capitolo 1: biografia artistica di paolo...

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 41 Capitolo 1: Biografia artistica di Paolo Poli Gli esordi 1 La passione di Poli per la recitazione pare che esista da quando esiste Poli stesso: in un’intervista rilasciata a Idolina Landolfi egli stesso racconta le sue precocissime velleità: Partecipavo alle recitine: quando veniva la principessa di Piemonte le recitavo “Vergine madre, figlia del tuo figlio...”. Frequentavo la terza elementare ed avevo già i miei pezzi forti: quello e “la bocca sollevò dal fiero pasto” se arrivava il segretario del Fascio [...]. Ho sempre fatto le recite per gioco, con le mie sorelle, 1 Tutte le informazioni riguardanti l’attività artistica di Poli dai suoi esordi fino allo spettacolo Bus (stagione 1981/82) sono tratte da R. Di Giammarco, Paolo Poli , Roma, Gremese, 1985

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 41

Capitolo 1: Biografia artistica di Paolo Poli

Gli esordi1

La passione di Poli per la recitazione pare che esista da quando esiste Poli stesso:

in un’intervista rilasciata a Idolina Landolfi egli stesso racconta le sue

precocissime velleità:

Partecipavo alle recitine: quando veniva la principessa di Piemonte le recitavo

“Vergine madre, figlia del tuo figlio...”. Frequentavo la terza elementare ed avevo

già i miei pezzi forti: quello e “la bocca sollevò dal fiero pasto” se arrivava il

segretario del Fascio [...]. Ho sempre fatto le recite per gioco, con le mie sorelle,

1 Tutte le informazioni riguardanti l’attività artistica di Poli dai suoi esordi fino allo spettacolo Bus (stagione 1981/82) sono tratte da R. Di Giammarco, Paolo Poli, Roma, Gremese, 1985

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con le cugine, usando i vestiti smessi della zia [...]. Professionalmente ho iniziato

subito dopo lo sviluppo, quando la voce é cambiata, contemporaneamente al liceo.

La figlia del nostro preside amava recitare, e il preside ci concesse uno aggspazio,

dove noi costruivamo le scene con la carta da parati.[...]

La carriera professionale vera e propria di Poli risale al 1949 quando, ventenne,

partecipava già ad alcune trasmissioni di Rai Firenze con macchiette, favole,

canzoni e prosa: nello stesso anno egli si iscrive alla Facoltà di Lettere, riuscendo,

tra uno spettacolo e l’altro a dare gli esami nell’arco di un decennio.

Nello stesso periodo, cioè grossomodo dal ‘49 al ‘50, Poli si esercita anche a

prestare voce a streghe, cavalieri e principesse senza fili, eroi buffi di cui é

affollato il carro di Trespi del burattinaio Stac.

La compagnia L’Alberello2

All’impegno con le voci dei burattini si aggiungono le serate con la Compagnia

dell’Alberello, allora appena agli inizi, patrocinata da una nobildonna, Flavia

Farina Cini.

2 Mentre per gli spettacoli prodotti come Compagnia Paolo Poli ho dedicato ad ogni stagione un breve paragrafo, per i lavori prodotti all’interno di altre compagnie ho preferito raggruppare le informazioni in paragrafi intitolati alle compagnie stesse (L’Alberello, La borsa di Arlecchino).

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Con lui lavorano Ferruccio Soleri, Ilaria Occhini, Alfredo Bianchini, Beppe

Menegatti e, come regista, il futuro critico Paolo Emilio Poesio.

Negli anni successivi cominciano a comparire sui fogli della stampa recensioni

positive sugli spettacoli della compagnia, e segnalazioni particolari per Poli e per

Soleri.

Nel ‘54, a dimostrazione della fama ottenuta, la Compagnia dell’Alberello

inaugura il teatro Goldoni, riaperto dopo 29 anni, con La Calandria del Bibbiena,

con la regia di Sergio Gazzarrini.

Ma per Poli é giunto il momento di provare a farsi strada a Roma: qui arriva con

alcune foto che gli aveva scattato l’amico fiorentino Franco Zeffirelli, e, per un

colpo di fortuna, ottiene la parte dell’arrotino zoppo in Le due orfanelle, parte che

doveva essere di Mario Girotti (futuro Terence Hill), ammalato.

Nel frattempo però cerca di non perdere i contatti con Soleri e la Occhini, che si

sono iscritti all’Accademia d’Arte Drammatica e con loro ha modo di ascoltare le

lezioni Orazio Costa, Sergio Tofano, Wanda Capodaglio.

L’approccio al mondo del cinema non mette in luce le doti migliori del giovane

Poli, fatto per le tavole del palcoscenico: così, un po’ in sordina, rientra in teatro

con La cantata dei pastori, nel Chiostro nuovo di padre Balducci, e con Le beffe

del Decamerone, con Alfredo Bianchini.

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Visto che lo spettacolo non dava sicurezze, Poli inoltra domanda di supplenza, e

finisce ad insegnare letteratura francese nel liceo Leonardo da Vinci (anno ‘57/58).

Negli stessi anni cede alla lusinga della popolarità e posa per alcuni fotoromanzi.

La Compagnia La borsa di Arlecchino

È nel ‘58 che avviene il grande salto: in quell’anno infatti Poli si trasferisce a

Genova dove incontra Aldo Trionfo, animatore, impresario e regista di un piccolo

locale, La borsa di Arlecchino.

Cosi Poli ricorda il suo arrivo a Genova:

Ad essere convocato a Genova era stato in realtà Bianchini. Non che io non

conoscessi Trionfo. L’avevo già incrociato quando era “aiuto” di Visconti mentre

si girava Senso [...] Quanto alla trasferta a Genova le cose andarono cosi: venni

interpellato dallo stesso Bianchini che mi suggerì di andare al posto suo. Trionfo

doveva rinforzare la sua squadra di attori. Accettai. Convenni che avrei provato

un po’ e se il rapporto non si fosse stabilito a sufficienza, sarei tornato a Firenze.

Invece rimasi. Diventai anzi uno dei più stretti collaboratori di Trionfo.

Durante la stagione ‘58/59, Poli interpreta Finale di partita, di Backett con

Vincenzo Fierro e, in chiusura, un breve entr’acte intitolato Semplici ariette e

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canzoncine povere, insieme al chitarrista Silverio Pisu e alla danzatrice/mimo

Claudia Lawrence, collaboratrice di Poli anche per le coreografie de La leggenda

di San Gregorio. Durante la stessa stagione egli si impegna anche in una serie di

spettacoli tratti da Feydeau, nei cui intermezzi di nuovo introduce una serie di

canzoni del primo novecento, messe a confronto con gli autori francesi del

momento, come Brassen.

Quindi é il turno di Sorveglianza speciale di Genet, dove Poli interpreta Jules;

protagonista invisibile, insieme a Poli, Lele Luzzati, nascente genio scenografico.

L’infantilismo fa da motivo conduttore a Mamma voglio il cerchio, rivista per

adulti che va in scena nel giugno del ‘60 al Girolamo di Milano, dove Poli colpisce

soprattutto nel racconto di Cappuccetto rosso. ormai ha raggiunto una certa

notorietà, e la televisione e la radio gli aprono le porte: con lo stesso Cappuccetto

Rosso appare a Controcanale, spettacolo di varietà con Abbe Lane, partecipa alla

trasmissione per bambini Chi sa chi lo sa? e, via via, partecipa alle scritture di

alcune operette per la televisione: Al cavallino bianco, Madama di Tebe, Vedova

allegra.

1960/61 - Il Novellino

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 46

È proprio nel ‘60, sull’onda della popolarità datagli dalla comparsa sul video, che

Poli si convince a dare un’altra svolta alla sua carriera: si congeda da “La borsa di

Arlecchino” e decide di provare a contare solo sulle proprie forze.

Grazie ad un accordo con il direttore del teatro Gerolamo, Poli mette in scena a

Milano il primo spettacolo tutto suo: si tratta del Novellino, spettacolo in cui egli

compie un excursus poetico e musicale della tradizione orale toscana partendo da

laudi medievali3 fino a giungere alle canzoni popolari del periodo Fascista ed in

generale del primo novecento.

Questo spettacolo gli vale un lungo articolo con grandi fotografie, firmato da

Camilla Cederna, intitolato “il professorino che canta”4: la fama di Paolo Poli

riceve la prima grande consacrazione.

1961/62

Nell’estate del ‘61 Poli compie un’altra incursione nel mondo del cinema:

interpreta, a fianco di Adriana Asti, Cronache del ‘22 di Guidarino Guidi.

Nello stesso anno viene ingaggiato per una grande avventura televisiva: si tratta di

Canzonissima (‘61/62) che gli procura un diffusissimo lancio pubblicitario presso

3Nel Novellino compare per la prima volta in uno spettacolo di Poli una Lauda medievale appartenente ad un Codice Cortonese che ha per argomento la morte e che compare anche all’interno de “La Leggenda di San Gregorio” (Atto II, Scena III) 4 C. Cederna, Il professorino che canta, in L’Espresso n50, Roma, 11 Dicembre 1960

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il pubblico televisivo di ogni ceto ed età: Ha accanto Sandra Mondaini con la quale

battezza un filone di tiritera fra due bambini cresciuti e inclini alle bizze, lui nei

panni di Filiberto , l’amichetto buono e sfortunato della pestifera Arabella.

1962/63 - Il Diavolo

Nella stagione 62/63 mette in cantiere Il Diavolo: si tratta di nuovo di uno

zibaldone di testi tratti dai codici di Rosvita, dai Laudari Cortonesi5, da poesie di

Machiavelli e dell’Aretino, e via via procedendo nel tempo, testi della

controriforma, raccolte di norme sui delitti e sulle pene dell’inquisizione in

Spagna: quindi De Sade, mescolato con Voltaire e Diderot, quindi l’ottocento, con

l’involontario umorismo del Monti, fino ad un quadro rievocante il fascismo.

Questo stesso spettacolo verrà ripreso nella stagione ‘64/65 nel cui cast figurerà

anche Maria Monti, divenuta parte integrante della compagnia per un’altra

produzione dello stesso anno, Il Candelaio.

Tornando al ‘62, Poli si trova in difficoltà economiche perché il suo Il Diavolo

suscita pessime reazioni nella Roma papalina e nella capitale il suo programma

non trova spazio; tira avanti grazie alla televisione: il cantafiaba, commedie con

Molinari e con Fenoglio.

5 Gli stessi Laudari da cui Poli ha tratto parte delle musiche e delle canzoni de La Leggenda di San Gregorio

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1963/64 - Paolo Paoli e Il mondo d’acqua

Durante le prove di La colonna infame di Buzzati, con la regia di Fenoglio

appunto, conosce Adolfo Moriconi, “aiuto” del regista, il quale gli parla di un testo

che egli stesso ha appena tradotto dal francese: si tratta di Paolo Paoli, di Artur

Adamov. Colpito dalla quasi omonimia, Poli decide di mettere in scena il testo, e

parte per Parigi per avere la benedizione dell’autore. Ottenutala é costretto a

risolvere un’altra grana: dato che il repertorio era straniero rischiava di perdere la

denominazione di compagnia italiana; Si ingegna cosi a preparare a tempo record

un altro spettacolo, da alternare a Paolo Paoli, uno spettacolo italiano: si tratta di

Un mondo d’acqua.

Mentre Un mondo d’acqua, storia delle frustrazioni di un giovinetto sognatore,

amante delle profondità marine che alla fine si trasforma in pesce, suscita critiche

tiepide, Paolo Paoli, spettacolo di punta, ritratto del mondo borghese

immediatamente prima della Grande Guerra, tratteggiato grazie alle vicende di

sette personaggi e ai loro commerci di farfalle di piume e di bottoni, riscuote un

buon successo, sia di pubblico che di critica.

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1964/65 - Il Candelaio

Nel ‘64 Poli fa ditta insieme al Maria Monti, con la quale mette in scena Il

Candelaio di Giordano Bruno e una seconda edizione de Il Diavolo. Nello stesso

anno, ed in occasione proprio della messa in scena de Il Candelaio nasce un

sodalizio che sarà ben più duraturo, tanto é che continua ancora oggi: comincia

infatti con questo spettacolo la collaborazione drammaturgica con Ida Omboni.

Insieme alla Omboni, Poli riesuma un testo che giaceva da secoli nel dimenticatoio

della letteratura teatrale italiana: e, come sempre, egli aggiunge agli intrighi

napoletani di Bruno una quantità di canzoni riducendolo, sono le sue stesse parole,

“quasi ad un operetta”, affollandolo di suore, preti, mostri, maschere, draghi da

ossessione notturna, vecchine, puttane.

Lo spettacolo ottiene in generale ottime critiche, anche se solleva qualche voce

contraria l’uso “leggero” del testo: in un articolo apparso su “Il Dramma”6 si

legge, riguardo al Candelaio di Poli e ad una concomitante Mandragola di

Peppino de Filippo: “Non si tratta di pochade: lo diciamo subito ad evitare che altri

siano presi dallo stesso uzzolo e si impadroniscano dei capolavori della nostra

letteratura drammatica per uso personale, diffamando il teatro.”

6 Dicembre 1964

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In realtà sullo sfondo di questa critica sta una concezione, dopo tutto comune, del

teatro musicale come sottoprodotto, nonostante alcuni nostri grandi attori, a

cominciare da Petrolini o da De Sica, abbiano fatto largo uso del genere musicale.

1965/66 - Un Milione

Nell’estate del 1965 Poli stringe i contatti con l’anziano attore Sergio Tofano,

creatore delle strisce del Signor Bonaventura, firmate con lo pseudonimo di Sto;

ne nasce uno spettacolo da bambini fatto per gli adulti, dal titolo Un Milione. Lo

spettacolo non é stato un trionfo, per stessa ammissione di Poli, soffrendo forse di

un pregiudizio nei confronti di tematiche infantili.

Poli, alla figura del Signor Bonaventura, privilegia quella del “Bellissimo Cecé”

alle prese con le caricature del bene e del male, ovvero Bonaventura e Barbariccia.

Poli mantiene la stilizzazione del fumetto, la stessa atmosfera retró, la stessa

dinoccolatura, ma anche gli stessi abiti, gli stessi colori, e in più elabora un

linguaggio fatto di combinazioni di parole, modi di dire, barzellette, cantilene,

scioglilingua e innumerevoli frasi fatte tagliate, aggiustate e fuse con una cascata

di battute dei più diversi autori, fino a comporre in un discorso una raffinata e

divertente raffigurazione dell’assurdo e dell’insensato.

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1966/67 - Rita da Cascia

Malgrado i favori della critica, Poli non é contraccambiato dal botteghino, i debiti,

contratti fin dal ‘62, diventano quasi insostenibili (per un totale di 15 milioni,

somma, per il tempo, considerevole): per la stagione successiva é costretto a

sospendere l’attività capocomicale. Nell’estate del ‘66 recita in una Turandot con

la regia di Beppe Menegatti, con la Fracci e Ottavia Piccolo, facendo dei siparietti

mentre cambiavano le scene. Nel febbraio del ‘67 accetta di fare da lettore ne

L’histoire du soldat di Stravinskij al Teatro Comunale di Modena.

Nella Primavera dello stesso anno va a rinforzare la compagnia che, al Teatro

Stabile di Torino mette in scena un testo minore del ‘700, una commedia in

dialetto dal titolo Il cunt Piolet, con cui partecipa anche al festival di Nancy.

Sempre nel ‘67 partecipa ad un’edizione siciliana della Sagra del Signore della

Nave, di Pirandello, con la regia di Scaparro.

Intanto, tra il ‘66 e il ‘67 Poli riesce a mettere insieme abbastanza soldi per pagare

i debiti, e può ricominciare a pensare ad una produzione tutta sua.

L’idea che lo attira é quella di imbastire uno spettacolo come quelli che si usava

fare in oratorio, in cui le compagnie, tutte maschili, adattavano i testi in modo da

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far apparire solo gli uomini, o almeno in cui un uomo che fa una parte da donna

non fa scalpore.

Così Poli stesso racconta la nascita del nuovo spettacolo, che sarà poi la

contestatissima Rita da Cascia:

Pensai: qui chiacchiero io. I piccoli personaggi li affido ad attori amici, anche un

po’ improvvisati. Scene dipinte dal sottoscritto, e costumi rigenerati. Una suora?

Basta una tovaglia bianca e una pazienza nera. Il vestito da contadinella si

improvvisa con un grembiule. Le parrucche ce l’ho già. si debutta nella medesima

stanza, sotto il piano del bar, dove ormai sono di casa: al Cab “64”. Un locale

che contiene massimo sessanta, settanta persone, munito di una pedana di due

metri per uno. Per lo spettacolo creo un fondalino, dipingo un albero, un

campanile. Un cuscino a terra e un pezzo di lenzuolo costituiscono il letto di morte

della Santa. In più, una scala a compasso da librerie, con nuvolette appese su tre

pioli, di fronte a cui ci si inginocchia come davanti al paradiso7.

Lo spettacolo parte in sordina a Milano, ed esplode a Roma dove, al Delle Muse,

ottiene un grande successo.

7 Da un’intervista a R. Di Gimmarco in R. Di Giammarco, Paolo Poli, Roma, Gremese, 1985

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Una sera però tra gli spettatori é presente l’On. Tozzi Condivi il quale, la mattina

dopo promuove in parlamento un’interrogazione sulla liceità di consentire la

rappresentazione di uno spettacolo tanto irriverente. Seguì una telefonata che

preannunciava una bomba in teatro, e la Questura è costretta a presidiare la sala

ogni sera. Tutto questo clamore si traduce, come é naturale, in grande pubblicità e

afflusso di pubblico. Le lungaggini burocratiche consentono a Poli di finire le

repliche a Roma e di tornare per una sola sera a Milano: poi arriva l’ingiunzione e

lo spettacolo é sospeso.

Poli affida la difesa all’Avvocato Moscon, ma la faccenda finisce nel nulla:

comunque sia, dovrà aspettare fino al ‘77 prima di poter ripresentare al pubblico

questo spettacolo.

Lo spettacolo racconta, con i modi ingenui della recita parrocchiale, il matrimonio,

la vita monacale e la santità di Rita da Cascia.

Si tratta, come si é detto di uno spettacolo “monosessuale”, in cui la figura di Poli

emerge prepotentemente sia in scena che fuori, come organizzatore, ideatore e

costruttore dell’intero impianto spettacolare che risulta nel complesso volutamente

scarno e semplice, composto di pochi elementi significanti: questo tipo di struttura

permane tuttora nel lavoro di Poli.

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1967/68 - Il suggeritore nudo

L’interruzione della Rita da Cascia lascia un vuoto nella stagione di Poli. Egli

parte per Parigi dove recita un estemporaneo Metastasio, L’isola disabitata, di

fronte niente meno che a Pompidou. Al suo ritorno viene contattato da Di Bosio

che sta preparando, presso il Teatro Stabile di Torino, uno spettacolo sul

futurismo: in seguito ad una burrasca politico-economica, Di Bosio decide di

dimettersi e lo Stabile propone la regia a Poli stesso. si tratta de Il suggeritore

nudo di Marinetti.

Ottenuto il permesso dalla figlia di Marinetti, Vittoria, di rimaneggiare il testo a

suo piacimento, Poli inserisce nel tessuto dello spettacolo ampi brani del

“Manifesto del teatro di varietà” e anche alcune “facezie” di Petrolini facendone

una sorta di satira del teatro stesso: in scena vi sono infatti personaggi dai nomi

emblematici, come il regista Mario applausi, il quale non fa nulla, entra in scena e

presenta, e basta; accanto a lui rappresentanti dei ruoli canonici del vecchio Teatro,

il caratterista, il brillante, l’ingenua con nomi come Birignao e Carrettella8.

8 Birignao : cantilenare affettato di ceto teatro di maniera con attori che si danno arie di sofisticati elitari Carrettella: é l’espediente ad effetto che permette all’attore di far partire l’applauso o semplicemente la risata. Si ottiene caricando l’intenzione finale della battuta o dell’azione mimica, ammiccando o producendo una espressione stupita o, ancora, esplodendo in una risata compiaciuta. D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1987, p327/p330

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1968/69 - La Nemica e Tito Andronico

Avuta dall’impresario del Delle Muse la sala per tutto il mese di maggio (‘68),

Poli comincia a lavorare ad un nuovo spettacolo: La Nemica di Niccodemi.

Insieme con la Omboni, sfoltisce il testo, riduce a sei i personaggi e trasferisce

l’ambientazione dalla Francia all’Italia. Prova per non più di una settimana, quindi

va in scena.

Il pubblico la accoglie così bene che avrebbe potuto restare anche tutto giugno se

Poli non fosse stato impegnato nelle repliche de Il suggeritore Nudo. Durante la

stagione ‘68/’69 replica sia l’uno che l’altro testo.

La Nemica, che con il passare del tempo arriverà a vantare la bellezza di circa

1000 repliche, segna la definitiva consacrazione dell’attore.

Già nel ‘68 gli frutta una partecipazione nel film di Roberto Faenza H2 S dove Poli

é chiamato ad impersonare una vecchia centenaria, simbolo della società decrepita,

che abita in un castello entro le cui mura di mangiano i ragazzi contestatori.

Si va diffondendo, dopo l’exploit di La Nemica, una fisionomia di Poli incline

all’eterno femminino, con sfumature di androginia, travestimento, gay-glamour: in

questo spettacolo infatti, per la prima volta Poli riveste per l’intero spettacolo abiti

femminili.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 56

Nel gennaio del 1969, Poli gioca una carta imprevedibile: propone un Tito

Andronico di Shakespeare con soli uomini, così come, probabilmente, era

all’origine. Ovviamente si tratta di uno Shakespeare riscritto insieme alla Omboni,

ridotto da 5 Atti a due tempi, scegliendo ciò che più si presta alla parodia:

olocausti efferati delitti, cannibalismo, sadismo. La recitazione degli attori é

esasperata, talvolta fino alla buffoneria, mentre quella di Poli é graziosamente

estraniata, le battute più atroci e drammatiche pronunciate con aria distratta.

La scena é popolata, oltre che di attori di fantocci in cartapesta, e di una selva di

teste mozzate che spuntano da ogni parte: e tra tanti orrori Poli parodia il teatrino

filodrammatico con il gusto per il particolare raccapricciante, e di tanto in tanto

inserisce un intermezzo “a solo”, come al solito riservato alle canzoni.

1969/70 - Rappresentazione di Giovanni e Paolo e Carolina Invernizio

Dopo la parentesi Shakespeariana, Poli ritorna, nella stagione ‘69/70, ad un genere

che aveva già affrontato in precedenza, quello agiografico; propone infatti una

sacra rappresentazione, opera di Lorenzo de Medici: La Rappresentazione di

Giovanni e Paolo.

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Il testo é una sorta di ibrido, di modulo di passaggio tra stilemi medievali ormai

alla fine e linguaggi rinascimentali, all’interno del quale Poli, come sempre, mette

molto di suo, interpretando un diavoletto, con tanto di corna e coda, che intrattiene

il pubblico su argomenti più o meno edificanti, tra i quali rientra anche un

excursus sulle canzoni pseudo-erotiche con le quali il fascismo accompagnò la

conquista dell’Etiopia.

Dopo le esperienze di compagnia monosessuale della Rita da Cascia e di La

Nemica, Poli torna a far compagnia con un gruppo di attrici, tra cui Fiammetta

Baralla, Iole Silvani, Angiolina Quinterno.

Durante la stessa stagione Poli imbastisce un altro spettacolo da alternare a La

Rappresentazione di Giovanni e Paolo. E dal Magnifico passa ad attingere ad un

altro classico di tutt’altro genere, ovvero i romanzetti d’appendice scritti da

Carolina Invernizio, narratrice che ha prodotto, nella seconda metà del secolo

scorso, decine di romanzi pieni di tombe, cattive madri, tradimenti, cadaveri,

danzatrici-serpenti, sorellastre cattivissime, malattie incurabili, finali truculenti.

Poli attinge a piene mani da questo vasto e allettante repertorio, costruendo uno

spettacolo in cui accade di tutto, morti, resurrezioni, incesti, ritrovamenti,

avvelenamenti ed al centro a tutta questa girandola di atrocità per signorine c’è lui,

Poli, in un continuo avvicendarsi di travestimenti, che lo vedono interpretare dal

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 58

medico alla giovinetta innocente, dal ragazzetto inesperto alla danzatrice

giavanese, portatrice di scompiglio nella vita di un serio avvocato (interpretato da

un’attrice).

1970/71 - La Vispa Teresa

Nell’ottobre del ‘69, assiste Claudia Lawrence nella regia di Il Brasile di Wilcock.

nel novembre ‘69 firma la regia di un’opera minore di Doninzetti, Rita o le mari

battu.

Nell’aprile del ‘70 da voce come lettore, per la seconda volta nella sua carriera,

all’ Histoire du soldat, di cui é anche regista.

Nell’estate del ‘70 registra le quattro puntate della trasmissione televisiva Babau,

summa del suo repertorio (angelo/diavolo) con digressioni dal vampiro al

marziano.

Nel frattempo la ditta Poli si fa più solida, acquista un camion per le trasferte,

rinnova i bauli, compra i riflettori.

Sempre insieme alla Omboni, torna ad un vecchio amore, la letteratura per

bambini, e produce La vispa Teresa, excursus sulla letteratura infantile

dell’ottocento. Pochi giorni prima del debutto però un incendio al Delle Muse di

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Roma distrugge la sala e gran parte del materiale di scena, ma, a dispetto della

sfortuna, lo spettacolo riesce ad andare in scena ugualmente.

Poli, nelle vesti di una bambinona dl secolo scorso, con una vestina bianca a volant

e una parruccona piena di boccoli biondi, inanella filastrocche, dalla vispa Teresa,

a Pierino il Porcospino a tutta una letteratura per bambini dagli aspetti repressivi

ed un tantino sadici. Uno spettacolo dunque che, anche se occhieggia al pubblico

infantile, é fatto soprattutto per gli adulti.

1971 - Soirée Satie

A Roma, nella primavera del ‘71, Poli registra fiabe televisive scritte da Tommaso

Chiaretti e qualche mese più tardi, nel settembre ‘71, la Biennale Musica di

Venezia lo invita ed egli produce Soirée Satie, spettacolo su commissione ma di un

umorismo e di un miniaturismo che si addicono perfettamente a Poli.

Per presentare al pubblico questo musicista conosciuto per lo più dagli addetti ai

lavori, Poli ha alternato parti pianistiche di Antonio Balista con danze di Milena

Vukotich (nell’edizione del ‘71), di Graziella Porta (nel ‘72) e di Carmen

Ragghianti (nell’ 81), con parti recitate e cantate da lui, affidandosi anche ad un

apparato scenico fatto di pupazzi, figurine che sembravano uscite dai manifesti di

Toulouse Lautrec. Tra i testi recitati c’é La trappola di Medusa, scena tipica della

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domanda di matrimonio della commedia ottocentesca e una serie di canzoni che

Satie scriveva per serate simili a quelle che in Italia si tenevano nei Salotti

futuristi.

All’interno dello spettacolo Poli ha inserito la proiezione del cortometraggio

Entr’acte di Rene Clair con musiche, appunto di Satie, e una serie di quadri

sportivi (“Sport e divertissements”).

1971/72 - L’uomo Nero

Nell’estate del ‘71 Poli scrive insieme alla Omboni L’uomo nero, spettacolo nato

dalla convinzione che gli anni non anno scalfito l’eredità delle camicie nere, il

buon senso, la suscettibilità, il “decoro intollerante” di certa borghesia che fa

maggioranza.

L’uomo nero é la saga di tre fratelli: uno reduce, e mutilato, dalla prima guerra,

l’altro che fa il “cattivo socialista” e l’ultimo che rappresenta il “fascista

buonissimo”. Tra costoro si mettono donne, vizi, virtù, soubrette fatali e boy-scout.

Il tutto negli anni della nascita del fascismo, alle porte della marcia su Roma

(l’ultima battuta dello spettacolo recita: Avanti! Andiamo e cominciamo a menare

le mani. Penseranno poi i filosofi a dimostrare che era giusto!”).

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La molla comica dello spettacolo consiste in una glorificazione esasperata e

caricaturale della società e dei valori che portarono all’avvento del fascismo: per

l’argomento trattato é stato paragonato a Novecento, di Bertolucci, anche se,

ovviamente ne L’uomo nero di Poli prevale l’ironia.

1972/73 - Giallo!!!

Nella stagione successiva Poli esordisce al Teatro Parioli di Roma con uno

spettacolo attinto da una ambito per lui del tutto nuovo, quello della letteratura

poliziesca.

Lo spettacolo si intitola Giallo!!! ed é uno “specimen” di tutte le caratteristiche del

genere, colpi di scena, mistero, inevitabile Deus ex machina. Poli interpreta ben

sette personaggi, anch’essi disegnati sulle caratteristiche tipiche dei protagonisti

dei gialli alla Agatha Christie: Ruby (misteriosa straniera), il dottor Sheldon,

Priscilla (giovinetta intellettuale), sir Reginald (squire del paese), il campanaro

Jonatan, il colonnello Dobson, il nuovo Pastore. Le scenografie sono di Danda

Ortona: una casina che gira su se stessa mostrando quattro lati, l’interno del piano

di sopra, l’interno del pianterreno, le scale, il patio.

Sullo sfondo un’Inghilterra di provincia, vittoriana, nella quale si consumano, tra

una tazza di the e una partita a tennis, i più efferati delitti.

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Anche qui la forza comica dello spettacolo coincide con la capacità di Poli di

mettere in scena le vicende più scontate, addirittura fissate nella rigidità del canone

in modo che sembrino imprevedibili, illogiche o addirittura pazzesche: a

cominciare dall’incredibile numero di delitti e di morti accidentali che si

susseguono senza interruzione.

1973/74 - Apocalisse

Nel ‘73 Poli costruisce uno spettacolo basato sul tema dell’ecologia: Si intitola

Apocalisse, e con lui, in una compagnia di tutti uomini, recita per la prima volta la

sua sorella più piccola, Lucia.

Apocalisse si strutturava in quattro parti: Utopia di Lucia Poli, Arcadia e Milizia

forestale di Paolo Poli, Storia Naturale di Edoardo Sanguineti.

Le prime due parti sono un insieme di testi medievali e rinascimentali, nel terzo

Poli ha inserito un brano scritto da Arnaldo Mussolini sull’ecologia.

Il testo di Sanguineti, scritto per uno spettacolo di Ronconi e poi mai utilizzato, é il

ritratto non si sa bene se di un ospedale o di una casa di tolleranza in cui gli uomini

sono tutti pieni di formiche e muoiono, non si sa come. Anche in questo spettacolo

Poli veste panni disparati, da un San Giovanni con largo saio di canapa a ballerina

caraibica con turbante in testa e gonna a volant stretta sui fianchi.

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1975/76 - Femminilità

Nell’estate del ‘74, Poli cura la regia di un’operetta, La Contessa Marzia al Teatro

Giuseppe Verdi di Trieste, nel cui cast appare anche Leopoldo Mastelloni.

Nella primavera del ‘75 nasce Femminilità, spettacolo dedicato alle idiozie e ai

luoghi comuni legati alla figura della donna durante il trentennio fascista.

Lo spettacolo ha inizio nel 1925, epoca dei telefoni bianchi e delle camicie nere,

l’epoca del muto, e per l’appunto ci troviamo, nella prima scena, in uno studio

cinematografico: compaiono curiose figure di commendatori, dive, sciocche

portinaie, servitori cinesi, che gravitano intorno ai due protagonisti che dopo una

serie di peripezie si ritrovano immersi in piena epopea coloniale, La giovinetta

protagonista, finita nelle trame del commendatore é incinta, ma, per uno spavento

abortisce. La vicenda finisce bene: il commendatore diventa padre missionario, la

diva diventa suora, la vecchia zia torna al paese natio e i due protagonisti possono

coronare il loro sogno d’amore. Lo spettacolo, dalla trama labile ispirata ai

romanzi rosa del periodo fascista, si gioca tutto nella girandola di travestimenti di

Paolo e Lucia Poli, più fregoliani che mai (Lucia Poli cambia, in tutto lo

spettacolo, più di venti abiti) e nelle canzoni, nei balletti, nelle scene ispirate al

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teatro di rivista con boa di struzzo, boys in cilindro di raso e balletti con gambe in

simmetria.

Nell’autunno dello stesso anno, Poli registra I tre moschettieri, dall’opera di

Dumas padre riscritta a sei mani da Poli stesso, da Sandro Sequi (anche regista) e

Giuseppe Bertolucci; quindici puntate per la televisione che andarono in onda per

Natale dell’anno dopo.

Solo quattro attori per 12 personaggi: Paolo Poli, la sorella Lucia, Milena

Vukotich e Marco Messeri. Il gioco funzionava in modo che ogni attore

interpretasse uno dei moschettieri e la sua amata; Poli aveva tenuto per se il

personaggio di Athos e quello della Miledy da lui corteggiata, oltre a tutte le parti

da cattivo, compreso il cardinale Richelieu.

Sempre in ambito televisivo, nell’estate del 76 vanno finalmente in onda le quattro

puntate di Babau, dopo sei anni di “parcheggio televisivo”, con un titolo che ne

sottolinea l’invecchiamento: Babau 70.

1976/77 - Rosmunda

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Nel 1976 Poli affronta di nuovo un testo classico; si tratta della Rosmunda di

Alfieri, che, a suo dire, lo interessa un po’ perché del tutto desueta, un testo

classico ma marginale, un po’ per la faccenda di Rosmunda che beve nel teschi del

padre, che la rende, al contrario, familiare.

Al fianco di Poli, che veste, naturalmente, i panni stessi di Rosmunda, c’è Marco

Messeri, come Romilda: Paolo Poli lavora di forbici sul testo, ma senza intaccare

la forma generale alfieriana, pur inserendo brani da Mozart e in generale dal

melodramma settecentesco.

Come era già accaduto per gli spettacoli tratti da autori “sacri” della nostra

letteratura, le critiche allo spettacolo sono state contraddittorie: qualche giudizio

scandalizzato per la libera interpretazione del testo e qualche entusiasta della

correttezza di fondo allo spirito alfieriano dell’opera.

1977/78 - Rita da Cascia

Nella stagione successiva Poli riprende lo spettacolo della Rita da Cascia, che

tanto scandalo aveva provocato nel ‘67, con diversi attori ma stesso impianto,

provocando di nuovo una discreta ondata di curiosità.

La censura però non é ancora caduta del tutto, e Poli é costretto ad evitare sia il

Veneto che tutta l’Italia del sud.

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1978/79 - Mezzacoda

Nel novembre del 78 Poli inaugura la stagione del restaurato Teatro Niccolini di

Firenze con un nuovo spettacolo, Mezzacoda.

Lo spettacolo ha un impianto all’apparenza completamente diverso da quello degli

spettacoli precedenti: niente boa di struzzo, niente abiti femminili, nessun altro

attore, nessuna trama, nemmeno pretestuosa. Sul palco ci sono soltanto Poli (in

frac nero nella prima parte, bianco nella seconda) e il pianoforte a cui fa

riferimento il titolo, alla cui tastiera siede Jaqueline Perrotin.

In realtà Mezzacoda é quasi un riassunto dell’attività precedente di Poli: l’uomo

solo sul palco, la sua voce e la sua capacità evocativa per interpretare lo

sciocchezzario del nostro secolo dai primi anno fino agli anni sessanta con puntate

indietro nel tempo, come per la composizione di tale Gaspare Murtola, nemico

giurato del Marini, il quale si ingegnò a rimediare una lista completa dei doppi

sensi sull’archibugio. Ma, per la maggior parte, si tratta del repertorio di sempre,

una parte dedicata al mito della “Belle dame sans merci”, il mito salottiero della

donna fatale, ma anche I canarini delle Canarie (che sono “bestiole proletarie”) e

così via, a completare il monumento alla stupidità del nostro secolo.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 67

Tra il maggio e il giugno del ‘79, Poli porta in scena al Niccolini , e soltanto lì,

L’Morino, una commedia in dialetto fiorentino scritta negli anni ‘20 da Bruno

Carbocci. Poli (che interpreta la nonna buona) rinverdisce la storia di Pel di carota,

e ci mette dentro le canzoni di Spadaro: con lui un gruppo di otto attori tra cui

Marco Messeri, Carlo Monni, Donato Sannini, Paolo Pieri.

1979/80 - Mistica

Nel frattempo Poli progetta, per la stagione ‘79/80, uno spettacolo in cui fare tutto

completamente da solo, rinunciando perfino al pianoforte. Per l’occasione tira

fuori dal cassetto un testo di Fogazzaro, Nadejde, ne cambia il titolo in Mistica e

riduce l’impianto scenico all’essenziale: due bauli di abiti, sei tecnici che lo

aiutino a cambiarsi nel giro di 30 secondi.

