l’insetto non si è
pronunciato. ( Atto I, Scena IV)
In entrambi i casi l’inversione avviene nella seconda parte della frase rispetto
alla prima.
Nella vita vera anche San Giorgio avrebbe ammazzato la principessa e
sposato il drago ( Atto II, Scena I)
Inversione rispetto ad un episodio della Mitologia religiosa universalmente
conosciuto, in cui San Giorgio uccide il Drago, liberando la principessa, che
gli viene offerta in sposa.
Beato il Domatore nella gabbia dei leoni, almeno lì ci sono le sbarre di ferro
a proteggerlo dalla ferocia degli uomini (Atto II, Scena I )
Inversione rispetto alla logica comune che vede le sbarre della gabbia dei
leoni come una protezione di chi si trova fuori dalla gabbia, non di chi si
trova dentro.
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Nessuno perdona mai I propri nemici, invece sarebbe tanto bello farlo,
niente li irrita di più ( Atto II, Scena I)
Inversione dovuta al fatto che comunemente il perdonare i propri nemici è
visto come un atto di bontà, non come una sorta di vendetta.
Diversione:
come nel caso dell’inversione, la comicità risulta dal capovolgimento di
qualcosa che appare ovvio, ma in questo caso si tratta di proverbi o modi di
dire, quindi alla familiarità dell’uso si associa anche una certa meccanici di
pensiero che rende la sorpresa del capovolgimento ancora più rilevante.
Uomo avvisato, fiato sprecato (Atto I, Scena IV)
si tratta dell’esempio più evidente di questo meccanismo.
La seconda parte della frase, pur mantenendo intatti suono e numero di
sillabe, capovolge decisamente il significato classico del proverbio che la
prima parte della frase richiama alla memoria ( uomo avvisato, mezzo
salvato)
Bibliografia _ p226
Se l’uomo fosse davvero l’immagine di Dio, non saprei proprio cosa pensare
di Dio ( Atto I, Scena IV)
Siamo nati per soffrire, e ci siamo riusciti (Atto II, Scena I)
Il detto “siamo nati per soffrire” indica metaforicamente un destino, mentre
qui viene interpretato come un fine, creando quindi una diversione rispetto al
significato originale.
L’anacoreta è uno che ha fatto di virtù necessità (Atto II, Scena IV)
Diversione rispetto al modo di dire “fare di necessità virtù”; lo scambio di
posto delle due parole capovolge il senso della frase.
Naturalmente lo spettro delle possibilità della comicità verbale di Poli supera
questa mia semplice schematizzazione grazie ad una grande varietà di
sfumature.
Bibliografia _ p227
Poli sostiene110 che, nel lavoro di scrittura a quattro mani insieme a Ida
Omboni, la Omboni inserisce soprattutto battute e doppisensi derivanti da
repertori di rivista e avanspettacolo risalenti al periodo tra le due guerre e
all’immediato dopoguerra, mentre è Poli a coniare (e spesso, sostiene, anche
a rubare da raccolte di arguzie e aforismi celebri) quei motti di spirito più
basati su meccanismi linguistici, o più legati alla contemporaneità.
Qui, come nel teatro di Cabaret, l’attore è solo sul palco e si rivolge
direttamente al pubblico: questa situazione soddisfa pienamente la prima
delle definizioni che H.Bergson111 dà del comico:
Il comico nasce quando un gruppo di uomini dirigono l’attenzione su uno di
loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo la loro
intelligenza.
Il fatto che il pubblico (che dirige la propria attenzione su Poli, solo sul
palco) sia invitato dalle scelte registiche a non usare la propria sensibilità ma
110Comunicazione orale del 20/12/96 111H.Bergson, Il Riso, saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982
Bibliografia _ p228
piuttosto la propria intelligenza e il proprio senso critico si è visto più
indietro112, dove si trattava delle tecniche di straniamento.
Il monologo stesso, per sua natura, non porta lo spettatore ad immedesimarsi,
ma piuttosto ad ascoltare e se, come in questo caso, il discorso è
esplicitamente rivolto a lui, anche ad avere un atteggiamento critico.
La definizione che Bergson fa della comicità porterebbe a pensare che il
teatro comico, per sua stessa natura, sia estraneo al concetto di
immedesimazione, poiché è necessario allontanarsi da qualcosa, sentirlo
estraneo, non partecipare dei suoi sentimenti per poterne ridere.
Un altro dei principi fondamentali individuati da Bergson113 è la necessità
che il comico assuma un significato sociale.
Il comico deve essere sociale in due sensi:
Innanzi tutto perché non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati:
sembra che il riso abbia bisogno di una eco114;quindi c’è bisogno di vivere il
comico in una dimensione collettiva.
Il secondo significato della socialità del comico è quella che coinvolge il
significato stesso del comico e il suo bersaglio.
112 vedi p. 99 113H. Bergson, op. cit., p. 114H. Bergson, op. cit., p.
Bibliografia _ p229
Il primo aspetto del valore sociale del comico riguarda quella serie di motti di
spirito la cui comicità, come si è visto115, risiede nel significato e che hanno
come bersaglio appunto la società.
Per questo aspetto non si può certo parlare del teatro di Poli come di teatro
politico: a questo livello la critica sociale difficilmente va oltre il luogo
comune, non attacca gli aspetti fondamentali del modo di vivere occidentale:
si tratta soprattutto di frasette e paragoni tratti dal teatro di rivista e di
avanspettacolo in cui i bersagli sono tipici, come la donna
La donna è come la tigre, che a volte divora e a volte si fa scendiletto.
Per me le donne sono come gli elefanti, non mi dispiacerebbe vederne
qualcuno ma non vorrei ritrovarmelo nel letto.
oppure il matrimonio
Il matrimonio è la versione in prosa del poema dell’amore
Se una moglie fosse una cosa buona anche Dio ne avrebbe una! 115vedi p. 218
Bibliografia _ p230
Dato che, sempre per Bergson116 Il comico esprime una imperfezione
individuale o collettiva che esige una correzione immediata: il riso è la
correzione, la funzione sociale di questo aspetto della comicità di Poli pare
assolvere in pieno a questa definizione: Poli evidenzia di fronte agli occhi dei
suoi spettatori alcuni difetti collettivi in modo che li abbiano evidenti e che
possano riderne, nonostante che gli argomenti derisi da questi motti di spirito
siano talmente ampi e vaghi che non possono non coinvolgere gran parte del
pubblico stesso, che finisce, suo malgrado, a ridere di se stesso.
Meno evidente, ma a mio parere molto più pregnante, il significato sociale di
quegli aforismi funzionanti grazie allo scardinamento di meccanismi
linguistici o, più ancora, dal capovolgimento di luoghi comuni o concetti
appartenenti all’immaginario collettivo.
Ancora Bergson117scrive:
Se si traccia un cerchio intorno alle azioni e alle disposizioni che
compromettono la vita individuale o sociale, resta, al di fuori di questa zona
116H. Bergson, op. cit., p. 117H. Bergson, op. cit., p.
Bibliografia _ p231
di emozioni e di lotta, in una zona neutra in cui l’uomo da spettacolo di se
stesso al suo simile, una certa rigidità del corpo, dello spirito e del carattere
che la società vuole eliminare per ottenere dalle sue varie parti la più grande
elasticità e la più alta sociabilità possibili: Questa rigidità è il comico e il
riso ne è il castigo.
In questo caso la rigidità che viene punita dal riso è quella linguistica, che
riflette però anche una certa rigidità di pensiero, una tendenza a ragionare per
luoghi comuni e frasi fatte.
Si prenda come esempio una battuta come:
Uomo avvisato, fiato sprecato.
La valenza sociale insita nella comicità di questa frase è doppia.
Da una parte il valore letterale, dall’altra il fare riferimento, con la prima
parte della frase, ad un modo di dire ben presente nella memoria del
pubblico, per poi capovolgerne il significato provocando il riso e con il riso
una sorta di catarsi, una punizione ed insieme una liberazione dalla gabbia
dei luoghi comuni.
Tramite queste tecniche di comicità verbale, Poli mostra al suo pubblico che
il modo comune di parlare e di pensare non è libero, né critico, e fa si che,
Bibliografia _ p232
ridendo di se stesso, punisca se e la propria società di aver pensato: uomo
avvisato, mezzo salvato.
Questa valenza liberatoria della la comicità di questa come di altre frasi
comiche dello spettacolo si conferma anche osservandola da un altro punto di
vista.
Scrive Bachtin118riguardo al riso nella festa popolare:
Notiamo una importante particolarità del riso della festa popolare: esso è
diretto contro le stesse persone che ridono. Il popolo non si esclude da tutto
il mondo in divenire. È anch’esso incompiuto; anch’esso, morendo, nasce e
si rinnova. In ciò consiste una delle principali differenze fra il riso della festa
popolare e il riso puramente satirico dell’epoca moderna. L’autore
puramente satirico, che conosce soltanto il riso negativo, si pone al di fuori
dell’oggetto della sua derisione, vi si contrappone, e così viene distrutta
l’integrità dell’aspetto comico del mondo, e ciò che è comico (negativo)
diventa un fenomeno privato.
Il riso ambivalente del popolo esprime invece l’opinione del mondo intero in
divenire, in cui si trova anche colui che ride.
Si è già detto di come il bersaglio della comicità di Poli sia universale, e di
come il pubblico finisca col ridere di se stesso, non potendo sottrarsi a
118M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, pp15-16
Bibliografia _ p233
critiche che riguardano, spesso, l’intera società o la stessa natura dell’uomo:
in questo senso non si può definire la comicità di Poli satirica, nell’accezione
che Bachtin dà del termine.
In parte lo spirito del riso grottesco del carnevale popolare descritto e
analizzato da Bachtin è, a mio parere, passata, nel ‘900 al teatro di varietà e
di rivista, teatro in gran parte popolare, per quanto frequentato e spesso anche
esaltato dagli intellettuali; lo stesso Vsevolod Meyerhold, in un saggio
intitolato Vi sono due teatri di marionette, designa i teatri di varietà come
veri eredi del teatro popolare e della commedia dell’arte:
I principi del baraccone, scacciati dal teatro moderno, hanno trovato rifugio
nei cabaret francesi, negli uberbrettl tedeschi e nei varietes di tutto il mondo.
Di questo Baraccone Poli è in una certa misura erede; diretto in quanto, e lui
stesso lo ammette119, parte del suo repertorio comico, anche grazie
all’intervento della Omboni, deriva appunto dal teatro di Varietà e di Rivista;
indiretto in quanto a stile, anche se mitigato da una buona parte di cultura e
di disincantato cinismo. 119 Comunicazione orale del 20/12/96
Bibliografia _ p234
C’è ancora, io credo, nel teatro comico di Poli, un’ombra dello spirito del
riso popolare, inteso non come pura negatività, ma come distruzione, se non
rigeneratrice, almeno liberatrice.
Comicità di immagine
Ritornando al concetto di rigidità, che per Bergson120 è alla fonte di qualsiasi
atteggiamento comico, è intanto da sottolineare che tra le rigidità rientrano
soprattutto i vizi, e mentre nella tragedia il vizio è presente, ma
completamente compenetrato nel personaggio tanto che lo spettatore,
identificandosi prende su di se e soffre di quel vizio con il personaggio, nella
commedia esso rimane più in superficie, più evidente ma meno complesso e
meno compromesso.
In effetti un difetto esagerato, reso abnorme dalla caricatura, perde di
umanità e consente allo spettatore di distanziarsi e di percepirlo non come un
problema proprio ma come una difformità altrui, e quindi di riderne.
120 H.Bergson, Il Riso, saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982, p.21
Bibliografia _ p235
È proprio grazie a questa distanza che, come scrive Bergson:121
può diventare comica ogni difformità (fisica) che una persona ben
conformata arrivi a contraffare.
L’importante è che non commuova, quindi non ci deve essere
immedesimazione, ma una semplice osservazione (e giudizio) di un
meccanismo rigido.
E, sempre per Bergson:122
Le attitudini, i gesti, i movimenti del corpo umano sono risibili nelle stesse
proporzioni in cui quel corpo ci fa pensare ad un semplice meccanismo.
La tesi di Bergson è, a mio parere interessante in quanto rimarca il fattore
fondamentale della distanza, implicita nel concetto di meccanismo inteso
come contrario dell’umano: Poli ottiene il comico stornando l’attenzione
dello spettatore dai contenuti tragici della vicenda e focalizzandola invece
sulle caratteristiche somatiche e vocali del personaggio, impedendo in questo
modo che il pubblico si senta coinvolto.
Certo, anche in Bergson il concetto di meccanismo è tutt’altro che netto, e
finisce per significare semplicemente “non umano”: in particolare diviene
121 H. Bergson, op. cit., p. 122 H. Bergson, op. cit., p.
Bibliografia _ p236
comica la fisicità che prevale sui valori dell’anima, la forma che sorpassa la
sostanza.
In questa ottica anche il travestimento rientra in questo contrasto: quando
l’abito contraddice in qualche modo, per sesso o per moda, con le abitudini,
si smette di percepirlo come parte stessa del corpo, ma diviene centro
dell’attenzione di per se, rivelando il suo carattere di artificio, la sua
estraneità rispetto all’umano, la sua essenza di “meccanismo”.
Nei casi in cui, poi, il travestimento non è fine a se stesso, ma funzionale alla
creazione e soprattutto alla caratterizzazione di un tipo fisso, l’artificiosità, e
quindi l’effetto comico, è ancora maggiore.