In Mistica Poli interpreta sette personaggi, e precisamente: Tatiana (fulgida

principessa), Gerard principe De La Roche Plessy (suo marito, un reprobo

galante), Nadejde (piccola anima diafana, loro figlia), Cadorini (segretario, poeta e

cultore dell’Ideale), Fraulein Paula (istitutrice di bellicose virtù), Granduca Ivan

(seduttore di sangue reale), Lucia (vezzosa servetta dal cuore gentile). Poli, unico

interprete, monologa davanti ad un fondale dipinto, rivolto al pubblico, oppure con

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sagome di cartone delle altre facce di se stesso: e ad ognuno dei suoi interventi dà

la consistenza di un numero da music-hall, da chiudere con una canzoncina.

Unanimemente elogiative le critiche per questo spettacolo che forse più di ogni

altro ha esaltato le qualità di Poli.

1981 - Paradosso

Nella primavera dell’81 Maurizio Scaparro invita Poli a partecipare, nell’ambito

della Biennale Teatro, al carnevale del ‘700, della ragione: e per Poli, uomo che

ama ribaltare il senso comune, l’unica stravaganza che pare opportuna é il rigore,

la norma: Sceglie dunque per questa occasione un testo di Diderot, il celeberrimo

Paradoxe sur le comédien; da qui il titolo, Paradosso.

Sul palco con lui c’é di nuovo la sorella Lucia.

Nella prima parte dello spettacolo i due attori, disposti su lettini gemelli, prima in

pigiamino bianco, poi in costume da doccia e in accappatoio, citano a turno brani

del testo diderottiano.

La parte più riuscita però pare essere la seconda dove, abbandonati i toni

settecenteschi, i due tornano ai temi a loro più cari, ossia alla canzone e soprattutto

alla poesia del primo ‘900, Gozzano e Palazzeschi.

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Nella stagione successiva infatti Poli riprende lo spettacolo, sfrondandolo però

della parte più strettamente legata a Diderot, e ampliando invece la parte dedicata a

Palazzeschi e a Gozzano.

1982/83 - Bus

Nella primavera dell’82 Poli é a Roma per replicare Soirée Satie. Alla Sala

Umberto vanno a trovarlo Mario Cadalora e Egisto Marcucci, rispettivamente

presidente e direttore artistico dell’ATER, con la proposta di mettere in scena

Esercizi di stile di Raymond Queineau, un singolarissimo libro del ‘46, che

enumera 99 stili differenti per esporre lo stesso soggetto, in questo caso la

banalissima perdita di un bottone sull’autobus.

Poli accetta e contatta Umberto Eco, che stava traducendo l’originale francese per

la Einaudi; con il testo alla mano, lo taglia, lo smonta e lo ricompone come in

un’operazione dadaista.

Mentre l’autore ha giocato sulle dissonanze, sull’accostamento di brani popolari o

dotti, brevi o lunghi, Poli ha lavorato per assonanze di epoca o di argomento,

legando ad esempio tra loro gli stili con giochi di parole. In più bisognava

inventare un luogo unitario d’azione, e Poli sceglie di rappresentare l’esterno di un

autobus: Lo spettacolo infatti ha come titolo Bus.

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Anche qui Poli impersona una quantità di personaggi diversi, estratti da ogni epoca

e stile.

1983/85 - Magnificat9

Dopo uno spettacolo tratto da un testo contemporaneo, nelle stagioni successive

Poli ritorna a fare riferimento a testi del passato con uno spettacolo intitolato

Magnificat: egli satireggia questa volta il periodo della controriforma, intriso di

Timor Dei e di Cristi sanguinolenti, ma contrassegnato anche dal passaggio dal

sistema tolemaico a quello Copernicano e dalle grandi scoperte scientifiche.

Nei panni di un abate, Poli impartisce lezioni di pederastia a quattro chierichetti

intenti a dire i dubbi amorosi dell’Aretino, poi, sempre nei panni di un monaco,

fronteggia un quartetto di vecchi cardinali, discutendo di sesso con i trattati di

Bembo, Petrarca e di alcuni autori vicini a Marino.

Tra gli altri autori che Poli saccheggia per il suo Magnificat c’è Ferrante

Pallavicino (divorzio celeste ed elogio della pederastia) e vari testi di gesuiti, ma

anche scritti minori di autori come Rabelais, Galileo ed il già citato Aretino. Le

scenografie sono di Umberto Bertacca, i costumi di Santuzza Calì.

9 Patalogo 8, 1985, p.57

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1985/86 - Cane e gatto10

Per la stagione 85/86, Poli torna a far compagnia con la sorella Lucia, con la quale

costruisce uno spettacolo che è un viaggio attraverso il novecento i cui

protagonisti, invece che uomini sono animali: da qui il titolo, Cane e gatto,

appunto.

Il testo dello spettacolo, che per la scrittura si avvale come sempre dell’aiuto della

Omboni, si compone di brani di autori novecenteschi, a partire dall’amato

Palazzeschi, già usato per Paradosso, per proseguire con Il mare delle blatte di

Tommaso Pandolfi, con Riccardo Bacchelli di lo sa il tonno e Storie della

preistoria di Moravia. I due attori sono intervenuti con discrezione sui testi, non

manipolando ma soltanto analizzando attentamente la struttura letteraria e il senso

delle parole, secondo un’ottica teatrale.

Durante lo spettacolo si intrecciano dunque la palazzeschiana battaglia tra le

farfalle, frivole e gaudenti, e le laboriose formiche, e l’amore sbagliato della

gallina Pompona per il promettente gallo Zarù, proditoriamente accapponato; e

ancora la tenera vicenda d’amore di due giovani tonni inesperti finiti nella

mattanza e l’orrido mondo descritto da Landolfi, l’assurda crociera in un mare

coperto di scarafaggi.

10 Il Tirreno, Giovedì 21 novembre 1985

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 72

Una parte fondamentale è quella affidata alle canzoni, scelte da Jacqueline

Perrotin, che costituiscono un osservatorio impietoso del costume nazionale del

nostro secolo: si passa dai classici Ferriera, Miniera, Sotto l’ombrellino, ai

contemporanei Celentano, Gaber, Al Bano e Romina, Rettore, riproposti

ovviamente in stile Poli. I due fratelli attori recitano circondati da bambole,

burattini e pupazzi creati da Santuzza Calì, ambientati nella scena vagamente

leonardesca di Lorenzo Tornabuoni.

Nella stagione successiva, Poli riprende questo stesso spettacolo e quello della

stagione ancora precedente, Magnificat.

1986/88 - Farfalle11

Per lo spettacolo prodotto nella stagione 1986/87, Poli si ispira di nuovo ad un

autore italiano del primo novecento: si tratta questa volta di Guido Gozzano,

nostalgico delle “buone cose di pessimo gusto”, ma anche di cocottine. Attraverso

le poesie di Gozzano, Poli traccia l’ennesimo ritratto dell’Italia di inizio secolo in

cui, tra sentieri, biciclette e sensibilità campestri popolate di farfalle (da cui il

titolo dello spettacolo, farfalle, appunto) spunta il Gozzano più gaudente e

morboso.

11 Patalogo 10, 1987, p.103

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Che sia nei panni di un pipistrello tutto d’oro o della matrigna di Biancaneve, che

sia Nefertiti o Cleopatra, odalisca o dea Kalì, Poli canta negli sgargianti abiti

disegnati da Umberto Bertacca, adattando appena le canzoni d’epoca che scoprono

con innocenza il loro lato turpe, sia quando mostrano il lato porcellone di una

borghesia che si voleva serissima ed austera, sia quando ne svelano la sua tendenza

irresistibilmente guerrafondaia e sfruttatrice; esercito, guerra, famiglia, famiglia

reale, progresso e demagogia, gerarchie e illusioni coloniali, Poli tritura tutto per

restituirlo al pubblico con una leggerezza piena di ironia.

Nella stagione 1987/88 riprende Mistica, lo spettacolo prodotto nella stagione

1979/80 ispirato alla Nadeide di Fogazzaro12

1988/90 - I legami pericolosi13

Il 1988 è l’anno de I legami Pericolosi, testo sacro del libertinaggio settecentesco:

è la terza volta che il romanzo epistolare do Choderlos de Lactos diviene in Italia

spettacolo teatrale14.

Nella versione prodotta da Poli, oltre all’attore, vi è nei panni dell’altra autrice

delle lettere Milena Vucotic; tutti e due armati dall’inizio alla fine di uno scrittoio

12 Vedi p.67 13 Patalogo 12, 1989, p.99 14 Durante la stessa stagione gira per i teatri italiani una versione dello stesso romanzo interpretata da Umberto Orsini e Pamela Villoresi.

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portatile “a gamba”, cambiando parrucca e costumi dal celeste cenere al rosa

cipria, il loro settecento postale diventa, senza tradire l’originale e la temperie da

cui nasce, un repertorio di desideri e frustrazioni dell’eros universale. I due attori

sono attorniati sul palco da quattro mimi intenti a fare tableaux vivants di

orientalerie da figurina, a ballare minuetti forestali oppure a mimare parabole

edificanti di cervi circondati da lupi e destinati a perire sotto i dardi di Diana

cacciatrice. Questa è una delle uscite della Marchesa Vucotic-Merteuil, che ogni

tanto abbandona la penna per gustosi travestimenti dal vivo.

E il finale, per restare in tema di libertinaggio, assume i toni del Don Giovanni

mozartiano, dato che lo spettacolo intero poggia sulle musiche colte e maliziose

scelte come sempre da Jacqueline Perrotin.

1990/92 - Il coturno e la ciabatta15

Con Il coturno e la ciabatta Poli inaugura una formula che rimarrà intatta per tutti

gli spettacoli seguenti, a partire proprio da La leggenda di San Gregorio, prodotto

nella stagione ‘92/’93 e replicato in quella successiva, per proseguire con L’asino

d’oro (stagione ‘95/96 e ‘96/97) fino anche all’ultimissima produzione, I viaggi di

Gulliver. Innanzi tutto questo spettacolo segna l’inizio di una stabile

15 Patalogo 14, 1991, p.101

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collaborazione con un amico di vecchia data, conosciuto ai tempi de La borsa di

Arlecchino: Lele Luzzati. Anche la formula rimane sostanzialmente immutata in

tutti e quattro gli spettacoli: identico l’impianto scenografico (fondali dipinti da

Luzzati, la stessa pedana), identica anche la struttura stessa dello spettacolo con

quadri monologati che si alternano a quadri mimati e muti16.

Lo spettacolo è tratto da Narrate uomini la vostra storia, di Alberto Savinio, da cui

Poli ha estrapolato cinque “busti al Pincio”, scolpiti da Savinio con l’elegante e

appuntito cesello della prosa d’arte: si tratta dei ritratti di Felice Cavallotti, Isadora

Duncan, Giuseppe Verdi, Paracelso, Vincenzo Gemito a cui Poli ha anche

aggiunto l’introduzione a Capitan Ulisse e ad Amore e Psiche.

Per una volta Poli non ha scelto un autore da sbeffeggiare ma uno verso il quale

sente di avere delle profonde affinità, in uno stile leggero che sprofonda in

citazioni colte e in quel gusto dell’ibrido che unisce gli opposti in un’atmosfera di

quotidianità surreale, come nei quadri di Savinio, in cui si vede gente che fa il

bagno in un parquet di legno pieno di onde, o un babbo che somiglia ad una

poltrona (il poltrobabbo), o scollature da cui emerge una testa di struzzo.

Nella stagione successiva Poli produrrà e reciterà La leggenda di San Gregorio.

16 In I viaggi di Gulliver questa struttura subisce delle piccole variazioni grazie alla persenza di un altro giovane attore comico, coprotagonista di Poli, nelle vesti di Gulliver: Pino Strabioli.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo

Notizie relative allo spettacolo

La sera del 5 Novembre 1992 Paolo Poli rappresenta per la prima volta a

Pistoia, al teatro Manzoni, La Leggenda di San Gregorio.

Si tratta di uno spettacolo in due tempi tratto da un poemetto medievale

composto dal monaco tedesco Hartmann von Aue intorno al 1200 che aveva già

ispirato Thomas Mann, che di Gregorio fece, alla metà di questo secolo, il

protagonista di uno dei suoi ultimi romanzi: L’Eletto. Per l’autore tedesco uscito

dagli orrori della guerra e del Nazismo, rappresenta “l’insicurezza di fronte ai

limiti che nella vita degli uomini dividono l’idea del bene da quella del male e le

forme in cui essi credono di saperli riconoscere” 17.

L’adattamento è stato prodotto a quattro mani con Ida Omboni18.

17 L. Ritter Santini, Introduzione a L’Eletto, di Thomas Mann, Milano, Mondadori, 1979, p.8 18 La collaborazione di Poli con Ida Omboni risale al 1962, quando Poli mette in scena la contestatissima Rita da Cascia, testo scritto dalla Omboni e continua ancora oggi senza aver subito alcuna interruzione.

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Per la realizzazione delle scene Poli si è affidato, come spesso aveva fatto anche

in precedenza19, ad uno dei maggiori scenografi italiani, Emanuele Luzzati, che

ha ideato e dipinto 14 fondali. I costumi sono di Santuzza Calí , le maschere di

Gabriella Saladino, entrambe legate al gruppo di lavoro di E. Luzzati, le musiche

curate da Jaqueline Perrotin, le coreografie di Claudia Lowrence, tutti sono negli

ultimi anni collaboratori abituali di Poli.

Sul palco affiancano il protagonista quattro giovani mimi: Marco Magno, Luca

Pietrantoni, Rosario Spadola e Daniele Vitali.

Dalla tabella delle piazze, compilata dalla Essevuteatro, l’agenzia di

coordinamento e programmazione teatrale di cui la compagnia Poli si è avvalsa

per l’organizzazione della stagione, risulta che nell’arco della stagione 1992/93

lo spettacolo è stato rappresentato, oltre che nella città di Pistoia, dove

tradizionalmente Poli rappresenta la prima dei suoi nuovi lavori, a Firenze

(Teatro Niccolini dal 10/11 al 20/12), Imola (Teatro Comunale, dal 21/12 al

27/12), Torino (Teatro Carignano, dal 28/12 al 10/1), Bologna (Teatro Testoni,

dal 14/1 al 24/1), Ferrara (Teatro Comunale, dal 26/1 al 31/1), Reggio Emilia

(Teatro Ariosto, dal 2/2 al 7/2) , Budrio (il 9 e il 10/2), Lucca (Teatro del Giglio,

19 In particolare per Il coturno e la ciabatta, e successivamente per L’asino d’oro e I viaggi di Gulliver

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 78

dal 11/2 al 14/2), Roma (Teatro Valle, dal 16/2 al 7/3), Modena (Teatro Storchi,

dal 9/3 al 14/3), Cesena ( Teatro Bonci, dal 16/3 al 21/3), Piacenza ( Teatro

Municipale, dal 23/3 al 25/3), Parma (Teatro Regio, dal 26/3 al 28/3), Venezia

(Teatro del Lidotto, dall’ 1/4 al 25/4).

Una breve presentazione nel programma di sala serve in parte a chiarire la scelta

di un testo che a prima vista può risultare estraneo al repertorio classico di Poli,

ispirato soprattutto a testi dell’ottocento e del primo novecento.

Ai tempi dei tempi, ed erano bei tempi, la televisione non c’era. Non c’erano

neanche gli altri massmedia per la buona ragione che non erano stati inventati.

Per divagarsi la gente, salvo pochi privilegiati, aveva solo qualche leggenda,

molte favole e soprattutto le storie dei Santi.

Il grande intrattenimento era la predica domenicale. Ma nessuno si annoiava

perché la fantasia, che allora non era “off limits”, portava istintivamente a

mescolare , creando una infinità di variazioni: dall’horror all’erotico, dal

feerico all’avventuroso.

E i religiosi, anche i più dotti e severi, non si scandalizzavano affatto di queste

contaminazioni, anzi ne approfittavano allegramente, quando addirittura non le

inventavano per divulgare le loro tesi mistiche, teologiche e ovviamente

moralissime.

Come fece fra i tanti il pio monaco tedesco Hartmann von Aue che intorno al

1200 raccontò in versi serafici e naifs, la vita di San Gregorio Papa creando,

con la disinvoltura di un regista hollywoodiano, la prima saga religiosa alla

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 79

paprika. Beninteso per dimostrare che Dio ama in modo speciale i peccatori,

perché faticano tanto più dei buoni a fare il bene.

La sua è una vicenda variegata e bizzarra che si snoda tra teneri amori e truci

malvagità, fra incesti, guerre e pargoletti abbandonati.

Ed è ricco non solo di poesia, ma di acuti risvolti attuali che confinano

largamente con la visione psicoanalitica.

Questo perché il buon fraticello, per dar vita ai suoi personaggi, ha scavato a

fondo nella natura dell’uomo che, nelle sue luci e nelle sue ombre, è sempre

nuovissima e sempre uguale a se stessa.

Da questo affascinante spunto è nata una favola teatrale incantata e giocosa, un

divertito e divertente cocktail di malizia, meditazione e comicità, dove il clima e

l’ambientazione sono affidati a balletti e canzoni d’epoca.

Uno spettacolo come sempre a doppia lettura: scherzoso per chi cerca

distensione, e ricco di intriganti allusioni culturali per chi non sdegna di

pensare.

Rivelandosi ricco di intrighi e di passioni, di nefandezze e pentimenti La

Leggenda di San Gregorio non è poi molto diversa da Carolina Invernizio20 e

dimostra che la “natura dell’uomo (...) è sempre nuovissima e sempre uguale a se

stessa”21.

Affiora con evidenza il carattere favolistico che Poli ha inteso dare al suo lavoro.

20Ida Omboni e Paolo Poli, Carolina Invernizio!, Milano, Milano Libri Edizioni, 1970 21dal programma di sala de La Leggenda di San Gregorio, stagione 1992/93, copia consultata presso la Biblioteca del Burcardo, Roma.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 80

Le favole hanno una morale, palese o nascosta, che affonda le sue radici nelle

miserie e negli splendori dell’uomo. Quella di Hartmann von Aue è che “Dio

ama in modo speciale i peccatori, perché faticano tanto più dei buoni a fare il

bene”. Poli si ripromette invece di far riflettere lo spettatore sull’ipocrisia di

certa bontà.

L’impianto scenografico dell’intero spettacolo, del tutto simile, come struttura, a

quello dello spettacolo precedente di Poli, Il coturno e la ciabatta, e a quello

degli spettacoli delle stagioni successive, L’asino d’oro e I viaggi di Gulliver, è

costituito soprattutto da grandi fondali e da quinte dipinte da Emanuele Luzzati,

che vengono issati, proprio come le vele delle navi, tramite un congegno di funi

e carrucole. Si aprono tre uscite per ogni lato: una a ridosso del fondale, una a

metà e una verso il proscenio. L’unico altro elemento scenografico presente è

costituito da un praticabile di colore azzurro, alto circa 50 cm che corre lungo

tutta la parete di fondo del palco e che degrada in due lunghi scalini verso il

pubblico; ai lati, più alte ( in tutto circa 1 metro) ma comunque unite al

praticabile, due scale con 5 scalini, sempre azzurre. Tale struttura permane per

tutta la durata dello spettacolo, dove il piano rialzato, otticamente quasi

inglobato dalle prospettive dipinte dei fondali, distingue di volta in volta i vari

spazi.

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ATTO I

Scena Prima “il cortile del palazzo”

Quadro unico “I duchi non possono avere figli”

All’apertura del sipario sulle lunghe scale frontali del praticabile stanno seduti

due personaggi: Il Duca e la Duchessa.

Entrambi sono vestiti con ampi abiti, di tonalità rosso scuro quello della donna,

verde scuro quello dell’uomo, con un grande mantello rosso: non è possibile

riscontrare una somiglianza con abiti e acconciature di epoca definita, se non

estremamente vaga. L’epoca richiamata alla memoria, per quanto lievemente

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 82

ispirata al medioevo, è quella che nelle favole segue spesso il “c’era una volta”,

ossia un non meglio definito “tanto tempo fa”, un tempo indefinibile e irreale.

Come gran parte dei personaggi dello spettacolo, il duca e la duchessa hanno il

volto coperto da una maschera. La maschera della duchessa, di colore naturale,

in cui spiccano soprattutto le macchie nere degli occhi, non è particolarmente

caratterizzata; quella del duca essendo fornita di barba, baffi e sopracciglia

bianchi, è tale da caratterizzare soprattutto il fattore età.

I due personaggi sono facilmente individuabili come nobili sia grazie alle

maschere, senza espressione particolare, sia dagli abiti, sontuosi e ricchi, dotati

di copricapi e ampi mantelli.

Poli ha fatto di questo spettacolo una sorta di paradigma di varie tecniche

spettacolari e recitative, includendo non solo scene dialogate o monologate, ma

anche una quantità di scene mute, per le quali le tecniche naturali sono il mimo e

la pantomima: due tecniche che nel corso del ‘900 hanno dato vita ad un intenso

dibattito che ha coinvolto, grazie ad Artaud22, l’essenza stessa del teatro

occidentale, un dibattito teso a confrontare e spesso ad opporre un teatro fondato

sulla parola ad uno basato invece sull’azione e sul gesto.

22A.Artaud, La messa in scena e la metafisica, in Il teatro e il suo doppio, Torino, Einaudi, 1972. pp 151-164

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 83

Di questo dibattito e di come la pantomima degli attori del La Leggenda di San

Gregorio vi si inserisca, avrò modo di parlare più pertinentemente nell’analisi

della Scena III23; in questa prima scena la regia ha propeso per un mimo molto

lineare e assolutamente non realistico che, come nella più recente tradizione,

rinuncia alla mimica facciale, del tutto pietrificata dietro maschere inespressive,

ma privilegia il rapporto con il linguaggio verbale, assente in questa scena, ma

vero referente diretto di ogni azione, costituita da pochi gesti ampi e puliti, il cui

significato arriva diretto al pubblico senza rischiare di essere nascosto o confuso

dietro altri segnali minori.

Il movimento scenico è talvolta guidato dal ritmo musicale al punto di creare

momenti al limite tra mimo e danza.

Questa scena è un vero e proprio prologo, per mezzo del quale il pubblico viene

introdotto con pochi gesti nell’ambito della storia.

Come ogni prologo deve essere breve, contratto nel tempo e estremamente

chiaro.

Le informazioni di cui il pubblico ha bisogno per entrare poi nel vivo della

vicenda sono, in fondo, poche ma fondamentali: ogni gesto di questo prologo

coincide perfettamente, e senza sbavature o informazioni aggiuntive, con una

informazione.

23 vedi p.Errore. L'origine riferimento non è stata trovata. Errore. Il segnalibro non è definito.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 84

All’apertura del sipario, il vecchio Duca accarezza per due volte sulla guancia la

sua sposa: sono carezze dal gesto ampissimo, esasperato, che ci raccontano di

un uomo ed una donna tra cui esiste un rapporto di affetto.

Se il primo gesto chiarisce il rapporto che intercorre tra i due personaggi sulla

scena, l’azione successiva si colloca per un attimo al di fuori del racconto e

delinea un rapporto diverso, ma dal punto di vista registico, fondamentale .

I due personaggi si alzano e per mano avanzano verso il proscenio, quindi si

inchinano di fronte al pubblico.

Questo inchino è importante soprattutto per il suo valore linguistico: si tratta di

una vera e propria interpellazione che rende evidente l’esistenza di un

destinatario del racconto ( quello che la narratologia moderna definisce con il

termine narratario), il pubblico, a cui gli attori, già dalla prima scena si

rivolgono direttamente; questa scelta mette Poli in contrasto con una delle regole

fondamentali del teatro borghese24, teatro che ha dominato le scene italiane per

tutto l’ottocento e, salvo alcune eccezioni, per gran parte del novecento, e che, in

una certa misura resiste ancora oggi.

24 Per le caratteristiche principali del teatro moderno o borghese vedi P.Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1972, pp.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 85

Per il teatro borghese una delle caratteristiche fondamentali è l’assolutezza25: lo

spettacolo è concepito come qualcosa a se stante che accade hic et nunc e che

prescinde totalmente sia dal proprio autore, che dagli attori che ne incarnano i

personaggi, che dal pubblico, ridotto al ruolo di semplice voyeur dall’esistenza di

una immaginaria quarta parete che chiude il dramma in se stesso oltre gli

spettatori.

Questo semplice gesto dei due personaggi del San Gregorio, questo inchino al

pubblico, rompe la quarta parete ( o meglio ne sottolinea la non esistenza) e

chiarisce ed evidenzia il carattere non di verità ma di finzione di ciò che accade

sulla scena.

Il teatro borghese ha abituato il pubblico a dimenticare la propria presenza come

destinatario, e quindi come soggetto fondamentale (e pensante, quindi in un certo

qual modo attivo) del dialogo teatrale.

Intendo per dialogo teatrale non quello tra i personaggi in azione sulla scena, ma

quello fondamentale tra autore e pubblico.

Rendere al pubblico la propria dignità di soggetto, partecipe della dinamica

spettacolare, non solo fa di ogni spettatore un soggetto attivo e critico, cosa che,

come si renderà più evidente nelle scene successive, è comunque fatto di

fondamentale importanza, ma ha l’effetto di rendere evidente anche l’altro

25P.Szondi, op. cit., p.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 86

soggetto del dialogo, colui che parla, che racconta, cioè il regista, in questo caso

vero autore totale dello spettacolo, di cui è anche adattatore (insieme alla

Omboni) e protagonista, quindi referente e interlocutore visibile e diretto per il

pubblico.

Molte altre scelte registiche dello spettacolo (la cui analisi rimando a scene più

significative) vanno nella direzione di un teatro che, ben lontano dal puntare alla

mimesi e all’immedesimazione dello spettatore, cerca tramite tecniche

spettacolari (a partire dalle maschere stesse, dal rivolgersi direttamente al

pubblico, alla canzone e alla danza) un effetto di straniamento26.

Nel terzo frammento narrativo della prima scena i due personaggi, dopo aver

accennato un gesto di dolore, tornano verso il fondo del palco, salgono i gradini

della pedana e da dietro le paretine rialzate ai lati della pedana stessa prendono

ognuno un cavolo, quindi a turno lo alzano e scuotono il capo.

Per la prima volta l’azione scenica racconta una parte sostanziale della vicenda

(i primi due movimenti avevano presentato i personaggi e chiarito il loro

rapporto con il pubblico) : i due duchi non riescono ad avere figli.

26B.Brecht, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1962, p.

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In una scenografia che non comprende nessun tipo di oggetto decorativo o di

suppellettile, gli oggetti che compaiono in questo frammento scenico assumono

un valore linguistico particolare, del tutto simile a quello che assumono i gesti.

Trattandosi di elementi fondamentali per la comprensione da parte del pubblico

del significato della scena, il loro significato deve essere pulito e chiaro; gli

oggetti vengono tenuti nascosti, quindi mostrati al momento in cui servono per

comunicare il concetto ( il desiderio e l’impossibilità di avere figli per i cavoli,

ma stesso discorso si può fare per la cicogna che compare nel frammento

successivo e per i due bambolotti vestiti di rosa e celeste del finale della scena) e

poi di nuovo occultati alla vista, perché non confondano con il loro significato,

ormai comunicato e acquisito, il resto della scena ( ad esempio i due cavoli

vengono mostrati, accompagnando il gesto con un eloquente scuotere di capo,

quindi riportati in quinta).

Poli si serve dunque degli oggetti come di frasi di un linguaggio visivo, facendo

caso a rendere questo linguaggio il più chiaro e comprensibile possibile, per

facilitare al pubblico la lettura di una scena, muta e recitata da attori cui la

maschera impedisce la comunicazione per mimica facciale.

È ancora per una volontà di chiarezza che Poli sceglie di usare oggetti che sono

saldamente nell’immaginario collettivo e il cui significato risulta

immediatamente chiaro a chiunque.

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Dopo aver riportato i cavoli dietro le quinte, i due duchi tornano alle scalette

della pedana e, inginocchiati spalle al pubblico, pregano, rivolti alla chiesetta

rosa dipinta sul fondale.

Pochi istanti dopo, dalla quinta di destra compare uno dei mimi in maschera di

cicogna con nel becco un fagottino da cui spuntano due testine rosse.

In tutto il resto della scena il movimento da semplice mimo diviene quasi danza,

al ritmo marcato della musica.

La cicogna attraversa tutto il palco, passando alle spalle dei due Duchi in

preghiera, sale sulla pedana dalle scalette di sinistra per passare quindi davanti ai

due che si lanciano in una animata mimica di gioia e sorpresa; la cicogna

continua a danzare sbattendo le ali a ritmo della musica: l’ingresso della nutrice

dalla quinta di destra imprime un moto diverso alla danza: la cicogna fugge

inseguita dalla nutrice, seguita a sua volta dalla duchessa e dal duca, in una sorta

di girotondo che si interrompe solo con l’uscita della cicogna e della nutrice

dalla quinta di sinistra.

La nutrice è il primo personaggio popolare che si incontra all’interno dello

spettacolo: veste un abito panna, non troppo lontano dall’immagine della nutrice

primo novecento, non molto ampio e con una giacchettina avvitata giusto sotto il

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 89

seno e una cuffia, quella si ampia (anche perché abbastanza caratteristica della

figura della balia).

La maschera, a differenza da quella dei due personaggi nobili, è caratterizzata da

tratti somatici forti, un’ampia fronte scoperta, un grosso naso, ma soprattutto un

evidente doppiomento e un neo molto marcato.

Rimasti soli i due Duchi si abbracciano, e rivolgono ancora gesti di gioia alla

volta del pubblico; la nutrice rientra con in braccio due bambolottini, infagottati

rispettivamente in fasce di colore rosa e celeste, che consegna nelle braccia dei

genitori.

Anche in questa parte la scena mantiene i ritmi della danza, con coreografie

estremamente semplici ma precise: i due Duchi tendono verso il cielo i bambini,

e compiono numerose giravolte su loro stessi, facendo roteare gli ampi abiti,

mentre la nutrice rimane ferma al centro, un po’ più arretrata, macchia bianca tra

le due macchie di colore forte degli abiti degli altri personaggi.

Dopo aver cullato, sempre a ritmo di musica, i due bambini, tutti escono dalla

quinta di sinistra.

Questa prima scena dovrebbe corrispondere ai versi 178-184 del poemetto del

monaco tedesco Von Aue27:

27H.Von Aue, Gregorio e Il povero Enrico, Testo a fronte, traduzione italiana a cura di L.Mancinelli, Torino, Einaudi, 1989, p11.

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Giace in Francia una regione

che chiamata è Aquitania,

né dal mare essa è lontana.

Il signor di quella terra

generò dalla sua sposa

due fanciulli che d’aspetto

eran belli quanto mai,

un maschietto e una bambina.

Confrontando i versi che hanno ispirato questa prima scena dello spettacolo e la

scena stessa si evidenzia quanto importante sia stato l’intervento di Poli e della

Omboni sul testo nella direzione della favola: nel testo di Von Aue, infatti, non

vi è alcun accenno alla difficoltà dei due Duchi ( da Von Aue definiti soltanto

signori ) ad avere figli, difficoltà su cui invece è incentrata tutta la scena che fa

da prologo allo spettacolo.

Anche ne l’Eletto, di Mann, si trova questa stessa aggiunta al testo del poema: a

pagina 31 si legge:

Una sola cosa [...]mancava per render perfetta la loro felicità: i figli. E quante

volte non si vedevano i due coniugi inginocchiarsi l’uno accanto all’altro sui

cuscini di velluto e levate le mani al cielo, invocando la grazia sempre

rifiutata!28

28 T. Mann, L’Eletto, Milano, Mondadori, 1979, p.31

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Risalendo ancora più indietro, credo che la fonte di questa piccola aggiunta si

può ritrovare facilmente nella tradizione favolistica, ricchissima di coppie di re

che ottengono la loro prole solo dopo anni di sofferenze e di preghiere29.

Un altro particolare di cui tenere conto in vista dell’analisi delle scene seguenti è

la prima comparsa sulla scena dei due bambini, il Duca e la Duchessina, che

assumeranno un ruolo da protagonisti nelle due scene successive; li si vede

prima come due testoline che sporgono dal fagotto portato in bocca dalla

cicogna, poi come due bambolotti in fasce e gale, affidati dalla nutrice al Duca e

alla Duchessa.

Il tratto che li contraddistingue, e che continuerà ad essere un fattore distintivo

forte per tutto lo spettacolo, è una nota di colore: i capelli di un rosso acceso, una

sorta di marchio di famiglia che non solo caratterizza i due fratelli, ma che i due

passeranno anche al figlio Gregorio.

29Cito, soltanto a titolo di esempio una delle molte favole che prendono spunto da questo tema: Una volta c’era un Re e una Regina, e non avevano figli; e per ciò la Corte era come in lutto, tutti disperati. La Regina pregava notte e giorno, ma non sapeva più a che Santo votarsi, perchè tutti i Santi facevano i sordi, e finalmente un giorno pregò così:- Madonna mia, fammi avere una figlia anche se fosse per farmela morire a quindici anni per essersi punta col fuso! Ed ecco che si mise ad aspettare e le nacque una bambina che era una bellezza. [...] La bella addormentata e i suoi figli in A.A.V.V., Fiabe italiane, vol.II, a cura di I.Calvino, Torino, Einaudi, 1956. p.562

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 92

Scena Seconda “l’unicorno”

Quadro unico “Monologo del racconto”

Nella seconda scena si attua per la prima volta una alternanza tipica dell’intero

spettacolo, quella tra scene mute e mimate e scene in cui invece la parola, in

questo caso il racconto, ha un ruolo predominante.

Paolo Poli , solo sul palco per tutta la scena, riveste il ruolo di narratore e lo fa

nei panni di un monaco.

La figura del Frate Narratore, che caratterizza molte scene all’interno dello

spettacolo, deriva probabilmente dalla fusione di due figure di frate: la prima è

certamente quella di Hartmann Von Aue, chierico tedesco di cui si conosce ben

poco, autore del poemetto da cui lo spettacolo è tratto. L’altro, figura ben più

interessante dal punto di vista narrativo, creata dalla penna di T.Mann, è

Clemente d’Irlanda “ordinis divi benedicti”, narratore, o meglio “incarnazione

dello spirito della narrazione” ne L’Eletto.

Il romanzo di Mann esordisce con il risuonare delle campane a Roma, all’arrivo

di Gregorio, Papa voluto dal cielo. Per la tradizione il suonare di tutte le

campane di Roma senza che mano di campanaro toccasse le funi nei campanili

fu il segno della benevolenza di Dio nei confronti del nuovo Pontefice. Per

Thomas Mann l’unica mano che suona contemporaneamente tutte le campane

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 93

non è quella di Dio, ma quella dello spirito della narrazione, che con il solo dire

“le campane suonano” diviene colui che le suona.

Credo che sia interessante riportare l’intero brano:

Chi dunque suona le campane di Roma? - lo spirito della narrazione - può

dunque egli essere dappertutto, hic et ubique, può, per esempio, essere nello

stesso tempo sulla torre di San Giorgio in Velabro e lassù a Santa Sabina, che

conserva ancora le colonne dell’esecrabile tempio di Diana? Può suonare nello

stesso tempo in cento luoghi sacri? - certo, lo può. È aereo, incorporeo,

onnipresente, non legato allo spazio, non soggetto alle differenze del Qui e Là.

È lui che dice: “Tutte le campane suonano” e di conseguenza è lui che le suona.

Così spirituale è questo spirito e così astratto che di lui, grammaticalmente, si

può parlare solo nella terza persona e si può dire solo: “Egli è”. Ma questo

“Egli” può anche raccogliersi in una persona, e cioè nella prima, e

impersonarsi in qualcuno che in essa parla e dice: “Sono io. Io sono lo spirito

della narrazione che, seduto là dove ora mi trovo, e precisamente nella

biblioteca del chiostro di San Gallo, in terra alemanna, dove una volta sedeva

Notkero il balbuziente, racconto questa storia per divertimento e straordinaria

edificazione e comincio dalla sua fine gloriosamente santa e suono le campane

di Roma, id est, racconto che in quel giorno dell’ingresso tutte le campane

cominciarono a suonar da se stesse”30.

Vestendo i panni del frate, Poli porta sulla scena quindi non due soli personaggi,

ma tre: Von Aue, Clemente d’Irlanda e soprattutto lo Spirito della narrazione,

30 T. Mann, L’eletto, Milano, Mondadori, 1979, p. 24

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 94

che da lontano, con ironia e divertimento, e raccontando fa suonare le campane

di Roma, muove gli uomini come pupazzi lungo il loro destino.