Il tipo, la maschera, per sua stessa natura, selezionando e sclerotizzando
alcuni tratti fondamentali del personaggio, perde irrimediabilmente di
umanità, tralascia la sostanza per privilegiare la forma, esalta alcuni dei tratti
fisici (in questo caso la forma rotonda del frate), caratterizza sia la gestualità,
decisamente poco realistica, forzatamente ampia e ripetitiva fino a creare
delle sorte di tic, che la voce, per la quale Poli ha scelto toni alti e striduli,
frammezzati da gridolini sottolineati per contrasto da improvvisi cali di tono,
palesemente innaturali, che sfociano in cantilene.
Bibliografia _ p237
Teatro di travestimento
Ci sono altri aspetti che caratterizzano in modo importante il teatro di Poli;
uno di questi è il gioco del travestimento, un’attitudine al fregolismo, al
cambio continuo di personaggio, carattere, abito e voce e all’interpretazione
spesso (e volentieri) di personaggi femminili.
Quella del teatro travestì è un’abitudine antica di Poli, che in passato ha
recitato in abiti muliebri anche per tutto uno spettacolo (in La nemica) e
prodotto lavori con compagnie monosessuali (come, ad es. Rita da Cascia);
negli ultimi spettacoli non riserva particolare spazio a questa forma di
espressione, ma ugualmente non tralascia mai di comparire in scena, almeno
una volta, in vesti femminili. Non si tratta solo di un divertimento estetico o di
una prova di orgoglio omosessuale, ma del legame profondo con la storia di
una forma d’arte antica, raffinata e stratificata nei secoli, anche se talvolta
nascosta e relegata in locali di infimo ordine.
Bibliografia _ p238
Ho ritenuto che fosse interessante ripercorrere brevemente la storia del teatro
di travestimento, e l’ho fatto seguendo il lungo articolo di G. Buttafava
all’interno di un testo dedicato all’esperienza del travestitismo in diversi
ambiti123.
La storia del travestitismo a teatro nasce, sia in oriente che in occidente, dalla
proibizione per le donne di esibirsi sulla scena, ma diviene, aggirando tabù
morali e religiosi, un linguaggio a se, fatto di stilizzazioni e travestimenti
antinaturalistici; inizia dunque con il ripudio dell’immagine femminile per
finire nella sua glorificazione, passando attraverso la presa di coscienza gay.
Nel teatro giapponese, fin dalle origini, imperava la figura dell’onnagata, il
travestito del teatro Kabuki, il quale non “interpretava” il ruolo femminile, ma
lo esibiva mediatamente per mezzo di simboli visivi (iperbolizzazione e
stilizzazione delle vesti femminili, del colorito, dell’acconciatura), fonici
(voce sottile e in falsetto) e comportamentali (danza aggraziata, movimenti
molli, battiti di ventagli).
Per quanto riguarda il travestitismo nello spettacolo occidentale il teatro
Elisabettiano e Shakespeariano è l’ultimo grande momento del travesti
123 G.Buttafava, Il travestitismo a teatro, in A.A.V.V., Gli uni e gli altri, Arcana Editrice, Roma, 1976, pp. 21-43
Bibliografia _ p239
sistematico come costante espressiva, ma si caratterizza anche in parte come
momento di passaggio in cui, grazie alla padronanza assoluta di una
convenzione secolare, l’innocenza e la necessità originarie della convenzione
divengono più problematiche ed evanescenti, fino a moltiplicare volutamente
il numero di travestimenti (non sono rari, nelle commedie Shakespeariane,
attori uomini che interpretano parti di donne che si travestono da uomini).
Il declino della tradizione del travestitismo coincide con la fine del teatro
“classico” e con l’ascesa del teatro borghese: la borghesia come si è visto,
porta a teatro la voglia di un naturalismo puntuale, che non può sopportare una
convenzione così irrealistica come appunto la tecnica di un attore che si finge
una donna.
Nel settecento però, secolo ludico, la figura del travestito conosce nuova
grandezza, soprattutto nel nascente teatro lirico, mediata da quella sorta di
ibrido che erano i castrati, tra i quali il più famoso fu Farinelli, che talvolta
interpretavano parti femminili con voce da contralto, ma che spesso
indossavano abiti femminili anche fuori della scena.
Con l’800 si ha una perdita di ludismo che significa anche la quasi totale
scomparsa del travestitismo a teatro.
Bibliografia _ p240
Secolo che si prende molto sul serio, l’ottocento tollera poco le trasgressioni
fantastiche o reali; i pochi travestiti sono confinati in locali equivoci e
vengono anche perseguitati e condannati.
Solo alla fine del secolo se ne reintroduce la tradizione, ma sempre
degradandola a spettacolo da baraccone , confinata sui palcoscenici spesso
geniali ma sempre considerati “non seri” dei Music-Hall o dei Cafè-Chantant.
Alle soglie del XX secolo si assiste alla rinascita della tradizione del
travestitismo seppure sotto diverse spoglie.
Nel periodo tragico della guerra si riscopre l’uomo “ludens”, rivalutando
anche esperienze bizzarre e sospette, che consentono al teatro di travestimento
di riemergere.
Uno dei maggiori storici del travestitismo del ‘900, Roger Baker124, esegue
una fondamentale distinzione nell’ambito del Drug125 contemporaneo: quella
tra Dames e Glamour Girls.
Il primo gruppo è quello dei travestiti comici, che hanno la loro radice nei
Music-Hall, nel Burlesque inglese dell’ottocento e negli spettacoli goliardici;
124 R. Baker, Drug, Londra. 1968. 125 Termine inglese per il teatro di travestimento.
Bibliografia _ p241
qui la femminilità è parodiata, talvolta affettuosamente, più spesso
oltraggiosamente.
L’origine delle Glamour Girls è invece più recente, ma la loro carriera più
clamorosa e la loro influenza più vasta e profonda.
Anche qui l’origine va ricercata nella tradizione del Music-Hall, grazie
soprattutto all’attività di un travestito americano, Julian Eltinge, che impose un
nuovo tipo di Drug, che fa emergere, dalla dimensione comico grottesca, una
vena maliziosa e patetica.
Nel secondo dopoguerra il travestimento teatrale ebbe nuovo impulso, fino ad
arrivare al vero e proprio boom del travestitismo che coincise nelle sue forme
più caratteristiche con la rivoluzione giovanile del sessantotto.
Sulla nascita e i modi del nuovo Drug hanno influito essenzialmente due
fattori; da una parte il tramonto del gusto naturalistico in tutte le sue variazioni
ha recuperato come fatti teatrali momenti irrealistici e finti, tecniche
particolari e convenzionali e trasgressioni espressive sempre più spinte: in
questo contesto il travestì e la sua tecnica speciale, “epica”126, incarnazione
stessa del desiderio più antinaturalistico, riprendono vigore, senso e valore.
126 “Epica” , si intende, nel senso brechtiano del termine.
Bibliografia _ p242
La spinta più decisiva all’affermazione del travestitismo sulle scene attuali è
stata la presa di coscienza omosessuale, per quanto il legame con i movimenti
gay sia spesso stato strenuamente negato.
Ma i più quotati female impersonators sono quelli che uniscono al glamour
anche una forte componente ironica o addirittura comica e soprattutto si
esibiscono dal vivo;127 Sono questi i creatori del camp, gusto che nasce dal
mondo intellettuale omosessuale americano, basato sull’imitazione e il
recupero dei fenomeni passati o contemporanei con una tendenza esasperata
per tutto ciò che è teatrale, kitsch.
Tutti i travestiti, salvo eccezioni, tendono oggi a rifarsi a questo gusto camp
nordamericano, imitando e glorificando le immagini più opulente e volgari, o
più assurde e codificate, della femminilità, in particolare quelle delle attrici
hollywoodiane e le regine della canzone.
Anche Poli si rifà a questa tradizione, magari mettendo in scena un camp più
casalingo, con un occhio a Marlene Dietrich e uno a Vanda Osiris, parodiando
con grande ironia una femminilità tutta sospiri e gridolini, svenevolezze e
127 Infatti è invalsa in molti casi l’abitudine di muoversi e danzare su base registrata.
Bibliografia _ p243
intrighi, sottolineando i cliché e le codificazioni del ruolo attribuito alle donne
nella società e nel teatro.
Ecco il ritratto che fa di Paolo Poli come esponente del teatro di
travestimento, Giovanni Buttafava128:
Per maturissima prudenza e liberalità di intelligenza, non ha forse eguali. A
tutte le sciocchezze e le moine delle passate stagioni egli ha prestato fronte e
orecchie e te lo comunica, parole e frasche, motteggiando con larghezza e
facilità e ingegno, in modo che tu troverai tutti il mondo pieno di finzioni e
conoscerai le mille bischerate dei potenti cortigiani e le maligne persecuzioni
degli sciocchi.
La femmina da costoro è stata sempre fatta intendere vanesia, sollecita e
attenta soltanto al governo della casa e al piacere del marito, per il resto
intenta a giochi asinini.
E lui la vendica nel rappresentarla tale, con ineguagliabile arte che pare
non avere confini nei mille toni della bella voce e nell’atteggiare
sapientemente la sua sempre agile e giovanile persona, come intatta dal
tempo.
Non solamente in panni femminili esercita egli l’arte sua, ma pare da lodare
specialmente quest’arte nelle meravigliose comparse a travestimenti
donneschi. Ha provato a vivere sul palcoscenico, tutta una sera, come
128 G.Buttafava, Il travestitismo a teatro, in A.A.V.V., Gli uni e gli altri, Arcana Editrice, Roma, 1976, pp. 39-40
Bibliografia _ p244
preziosa Nemica, bella signora onorevole, ma con riposte voglie lascivette e
molta stupidità, che condivideva, le une e l’altra, con il secolo suo.
E ha mostrato anche l’animo e le voglie riposte di una santa, Santa Rita da
Cascia, suscitando scandalo, e di una bambina un poco guasta e molto
godereccia, la Vispa Teresa.
Altra vendetta egli consuma, con maliziosa sapienza e coscienza intera, a
difesa di quella gente che per alcuna sua particolarità non ama congiungersi
carnalmente con la femmina, la quale è gente molto vituperata, villanamente
e sconciamente, sulle scene italiane da decenni dai leggeri ciarlatani del
divertimento volgare e anche dal costume sociale, ed invece è gente gaia, e
lui lo dimostra. Se quelli gli ridono in faccia, lui molto più ride a loro.
Marionette e Supermarionette
Altre tre scelte registiche importanti, e a mio parere strettamente legate tra di
loro, caratterizzano La leggenda di San Gregorio.
La prima è l’utilizzo della voce di Poli, registrata su nastro magnetico, per
tutti i personaggi, eccettuati quelli impersonati direttamente da Poli (con il
risultato che l’unica voce di tutto lo spettacolo è appunto quella di Poli). Il
Bibliografia _ p245
teatro italiano non è nuovo a questo tipo di tecnica; l’ha usata spesso anche
Carmelo Bene e con scopi all’apparenza simili.
Bene infatti usa il supporto magnetico per amplificare e moltiplicare la voce
dell’attore, per creare una frammentarietà, disseminare dei cocci della
narrazione il palcoscenico del teatro italiano:
Eccedendo il testo e le sue dottrine, la macchina attoriale sottrae alla
drammaturgia questa volontà feroce di irregimentare e di dominare [...]. qui
si traccia la differenza tra la regia, che distribuisce ed assegna ad ognuno la
sua parte, e il punto di non ritorno della macchina attoriale che capta le
energie dell’evento e ne assume tutte le voci.129
Per assumere tutte le voci dell’evento teatrale l’attorialità schianta l’unità
della voce, interrompe la copula tra segno e senso, tra forme e forze che
procura al drammaturgo e al pubblico il loro godimento serotino [...].
Questa rottura che incide sulla possibilità stessa della rappresentazione è lo
spezzarsi del rapporto tra parola e cosa, tra linea e forma, tra voce e
logos.130
129 A.A. V.V., Carmelo Bene - Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, p 18 130 A.A. V.V., Carmelo Bene - Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, p 19
Bibliografia _ p246
Poli invece, come si vedrà, usa la voce registrata per riunire e non per
frammentare, per stendere la lunga mano di un solo attore su tutti gli
elementi dello spettacolo proprio a favore della narrazione.
La seconda soluzione registica importante per la mia analisi è l’uso di quelli
che io ho definito attori meccanici, ossia marionette, burattini, bambole ed
altri oggetti di vario materiale e forma adatti a rappresentare un essere
umano.
La terza è la scelta di alcune tecniche spettacolari, come il mimo e soprattutto
la pantomima; queste due tecniche si distinguono soprattutto per il diverso
rapporto che intrattengono rispetto alla parola: il mimo moderno, quello
teorizzato da Decroux, si propone come alternativo non solo al linguaggio
gestuale della Pantomima, ma soprattutto al linguaggio verbale. Essere privo
della parola, per il mimo Decrouxiano, non significa cercare un gesto che
sostituisca la parola, ma cercare un nuovo linguaggio, del tutto autonomo da
quello verbale, che gli consenta di esprimere un concetto, un sentimento, un
idea. In questo senso il mimo moderno si differenzia dalla pantomima, vera
erede del mimo classico e delle pantomime storiche dal medioevo fino
Bibliografia _ p247
all’ottocento. La pantomima infatti non si propone come linguaggio corporeo
alternativo al linguaggio verbale, ma come gesto che sostituisce la parola
spesso con un rapporto diretto uno a uno, tanto che alcuni gesti si allontanano
dalla gestualità naturale quanto le parole si allontanano dalle onomatopee,
divenendo un segno convenzionale.