L’abito che Poli indossa richiama facilmente alla memoria un saio da frate,

anche se non contiene alcun segno distintivo che lo associ ad un particolare abito

talare o ordine religioso: si tratta di una tunica bianco-panna su cui poggia una

lunga stola dello stesso colore ma fortemente sfrangiata e fornita di un grande

cappuccio adagiato sulle spalle.

Poli non indossa una vera e propria maschera, ma a caratterizzare il suo

personaggio basta una calotta di capelli grigiastri a richiamare la tonsura

fratesca.

Significativamente, le prime parole di questo spettacolo sono “C’era una volta”,

a confermare una volta di più che Poli ha inteso trattare la storia raccontata da

Von Aue come una favola.

Le parole che seguono sono un racconto fedele e puntuale della scena

precedente, Poli narra di nuovo il non poter avere figli dei due Duchi, il loro

dolore e le loro preghiere, infine l’arrivo di due gemelli: un bambino e una

bambina; prosegue poi con la morte della Duchessa di parto e con l’infanzia dei

due fanciulli, cresciuti nel reciproco affetto, fino al giorno in cui il padre li

chiama a se sul letto di morte.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 95

Fino a questo punto la narrazione è stata breve e lineare, semplicemente verbale,

un mero elenco di informazioni.

Nel frammento successivo Poli utilizza uno stratagemma scenico per

visualizzare la conversazione tra i due giovani Duchi e il padre morente.

Da un cubo azzurro, collocato nella posizione della buca del suggeritore, l’attore

estrae due burattini a guanto, con testa e mani rigide fissati su un supporto di

stoffa ed inseriti in due piccole scatole decorate come dei teatrini in miniatura.

Questi due burattini incarnano i due giovani, riconoscibili per i capelli rossi: la

conversazione si svolge tra i due burattini ( che parlano, è ovvio, con la voce di

Poli) e il volto di Poli, al centro, come padre morente.

Questa scena corrisponde alla vicenda narrata nel Gregorio nei versi dal 185 al

269, in cui il padre, sul letto di morte, si congeda dai nobili del suo regno e dai

due fanciulli, affidando al giovinetto la cura del regno e la tutela della sorella.

La scelta di Poli di servirsi di attori meccanici, ossia di burattini, in questo caso,

di marionette nel frammento scenico immediatamente successivo, è molto

significativa, sia dal punto di vista narrativo che da quello registico.

All’interno del tessuto narrativo, il fatto che i due personaggi che saranno il

motore delle scene successive e le cui azioni determineranno il nodo drammatico

di tutto lo spettacolo (l’incesto da cui nasce Gregorio e da cui parte la sua

vicenda) siano rappresentati non da attori ma da oggetti mossi da altre mani ( il

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 96

perché siano proprio le mani di Poli sarà argomento di riflessione nello studio

nella scena successiva), suggerisce allo spettatore che le loro azioni non siano

frutto di un libero arbitrio, ma che decise da altri, siano in qualche modo

necessarie.

Nel poemetto del monaco Von Aue è la volontà di Dio o l’opera del Diavolo a

decidere le vicende dei due giovani prima e di Gregorio poi; nello spettacolo del

laico Poli piuttosto la volontà di altri uomini, che si confronta con la cronica

ingenuità dei protagonisti, o la natura stessa dell’uomo che si scontra con i rigidi

dettami della morale e della società.

In questo caso i due giovani Duchi sono ancora troppo giovani e troppo

sottomessi alla volontà paterna per mostrare anche un solo barlume di volontà

propria: anche le vaghe proteste nei confronti del matrimonio, che il padre

prospetta come prossimo ad entrambi (argomento del tutto assente nei versi del

Gregorio, ma funzionale per Poli al frammento scenico successivo) non sono

che un pretesto per un paio di battute sul legame matrimoniale (“...se una moglie

fosse cosa buona, anche Dio ne avrebbe una!”).

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 97

Nel frammento scenico successivo i due giovani duchi sono di nuovo interpretati

da quelli che ho definito attori meccanici, in questo caso da marionette articolate

a livello delle spalle e del bacino.

Si tratta del momento che corrisponde ( in modo assai vago) ai versi dal 273 al

404 del Gregorio di von Aue, ossia la cruciale vicenda del concepimento di

Gregorio dall’incesto tra i due fratelli.

Quello che nel poemetto medievale avviene dopo il crescere per anni uno

accanto all’altro dei fratelli, dopo un desiderio covato al lungo dal giovane duca

e con un atto di forza di lui sulla sorella ( complice il diavolo ), nello spettacolo

di Poli avviene con naturalezza, quasi per caso, la sera stessa del funerale del

vecchio padre: dopo una schermaglia sulla possibilità di ognuno dei due di

andare a nozze con qualche nobile del regno, schermaglia in cui risaltano i toni

tipici della gelosia tra innamorati, i due prendono pian piano coscienza

dell’attrazione che li lega, basata soprattutto sul loro essere pressoché identici

(anche visivamente, le due marionette nude che rappresentano i due giovani

sono sostanzialmente identiche, fatta eccezione per i capelli di lui, un po’ più

corti, e il seno di lei, un po’ più evidente), tanto da concludere che “è

l’uguaglianza che appaga il cuore”: l’unione di due esseri identici in uno appare,

dalle loro parole come un evento ineluttabile.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 98

La differenza fondamentale tra il modo in cui trattano questa vicenda Poli e il

monaco tedesco, è che per Poli c’è l’intrigo ma non c’è il peccato, o meglio, il

peccato non ha dimensione morale ma soprattutto sociale: con una frase

chiarificatrice il Connestabile di corte avrà a dire che “è più di un peccato

mortale, è un errore mondano!”.

Nel frammento scenico precedente i due burattini non solo erano vestiti (o

meglio erano i vestiti, oggetti quasi privi di una loro fisicitá) ma erano anche

quasi completamente nascosti dalla loro scatola/teatro, il che sottolinea ancora di

più la loro irrealtà e la loro dipendenza da altri: come personaggi dalla figura

centrale del padre, come attori meccanici dalle mani che li muovono

dall’interno.

Le marionette nude del terzo frammento della scena hanno guadagnato una certa

libertà a diversi livelli: come attori meccanici una libertà che misura i trenta

centimetri di filo che le separano dalle mani di Poli; come personaggi un

affrancamento dal potere paterno che consente loro di essere nudi subito dopo il

suo funerale, una nudità che è libertà di essere e di fare ciò che non la società ma

la natura suggerisce loro una volta liberatisi dai vincoli dell’ipocrisia della vita di

corte.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 99

Dal punto di vista registico, la scelta degli attori meccanici va ancora una volta

nella direzione di un interpretazione favolistica del testo; la rigidità e la

schematicitá del burattino richiamano l’unidimensionalitá del personaggio delle

favole che manca di sfaccettature e di caratteri propri che non siano funzionali al

racconto: così come i personaggi delle favole, i burattini e le marionette

appartengono ad una realtà altra, che lo spettatore osserva, ma dalla quale si

sente distante, in cui non si identifica.

Anche una scena come questa che, rappresentata in modo realistico, avrebbe

potuto risultare coinvolgente e anche commovente per il pubblico, risulta invece

quasi comica grazie all’effetto straniante dato dall’uso di attori meccanici.

A proposito dello straniamento Brecht scrive:31

Il comportamento dei personaggi all’interno della vicenda non è alcunché di

tipicamente umano e invariabile, presenta invece certe particolarità, elementi

superati o superabili nel corso della storia, ed è soggetto a critica per che si

ponga dal punto di vista dell’epoca immediatamente successiva. [...] E questa

presa di distanza che lo storico compie verso avvenimenti e modi di vivere del

passato, l’attore deve compierla verso gli avvenimenti e modi di vivere del

presente: deve cioè straniare ai nostri occhi quei fatti e quelle persone.

Fatti e persone della vita di ogni giorno, del nostro ambiente più immediato

hanno per noi qualcosa di naturale, appunto perché usuale: lo straniarli serve a

renderli inusitati.

31B. Brecht, Scritti Teatrali, Torino, Einaudi, 1962, p.77

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 100

Lo straniamento di Poli si serve delle marionette per allontanare dal pubblico i

fatti che la scena rappresenta e per renderli inusuali in modo che il pubblico non

possa identificarsi con quei personaggi, ma piuttosto guardarli e giudicare le loro

azioni da lontano.

L’uso dei burattini e delle marionette sembra essere quasi una estremizzazione

delle teorie brechtiane.

La tecnica dello straniamento dovrebbe far si che l’attore non si identifichi con il

personaggio ma che lo mostri al pubblico perché questo possa osservarlo e

giudicarlo: in questa scena l’attore non si limita a portare il suo personaggio e a

mostrarlo come se fosse una burattino, qui il personaggio è un burattino.

Nell’ultima parte della scena Poli propone per la prima volta un modello che

riprenderà, a cadenze più o meno regolari , per tutto l’arco dello spettacolo32: si

tratta di scene monologate, rivolte direttamente al pubblico, che, prendendo a

pretesto gli argomenti o i fatti toccati dalla narrazione in quel particolare

momento, proseguono con divagazioni su argomenti vari.

Nelle scene monologate in cui Poli veste i panni del Frate Narratore, quindi di un

personaggio esterno alla struttura narrativa, prevale, su quello fisico gestuale, il 32 Nel primo atto, oltre a questa ultima parte della scena II, il modello si ripropone nella scena IV e nel primo quadro della scena VII; nel secondo atto si ritrova nelle scene I, IV, VII.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 101

registro comico linguistico grazie ad un vero e proprio fuoco di fila di battute e

aforismi spesso quasi del tutto svincolati dalla trama della scena. Tra questi motti

di spirito è possibile distinguere tra alcuni che basano la loro comicità sui

contenuti ed altri che invece provocano il riso attraverso meccanismi formali.33

In questo finale di scena gli argomenti delle riflessioni umoristiche di Poli sono

l’innocenza dei due ragazzi e il fatto che sia stata la natura la guida del loro agire,

l’ignoranza dell’ amore da parte del frate e alcuni commenti comici sulla natura

della donna.

Scena Terza “l’interno del palazzo”

Questa scena è molto lunga e comprende molte tecniche attoriali diverse che

vanno dalla recitazione alla canzone per quanto riguarda Poli, dal mimo-danza

alla pantomima per gli altri attori.

Nell’arco della scena si possono individuare sei quadri:

1. Il duca e la Duchessina si dibattono tra amore e peccato

2. La Duchessina annuncia al fratello di essere incinta

33 Per una trattazione più completa del linguaggio comico di Poli ne “La leggenda di San Gregorio” vedi Cap.4, pp.

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3. L’intervento del Gran Vassallo a consigliare i giovani

4. La canzone del gran vassallo sull’amore

5. Nascita e abbandono del bambino

6. L’indignazione della Duchessina

7. Il dolore della Duchessina

Per quanto riguarda le tecniche attoriali, la scena ha una struttura simmetrica: nel

primo e nell’ultimo quadro la tecnica adottata è quella del mimo/danza, nel

secondo e nel sesto è la pantomima (con voce registrata), nel terzo e nel quinto è

ancora la pantomima a cui si aggiunge la presenza di Poli; il quadro centrale è

occupato dalla canzone di Poli sull’amore.

Quadro I “Fratello e sorella tra amore e peccato”

Per la prima volta i due giovani duchi sono attori in carne e ossa, per quanto con

il volto coperto da una maschera.

Per rimarcare ancora che “è l’ uguaglianza che appaga il cuore”34 i costumi dei

due fratelli-amanti sono perfettamente identici, tranne che per la lunghezza

(quello di lei arriva fino a terra, mentre quello di lui copre appena il ginocchio),

sono entrambi di velluto verde, cangiante verso il bronzo, ampi e svasati, stretti 34 Dal testo dello spettacolo, Atto I Scena II

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sotto il petto da una fascia bianca a righe verdi e oro, uguale al collo e alle

maniche, corte e aperte in verticale. Sulle spalle una mantellina dello stesso

colore del vestito.

Sul capo un cappello a calotta, verde, con un risvolto bianco riccamente decorato

di verde e oro.

Entrambi hanno i capelli rossi, che, come già si è visto, sono una sorta di tratto

distintivo, quelli di lui sono corti sulle spalle, quelli di lei raccolti in lunghe

trecce.

Quasi in penombra raccontano al pubblico il loro amore ma anche il rimorso, la

preoccupazione, il dolore, e lo raccontano non con le parole ma con un mimo

che si avvicina molto alla danza, con ritmi lenti e cadenzati i loro gesti di

tenerezza e di preoccupazione, e i gesti di consolazione del giovane Duca nei

confronti della sorella si mescolano con passi di danza rinascimentale.

Quadro II “Il triste annuncio”

Nel II Quadro, finita la musica, la giovane duchessa comunica al fratello/amante

di essere incinta: i due giovani, tra la sorpresa, il disonore, che ӏ tanto maggiore

quanto più alto è il rango”35, e il terrore di aver peccato, non sanno risolversi sul

35 Dal testo dello spettacolo, Atto I Scena III

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da farsi; il giovane decide di affidarsi alla saggezza del Gran Vassallo, vecchio

servitore del padre e conosciuto per la sua prudenza.

La Duchessina non sembra approvare ed esprime il suo dissenso con un

linguaggio non certo da adolescente ingenua, ma piuttosto come una signora

della buona società, avvezza ad affrontare questi problemi nei salotti,

combattendo, come al solito, a colpi di aforismi; ma infine accetta di buon grado

di fronte alla necessità.

Per la prima volta dall’inizio dello spettacolo, i personaggi non si muovono più,

muti, al ritmo della musica, ma parlano: quella che il pubblico sente, però, non è

la loro voce, bensì quella di Poli, modificata in tonalità e cadenze a seconda del

personaggio, registrata.

Anche la tecnica recitativa è cambiata rispetto alle scene mute ( ad esempio la

scena I); dal mimo si è passati ad una pantomima i cui gesti rimarcano in modo

fedele le parole: ad esempio, la Duchessina annuncia “sono incinta!”

accompagnando le parole con un eloquente gesto che, iniziato da sotto il seno,

disegna, con entrambe le mani, una grossa pancia.

Quadro III “Il consigliere”

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Nel quadro III, alla presenza dei due giovani, si aggiunge quella del Gran

Vassallo, servitore ed amico del vecchio duca da cui i giovani si aspettano un

consiglio risolutivo per la loro situazione.

Il personaggio del Gran Vassallo è interpretato da Poli, vestito da un ampio

abito nero tipo mantella, lungo fino ai piedi dietro e corto davanti, da cui si

intravedono le gambe coperte da una calzamaglia bianca, dalle maniche,

anch’esse molto larghe, , sbucano le braccia con sottomaniche bianche.

Sulle spalle una mantellina nera, molto lavorata, sul capo una cuffia bianca

con lunghi lacci e un cappello ( che tiene quasi sempre in mano e che serve

per ampliare i gesti, già molto ampi) nero, simile ad un turbante, arricchito da

lunghe piume scure.

Poli porta sul viso una mezza maschera che comprende un lungo naso

aquilino, quasi un becco, fornito di lunghi baffi rigidi e dritti, di colore grigio,

e di sopracciglia altrettanto lunghe e diritte; questa maschera contribuisce a

dare all’attore l’aspetto di un grosso corvo, e rende acuto anche fisicamente

un personaggio che lo è soprattutto come spirito.

L’abito e il ruolo del personaggio lo avvicinano in parte ad una delle

maschere classiche della commedia dell’arte, quella del Dottore: sue

caratteristiche sono infatti l’abito nero con un ampio mantello e il cappello a

falda larga, il grosso naso con i baffi (anche se quello di Poli è molto più

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 106

adunco) e suo caratteristico è anche il ruolo di saggio consigliere, di

accademico infallibile.

L’aspetto, però, somiglia, più che a quello del grasso e tronfio dottore, a

Pantalone, anche lui vestito di nero, dal corpo magro e curvo e dalla

camminata a passi piccoli e saltellanti; in comune con Pantalone, la figura del

Gran Vassallo ha il tentativo di matrimonio, nel quadro V, con la giovane

duchessa, assolutamente assente dal testo di Von Aue, ma che riporta ad una

lunga tradizione della commedia dell’arte di vecchi, come Pantalone appunto,

che fanno la corte a giovinette venendone regolarmente rifiutati.

Ma, al di là delle somiglianze con maschere precise, rimane fuor di dubbio

che questo personaggio sia una vera e propria maschera, tanto è caratterizzato

sia esteriormente che interiormente.

In realtà in nessuno dei suoi personaggi Poli cerca una profondità psicologica,

sono tutti totalmente privi di sfaccettature che diano loro anche solo una

parvenza di umanità, più che personaggi i suoi sono caratteri, maschere

appunto, che fanno di un solo aspetto della loro personalità l’unico motore

delle loro azioni: nel caso del Gran Vassallo l’aspetto fondamentale è quello

di un marcato cinismo che mette i valori della mondanità e dell’esteriorità

davanti a quelli religiosi ed umani (senza lasciare dubbi dichiara che ciò che i

due fratelli hanno commesso “è più di un peccato mortale, è un errore

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 107

mondano”, ma che “c’è un rimedio per ogni colpa, nasconderla!” e

soprattutto che “l’onore con il tempo ricresce, come i capelli”).

In particolare in questa scena, più che in altre, si notano somiglianze con i tipi

della Commedia dell’arte, ossia gli Innamorati e il Vecchio:

Nella tradizione dei comici dell’arte quella degli innamorati è una parte seria,

e la loro caratteristica principale è la giovinezza:

Gl’innamorati devono scegliersi giovani e non vecchi, essendo trito presso i

comici il detto “Zanni vecchi e innamorati giovani”, poiché la vecchiaia

disdice ad Amore, e chi è innamorato in vecchiaia è degno di riso e scherno36.

Il tipo del vecchio invece, sia che si tratti di Pantalone che del Dottore, che di

uno qualsiasi degli altri presenti nella Commedia dell’arte, è sempre un tipo

comico, una maschera vera e propria, con caratteri specifici:

le parti de’vecchi sogliono essere per lo più ridicole, per essere innamorati

[...], come anche per essere avari, tenaci, sospetti e viziosi, quindi è ch’a’

diversi linguaggi si sono attribuite le parti di padri, come al veneziano la

parte di Pantalone, figurando un mercatante avaro [...]. Al bolognese se gli

dà la parte del dottore detto Graziano, che sarà dotto, ma cicalone.

36 A.Petrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso (1699), a cura di A.G.Bragaglia, Firenze, Sansoni, 1961, p. 163

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 108

Come si è detto, la figura del Gran Vassallo non corrisponde precisamente a

nessuna di queste maschere, ma il frutto della stratificazione di tutte queste

maschere di vecchi, legate insieme dal personale spirito, sagace e cinico, di

Poli.

Dopo aver bisbigliato all’orecchio del Gran Vassallo la scabrosa situazione, il

Giovane Duca e la sorella ascoltano i consigli del vecchio saggio: i due

dovranno separarsi, per evitare di tradirsi di fronte al mondo, lui crociato in

Terra Santa, lei, ricevuti dal fratello i pieni poteri di governo, a partorire in

segreto.

Tutto questo quadro è giocato sul contrasto tra chi, come dirà Poli nelle vesti

del frate Narratore nella scena successiva, “si è macchiato la coscienza per

ingenuità e chi l’ha mantenuta netta per malizia”.

Il testo di questo quadro richiama il concetto di diversione37, ossia della

creazione di un effetto comico spostando il senso del discorso da un piano

comune ad uno contrapposto: in questo caso tutto il monologo, come struttura

generale, funziona secondo questo meccanismo: da una parte sta il senso

comune, dall’altra la cinica interpretazione che ne fa il Poli.

37 vedi p.106

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 109

Il Gran Vassallo è un personaggio che fa del contrasto tra una esteriorità

rispettabile (e falsa) e una interiorità immorale e maliziosa, la caratteristica

della propria personalità. La cosa più importante è sempre e soltanto salvare le

apparenze e visto che quello che hanno commesso i due ragazzi “ è più di un

peccato mortale, è un errore mondano”, i consigli che egli dispensa loro sono

tutti improntati a nascondere la loro colpa, più che a espiarla.

Altro tratto fondamentale del personaggio è il suo disprezzo per l’amore,

sentimento che abbisogna di troppo altruismo e fiducia nel prossimo perché il

vecchio possa abbandonarvisi.

Nella parte finale del quadro infatti, egli dimostra la propria insofferenza nei

confronti della passione amorosa facendo una divertente controscena ai due

fratelli/amanti che si separano con gran dolore38: Mentre i due innamorati

dialogano sulla pedana, in fondo al palco, Poli in proscenio, camminando

avanti e indietro si prende gioco di loro e del loro dolore, ripetendo frasi come

“amore amore, pizzicore!!”

Quadro IV “Considerazioni sull’amore”

L’ARGOMENTO DELLA CANZONE CHE DELIMITA IL QUARTO QUADRO È PROPRIO LA

SFIDUCIA DEL GRAN VASSALLO NELL’AMORE. 38 Il dialogo tra i due avviene con le stesse modalità del quadro precedente, ossia pantomima con voce registrata.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 110

USCITI DI SCENA I DUE GIOVANI DUCHI, ENTRANO DUE GUARDIE, ALTISSIME

GRAZIE ALL’USO DI TRAMPOLI, VESTITE DI UNA LUNGA TUNICA VIOLA COPERTA DA

UNA SOTTANINA E DA UN CORPETTO, NERI; SUL CAPO HANNO UN BERRETTO NERO

A FORMA DI CONO ROVESCIATO E IN MANO TENGONO UN LUNGO BASTONE ORNATO

DI NASTRI.

ANCHE QUESTI DUE PERSONAGGI SONO FORNITI DI MEZZE MASCHERE CON UN

GROSSO NASO BIANCO E LUNGHI BAFFI ALL’INSÙ. PER LA RIGIDITÀ DEI MOVIMENTI

E PER L’ASPETTO TENDONO A SOMIGLIARE MOLTO A DELLE MARIONETTE, ED IN

PARTICOLARE A DEI PUPI SICILIANI.

LA CANZONE, SCANDITA DA UN RITMO CADENZATO E REGOLARE, È GIOCATA SUL

CONTRASTO TRA LE DUE GUARDIE, CHE LODANO E GLORIFICANO STROFA PER

STROFA, QUALITÀ E PIACERI DELL’AMORE, OPPOSTE A POLI, NELLA VESTE DEL

GRAN VASSALLO, CHE CON ARGUZIA E CINISMO DI VOLTA IN VOLTA NE MOSTRA GLI

ASPETTI NEGATIVI.

LA COREOGRAFIA RENDE QUESTO CONTRASTO DI OPINIONI GRAZIE AD UNA

SEMPLICE OPPOSIZIONE SPAZIALE DEI CONTENDENTI RISPETTO AL CENTRO DEL

PALCO.

SUL FINALE LE DUE POSIZIONI SI CONCILIANO, ANCHE VISIVAMENTE ( TUTTI E TRE

IN FILA, AL CENTRO), GRAZIE ALLA CONFESSIONE DEL VECCHIO DI AVERE ANCHE

LUI UN AMORE, A CUI SI MANTIENE FEDELE E DI CUI SI FIDA: SE STESSO.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 111

L’INSERIMENTO DI BRANI CANTATI, SIA CHE ABBIANO UNA RELAZIONE, PER

QUANTO DEBOLE (COME IN QUESTO CASO) CON LA SCENA, SIA CHE SI TRATTI

ESPLICITAMENTE DI INTERMEZZI (COME QUELLI CHE CHIUDONO IL PRIMO E IL

SECONDO ATTO), LEGANO ANCORA UNA VOLTA IL TEATRO DI POLI AL TEATRO DI

VARIETÀ, AL TEATRO POPOLARE. IN PARTICOLARE QUESTA CANZONE39 CONCILIA I

CARATTERI TIPICI DEL CONTRASTO E DELLA MACCHIETTA.

Del contrasto ha ovviamente la struttura dialogata, a botta e risposta, che ha

alle spalle una lunga tradizione che va dai contrasti medievali40 a La

Cammesella, cavallo di battaglia di molte coppie di attori di Verità nei primi

anni di questo secolo.

Della Macchietta ha invece lo sbilanciamento della canzone più sul testo che

sulla musica e la capacità di disegnare con pochi tratti la personalità, o meglio

ancora il personaggio, la maschera, di chi la canta.

Nicola Maldacea, da molti considerato l’inventore della macchietta, così

descrive i caratteri fondamentali di questo genere:

Invece di Cantare, invece di accentuare il motivo, consideravo la musica un

accompagnamento alle parole, un commento; e mi preoccupavo di dire, di

colorire, rendendo il tipo meglio che potessi. Non a caso ho adoperato la

parola “colorire”. Come il pittore, come il disegnatore, come un artista

39 La stessa analisi vale anche per la canzone di frate Gregorio, nel Quadro III della Scena V 40 Cito come esempio soltanto il più famoso, Rosa fresca aulentissima, composto da Cielo D’Alcamo.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 112

figurativo, mi ripromettevo di dare al mio pubblico una impressione

immediata, schizzando il tipo, segnandolo rapidamente, rendendone i tratti

salienti. Da ciò l’origine della parola “macchietta”, che è proprio dell’arte

figurativa [...]. Con la macchietta satirica volli io portare sulle scene del

teatro di varietà una specie di impressionismo artistico, che aveva avuto

origine tra le quinte del teatro di prosa41.

Quadro V “Il frutto del peccato”

Dopo l’intermezzo cantato, la struttura torna ad essere quella del quadro III.

Rientra in scena la Duchessa, vestita di una lunga tunica bianca e larga,

probabilmente una camicia da notte, che, felice, porta in braccio il suo

bambino.

Anche in questo caso, come nella prima scena, alla nascita dei due gemelli, il

bambino è un bambolottino, vestito con un completino azzurro e con in testa

una cuffietta bianca: quando il Gran Vassallo la toglierà, spiccherà una testina

coperta di capelli rossi, tratto distintivo della famiglia.

Un vagito del bambino attira l’attenzione del Gran Vassallo, che informa il

pubblico che la giovinetta ha felicemente partorito e allattato suo figlio, ma,

sempre nell’ordine di idee di eliminare la colpa nascondendola agli occhi del

41A.A.V.V., Follie del Varietà, Milano, Feltrinelli, 1980

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 113

mondo, propone di affidarlo nelle mani di Dio, lasciando al caso la sua vita o

la sua morte.

Tolto il bimbo dalle braccia della madre, il Gran Vassallo gli toglie la

cuffietta, che getta sulla pedana dietro di sé, e lancia il bambino ad una delle

guardie, che nel frattempo si sono disposte ai lati della scena.

Mentre il vecchio spiega come sia meglio lasciare a Dio la responsabilità della

salvezza del bimbo, le due guardie si palleggiano il bambolotto, sotto lo

sguardo disperato della Duchessina.

Per aiutare un po’ la fortuna, il Gran Vassallo decide che il bambino verrà

posto in una botticella che lo ripari dalle intemperie, insieme ad una borsa

piena di denaro (“che saranno la salsa che fa ingollare il pesce stantio”42),

alcune stoffe preziose ed una tavoletta d’avorio su cui si rivelano la sua

nobiltà e le sue origini sventurate; il vecchio affida il tutto alle guardie che

escono.

In quel mentre entra dalla quinta di sinistra la nutrice (con lo stesso abito e

maschera della prima scena), portando in mano un paio di guanti bianchi, gli

stessi che il giovane Duca aveva indossato nel quadro III, al momento di

partire.

42 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 114

La donna bisbiglia qualcosa all’orecchio del Gran Vassallo, che prorompe in

una espressione di gioia: quindi spiega, portando al massimo il concetto di

diversione rispetto al senso comune, che la Duchessina dovrebbe essere felice

e orgogliosa perché il fratello, per il dolore del distacco, è morto ancora prima

di arrivare in Terra Santa.

Già sconvolta dalla perdita del figlio, la ragazza si dispera, ma il vecchio

insiste nel tentare di convincerla che ciò che è accaduto è per lei positivo,

visto che adesso potrà andare a “giuste e onorevoli nozze”43recuperando così

completamente l’onore e la rispettabilità perduti; per dimostrarle che non le

sarà certo difficile trovare un marito, tenta l’ultimo gradino della sua scalata

sociale, proponendosi lui stesso come pretendente.

Come si è visto44 questo tentativo di matrimonio, del tutto assente nel testo del

monaco tedesco Von Aue, fa probabilmente parte dell’eredità che portano con

sé le maschere dei vecchi della Commedia dell’Arte, anche se l’amore, che è

ciò che rende ridicolo Pantalone quando si propone in sposo a qualche

fanciulla, non è certo il motivo che spinge il Gran Vassallo a fare alla

Duchessina la sua proposta: si tratta, evidentemente, piuttosto di arrivismo e

avidità: i suoi mezzi di seduzione sono una rosa rossa, che egli estrae da sotto

il mantello, ed una sorta di spot pubblicitario di se stesso, in cui suggerisce

43 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III. 44 Vedi p.106

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 115

doti alternative a quelle che a lui mancano, ossia bellezza, giovinezza e

onestà, sostituite dall’arguzia, dai titoli e dal pregio di “non avere tutte le

virtù”45; l’argomento risolutivo dovrebbe essere il fatto che anche se tra loro

mancasse del tutto la simpatia, “meglio, il rapporto non potrebbe che

migliorare!”46

La Duchessina, comunque, esacerbata dal dolore, lo rifiuta malamente,

gettando a terra, lontano, la rosa che lui le ha offerto, e pronunciando un

sonoro “no”, decisa a non commettere un adulterio, per quanto postumo.

A questo punto il Gran Vassallo, stizzito, esce di scena.

Quadro VI “La rabbia della Duchessa”

RIMASTA SOLA CON LA NUTRICE, LA GIOVINETTA SFOGA TUTTO IL SUO DOLORE E

IL SUO ASTIO NEI CONFRONTI DEL GRAN VASSALLO, DELLA SUA AVIDITÀ E DEL SUO

CINISMO.

RISPETTANDO LO SCHEMA SIMMETRICO DELLA SCENA, CI TROVIAMO DI NUOVO DI

FRONTE AD UN QUADRO COSTITUITO DA PANTOMIMA CON VOCE REGISTRATA47.

45 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III 46 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III 47 come nel Quadro II, vedi p.103

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 116

COME NEI QUADRI PRECEDENTI, IL LINGUAGGIO È COSTITUITO DA UNA SERIE DI

BATTUTE BREVI48, POCO LEGATE LE UNE ALLE ALTRE SE NON PER UN VAGO FILO

CONDUTTORE, QUELLO APPUNTO DEL DISPREZZO VERSO IL VECCHIO.

Quadro VII “Il dolore della Duchessa”

NELL’ ULTIMO QUADRO, COME NEL PRIMO, LA TECNICA ADOTTATA È QUELLA DEL

MIMO-DANZA, MUTO E CON MUSICA DI SOTTOFONDO.

IN QUESTA PARTE FINALE DELLA SCENA, LA GIOVANE DUCHESSA SOPRAFFATTA

DAL DOLORE, RIPERCORRE LA STORIA DELLE SUE DISGRAZIE TRAMITE GLI OGGETTI

SIMBOLO CHE SONO DISSEMINATI SULLA SCENA: RITROVATI I GUANTI DEL

FRATELLO-AMANTE CHE LA NUTRICE AVEVA APPOGGIATO SULLA PEDANA,

RICORDA IL DOLORE PER LA PERDITA DEL SUO COMPAGNO; RACCOLTA LA

CUFFIETTA BIANCA CHE IL GRAN VASSALLO AVEVA TOLTO AL BAMBINO PRIMA DI

AFFIDARLO ALLE GUARDIE, PIANGE LA PERDITA DEL FIGLIO; GRAZIE ALLA ROSA

ROSSA CHE LE AVEVA DONATO IL VECCHIO, AL MOMENTO DI CHIEDERLA IN SPOSA,

RINNOVA IL DOLORE E LO SDEGNO NEI CONFRONTI DELL’UOMO.

ALLA FINE, SOPRAFFATTA, SVIENE E LA NUTRICE, DOPO AVER TENTATO DI

RIANIMARLA, SE LA CARICA SULLE SPALLE E LA PORTA FUORI SCENA.

48 in particolare similitudini, come ad esempio, riferito al Gran Vassallo: “come l’edera si aggrappa a tutto pur di salire, ma come la scimmia, quando è in cima mostra le sue parti peggiori”.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 117

L’USO DEGLI OGGETTI IN QUESTO QUADRO, È IN PARTE DIVERSO RISPETTO A

QUELLO ANALIZZATO NELLA PRIMA SCENA49: IL LORO SIGNIFICATO NON È PIÙ

LEGATO ALL’IMMAGINARIO COMUNE ( COME NEL CASO DEI CAVOLI DELLA PRIMA

SCENA), MA ASSUMONO SIGNIFICATO SIMBOLICO GRAZIE ALL’USO CHE SE NE È

FATTO NELLE PARTI PRECEDENTI DELLA SCENA; SULLA SCENA COMPAIONO SOLO

TRE OGGETTI, OGNUNO DEI QUALI LEGATO AD UN FATTO IMPORTANTE, IN MODO

NON DA SFRUTTARE UNA CORRISPONDENZA TRA OGGETTO E AVVENIMENTO GIÀ

PRESENTE NELL’IMMAGINARIO DEL PUBBLICO, MA DA CREARLA NEL CORSO DEGLI

AVVENIMENTI.

Scena Quarta “il bosco”

Quadro Unico “Monologo del peccato”

Come nella seconda scena50, siamo in presenza di un monologo di Poli, nelle

vesti del frate narratore; l’abito è lo stesso della seconda scena, ma Poli ha sul

braccio un Gufo alto circa 30 centimetri, con il corpo rigido e la testa articolata,

che si muove a seconda dei gesti dell’attore, quasi annuisse alle sue affermazioni.

49 vedi p. 87 50 vedi p. 92

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 118

Il gufo,51 anticamente simbolo di Atena, ha assunto nei secoli due valenze

simboliche opposte; da una parte è stato considerato simbolo della saggezza e

della scienza, dall’altra portatore di sventure e simbolo di colui che perde la retta

via.

Credo che Poli, nello sceglierlo come silenzioso compagno per questa scena in

cui disserta del peccato e dell’innocenza, abbia tenuto conto di entrambi gli

aspetti, profondamente radicati, l’uno e l’altro, nell’immaginario collettivo.

Il monologo prende spunto dal contrasto tra la il peccato ingenuo della duchessa

e la virtù maliziosa del Gran Vassallo e tutto per sostenere che "spesso le nostre

buone azioni sono più losche dei nostri peccati".

E così come sostiene anche il monaco Von Aue nei primi versi del suo Gregorio,

Dio ha un debole per i peccatori, perché faticano tanto di più degli altri a fare il

bene, ma spesso ci riescono meglio.

Segue una serie di arguzie sull'ipocrisia di certa bontà, spesso provocata più da

pigrizia e da malizia che da buona volontà.

Ma l'uomo è poco umano, è "una farfalla che con il tempo diventa un verme", e

questa ipocrisia non risparmia neanche i religiosi, che non chiedono a Dio di

aiutarli a fare la sua volontà, ma gli chiedono di approvare la loro.

51 H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991, p.75

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La struttura comica della scena identica in tutte le sue modalità a quella del primo

quadro della seconda scena, e fa perno su di una comicità tutta incentrata sulla

parola.52

52 vedi p. 100

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Scena Quinta “la scogliera”

Quadro I “ Le sirene”

Dalla quinta destra entra un pescatore su una piccola barchetta sballottata dalle

onde; l’uomo indossa una camicia bianca con le maniche rimboccate, sopra un

gilet a righe colorate, pantaloni scuri fermati al ginocchio e cappello scuro a

cupola. Sul viso porta una maschera con la fronte sfuggente, da cui sporge un

lungo naso, e con occhi in fuori, grandi e scuri. Tra i lunghi capelli neri escono

due grosse orecchie a sventola. Sul mento una leggera barba.

Nonostante si tratti di un personaggio di bassa estrazione sociale, non si connota

affatto come personaggio comico.

Il pescatore rema a fatica lottando contro gli elementi, si ferma, volta la barca e

getta le reti per poi ritirarle, vuote. Scuote la testa, sconsolato e si prepara a

rientrare a mani vuote.

Entrano due Sirene, muovendo gambe e braccia, a ritmo della musica, come se

nuotassero: hanno lunghi capelli azzurri, venati d’argento, un corpetto bianco

attillato da cui sporgono i seni (naturalmente finti, visto che gli attori sono tutto

uomini), lunghi pantaloni, allargati sul fondo a simulare la coda di pesce,

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ricoperti di grandi scaglie argentate. La maschera è di colore azzurrino con

grandi occhi altrettanto azzurri un po' a mandorla. Il naso e la bocca sono piccoli

e stretti. Diverse catenelle pendono tra un orecchio e l'altro, sotto la gola.

Come le sirene raffigurate nei rilievi altomedievali, hanno non una coda di pesce,

ma due. La figura della sirena è molto antica e da sempre ha tra le sue simbologie

quella della forza ambigua del mare, della sua benevolenza ma anche della sua

insidia: in questo caso le sirene rivestono il ruolo di chi amministra e regola la

smisurata forza e la casualità del mare. Alla luce della successiva presenza della

piovra, di chiaro significato negativo53, la figura delle sirene assume per

contrasto una connotazione nettamente positiva, ma la loro ambiguità

tradizionale permane nella sinuosità e nella sensualità dei movimenti e nei seni

scoperti, per quanto falsi.

Dopo aver girato un po' intorno al pescatore, una delle due sirene prende dalla

quinta di sinistra la botticella con il bambino e gliela consegna; quindi sempre

ballando/nuotando escono entrambe di scena, salutate con la mano dal pescatore.

Di nuovo, come nella prima scena, la religiosità del racconto proposto dal

monaco si fonde con la favola, con un sovrannaturale che ha più a vedere con la

53 La piovra non ha una simbologia molto marcata, ma comunque sempre connotata negativamente: colpiva soprattutto per la simmetria e veniva spesso rappresentata come un cerchio con i tentacoli arrotolati a spirale e due grandi occhi al centro. H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991, p.178

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leggenda che con la divinità; ciò che era stato affidato a Dio, infatti54, ossia la

botticella con dentro il piccolo, è restituito appunto dalle sirene.

C’è da dire, però, che la mitologia cristiana popolare ha sempre teso a mescolare

esseri e divinità della tradizione classica pagana con la nuova religiosità, non

stupiva dunque la presenza delle sirene stesse nelle raffigurazioni dei portali o dei

capitelli delle chiese.

Mentre il pescatore si accinge a tornare verso la quinta di sinistra irrompe in

scena una Piovra, impersonata da uno degli attori che indossa una grande testa

color bronzo da cui pendono numerosi, lunghi tentacoli tra i quali si muove il

corpo dell'uomo inguainato da una tuta ugualmente bronzata, agitando i tentacoli.

Questo enorme animale è simbolo della furia degli elementi contro la quale il

povero pescatore è costretto a lottare per tornare verso riva, e giustifica il timore

espresso dal frate Gregorio nella scena successiva, il quale si pente di aver

mandato il pescatore in mare con quel tempaccio.

La lotta tra l’uomo e l’animale è puramente simbolica, priva di violenza e fatta di

gesti ritmici (i due si contendono il remo della barca).

Infine la Piovra ha la peggio, rinuncia ed esce; subito dopo, remando, esce anche

il pescatore.

54 vedi p. 113

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Quadro II “ Frate Gregorio”

Poli veste in questa scena i panni di un piccolo e grasso frate: indossa un saio

marrone da francescano munito di un cordone che arriva fino ai piedi.

Sulla testa porta una folta parrucca di capelli bianchi scarmigliati e la maschera e'

costituita da un naso tondo con sopra piccoli occhiali, anch'essi tondi.

Anche in questo caso, così come si era visto per il Gran Vassallo, più che di un

personaggio si tratta di una maschera, con tratti molto marcati che lo

caratterizzano sia fisicamente che fonicamente.

Per dare una tipizzazione forte al suo personaggio nella direzione del comico,

Poli ha stravolto le proprie caratteristiche fisiche riuscendo, lui alto e

magrissimo, ad impersonare un fraticello basso e grasso indossando abiti

imbottiti sul davanti in modo da simulare una grossa pancia e soprattutto

camminando in ginocchio. Per arrotondare anche i tratti del viso ha usato un naso

di forma marcatamente rotonda, ancor più accentuata dalla rotondità dei piccoli

occhiali.

Fonicamente Poli usa per il suo frate una voce alta e stridula, dai toni cantilenanti

e strascicati: tutte queste caratteristiche contribuiscono a fare di questo

personaggio la caricatura di un fraticello, con la sua bontà ingenua e un po’

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paesana, che lo connota immediatamente, forse più che ogni altro personaggio

dello spettacolo, di una carica comica.

Il frate entra in scena rammaricandosi di aver mandato in mare il pescatore del

convento con quel tempaccio, ma all’arrivo del pescatore, il frate si rallegra. Tra

le mani del pescatore, riluttante a mostrarla, scorge la botticella e la prende, visto

che tutto può tornar buono per la casa del Signore ma, mentre sta per andarsene si

sente piangere il bambino.

Frate Gregorio apre affannosamente la botticella e compare la testina rossa del

piccolo. Frugando nella botte, il frate trova anche le stoffe, la tavoletta d'avorio

da cui viene a conoscenza delle origini e della storia del bambino, e le monete

d'oro.

Decide quindi di affidare il piccolo al pescatore ( che ha già due figli ) in cambio

di tre monete d'oro, a patto che non riveli mai a nessuno che non è figlio suo.

Il pescatore prende la botticella ed esce.

Tutta la parte che coinvolge il pescatore, dall’uscita in mare ad ora corrisponde,

come sempre in modo vago, ai versi 939/1092

È da notare però che nel poema tedesco la situazione è più complessa: Von Aue

si preoccupa di rendere verosimile l’adozione del piccolo da parte del pescatore,

ed introduce, fin dall’inizio la presenza di un altro personaggio, il fratello del

pescatore, che si trova con il primo sulla barca, che con lui condivide il

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ritrovamento della botticella (inutile dire che il poeta tedesco non fa menzione di

alcuna sirena) e di cui si viene a sapere che è più ricco dell’altro e abita dalla

parte opposta dell’isola, lontano dal convento.

Tutto questo consente a Frate Gregorio di suggerire al pescatore più povero di

adottare il piccolo dicendo che si tratta del bambino di una delle figlie dell’altro

pescatore. Il fatto che costui abiti lontano rende quasi impossibile il controllo e la

smentita, e la sua ricchezza rende plausibili le maggiori disponibilità che il

pescatore, presi i soldi dal frate per allevare il bambino, dimostrerà di avere.

Ne La leggenda di San Gregorio Poli ignora questa situazione: mostra il

l’adozione del bambino come momento semplicemente narrativo e funzionale al

seguito della storia. Il centro dell’attenzione è la figura caricaturale del frate, la

cui comicità è del tutto slegata dallo svolgersi della vicenda.

Frate Gregorio, rimasto solo, riflette sulla disgraziata provenienza del piccolo e

fa progetti per la sua educazione.

Il primo problema da affrontare è come far fruttare il denaro che il bimbo ha con

sé e dargli da grande un patrimonio sicuro. Il sistema c'è anche se vietato ai

religiosi ossia quello di prestare ad interesse. Meglio dunque affidare il denaro ad

un "onesto" usuraio, che a questo peccato ha già fatto il callo. Di nuovo si

intravede un tema già trattato da Poli nel monologo della Scena IV, quello

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dell’ipocrisia di chi non disdegna il peccato in sé, ma riesce a mantenere la

propria coscienza limpida per malizia, scaricando su altri il peso dei vizi: a questa

condizione non si sottrae nemmeno il simpatico fraticello, all’apparenza così

candido.

Quadro III “Il nome del bambino”

Di nuovo, come nel quarto quadro della terza scena, Poli introduce nel tessuto

dello spettacolo una parte cantata, che prende a pretesto la difficile scelta di un

nome da dare al piccolo naufrago. Anche questa volta si tratta di un contrasto.

Come interlocutori compaiono, dalle due porte ad arco delle quinte, due

boccolosi angioletti. Si tratta di bambolottoni riccamente vestiti di bianco e

lunghi capelli biondi a boccoli, con ali e aureola, che vengono sporti fuori dalle

quinte con lunghi bastoni; sembrano quindi fluttuare a mezz’aria.

Il Frate elenca nell'ordine la vita ed i miracoli dei santi Pietro, Battista e

Bartolomeo, tutti santi di grande virtù ma che hanno subìto martiri atroci. Il loro

nome, a causa delle tragiche morti è un presagio troppo sfortunato per il

bambino, secondo gli angioletti.

La struttura della canzone è similissima a quella della scena III, costruita per tesi

ed antitesi. Anche se in questo caso le due parti, quella cantata da Poli e quella

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 127

degli angeli, sono diverse come musica e come ritmo, più monotona quella del

frate, più concitata quella degli angioletti.

Rispetto all’altra canzone, poi, le parti sono invertite, questa volta tocca al

personaggio interpretato da Poli ad esporre un’opinione e ad essere contraddetto.

Infine Frate Gregorio decide che il piccolo si chiamerà Gregorio, proprio come

lui. Chissà se non finirà col succedergli alla guida del convento?

Quadro IV “La scoperta delle origini”

Tra il quadro precedente e questo, esiste un salto temporale di circa quindici anni,

Gregorio è cresciuto, è oramai un giovanotto riconoscibile grazie ad una parrucca

del solito rosso acceso.

Nel poema di Hartmann Von Aue si narra anche tutta la storia dell’infanzia e

della giovinezza di Gregorio (versi 1137/1284), i suoi progressi nello studio, le

sue eccellenti qualità come grammatico, teologo e giureconsulto e soprattutto le

sue straordinarie doti morali e fisiche; Poli non fa accenno a questa parte,

interessante per l’agiografo tedesco, ma del tutto irrilevante ai fini della

narrazione, impostata in modo laico e favolistico.

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Entrano correndo i due figli del pescatore e il giovane Gregorio; i primi due

malmenano e strattonano il terzo. Riesce a liberarsi dalle grinfie dei due e corre a

chiedere aiuto al frate. In quel mentre entra la moglie del pescatore difendendo i

suoi figli e accusando Gregorio di gingillarsi con i libri e di fare il signorino

mentre gli altri due lavorano come bestie.

Il giovane Gregorio indossa un abito corto, stretto in vita, di colore giallo chiaro

leggermente iridescente con mantellina dello stesso colore e una calzamaglia

grigia lucida. I capelli sono dello stesso rosso che aveva caratterizzato le

capigliature dei due duchi e dello stesso Gregorio neonato. La maschera è, con

ogni probabilità, la stessa indossata dal duca suo padre.

I due figli del pescatore invece si connotano subito come personaggi di bassa

estrazione sociale: vestono abiti corti, larghi e scuri e anche questi leggermente

cangianti e iridescenti, indossano anche calzamaglie grigie e copricapo bianco;

portano sul viso maschere dai tratti molto marcati, con grandi nasi, occhi scuri,

mento sfuggente e lunghi capelli scuri, caratteri somatici simili alla maschera del

pescatore.

La moglie del pescatore è vestita di un abito lungo, rosso scuro, con sopra una

specie di grembiule grigio, ampie maniche rosse/grigie. Sciarpa avvolta intorno

al collo e al capo. Anche la maschera della donna ha tratti molto marcati, capelli

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 129

neri raccolti nel copricapo, grandi occhi scuri, naso largo e bocca aperta con le

labbra in fuori.

La donna esterna la sua rabbia con gesti aggressivi e soprattutto con gradazioni di

voce che da toni striduli si abbassa a toni più gravi con un calare ostentatamente

drammatico.

Costei decide dunque di vendicare il presunto torto subito dai figli svelando a

tutti (Gregorio compreso, il quale era del tutto ignaro della sua vera provenienza),

che quello non è figlio suo, ma un bastardo, un rifiuto del mare raccolto per

carità.

La madre e i due figli escono dopo la scenata, lasciando nella disperazione

Gregorio e in grande imbarazzo il frate.

Gregorio, appurato che quello che ha detto la donna è la verità, decide di lasciare

il villaggio e di diventare cavaliere, girare il mondo e riscattare le proprie origini.

Il frate tenta di dissuaderlo, minimizza l’accaduto e gli consiglia di restare, di

diventare un religioso e di vivere al convento; tantopiù che per fare il cavaliere

servono abiti, soldi o quantomeno conoscere la propria ascendenza.

Ma, di fronte alla disperazione del ragazzo, frate Gregorio cede, accetta il

progetto del giovane, gli consegna le stoffe preziose che aveva trovato nella

botticella, i soldi più che raddoppiati e la tavoletta d’avorio (pregandolo però di

avere pietà dei suoi poveri genitori).

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 130

Sapendo quindi di essere di nobili origini, rifornito di stoffe e di denaro, Gregorio

si congeda dal vecchio frate

e parte con l’intenzione di armare una nave e partire alla ventura affidandosi al

mare e alle correnti.

Scena Sesta “Città sulla riva del mare”

Quadro I “La navigazione”

Entra una nave, costruita di un materiale rigido ma flessibile, con due alberi

muniti di grandi vele bianche, entro la quale viaggia Gregorio, vestito di un ricco

abito di velluto azzurro, con ampie maniche e intarsi argentati sul petto che

raffigurano una rosa dei venti, un’ancora e una stella, tre simboli della

navigazione. Sul capo un grande turbante altrettanto azzurro. L’azzurro dell’abito

e i simboli ricamati su di esso sono fortemente legati a quello che Poli, nella

scena successiva, chiamerà il destino d’acqua di Gregorio, e al suo stesso

definirsi Cavalier del mare.

Di fronte e alle spalle di Gregorio vi sono altri due attori inguainati in tute

aderenti grigie, in modo che si confondano con gli alberi delle vele e con le vele

stesse: il loro compito è quello di muovere sincronicamente gli alberi della nave.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 131

Questo quadro mantiene la stessa dinamica del primo quadro della scena V: La

nave procede ondeggiando leggermente le vele, mentre Gregorio, al centro scruta

l’orizzonte con il gesto tipico di tenere la mano destra sopra gli occhi per parare

il sole. Entra Nettuno danzando; mima di fomentare con il tridente la tempesta

contro la nave di Gregorio, poi alza la mano come a calmare i venti: il destino si

compie, Gregorio, che aveva lasciato al caso la sua rotta, approda ad una terra

(che si scoprirà essere la sua terra natale).

L’intervento di Nettuno è ovviamente paragonabile a quello delle sirene, e anche

la sua funzione simbolica è simile: quale signore del mare, egli rappresenta il

destino che muove la nave di Gregorio fino alla terra di Bretannia, dove il

giovane finirà con lo sposare la propria madre.

Il costume di Nettuno è giocato su sfumature tra il grigio chiaro e l’azzurro, un

corpetto bianco e un grande mantello azzurro. Sul capo porta una grande corona

argentea e in mano il tridente. La maschera è bianchissima con profilo greco,

occhi leggermente a mandorla completamente neri; i lunghi capelli e la barba

sono grigi.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 132

Quadro II “Arrivo alla Bretannia assediata”

Di fronte ad una delle porte che si aprono nelle mura fortificate della città dipinta

sul fondale si trova un gruppo si quattro persone che, timorosa, grida a Gregorio

di andarsene. Il gruppo è realizzato attraverso un costume particolare che

consente ad un solo attore di interpretare la parte di un intero capannello di

popolani, infatti si tratta di un grande costume/macchina ovvero un costume che

non è semplicemente un abito, ma che , grazie ad una struttura più complessa,

riesce a variare la natura di chi lo indossa: in questo caso per consentire ad un

solo attore di interpretare quattro personaggi, nella Scena II del Secondo Atto,

per mettere in scena i due nobili a cavallo. La struttura è costruita in modo che

sulle spalle dell’attore, vestito di un ampio mantello grigio, siano fissate altre due

teste a tutto tondo, mentre più in basso una maschera cucita sul vestito simula il

quarto personaggio, una donna dal volto pallido e emaciato con piccoli occhi

scuri.

La voce dei quattro personaggi in uno è, come sempre, quella di Poli, registrata:

grazie ai movimenti delle braccia è facile distinguere se sia uno dei due

personaggi laterali a parlare, il personaggio centrale (ossia l’attore) lo si

individua dal movimento della testa e della bocca, lasciata libera dalla maschera,

mentre la donna è resa riconoscibile dalla tonalità più alta della voce.

Nell’insieme rende l’idea di un popolo povero e stremato.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 133

Quando il giovane si qualifica come “Cavalier del mare” e dice di venire con

buone intenzioni, costoro lo mettono al corrente della drammatica situazione

della città: la loro duchessa, che ha deciso di rimanere vergine, rifiuta da anni

tutti i pretendenti; l’unico che non ha accettato il suo volere è il malvagio duca

Margravio di Lotaringia che ormai da anni assedia la città: Margravio ha battuto

ed ucciso tutti i paladini della città e ridotto il popolo alla fame.

Gregorio, che non aspettava altro che una palestra d’arme, si offre come

difensore della città e mette a disposizione della popolazione povera ed affamata

il grano di cui è carica la sua nave e l’oro di cui è pieno il suo forziere. Il popolo,

rincuorato, esce inneggiando al “cavalier del mare”.

Esce anche Gregorio.

Scena Settima “Lo Zodiaco”

Quadro I “Monologo del destino”

Per l’ultima volta nel primo atto, Poli veste i panni del frate narratore.

Entra tenendo in mano una grande scacchiera con un supporto sotto, in modo che

appoggiata rimanga inclinata verso il pubblico, con i pezzi (fissati o calamitati

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sopra) rosa e azzurro chiaro, e, come le mosse del gioco, ripercorre lo “strano

destino d’acqua” di Gregorio: abbandonato al mare in una botticella è approdato

prima all’isola del convento di Frate Gregorio, ora, sempre per caso o per

destino, il mare lo ha portato sulle rive di Bretannia, dove regna, a sua insaputa,

la sua madre/zia.

La scacchiera ed in generale il gioco degli scacchi ha acquisito nei secoli una

simbologia che lo lega agli strani disegni del destino55, ma suggerisce anche

l’idea di un “grande manovratore” che dall’alto muovendo i pezzi, proprio come

in scena Poli sposta le pedine nelle case della scacchiera, decide della sorte degli

uomini.

Poli, rimarca con questo gesto il suo controllo sulla vicenda, come narratore e

come regista, e nel frattempo ridimensiona la tragedia che incombe su Gregorio,

ricordando che non si tratta che di finzione, di un semplice gioco.

Per quanto riguarda invece quello che Poli definisce il “destino d’acqua”, è bene

ricordare che Gregorio è l’erede medievale di una lunga serie di illustri

personaggi abbandonati sull’acqua e grazie ad essa giunti al proprio destino56: a

questa tradizione si aggiunge la simbologia dell’acqua come morte e rinascita,

come eterno fluire della vita e delle cose.

55 Sono infatti numerosissimi nella mitologia medievale ed in quella più recente, i personaggi che decidono il proprio destino giocando a scacchi con la morte. 56 In particolare nella mitologia classica Perseo e i due figlioletti di Rea Silvia, Romolo e Remo, in quella ebraica e cristiana Mosè e soprattutto Giuseppe, protagonista, come Gregorio, di un Romanzo di Thomas Mann

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Il destino d’acqua di Gregorio, però, non finisce qui, giunto a dover scontare i

suoi peccati involontari, andrà pellegrino fino al Mare del Nord; qui verrà

incatenato ad uno scoglio da cui sarà liberato, solo molti anni più tardi, grazie

alla chiave trovata nel ventre di un pesce.

La narrazione delle peripezie di Gregorio è lo spunto per una dissertazione

comica sull’esistenza di Dio e sul suo non essere mai disponibile quando se ne

sente il bisogno.

Il monologo del frate prende di mira, questa volta, un certo antropomorfismo

ingenuo che caratterizza la rappresentazione delle divinità, positive e negative: ne

esce il ritratto di un Diavolo che in fondo si comporta da “buon diavolo”, ed un

Dio che “se esiste non ha nessuna fretta di dimostrarlo”, ma che sembra

dimostrare almeno qualche peccatuccio molto umano, come “la civetteria di

creare il mondo in soli 6 giorni”.

Nel mezzo, poi, c’è l’uomo, con le sue incertezze (“anche il pastorale del

vescovo è fatto a punto interrogativo!”) e le sue presunzioni (“Armoniosa è la

scala ascendente degli esseri viventi, dall’insetto su fino al filosofo; almeno

questo è il parere del filosofo, che l’insetto non si è pronunciato”).

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Quadro II “Le stelle”

Per chiudere il primo atto, Poli ha scelto di inserire una scena cantata e ballata,

con abiti luccicanti d’oro e d’argento, come era d’uso nel teatro di Varietà e di

Rivista (ve ne sarà uno del tutto simile alla fine dello spettacolo).

La canzone si riallaccia al tema del destino del quadro precedente, ma un destino

non più deciso dagli scacchi o dall’acqua, ma dalle stelle e dai pianeti;

diversamente dagli altri brani danzati, questo ha la precisa connotazione di

intermezzo, del tutto staccato narrativamente dalla storia.

La coreografia è estremamente semplice e geometrica, basata sulla creazione di

figure tramite le maschere e i corpi stessi degli attori.

I brani cantati ( con la voce di Poli) coincidono con la presenza dei soli 4

ballerini/attori in scena: le entrate di Poli determinano un brusco cambiamento di

ritmo ( più veloce, con grande presenza di percussioni), e di struttura (che diventa

contrappositiva) nella coreografia.

I ballerini indossano calzamaglie grigie su cui sono applicati alle spalle teli

azzurri e celesti, una gorgiera azzurra e un corpetto azzurro e argento. Sul capo,

alla cintola e in ogni mano grandi maschere oro e argento che raffigurano gli astri

( il sole, la luna, saturno, una stella). Poli ha ancora la stessa tunica della scena

precedente, con sopra una striscia che copre la tunica dal collo ai piedi, sia

davanti che dietro, con disegni geometrici azzurro, argento e oro e sul capo una

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grande stella dorata. Nelle mani due grandi cerchi con dentro raffigurati segni

zodiacali (Gemelli e Bilancia nella prima uscita, Scorpione e Pesci nella

seconda).

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ATTO II

Scena Prima “La miniatura della morte”

Quadro I “Il maiale”

Come all’inizio del primo atto, in questo quadro si inscena un piccolo prologo

alla seconda parte della vicenda che coincide con la seconda vita di Gregorio, il

suo secondo peccato (per quanto il primo fosse soltanto ereditario) e la sua

seconda espiazione.

Si tratta di una scena muta e mimata, mirata a raccontare le terribili condizioni di

indigenza e di tirannia in cui versano i sudditi della duchessa, depredati dai

soldati del perfido Margravio di Lotaringia, pretendente della donna, accampati

in assedio sotto le mura della città.

Due contadini si apprestano a fare festa con un grosso maiale che portano sulle

spalle, legato ad una pertica per tutte e quattro le zampe. Entrano due soldati con

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passo marziale ed evidenti intenzioni di privare i due popolani del prezioso

maiale. Tra i quattro si svolge una breve ed impari lotta. Uno dei due contadini

esce fuggendo, seguito da uno dei soldati; l’altro tenta ancora di resistere ma

finisce col rimanere solo e piangente a guardare il suo maiale che se ne va via

sulle spalle del soldato. Il passaggio dall’atmosfera gioiosa della festa a quella

oppressiva creata dall’arrivo dei due armati è sottolineato in modo molto netto

dall’improvviso cambiare della musica da un motivo allegro e popolare alle

cadenze e i toni gravi di una marcia militare. Forse più che in altre scene mimate,

il mimo sconfina qui nella danza, soprattutto nella parte iniziale, fortemente

ritmica, ed in quella finale quando uno dei popolani, rimasto solo si dispera

battendo un piede per terra, trasformando un gesto naturale di stizza in un vero e

proprio passo di danza.

Ovviamente questo conteso maiale è emblema delle ricchezze depredate e della

situazione di povertà e di arbitrio nel ducato di Bretagna.

I due contadini non portano, come di solito, maschere, ma soltanto dei grandi

nasi posticci che contribuiscono a rendere il loro aspetto più basso e popolare, e

indossano, sopra la calzamaglia grigia, che fa da base a tutti i costumi, una

tunichetta corta, con spacchi laterali, l’uno più chiaro e l’altra più scura, entrambi

sulle tonalità del marrone. Tutti e due indossano anche un cappellone chiaro a

falde molto larghe, piegato sul davanti.

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I due soldati portano invece, sempre sulla stessa base grigia, una cotta dalle

sfumature metalliche con grandi maniche rigide e borchie; sulla testa hanno elmi

scuri con grandi cimieri neri (si avverte già in questa scena la contrapposizione

bianco-nero come buono-cattivo che diverrà più evidente nella scena successiva),

che coprono le orecchie e il collo, ma lasciano libero il viso. In mano tengono

uno scudo rotondo con sopra un mascherone argenteo, identico a quello del loro

signore Margravio.

Quadro II “Gli Sbandieratori”

Si tratta di una breve scena di intermezzo in cui prima soltanto due, poi tutti e

quattro gli attori si esibiscono in semplici figure da sbandieratori.

I quattro paggi hanno gonnellini corti ad ampie pieghe e maniche a sbuffo: il

motivo è a righe molto larghe la cui base è per tutti l’azzurro, con variazioni tra il

viola e il rosso. Indossano una mezza maschera che mette in risalto il naso

bianco, fine, e una fronte particolarmente spaziosa da cui partono i capelli, lisci e

a caschetto. La bandiera con cui compiono le semplici evoluzioni è per tutti

uguale, fatta di due campi distinti, longitudinali, uno rosso e l’altro bianco.

Questo quadro si inserisce nel tessuto della narrazione come cerimonia d’apertura

del duello che si terrà nella scena successiva, dopo un quadro monologato di Poli,

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tra Gregorio e Margravio di Lotaringia; assolve però, a mio parere, anche la

funzione di reintrodurre il pubblico nell’atmosfera cavalleresca della vicenda.

Quadro III “Monologo della guerra”

È il primo monologo di Poli nelle vesti di frate narratore nel secondo atto.

Se il bersaglio dei monologhi comici del primo atto era Dio e con lui il peccato e

il rapporto che gli uomini intrattengono con Dio e con il Diavolo, il secondo atto

si incentra maggiormente su aspetti puramente umani, come il desiderio di potere

e di ricchezza. Qui l’argomento è l’insensatezza della guerra, in questo caso

provocata da una donna, ma ancora di più dal bisogno degli uomini mediocri di

nascondersi dietro l’eroismo, non avendo il coraggio di essere vigliacchi. La

guerra, come la santità, non è che una scusa, il “modo migliore e più rapido per

diventare famosi senza avere talento”; con un vessillo è facile trascinare la gente

dove si vuole, perché l’uomo “è sempre pronto a morire per un’idea purché non

l’abbia del tutto chiara”. La conclusione è che l’uomo ha reso il mondo un

inferno, tanto che il Diavolo dovrà lavorare giorno e notte per rendere il suo

inferno peggiore della terra. In più non risultano nella storia guerre ingiuste,

perché ci pensano gli storici dei vincitori a giustificarle.

Insomma, la guerra non è che un gioco, come dimostrano i quattro cavallini di

legno, bianchi e con tanto di bardatura, che Poli-frate si trascina dietro legati ad

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una cordicella; un gioco stupido e pericoloso con il quale gli uomini si baloccano

per farsi belli di fronte ai loro simili e per nascondere le proprie debolezze, come

in questo caso in cui il pretendente della duchessa, il conte di Lotaringia,

distrugge e depreda tutti i beni della donna che dice di amare, mettendone a

rischio perfino la vita. Un chiaro esempio di egoismo e di una presunzione di

invincibilità che non ha tenuto conto dell’arrivo di Gregorio.

Manca del tutto, nello spettacolo, una parte del racconto che occupa i versi dal

1877 fino al 2116 nel poema e più di un capitolo nel romanzo di Mann, ovvero

la storia del periodo in cui Gregorio, approfittando della pausa invernale dei

combattimenti, si allena nell’equitazione e nell’uso delle armi, e fa la prima

conoscenza con la duchessa sua madre, cominciando a provare per lei i primi

sentimenti di affetto e di amore. In effetti quello che nello spettacolo appare

come un gesto dettato soltanto dalla voglia di “menar le mani”, sia nel poema che

nel romanzo assume significati più profondi, soprattutto per quanto riguarda i

primi incontri di Gregorio con la madre. In entrambi i testi che hanno fatto da

traccia a Poli nella scrittura di questo spettacolo, Gregorio vive quasi un anno nel

regno della madre, senza venire a sapere, ovviamente, della loro parentela: egli la

incontra, la conosce e se ne innamora, e solo in seguito a questo nascente

sentimento decide di dar battaglia a Margravio; egli approfitta di un giorno in cui

il malvagio duca sfida a duello chiunque se la senta di difendere la città e la sua

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duchessa, combatte e vince per amore. In quest’ottica sia il duello che il

successivo matrimonio assumono un senso più umano, meno meccanico di

quanto invece possano apparire dallo spettacolo: mentre per Von Aue e Mann è

sì volere del Cielo (o del destino) che Gregorio sia approdato nel ducato dove

regna la madre, ma è sentimento ed errore degli uomini ciò che accade dopo, ne

La leggenda di San Gregorio anche il combattimento e il successivo matrimonio

sono destinati, voluti da qualcun’altro, sia esso Dio o (più facilmente) quello

spirito della narrazione che solo poche scene prima muoveva, con gli scacchi il

destino di Gregorio.

Scena Seconda “ Il Duello”

Quadro I “Il Duello”

I due contendenti entrano dalle quinte opposte e, prima di iniziare a combattere,

si inchinano alle dame raffigurate sul fondale; quindi inizia il duello68 che vede

fasi alterne fra i due contendenti, pari per forza e per valore. Il duca di Lotaringia

sembra a tratti prevalere, inseguendo Gregorio in una sorta di girotondo e

68 Come tutti i combattimenti, anche questo è didascalicamente simulato.

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colpendo la parte posteriore del cavallo. Anche in questo caso il combattimento

tra i due è didascalicamente simulato, i gesti sono contenuti e dimostrativi, i colpi

senza nessuna volontà di forza: come le altre scene mimate, anche questa è

costruita grazie a movimenti coreografici vicini a quelli della danza, soprattutto

nella simmetria, nella quasi assoluta specularità dei gesti dei due contendenti.

La base dell’abito di Gregorio è la stessa della scena della nave, azzurra e blu con

ricami in argento, arricchita da un cappello azzurro con cimiero bianco, e da una

spada e uno scudo chiaro e molto lavorato. Il cavallo è bianco, riccamente

addobbato con paramenti bianchi lavorati in azzurro che lo coprono fino a terra.

Il cattivissimo Margravio indossa invece un costume più attillato di quello di

Gregorio, completamente nero, tranne che per tarsie bianche sulle gambe e sulle

braccia e per il cimiero, bianco. Ovviamente anche il conte aggressore ha la

spada e lo scudo, nero con il mascherone argentato. La maschera del conte è su

tonalità scure, con il naso lungo e schiacciato, occhi piccoli e scuri, e capelli neri,

la bocca è leggermente contratta in un ghigno irrisorio e altezzoso. Il cavallo è

nero con paramenti neri.

Poli utilizza qui una simbologia del bianco e del nero come buono e cattivo,

tipica della figurazione popolare, sempre sulla linea dell’uso di simboli

saldamente nell’immaginario collettivo, come si era già visto per i cavoli e la

cicogna della prima scena del primo atto.

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La paratura dei cavalli e i cavalli stessi rientrano tra quelli che ho definito

costumi macchina. Si tratta di una struttura rigida ma molto leggera, fissata alla

vita degli attori, che simula il corpo del cavallo coperto fino a terra dalla

bardatura. Fissate al dorso del cavallo due gambe di stoffa imbottita rendono

l’idea della posizione seduta del cavaliere; grazie all’omogeneità cromatica con

l’abito e all’ampiezza dei gonnellini, si fondono facilmente con il resto della

figura, dando l’illusione di un uomo seduto a cavallo.

Quadro II “Vittoria di Gregorio”

In questa seconda parte del duello la lotta, che era soltanto fisica e muta, si

trasforma in schermaglia verbale, una sorta di gara di insulti in cui, a turno,

ognuno dei due contendenti si presta da spalla per le comiche arguzie dell’altro.

Nel frattempo entrano due dei paggi della prima scena con in mano due stendardi

e si fermano ai lati del proscenio. Prosegue il combattimento, che intanto si è

spostato dal palco alla pedana che serve questa volta a distinguere non due spazi

ma due modi diversi di intendere il combattimento: quello fisico prima, quello

verbale adesso.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 146

La vittoria arride a Gregorio, che però lascia in vita il conte a patto che risarcisca

i danni inflitti al ducato. La sconfitta, però, non ha inspirato alcuna modestia in

Margravio, il quale, con fare sprezzante, decuplica la cifra richiesta da Gregorio

come risarcimento, per dimostrare quanto poco si curi della sconfitta e del debito

con una donna, che egli considera “merce vilissima”.

Sia nel poema tedesco che nell’Eletto la vittoria di Gregorio è dovuta, più che

alla forza fisica o all’abilità con le armi, all’astuzia: il giovane riesce ad afferrare

le redini del cavallo del conte e a trascinarlo fin dentro le porte della città,

facendolo così prigioniero.

Nello spettacolo questo episodio manca, ma l’idea che Gregorio superi

l’avversario più per le sue doti intellettuali che per quelle fisiche rimane nel fatto

che la vittoria sia sua durante un duello verbale, dove vale più l’arguzia delle

armi.

Quadro III “Gratitudine della Duchessa”

Dopo l’uscita di scena dei contendenti appare Poli nei panni della duchessa che

esulta per la pace riconquistata esordendo, rivolto al pubblico, con la frase

“Esultate, gente di Bretagna”: questo incipit sembra confermare che Poli abbia

voluto creare l’idea del palcoscenico come una piccola arena in cui i due

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contendenti hanno combattuto sotto gli occhi attenti dell’intero popolo di

Bretannia, costituito dalle dame oltre i merli variopinti del fondale e delle quinte

di Luzzati, ma soprattutto dal pubblico nella platea e nei palchi. Nell’analisi

della prima scene, e poi dei monologhi di Poli come frate narratore, si era visto

come Poli rimarca l’inesistenza della quarta parete con continue interpellazioni;

in questi casi però egli ricorda al pubblico la propria funzione di osservatore e di

giudice, mai, come in questo caso, di protagonista.

Nei panni della Duchessa Poli indossa un ricchissimo abito rosso scuro, lungo,

stretto sotto il seno, con maniche attillate lungo il braccio e sopra lunghe maniche

aperte a mantello, di broccato rosso e argento, con un alto collo rovesciato, e un

copricapo molto ricco e complesso, tipo turbante arricchito sul davanti e sui lati

di catenine pendenti di gemme; sul dietro da due piccoli corni pendono lunghi

drappi rossi.

Per la prima e unica volta all’interno di questo spettacolo, Poli interpreta una

parte femminile57: la sua capacità di essere credibile anche (e soprattutto ) in parti

travestì fa di Poli uno degli attori più interessanti del genere nel nostro paese, che

ha visto poche altre esperienze di questo tipo, a parte la compagnia dei Legnanesi

e l’attore napoletano Leopoldo Mastelloni.58

57 Altre volte, come ad esempio in La Nemica, ha vestito per l’intero spettacolo abiti muliebri. 58 Per una breve storia del teatro di travestimento e la collocazione di Poli all’interno di esso, vedi Cap.4, pp

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Eccolo dunque nei panni della duchessa che, nonostante abbia consacrato la

propria persona a Dio e alla memoria del fratello-amante scomparso.

Questo breve quadro riassume il momento in cui la duchessa esprime la sua

gratitudine a Gregorio e quello in cui annuncia ai notabili la decisione di rompere

il suo voto di solitudine e sposare Gregorio. Le due parti sono ben distinte sia nel

poema che nel romanzo dove la duchessa cede a lunghe pressioni da parte dei

nobili affinché si decida ad prendere accanto a se un consorte che difenda lei

stessa e il ducato: seguono giorni di dubbi e preghiera in cui la donna tenta di

conciliare il voto fatto, l’ormai appassionato amore per il giovane Gregorio e un

sottile presentimento del peccato che sta per commettere.

Anche la Duchessa interpretata da Poli sembra presagire in un angolo del suo

cuore, la sventura che incombe su di lei: confessa infatti di sentirsi attratta da

questo giovane, che per età è poco più di un fanciullo e a cui lei potrebbe quasi

essere madre, per un qualcosa di lui che le è familiare, vicino.

A sancire la loro unione, la donna tende la mano a Gregorio, suo figlio e sposo,

ed egli la stringe: questo gesto è significativo nel confronto con l’altro, del tutto

simile ma di segno opposto, che conclude il Quadro II della scena successiva.