La pantomima degli antichi, infatti, che veniva considerata genere muto,
aveva in realtà il supporto della parola, tramite un cantore che la illustrava
tramite i versi di un poema ma soprattutto grazie alla chironomia131, un
linguaggio convenzionale dei gesti, un alfabeto figurato che tutti, al tempo di
Augusto, sapevano leggere.
L’esplicita sottomissione della pantomima al linguaggio verbale farà si che
si meriti l’epiteto di pervertita da parte di A. Artaud, che sognava appunto un
linguaggio nuovo per il teatro, un linguaggio che sia corpo e non parola , una
Pantomima non pervertita, come quella dei teatri orientali:
Per “pantomima non pervertita” intendo la Pantomima diretta, in cui i gesti
- anziché rappresentare le parole, gruppi di frasi, come nella nostra
pantomima europea, vecchia di soli cinquant’anni, e nata dalla 131 A.G. Bragaglia, Evoluzione del mimo, Milano, Ceschina, p.150
Bibliografia _ p248
deformazione delle parti mute della Commedia dell’Arte - rappresentano
idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura.
La Pantomima degli attori de La Leggenda di San Gregorio non sarebbe
piaciuta ad Artaud: intanto perché la parola non solo non è assente, ma,
anche se registrata, è il vero mezzo narrativo della scena, e poi perché i gesti
degli attori (la loro pantomima appunto) mirano più che a comunicare, a
sottolineare, a rendere più esplicito ciò che la voce di Poli, registrata, ci
racconta; in un certo qual modo Poli utilizza una moderna chironomia,
utilizzando un linguaggio gestuale universalmente conosciuto e compreso, e,
come quello classico, codificato.
Nonostante la tecnica recitativa scelta sia mimica (per quanto pervertita), il
vero motore dell’azione scenica rimane quello verbale.
Non soltanto; la dipendenza della pantomima dalle parole consente a Poli,
che di quelle parole e’ autore e voce, di mantenere uno stretto controllo, ma
soprattutto una forte presenza in scena.
Bibliografia _ p249
Al fine di individuare e comprendere i mezzi e le ragioni di questo controllo,
ritengo opportuno ripercorrere le diverse forme assunte dai due giovani duchi
tra la prima e la terza scena.
Nella prima scena, i due giovani Duchi compaiono per la prima volta: si
tratta di un fagottino a due teste che penzola dal becco della cicogna, e poi
dei due bambolotti infagottati di fasce azzurre e rosa che la nutrice porge da
cullare ai genitori. Dunque appaiono come oggetti immobili e silenziosi.
Nella scena successiva li vediamo già adolescenti; non sono più bambole, ma
burattini prima e marionette poi.
Rispetto alla scena precedente hanno acquisito parola e movimento, ma non
autonomia: in quanto burattini o marionette dipendono in tutto dalle mani e
dalla voce di Poli.
Ci troviamo di fronte ad un rapporto di dipendenza molto stretto.
Nonostante in questa scena Poli vesta i panni del Frate Narratore, ossia
plausibilmente dell’autore del poema, il monaco tedesco Von Aue, questa
dipendenza non è giustificabile (non soltanto, almeno) con il rapporto che
lega le mani di un autore ai fili che muovono il suo personaggio. Intanto è
importante dire che questi personaggi sono debitori a Poli quanto a Von Aue,
Bibliografia _ p250
anche soltanto a livello di testo, visto che anche se l’intelaiatura è quella
costruita dal monaco, si capisce immediatamente quanto la riscrittura di Poli
e della Omboni sia stata profonda. L’identificazione tra Poli e Von Aue non è
soltanto un artificio scenico, si tratta di un vero e proprio passaggio di mano
per quanto riguarda la gestione dei personaggi, dal vecchio autore a quello
nuovo, Poli appunto.
Nella terza scena si assiste ad un altro passaggio di mano, quello che
trasferisce i fili dei personaggi da Poli autore/attore a Poli regista; infatti i
due giovani duchi compaiono in carne ed ossa, ad interpretarli sono due attori
con il volto completamente coperto da una maschera; la loro facoltà di
movimento si è molto emancipata rispetto alla scena precedente. I fili che li
muovono non sono più visibili, ma ci sono ancora.
Intanto è da sottolineare che né qui né in tutto il resto dello spettacolo
acquisiranno il dono della parola; ora come quando erano marionette, la loro
voce è quella di Poli, doppiata in tempo reale prima, registrata poi.
Se è vero, come si è visto, che in questa pantomima il linguaggio verbale è il
vero mezzo di comunicazione della scena ma anche, e soprattutto, il motore
interno della gestualità degli attori si capisce come tramite la sua voce, Poli
Bibliografia _ p251
mantenga, nella scena III, quasi inalterata la situazione della scena
precedente dove, in abiti da monaco, dava voce e movimento alle sue
marionette: anche qui dà loro voce, e tramite essa stessa gestisce i loro
movimenti.
La volontà di un sempre maggiore controllo sull’attore nasce di pari passo
con la crescente importanza della figura del regista, nel primo ‘900, e alla
decadenza, almeno teorica di quella dell’attore come centro focale della
spettacolarizzazione.132
La recitazione diviene, nel nuovo teatro di regia, niente altro che una voce tra
le altre nel complesso spartito di uno spettacolo, che comprende anche scene,
musiche, costumi, testo, luci...
L’attore anzi, con la sua forte presenza in scena e il suo tradizionale (e
naturale) egocentrismo, diviene una figura ingombrante per il regista, nuovo
vero protagonista.
Da questo disagio, da questa sorta di contrasto di potere nasce il
desiderio/necessità di un attore nuovo che modelli la propria arte in modo
132 In realtà, mentre i grandi teorici del teatro sognavano un’opera totale e omogenea, in cui nessuno strumento avesse il sopravvento sugli altri, solo una piccola parte degli spettacoli prodotti e presentati nei teatri, sfuggiva alla trappola del divismo e del mito del Grande Attore, vero centro della scena.
Bibliografia _ p252
non personale ma globale, che si faccia strumento tra gli strumenti, che
divenga una marionetta che il regista muove secondo la sua volontà.
In un saggio scritto a Firenze nel 1907 e intitolato L’Attore e la
Supermarionetta133 Gordon Craig si inserisce nel dibattito riguardo la figura
dell’attore escludendo che l’attore possa essere strumento del teatro d’arte:
Recitare non è un’arte; è quindi inesatto parlare dell’ attore come di un
artista. Perché tutto ciò che è accidentale è nemico dell’artista, l‘arte è in
antitesi assoluta con il caos e il caos è creato dall’accozzaglia di molti fatti
accidentali. All’arte si giunge unicamente di proposito. Quindi è chiaro che
per produrre un’opera D’arte qualsiasi, possiamo lavorare solo con quei
materiali che siamo in grado di controllare. L’uomo non è uno di questi
materiali.