Scena Terza “La camera della duchessa”

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Quadro I “La felicità della duchessa”

Si tratta della quarta canzone dello spettacolo. Questa volta le voci non sono due

ma tre: Quella della duchessa, quella di Gregorio, e quella di tre servette che

fungono da coro.

Il tema della canzone è l’amore che la duchessa afferma di provare per Gregorio,

e per il quale cerca conferme da parte di lui; il coro delle tre servitrici

contribuisce a rasserenarla.

Le servette indossano ampie tuniche fermate in vita, bianche, con maniche

lunghe; sotto la gonna della tunica, aperta a petalo, una sottogonna azzurra.

Sul capo una cuffietta bianca con una balza increspata ad incoronare tutto il viso

coperto da maschere dai tratti molto semplici e fini; sono a tinta unica di un

celeste intenso e lucido, con grandi occhi anch’essi azzurri e sulla fronte hanno

una corona di fiori azzurri.

Quadro II “La scoperta della verità”

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Alla fine della canzone, Gregorio esce per andare a svagarsi alla caccia; rimasta

sola con le proprie ancelle, la duchessa si vanta del proprio sposo e della felicità

che entrambi stanno vivendo.

Ma una delle servette, con tono astioso, le rivela che Gregorio spesso si rinchiude

nella sua stanza e piange guardando una tavoletta.

Nel romanzo di Mann questa parte copre diversi capitoli ed un periodo piuttosto

lungo della vita familiare e di corte. Dal momento del matrimonio fino a quello

della rivelazione trascorrono tre anni che vedono anche la nascita di una bambina

e il concepimento di un’altra (la situazione di complica ancora, le bambine sono

nipoti della loro madre e sorelle del loro padre!); in oltre Mann descrive nei

particolari la vicenda della servetta curiosa e pettegola, di nome Jesciuta, che per

settimane segue Gregorio e lo spia mentre egli si rinchiude nella propria camera a

piangere e pregare davanti alla tavoletta che testimonia le sue peccaminose

origini. Nello spettacolo invece all’individuo Jesiuta si sostituisce una figura che

in nulla si distingue dalle altre due servette, che non ha niente di personale e

neanche di umano: si tratta soltanto della mano impersonale del destino.

Alla Duchessa incredula, l’ancella mostra la tavoletta d’avorio.

La Duchessa inorridisce e corre a chiedere spiegazioni a Gregorio, appena

rientrato, con l’ansia di sentirsi dire che quella tavoletta non è sua, che lui non è

suo figlio. Invece il triste gioco del caso si svela; la Duchessa si rende conto di

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 151

aver sempre saputo senza mai voler sapere, e ora riconosce il volto, le vesti, ma

troppo tardi.

Ma Dio non perdona i peccati del cuore e adesso la donna è di nuovo nel peccato,

di nuovo in disgrazia, anche se il suo amore per Gregorio perdura.

Con un gesto identico a quello della scena precedente la Duchessa porge la sua

mano al giovane sposo il quale rifiuta con decisione, recidendo il legame che con

l’altra stretta di mano aveva contratto.

Egli consiglia alla madre, se vuole almeno tentare di salvare la sua anima, di

aprire il palazzo ai lebbrosi e di servirli umilmente. Nell’uscire di scena la

duchessa, con un gesto simbolico, apre le pieghe della veste, rivelandone

l’interno nero.

Quanto a Gregorio, egli andrà ramingo per il mondo in cerca dei più duri

castighi.

Nell’interpretare, nei panni della duchessa, la scena più drammatica di tutto lo

spettacolo, Poli esaspera i toni, mettendo in scena la caricatura di una

disperazione che usa tutti i cliché del dolore, dalla mano appoggiata mollemente

sulla tempia, ad una sequela di singhiozzi.

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È in questa scena che infine si chiude il cerchio del destino di “innocente

peccatore” di Gregorio: partito in cerca di purificazione dal primo involontario

peccato, la sua origine incestuosa, egli ha finito per macchiarsi di uno ben più

grave e personale, di un secondo incesto che richiede una seconda e più radicale

espiazione.

Per Gregorio si è parlato spesso di un Edipo Cristiano, e in effetti la leggenda

riguardo al giovinezza di questo Papa discende da quella dell’eroe (o antieroe)

greco: la discendenza, però non è diretta, ma passa dalla Grecia classica alla

cultura germanica del 1200 tramite una serie di altre leggende e di altri

personaggi.

Thomas Mann, in una nota del 1951 al romanzo “L’eletto”, traccia una breve ma

interessante storia delle fasi attraversate dalla leggenda edipica fino ad arrivare al

“Gregorio” di von Aue:

Che la storia venga dall’antichità e sia una derivazione della saga di Edipo è

evidente.

Appartiene alla sfera, o meglio alla lunga serie dei miti di Edipo, in cui il motivo

imposto dal destino dell’incesto-orrore con la madre (insieme all’uccisione del

padre) gioca il suo ruolo; ne è un esempio la leggenda di Giuda Escariota,

secondo la quale Giuda, in seguito ad un sogno premonitore di disgrazia, venne,

da bambino, abbandonato ed esposto; ritornato in patria uccise, in occasione di

un furto, suo padre e sposò sua madre.

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Quando la confusione e l’errore vennero alla luce si unì, per purificarsi, ai

discepoli di Gesù, cosa che come è noto, non andò a finire proprio a suo

vantaggio. Il tema si ritrova in canti popolari serbi.

In una leggenda bulgara l’infelice eroe si chiama Paolo di Cesarea. Ne è venuta

alla luce una più antica in cui si chiama Andrea e inizia con la predizione, che

inevitabilmente si compirà, di un doppio orrore.

La via dell’evoluzione della saga sembra passare da Edipo attraverso Giuda,

Andrea, Paolo di Cesarea, fino a Gregorio, anche se a volte il motivo

dell’uccisione del padre è sostituito da un secondo - e poi cosciente- peccato di

incesto commesso o tra padre e figlia o tra fratello e sorella. L’uomo che in

stato di annebbiamento sposa la propria madre ed è già figlio del peccato, frutto

di un amore tra fratelli: in questa forma l’Europa Occidentale ha creato la

favola e ha circondato dell’aura di leggenda l’origine di grandi figure di papi. In

Francia, in Inghilterra, in Germania il nome dell’eroe ora è Gregorio. La sua

origine è vergogna, la sua vita peccato e penitenza senza riserve, la sua fine

illuminazione per mezzo della grazia divina.

Un poema in antico francese La vie de Saint Grégoire, da cui deriva anche un

medio antico inglese, è servito allo svevo Hartmann von Aue come idea modello

per un breve poema epico in versi che intitola Gregorio sullo scoglio o

semplicemente Gregorio o La storia del buon peccatore.

Riguardo a questa tradizione mi pare particolarmente interessante la

contrapposizione tra Giuda e Gregorio, personaggi con una storia simile ma con

un finale tanto diverso. Sembra infatti che la cristianità abbia voluto semplificare

l’imbarazzante ambiguità del personaggio classico, positivo e negativo allo

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stesso tempo, sdoppiandolo in due, un Edipo irrimediabilmente dannato ed uno

destinato addirittura alla santità59.

Quadro III “La penitenza di Gregorio”

Sulle note originali del racconto della passione del Laudario di Cortona si svolge

la danza durante la quale Gregorio viene spogliato dalle tre servette dai suoi abiti

nobiliari. Allegoricamente associato al Cristo e seguendo i versi della laude XIII

del Laudario di Cortona, che ripercorre alcuni momenti della passione, Gregorio

viene legato frustato alla colonna e incoronato di spine. Non è questo il solo

momento in cui Gregorio viene associato alla figura del Cristo, anche la scena

della sua consacrazione a Papa60 è accompagnata da una laude che saluta

l’avvento del Cristo come salvatore.

Riporto di seguito il testo della lauda XIII così come è cantata durante lo

spettacolo, segnalando in nota la versione originale dove ci sono state modifiche,

per la maggior parte destinate a rendere maggiormente comprensibile il testo:

61De la crudel morte de Cristo on’hom pianga amaramente

Quando i soldati62Cristo pigliaro 59 Non ho ritenuto opportuno approfondire i legami della leggenda con quelli della vicenda edipica data la vastità dell’argomento, che avrebbe forse meritato una tesi specifica e di altro tenore. 60 Atto II, Scena VI 61 Laudario di Cortona, lauda XXIII, Passione e morte del Cristo.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 155

d’ogne parte lo circundaro

le belle63 mani strette legaro

como ladro, villanamente.

A la colonna fo, spoliato,

per tutto l’corpo flagellato,

d’ogne parte fo ‘nsanguinato

e battuto ferocemente64

Nel suo bel volto65 li sputaro

e di spine lo incoronaro66

facendo beffe l’accusaro67

ke Dio s’è facto, falsamente.

Tutti gridaro ad alta voce

moia l’falso, moia l’veloce1

sbrigatamente sia posto en croce

ke non turbi tutta la gente

Alla lauda XIII segue immediatamente la lauda XIV, durante la quale di fronte a

Gregorio ormai vestito da mendicante eremita, le tre servette, da immagini della

freschezza, della gioventù e della bellezza, divengono simbolo della caducità dei

62 Nel testo originale ‘Iuderi 63Nel testo originale le sue mane 64 Nell’originale commo falso, amaramente 65 Nell’originale Nel süo vulto 66 Nell’originale e la sua barba si la pelaro ; Poli ha eliminato integralmente questo verso sostituendolo con un altro, riguardante l’incoronazione di spine, per consentire un gesto più teatrale e anche simbolicamente più familiare al suo publico. 67Nell’originale l’imputaro

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beni terreni. Strappandosi le vesti sul petto, rivelano busti che richiamano

simbolicamente all’idea della morte del corpo: il primo raffigura un petto pieno

di ferite, il secondo uno sterno pieno di serpenti ed il terzo uno scheletro.

Credo che la fonte di questa sorta di danza macabra sia una leggenda spesso

raffigurata in affreschi e miniature italiane e francesi tra i secoli XI e XII, quella

dei tre vivi e dei tre morti così descritta da Chara Settis Frugoni68:

L’iconografia dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti presenta la

contrapposizione di tre nobili signori con tre trapassati orribili per il sudario

che li avvolge e per la loro scheletrita o putrescente figura.

la lezione di quest’incontro della vita con la morte è evidente: la morte

condiziona il significato della vita. E la lezione risulta tanto più efficace e

perentoria perché la vita è rappresentata nella sua forma più desiderabile di

gioia, potenza, di ricchezza e la morte nella sua forma più ripugnante, oscena,

beffarda deformazione della bellezza.

Per quanto in questo caso il giovane bello, ricco, potente sia uno soltanto,

Gregorio, mi pare che la descrizione e il senso simbolico della leggenda

combacino assai bene con il testo della laude e la trasposizione visiva che se ne

ha nel balletto: l’uomo non deve gloriarsi di beni terreni la cui caducità è

dimostrata grazie al confronto con la potenza distruttrice della morte.

68 C. Settis Frugoni, Il tema dell’incontro dei tre vivi e dei tre morti nella tradizione medievale italiana, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei, 1967, p.145

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Purtroppo non mi è stato possibile reperire il testo originale della lauda, ma

confido che non sia troppo dissimile da quello riportato qui sotto, nella versione

forse un po’ modernizzata di Poli:

Chi vuole il mondo disprezzare

sempre la morte dee pensare

la morte è fiera e dura e forte

rompe mura e passa porte

Ella è sì comune sorte

che nessun ne può scampare

La morte viene con furore

spoglia l’uom come ladrone

grassi e satolli....

Contro lei non vale ricchezza

sapienza ne bellezza

torri palagi e grandezza

tutti li fa abbandonare

Quindi Gregorio, abbandonati tutti i suoi beni terreni, parte ramingo in cerca di

castigo.

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Scena Quarta “L’Europa”

Quadro unico “Monologo dei Papi” Dopo una breve dissertazione sul matrimonio, Poli, di nuovo nei panni del frate

Narratore, racconta le vicende successive di Gregorio, che, nel suo pellegrinare, è

giunto sul mare del nord.

Dopo giorni di cammino Gregorio giunge presso la capanna di un pescatore: si

tratta di “un castrone che crede nell’uguaglianza”69 un uomo avvezzo a lavorare e

con poca simpatia i signorini, specie quelli a caccia di emozioni che giocano a

fare i pellegrini ma che hanno le mani di chi non ha mai lavorato; trattandolo in

malo modo egli rifiuta al pellegrino qualsiasi aiuto. Ma Gregorio è deciso a fare

penitenza, e oltre a ringraziare per le offese (!) domanda all’uomo se conosca un

posto isolato ed inospitale dove egli possa fermarsi ad espiare i propri peccati.

Il pescatore non si fa sfuggire l’occasione di dare una lezione a quello che lui

crede un impostore e conduce Gregorio su uno scoglio nel Mare del Nord e,

perché non abbia a pentirsi della bravata dopo un quarto d’ora, allo scoglio lo

incatena e butta in mare la chiave e se morirà ancora meglio perché “morire è

l’unica cosa che non puoi incaricare la servitù di fare per te. Nella vicenda

69 Testo dello spettacolo, atto II, Scena IV

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raccontata dal Frate narratore manca totalmente una figura di un certo rilievo nel

Poema e di fondamentale importanza nel romanzo di Mann: la moglie del

pescatore. È lei che intercede presso il marito affinché accolga per una notte

Gregorio, lei l’unica che intuisce il destino di Beatitudine del pellegrino, è

sempre lei che rivela ai prelati in arrivo da Roma la presenza di Gregorio sullo

scoglio, ancora prima del miracolo del pesce.

Passano gli anni, Gregorio sopravvive, cibandosi di muschio e dissetandosi col

l’acqua che cola dalle rocce, ma deperisce sempre di più.

Nel romanzo di Man il problema della sopravvivenza di Gregorio sull’isolotto è

risolto in modo interessante: ne L’eletto si racconta che Gregorio si ciba di una

sorta di latte scaturito dalla terra, l’alimento primo di cui si erano nutriti i primi

uomini, i figli stessi della terra; in più egli si riduce di dimensioni non per un

semplice dimagrimento ma per una vera e propria mutazione che lo trasforma in

un animale più resistente al freddo ed in grado di andare in letargo per lunghi

periodi.

In questa scena, così come era accaduto nella seconda scena del primo atto per i

due fratelli, Gregorio ed il pescatore sono rappresentati da due “attori

meccanici”, due bambole di stoffa cucita, che Poli agita nelle sue mani e fa

parlare tra di loro con la sua voce. Simbolicamente il destino che Gregorio aveva

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tentato di guidare personalmente verso la salvezza, con tanto scarsi risultati, torna

nelle mani di Dio, o meglio del grande burattinaio, come era all’inizio; così Poli

ricorda al pubblico la sua funzione di narratore, o meglio di incarnazione dello

“spirito della narrazione”, grazie alla quale muove, sulla scena e fuori, le fila del

racconto.

Il frate poi racconta ciò che nel frattempo avviene nella storia della chiesa, per

quanto riguarda il succedersi dei Papi: dopo anni di Papi, Antipapi e guerre tra

fazioni erano stati eletti due Papi, i quali si combattevano a colpi di scomuniche

ed insulti; ma uno dei due, in un eccesso di furore, morì, e l’altro , inseguito dalla

fazione opposta si gettò nel Tevere, e morì anche lui.

Così la cristianità si trovò a non avere neanche un Papa.

Si decise allora di cercare lontano un uomo al di sopra delle parti che acquietasse

gli animi; vennero inviati due alti prelati in giro per l’Europa, i quali, cammina

cammina, arrivarono al mare del nord.

Scena Quinta “I cinque scogli”

Quadro I “Il viaggio dei prelati”

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 161

Protagonisti di questa scena sono i due Prelati inviati dal vaticano alla ricerca del

nuovo Pontefice.

Entrano in scena su di una carrozza con cavallo: come le due barche che

compaiono nel primo atto, anche questa carrozza è costituita da una intelaiatura

rigida ricoperta di materiale leggero, ed è mossa e gestita interamente dagli attori

che vi sono all’interno: i due religiosi camminano uno di fronte all’altro, dentro

una struttura coperta, con finestrini e ruote.

Sul davanti di questa sorta di carrozzino si trova, appeso per la sella a due

stanghe, un cavallino, probabilmente di cartapesta, bianco, che non tocca terra

con le zampe e quindi ondeggia, come se trottasse, all’avanzare della carrozza.

Percorso il breve tratto tra la quinta sinistra e il centro della scena, si girano

faccia al pubblico, osservano la danza di un leone, comparso alla loro sinistra, e

lo indicano ritmicamente con il dito.

Dall’altro lato entra un aquila, anch’essa danza e anch’essa i prelati indicano con

il dito.

Si instaura una lotta tra i due dalla quale entrambi sembrano, dopo sorti alterne,

uscire sconfitti. Sia il leone che l’aquila sono animali a cui si attribuisce una

simbologia legata alla forza e al potere: il combattimento che si svolge sotto gli

occhi attenti e partecipi dei due Prelati ripercorre le vicende delle lotte di potere

svoltesi a Roma tra i due aspiranti al soglio Papale. Contemporaneamente la

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 162

scena racconta anche il lungo viaggio compiuto dai due uomini di chiesa,

plausibilmente irto di pericoli, fino a giungere al mare del nord.

L’attore che interpreta la parte del Leone indossa, su una tuta base grigia, petto,

coda, testa e zampe di felino; l’altro invece veste una tuta base nera, sulla quale

ha zampe uncinate, testa nera con lungo becco e grandi occhi, e, fissate lungo le

braccia, ali striate di bianco e coda nera

Quadro II “Il Sogno”

I due proseguono il viaggio, quindi si fermano a lato della scena e, aperta la

carrozza ( che diviene simile a due sedili affiancati), raccontano un sogno che

entrambi hanno fatto: un angelo ha detto loro che nel mare del nord, su uno

scoglio bianco tra 5 scogli neri, vive un eremita: e’ lui il prescelto al pontificato.

Il racconto del sogno rivelatore è giocato sulla frammentazione delle frasi

alternate tra i due personaggi; questo sistema narrativo tende ad esaltare l’identità

dei due sogni in una sorta di crescendo quasi agonistico. Non si tratta, comunque,

di un’invenzione di Poli; anche nel romanzo di Mann si trova lo stesso

meccanismo. Sembra essere invece frutto della fantasia di Poli l’identificazione

dello scoglio bianco tra i cinque scogli neri, che non compare né nel poema né

nel romanzo: l’identificazione del bianco come positivo, come rivelatore della

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salvezza è perfettamente coerente con la volontà di portare in scena dei simboli

dalla comprensione immediata.

Quadro III “Il pescatore”

Entra il pescatore, interpretato da Poli: per l’abbigliamento e la maschera è facile

riconoscerlo come lo stesso che aveva incontrato Gregorio molti anni prima ed

interpretato da un attore meccanico (la bambola di stoffa).

Il costume (o sarebbe meglio dire la maschera visto che, come quella del Gran

Vassallo nel primo atto, è fortemente caratterizzata in senso comico) è tutto

giocato su toni dal grezzo al marrone: ha una maglia e pantaloni pieni di toppe,

sul petto una tasca da cui estrae un coltellaccio per spaventare i prelati. Sopra

porta un panciotto lungo e largo di tela grezza e in testa un cappellaccio marrone

a falda larga fermato sul davanti.

Il viso è caratterizzato da un naso tondo e largo e da due folti sopraccigli,

inclinati dall’interno verso i bordi del viso a dargli un’espressione burbera e

astiosa; la parrucca ha capelli lunghi e folti, bianchi e grigi.

I due religiosi gli chiedono notizia degli scogli e dell’eremita, ma il pescatore

nega l’esistenza dell’uno e degli altri.

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Dopo una lunga tirata su Dio e sugli uomini di Chiesa dai toni aggressivi e

polemici (tira anche fuori un coltellaccio, ci sputa e lo arrota sulle mani,

guardando i due religiosi che si ritraggono impauriti), propone ai Prelati di

pescare e vendere loro del pesce per cena.

Tira davanti a se (orizzontalmente alla scena) un telone alto circa mezzo metro

fissato ad un bastone di legno, azzurro a onde e si avvia al praticabile, canna alla

mano, per fare il suo lavoro.

Quadro IV “La pesca”

Il quadro consiste in una canzone, la quinta dello spettacolo.

Mentre il pescatore getta l’amo in varie parti del palco, i due Prelati estraggono

da sotto la tonaca una grossa forchetta e, con quella pronta in mano, aspettano,

facendo coro al canto del pescatore e battendo il tempo con la forchetta.

La Il testo della canzone è costituito da un elenco di pesci e molluschi che il

pescatore invoca affinché abbocchino al suo amo: il ritmo è ripetitivo e ricalca il

modello di alcune canzoni, il cui testo è soprattutto un divertimento letterario,

tipiche del primo ‘900, dove l’insistenza senza ripetizione costituisce una sorta di

sfida. Poli stesso ci fornisce un paragone in uno dei bis contenuti nella

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 165

registrazione utilizzata nell’analisi: egli canta infatti una canzoncina simile a

questa, tratta dal repertorio del teatro di Varietà, il cui soggetto sono le industrie

ed i modelli delle auto.

Quadro V “Il Miracolo”

Alla fine della canzone entra dalla quinta destra, tra il telone e la pedana un

enorme pesce: è costruito come una struttura rigida e tridimensionale alta circa

un metro e lunga almeno due (grande abbastanza perché vi possa stare nascosto

l’attore che lo fa muovere, lo spezza ed attacca la chiave all’amo del pescatore) ,

sgargiante nei colori dal rosa acceso all’azzurro e all’argento. L’enormità del

pesce (che nel romanzo di Mann è specificamente un grosso luccio) ed i suoi

colori vivaci provocano già meraviglia, ancora prima che accada il miracolo del

ritrovamento della chiave, e del miracolo in fondo fanno parte integrante; si tratta

di un vero e proprio Deus ex Machina, un intervento divino che risolve una

situazione all’apparenza irrisolvibile.

Giunto alla metà del palco il pesce abbocca all’amo del pescatore, si spezza, e il

Pescatore ritira il suo amo con su attaccata una chiave.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 166

L’uomo, che fino a poco prima aveva negato l’esistenza dello scoglio e del

pellegrino visti in sogno dai due Prelati, grida al miracolo: quella è la chiave che

lui stesso aveva gettato in mare tanti anni prima, la stessa con cui aveva

incatenato Gregorio.

Convinto dal miracolo, confessa di aver mentito e corre a liberare Gregorio

(anche questa volta in forma di bambola di stoffa) estraendolo da dietro lo

scoglio bianco: è molto deperito, ma rifocillandolo si riprenderà bene, anche se

non tornerà bello come prima (“in questi casi neanche Dio può fare miracoli!”70)

I due Prelati, dopo aver a lungo mimato espressioni di stupore e di gioia e aver

baciato la manina di stoffa del pupazzo/Gregorio, si preparano a tornare a Roma,

felici di aver compiuto la loro missione. Il pescatore attacca ad un gancio dietro

la carrozza il bambolotto di Gregorio che parte dunque per il suo viaggio verso

Roma e verso il Papato.

Si chiude in questo modo il “destino d’acqua” di Gregorio, grazie all’intervento

di un pesce, simbolo della salvezza, accostato, nella cristianità delle origini, alla

figura del Cristo.

70 Testo dello spettacolo, Atto II, Scena V

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 167

Scena Sesta “Sala del Vaticano”

Quadro Unico “La cerimonia”

Due Vescovi entrano portando un piccolo Gesù e lo appoggiano sulla buca del

suggeritore, entrano altri due Vescovi.

Tutti indossano un’ampia tunica bianca con sopra grandi mantelli porpora.

La testa, un tutt’uno tra una maschera dai tratti larghi e tondi e un’alta tiara

bianca, identica per tutti e quattro i Vescovi in scena, dà loro un aspetto rigido,

che consentirà di confonderli con i manichini, con gli stessi abiti e la stessa

maschera.

Tutti si inchinano alla figura del pontefice sul fondale:

Escono e rientrano con ostensori, con i quali danzano, facendoli roteare e

oscillare, quindi di nuovo escono e rientrano ognuno tenendo davanti a sé un

altro Vescovo a grandezza naturale, in modo da moltiplicare il numero delle

presenze e da affollare la scena e da creare, nel momento in cui, in fila tutti

escono, l’impressione di una processione.

L’ultimo della fila torna indietro a riprendere il Bambinello lasciato in scena.

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 168

La scena si svolge sulle parole e secondo i ritmi di una laude di nuovo

appartenente al codice dei Laudari di Cortona, e precisamente alla parte dedicata

alla natività: come si e visto per la scena dell’addio di Gregorio ai beni terreni, si

crea un’equivalenza tra la figura del Cristo salvatore dell’umanità e Gregorio

salvatore del papato, equivalenza testimoniata anche dal bambinello deposto in

proscenio all’inizio della scena, quasi che l’incoronazione del nuovo Papa fosse

una nuova natività.

Questa scena precede il racconto delle vicende e dei miracoli che

accompagnarono, secondo la tradizione, l’arrivo di Gregorio a Roma e il suo

Pontificato, e rappresenta la scena della consacrazione di Gregorio.

Scena Settima “Gli agnelli”

Quadro I “ Monologo finale”

Si è giunti all’ultimo monologo di Poli come frate Narratore.

La vicenda della giovinezza peccaminosa di Gregorio è finita, resta da raccontare

l’epilogo: Gregorio, dopo aver a lungo rifiutato credendo che si trattasse di una

tentazione del Diavolo, accetta di divenire Papa, ma si fa chiamare “servo dei

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 169

servi di Dio” e al suo arrivo a Roma tutte le campane cominciano a suonare senza

essere toccate da mano umana; durante il suo pontificato compie molti miracoli,

come l’interruzione della peste a Roma o il richiamare l’Imperatore Traiano, già

morto, in vita per consentirgli di convertirsi e di salvare l’anima , evitandogli così

l’inferno.

Fu un Papa energico ed attivo, che portò modifiche e riforme nella Chiesa.

Tra i molti penitenti che arrivavano da lui, giunge anche una donna nobile e di

bell’aspetto, nonostante una vita di dolore e di privazioni. Costei confessa i suoi

molti peccati e si rivela infine come la Duchessa, Madre/moglie di Gregorio. I

due si riconoscono e gioiscono per la ritrovata grazia del Signore. Poli però non

ha saputo trattenersi dall’insinuare un dubbio all’interno di questo finale di

ritrovata innocenza: infatti, quando Gregorio chiede alla madre “ma davvero non

mi avevate riconosciuto?” lei risponde (e sono le ultime parole dello spettacolo):

“Io? Ma io ti riconosco sempre...”

Gregorio e la Madre sono rappresentati da teste di stoffa piatte, come due guanti,

mosse dalle mani di Poli: Gregorio, riconoscibile come sempre dai capelli rossi,

ha l’abito bianco e oro e la tiara papale, la donna una complessa acconciatura sui

capelli (sempre rossi).

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Capitolo 2: Analisi dello spettacolo _ p 170

Quadro II “La vittoria del bene”

Come alla fine del primo atto, Poli chiude anche questo secondo atto con un

balletto, legato da un sottile filo di senso al resto della vicenda: quattro Angeli in

abito corto, dorato, riccamente decorato al collo e sul petto, con sulle spalle

piccole ali dorate e sul capo una coroncina con aureola, annunciano la vittoria del

Bene cantando la gloria del Signore, ballando e suonando tamburelli e lunghe

trombe dorate. Ricevuto dalle quinte un Diavolo tondo e rosso, con una barbetta

a punta e cornetti sulla fronte, cominciano a palleggiarselo l’uno con l’altro,

tirandolo in aria.

All’entrata di Poli, vestito di un frac bianco con sopra una tunica aperta davanti,

bianca ma molto lavorata in oro, senza maniche ma con un grande collo, cala

dall’alto una grande colomba bianca, simbolo di pace e di salvezza e qui,

generalmente, del bene, le cui zampe arcuate formano un cerchio

Gli angeli palleggiano ancora un po’ il Diavolo/palla, quindi lo mettono “a

canestro “ tra le zampe della colomba.

Lo spettacolo, come il Poema, finisce dunque con un happy-end, con il trionfo

del bene sul male e la sconfitta del demonio.

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Bibliografia _ p171

Capitolo 3: La scenografia

Emanuele Luzzati

Emanuele (Lele) Luzzati nasce a Genova il 3 luglio 1921. Nel 1940 si

trasferisce a Losanna dove studia e si diploma all’Ecole des Beaux Arts. Qui

trova gli amici Fersen e Trionfo già conosciuti a Genova e come lui costretti

ad emigrare in Svizzera per motivi razziali. Assiste nel ‘45 alla messa in

scena de l’ Histoire du soldat di Stravinskij nello stesso famoso allestimento

del 1918. Un’esperienza, questa, che sarà decisiva per tutta la sua successiva

attività di scenografo.

Insieme a Fersen e a Trionfo, sempre a Losanna, lavora alla creazione di una

pantomima ispirata alla leggenda di Salomone e della Regina di Saba, per la

quale disegna le sue prime scene. Lo spettacolo verrà ripreso a Genova dopo

la guerra. Nel 1947, finita la guerra, alternandola a quella di illustratore,

decoratore e ceramista, inizia la sua attività di scenografo professionista in

Italia: firma le scene e i costumi della Lea Lebowitz, un dramma ispirato ad

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Bibliografia _ p172

un’altra leggenda ebraica, scritto e diretto da Fersen, rappresentato al Teatro

Nuovo di Milano.

Negli anni ‘50, lavorando con Fersen e Giannino Galloni e su testi

prevalentemente classici (Shakespeare, Goldoni, Moliere) é tra i fondatori e

gli animatori del Piccolo Teatro Eleonora Duse, il futuro Stabile di Genova.

Nel 1960 collabora con Aldo Trionfo alla Borsa di Arlecchino, dove conosce

Paolo Poli e con lui Claudia Lawrence, Marco Parodi, Giancarlo Bignardi.

Avviene qui l’incontro di Luzzati con il teatro di Ionesco, Beckett e de

Ghelderode. Del 1960 é anche il suo sodalizio con Giannini e il loro primo

cartone animato, I paladini di Francia. Da allora la sua attività nel campo

dell’animazione si affiancherà costantemente con quella teatrale, fino quasi,

oggi, a prevalere.

Negli stessi anni fonda, insieme con Franco Enriquez, Valeria Moriconi e

Glauco Mauri la Compagnia dei Quattro, per la quale, nel corso di una lunga

collaborazione firmerà numerosissime scenografie. Continuano anche i suoi

molti interventi nel campo della lirica, iniziati nel ‘52 con le scene e i

costumi per La Diavolessa di Galuppi (regia di Pavolini, per la Biennale di

Venezia) e culminati nella messa in scena del Flauto Magico a Glyndebourne

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nel 1963 per la regia di Enriquez. Del 1963 é anche il suo primo allestimento

brechtiano, Un uomo é un uomo per la regia di Tolusso al Teatro Stabile di

Trieste e nel 1965, tramite De Bosio, l’incontro con Ruzante (L’Anconetana

e Bilora) al Teatro Stabile di Torino.

Sono questi gli anni in cui più Luzzati divide l’attività teatrale con quella di

ceramista, in cui matura il suo rapporto con Giulio Giannini nel cartone

animato e in cui trova tempo e modo di realizzare l’antica vocazione di

illustratore di libri.

Nascono così e si perfezionano nei diversi mezzi espressivi alcuni temi

tipicamente luzzatiani (Pulcinella, Flauto magico, Paladini) che ricorrono

nella totalità delle sue opere in un continuo trapasso dalla pagina al

fotogramma, dal fotogramma al teatro, dalla parola alla musica.

L’attività di Luzzati, intanto, si estende anche all’estero: al festival di

Glyndebourne, dove viene invitato varie volte, si aggiungono la Chicago

Opera House, il London Festival Ballet, la Staats Oper di Vienna.

Nel 1967 ottiene il premio Bratislava per i suoi libri illustrati e nel 1973 i

cartoni animati La gazza ladra e Pulcinella, realizzati con Giannini,

ottengono la nomination all’Oscar.

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Dagli anni ‘70 ad oggi continua la sua intensissima collaborazione con i

Teatri Stabili (Roma, Torino, Bolzano, Milano, Trieste), gli enti lirici (La

Scala, San Carlo, Teatro Massimo, Maggio Musicale Fiorentino) e le

cooperative teatrali.

Pur nella incredibile molteplicità delle sue produzioni, Luzzati ha mantenuto

costantemente un punto fermo che oggi sembra conservare un ultimo

evidente riferimento nella collaborazione con Tonino Conte e il Teatro della

Tosse (di cui, insieme a Conte, é direttore artistico): é il legame con le sue

radici genovesi, con la città che non ha mai lasciato.

La scenografia di Luzzati non é mai decorativa, ambientale o di arredamento,

é sempre trasfigurazione di una personale immagine poetica, di una idea di

teatro che parte direttamente dal testo e si trascrive in immagini plastiche, in

racconto fantastico.

Per Luzzati il teatro é soprattutto un linguaggio capace di raccontare favole: i

suoi personaggi preferiti sono i re e le regine, al posto delle facce, le

maschere, al posto dei vestiti i costumi. Per questo nei primi anni crede di

non poter rappresentare che i classici. Se la storia e il mito possono venir

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raccontati come una favola, tutto ciò che é moderno e presente gli sembra

implicare necessariamente il realismo. Ma quando intorno agli anni ‘60 si

conoscono in Italia i primi testi di Ionesco e di Backett, Luzzati scopre

attraverso quel teatro una chiave per rappresentare fuor di realismo anche il

moderno. I procedimenti linguistici del teatro dell’assurdo, gli accostamenti

alogici delle parole, la sostituzione del casuale al causale, gli suggeriscono

altrettante immagini visive basate su simmetrici principi di destrutturazione e

reinvenzione del reale. È la rivelazione di una lingua che in modo fantastico

rappresenta il quotidiano e insieme la scoperta che ogni testo letterario

produce una sua immagine visiva, richiede il suo materiale.

Da quel momento in poi, tra le tecniche creative di Luzzati prevalgono il

collage, l’assemblaggio di materiali e tecniche diversi.

In particolare é sempre un assemblaggio di materiali di recupero, di residui:

residui della vita quotidiana (materiali e oggetti usati, tele, stracci, pizzi,

ferraglie, carte da parati, mobili), e residui del mondo teatrale (maschere,

cartapesta, arredi scenici, sipari, cartelloni) e dei suoi protagonisti (re, regine,

pupi siciliani, paladini, personaggi della commedia dell’arte, burattini). Una

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continua opera di trasposizione dove il ricco e il povero, il vero e il falso si

cambiano continuamente di posto.

A seconda della rappresentazione, i moduli espressivi di Luzzati variano

dagli arabeschi grafici dalle ricche campiture cromatiche (per opere musicali

e balletti) alle strutture volumetriche ricche di anfratti e di spessori (come le

grandi sculture per Ionesco e Ruzante), dalle formule per moduli ripetuti

(come la simbolica sedia per Il Golem) alla semplice struttura a ponteggi e

praticabili (come per il Tito Andronico) oppure al più luzzatiano dei giochi

teatrali, la scatola del prestigiatore, che si anima, si trasforma, si gira, si

modifica, sempre piena di sorprese ( come la scatola di Un uomo é un uomo,

o di La tarantella di Pulcinella).

Le prime scene di Luzzati sono scene dipinte, sullo scenografo sembra

prevalere il pittore; intorno al 1960, in seguito al contatto con il teatro

popolare di Ruzante e al moderno teatro dell’assurdo, la sua attenzione

sembra rivolgersi dalla forma alla materia, e soprattutto alla ricerca di

materiali da riutilizzare, con i quali reinventare una realtà diversa.

Nel 1963, con la messa in scena de Il flauto magico, Luzzati torna alla scena

dipinta dal momento che scopre la sostanziale identità tra fiaba, musica e

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pittura: la scena dipinta e il colore si adattano particolarmente al balletto e

alla lirica dove l’azione é in secondo piano rispetto alle forme, al colore, al

movimento e alla musica.

In questo tipo di scene non solo il fondale é dipinto, ma anche i costumi e gli

oggetti: sono scene prevalentemente per spettacolo musicali, o, come ne La

donna serpente, spettacoli di teatro totale, dove la scenografie e la musica

giocano un ruolo fondamentale insieme all’attore.

La scenografia de “La Leggenda di San Gregorio”

In un articolo pubblicato su L’Unità, Edoardo Sanguineti si esprime in questi

termini in occasione di una mostra personale di Luzzati:

Ed ecco allora qui in scena, i pupi siciliani mescolati al museo delle cere, le

biciclette dorate e i megafoni a vista, orienti tra i rococó e il semi Salgari.

Ernst impastato con Klimt e Füssli, le bambole meccaniche da collezionista

le bambine di Carrol forografo, il cantastorie da piazza e la vamp da sotto

Holliwood, le scatole a sorpresa con testone dragonesco cartoanimato

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emergente da sepolcreto e, più dentro ancora, per supersorpresa, la sposa

da torta nunziale, , tutta in bianco peruginesco [...]. Tutto ció che si é già

visto da qualche parte, da tutte le parti, che si é visto e rivisto, ma cosi, a

questo punto, con quel contesto lì, forse no, o forse non ancora, non in grado

tale.71

Ho scelto di riportare questo brano dell’articolo di Sanguineti perché credo

che renda bene l’idea delle somiglianze di fondo che legano il lavoro di Poli

con quello di Luzzati: si tratta innanzi tutto di un gusto del colore e

dell’oggetto appariscente, nella creazione di un ambiente che usa il kitsch

come elemento del surrealismo, della sostanziale negazione del realismo a

teatro. L’altro tratto fondamentale che lega questi due artisti é la “poetica del

riutilizzo”; Luzzati riutilizza materiali, ma in questo caso, nel caso dei

fondali dipinti per Poli negli ultimi anni72, egli riutilizza soprattutto immagini

appartenenti al patrimonio collettivo della memoria, brandelli

dell’immaginario artistico dello spettatore, ne La leggenda di San Gregorio

con citazioni più o meno puntuali di quadri, arazzi, affreschi, miniature, il

71 E. Sanguineti, Pop Settecentesco, in “L’Unità”, Domenica 22 aprile 1979 72 La collaborazione di Luzzati con Poli risale all’inizio degli anni ‘90, con Il coturno e la ciabatta, e continua con La leggenda di San Gregorio, L’asino d’oro, I viaggi di Gulliver.

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tutto smontato e rimontato in modo da costituire un già visto sotto una

prospettiva del tutto nuova.

Stessa operazione compie Poli da anni con i suoi spettacoli: questo tipo di

approccio era forse più evidente quando la fonte dei suoi testi era

temporalmente più vicina e per gran parte del pubblico più familiare, in

quando estratta dal mondo della canzone e del teatro di Rivista.

Poli non riutilizza soltanto il “che cosa” ma anche e soprattutto il “come”,

imitando ed esasperando i modi di certa recitazione, i gesti e gli accenti delle

dive del cinema muto, le sclerotizzazioni e le ovvietà di certi stili letterari o

di certi modo di dire: pesca a fondo nell’immaginario-abitudinario dello

spettatore, ne accentua volutamente i tratti fino a stravolgerlo, a mostrarne

l’inconsistenza, la futilità.

Luzzati ha spesso usato un dispositivo molto agile e funzionale denominato

“scena costruita”, costituita da una serie di pedane adeguatamente disposte

che possono essere unite da ponteggi o scale73. Questo tipo di scena é adatta

73 Luzzati ha usato questo tipo di scena anche per Titus Andronicus (regia di Aldo Trionfo) e per Le Mosche (regia di Frenco Enriquez)

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a qualsiasi tipo di spettacolo, non c’é neanche bisogno di porvi sopra oggetti

o mobili, gli attori infatti possono sedersi sui gradini o per terra.

Per gli ultimi quattro spettacoli di Poli, tra cui anche la leggenda di San

Gregorio, il cui impianto scenografico è identico, Luzzati ha usato la stessa

pedana di colore azzurro, alto circa 50 cm che corre lungo tutta la parete di

fondo del palco e che degrada in due lunghi scalini verso il pubblico; ai lati,

più alte (in tutto circa 1 metro) ma comunque unite al praticabile, due scale

con 5 scalini, sempre azzurre74.

La presenza della pedana movimenta l’area del palco senza inserirvi elementi

ambientali e decorativi, mantenendo cosi una neutralità che consente di volta

in volta di farne un utilizzo differente: talvolta assolve la funzione di

distinguere spazi diversi, come ad esempio nella terza scena della prima

parte, quando il giovane Duca si congeda dalla sorella al centro del

praticabile, sul fondo del palco, mentre Poli fa i suoi commenti in

proscenio75; oppure segna differenze di situazione come nella seconda scena

della seconda parte, quando il duello tra Gregorio e Margravio si mantiene

74 Vedi Tavola 1 75 Invertendo, in più, la dinamica abituale di queste scene, ponendo la scena in secondo piano e il controscena in primo piano.

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sul palco finché é fisico, per poi spostarsi sulla pedana quando diviene

verbale.

Altre volte invece i fondali sono dipinti in modo che la pedana con le scale

risulti quasi una proiezione tridimensionale delle architetture raffigurate, in

modo da sembrare così inglobata nell’ambiente suggerito dal fondale stesso.

L’immagine scenografica dello spettacolo é dunque basata tutta sui

quattordici fondali dipinti da Luzzati che vengono alzati a vista entro

un’intelaiatura metallica grazie ad un sistema di carrucole simile a quello

usato per issare le vele delle navi.

Alcuni di questi fondali raffigurano ambienti, scorci di interni o paesaggi,

altri invece riportano immagini non legate ad un luogo: i primi fanno da

sfondo alle scene mute o a quelle dialogate, i secondi alle scene dei

monologhi di Poli come Frate Narratore. Anche nei fondali che

rappresentano degli ambienti Luzzati non persegue mai un obbiettivo di

mimesi della realtà, mai desidera creare l’illusione di uno spazio reale.

Lo scopo è piuttosto quello di collocare la scena in un ambito spazio-

temporale irreale, falso, letterario: se Luzzati dipinge su un fondale lo

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spaccato di un interno fa caso a forzarne la prospettiva in modo che non dia

l’impressione di essere vero: egli stesso descrive cosí il suo concetto di realtà

a teatro:

Perfino le scene più realistiche del mondo, quelle alla Visconti, che non

trascurava neanche un particolare e gli oggetti li esigeva originale

dell’epoca, erano meno vere di quanto si pretendeva. È vero che gli attori si

muovevano in una stanza per tre quarti assolutamente reale, ma per un

quarto era del tutto assurda perché continuava in una platea con tante

poltrone dove la gente stava seduta a guardare la loro intimità. In fin dei

conti le scene alla Visconti sono altrettanto trasposte della nostra

automobile fatta con la sedia rovesciata.

Per non parlare del fatto che al finale un gran tendone viene a chiudere la

quarta parete per chiarire meglio che tutto quello che avete visto fino ad ora

è finzione e tutti i personaggi morti, sposati o feriti, vengono arzilli a fare la

riverenza, non tanto per ringraziare il pubblico che li ha applauiti, ma per

ricordare che tutto era finto76.

Il medioevo messo in scena da Luzzati è costituito da brandelli di immagini

familiari allo spettatore, tratte dal suo patrimonio iconografico (tramite

citazioni più o meno puntuali di opere figurative di un periodo che spazia

dalla tarda romanità fino al gotico internazionale) e immaginativo, 76E. Luzzati T. Conte, Facciamo insieme teatro, Torino, Einaudi, 1977, pp. 38,39

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sollecitando nella mente dello spettatore l’immagine di un medioevo che

sembra vero, ma non lo è.

Ecco una analisi dettagliata dei 14 fondali:

Il cortile del palazzo77

In questa prima scena il fondale rappresenta una chiesetta rosa, circondata da alberi,

ai lati due alti muri altrettanto rosati. Tra gli alberi, ai due lati della chiesa, un enorme

pavone con la coda ben in vista e due cigni.

Per la composizione semplice e per i colori questo fondale ricorda affreschi

trecenteschi, soprattutto di epoca giottesca e post-giottesca.

La sensazione che se ne ha è che si tratti del cortile interno di un castello, mura di

cinta con le pensiline per le vedette e la cappella di famiglia.

77 Vedi tavola 2

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La presenza dei due animali contribuisce a creare un’atmosfera di nobile

bellezza sia per la loro natura decorativa, sia per quella simbolica: Il cigno è

animale simbolo di grazie e di bellezza, il pavone ha assunto invece, nei

secoli, simbologie talvolta positive, per la sua bellezza ma anche per la

presunta incorruttibilità delle sue carni, che ne hanno fatto un simbolo

cristologico, e talvolta negative, facendone sinonimo di superbia.

L’unicorno78

Sul fondale alle spalle di Poli, nella veste di narratore, giganteggia un

unicorno, animale favoloso della simbologia antica79 che dall’originario

significato fallico, è passato, in epoca cristiana, a simboleggiare purezza e

forza; miniature ed arazzi medievali illustrano che può essere catturato solo

con l’aiuto di una vergine, nel cui grembo esso si rifugia fiduciosamente

dopo di che, imprigionato dai cacciatori, viene messo a morte. A questa

tradizione fa riferimento Mann, al momento di narrare i mormorii che

78 Vedi Tavola 3 79 Nella tradizione antica e medievale, l’unicorno è rappresentato come un cervo bianco artilodattilo, con criniera di cavallo e un corno a spirale sulla fronte. H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991, p.565

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serpeggiano alla corte dei due fratelli, riguardo al loro rapporto. Scrive

Mann:

Una volta Messer Wittich, ex cavaliere, con una spalla obliqua e una

linguaccia maligna, disse a tavola che il duca Wiligis un giorno si

acquisterebbe certamente gloria con l’impadronirsi dell’alicorno, quando

questo si fosse addormentato nel grembo della sua casta sorella.80

Il valore simbolico di questa raffigurazione è reso più chiaro dalla presenza

accanto all’unicorno, ma molto più piccolo, un agnello, il cui riferimento

religioso, in particolare legato alla figura del Cristo, è evidente, e un animale

dalle lunghe corna, non facile da identificare, ma probabilmente un caprone,

la cui simbologia demoniaca e infernale è altrettanto evidente.

Quindi a circondare l’unicorno, grazie a Mann simbolo dell’incesto

commesso dai due giovani, ci sono da un lato il bene e dall’altro il male.

Tra le montagne e il mare, fortemente stilizzati, si intravede un cane

raggomitolato su se stesso: del tutto assente nel poema medievale, la figura

del cane riveste una fondamentale importanza nella vicenda, per come la

racconta Thomas Mann: nel romanzo infatti i due giovani hanno come fedele

amico un cane, Hanegiff, che dorme sdraiato tra i due letti.

80 T. Mann, L’Eletto, Milano, Mondadori, 1979, p. 49

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Durante la notte del primo peccato, il cane, quasi ad avvertire

dell’irreparabilità dell’atto che i due giovani stanno per compiere, non la

smette più di latrare, tanto che il duca esce inferocito dal letto della sorella e

con un coltello lo sgozza; poi, sporco di sangue, torna dall’amata e porta a

compimento i suoi propositi.

Il momento dell’uccisione del cane segna, per il giovane duca il passaggio

dalla virtù al peccato, ancor prima che questo si compia con l’incesto, e

marchia con il sangue del povero animale il suo destino di morte.

Nell’insieme il fondale ricorda, per i colori e per la composizione delle

figure, arazzi tardo medievali e rinascimentali, soprattutto di ambiente

nordico e francese.

L’interno del palazzo81

Il fondale e le quinte della terza scena rappresentano uno scorcio prospettico

di un interno dalle cui ampie vetrate si scorge sulla destra una grande

terrazza decorata da una colonnina tortile, al centro una porta di stampo

81 Vedi Tavola 4

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greco e sulla sinistra una finestrina strombata da cui si intravede il cielo

azzurro e lo scorcio di un’altra stanza, con il soffitto a grandi travi e un

camino tondo.

Sulla quinta di destra un corridoio su cui si apre una porta, su quella di

sinistra una porta aperta; il pavimento dipinto nei fondali è a mattonellone

alternate bianche e nere.

Il dato che colpisce di più in questa rappresentazione di interni è la

prospettiva estremamente forzata che in parte stravolge le forme e che

ricorda di nuovo quella dei dipinti di fine ‘200.

Il bosco82

In questa scena il fondale dipinto da Luzzati rappresenta un bosco di alberi

bassi e frondosi, simile ad una pineta, in un’atmosfera notturna: il bosco ha

una lunga tradizione di simbologie, a partire dalla rappresentazione

celeberrima di Dante, che ne fa il simbolo del peccato, anche in seguito il

bosco è sinonimo di smarrimento della retta via. L’ispirazione di questo

fondale è sicuramente più simbolica che ambientale dato che, al pari del

82 Vedi Tavola 5

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grande arazzo con l’unicorno della scena II, fa da sfondo ad una scena

monologata del Frate Narratore il cui tema è proprio il peccato.

La scogliera83

È il primo dei tre fondali di ambiente marino di fronte ai quali si svolgono le

tre tappe del “destino d’acqua” di Gregorio: rappresenta sulla sinistra un

mare azzurro, leggermente increspato di bianco, sulla destra una costa

rocciosa sulla quale si trovano le case di un piccolo villaggio e più in alto le

mura bianche e la torre campanaria di un monastero. I tre luoghi raffigurati

rappresentano tre parti distinte ed importanti per la vita di Gregorio: il

villaggio di pescatori in cui vive con coloro che crede essere i suoi genitori e

fratelli, il convento di Frate Gregorio, in cui il giovane riceve la sua

educazione, dove apprende la legge e la teologia, ma dove anche, di nascosto

legge i romanzi cavallereschi che lo porteranno a voler diventare cavaliere, e

la spiaggia , luogo di arrivo e di partenza del destino di Gregorio, in cui,

materialmente la scena si svolge.

83 Vedi Tavola 6

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Luzzati ha dunque saputo in una sola immagine riassumere i 15-16 anni di

vita che intercorrono tra il ritrovamento della botticella da parte del pescatore

fino alla decisione del giovinetto di ripartire per mare alla ricerca di gloria e

della sua vera identità.

Città sulla riva del mare84

Seconda tappa del “destino d’acqua” di Gregorio: il fondale raffigura a

sinistra una città fortificata le cui mura scorrono lungo una scogliera. Si tratta

di mura fortificate irte di una selva di torri e torrette cilindriche con il tetto a

cono rovesciato, grigio: alcune delle torri fanno parte delle mura, altre dei

palazzi della città, di cui si intravedono i tetti e le finestre. Dalla parte

opposta il mare azzurro, calmo e il cielo altrettanto azzurro.

La raffigurazione della città, di evidente stampo gotico, ricorda quelle dei

dipinti trecenteschi; in particolare, sempre nell’ordine di sfruttare

l’immaginario e la memoria artistica dello spettatore, il riferimento è alla

raffigurazione forse più famosa della città del trecento italiano, quella de Gli

84 Vedi Tavola 7

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effetti del buon governo nella città e nella campagna85, di Ambrogio

Lorenzetti. Come composizione del fondale ricorda invece molto da vicino

un altro dipinto, sempre di Ambrogio Lorenzetti, appartenente ad una serie di

quattro tavolette con storie di San Nicola86, in cui il Santo accoglie sulla

spiaggia alcune navi, di fronte ad una città fortificata. Da notare che le

architetture, per quanto non particolarmente definite ricordano costruzioni

nordiche, soprattutto per la forma circolare delle torrette, e per il tetto a cono

grigio: questa nota geografica identifica la città come appartenente a quel

regno di Bretannia in cui la storia si svolge.

Lo zodiaco87

Il fondale riproduce parte di un calendario con zodiaco: Due grandi

semicerchi chiari, in cui compaiono le scritte di giorni, mesi e segni

zodiacali, distinguono una semicorona e una lunetta.

Nel semicerchio che divide il calendario dallo zodiaco, spiccano in bronzo e

oro su azzurro, un cancro e un leone.

85 Ambrogio Lorenzetti, Effetti del buon governo nella città e nella campagna, affresco, 1338/1340, Siena, Palazzo Pubblico 86 Ambrogio Lorenzetti, Storie di San Nicola, tavola, 1332, Firenze, Uffizi 87 Vedi Tavola 8

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Nella lunetta centrale , il carro del sole guidato da un vecchio e trainato da

due cavalli alati, ancora in grigio e oro su campo azzurro.

Al di fuori del semicerchio un grande cielo stellato; sulle quinte laterali è

riproposto lo stesso motivo.

Questo tipo di figurazione richiama evidentemente i calendari medievali e

soprattutto rinascimentali, in particolare mi sembra che si rifaccia

esplicitamente ad un calendario con zodiaco molto famoso, parte integrante

di un libro d’ore miniato dai fratelli de Limbourg88 nel 1416, la cui parte

superiore è praticamente identica come colori e come composizione al

fondale dipinto da Luzzati.

La miniatura della morte89

Il primo fondale del secondo atto raffigura una grande lettera capitale di un

codice miniato: una “G” (forse la “G” di Gregorio o quella di Guerra) dipinta

in oro, nel cui incavo si intravedono nell’oscurità uno scheletro con in mano

una falce, evidentemente la morte, e un demonio cornuto. Sulle quinte

88 Fratelli de Limbourg, dalle “Très riches heures du Duc de Berry” , miniatura su pergamena, 1416, Chantilly, Musèe Condè. 89 Vedi Tavola 9

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laterali due grandi pagine di antifonario, con note e testo per la messa

cantata.

Di nuovo si tratta di una raffigurazione non ambientale ma simbolica e a due

livelli: da un lato l’immagine della morte e del diavolo all’interno della

grande “G” dorata lascia presentire la situazione di malvagità, di morte e di

prevaricazione in cui la città della Duchessa si trova; dall’altro la

raffigurazione di questa morte e di questa malvagità vengono inserite

all’interno di un codice miniato, a rimarcarne la natura letteraria e non reale.

Sotto le mura della città90

Alla base del fondale e delle quinte laterali scorre una grande striscia rossa, sopra vi è

una composizione geometrica di quadrati e strisce di stoffa di ogni colore e fantasia.

Sopra vi è una folla di dame riccamente vestite, sporte gentilmente in fuori a seguire

il duello, a gruppi di tre o quattro per finestra, appoggiate a davanzali azzurri. Si tratta

forse di una di uno dei fondali più tipici di Luzzati, in cui compaiono volti umani

disegnati con un tratto e una colorazione dallo stile inconfondibile, ma soprattutto in

cui la poetica del collage, fondamentale per l’opera dello scenografo, emerge con

90 Vedi Tavola 10

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decisione, sia pure nell’unidimensionalità della superficie dipinta, nei molteplici

colori e fantasie che simulano un mosaico di svariate stoffe.

L’aspetto cortese rafforza l’idea che si tratti più di un torneo per divertire le dame del

castello che di una sanguinosa battaglia, in cui Gregorio mette a repentaglio la propria

vita per difendere la duchessa e i suoi sudditi.

La camera della Duchessa91

Il fondale rappresenta uno spaccato dell’interno del palazzo ducale: Si tratta

di una camera da letto camera da letto con un pavimento ornato da lettere

dell’alfabeto gotico, un grande letto rosso con lenzuola bianche, sfatto; dietro

alcuni altri mobili, archetti, scorci di corridoi.

In primissimo piano tre colonnine esili ed alte sorreggono 2 archetti a sesto

bassissimo e sulle quinte laterali ancora archetti e colonnine.

L’Europa92

91 Vedi Tavola 11 92 Vedi Tavola 12

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Sul fondale e’ dipinta una cartina geografica antica che raffigura l’Europa, in cui

stemmi colorati contrassegnano regni e famiglie; in primo piano è l’Italia, ed al centro

Roma, su cui campeggia lo stemma pontificio.

La raffigurazione dell’Europa segna un passaggio importante nella dimensione della

vicenda, ovvero il passaggio da una dimensione aneddotica e personale ad una

storica: si tratta del primo legame stabilito tra la vicenda leggendaria della giovinezza

di Gregorio e il suo destino di personaggio storico.

Gli scogli93

Il fondale rappresenta di nuovo un paesaggio marino: la terza e ultima tappa

del “destino d’acqua” di Gregorio, quella che vede la sua espiazione; in un

mare aperto e schiumoso spiccano cinque scogli neri e uno bianco. Luzzati

inserisce nella composizione del fondale soltanto gli elementi strettamente

necessari in modo che la funzione simbolica (il bianco come positivo) e la

funzione distintiva dello scoglio bianco risultino immediatamente evidenti.

93 Vedi Tavole 13/14

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Bibliografia _ p195

Il questa scena compare l’unico altro elemento scenografico dello spettacolo,

oltre i fondali e la pedana: al momento della canzone della pesca, Poli fa

scorrere dalla quinta destra a quella sinistra un telone azzurro dipinto ad onde,

alto circa un metro, legato lateralmente ad un bastone, che nasconde tutta la

pedana. Dietro a questo telone compare il grosso pesce nel cui interno si trova

la chiave delle catene di Gregorio.

Sala del Vaticano94

Sul fondale è dipinta una sala riccamente addobbata di drappi color porpora. al

centro un altare dorato con drappi azzurri su cui campeggia la figura, in primo

piano, del Pontefice, ai suoi lati vescovi vestiti di rosso (a sinistra) e di azzurro

(a destra).

Gli agnelli95

L’ultimo fondale dello spettacolo, quello della scena della salvezza e del

trionfo del bene, rappresenta un decina di agnelli bianchi su fondo oro disposti

a piramide, sospesi nella luminosità dell’oro, tutti rivolti verso il centro del 94 Vedi Tavola 15 95 Vedi Tavola 16

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fondale, vuoto, di fronte a cui apparirà la colomba: la fonte di questa

raffigurazione sono certamente alcuni mosaici bizantini, come quelli

Ravennati o che ricoprono l’interno della cattedrale di San Marco a Venezia.

La somiglianza con le opere musive, per quanto non immediata, consiste

soprattutto nella lucentezza abbacinante dell’oro, nel disegno schematico della

figura degli agnelli, e nella composizione, priva di profondità.

Gli oggetti

La scena de La leggenda di San Gregorio è del tutto priva di suppellettili e di

oggetti decorativi: i pochi oggetti che compaiono vengono portati in scena, o

comunque mostrati al pubblico nel momento in cui servono e poi riportati

fuori o di nuovo occultati alla vista.

Gli oggetti svolgono funzioni distinte all’interno dello spettacolo: alcuni sono

prettamente strumentali, altri simbolici, altri ancora, come le marionette o i

pupazzi, vengono usati per interpretare dei personaggi.

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Bibliografia _ p197

Tra gli oggetti strumentali rientrano i due cavoli del prologo, i guanti, la

cuffietta e il fiore della scena III, la botticella della Scena IV, la tavoletta

d’avorio che compare sia nella Scena III che nella IV che, poi, nella Scena III

del secondo Atto, la chiave della Scena V del II Atto.

Si tratta di oggetti di tipo strumentale perché la loro presenza è fondamentale

per la comprensione della vicenda o per il suo svolgersi: i due cavoli servono a

comunicare durante il prologo muto l’impossibilità dei due Duchi ad avere

figli, così come i guanti del fratello-amante, la cuffietta del figlio e la rosa

regalatale dal Gran Ciambellano servono a ricordare alla Duchessa (e con lei

anche al pubblico) i suoi motivi di dolore ed a giustificare la sua decisione di

non sposarsi che provocherà l’assalto da parte di Margravio di Lotaringia.

Vere e proprie chiavi di volta del racconto sono invece la botticella che

contiene il piccolo Gregorio e che lo traghetta sano e salvo fino all’isola in cui

viene accolto, la tavoletta che ben due volte rivela a Gregorio il suo destino

incestuoso, e infine la chiave ritrovata per miracolo nel ventre di un pesce e

che consente a Gregorio di avere la certezza del perdono di Dio e alla

cristianità di avere un nuovo Papa.

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Assumono valore simbolico invece gli oggetti che accompagnano alcune delle

scene monologate di Poli come Frate Narratore e in particolare: il gufo che

Poli porta sul braccio nella Scena IV, simbolo di una saggezza velata di

negatività (in quanto il Gufo riunisce una tradizione che lo lega al peccato con

un’altra che invece lo fa sinonimo di sapienza), simbologia connessa con la

coscienza maliziosamente pulita del Gran Ciambellano da cui partono le

riflessioni del monologo.

Nell’ultima Scena del Primo Atto Poli illustra le varie fasi del “destino

d’acqua di Gregorio” spostando con una mano i pezzi della grossa scacchiera

che tiene con l’altra mano; il gioco degli scacchi è infatti legato da una lunga

tradizione simbolica al destino degli uomini.

Nel monologo della guerra Poli trascina dietro di se, con una cordicella,

quattro cavallini bianchi, giocattoli di cartapesta che si legano simbolicamente

all’argomento del monologo che è appunto la guerra come gioco.

Nella scena monologata successiva, quella che racconta il viaggio di Gregorio

in cerca di espiazione, il suo incontro con il pescatore e la sua penitenza legato

ad uno scoglio, Poli usa in modo simbolico una Matrioska, bambolina

tradizionale russa che contiene al suo interno altre bamboline identiche

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progressivamente più piccole, per raccontare il deperimento di Gregorio

costretto a cibarsi d’alghe e a dissetarsi di rugiada.

Simbolico è ovviamente anche il diavolo a forma di palla messo a canestro nel

corso dell’ultima scena entro le zampe di un altrettanto simbolica colomba

bianca.

Il maiale conteso all’apertura del secondo sipario tra i due contadini e i soldati

di Margravio, è sinonimo di un’abbondanza che passa di mano e quindi delle

razzie subite dai bretoni sudditi della Duchessa.

Una terza classe di oggetti è quella costituita da marionette, burattini e pupazzi

che fanno le veci di attori in carne e ossa: alcuni di essi sono veri e propri

oggetti inanimati: il fagottino a due teste portato dalla cicogna, i due

bambolotti che la nutrice consegna al Duca e alla Duchessa e il bambolotto

che rappresenta il neonato Gregorio (usato addirittura come palla dalle due

guardie), la testa di Gregorio bambino che spunta dallo sportellino della

botticella, e lo stesso Gregorio, ormai adulto e macerato dalle sofferenze che il

pescatore estrae da vicino allo scoglio per appenderlo alla carrozza dei due

Prelati, in viaggio verso Roma.

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Come si è visto nell’analisi della scena II96, altri di questi oggetti, che ho

definito attori meccanici, acquisiscono movimento e voce grazie alle mani di

Poli stesso (nella maggior parte dei casi) o a quelle di qualcuno dietro le quinte

(come i due angeli che cantano con Poli nella Scena V): la loro voce è sempre

quella di Poli, talvolta registrata e talvolta dal vivo. Di questi attori meccanici

fanno parte i due burattini e le due marionette della Scena II, i due angioletti

della Scena V, le due bambole di stoffa raffiguranti Gregorio e il Pescatore

nella Scena IV del secondo Atto e le due teste, sempre di stoffa, di Gregorio

ormai Papa e della Madre, nell’ultimo monologo. Le ragioni del loro utilizzo

sono più complesse e trascendono la funzione del mero oggetto, quindi ritengo

più opportuno rimandare all’analisi dell’uso degli attori meccanici svolta nel

secondo capitolo97.

I costumi-macchina

Per costumi-macchina intendo strutture al limite tra l’oggetto scenografico ed

il costume. Si tratta quasi sempre di oggetti in movimento, mossi grazie agli

attori che li “indossano” e in qualche modo legati al loro costume. 96 vedi Cap II p.* 97 vedi Cap II, p.*

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Alcuni di questi sono più vicini all’oggetto scenografico non facendo parte

integrante del costume indossato dall’attore: si tratta in particolare delle

barche, sia la prima, piccola, entro cui il pescatore entra in scena per poi

riportare a riva la botticella, la seconda, grande, che trasporta Gregorio fino

alle spiagge della Bretannia, e della carrozza in cui viaggiano i due Prelati.

Tutti e tre questi oggetti si muovono grazie al movimento degli attori: la

barchetta del pescatore, di gommapiuma alta circa 10cm, ha una struttura

abbastanza flessibile da consentire all’attore di muoversi camminando con le

gambe piegate. La grande nave, anch’essa di gommapiuma dipinta, invece

contiene i tre attori in piedi e si sorregge grazie a dei grandi lacci che la

fissano alle spalle dei due mimi, uno davanti e uno dietro a Gregorio; anche gli

alberi con le vele sono gestiti a mano dai due mimi che li muovono a tempo

con la musica o con i gesti di Nettuno, a simulare una tempesta.

La carrozza dei prelati è una struttura più rigida che comprende vari elementi e

funzioni: quando è chiusa è una sorta di gabbia bianca che copre i due attori

fino ai piedi lasciando aperte finestre su ogni lato nella parte più alta; quando è

aperta si trasforma in due seggiolini accoppiati.

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Più vicini a veri e propri costumi sono invece altri costumi-macchina che

modificano sostanzialmente la natura dell’attore che li indossa: di questo tipo

sono il costume che trasforma un solo attore in quattro personaggi nella scena

dell’arrivo di Gregorio in Bretannia e i due cavalli usati nella scena del duello

tra Gregorio e Margravio.

I costumi e le maschere

Santuzza Calí, curatrice dei costumi, e Gabriella Saladino, creatrice delle

maschere de La Leggenda di San Gregorio, hanno collaborato con Poli per i

suoi spettacoli e fanno parte da anni del laboratorio di Luzzati.

In collaborazione tra di loro e con lo stesso Luzzati, più che disegnare dei

costumi e delle maschere hanno disegnato dei personaggi, o meglio dei

burattini: per Luzzati e per le sue collaboratrici infatti il personaggio non è un

uomo vestito in un costume, ma un soggetto-oggetto teatrale da inventare

globalmente, un tutt’uno di costume, maschera, movimento e voce tale da

non potersi immaginare che in quella forma. Nella maggior parte dei casi

infatti l’insieme di costume e maschera crea la dimensione stessa del

personaggio, ne delinea le caratteristiche, ne modifica i movimenti: in alcuni

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altri casi addirittura l’attore scompare completamente all’interno del

costume, soprattutto quando la maschera da copertura del solo viso diviene

struttura che copre testa e collo e viene a fare tutt’uno con il costume in

modo da nascondere e disumanizzare completamente l’attore al suo interno.

Anche se lo spettacolo ha argomento medievale, la scelta dei costumi non è

legata alla realtà temporale alto medievale del poemetto di Von Aue. Più che

inspirarsi ad un periodo storico reale la costumista ha ricercato un atmosfera

che richiama un tempo fantastico, quello del “Tanto tempo fa” che segue il

“c’era una volta” delle favole.

Per ritrovare un collegamento iconografico più preciso si deve guardare, più

che al patrimonio pittorico strettamente medievale, a quello del gotico

internazionale e cortese, con la sua passione per i romanzi cavallereschi e per

la vita di corte e per un medioevo ormai quasi morto di cui rimane un ricordo

idealizzato. Mi riferisco in particolare agli abiti più impegnativi e più ricchi,

quelli di velluto e oro dei cavalieri e quelli ricchi di strascichi e di mantelli

delle dame: si veda ad esempio l’abito indossato da Poli nella scena della

gratitudine della Duchessa che ricorda, per la verità più nella struttura

generale che nei particolari, quelli indossati da alcune delle dame in affreschi

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o tavole del primo ‘400, soprattutto in ambito piemontese e lombardo. C’è da

dire anche che spesso la base dei costumi usati da Poli è riciclata da altri

spettacoli, modificata e arricchita a seconda del caso: in questo caso

particolare credo che si tratti dello stesso abito indossato da Poli in Mistica

per interpretare la principessa Tatiana a cui sono state aggiunte le lunghe

maniche sfrangiate, tipiche appunto dell’iconografia femminile del primo

‘400.

I costumi indossati dal Duca e dalla Duchessa nella prima scena sono ispirati

ai disegni ed ai dipinti di inizio ‘400, anche se resi sovraccarichi da una

quantità di frange e di mantelli.

Dall’iconografia cortese derivano anche i disegni degli abiti dei cavalieri, per

il taglio del corsetto aderente e per il gonnellino corto e largo, ma soprattutto

per i ricchi cappelli simili ad un turbante ed arricchiti da piume o riporti

dorati.

Altri costumi invece, e per costume intendo l’insieme di abito e maschera,

più che avere una funzione decorativa e ambientale, contribuiscono in modo

sostanziale a dare al personaggio dei caratteri fortemente marcati. Primo fra

tutti il costume di Frate Gregorio, la cui struttura modifica perfino la forma

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fisica dell’attore che cammina in ginocchio e quindi appare molto più basso

di quel che è e con le proporzioni del corpo alterate. Lo stesso discorso vale

per le due guardie che accompagnano la canzone del Gran Vassallo, le quali,

camminando sui trampoli acquisiscono un’altezza innaturale: il camminare

sui trampoli conferisce loro, inoltre, movenze rigide e quasi meccaniche che

le fa assomigliare, anche grazie alla forma del costume e della maschera, a

delle grandi marionette, e più precisamente a dei Pupi, soggetto per di più

assai caro a Luzzati98.

Il costume e la maschera del Gran Ciambellano ricordano quelle dei vecchi

della Commedia dell’arte, una mescolanza tra il personaggio di Pantalone e

Dottore: il personaggio dunque mostra i propri caratteri visivamente, ancor

prima che con i fatti. In più il costume è disegnato in modo tale da dare

all’attore l’aspetto di un grosso uccello nero, aspetto a cui contribuisce in

modo importante la forma acuta a becco del naso della maschera.

A definire un carattere, o meglio una definizione del personaggio,

contribuisce il costume indossato da Gregorio nelle scene dalla sua

investitura a cavaliere fino a quando si spoglia degli abiti nobiliari per vestire

98 In particolare per I Paladini di Francia, cortometraggio animato del 1960

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quelli del penitente: Egli infatti nomina se stesso Cavalier del Mare, ed il suo

abito azzurro riporta in oro alcune figure legate appunto al mare, come

l’ancora o la croce dei venti.

L’abito che egli indossa, smesso quello nobiliare ha invece, evidentemente

una forte funzione simbolica di abbandono dei beni terreni per fare

penitenza; funzione simbolica rafforzata dalla solennità con cui questo

cambio di costume avviene, in scena.

Altri costumi invece assumono un senso più che per se stessi, nella relazione

con altri: i costumi dei due giovani duchi sono assolutamente identici a

rimarcare il fatto che ciò che li lega è il loro essere gemelli dato che “è

l’uguaglianza che appaga il cuore”99. Se questi costumi assumono valore per

uguaglianza, quelli di Gregorio e dei suoi fratelli adottivi assumono valore

per differenza: ciò che provoca la crisi che porterà la moglie del pescatore a

rivelare le vere origini di Gregorio è infatti la disparità di trattamento

riservata al trovatello, disparità che risulta evidente già visivamente grazie

99 Dal testo dello spettacolo, Atto I, Scena III

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alla diversità di abito, scuro e cucito con materiali poveri quello dei fratelli,

chiaro e di velluto quello di Gregorio.

Ho ritenuto più sensato descrivere i costumi dei vari personaggi man mano

che essi comparivano sulla scena100e riportare qui soltanto le considerazioni

attinenti al perché di alcune scelte.

CAPITOLO 4 : CRITICA

Poli ed il teatro del ‘900

Paolo Poli, ormai da quarant’anni sulle scene, é un solido pilastro del teatro

comico italiano. Eppure é difficile, quasi impossibile, inserirlo in una corrente,

100 Cap II

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incanalarlo in uno stile: Paolo Poli é Paolo Poli, e basta. Fa razza a se. Ama

definirsi come un artigiano che possa dire “questa brutta seggiola l’ho fatta io

con le mie mani” o, meno modestamente, ama paragonarsi a Leonardo, che ha

preso da tutti senza imitare nessuno.

Poli è stato per la maggior parte della sua carriera un uomo in controtempo:

negli anni in cui ferveva l’attività delle compagnie/comuni lui sceglieva di

recitare praticamente da solo, mentre gran parte del nostro teatro si affannava

a creare e apprendere metodi, lui preferiva seguire tecniche e, per di più,

quelle tecniche proprie della tradizione teatrale italiana, quelle del Grande

Attore la cui decadenza avveniva proprio negli anni in cui egli iniziava la sua

carriera.

Il teatro di Poli, che è rimasto sostanzialmente immutato negli anni, almeno

nelle sue linee essenziali, è impossibile da affiliare a correnti o stili, sfugge a

tutte le catalogazioni, prescinde dalle definizioni; non è cabaret, non è musical,

non è commedia, non è teatro di travestimento. Forse però sarebbe meglio dire

non è “solo” tutte queste cose, ma è “anche”: nei suoi spettacoli c’è il cabaret,

c’è il musical, c’è la commedia, c’è il teatro di travestimento e c’è ancora

molto altro, c’è il teatro di rivista e di varietà, il mimo, il teatro delle

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marionette, la danza, il tutto riunito a formare una sorta di paradigma del

teatro sul quale domina lui, l’attore, con la sua presenza sulla scena ma anche

con la sua forza decisionale fuori della scena, come regista e come autore.