Tutta la natura umana tende verso la libertà , perciò l’uomo reca nella sua
stessa persona la prova che, come materiale per il teatro, egli è
inutilizzabile.134
133E.G.Craig, Il mio Teatro, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 33-57 134 ivi, p. 34
Bibliografia _ p253
Quello che rende l’attore un cattivo strumento nelle mani del regista, è la sua
impossibilità di controllare le proprie espressioni, i propri movimenti, la
propria voce.
Secondo Craig anche il miglior attore è in grado di avere un sia pure
imperfetto controllo di se stesso solo per brevi tratti, lasciando il resto dello
spettacolo in balia di gesti e toni incontrollati, frutto più delle emozioni del
momento che di uno studio precedente:
Nel teatro moderno, poiché ci si serve come materiale del corpo di uomini e
donne, tutto quel che si rappresenta è di natura accidentale: le azioni fisiche
dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto, tutto è in
balia dei venti delle sue emozioni135.
Gli attori teorizzati da Craig sono degli attori che creano per se stessi una
nuova forma di recitazione, consistente essenzialmente in gesti simbolici.
Oggi essi impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e
interpretare: e dopodomani dovranno creare136.
135 ivi, p. 34 136 ivi, p. 37
Bibliografia _ p254
Lo strumento perfetto per il nuovo teatro di Regia, nella teorizzazione di
Craig, è un attore che non pretenda di mostrare realtà sulla scena, e che non
pretenda nemmeno di imitarla fotograficamente. L’attore del nuovo teatro è
una marionetta (Supermarionetta137), strumento docile nelle mani dell’artista,
non più uomo, ma segno simbolico sulla scena.
Tornando a “La leggenda di San Gregorio”, Poli regista esercita un controllo
assoluto sui suoi quattro attori, tanto da renderli del tutto simili alle
Supermarionette teorizzate da Craig.
Poli neutralizza l’accidentalità temuta da Craig negli attori rendendoli simili
ad oggetti, nascondendo il loro viso dietro ad una maschera (quindi
annullandone le espressioni), sostituendo la loro voce con la propria e
gestendo i loro movimenti grazie al legame stretto che la pantomima
intrattiene con le parole del testo.
I quattro giovani attori scompaiono, come esseri umani per divenire
strumenti della narrazione, niente di più e niente di meno delle marionette,
dei burattini, delle bambole che compaiono in scena un po’ in tutto lo
137 Nel testo originale Über-Marionette, vocabolo coniato sull’esempio dell’ Über-Mensch nietzschiano.
Bibliografia _ p255
spettacolo, ma anche simili alle scenografie, ai costumi, alle musiche:
strumenti tra gli strumenti, nella composizione dello spettacolo.
Il solo a spiccare è Poli, autore, regista e attore, vero grande mattatore della
scena e in questa maniera forse, a modo suo, concilia o almeno riunisce le
due grandi anime in conflitto del teatro del novecento: da un lato un teatro di
regia, in cui la figura dell’attore è soltanto una delle parti dello spettacolo,
meccanizzata e disumanizzata per renderla più controllabile; dall’altra invece
un teatro in cui la figura dell’attore, il suo volto, la sua voce, la sua presenza
scenica, sono il perno fondamentale dello spettacolo.
In questo modo Poli, circondato da marionette e supermarionette che
moltiplicano la sua voce ma riconducono continuamente alla sua presenza, fa
di se stesso un Super-Narratore.
Poli e Fo
Grazie a questa formula egli ha costruito uno spettacolo su misura per se
stesso pur lavorando con altri: il risultato è un vero e proprio one-man-show
in cui la figura dell’autore-attore-narratore spicca in modo prepotente.
Bibliografia _ p256
È naturale il confronto con l’altro grande autore-attore italiano comico, Dario
Fo, con cui Poli ha svariati punti di contatto, a cominciare dalla tendenza
stessa, quasi dalla necessità, di far spettacolo da soli.
La similitudine è già evidente alle origini del teatro di entrambi, che affonda
le radici nel teatro di varietà e di rivista da cui hanno ereditato i ritmi comici
e la frammistione tra recitazione e canzone: Fo ha addirittura iniziato la sua
carriera producendo, insieme a Parenti e Durano, Il dito nell’occhio138, uno
spettacolo che ricalcava la struttura della rivista ma con contenuti di critica
politica e sociale.
Altro aspetto che accomuna Fo e Poli è un’estrema attenzione al problema
del linguaggio teatrale. Entrambi usano la lingua in modo non convenzionale,
stravolgendone le regole abituali: riguardo al linguaggio di Poli, si è visto
come la disarticolazione della frase e la sua ricomposizione in concetti
capovolti rispetto al senso comune sia fondamentale per il meccanismo
comico di Poli narratore. Per quanto riguarda Fo il discorso è perfino più
estremo: in alcuni dei suoi lavori più riusciti, Mistero Buffo, ma anche Storia
della tigre o Fabulazzo osceno, egli inventa un linguaggio che si libera dal
138 Il dito nell’occhio andó in scena a Milano nel 1953
Bibliografia _ p257
legame codificato significante-significato per creare una lingua fatta per la
maggior parte da onomatopee, da termini rubati dai più svariati dialetti e da
parole assolutamente inventate: il grammelot.
Così Fo stesso descrive questo tipo di linguaggio:
È una parola priva di significato intrinseco, un papocchio di suoni che
riescono ugualmente ad evocare il senso del discorso. Grammelot significa,
appunto, gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma
che è in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità
particolari, in discorso compiuto.139
Si tratta dunque per entrambi di una scomposizione del linguaggio che per Fo
privilegia il suono giocando su di un’articolazione arbitraria, per Poli
privilegia il senso, o il non-senso, o il senso altro, grazie ad una logicità
arbitraria.
Certo, se il linguaggio comico di Fo è basato, come egli stesso è solito dire,
sullo sghignazzo, lo stesso non si può affermare della comicità raffinata e
sottile di Poli; in oltre nel suo teatro Fo ha sempre cercato di mantenersi
collegato con gli avvenimenti politici, spesso anche in modo molto diretto e 139 D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1987, p.81
Bibliografia _ p258
puntuale140 mentre la critica di Poli investe aspetti più ampi e generali della
società e della natura umana, innegabilmente spesso più qualunquistici e
meno calati nella realtà, affrontando vicende trasposte nel tempo.