Con questo non si può dire che Poli non abbia nessun debito con il teatro

precedente o che il suo teatro non faccia riferimento a nessuna teoria, che sia

essa acquisita volontariamente o percepita nell’atmosfera di rivoluzione e di

cambiamento del teatro del ‘900.

L’aspetto che balza agli occhi più facilmente, in questo come in tutti gli altri

spettacoli di Poli, è il marcato antinaturalismo.

La leggenda di San Gregorio contraddice volutamente e sistematicamente

tutte le regole del teatro “borghese”: alla necessità del teatro borghese di

essere assoluto, essenzialmente staccato da tutto ciò che gli è esterno, Poli

contrappone un continuo esplicito rivolgersi al pubblico e per di più insieme

come attore e autore.

Il teatro borghese infatti concepisce soltanto la presenza del personaggio, in

quanto ricerca una illusione di realtà, lo spaccato di vita vera, per cui tutti i

minimi cenni della presenza stessa di un drammaturgo sono accuratamente

occultati. anche la nascita del concetto di “quarta parete” mira a fare del

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pubblico non più il naturale ed esplicito destinatario dell’evento spettacolare,

ma un voyeur muto di fronte a fatti che si svolgono davanti a lui ma a

prescindere da lui; mai infatti l’attore si rivolgerà al pubblico o farà anche

soltanto accenno di accorgersi della sua presenza.

L’attore stesso è costretto da questa nuova prospettiva a cambiare il proprio

ruolo all’interno della scena: gli si richiede di scomparire all’interno del

personaggio, di non farsi avvertire come entità esterna, mezzo di una

rappresentazione, ma solo e unicamente come personaggio presente hic et

nunc.

Poli invece ha costruito uno spettacolo in cui qualsiasi ipotesi di realismo è

definitivamente negata: gli attori, tutti tranne lo stesso Poli, compaiono in

scena sempre con il viso coperto da una maschera che, se da una parte

chiarifica e rafforza le loro peculiarità come caratteri più che come personaggi,

dall’altra disumanizza l’attore, ne nega la realtà, lo presenta in modo

inequivocabile come mezzo di una rappresentazione. Ad allontanare ancora di

più l’attore de La leggenda di San Gregorio da qualsiasi mimesi di realtà

concorrono le tecniche di recitazione scelte da Poli, che per questi quattro

attori sono essenzialmente la danza, il mimo e la pantomima; prescindendo

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dalle differenze che indubbiamente esistono tra questi tre linguaggi, è evidente

che tutti si caratterizzino per una forte irrealtà, spesso per una codificazione

linguistica e gestuale, in più la scelta delle voci registrate su nastro, che ha

certamente ragioni più complesse, contribuisce a confermare l’antinaturalismo

di fondo come scelta registica creando nello spettatore la precisa coscienza di

entità esterne alla scena.

Poli è l’unico ad apparire sulla scena privo di maschera, ma questo non

significa che il suo modo di agire sul palco conceda qualcosa al naturalismo;

innanzi tutto la presenza di un attore come Poli sulla scena, è una presenza

forte e soprattutto personale: lo spettatore entra nella sala non per assistere ad

una generica commedia, ma per vedere uno spettacolo il cui punto focale è

Paolo Poli, autore registe e attore, ma anche personaggio con le proprie

peculiarità evidenti, e, da parte del pubblico, attese.

Il volto, la voce, la gestualità di Poli, invece che scomparire all’interno del

personaggio, ne sbucano continuamente fuori, riconoscibilissime, impedendo

allo spettatore di vedere solo il personaggio trascurando la presenza

dell’attore; tutto ciò è ovviamente voluto e cercato, e non certo frutto soltanto

della popolarità dell’attore

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Poli infatti si ritaglia all’interno del tessuto dello spettacolo ampi spazi di

rapporto diretto con il pubblico. Contrariamente ai dettami del teatro borghese,

egli cerca continuamente il pubblico come referente naturale dei suoi brani

monologati, e ad esso si rivolge spesso anche nelle scene in cui il personaggio

che sta interpretando dialoga con altri personaggi, sottolineando dunque

continuamente l’inesistenza di quella quarta parete che per anni ha relegato la

platea ad un ruolo passivo e sollecitandone invece la continua attenzione e

partecipazione.

Mentre tramite un interpellazione continua Poli rivitalizza e riqualifica un

rapporto attivo e critico con il pubblico, rapporto, come si vedrà, fondamentale

per le tecniche e i bersagli della comicità dello spettacolo, reintroduce in modo

importante la figura dell’autore interpretando il ruolo del Frate narratore, o

sarebbe meglio dire di “spirito della narrazione”, come si autodefinisce

Clemente d’Irlanda, il monaco che trascrive e racconta la vicenda di Gregorio

ne L’eletto, di Thomas Mann, che insieme al Gregorio di Von Aue, ha fatto da

testo base alla scrittura de La leggenda di San Gregorio.

Poli rientra quindi nella categoria degli autori-attori che ha acquisito

particolare spazio nel teatro italiano che è, per vocazione storica, teatro

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d’attore. Tra i precedenti più vicini nel tempo (senza andare a scomodare avi

illustri come Ruzante) Raffaele Viviani ed Ettore Petrolini. A detta di

Geron101, Poli si pone tra i discendenti di quest’ultimo:

Una dissacrazione delle situazioni e del linguaggio, un’ empietà libertaria e

una vocazione per l’assurdo, caratteristiche di Petrolini, rimbalzano nelle

proposte di Carmelo Bene e di Paolo Poli, ma anche di Caprioli-Valeri, di

Cobelli, di Censi, di Durano.

In effetti i punti di contatto tra l’attività petroliniana e quella di Poli ci sono, e

piuttosto evidenti, a cominciare da una forte tendenza di entrambi

all’artificiosità, intesa come artifex, come costruzione di sé in quanto attore,

per giungere ad una realtà che non sia quella del quotidiano: un’artificiosità

fatta da una parte di codificazione del gesto, dall’altra da di uno scardinamento

linguistico che spiazza lo spettatore, separa le parole dalle cose e adotta un

principio di inversione dalla norma, rispetto a quello che lo spettatore si può

aspettare.

101 G. Geron, Dove va il teatro italiano, Milano, Pan editrice, 1973, pp105-106

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In un saggio in cui Mara Fazio confronta il linguaggio comico di Petrolini con

quello di Karl Valentin si legge una definizione che credo meriterebbe di

essere estesa anche a Poli:

Entrambi smascherano il luogo comune, sondano la stupidità, anatomizzano

la puerilità facendo (sono parole di Petrolini) l’apoteosi della scemenza per

arricchire il museo della cretineria102.

Petrolini, come Poli, ha recitato di tutto (anche Moliere), ma tutti quanti i suoi

critici sono concordi sul fatto che egli dia il meglio di se negli spettacoli tutti

suoi, o nei doposerata in cui, dismessi i panni della commedia, delizia il

pubblico con canzoni e lazzi, filastrocche e nonsensi103: egli, come Poli,

finisce con recitare soltanto se stesso per quanto si sdoppi, si moltiplichi è

sempre lui, confuso con i suoi personaggi e i suoi personaggi con lui.

Per la maggior parte degli Autori-attori italiani infatti la necessità di

esprimersi compiutamente in palcoscenico respinge in linea di massima,

l’ipotesi di una regia affidata ad altri. Personaggi come i fratelli De Filippo,

Carmelo Bene, Dario Fo e lo stesso Poli divengono quasi necessariamente 102M. Fazio, Maschera Valentin, maschera Petrolini, in A.A.V.V. , Petrolini, la maschera e la storia, Bari, Laterza, 1984 103 Abitudine che Poli conserva ancora.

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registi di se stessi, ossia autori nel senso più lato del termine, senza alcuna

mediazione esterna. Secondo Geron:

Ciascun autore-attore tende a costruirsi lo spettacolo a sua immagine e

somiglianza, in una sostanziale riaffermazione della figura del grande attore,

intesa come precisa classificazione ideologica. Con la conseguenza che un

testo di Peppino o di Fo, i Bene o di Poli, è pressoché inimmaginabile senza

l’autore che sta dietro all’attore.104

In realtà spesso questi personaggi, sicuramente Poli, ma anche Fo e Bene,

sono autori, attori registi di se stessi, ma anche cantanti, ballerini, acrobati in

una parola, nel senso più lato, uomini di spettacolo, un’incarnazione, almeno

programmatica dell’ Artista Universale ipotizzato da Taìrov105, un artista in

possesso di un assoluto dominio del proprio corpo e capace di spaziare tra

tutte le diverse tecniche spettacolari.

Non si può certo dire che, da questo punto di vista, Poli si risparmi: egli infatti,

oltre che recitare, balla, canta, impersona diversi personaggi e molti altri ne 104 G. Geron, op. cit., p. 152 105 A. Tairov, Storia e teoria del teatro Kammerny di Mosca, Roma, 1942

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muove sotto forma di marionette in un’altalena continua tra narrazione e

spettacolarizzazione.

Lo stesso Geron106 riconosce in Poli uno degli autori-attori italiani più

interessanti di questa metà secolo, ma, in un confronto con la carica

dissacratoria del teatro proposto da Carmelo Bene, sottovaluta, a mio parere la

portata sociale della sua comicità:

A dispetto di Il diavolo, di Rappresentazione di Giovanni e Paolo e perfino del

fatto che cinque anni fa107sia stata proibita a Milano la sua Rita da Cascia, la

puzza di zolfo che emana da Poli sa di violetta rispetto alla carica sulfurea di

Carmelo Bene. Poli [...] ha il gusto sottile della parodia, non ha la pretesa di

aprire nuove frontiere al teatro.

Sia che faccia il verso a Carolina Invernizio, o che si avvolga nelle sete e nelle

trine della niccodemiana La nemica, o compia una scorribanda

demistificatrice dei vezzi e dei miti di un certo Ottocento, [...] Poli non si

allontana dal gioco fine a se stesso, dal pretesto di divertimento.108

106 G. Geron, op. cit. 107 Il saggio qui citato è del 1972 108 G. Geron, op. cit., pp.124-125

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Io, personalmente, non credo che quello di Poli fosse allora, e sia adesso, un

gioco fine a se stesso, un semplice gusto della parodia; certo, egli stesso ha

dichiarato più volte che il teatro non fa la rivoluzione, ma credo che possa

almeno, quando è fatto con intelligenza e non è rinchiuso in un’ottusità

borghesuccia e casalinga, mostrare le corde di certi meccanismi sociali ed

umani, sottolineare le note stonate e alimentare un po’ di senso critico.

Nel teatro di Poli al diversivo si mescola, con raffinatezza, l’eversivo,

soprattutto nella costruzione del linguaggio comico.

Il linguaggio comico

La comicità di Poli viaggia su due registri distinti, quello fisico, legato al

gesto, all’espressione del volto, al tono della voce e all’abito, e quello

linguistico, giocato su un fuoco di fila di battute e aforismi che traggono la

loro comicità più dalla loro struttura interna che dal loro legame, spesso quasi

inesistente, con la situazione.

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Anche tra le frasi comiche è possibile operare un distinguo: vi sono motti di

spirito che devono la loro comicità al loro significato e altri che lo devono

alla loro forma.

Per quanto riguarda quelli la cui comicità risiede nel significato,

corrispondono in parte a ciò che Freud109 definiva motti cinici, ovvero motti

tendenziosi, non astratti ma diretti contro un bersaglio, in cui il bersaglio non

è una sola persona, ma un gruppo, un istituzione, l’intera società. È un modo

velato per esprimere un dissenso, un bisogno o un desiderio contrari ai

dettami della morale sociale vigente.

A questo gruppo appartengono frasi come:

L’uomo è l’unico animale che arrossisca, ma è anche l’unico che ne abbia

bisogno . (Atto I, Scena IV)

L’ Eterno ha creato il mondo dal nulla, ma il nulla traspare ancora. (Atto I,

Scena IV)

109S. Freud, Il motto di spirito, Torino, Boringheri, 1980, p.123

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L’eroismo, insieme alla santità, è il sistema migliore per diventare famosi

senza avere talento. ( Atto II, Scena I)

L’uomo è sempre pronto a morire per un’idea, purché non l’abbia del tutto

chiara. ( Atto II, Scena I)

La provvidenza ha voluto il matrimonio indissolubile perché gli sposi non

siano cretini due volte. ( Atto II, Scena IV)

I fedeli confessano i peccati vecchi per fare posto ai nuovi (Atto II, Scena

VII)

Altre frasi comiche invece trovano in un meccanismo linguistico al loro

interno la fonte della loro comicità.

I meccanismi sono diversi, e non sono sempre puri, ma spesso tendono a

mescolarsi l’uno con l’altro.

Ho tentato di individuare almeno i più evidenti o i più interessanti:

Gioco di parole, di cui fanno parte il doppio senso e l’opposizione:

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Il doppio senso è un meccanismo comico classico che si fonda sul doppio

significato di alcune parole, può trattarsi di due significati diversi di una

stessa parola o di un significato letterale e di uno metaforico, spesso frutto

dell’uso comune.

Di questo gruppo fanno parte frasi del tipo:

Osservava le regole dell’onore come si osservano le stelle, da molto lontano.

( Atto I, Scena IV)

In cui la comicità verte sul doppio significato della parola osservare

(rispettare-guardare).

Le pecorelle, che spesso sono pecoroni ( Atto I, Scena IV)

in cui invece la comicità gioca su due parole che hanno radice comune ma

significato profondamente diverso (entrambi metaforici).

L’opposizione invece consiste nel fare in modo che due parole dal

significato opposto si trovino vicine all’interno della frase:

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Le ragioni del più forte sono sempre le più deboli ( Atto II, Scena I),

dove le parole forte e debole, opposte l’una all’altra ma cosi vicine nella

frase, sortiscono un effetto comico.

Perfino il Diavolo lavora a maggior gloria di Dio ( Atto II, Scena VII),

in cui Diavolo e Dio sono intesi come opposti.

Il Papa è un idolo a cui baciamo i piedi ma leghiamo le mani (Atto II, Scena

VII),

in cui l’opposizione è doppia, da una parte il contrasto piedi-mani, dall’altro

quello tra baciare(gesto di rispetto e adorazione) e legare (gesto di

oppressione).

Contrasto ideale/reale:

meccanismo comico tradizionale, che consiste nell’avvicinare nella stessa

frase un concetto spirituale e uno prettamente materiale:

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L’amore e le uova è bene che siano freschi (Atto I, Scena II),

in cui si associano due cose tanto differenti come l’amore e le uova, con un

effetto comico derivato appunto dallo sdrammatizzare e ridicolizzare la parte

più spirituale del paragone accostandola ad una tanto quotidiana.

Dio avrebbe l’anima di un rosticciere ( Atto II, Scena VII),

Stesso meccanismo nell’accostamento di Dio alla figura popolare del

rosticciere.

Similitudine:

L’ effetto comico in questo caso viene dal paragonare tra loro due oggetti o

situazioni in modo che uno dei termini di paragone ne risulti ridicolizzato.

Andare continuamente in Chiesa non ne fa un cristiano come andare

continuamente in una scuderia non ne fa una carrozza (Atto I, Scena IV)

Un critico è un po’ come un eunuco in un harem, sa come si fa, lo vede fare

continuamente ma non lo può fare di persona (Atto II, Scena VII)

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Sillogismo:

In questo caso il comico risulta dallo scardinamento della più rigida delle

strutture logiche, quella del sillogismo, appunto.

Il meccanismo logico continua a funzionare, ma il risultato è assurdo:

Il gufo è mortale, Socrate è mortale, Socrate è un gufo. (Atto I, Scena IV)

Inversione:

Si tratta di uno dei meccanismi comici più interessanti e più tipici di Poli, e

consiste nell’evocare luoghi comuni, frasi o concetti che risultino ovvi ed

immediati alla mente dello spettatore, per poi capovolgerli e stravolgerli. In

questo caso, come nel caso della diversione, Poli utilizza l’immaginario

collettivo del suo pubblico per poi capovolgerlo, creando un effetto tanto più

comico quanto più inaspettato.

Secondo la Bibbia prima era il caos e poi venne la storia, ma leggendo la

storia il caos venne decisamente dopo ( Atto II, Scena I)

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Più mirabile e armoniosa è la scala degli esseri viventi: Dall’insetto su fino

al filosofo. Questo almeno è il parere del filosofo, perché l’insetto non si è

pronunciato. ( Atto I, Scena IV)

In entrambi i casi l’inversione avviene nella seconda parte della frase rispetto

alla prima.

Nella vita vera anche San Giorgio avrebbe ammazzato la principessa e

sposato il drago ( Atto II, Scena I)

Inversione rispetto ad un episodio della Mitologia religiosa universalmente

conosciuto, in cui San Giorgio uccide il Drago, liberando la principessa, che

gli viene offerta in sposa.

Beato il Domatore nella gabbia dei leoni, almeno lì ci sono le sbarre di ferro

a proteggerlo dalla ferocia degli uomini (Atto II, Scena I )

Inversione rispetto alla logica comune che vede le sbarre della gabbia dei

leoni come una protezione di chi si trova fuori dalla gabbia, non di chi si

trova dentro.

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Nessuno perdona mai I propri nemici, invece sarebbe tanto bello farlo,

niente li irrita di più ( Atto II, Scena I)

Inversione dovuta al fatto che comunemente il perdonare i propri nemici è

visto come un atto di bontà, non come una sorta di vendetta.

Diversione:

come nel caso dell’inversione, la comicità risulta dal capovolgimento di

qualcosa che appare ovvio, ma in questo caso si tratta di proverbi o modi di

dire, quindi alla familiarità dell’uso si associa anche una certa meccanici di

pensiero che rende la sorpresa del capovolgimento ancora più rilevante.

Uomo avvisato, fiato sprecato (Atto I, Scena IV)

si tratta dell’esempio più evidente di questo meccanismo.

La seconda parte della frase, pur mantenendo intatti suono e numero di

sillabe, capovolge decisamente il significato classico del proverbio che la

prima parte della frase richiama alla memoria ( uomo avvisato, mezzo

salvato)

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Se l’uomo fosse davvero l’immagine di Dio, non saprei proprio cosa pensare

di Dio ( Atto I, Scena IV)

Siamo nati per soffrire, e ci siamo riusciti (Atto II, Scena I)

Il detto “siamo nati per soffrire” indica metaforicamente un destino, mentre

qui viene interpretato come un fine, creando quindi una diversione rispetto al

significato originale.

L’anacoreta è uno che ha fatto di virtù necessità (Atto II, Scena IV)

Diversione rispetto al modo di dire “fare di necessità virtù”; lo scambio di

posto delle due parole capovolge il senso della frase.

Naturalmente lo spettro delle possibilità della comicità verbale di Poli supera

questa mia semplice schematizzazione grazie ad una grande varietà di

sfumature.

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Poli sostiene110 che, nel lavoro di scrittura a quattro mani insieme a Ida

Omboni, la Omboni inserisce soprattutto battute e doppisensi derivanti da

repertori di rivista e avanspettacolo risalenti al periodo tra le due guerre e

all’immediato dopoguerra, mentre è Poli a coniare (e spesso, sostiene, anche

a rubare da raccolte di arguzie e aforismi celebri) quei motti di spirito più

basati su meccanismi linguistici, o più legati alla contemporaneità.

Qui, come nel teatro di Cabaret, l’attore è solo sul palco e si rivolge

direttamente al pubblico: questa situazione soddisfa pienamente la prima

delle definizioni che H.Bergson111 dà del comico:

Il comico nasce quando un gruppo di uomini dirigono l’attenzione su uno di

loro, facendo tacere la loro sensibilità ed esercitando solo la loro

intelligenza.

Il fatto che il pubblico (che dirige la propria attenzione su Poli, solo sul

palco) sia invitato dalle scelte registiche a non usare la propria sensibilità ma

110Comunicazione orale del 20/12/96 111H.Bergson, Il Riso, saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982

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piuttosto la propria intelligenza e il proprio senso critico si è visto più

indietro112, dove si trattava delle tecniche di straniamento.

Il monologo stesso, per sua natura, non porta lo spettatore ad immedesimarsi,

ma piuttosto ad ascoltare e se, come in questo caso, il discorso è

esplicitamente rivolto a lui, anche ad avere un atteggiamento critico.

La definizione che Bergson fa della comicità porterebbe a pensare che il

teatro comico, per sua stessa natura, sia estraneo al concetto di

immedesimazione, poiché è necessario allontanarsi da qualcosa, sentirlo

estraneo, non partecipare dei suoi sentimenti per poterne ridere.

Un altro dei principi fondamentali individuati da Bergson113 è la necessità

che il comico assuma un significato sociale.

Il comico deve essere sociale in due sensi:

Innanzi tutto perché non gusteremmo il comico se ci sentissimo isolati:

sembra che il riso abbia bisogno di una eco114;quindi c’è bisogno di vivere il

comico in una dimensione collettiva.

Il secondo significato della socialità del comico è quella che coinvolge il

significato stesso del comico e il suo bersaglio.

112 vedi p. 99 113H. Bergson, op. cit., p. 114H. Bergson, op. cit., p.

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Il primo aspetto del valore sociale del comico riguarda quella serie di motti di

spirito la cui comicità, come si è visto115, risiede nel significato e che hanno

come bersaglio appunto la società.

Per questo aspetto non si può certo parlare del teatro di Poli come di teatro

politico: a questo livello la critica sociale difficilmente va oltre il luogo

comune, non attacca gli aspetti fondamentali del modo di vivere occidentale:

si tratta soprattutto di frasette e paragoni tratti dal teatro di rivista e di

avanspettacolo in cui i bersagli sono tipici, come la donna

La donna è come la tigre, che a volte divora e a volte si fa scendiletto.

Per me le donne sono come gli elefanti, non mi dispiacerebbe vederne

qualcuno ma non vorrei ritrovarmelo nel letto.

oppure il matrimonio

Il matrimonio è la versione in prosa del poema dell’amore

Se una moglie fosse una cosa buona anche Dio ne avrebbe una! 115vedi p. 218

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Dato che, sempre per Bergson116 Il comico esprime una imperfezione

individuale o collettiva che esige una correzione immediata: il riso è la

correzione, la funzione sociale di questo aspetto della comicità di Poli pare

assolvere in pieno a questa definizione: Poli evidenzia di fronte agli occhi dei

suoi spettatori alcuni difetti collettivi in modo che li abbiano evidenti e che

possano riderne, nonostante che gli argomenti derisi da questi motti di spirito

siano talmente ampi e vaghi che non possono non coinvolgere gran parte del

pubblico stesso, che finisce, suo malgrado, a ridere di se stesso.

Meno evidente, ma a mio parere molto più pregnante, il significato sociale di

quegli aforismi funzionanti grazie allo scardinamento di meccanismi

linguistici o, più ancora, dal capovolgimento di luoghi comuni o concetti

appartenenti all’immaginario collettivo.

Ancora Bergson117scrive:

Se si traccia un cerchio intorno alle azioni e alle disposizioni che

compromettono la vita individuale o sociale, resta, al di fuori di questa zona

116H. Bergson, op. cit., p. 117H. Bergson, op. cit., p.

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di emozioni e di lotta, in una zona neutra in cui l’uomo da spettacolo di se

stesso al suo simile, una certa rigidità del corpo, dello spirito e del carattere

che la società vuole eliminare per ottenere dalle sue varie parti la più grande

elasticità e la più alta sociabilità possibili: Questa rigidità è il comico e il

riso ne è il castigo.

In questo caso la rigidità che viene punita dal riso è quella linguistica, che

riflette però anche una certa rigidità di pensiero, una tendenza a ragionare per

luoghi comuni e frasi fatte.

Si prenda come esempio una battuta come:

Uomo avvisato, fiato sprecato.

La valenza sociale insita nella comicità di questa frase è doppia.

Da una parte il valore letterale, dall’altra il fare riferimento, con la prima

parte della frase, ad un modo di dire ben presente nella memoria del

pubblico, per poi capovolgerne il significato provocando il riso e con il riso

una sorta di catarsi, una punizione ed insieme una liberazione dalla gabbia

dei luoghi comuni.

Tramite queste tecniche di comicità verbale, Poli mostra al suo pubblico che

il modo comune di parlare e di pensare non è libero, né critico, e fa si che,

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ridendo di se stesso, punisca se e la propria società di aver pensato: uomo

avvisato, mezzo salvato.

Questa valenza liberatoria della la comicità di questa come di altre frasi

comiche dello spettacolo si conferma anche osservandola da un altro punto di

vista.

Scrive Bachtin118riguardo al riso nella festa popolare:

Notiamo una importante particolarità del riso della festa popolare: esso è

diretto contro le stesse persone che ridono. Il popolo non si esclude da tutto

il mondo in divenire. È anch’esso incompiuto; anch’esso, morendo, nasce e

si rinnova. In ciò consiste una delle principali differenze fra il riso della festa

popolare e il riso puramente satirico dell’epoca moderna. L’autore

puramente satirico, che conosce soltanto il riso negativo, si pone al di fuori

dell’oggetto della sua derisione, vi si contrappone, e così viene distrutta

l’integrità dell’aspetto comico del mondo, e ciò che è comico (negativo)

diventa un fenomeno privato.

Il riso ambivalente del popolo esprime invece l’opinione del mondo intero in

divenire, in cui si trova anche colui che ride.

Si è già detto di come il bersaglio della comicità di Poli sia universale, e di

come il pubblico finisca col ridere di se stesso, non potendo sottrarsi a

118M. Bachtin, L’opera di Rabelais e la cultura popolare, Torino, Einaudi, 1979, pp15-16

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critiche che riguardano, spesso, l’intera società o la stessa natura dell’uomo:

in questo senso non si può definire la comicità di Poli satirica, nell’accezione

che Bachtin dà del termine.

In parte lo spirito del riso grottesco del carnevale popolare descritto e

analizzato da Bachtin è, a mio parere, passata, nel ‘900 al teatro di varietà e

di rivista, teatro in gran parte popolare, per quanto frequentato e spesso anche

esaltato dagli intellettuali; lo stesso Vsevolod Meyerhold, in un saggio

intitolato Vi sono due teatri di marionette, designa i teatri di varietà come

veri eredi del teatro popolare e della commedia dell’arte:

I principi del baraccone, scacciati dal teatro moderno, hanno trovato rifugio

nei cabaret francesi, negli uberbrettl tedeschi e nei varietes di tutto il mondo.

Di questo Baraccone Poli è in una certa misura erede; diretto in quanto, e lui

stesso lo ammette119, parte del suo repertorio comico, anche grazie

all’intervento della Omboni, deriva appunto dal teatro di Varietà e di Rivista;

indiretto in quanto a stile, anche se mitigato da una buona parte di cultura e

di disincantato cinismo. 119 Comunicazione orale del 20/12/96

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C’è ancora, io credo, nel teatro comico di Poli, un’ombra dello spirito del

riso popolare, inteso non come pura negatività, ma come distruzione, se non

rigeneratrice, almeno liberatrice.

Comicità di immagine

Ritornando al concetto di rigidità, che per Bergson120 è alla fonte di qualsiasi

atteggiamento comico, è intanto da sottolineare che tra le rigidità rientrano

soprattutto i vizi, e mentre nella tragedia il vizio è presente, ma

completamente compenetrato nel personaggio tanto che lo spettatore,

identificandosi prende su di se e soffre di quel vizio con il personaggio, nella

commedia esso rimane più in superficie, più evidente ma meno complesso e

meno compromesso.

In effetti un difetto esagerato, reso abnorme dalla caricatura, perde di

umanità e consente allo spettatore di distanziarsi e di percepirlo non come un

problema proprio ma come una difformità altrui, e quindi di riderne.

120 H.Bergson, Il Riso, saggio sul significato del comico, Bari, Laterza, 1982, p.21

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È proprio grazie a questa distanza che, come scrive Bergson:121

può diventare comica ogni difformità (fisica) che una persona ben

conformata arrivi a contraffare.

L’importante è che non commuova, quindi non ci deve essere

immedesimazione, ma una semplice osservazione (e giudizio) di un

meccanismo rigido.

E, sempre per Bergson:122

Le attitudini, i gesti, i movimenti del corpo umano sono risibili nelle stesse

proporzioni in cui quel corpo ci fa pensare ad un semplice meccanismo.

La tesi di Bergson è, a mio parere interessante in quanto rimarca il fattore

fondamentale della distanza, implicita nel concetto di meccanismo inteso

come contrario dell’umano: Poli ottiene il comico stornando l’attenzione

dello spettatore dai contenuti tragici della vicenda e focalizzandola invece

sulle caratteristiche somatiche e vocali del personaggio, impedendo in questo

modo che il pubblico si senta coinvolto.

Certo, anche in Bergson il concetto di meccanismo è tutt’altro che netto, e

finisce per significare semplicemente “non umano”: in particolare diviene

121 H. Bergson, op. cit., p. 122 H. Bergson, op. cit., p.

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Bibliografia _ p236

comica la fisicità che prevale sui valori dell’anima, la forma che sorpassa la

sostanza.

In questa ottica anche il travestimento rientra in questo contrasto: quando

l’abito contraddice in qualche modo, per sesso o per moda, con le abitudini,

si smette di percepirlo come parte stessa del corpo, ma diviene centro

dell’attenzione di per se, rivelando il suo carattere di artificio, la sua

estraneità rispetto all’umano, la sua essenza di “meccanismo”.

Nei casi in cui, poi, il travestimento non è fine a se stesso, ma funzionale alla

creazione e soprattutto alla caratterizzazione di un tipo fisso, l’artificiosità, e

quindi l’effetto comico, è ancora maggiore.

Il tipo, la maschera, per sua stessa natura, selezionando e sclerotizzando

alcuni tratti fondamentali del personaggio, perde irrimediabilmente di

umanità, tralascia la sostanza per privilegiare la forma, esalta alcuni dei tratti

fisici (in questo caso la forma rotonda del frate), caratterizza sia la gestualità,

decisamente poco realistica, forzatamente ampia e ripetitiva fino a creare

delle sorte di tic, che la voce, per la quale Poli ha scelto toni alti e striduli,

frammezzati da gridolini sottolineati per contrasto da improvvisi cali di tono,

palesemente innaturali, che sfociano in cantilene.

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Teatro di travestimento

Ci sono altri aspetti che caratterizzano in modo importante il teatro di Poli;

uno di questi è il gioco del travestimento, un’attitudine al fregolismo, al

cambio continuo di personaggio, carattere, abito e voce e all’interpretazione

spesso (e volentieri) di personaggi femminili.

Quella del teatro travestì è un’abitudine antica di Poli, che in passato ha

recitato in abiti muliebri anche per tutto uno spettacolo (in La nemica) e

prodotto lavori con compagnie monosessuali (come, ad es. Rita da Cascia);

negli ultimi spettacoli non riserva particolare spazio a questa forma di

espressione, ma ugualmente non tralascia mai di comparire in scena, almeno

una volta, in vesti femminili. Non si tratta solo di un divertimento estetico o di

una prova di orgoglio omosessuale, ma del legame profondo con la storia di

una forma d’arte antica, raffinata e stratificata nei secoli, anche se talvolta

nascosta e relegata in locali di infimo ordine.

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Ho ritenuto che fosse interessante ripercorrere brevemente la storia del teatro

di travestimento, e l’ho fatto seguendo il lungo articolo di G. Buttafava

all’interno di un testo dedicato all’esperienza del travestitismo in diversi

ambiti123.

La storia del travestitismo a teatro nasce, sia in oriente che in occidente, dalla

proibizione per le donne di esibirsi sulla scena, ma diviene, aggirando tabù

morali e religiosi, un linguaggio a se, fatto di stilizzazioni e travestimenti

antinaturalistici; inizia dunque con il ripudio dell’immagine femminile per

finire nella sua glorificazione, passando attraverso la presa di coscienza gay.

Nel teatro giapponese, fin dalle origini, imperava la figura dell’onnagata, il

travestito del teatro Kabuki, il quale non “interpretava” il ruolo femminile, ma

lo esibiva mediatamente per mezzo di simboli visivi (iperbolizzazione e

stilizzazione delle vesti femminili, del colorito, dell’acconciatura), fonici

(voce sottile e in falsetto) e comportamentali (danza aggraziata, movimenti

molli, battiti di ventagli).

Per quanto riguarda il travestitismo nello spettacolo occidentale il teatro

Elisabettiano e Shakespeariano è l’ultimo grande momento del travesti

123 G.Buttafava, Il travestitismo a teatro, in A.A.V.V., Gli uni e gli altri, Arcana Editrice, Roma, 1976, pp. 21-43

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sistematico come costante espressiva, ma si caratterizza anche in parte come

momento di passaggio in cui, grazie alla padronanza assoluta di una

convenzione secolare, l’innocenza e la necessità originarie della convenzione

divengono più problematiche ed evanescenti, fino a moltiplicare volutamente

il numero di travestimenti (non sono rari, nelle commedie Shakespeariane,

attori uomini che interpretano parti di donne che si travestono da uomini).

Il declino della tradizione del travestitismo coincide con la fine del teatro

“classico” e con l’ascesa del teatro borghese: la borghesia come si è visto,

porta a teatro la voglia di un naturalismo puntuale, che non può sopportare una

convenzione così irrealistica come appunto la tecnica di un attore che si finge

una donna.

Nel settecento però, secolo ludico, la figura del travestito conosce nuova

grandezza, soprattutto nel nascente teatro lirico, mediata da quella sorta di

ibrido che erano i castrati, tra i quali il più famoso fu Farinelli, che talvolta

interpretavano parti femminili con voce da contralto, ma che spesso

indossavano abiti femminili anche fuori della scena.

Con l’800 si ha una perdita di ludismo che significa anche la quasi totale

scomparsa del travestitismo a teatro.

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Secolo che si prende molto sul serio, l’ottocento tollera poco le trasgressioni

fantastiche o reali; i pochi travestiti sono confinati in locali equivoci e

vengono anche perseguitati e condannati.

Solo alla fine del secolo se ne reintroduce la tradizione, ma sempre

degradandola a spettacolo da baraccone , confinata sui palcoscenici spesso

geniali ma sempre considerati “non seri” dei Music-Hall o dei Cafè-Chantant.

Alle soglie del XX secolo si assiste alla rinascita della tradizione del

travestitismo seppure sotto diverse spoglie.

Nel periodo tragico della guerra si riscopre l’uomo “ludens”, rivalutando

anche esperienze bizzarre e sospette, che consentono al teatro di travestimento

di riemergere.

Uno dei maggiori storici del travestitismo del ‘900, Roger Baker124, esegue

una fondamentale distinzione nell’ambito del Drug125 contemporaneo: quella

tra Dames e Glamour Girls.

Il primo gruppo è quello dei travestiti comici, che hanno la loro radice nei

Music-Hall, nel Burlesque inglese dell’ottocento e negli spettacoli goliardici;

124 R. Baker, Drug, Londra. 1968. 125 Termine inglese per il teatro di travestimento.

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qui la femminilità è parodiata, talvolta affettuosamente, più spesso

oltraggiosamente.

L’origine delle Glamour Girls è invece più recente, ma la loro carriera più

clamorosa e la loro influenza più vasta e profonda.

Anche qui l’origine va ricercata nella tradizione del Music-Hall, grazie

soprattutto all’attività di un travestito americano, Julian Eltinge, che impose un

nuovo tipo di Drug, che fa emergere, dalla dimensione comico grottesca, una

vena maliziosa e patetica.

Nel secondo dopoguerra il travestimento teatrale ebbe nuovo impulso, fino ad

arrivare al vero e proprio boom del travestitismo che coincise nelle sue forme

più caratteristiche con la rivoluzione giovanile del sessantotto.

Sulla nascita e i modi del nuovo Drug hanno influito essenzialmente due

fattori; da una parte il tramonto del gusto naturalistico in tutte le sue variazioni

ha recuperato come fatti teatrali momenti irrealistici e finti, tecniche

particolari e convenzionali e trasgressioni espressive sempre più spinte: in

questo contesto il travestì e la sua tecnica speciale, “epica”126, incarnazione

stessa del desiderio più antinaturalistico, riprendono vigore, senso e valore.

126 “Epica” , si intende, nel senso brechtiano del termine.

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La spinta più decisiva all’affermazione del travestitismo sulle scene attuali è

stata la presa di coscienza omosessuale, per quanto il legame con i movimenti

gay sia spesso stato strenuamente negato.