Quello di Fo, in conclusione, è un teatro sovversivo, rivoluzionario, di
rottura, un teatro che è uscito dagli schemi e dai circuiti ufficiali per divenire
dichiaratamente teatro di impegno politico e di lotta; quello di Poli invece è
un teatro che corrode il sistema dall’interno, mettendone a nudo con sottile
ironia il nonsenso, assecondandone gli aspetti più falsi e biechi, esagerandoli
fino a farli divenire evidentemente stonati, un teatro dissacratorio più che
rivoluzionario, permeato di cinismo piuttosto che di ideali, se è vero, come io
credo che si possa riferire allo stesso Poli una battuta del suo Magnificat, in
cui, nei panni di un prelato, alla domanda “e voi, signor Prelato, in cosa
credete?” risponde “Io? In nulla. Peró ci credo fermamente”.
La merifica e sgomentevole storia di un Santo peccatore
140 È il caso, ad esempio, di Morte accidentale di un anarchico del 1971, dedicato alla vicenda della morte di Pinelli.
Bibliografia _ p259
Tornando a La leggenda di San Gregorio, una volta dimostrato che grazie
all’uso degli attori meccanici, della pantomima e della voce registrata Poli
accentra sulla sua figura di narratore l’attenzione dello spettatore, resta da
verificare quale posto possa avere in questo racconto totale la parte più
prettamente visiva: le scenografie, i costumi, le scene mute, mimate e
danzate.
Restando fermo il fatto che la parola riveste un ruolo a mio parere
preminente all’interno dello spettacolo, le parti visive acquisiscono
comunque un ruolo fondamentale nello svolgersi del racconto: innanzi tutto
contribuiscono in modo importante nella proiezione dello spettatore nello
spazio-tempo fantastico, fitto di citazioni e di immagini provenienti dalla
memoria, in cui la vicenda si svolge; con le scene mute e mimate Poli
fornisce un’esemplificazione visiva degli avvenimenti, o delle loro
conseguenze, o dei sentimenti da essi provocati, creando dei Tableaux vivant
che portano davanti agli occhi dello spettatore l’immagine di ciò che ha
ascoltato dalla voce narrante. La figura di Poli narratore si delinea dunque
come quella di uno straordinario moderno cantastorie, alle cui spalle scorre
un enorme cartellone illustrato fatto di immagini e di movimenti.
Bibliografia _ p260
La figura del cantastorie è importante nella cultura popolare italiana, come
dimostra questo brano sull’argomento:
A quei tempi (alla fine del 1800) erano molto ascoltati e molto apprezzati
perché la gente, quando succedeva qualche fatto di sangue, correva ad
ascoltare il cantastorie, perché glielo spiegasse in modo da commuovere
ogni persona.141
Il popolino, in mancanza di libri e di scuole, imparava da quegli spettacoli la
storia, le leggende dei Santi, il modo di vivere e addirittura i grandi fatti di
cronaca.142
Poli usa il palcoscenico come una piazza in cui portare la sua vicende di
incesti e di intrighi, la storia edificante del percorso di Gregorio dalla sua
infanzia fino alla piena maturazione e conoscenza di se stesso, o, come
suggerisce Poli stesso alla fine dello spettacolo, l’educazione sentimentale di
un personaggio del medioevo, una parabola sentimentale e personale che
prosegue nelle vicende narrate negli spettacoli successivi, nelle peripezie di
141 G. Pretini, Ambulante come spettacolo, Udine, Trapezio, 1987, p.113 142 G. Pretini, Dalla fiera al lunapark, Udine, Trapezio, 1987, p.18
Bibliografia _ p261
Luciano trasformato in asino, o di Gulliver navigatore errante tra i peggiori e
migliori dei mondi possibili, che poi sono sempre il nostro mondo, come
Gregorio, Luciano, Gulliver siamo sempre noi perché la natura umana, nelle
sue luci e nelle sue ombre, è sempre nuovissima e sempre uguale a se
stessa.143
143 Dal programma di sala de La leggenda di San Gregorio.
Bibliografia _ p262
Cronologia dell’attività artistica
1949/54 La compagnia L’Alberello
1958/60 La compagnia La borsa di Arlecchino
1958/59 Finale di partita
1961/62 Il Novellino
1962/63 Il Diavolo
1963/64 Paolo Paoli e Il mondo d’acqua
1964/65 Il candelaio
1965/66 Un milione
1966/67 Rita da Cascia
1967/68 Il suggeritore nudo
1967/68 La nemica
1968/69 Tito Andronico
1969/70 La rappresentazione di Giovanni e Paolo
1969/70 Carolina Invernizio
1970/71 La vispa Teresa
1971/72 Soirée Satie
1971/72 L’uomo nero
Bibliografia _ p263
1972/73 Giallo!!!
1973/74 Apocalisse
1974/75 Femminiità
1976/77 Rosmunda
1977/78 Rita da Cascia (II ediz.)
1978/79 Mezzacoda
1979/80 Mistica
1980/81 Paradosso
1982/83 Bus
1983/85 Magnificat
1985/86 Cane e Gatto
1986/87 Farfalle
1987/88 Mistica (II ediz.)
1988/90 I legami pericolosi
1990/92 Il coturno e la ciabatta
1992/94 La leggenda di San Gregorio
1994/96 L’asino d’oro
1997 I viaggi di Gulliver
Cinema e televisione
1954 Le due orfanelle
1960 Appare con Cappuccetto Rosso in Controcanale con Abbe Lane
Bibliografia _ p264
1960 Partecipa alla trasmissione per bambini Chi sa chi lo sa?
1961 Cronache del ‘22 (con A. Asti, regia di Guidarino Guidi)
1961/62 Canzonissima
1968 H2 S (regia di Roberto Faenza)
Discografia
Laura Betti e Paolo Poli, Ballata dell’uomo ricco. Ballata dell’uomo povero, di E.
Macchi e F.Carpi, Jolly, 1961
Paolo Poli, La canzone dei milioni. Sette violette, di Scarnicci Tarabusi Pisano,
Orchestra e coro diretti da G. Boneschi, RCA Victor, 1962
Paolo Poli, Donna bocca bella, Donna Lombarda, Orrenda madre, La Lisetta, La
Ninetta, La Morettina, La Gigiotta., di Anonimi toscani, A. Celso chitarra; F.
Ciapetti, violino, Carosello
Paolo Poli, Gli animali (Il merlo Cecco, La cornacchia del canadà, Il grillo e la
formica, Staccia buratta), con la collaborazione di A. Celso (chitarra) e V.
Paltrinieri, CDG, 1965
Bibliografia _ p265
Paolo Poli, Poesie e filastrocche (Filastrocche per bambini buoni, Filastrocche per
bambini cattivi), con la collaborazione di A. Celso (chitarra) e V. Paltrinieri, CDG,
1965
Paolo Poli, Giochi per i più piccini, con la collaborazione di A. Celso (chitarra) e V.
Paltrinieri, CDG, 1965
Paolo Poli e Maria Monti, Le canzoni del Diavolo, Canti della Rivoluzione: Canto
della libertà (Anonimo del ‘700), La ghigliottina (Anonimo del ‘700), Nel cor più
non mi sento (Paisiello).
Canti Anarchici: Addio Lugano (Gori), Inno della rivolta (Molinari), Crak delle
banche (Anonimo), Le ultime ore di Sante Caserio (Cini), Per la strada (Anonimo),
Teresina (Anonimo).
Canzoni del tempo di guerra: Wir machen musik (Igelhoff\Steimel\Devilli), Ich
hab dich und du hast mich (Igelhoff\Steimel\Devilli), Musik musik musik
(Kreuder\Devilli), Du bist mein baby (?), Canzone meravigliosa (Jary\Devilli),
Komm’und gib mir deine hand (Grothe\Devilli), Con la lampadina (Mendes\
Ravasini), La canzone dei sommergibili (Ruccione), Sul lago Tana (Di Lazzaro),
Mister Churchill, come va? (De Angelis), Jamais Jamais (De Angelis), Qualcosa
vorrei (Grothe\Devilli), Wer ist hier jung (?).
Canzoni del Festival di Assisi: Il re pastore (Rastelli), Donna ascolta
(Cherubini\Concina).
Bibliografia _ p266
Con A. Celso, C. Lawrence, R.Mosca, L.Penelatti, G.Porta, J.Silvani, S.
Spadaccini,
CDG, 1965
Paolo Poli, Aldo Palazzeschi, Poesie. Chi sono?, Il passo delle nazarene, La
matrigna, La morte di Cobò, Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba, I fiori, Sole,
Regina Carlotta, Una casina di cristallo, Lasciatemi divertire.
Lette da Aldo Palazzeschi: Sergio Corazzini, Anche la morte ama la vita.
Fonit Cetra, 1973.
Paolo e Lucia Poli, Femminilità!, Mezzanotte (Neri\Bonavolontà), Piccolo
apache (Neri\ Simi), Stracciona (Viterbo\Scotto), La Java di Nanà (De
Silvia\Pancaldi),Marciapiede (Papanti\Borella), Mondana (Cherubini\ Rulli),
Bolscevismo in famiglia (Scala\Cavaliere), Yvonne (Cherubini\ Rulli), Russia
(Masini\Stocchetti), La bicicletta (Paolo e Lucia Poli), Strofette sportive
(Ribecchi\Abbati), Cocottine del Pireo (Ripp), Signorine per pietà (Frati\Billi),
Il linguaggio del ventaglio (Frati\Bracesco), Bijou (Neri\Montagnini), Fox trot
degli specchi (Bixio), Chi è quella bella signora? (Mascheroni\mendes), La
Grimace (Manfrino), Sanzionami questo (De Angelis), É finito il bel tempo che
fù (Cherubini\Redi), Ti saluto e vado in Abissinia (Pinki\Oldrati\Rossi), Canto
dei volontari (Allegra\Vitali), Lago Tana (Di Lazzaro), Carovane del Tigrai
(Mendes\Di Lazzaro), Il cavallo (Paolo e Lucia Poli), Sotto l’albero del fico
(Bracchi\D’Anzi), Il treno degli sposi (Zorro\ Dubiwarren), Prodotto nazionale
(Arduini\Meniconi), Io sogno un pupo rosa (Morella\ Mariotti), Piccole mani
Bibliografia _ p267
(Valdes\Rampoldi), Dammi un bacio e ti dico di si (Cherubini\Bixio), Signorine
non guardate i marinai (Marf\Mascheroni), Giovanotti che fate all’amore
(Marf\Mascheroni), Il miracolo della lana (De Torres Simeoni\Del Pelo).
Con J.Silvani, G. Porta, S. Gragnani, P.Dotti. Musiche a cura di J. Perrotin.
Fonit Cetra, 1975
Paolo Poli, Mezzacoda, La madre dell’alpino (Giuliani\Bonavolontà), Inno dei
tubercolotici trinceristi (Capozzi\di Sanarica), Soldatini di ferro
(Mendes\Lacchini), I canarini delle canarie (Ripp), Scugnizzo (Cherubini\
Rusconi), La mia danese (Ripp), Leggenda rossa (Cherubini\ Fragna), La
canzone delle canzoni (Cherubini\Di Lazzaro), Io non ballo (Borella\ Papanti),
Sogni (Cherubini\Fragna), Ziki paki ziki pu (Mendes\Mascheroni), Balilla cuor
d’oro (Pettinato), Camminando sotto la pioggia (Rizzo\ Frustaci\Macario),
Signora illusione (Cherubini\ Fragna), Con la lampadina (Mendes\Ravasini),
Qualcosa vorrei/a suon di musica
(Devilli\Dehmel\Grothee\Devilli\Kautner\Pinelli\Igelhoff\Steimel),La canzone
dei picchiatelli (De Angelis), Mister Churchill, come và? (De Angelis), La
sagra di Giarabub (De Torres\Simeoni\Ruccione), I lancia-fiamme (De
Lucio\Torricelli), La canzone dei sommergibili (Ruccione\ Zorro), Sola
(Rost\Malatesta\Vasin), Eravamo sette vedove (Misa\Redi), Good Bye
milanesina (Frati\Olivieri), I love you (Cherubini\Pagano), Oh mama mama!
(Danpa\Conald), Basta con la canasta (Forte\Colosimo), Qualcuno cammina
(Rastelli\Casiroli),Vola Colomba (Concina\Cherubini), Tre cammelli
Bibliografia _ p268
(Bonagura\Calcagno),Tua (Pallesi\Malgoni), Patatina (Migliacci\Meccia),
Variazioni del bel castello (Perrotin).
J.Perrotin, pianoforte. Cetra, 1979
Paolo Poli, Soirée Satie, Festa dei cavalieri normanni in onore di una
damigella dell’undicesimo secolo, Il tranello di Medusa, Dai Ragionamenti di
un testardo, La Diva dell’Empire (parole di D.Bonnaud e N. Blès), La giornata
del musicista, Les Fleurs (parole di C. De Latour), Sport e divertimenti (corale,
L’altalena, La caccia, La commedia italiana, Il risveglio della sposa,
Moscacieca, La pesca, Lo Yachting, Il bagno di mare, Il carnevale, Il golf, La
piovra, Le corse, I quattro cantoni, Il pique\nique, Il waterchute, Il tango, La
slitta, Il Flirt, Il fuoco d’artificio, Il Tennis). Españaña, Cose di teatro, Je
te veux (Parole di H.Pacory).
Testi e musiche di Erik Satie. Antonio Ballista, pianoforte. Fonit cetra, 1982.
Bibliografia _ p269
Bibliografia
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Capitolo 3: La scenografia _ p276