Ma i più quotati female impersonators sono quelli che uniscono al glamour

anche una forte componente ironica o addirittura comica e soprattutto si

esibiscono dal vivo;127 Sono questi i creatori del camp, gusto che nasce dal

mondo intellettuale omosessuale americano, basato sull’imitazione e il

recupero dei fenomeni passati o contemporanei con una tendenza esasperata

per tutto ciò che è teatrale, kitsch.

Tutti i travestiti, salvo eccezioni, tendono oggi a rifarsi a questo gusto camp

nordamericano, imitando e glorificando le immagini più opulente e volgari, o

più assurde e codificate, della femminilità, in particolare quelle delle attrici

hollywoodiane e le regine della canzone.

Anche Poli si rifà a questa tradizione, magari mettendo in scena un camp più

casalingo, con un occhio a Marlene Dietrich e uno a Vanda Osiris, parodiando

con grande ironia una femminilità tutta sospiri e gridolini, svenevolezze e

127 Infatti è invalsa in molti casi l’abitudine di muoversi e danzare su base registrata.

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intrighi, sottolineando i cliché e le codificazioni del ruolo attribuito alle donne

nella società e nel teatro.

Ecco il ritratto che fa di Paolo Poli come esponente del teatro di

travestimento, Giovanni Buttafava128:

Per maturissima prudenza e liberalità di intelligenza, non ha forse eguali. A

tutte le sciocchezze e le moine delle passate stagioni egli ha prestato fronte e

orecchie e te lo comunica, parole e frasche, motteggiando con larghezza e

facilità e ingegno, in modo che tu troverai tutti il mondo pieno di finzioni e

conoscerai le mille bischerate dei potenti cortigiani e le maligne persecuzioni

degli sciocchi.

La femmina da costoro è stata sempre fatta intendere vanesia, sollecita e

attenta soltanto al governo della casa e al piacere del marito, per il resto

intenta a giochi asinini.

E lui la vendica nel rappresentarla tale, con ineguagliabile arte che pare

non avere confini nei mille toni della bella voce e nell’atteggiare

sapientemente la sua sempre agile e giovanile persona, come intatta dal

tempo.

Non solamente in panni femminili esercita egli l’arte sua, ma pare da lodare

specialmente quest’arte nelle meravigliose comparse a travestimenti

donneschi. Ha provato a vivere sul palcoscenico, tutta una sera, come

128 G.Buttafava, Il travestitismo a teatro, in A.A.V.V., Gli uni e gli altri, Arcana Editrice, Roma, 1976, pp. 39-40

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preziosa Nemica, bella signora onorevole, ma con riposte voglie lascivette e

molta stupidità, che condivideva, le une e l’altra, con il secolo suo.

E ha mostrato anche l’animo e le voglie riposte di una santa, Santa Rita da

Cascia, suscitando scandalo, e di una bambina un poco guasta e molto

godereccia, la Vispa Teresa.

Altra vendetta egli consuma, con maliziosa sapienza e coscienza intera, a

difesa di quella gente che per alcuna sua particolarità non ama congiungersi

carnalmente con la femmina, la quale è gente molto vituperata, villanamente

e sconciamente, sulle scene italiane da decenni dai leggeri ciarlatani del

divertimento volgare e anche dal costume sociale, ed invece è gente gaia, e

lui lo dimostra. Se quelli gli ridono in faccia, lui molto più ride a loro.

Marionette e Supermarionette

Altre tre scelte registiche importanti, e a mio parere strettamente legate tra di

loro, caratterizzano La leggenda di San Gregorio.

La prima è l’utilizzo della voce di Poli, registrata su nastro magnetico, per

tutti i personaggi, eccettuati quelli impersonati direttamente da Poli (con il

risultato che l’unica voce di tutto lo spettacolo è appunto quella di Poli). Il

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teatro italiano non è nuovo a questo tipo di tecnica; l’ha usata spesso anche

Carmelo Bene e con scopi all’apparenza simili.

Bene infatti usa il supporto magnetico per amplificare e moltiplicare la voce

dell’attore, per creare una frammentarietà, disseminare dei cocci della

narrazione il palcoscenico del teatro italiano:

Eccedendo il testo e le sue dottrine, la macchina attoriale sottrae alla

drammaturgia questa volontà feroce di irregimentare e di dominare [...]. qui

si traccia la differenza tra la regia, che distribuisce ed assegna ad ognuno la

sua parte, e il punto di non ritorno della macchina attoriale che capta le

energie dell’evento e ne assume tutte le voci.129

Per assumere tutte le voci dell’evento teatrale l’attorialità schianta l’unità

della voce, interrompe la copula tra segno e senso, tra forme e forze che

procura al drammaturgo e al pubblico il loro godimento serotino [...].

Questa rottura che incide sulla possibilità stessa della rappresentazione è lo

spezzarsi del rapporto tra parola e cosa, tra linea e forma, tra voce e

logos.130

129 A.A. V.V., Carmelo Bene - Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, p 18 130 A.A. V.V., Carmelo Bene - Il teatro senza spettacolo, Venezia, Marsilio, 1990, p 19

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Poli invece, come si vedrà, usa la voce registrata per riunire e non per

frammentare, per stendere la lunga mano di un solo attore su tutti gli

elementi dello spettacolo proprio a favore della narrazione.

La seconda soluzione registica importante per la mia analisi è l’uso di quelli

che io ho definito attori meccanici, ossia marionette, burattini, bambole ed

altri oggetti di vario materiale e forma adatti a rappresentare un essere

umano.

La terza è la scelta di alcune tecniche spettacolari, come il mimo e soprattutto

la pantomima; queste due tecniche si distinguono soprattutto per il diverso

rapporto che intrattengono rispetto alla parola: il mimo moderno, quello

teorizzato da Decroux, si propone come alternativo non solo al linguaggio

gestuale della Pantomima, ma soprattutto al linguaggio verbale. Essere privo

della parola, per il mimo Decrouxiano, non significa cercare un gesto che

sostituisca la parola, ma cercare un nuovo linguaggio, del tutto autonomo da

quello verbale, che gli consenta di esprimere un concetto, un sentimento, un

idea. In questo senso il mimo moderno si differenzia dalla pantomima, vera

erede del mimo classico e delle pantomime storiche dal medioevo fino

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all’ottocento. La pantomima infatti non si propone come linguaggio corporeo

alternativo al linguaggio verbale, ma come gesto che sostituisce la parola

spesso con un rapporto diretto uno a uno, tanto che alcuni gesti si allontanano

dalla gestualità naturale quanto le parole si allontanano dalle onomatopee,

divenendo un segno convenzionale.

La pantomima degli antichi, infatti, che veniva considerata genere muto,

aveva in realtà il supporto della parola, tramite un cantore che la illustrava

tramite i versi di un poema ma soprattutto grazie alla chironomia131, un

linguaggio convenzionale dei gesti, un alfabeto figurato che tutti, al tempo di

Augusto, sapevano leggere.

L’esplicita sottomissione della pantomima al linguaggio verbale farà si che

si meriti l’epiteto di pervertita da parte di A. Artaud, che sognava appunto un

linguaggio nuovo per il teatro, un linguaggio che sia corpo e non parola , una

Pantomima non pervertita, come quella dei teatri orientali:

Per “pantomima non pervertita” intendo la Pantomima diretta, in cui i gesti

- anziché rappresentare le parole, gruppi di frasi, come nella nostra

pantomima europea, vecchia di soli cinquant’anni, e nata dalla 131 A.G. Bragaglia, Evoluzione del mimo, Milano, Ceschina, p.150

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deformazione delle parti mute della Commedia dell’Arte - rappresentano

idee, atteggiamenti dello spirito, aspetti della natura.

La Pantomima degli attori de La Leggenda di San Gregorio non sarebbe

piaciuta ad Artaud: intanto perché la parola non solo non è assente, ma,

anche se registrata, è il vero mezzo narrativo della scena, e poi perché i gesti

degli attori (la loro pantomima appunto) mirano più che a comunicare, a

sottolineare, a rendere più esplicito ciò che la voce di Poli, registrata, ci

racconta; in un certo qual modo Poli utilizza una moderna chironomia,

utilizzando un linguaggio gestuale universalmente conosciuto e compreso, e,

come quello classico, codificato.

Nonostante la tecnica recitativa scelta sia mimica (per quanto pervertita), il

vero motore dell’azione scenica rimane quello verbale.

Non soltanto; la dipendenza della pantomima dalle parole consente a Poli,

che di quelle parole e’ autore e voce, di mantenere uno stretto controllo, ma

soprattutto una forte presenza in scena.

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Al fine di individuare e comprendere i mezzi e le ragioni di questo controllo,

ritengo opportuno ripercorrere le diverse forme assunte dai due giovani duchi

tra la prima e la terza scena.

Nella prima scena, i due giovani Duchi compaiono per la prima volta: si

tratta di un fagottino a due teste che penzola dal becco della cicogna, e poi

dei due bambolotti infagottati di fasce azzurre e rosa che la nutrice porge da

cullare ai genitori. Dunque appaiono come oggetti immobili e silenziosi.

Nella scena successiva li vediamo già adolescenti; non sono più bambole, ma

burattini prima e marionette poi.

Rispetto alla scena precedente hanno acquisito parola e movimento, ma non

autonomia: in quanto burattini o marionette dipendono in tutto dalle mani e

dalla voce di Poli.

Ci troviamo di fronte ad un rapporto di dipendenza molto stretto.

Nonostante in questa scena Poli vesta i panni del Frate Narratore, ossia

plausibilmente dell’autore del poema, il monaco tedesco Von Aue, questa

dipendenza non è giustificabile (non soltanto, almeno) con il rapporto che

lega le mani di un autore ai fili che muovono il suo personaggio. Intanto è

importante dire che questi personaggi sono debitori a Poli quanto a Von Aue,

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anche soltanto a livello di testo, visto che anche se l’intelaiatura è quella

costruita dal monaco, si capisce immediatamente quanto la riscrittura di Poli

e della Omboni sia stata profonda. L’identificazione tra Poli e Von Aue non è

soltanto un artificio scenico, si tratta di un vero e proprio passaggio di mano

per quanto riguarda la gestione dei personaggi, dal vecchio autore a quello

nuovo, Poli appunto.

Nella terza scena si assiste ad un altro passaggio di mano, quello che

trasferisce i fili dei personaggi da Poli autore/attore a Poli regista; infatti i

due giovani duchi compaiono in carne ed ossa, ad interpretarli sono due attori

con il volto completamente coperto da una maschera; la loro facoltà di

movimento si è molto emancipata rispetto alla scena precedente. I fili che li

muovono non sono più visibili, ma ci sono ancora.

Intanto è da sottolineare che né qui né in tutto il resto dello spettacolo

acquisiranno il dono della parola; ora come quando erano marionette, la loro

voce è quella di Poli, doppiata in tempo reale prima, registrata poi.

Se è vero, come si è visto, che in questa pantomima il linguaggio verbale è il

vero mezzo di comunicazione della scena ma anche, e soprattutto, il motore

interno della gestualità degli attori si capisce come tramite la sua voce, Poli

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mantenga, nella scena III, quasi inalterata la situazione della scena

precedente dove, in abiti da monaco, dava voce e movimento alle sue

marionette: anche qui dà loro voce, e tramite essa stessa gestisce i loro

movimenti.

La volontà di un sempre maggiore controllo sull’attore nasce di pari passo

con la crescente importanza della figura del regista, nel primo ‘900, e alla

decadenza, almeno teorica di quella dell’attore come centro focale della

spettacolarizzazione.132

La recitazione diviene, nel nuovo teatro di regia, niente altro che una voce tra

le altre nel complesso spartito di uno spettacolo, che comprende anche scene,

musiche, costumi, testo, luci...

L’attore anzi, con la sua forte presenza in scena e il suo tradizionale (e

naturale) egocentrismo, diviene una figura ingombrante per il regista, nuovo

vero protagonista.

Da questo disagio, da questa sorta di contrasto di potere nasce il

desiderio/necessità di un attore nuovo che modelli la propria arte in modo

132 In realtà, mentre i grandi teorici del teatro sognavano un’opera totale e omogenea, in cui nessuno strumento avesse il sopravvento sugli altri, solo una piccola parte degli spettacoli prodotti e presentati nei teatri, sfuggiva alla trappola del divismo e del mito del Grande Attore, vero centro della scena.

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non personale ma globale, che si faccia strumento tra gli strumenti, che

divenga una marionetta che il regista muove secondo la sua volontà.

In un saggio scritto a Firenze nel 1907 e intitolato L’Attore e la

Supermarionetta133 Gordon Craig si inserisce nel dibattito riguardo la figura

dell’attore escludendo che l’attore possa essere strumento del teatro d’arte:

Recitare non è un’arte; è quindi inesatto parlare dell’ attore come di un

artista. Perché tutto ciò che è accidentale è nemico dell’artista, l‘arte è in

antitesi assoluta con il caos e il caos è creato dall’accozzaglia di molti fatti

accidentali. All’arte si giunge unicamente di proposito. Quindi è chiaro che

per produrre un’opera D’arte qualsiasi, possiamo lavorare solo con quei

materiali che siamo in grado di controllare. L’uomo non è uno di questi

materiali.

Tutta la natura umana tende verso la libertà , perciò l’uomo reca nella sua

stessa persona la prova che, come materiale per il teatro, egli è

inutilizzabile.134

133E.G.Craig, Il mio Teatro, Milano, Feltrinelli, 1971, pp. 33-57 134 ivi, p. 34

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Quello che rende l’attore un cattivo strumento nelle mani del regista, è la sua

impossibilità di controllare le proprie espressioni, i propri movimenti, la

propria voce.

Secondo Craig anche il miglior attore è in grado di avere un sia pure

imperfetto controllo di se stesso solo per brevi tratti, lasciando il resto dello

spettacolo in balia di gesti e toni incontrollati, frutto più delle emozioni del

momento che di uno studio precedente:

Nel teatro moderno, poiché ci si serve come materiale del corpo di uomini e

donne, tutto quel che si rappresenta è di natura accidentale: le azioni fisiche

dell’attore, l’espressione del suo volto, il suono della voce, tutto, tutto è in

balia dei venti delle sue emozioni135.

Gli attori teorizzati da Craig sono degli attori che creano per se stessi una

nuova forma di recitazione, consistente essenzialmente in gesti simbolici.

Oggi essi impersonano e interpretano; domani dovranno rappresentare e

interpretare: e dopodomani dovranno creare136.

135 ivi, p. 34 136 ivi, p. 37

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Lo strumento perfetto per il nuovo teatro di Regia, nella teorizzazione di

Craig, è un attore che non pretenda di mostrare realtà sulla scena, e che non

pretenda nemmeno di imitarla fotograficamente. L’attore del nuovo teatro è

una marionetta (Supermarionetta137), strumento docile nelle mani dell’artista,

non più uomo, ma segno simbolico sulla scena.

Tornando a “La leggenda di San Gregorio”, Poli regista esercita un controllo

assoluto sui suoi quattro attori, tanto da renderli del tutto simili alle

Supermarionette teorizzate da Craig.

Poli neutralizza l’accidentalità temuta da Craig negli attori rendendoli simili

ad oggetti, nascondendo il loro viso dietro ad una maschera (quindi

annullandone le espressioni), sostituendo la loro voce con la propria e

gestendo i loro movimenti grazie al legame stretto che la pantomima

intrattiene con le parole del testo.

I quattro giovani attori scompaiono, come esseri umani per divenire

strumenti della narrazione, niente di più e niente di meno delle marionette,

dei burattini, delle bambole che compaiono in scena un po’ in tutto lo

137 Nel testo originale Über-Marionette, vocabolo coniato sull’esempio dell’ Über-Mensch nietzschiano.

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spettacolo, ma anche simili alle scenografie, ai costumi, alle musiche:

strumenti tra gli strumenti, nella composizione dello spettacolo.

Il solo a spiccare è Poli, autore, regista e attore, vero grande mattatore della

scena e in questa maniera forse, a modo suo, concilia o almeno riunisce le

due grandi anime in conflitto del teatro del novecento: da un lato un teatro di

regia, in cui la figura dell’attore è soltanto una delle parti dello spettacolo,

meccanizzata e disumanizzata per renderla più controllabile; dall’altra invece

un teatro in cui la figura dell’attore, il suo volto, la sua voce, la sua presenza

scenica, sono il perno fondamentale dello spettacolo.

In questo modo Poli, circondato da marionette e supermarionette che

moltiplicano la sua voce ma riconducono continuamente alla sua presenza, fa

di se stesso un Super-Narratore.

Poli e Fo

Grazie a questa formula egli ha costruito uno spettacolo su misura per se

stesso pur lavorando con altri: il risultato è un vero e proprio one-man-show

in cui la figura dell’autore-attore-narratore spicca in modo prepotente.

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È naturale il confronto con l’altro grande autore-attore italiano comico, Dario

Fo, con cui Poli ha svariati punti di contatto, a cominciare dalla tendenza

stessa, quasi dalla necessità, di far spettacolo da soli.

La similitudine è già evidente alle origini del teatro di entrambi, che affonda

le radici nel teatro di varietà e di rivista da cui hanno ereditato i ritmi comici

e la frammistione tra recitazione e canzone: Fo ha addirittura iniziato la sua

carriera producendo, insieme a Parenti e Durano, Il dito nell’occhio138, uno

spettacolo che ricalcava la struttura della rivista ma con contenuti di critica

politica e sociale.

Altro aspetto che accomuna Fo e Poli è un’estrema attenzione al problema

del linguaggio teatrale. Entrambi usano la lingua in modo non convenzionale,

stravolgendone le regole abituali: riguardo al linguaggio di Poli, si è visto

come la disarticolazione della frase e la sua ricomposizione in concetti

capovolti rispetto al senso comune sia fondamentale per il meccanismo

comico di Poli narratore. Per quanto riguarda Fo il discorso è perfino più

estremo: in alcuni dei suoi lavori più riusciti, Mistero Buffo, ma anche Storia

della tigre o Fabulazzo osceno, egli inventa un linguaggio che si libera dal

138 Il dito nell’occhio andó in scena a Milano nel 1953

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legame codificato significante-significato per creare una lingua fatta per la

maggior parte da onomatopee, da termini rubati dai più svariati dialetti e da

parole assolutamente inventate: il grammelot.

Così Fo stesso descrive questo tipo di linguaggio:

È una parola priva di significato intrinseco, un papocchio di suoni che

riescono ugualmente ad evocare il senso del discorso. Grammelot significa,

appunto, gioco onomatopeico di un discorso, articolato arbitrariamente, ma

che è in grado di trasmettere, con l’apporto di gesti, ritmi e sonorità

particolari, in discorso compiuto.139

Si tratta dunque per entrambi di una scomposizione del linguaggio che per Fo

privilegia il suono giocando su di un’articolazione arbitraria, per Poli

privilegia il senso, o il non-senso, o il senso altro, grazie ad una logicità

arbitraria.

Certo, se il linguaggio comico di Fo è basato, come egli stesso è solito dire,

sullo sghignazzo, lo stesso non si può affermare della comicità raffinata e

sottile di Poli; in oltre nel suo teatro Fo ha sempre cercato di mantenersi

collegato con gli avvenimenti politici, spesso anche in modo molto diretto e 139 D. Fo, Manuale minimo dell’attore, Torino, Einaudi, 1987, p.81

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Bibliografia _ p258

puntuale140 mentre la critica di Poli investe aspetti più ampi e generali della

società e della natura umana, innegabilmente spesso più qualunquistici e

meno calati nella realtà, affrontando vicende trasposte nel tempo.

Quello di Fo, in conclusione, è un teatro sovversivo, rivoluzionario, di

rottura, un teatro che è uscito dagli schemi e dai circuiti ufficiali per divenire

dichiaratamente teatro di impegno politico e di lotta; quello di Poli invece è

un teatro che corrode il sistema dall’interno, mettendone a nudo con sottile

ironia il nonsenso, assecondandone gli aspetti più falsi e biechi, esagerandoli

fino a farli divenire evidentemente stonati, un teatro dissacratorio più che

rivoluzionario, permeato di cinismo piuttosto che di ideali, se è vero, come io

credo che si possa riferire allo stesso Poli una battuta del suo Magnificat, in

cui, nei panni di un prelato, alla domanda “e voi, signor Prelato, in cosa

credete?” risponde “Io? In nulla. Peró ci credo fermamente”.

La merifica e sgomentevole storia di un Santo peccatore

140 È il caso, ad esempio, di Morte accidentale di un anarchico del 1971, dedicato alla vicenda della morte di Pinelli.

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Bibliografia _ p259

Tornando a La leggenda di San Gregorio, una volta dimostrato che grazie

all’uso degli attori meccanici, della pantomima e della voce registrata Poli

accentra sulla sua figura di narratore l’attenzione dello spettatore, resta da

verificare quale posto possa avere in questo racconto totale la parte più

prettamente visiva: le scenografie, i costumi, le scene mute, mimate e

danzate.

Restando fermo il fatto che la parola riveste un ruolo a mio parere

preminente all’interno dello spettacolo, le parti visive acquisiscono

comunque un ruolo fondamentale nello svolgersi del racconto: innanzi tutto

contribuiscono in modo importante nella proiezione dello spettatore nello

spazio-tempo fantastico, fitto di citazioni e di immagini provenienti dalla

memoria, in cui la vicenda si svolge; con le scene mute e mimate Poli

fornisce un’esemplificazione visiva degli avvenimenti, o delle loro

conseguenze, o dei sentimenti da essi provocati, creando dei Tableaux vivant

che portano davanti agli occhi dello spettatore l’immagine di ciò che ha

ascoltato dalla voce narrante. La figura di Poli narratore si delinea dunque

come quella di uno straordinario moderno cantastorie, alle cui spalle scorre

un enorme cartellone illustrato fatto di immagini e di movimenti.

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Bibliografia _ p260

La figura del cantastorie è importante nella cultura popolare italiana, come

dimostra questo brano sull’argomento:

A quei tempi (alla fine del 1800) erano molto ascoltati e molto apprezzati

perché la gente, quando succedeva qualche fatto di sangue, correva ad

ascoltare il cantastorie, perché glielo spiegasse in modo da commuovere

ogni persona.141

Il popolino, in mancanza di libri e di scuole, imparava da quegli spettacoli la

storia, le leggende dei Santi, il modo di vivere e addirittura i grandi fatti di

cronaca.142

Poli usa il palcoscenico come una piazza in cui portare la sua vicende di

incesti e di intrighi, la storia edificante del percorso di Gregorio dalla sua

infanzia fino alla piena maturazione e conoscenza di se stesso, o, come

suggerisce Poli stesso alla fine dello spettacolo, l’educazione sentimentale di

un personaggio del medioevo, una parabola sentimentale e personale che

prosegue nelle vicende narrate negli spettacoli successivi, nelle peripezie di

141 G. Pretini, Ambulante come spettacolo, Udine, Trapezio, 1987, p.113 142 G. Pretini, Dalla fiera al lunapark, Udine, Trapezio, 1987, p.18

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Bibliografia _ p261

Luciano trasformato in asino, o di Gulliver navigatore errante tra i peggiori e

migliori dei mondi possibili, che poi sono sempre il nostro mondo, come

Gregorio, Luciano, Gulliver siamo sempre noi perché la natura umana, nelle

sue luci e nelle sue ombre, è sempre nuovissima e sempre uguale a se

stessa.143

143 Dal programma di sala de La leggenda di San Gregorio.

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Bibliografia _ p262

Cronologia dell’attività artistica

1949/54 La compagnia L’Alberello

1958/60 La compagnia La borsa di Arlecchino

1958/59 Finale di partita

1961/62 Il Novellino

1962/63 Il Diavolo

1963/64 Paolo Paoli e Il mondo d’acqua

1964/65 Il candelaio

1965/66 Un milione

1966/67 Rita da Cascia

1967/68 Il suggeritore nudo

1967/68 La nemica

1968/69 Tito Andronico

1969/70 La rappresentazione di Giovanni e Paolo

1969/70 Carolina Invernizio

1970/71 La vispa Teresa

1971/72 Soirée Satie

1971/72 L’uomo nero

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Bibliografia _ p263

1972/73 Giallo!!!

1973/74 Apocalisse

1974/75 Femminiità

1976/77 Rosmunda

1977/78 Rita da Cascia (II ediz.)

1978/79 Mezzacoda

1979/80 Mistica

1980/81 Paradosso

1982/83 Bus

1983/85 Magnificat

1985/86 Cane e Gatto

1986/87 Farfalle

1987/88 Mistica (II ediz.)

1988/90 I legami pericolosi

1990/92 Il coturno e la ciabatta

1992/94 La leggenda di San Gregorio

1994/96 L’asino d’oro

1997 I viaggi di Gulliver

Cinema e televisione

1954 Le due orfanelle

1960 Appare con Cappuccetto Rosso in Controcanale con Abbe Lane

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Bibliografia _ p264

1960 Partecipa alla trasmissione per bambini Chi sa chi lo sa?

1961 Cronache del ‘22 (con A. Asti, regia di Guidarino Guidi)

1961/62 Canzonissima

1968 H2 S (regia di Roberto Faenza)

Discografia

Laura Betti e Paolo Poli, Ballata dell’uomo ricco. Ballata dell’uomo povero, di E.

Macchi e F.Carpi, Jolly, 1961

Paolo Poli, La canzone dei milioni. Sette violette, di Scarnicci Tarabusi Pisano,

Orchestra e coro diretti da G. Boneschi, RCA Victor, 1962

Paolo Poli, Donna bocca bella, Donna Lombarda, Orrenda madre, La Lisetta, La

Ninetta, La Morettina, La Gigiotta., di Anonimi toscani, A. Celso chitarra; F.

Ciapetti, violino, Carosello

Paolo Poli, Gli animali (Il merlo Cecco, La cornacchia del canadà, Il grillo e la

formica, Staccia buratta), con la collaborazione di A. Celso (chitarra) e V.

Paltrinieri, CDG, 1965

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Bibliografia _ p265

Paolo Poli, Poesie e filastrocche (Filastrocche per bambini buoni, Filastrocche per

bambini cattivi), con la collaborazione di A. Celso (chitarra) e V. Paltrinieri, CDG,

1965

Paolo Poli, Giochi per i più piccini, con la collaborazione di A. Celso (chitarra) e V.

Paltrinieri, CDG, 1965

Paolo Poli e Maria Monti, Le canzoni del Diavolo, Canti della Rivoluzione: Canto

della libertà (Anonimo del ‘700), La ghigliottina (Anonimo del ‘700), Nel cor più

non mi sento (Paisiello).

Canti Anarchici: Addio Lugano (Gori), Inno della rivolta (Molinari), Crak delle

banche (Anonimo), Le ultime ore di Sante Caserio (Cini), Per la strada (Anonimo),

Teresina (Anonimo).

Canzoni del tempo di guerra: Wir machen musik (Igelhoff\Steimel\Devilli), Ich

hab dich und du hast mich (Igelhoff\Steimel\Devilli), Musik musik musik

(Kreuder\Devilli), Du bist mein baby (?), Canzone meravigliosa (Jary\Devilli),

Komm’und gib mir deine hand (Grothe\Devilli), Con la lampadina (Mendes\

Ravasini), La canzone dei sommergibili (Ruccione), Sul lago Tana (Di Lazzaro),

Mister Churchill, come va? (De Angelis), Jamais Jamais (De Angelis), Qualcosa

vorrei (Grothe\Devilli), Wer ist hier jung (?).

Canzoni del Festival di Assisi: Il re pastore (Rastelli), Donna ascolta

(Cherubini\Concina).

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Bibliografia _ p266

Con A. Celso, C. Lawrence, R.Mosca, L.Penelatti, G.Porta, J.Silvani, S.

Spadaccini,

CDG, 1965

Paolo Poli, Aldo Palazzeschi, Poesie. Chi sono?, Il passo delle nazarene, La

matrigna, La morte di Cobò, Visita alla contessa Eva Pizzardini Ba, I fiori, Sole,

Regina Carlotta, Una casina di cristallo, Lasciatemi divertire.

Lette da Aldo Palazzeschi: Sergio Corazzini, Anche la morte ama la vita.

Fonit Cetra, 1973.

Paolo e Lucia Poli, Femminilità!, Mezzanotte (Neri\Bonavolontà), Piccolo

apache (Neri\ Simi), Stracciona (Viterbo\Scotto), La Java di Nanà (De

Silvia\Pancaldi),Marciapiede (Papanti\Borella), Mondana (Cherubini\ Rulli),

Bolscevismo in famiglia (Scala\Cavaliere), Yvonne (Cherubini\ Rulli), Russia

(Masini\Stocchetti), La bicicletta (Paolo e Lucia Poli), Strofette sportive

(Ribecchi\Abbati), Cocottine del Pireo (Ripp), Signorine per pietà (Frati\Billi),

Il linguaggio del ventaglio (Frati\Bracesco), Bijou (Neri\Montagnini), Fox trot

degli specchi (Bixio), Chi è quella bella signora? (Mascheroni\mendes), La

Grimace (Manfrino), Sanzionami questo (De Angelis), É finito il bel tempo che

fù (Cherubini\Redi), Ti saluto e vado in Abissinia (Pinki\Oldrati\Rossi), Canto

dei volontari (Allegra\Vitali), Lago Tana (Di Lazzaro), Carovane del Tigrai

(Mendes\Di Lazzaro), Il cavallo (Paolo e Lucia Poli), Sotto l’albero del fico

(Bracchi\D’Anzi), Il treno degli sposi (Zorro\ Dubiwarren), Prodotto nazionale

(Arduini\Meniconi), Io sogno un pupo rosa (Morella\ Mariotti), Piccole mani

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Bibliografia _ p267

(Valdes\Rampoldi), Dammi un bacio e ti dico di si (Cherubini\Bixio), Signorine

non guardate i marinai (Marf\Mascheroni), Giovanotti che fate all’amore

(Marf\Mascheroni), Il miracolo della lana (De Torres Simeoni\Del Pelo).

Con J.Silvani, G. Porta, S. Gragnani, P.Dotti. Musiche a cura di J. Perrotin.

Fonit Cetra, 1975

Paolo Poli, Mezzacoda, La madre dell’alpino (Giuliani\Bonavolontà), Inno dei

tubercolotici trinceristi (Capozzi\di Sanarica), Soldatini di ferro

(Mendes\Lacchini), I canarini delle canarie (Ripp), Scugnizzo (Cherubini\

Rusconi), La mia danese (Ripp), Leggenda rossa (Cherubini\ Fragna), La

canzone delle canzoni (Cherubini\Di Lazzaro), Io non ballo (Borella\ Papanti),

Sogni (Cherubini\Fragna), Ziki paki ziki pu (Mendes\Mascheroni), Balilla cuor

d’oro (Pettinato), Camminando sotto la pioggia (Rizzo\ Frustaci\Macario),

Signora illusione (Cherubini\ Fragna), Con la lampadina (Mendes\Ravasini),

Qualcosa vorrei/a suon di musica

(Devilli\Dehmel\Grothee\Devilli\Kautner\Pinelli\Igelhoff\Steimel),La canzone

dei picchiatelli (De Angelis), Mister Churchill, come và? (De Angelis), La

sagra di Giarabub (De Torres\Simeoni\Ruccione), I lancia-fiamme (De

Lucio\Torricelli), La canzone dei sommergibili (Ruccione\ Zorro), Sola

(Rost\Malatesta\Vasin), Eravamo sette vedove (Misa\Redi), Good Bye

milanesina (Frati\Olivieri), I love you (Cherubini\Pagano), Oh mama mama!

(Danpa\Conald), Basta con la canasta (Forte\Colosimo), Qualcuno cammina

(Rastelli\Casiroli),Vola Colomba (Concina\Cherubini), Tre cammelli

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Bibliografia _ p268

(Bonagura\Calcagno),Tua (Pallesi\Malgoni), Patatina (Migliacci\Meccia),

Variazioni del bel castello (Perrotin).

J.Perrotin, pianoforte. Cetra, 1979

Paolo Poli, Soirée Satie, Festa dei cavalieri normanni in onore di una

damigella dell’undicesimo secolo, Il tranello di Medusa, Dai Ragionamenti di

un testardo, La Diva dell’Empire (parole di D.Bonnaud e N. Blès), La giornata

del musicista, Les Fleurs (parole di C. De Latour), Sport e divertimenti (corale,

L’altalena, La caccia, La commedia italiana, Il risveglio della sposa,

Moscacieca, La pesca, Lo Yachting, Il bagno di mare, Il carnevale, Il golf, La

piovra, Le corse, I quattro cantoni, Il pique\nique, Il waterchute, Il tango, La

slitta, Il Flirt, Il fuoco d’artificio, Il Tennis). Españaña, Cose di teatro, Je

te veux (Parole di H.Pacory).

Testi e musiche di Erik Satie. Antonio Ballista, pianoforte. Fonit cetra, 1982.

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Bibliografia

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Torino, Einaudi, 1972 A.Petrucci, Dell’arte rappresentativa premeditata e all’improvviso (1699), a

cura di A.G.Bragaglia, Firenze, Sansoni, 1961 B. Mello, Trattato di scenotecnica, Novara, De agostini, 1990 B.Brecht, Scritti teatrali, Torino, Einaudi, 1962 Bragaglia, Evoluzione del mimo, Milano, Ceschina

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C. Molinari, Teorie della recitazione: gli attori sull’attore. Da Rossi a Zacconi in A.A.V.V., Teatro dell’Italia unita. Milano, Il Saggiatore, 1980

E. Piscator, Il teatro politico, Torino, einaudi, 1960 E.G.Craig, Il mio Teatro, Milano, Feltrinelli, 1971 F. Angelini, Il teatro del ‘900 da Pirandello a Fo, Roma, Laterza, 1978 G. Craig, Il trionfo della marionetta, Roma, Officina, 1980 G. Geron, Dove va il teatro italiano, Milano, PanEditrice, 1973 G. Pullini, Teatro italiano del ‘900, Bologna, Cappelli, 1971 K. S. Stanislavskij, La mia vita nell’arte, Torino, Einaudi, 1963 K. Stanislavskij, Il lavoro dell’attore, Roma, Laterza, 1982 P.Szondi, Teoria del dramma moderno, Torino, Einaudi, 1972 R. Alonge, Teatro e spettacolo nel secondo ottocento, Roma, Laterza, 1988 R. Appia, Attore musica e scena, Milano, Feltrinelli, 1961 R. Minore, Teatro umoristico e satirico, in A.A.V.V., Teatro contemporaneo,

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Teatro di travestimento Baker, Drug, Londra. 1968 G.Buttafava, Il travestitismo a teatro, in A.A.V.V., Gli uni e gli altri,

Arcana Editrice, Roma, 1976

Vari A.A.V.V., Fiabe italiane, vol.II, a cura di I.Calvino, Torino, Einaudi, 1956

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H.Biedermann, Enciclopedia dei simboli, Milano, Garzanti, 1991

Di Paolo Poli

Ida Omboni e Paolo Poli, Carolina Invernizio!, Milano, Milano Libri

Edizioni, 1970 Ida Omboni e Paolo Poli, Giallo!, Milano, Mondadori, 1977 Ida Omboni e Paolo Poli, Giuseppe Giuseppe! Filastroccario verdiano,

Siena, Editori del Grifo, 1981 Ida Omboni e Paolo Poli, Mistica...., Siena, Editori del Grifo, 1980 Ida Omboni e Paolo Poli, Rita da Cascia, Milano, Milano Libri Edizioni,

1968 Ida Omboni e Paolo Poli, Telefoni bianchi e camicie nere, (Ida Omboni e

Paolo Poli, L’uomo nero; Lucia Poli e Paolo Poli, Femminilità), Milano, Garzanti, 1975

Su Paolo Poli G. Galloni, Paolo Poli, in “Sipario”, n.195, 1962

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Emanuele Luzzati

E. Luzzati T. Conte, Facciamo insieme teatro, Torino, Einaudi, 1977 E. Luzzati, I miei pupi dissociati, in “Sipario”, n.183, 1961 S. Corandini, Il sipario magico di Emanuele Luzzati, Roma, Officina, 1980

Fonti de La leggenda di San Gregorio

Ritter Santini, Introduzione a L’Eletto, di Thomas Mann, Milano, Mondadori, 1979 H.Von Aue, Gregorio e Il povero Enrico, Testo a fronte, traduzione italiana a cura di L.Mancinelli, Torino, Einaudi, 1989

Varietà, Rivista e Cabaret

A. Calò, Ettore Petrolini, Firenze, Nuova Italia, 1989 A. Lorenzi, I segreti del Varietà, Torino, Martano, 1971 A. Olivieri A. Castellano, Le stelle del Varietà, Roma, Gremese Editore, 1989

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Dario Fo

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Capitolo 3: La scenografia _ p276